Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA MAFIA

 

DELL’ANTIMAFIA

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

PRESENTAZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA MAFIA FIGLIA DEL PROIBIZIONISMO E DELLA BUROCRAZIA.

LA MAFIA DEL COPYRIGHT.

IL METODO MAFIOSO.

IL DIO DEI MAFIOSI E DEGLI ANTIMAFIOSI.

L'ANTIMAFIA DELLE POLTRONE.

LA CONFISCA DI PREVENZIONE “ANTIMAFIA” ALLARGATA O PER SPROPORZIONE: PER PERICOLOSITA' SOCIALE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

L'OBLIO MAFIOSO DEI DEPOSITI GIUDIZIARI: SPRECO E SPECULAZIONE.

LA MAFIA DELLE MAFIE.

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

SCATENATI CONTRO CATENO...

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

IL PAESE DELLA MAFIA SECONDO ME O DELLA MAFIA FAI DA TE.

MAFIOSI? NOI NO!!!

DA MAFIA CAPITALE A MAZZETTA CAPITALE.

CODICE ANTIMAFIA E MISURE DI PREVENZIONE. PADRI E PADRINI.

NEL LABIRINTO DELLE STRAGI. TALPE, SPIE, TRADITORI.

LA MAFIA DENTRO LO STATO.

COMMEMORAZIONI ANTIMAFIA. RETORICA ED IPOCRISIA.

ANTIMAFIA CONNECTION. L'IPOCRISIA DELLE RICORRENZE.

MAFIA ONLUS.

PIOGGIA DI MILIONI SULL’ANTIMAFIA (FAI E LIBERA). PON SICUREZZA, GESTIONE DEI BENI CONFISCATI, FINANZIAMENTI ALLE COOP.

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE.

ANTIMAFIA. COME SPENDE I SOLDI E COME CERCA DI FARE AFFARI...

LE TRATTATIVE DEGLI ANTIMAFIOSI.

LA MAFIA, LE SCORTE ED I DIFFAMATORI.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

LEONARDO SCIASCIA E LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

I GENDARMI DELL’ANTIMAFIA.

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA.

GLI EDITTI MEDIATICI DELL’ANTIMAFIA.

LE LISTE DI PROSCRIZIONE.

LA SOCIETA’ FOGGIANA. LA MAFIA INNOMINABILE.

LE MAFIE SCONOSCIUTE: LA STIDDA SICILIANA ED I BASILISCHI LUCANI.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

IL CIRCO DELL’ANTIMAFIA. RETORICA E ILLEGALITA’.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

LA CRICCA DEI GIORNALISTI ANTIMAFIA.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

VOTO DI SCAMBIO E LE IMPUNITA’ DELLE PROMESSE ELETTORALI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

IL SUD TARTASSATO.  

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.    

LA MAFIA SIAMO NOI!

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE…..

LA COMMISSIONE ANTIMAFIA LOTTIZZATA DAI PARTITI.

ALL'ESTERO. LA MAFIA C'E', MA SI TACE.

COME PARLANO LE MAFIE.

GLI SPADA AD OSTIA. NON MAFIA CAPITALE, MA MAFIA LITORALE.

LA MAFIA CINESE.

LA MAFIA DELLE ASTE GIUDIZIARIE.

MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

IL RACKET DEGLI APPALTI.

L'ANTIMAFIA E' MORTA. VIVA L'OLTREMAFIA.

LA MAFIA, L’ANTIMAFIA, L’OLTREMAFIA: CHI POTREGGE MATTEO MESSINA DENARO?

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

PINO MANIACI E LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

QUALE VERITA' SU SALVATORE GIULIANO?

MAFIA. PRESTANOMI E RICICLAGGIO. L'ONESTA' DELLA SOCIETA' CIVILE.

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?

IL CAPITANO ULTIMO AVVERTE: STATE ATTENTI DA UNA CERTA ANTIMAFIA.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

PARLANO ANTONIO IOVINE E CARMINE SCHIAVONE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

COSE NOSTRE. C'era una volta l'antimafia.

CIANCIMINO ED IL TESORO RUMENO: QUELLO CHE LA STAMPA ITALIANA NON DICE.

I BENI CONFISCATI? “ROBA NOSTRA”.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. DON CIOTTI. IL FUSTIGATORE ANTIMAFIA.

E POI…ROBERTO SAVIANO.

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

LE CAROVANE ANTIMAFIA.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

PRESENTAZIONE.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo». In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).

La legge anti-caporalato? La fece il fascismo nel 1926. E la abolì Badoglio, scrive Antonio Pannullo, mercoledì 8 agosto 2018, su "Il Secolo d’Italia". Il “caporale” è la figura di intermediatore illegale tra latifondista e manodopera non specializzata. È una piaga presente da sempre, e in Italia si è saldata con la criminalità organizzata, soprattutto nel centrosud. La parola “caporalato” è tornata in questi giorni sotto i riflettori a causa degli incidenti che hanno visto coinvolti lavoratori stagionali stranieri in Puglia, ma è un male antico, un male “liberale”. Nel 2016 la Camera approvò la cosiddetta legge anti-caporalato, che però evidentemente non ha avuto effetto sul fenomeno, probabilmente a causa degli scarsi controlli da parte delle autorità. La rivista e blog Italia coloniale però, diretta da Alberto Alpozzi, ci ricorda che il caporalato fu combattuto e sconfitto, come la mafia del resto, dal fascismo, che nel 1926 varò la legge 563, detta “legge sindacale”, perfezionata e modificata fino al 1938 con altre norme tese a “contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”. Italia coloniale ricorda anche che queste rivoluzionarie normative, inserite nel Codice corporativo e del lavoro fascista, valevano oltre che in Italia anche nelle colonie, cosa che contribuì ad abolire nell’Africa italiana la schiavitù e la servitù della gleba, fiorenti fino alla conquista da parte dell’Italia dell’Africa orientale.

Il caporalato era completamente scomparso. In particolare, racconta ancora l’Italia coloniale, due furono i provvedimenti più incisivi: “i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”, provvedimenti non esistenti nella precedente legislazione liberale. Insomma, l’imprenditore poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi, dice ancora la rivista storica. In nessun caso l’imprenditore poteva assumere operai attraverso intermediatori privati, considerati dal fascismo né più né meno che parassiti sociali. Inoltre, ci dice l’Italia coloniale, le richieste di manodopera non potevano essere nominative ma numeriche, per evitare qualsiasi tipo di clientelismo. Se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, poteva ricorrere alla Magistratura del Lavoro. Caporalato e mafia, quest’ultima grazie al prefetto Cesare Mori, furono bandire per qualche anno dall’Italia. Fino al settembre 1944, quando il governo Badoglio con il decreto 287 abolì tutte le leggi della Carte del Lavoro con le conseguenze che oggi ci troviamo a combattere.

Caporali e Operai. La legge fascista anti caporalato valida in Italia e nell’Africa Orientale, scrive Alberto Alpozzi il 18 luglio 2017 su Italiacoloniale.com. (Di Maria Giovanna Depalma). Il Caporale è una figura storica che da sempre si occupa sia di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – che di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe. Un sodalizio che spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che oggi coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione. A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nell’ottobre del 2016, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge anti-capolarato che prevede la descrizione del comportamento punibile e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione” venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale. Ovviamente queste leggi -previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia nella Madre Patria che nelle Colonie, sia per i lavoratori coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana. Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori (non contemplati nel sistema liberale vigente in precedenza): i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato. Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928). Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi. In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti. Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti, accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità (allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti) fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente. Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro attuando la rivalsa del sistema liberale nei confronti di quello corporativo e ripristinando quel principio economico basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta pur di accrescere la propria ricchezza – anche a scapito della collettività e della giustizia sociale. Di Maria Giovanna Depalma.

In una circolare fascista la tutela dei lavoratori somali che i sindacati di oggi dovrebbero leggere, scrive Alberto Alpozzi il 29 maggio 2017 su Italiacoloniale.com. A Genale, poco a sud di Mogadiscio, quando la Somalia era chiamata italiana, vi era la sede dell’Azienda Agricola Sperimentale. Qui, negli ’20 e ’30 del ‘900, si trovava una vasta zona di concessioni agricole, sorrette dal Governo italiano. Le concessioni si estendevano su 30.000 ettari per la coltura del cotone, resa possibile dalla grande diga di sbarramento dell’Uebi Scebeli e dalle numerose canalizzazioni che il Regno d’Italia aveva realizzato. Vi si coltivavano, oltre al cotone, anche la canna da zucchero, il sesamo, il ricino, il granoturco, la palma, il capok e soprattutto le banane. La prima azienda sperimentale a Genale venne creata nel 1912 da Romolo Onor che vi condusse i primi studi tecnici ed economici sull’agricoltura in Somalia. Nel 1918, alla sua morte l’Azienda cadde in disgrazia e quasi abbandonata. Fu il primo Governatore fascista, il Quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon che ne intuì l’importanza e la risollevò, facendone un grosso centro di colonizzazione unico nel suo genere. Fu infatti il primo esperimento di colonizzazione sorretto totalmente dallo Stato, assegnando i terreni a coloni italiani. L’Ufficio Agrario e l’ufficio di Colonizzazione ordinavano e disciplinavano le concessioni e curavano e distribuivano l’acqua per l’irrigazione. Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone. Ma come funzionava la manodopera nelle concessioni e quali erano le direttive del governatore fascista per gestire il comprensorio?

Così scriveva il de Vecchi in una CIRCOLARE del 14 GIUGNO 1926 (vedi “Orizzonti d’Impero”, Mondadori 1935, pagg. 320-327)indirizzata al Residente di Merca: “Le popolazioni indigene hanno risposto allo sforzo dello Stato con una ubbidienza, una disciplina ed uno slancio, di cui non si può a meno di tenere conto oggi ed in avvenire, quando si ricordi che appena poco più di due anni addietro il Governo stentava a mettere assieme in questa regione duecento uomini per il lavoro dei bianchi, che si rassegnavano a lasciar perire ogni impresa per la deficienza della mano d’opera, mentre oggi abbiamo al lavoro nella zona circa settemila persone, senza che mai avvenga il benché minimo incidente da parte delle masse lavoratrici, buone, serie e fedeli; si deve avere ragione di profondo compiacimento, sia per i risultati della politica compiuta, sia per il giudizio sulle popolazioni.” […] Molti dei concessionari, invece di comprendere tutto ciò e di sforzarsi di rimanere nella loro funzione, materialmente la più proficua senza dubbio, di parti di una grande macchina, sono portati da un male inteso individualismo, dominato da un egoismo gretto e da non poca protervia, a credersi ciascuno creatore, operatore e centro della risoluzione di un problema che invero è stato risolto soltanto dal dono fondamentale dell’acqua, della terra e della organizzazione delle braccia che la lavorano, e cioè della Stato per tutti. […] Il Governo ed il Governatore hanno un solo interesse: quello del popolo italiano e cioè quello di tutti. Ogni singolo è parte dello Stato. […] Ho riservata da ultima la questione delle mano d’opera. Ho detto più sopra che il Governo della Colonia ha creduto opportuno di organizzare e guidare questo servizio, ottenendo così quello che può essere ritenuto un miracolo in confronto ai convincimenti prima radicatasi in Colonia ed in Patria nella materia. La soluzione, così pronta e così ferma, del problema ha indotto la massima parte dei concessionari ad attendersi tutto dal Governo ed a credersi in diritto di pretendere che quegli vi provveda ora e sempre, secondo aliquote fisse o variabili createsi nella fantasia degli interessati. Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, di “gente che scappa”, di “forza presente”, come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, per la semplice ragione di aver fatto un viaggio per mare e di aver ottenuto in uso un pezzo di terreno, avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto. Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Singolare come nessun libro di storia coloniale abbia mai ripreso questa circolare fascista, fascistissima, del 1926 del Governatore de Vecchi a tutela dei lavoratori somali, affinché non venissero sfruttati e maltrattati, che non si creasse una qualsivoglia forma di sfruttamento o di caporalato e che sottolineava come in Colonia vigesse il Codice Penale italiano e che era valido per bianchi e neri.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.

La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.

In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.

Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.

Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.

Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.

“I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”

Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.

“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.

“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.

“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.

Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.

Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.

Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.

Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!

Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.

Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.

Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.

Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.

Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

La leggenda della nascita della 'ndrangheta. Per l'origine mitica della 'ndrangheta viene fatto riferimento a tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che in tempi lontani per vendicare l'onore della sorella uccidono un uomo e per questo vengono condannati a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere nell'Isola di Favignana. Al termine del periodo di detenzione maturarono quelle regole di onore e omertà che costituiscono il codice della "società" e contraddistingueranno le future organizzazioni criminali mafiose italiane e si dividono: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Miti e “tradizioni” della mafie di casa nostra, scrive il 25 giugno 2018 su "La Repubblica". Arcangelo Badolati - Giornalista e docente. C’è una donna misteriosa e geniale che aleggia sul mito fondativo delle organizzazioni criminali del meridione d’Italia. È tedesca e nobile, cresciuta in uno splendido palazzo che guarda austero l’Havel scorrere dall’altra parte della strada. Ama Miguel de Cervantes, lo scrittore spagnolo finito per un periodo schiavo dei saraceni e adora, ancor di più, l’Andalusia, la Castiglia e La Camancha. Le guerre contro gli arabi, l’eroismo dei condottieri iberici, la grandezza dei possedimenti situati al di là degli oceani la affascinano fino al punto di voler visitare, travestita da uomo, Madrid, Toledo e Siviglia espressione d’un mondo che l’ha completamente conquistata. Lei, figlia di una contessa legata alle famiglie imperiali germaniche e d’un alto ufficiale di cavalleria prussiano di origini altrettanto antiche e nobili, ha nel sangue il gusto per l’avventura e il fuoco per la conoscenza. La donna, luterana e anticlericale, coltiva anche un desiderio di giustizia e di equità sociale: è stanca delle comodità e dei benefici di cui godono quelli del suo ceto. Inorridisce di fronte ai soprusi subiti dalla povera gente in fila per ottenere un tozzo di pane, costretta a vivere in stanze umide e fredde d’inverno e bollenti d’estate, oppure in baracche o case cadenti sparse in giro per una città resa celebre dalla dissolutezza dei suoi Principi e dalla corruzione delle loro corti. Dalla finestra del suo balcone guarda l’acqua dell’Havel scorrere perpetua e immutabile come quel mondo di ipocrisie e adulazioni che la circonda. Immagina altro e la sua fantasia cresce e spazia man mano che affonda gli occhi e la mente negli scritti di quello straordinario inventore di personaggi come don Chisciotte: Cervantes è stato militare, poeta, romanziere e drammaturgo. È pensando a lui, alle storie che ha costruito, che decide di dar corpo e struttura compiuta ad una setta, come quelle davvero esistite in Spagna dal 1400 in avanti, composta da uomini capaci di andare a braccetto con la morte. Uomini uniti da un comune giuramento, una medesima religiosità, un uguale coraggio ed una sottile astuzia che consentono, a ciascuno di loro, d’essere potere e contropotere. Sono vincolati al silenzio e ossequiosi delle interne gerarchie, tramano nell’ombra e colpiscono duramente i nemici con la stessa ferocia con la quale trafiggono i traditori. Una setta pronta ad intervenire quando si tratta di punire i prepotenti e proteggere gli indigenti, alimentata da un cultura di segretezza e da una cassa comune rifornita dai capitali sottratti attraverso mirate azioni criminose. Una setta con un principio fondativo inviolabile sintetizzato in quattro piccole affermazioni indicative: “Buen ojo, buen oido, buenas piernas y poca lingua” (buon occhio, buon udito, buone gambe e poca lingua)…

Le origini condivise. Le mafie calabrese, napoletana e siciliana hanno un’origine comune che allunga le radici nel dominio esercitato in meridione dagli spagnoli. Un dominio cominciato con gli aragonesi e proseguito, seppur in maniera discontinua, sino all’Unità d’Italia. Non è casuale infatti che la leggenda tramandata oralmente per decenni da boss e picciotti della ’ndrangheta faccia risalire la nascita dell’associazione alle vicende biografiche di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, cavalieri iberici originari di Toledo, che fuggirono dalla Spagna dopo aver ucciso l’uomo che aveva “disonorato” una loro sorella. I tre uomini vissero per ventinove anni nell’isola di Favignana, dopodiché Osso decise di restare in Sicilia e fondò la mafia, Mastrosso andò in Campania e creò la camorra mentre Carcagnosso si trasferì in Calabria dove diede vita alla ’ndrangheta. I cavalieri uniscono nella fantasia popolar-criminale le tre organizzazioni delinquenziali più potenti del sud Italia e le rimandano a una matrice straniera che potrebbe non aver un reale significato oltre quello leggendario e fiabesco, se non si tenesse conto di un inoppugnabile dato: l’area meridionale della nostra penisola è stata per più di due secoli sotto il controllo dei regnanti spagnoli. E allora, legando all’invenzione di Irene de Suberwik ed a Toledo, città della Castiglia, dove la scrittrice collocò la fondazione, nel 1417, della Garduña, si giunge con facilità a comprendere l’origine del mito fondativo delle mafie. La strutturazione interna ed i rituali della setta immaginata dalla berlinese sono stati mutuati dalle organizzazioni criminali meridionali, Non esistono peraltro processi che attestino giudiziariamente l’esistenza della setta di cui si parla invece per la prima volta, con dovizia di particolari, proprio nel vecchio testo del 1844 – Misterios de la Inquisicion Española y otras Sociedades Secretas – pubblicato a Parigi e scritto da Victor de Fereal, nome dietro cui si cela appunto la de Suberwick. Un documentatissimo volume del 2006 di due importanti storici iberici, Leon Arsenal e Hipolito Sanchiz, dal titolo Una historia de las sociedades secretas españolas, confuta in toto e in via definitiva l’esistenza dell’antica consorteria criminale.

Il tema del libro della de Suberwick. L’intuizione letteraria della scrittrice tedesca, che usa un nome maschile iberico e scrive in spagnolo in ossequio all’amore culturale provato per de Cervantes, è legata proprio a Rinconete y Cortadillo, novella del grande autore castigliano in cui è narrata la storia di due ladri apprendisti ammessi alla feroce confraternita di Monopodio attiva a Siviglia. Una confraternita nella quale i componenti si spartivano i profitti, corrompevano la polizia e il clero per guadagnarsi l’impunità e utilizzavano un preciso codice linguistico e gergale per comunicare. Cervantes racconta che i novizi erano chiamati “fratelli minori”, mentre i più attempati e abili compagni di malefatte “fratelli maggiori”. La setta era insomma strutturata in due nuclei, proprio come ieri lo era la Garduña secondo la scrittrice e come lo sono oggi le cosche della ’ndrangheta, i cui “locali” sono costituiti dalla “società minore” e dalla “società maggiore”. Della prima fanno parte picciotti e “sgarristi”, dell’altra i quadri dirigenti dell’associazione mafiosa. Le analogie tra la setta sivigliana, la fantomatica Garduña e la ’ndrangheta sono diventate, dal Novecento in avanti, sempre più evidenti. Se dunque la Garduña non è davvero mai esistita ed è frutto solo di una “invenzione”, essa è stata evidentemente assunta, come abbiamo detto, alla stregua di un lontano ed efficace mito fondativo evocato attraverso l’utilizzo dell’immagine metaforica e suggestiva dei “tre cavalieri”. Ad una nobile e curiosa intellettuale germanica che fingeva d’essere uno scrittore iberico si deve, dunque, la nascita della “tradizione” delle mafie italiane. Un paradosso storico e culturale se consideriamo quanto l’«ominità» abbia caratterizzato e caratterizzi organizzazioni criminali come la ’ndrangheta. Il libro: “Santisti & ’Ndrine. Narcos, massoni deviati e killer a contratto”, Pellegrini Editore

Il “caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia -  come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Quando la "cosa” non aveva ancora un nome, scrive Bianca Stancanelli l'1 gennaio 2018 su "La Repubblica". Bianca Stancanelli - Giornalista e scrittrice. Mafia deriva dall’arabo mahias, che indica le cave, oppure dal piemontese mafio, che più o meno significa villano, o dal toscano maffia, miseria - secondo il Tommaseo? Sull’origine del nome, ancora oggi, mistero fitto. Ma ben prima della parola, esisteva la cosa. E se il termine mafiusi debuttò a teatro nel 1863, con la commedia "I mafiusi de la Vicaria”, e il termine “maffia” apparve ufficialmente nel 1865 in un rapporto dell’allora prefetto di Palermo, criminali in tutto e per tutto identici ai mafiosi comparvero sulla scena siciliana molto prima. Basta leggere, per esempio, il racconto di viaggio dello scozzese Patrick Brydone, che visitò la Sicilia dalla primavera all’estate del 1770. Sbarcato a Messina col proposito di proseguire verso l’Etna e Catania, spaventato dalle notizie sugli agguati di banditi lungo il cammino, il viaggiatore si vide assegnare come scorta dal governatore della città, il principe di Villafranca, due «dei più arditi e incalliti furfanti che esistano sulla faccia della terra». E annotò sul suo diario: «In un altro paese sarebbero già stati messi al supplizio della ruota o appesi in catene; qui invece sono pubblicamente protetti e universalmente temuti e rispettati». Col procedere del viaggio, anche lo scandalizzato Brydone cominciò ad apprezzare i vantaggi della compagnia dei due furfanti: «… ci dimostrano il massimo rispetto, e fanno tutto quanto possono perché non ci venga fatta soverchieria alcuna. In verità sono loro a sopraffare tutti (tranne che noi): riducono i conti come a loro par meglio, tanto che non ne ho mai pagati di così poco salati… Se anche queste due guardie ci costano molto caro (un’oncia al giorno per ciascuno), sono persuaso che ci fanno risparmiare sui conti almeno la metà della loro paga. Ci raccontarono alcune delle loro imprese, senza farsi scrupolo di ammettere che avevano ucciso varie persone, e aggiungevano: “Ma tutti, tutti onorevolmente”. Vale a dire che non lo avevano fatto in modo vile, né senza essere stati provocati». Anni dopo, con identica arroganza, gli assassini si sarebbero presentati come uomini d’onore. E il prezzo per la loro protezione, quell’oncia che al viaggiatore sembrava così ben spesa, sarebbe stato chiamato pizzo. Cambiano le parole, resta la cosa.

La storia di una lunga battaglia, scrive il 15 maggio 2018 su "La Repubblica". Gioacchino Natoli - Giudice istruttore del pool antimafia agli inizi degli Anni Ottanta, è stato Presidente della Corte di Appello di Palermo e membro del Csm. Nella  vita giudiziaria della Palermo dell’inizio degli Anni Ottanta, il modulo del cosiddetto “lavoro in pool” per i processi di mafia è stato una vera necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative circa l’essenza del fenomeno mafioso, nel momento in cui venivano uccisi – uno dietro l’altro (a parte esponenti mafiosi, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo nel 1981) – uomini politici e rappresentanti dello Stato come Michele Reina (9.3.1979), Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).

Ma, per giustificare questa affermazione, che potrebbe apparire perentoria, appare utile un flash-back sule vicende degli Anni Sessanta e Settanta nonché sull’iter dei pochissimi processi di mafia (quattro-cinque) celebrati in quegli anni. Del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare sul “fenomeno Cosa Nostra”, che non è semplice criminalità ma espressione di un pezzo del “sistema di potere”. In tal modo, si vedrà che il “metodo di lavoro” non è affatto “neutro” rispetto al risultato che si vuole ottenere, e che lo sviluppo storico degli avvenimenti è stato molto più lineare di quanto si possa a prima vista immaginare. Ma, soprattutto, tale analisi dimostrerà che nelle dinamiche di Cosa Nostra la “chiave di lettura” è molto spesso riposta in un passato, che per statuto epistemologico dovrebbe essere sempre tenuto sempre presente da chi svolge indagini per avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.

TUTTO QUEL POCO (E NIENTE) CHE ERA AVVENUTO PRIMA. Il 30 giugno 1963 (alle ore 11.30) in un fondo agricolo di Ciaculli (al confine tra Palermo e Villabate) saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri. Erano i tempi della cosiddetta “prima guerra di mafia”. In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi, giacché: il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “Cicchiteddu” (senza fare morti); il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi, uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore; e quella stessa mattina del 30 giugno 1963 (all’alba) un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate, dinanzi al garage di Giovanni Di Peri, uccidendo il custode ed un passante. Il Di Peri sarebbe poi trucidato nella cd. strage di Bagheria del Natale 1981. Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende del 30 giugno 1963 (invero, due automobili saltate in aria nel giro di sole quattro ore non erano facilmente “digeribili” neppure a quel tempo), il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – affermava che “la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la Democrazia Cristiana e  le  moltitudini di siciliani che la votavano”. E, nel mese di luglio del 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana, l’onorevole Dino Canzoneri (DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo, calunniato dai comunisti sol perché “era un coerente e deciso avversario politico”. Lo Stato reagì (almeno formalmente) alla strage di Ciaculli, facendo finalmente partire la prima Commissione parlamentare antimafia, che era stata frettolosamente costituita nel febbraio 1963 (Presidente Paolo Rossi), ma che non aveva potuto riunirsi neppure una volta a causa della fine della legislatura. Quella Commissione, peraltro, era “dovuta” nascere (nonostante i tentativi politici di minimizzare i fatti) anche a seguito della “guerra di mafia”, che stava insanguinando Palermo e che aveva indotto il “Giornale di Sicilia” ad aprire l’edizione del 20 aprile 1963 con il titolo “Palermo come Chicago” per una cruenta sparatoria (in pieno giorno) avvenuta nella pescheria “Impero” della centrale via Empedocle Restivo. Il 6 luglio 1963, pertanto, conclusesi le elezioni politiche nazionali, il nuovo Parlamento aveva ricostituito subito una Commissione antimafia e ne aveva affidato la guida ad un vecchio giudice meridionale, proveniente dalla Cassazione (Donato Pafundi), che non si era mai distinto né per conoscenze del fenomeno né per attività giudiziaria in processi di mafia. Giova ricordare, per incidens, che della Commissione era divenuto vice-presidente il siciliano Nino Gullotti, preferito al giovane e meno “governabile” Oscar Luigi Scalfaro. C’era in quel momento storico (come spesso accaduto in Italia) l'assoluta necessità di dare una risposta “straordinaria” ad un evento, che non consentiva più di “nascondere la polvere sotto il tappeto”. Pertanto, in ispecie dopo la prima legge antimafia (n° 575/1965), proposta dalla Commissione, si incrementarono notevolmente le proposte per misure di prevenzione, così esportando l’attività mafiosa (come avrebbero riferito 30 anni dopo i collaboratori di giustizia), al nord del Paese soprattutto nel settore dei sequestri di persona. I vari ministri dell’Interno diedero incarico ai Questori di presentare alla magistratura rapporti di denuncia (quasi sempre “vuoti”), con elenchi di presunti mafiosi, che erano spesso frutto delle confidenze di informatori prezzolati (o altrimenti interessati). Per quanto riguardò Palermo, i risultati giudiziari furono oltremodo modesti, per non dire fallimentari, anche se i processi – per “legittima suspicione” – vennero celebrati fuori dalla Sicilia (o, forse, proprio per questa ragione).

LE CORTI DEI MIRACOLI. Si arrivò, così alle “storiche” sentenze di Catanzaro (22.12.1968) e di Bari (10.6.1969), che sancirono la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli Anni Sessanta. Le liste degli imputati erano sostanzialmente due, ed in particolare: la prima con coloro che provenivano da Corleone (processo c/Leggio Luciano + 63, istruito da Cesare Terranova); e la seconda concernente i mafiosi di origine palermitana (La Barbera Angelo +116). Il risultato, come si anticipava, fu di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e con poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis). La pena media delle condanne fu di circa quattro anni di reclusione, con altre assoluzioni e pene ancora più basse in grado di Appello. Proprio nel processo di Bari (10 giugno 1969) fu assolto e scarcerato Totò Riina, che si diede subito ad una latitanza, che sarebbe finita solo 24 anni dopo (15 gennaio 1993). Bernardo Provenzano, invece, che si era già sottratto ad un mandato di cattura nel maggio 1964, avrebbe continuato a godere di una sua “splendida latitanza” fino al 7 aprile 2006. Il principale protagonista di quella stagione giudiziaria fu, senza dubbio il giudice istruttore Cesare Terranova, che curò un imponente processo su una decina di omicidi, avvenuti nel corleonese dal 1958 al 1963. Era il metodo di lavoro, però, nonostante l’impegno straordinario di quel giudice, ad essere inadeguato all’importanza del cimento per l’assenza (quasi) totale di prove idonee a resistere alle intimidazioni “ambientali” che si scatenarono nel dibattimento e per il fatto che la filosofia giudiziaria dell’epoca faceva dipendere integralmente sia i PM sia i Giudici istruttori dai soli “rapportoni” delle Forze dell’ordine, che erano basati esclusivamente su mere confidenze e su ricostruzioni dei fatti molto spesso semplificatrici (se non “romanzate”). Inoltre, il lavoro dei magistrati era assolutamente “individuale” e non collegato neppure a livello dell’Ufficio Istruzione, ove all’epoca – di norma – venivano assegnati giudici che i Presidenti del Tribunale non ritenevano particolarmente idonei (per vari motivi) ai collegi giudicanti penali e civili. Però, l’impegno non comune del giudice Terranova non sfuggì a Cosa nostra, che, il 26 settembre 1979, lo avrebbe ucciso (“in segno di riconoscenza”) non appena era rientrato in magistratura dopo due legislature trascorse in Parlamento, e si profilava per lui la possibilità che divenisse il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo. In particolare, gli era rimasto personalmente grato Luciano Leggio, che gli addebitava un impegno ai suoi occhi ingiustificato e “causa prima” dell’ergastolo da lui subito in Appello a Bari, nel 1970, mentre tutti gli altri imputati venivano assolti. Nel 1963, infatti (come si sarebbe appreso in seguito dai collaboratori), Cosa nostra di Palermo aveva deciso di sciogliersi (almeno ufficialmente), in modo da far mancare alla neonata Commissione antimafia l’oggetto stesso dell’indagine.

Tuttavia, le “famiglie” più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini. Quando, dopo le elezioni politiche del 1968 e la fine dei due processi sopra ricordati, Cosa Nostra palermitana capì che il “bau bau” dello Stato era scaduto nella routine di sempre (non era stata presentata, invero, neppure una relazione “preliminare” sui lavori svolti dall’Antimafia), l’organizzazione nel 1970 si ricostituì, affidandosi al famoso triumvirato di Leggio-Badalamenti-Bontate. Tra l’altro, il processo di Catanzaro (22.12.1968) aveva partorito un “topolino”, se si pensa che imputati del livello di Badalamenti, Leggio, Coppola, Matranga, Panno ed Antonino Salamone erano stati addirittura assolti dallo stesso reato associativo. Ancora peggiore era stato l’esito della sentenza della Corte di Assise di Bari (10.6.1969), giacché tutti gli imputati “corleonesi” furono assolti sia dalle numerose imputazioni per omicidi commessi nel periodo 1958/63 sia dal reato associativo: fu condannato il solo Riina – ad anno 1 mesi 6 di reclusione – per una falsa patente trovatagli in occasione di un precedente arresto (15.12.1963). Sarebbe stata poi la Corte di Assise di Appello di Bari (23.12.1970), in riforma della precedente sentenza che aveva destato sconcerto nell’opinione pubblica, a condannare Luciano Leggio all’ergastolo per l’omicidio (2 agosto 1958) del famigerato capo-famiglia di Corleone, dott. Michele Navarra.

COSA NOSTRA RIALZA LA TESTA. Ma, proprio per dare un segnale tangibile alla cittadinanza palermitana della “ripresa ufficiale” dell’attività, Cosa Nostra eseguì la “strage di via Lazio” del 10 dicembre 1969 e, un anno dopo (notte del 31 dicembre 1970), fece esplodere le cd. “bombe di Capodanno” dinanzi a tre edifici pubblici palermitani, dandone incarico all’emergente Francesco Madonia da Resuttana ed al suo giovanissimo figlio Antonino. Madonia senior venne processato per detenzione illegale delle armi e degli esplosivi rinvenuti nel suo fondo Patti a Pallavicino, e condannato qualche anno appresso ad una irrisoria pena di soli 2 anni di reclusione. Nessun inquirente, però, aveva capito il significato di quelle tre esplosioni contemporanee (palazzo Ente Minerario Siciliano, Assessorato. Agricoltura e Anagrafe di via Lazio): sarebbero stati poi i collaboratori, nel 1987, a spiegarlo ai magistrati, facendo loro mettere insieme i pezzi di un puzzle, che erano rimasti per quasi vent’anni separati e non compresi dalla polizia giudiziaria. Intanto, nella notte sull’8 dicembre 1970, a Roma (ma anche a Palermo) vi era stato il tentativo di golpe del “principe nero della X MAS” Junio Valerio Borghese. Per Cosa Nostra – già in grado da subito di riprendere tutte le sue importanti “relazioni politiche esterne” – avevano preso parte alla trattativa con i golpisti i più autorevoli esponenti di vertice palermitani e catanesi, chiedendo in cambio dell’aiuto fornito l’impegno per la futura revisione del processo (allora in corso a Bari) a carico del latitante Leggio per l’omicidio del dott. Navarra, in cui il PM aveva chiesto proprio in quelle settimane l’ergastolo. Chiesero anche ai golpisti l’“aggiustamento” del processo di Perugia, che (nel 1969) aveva visto condannati all’ergastolo Vincenzo e Filippo Rimi (cognato e nipote di Badalamenti) per l’omicidio del giovane Toti Lupo Leale, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia. Il golpe Borghese, come sappiamo, fu improvvisamente bloccato mentre era in corso di svolgimento, ma comunque dopo che un manipolo di ardimentosi era già entrato nell’armeria del Viminale, rubando dei mitra MAB (ritrovati, qualche anno dopo, nella disponibilità di terroristi “neri” a Roma) e dopo che un reggimento del Corpo Forestale aveva sfilato, in armi, per i Fori imperiali. A Palermo, secondo quanto dichiarò ai giudici istruttori nel 1987 uno strano personaggio dell’eversione di destra (tale prof. Alberto Volo), era già stata occupata la sede RAI di via Cerda (ad opera dello stesso Volo e di altri) ed era stata sul punto di essere invasa la Prefettura, ove il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo (poi ucciso a Ficuzza da Leoluca Bagarella nell’agosto 1977) avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo personalmente nella funzione. Cosa Nostra, dunque, riprese “alla grande” all’inizio degli anni Settanta la propria attività, uccidendo il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione (5.5.1971), e sequestrando (8.6.1971) Pino Vassallo (figlio del noto costruttore Ciccio Vassallo) nonché (il 16.8.1972) nel cuore di via Principe di Belmonte, alle ore 13.30, l’ing. Luciano Cassina, giovane figlio dell’influente conte Arturo, uomo dell’establishment politico-imprenditoriale, legato al potentissimo Vito Ciancimino (il sequestro durò sette mesi e si concluse nel febbraio 1973). In questo contesto, il 30 marzo 1973 si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo tale Leonardo Vitale (“Leuccio”), che confessò di appartenere alla famiglia di Altarello di Baida e svelò (ben 11 anni prima di Buscetta) la struttura e le regole di Cosa Nostra, il ruolo di Riina e di Calò, ed indicò anche il nome di alcuni consiglieri comunali di Palermo, appartenenti a famiglie mafiose. Da questa temperie scaturì il cosiddetto “processo dei 114” (c/Albanese Giuseppe+74), avente per oggetto la sola imputazione di associazione per delinquere semplice (art. 416 c.p.). La sentenza di 1° grado (Presidente. Stefano Gallo), resa il 29.7.1974, vide condannare solo 34 imputati (tra cui, Badalamenti, il catanese Pippo Calderone, Buscetta, Coppola, Leggio, Gerlando Alberti, Bontate e Riina). Le pene, però, furono risibili (ad es.: Buscetta a 2 anni 11 mesi; Bontate a 3 anni; Riina a 2 anni e 6 mesi), tranne che per Badalamenti, Calderone, Leggio ed Alberti. In Appello (prima sezione, presidente Michelangelo Gristina), in data 22.12.1976, le condanne riguardarono solo 16 imputati e la stessa significativa conferma della condanna di Badalamenti ne ridusse però la pena ad anni 2 e giorni 15 di reclusione (sentenza definitiva, poi, il 28.11.1979). Del pari, il processo scaturito direttamente dalle dichiarazioni del Vitale (ritenuto affetto da “struttura schizoide”, e perciò semi-infermo di mente) si concluse il 14.7.1977 (4) davanti alla 2^ Corte di Assise (pres. Carlo Aiello) con la condanna a 25 anni di reclusione del Vitale per gli omicidi confessati, ma con l’assoluzione dalle stesse imputazioni di tutti quelli che egli aveva chiamato in correità (a cominciare da Pippo Calò). Le condanne per il reato associativo (art. 416 c.p.) riguardarono solo 9 imputati (tra cui i latitanti Calò e Nino Rotolo, puniti con 7 e con 5 anni e 6 mesi di reclusione, che sarebbero poi stati catturati a Roma, per altri reati, il 29.3.1985). Nessun cenno, nella scarna motivazione di appena 65 pagine, all’esistenza di Cosa Nostra ed alle sue strutture. In Appello (29.10.1980, Presidente.Faraci), però, quasi tutti i condannati vennero assolti per insufficienza di prove e Leuccio Vitale fu inviato in un manicomio giudiziario per 5 anni. Il Vitale, però, venne ucciso da uomini di Cosa Nostra l’11.12.1984, appena ritornato in libertà dal manicomio di Barcellona.

LA MAFIA COME "FENOMENO DI CLASSI DIRIGENTI”. Intanto, il 31.3.1972, la Commissione antimafia istituita dalla originaria L. n. 1720 del 20.12.1962 (pres. Francesco Cattanei) depositava finalmente una sua prima relazione (dopo ben 9 anni), il cui unico merito fu quello di dire – pur tra molte interessate reticenze – che la mafia si distingue dalle altre organizzazioni similari “in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture”. L’importanza di questa affermazione da anni, ormai, non sfugge più ad alcuno. Nel 1972, però, passò quasi inosservato il fatto che quella frase voleva segnalare un vero e proprio salto di qualità: il passaggio dalla concezione culturale – fino ad allora imperante – della “mafia come anti-stato” al paradigma della mafia come “parte del sistema di potere”. La Relazione “conclusiva” di minoranza del 4.2.1976 (7) – a firma di Pio La Torre, di Cesare Terranova e di altri cinque componenti – non solo approfondiva questa importante acquisizione, ma la arricchiva di alcuni nomi “pesanti” (a cominciare da quelli di Salvo Lima e Vito Ciancimino), giungendo ad affermare per la prima volta che:

“La mafia è un fenomeno di classi dirigenti”. “Non è costituita solo da soprastanti, campieri e gabelloti”. Tuttavia, sul fronte giudiziario, l’episodio più emblematico dell’assoluta inadeguatezza del metodo fino ad allora usato – frutto avvelenato dell’ “individualismo” dei giudici di quel tempo – è quello delle dichiarazioni confidenziali  al Capitano dei carabinieri Alfio Pettinato dell’importante esponente mafioso di Riesi “Peppe” Di Cristina, che vennero rassegnate in ritardo (con il cosiddetto “rapporto rosso” del 23.8.1978) al giudice istruttore di Palermo, che si stava occupando dell’istruttoria formale per l’omicidio (17.8.1977) del colonnello Giuseppe Russo, per il quale erano in carcere tre pastori corleonesi che la storia futura avrebbe dimostrato del tutto estranei ai fatti (come, invero, la tipologia stessa dell’omicidio avrebbe dovuto fare intuire). In detto “rapporto rosso” (dal colore della copertina), il capo-mandamento di Riesi – sentendosi prossimo alla vendetta degli avversari (che lo raggiunse, a Palermo ove tentava di nascondersi, il 30.5.1978) – aveva anticipato (more solito, come “confidenze”) la trasformazione che la Cosa nostra stava subendo ad opera dei “corleonesi” di Totò Riina e le linee future della cd. “seconda guerra di mafia”: anche se, per verità, in forma auto-assolutoria non solo per sé ma anche per la fazione dei suoi stretti sodali Stefano Bontate e Tano Badalamenti). Ma ciò che mi pare rilevante è il fatto che l’importanza di quelle notizie (anche se da sviluppare) sarebbe emersa solo nel 1984 (con Tommaso Buscetta), dopo che la “seconda guerra di mafia” aveva già mietuto circa 700 omicidi (comprese le “lupare bianche”). Era il metodo, infatti, ad essere del tutto errato, giacché fatti complessi e vicende intimamente legate fra loro (come quelli di Cosa nostra) venivano assegnati sia ai pubblici ministeri che ai giudici istruttori con criteri burocratici e di assoluta casualità, facendo sì che a distanza di una sola porta episodi connessi facessero parte di processi differenti e prendessero strade autonome. Non può non segnalarsi poi, a mo’ di esempio, la inquietante circostanza che nei rapporti delle Forze di polizia degli Anni Settanta era letteralmente scomparso ogni cenno alla parola “Commissione”, nonostante che in un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del cosiddetto “processo di Catanzaro” si fosse contestato espressamente ad alcuni imputati: “… di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi”. Si intende dire che il grave insuccesso riportato da quei pochi (ma significativi) processi o aveva fatto sparire negli organi di polizia la stessa nozione dell’organismo centrale ed essenziale della struttura di Cosa Nostra (termine, quest’ultimo, mai usato in alcun atto giudiziario prima della collaborazione di Tommaso Buscetta) oppure, in alternativa, che vi era stata una tale auto-censura da parte della p.g. da indurla a non dovervi più fare cenno. La conseguenza diretta di tale degradato stato di cose fu – come osserverà amaramente anni dopo Giovanni Falcone in uno dei suoi scritti – che: “I problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica ed a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di <<germinazione spontanea>> del fenomeno mafioso, ipotizzando l’esistenza contemporanea di associazioni distinte“. Ed ancora, in un altro suo scritto: “Io ricordo il periodo in cui, dopo la repressione giudiziaria della mafia avvenuta nei primi Anni Settanta (allora non si parlava di maxi-processi e non destava scandalo la instaurazione di processi contro numerosi imputati), si è operato in Sicilia come se la mafia non esistesse, tanto che per lunghi anni nessuno veniva denunziato per associazione per delinquere. Ebbene, quando nei primi Anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate”.

LA “RIVOLUZIONE”. La nomina di Rocco Chinnici a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo (28.1.1980) cominciò ad invertire la tendenza di quella disastrata realtà giudiziaria, giacché la sua non comune capacità di lettura del problema-mafia e la sua forza di carattere fecero sì che egli cominciasse ad innovare il metodo di lavoro, assumendo su di sé la gran parte delle principali istruttorie sugli omicidi, in un tentativo (che si sarebbe perfezionato inseguito) di visione strategica del fenomeno e di coinvolgimento più diretto di alcuni magistrati di quell’Ufficio, a cominciare da Falcone, Borsellino e Di Lello, cui assegnò complessi processi di mafia riguardanti, in particolare, “fatti ed aree di indagine” omogenei. L’ottica, però, rimaneva quella di singole assegnazioni a singoli giudici istruttori, essendo lo stesso Chinnici ancora condizionato da una lettura delle norme del cpp e dell’ordinamento giudiziario, che volevano il giudice istruttore come “giudice monocratico” per eccellenza (subito dopo il Pretore). Sarebbe stato invero il suo successore, Antonino Caponnetto, a perfezionare nel novembre 1983 quella prima intuizione di Chinnici, prospettando una nuova interpretazione dell’art. 17 delle Disp. Reg. del cpp, che gli permise di assegnare “formalmente a se stesso” circa 200 istruttorie di mafia, ma di delegare contestualmente l’esecuzione di singoli atti di indagine ad altri giudici dell’Ufficio, in tal modo realizzando il primo, vero, lavoro in pool. In ciò, invero, il Consigliere Caponnetto sfruttò al meglio l’esperienza maturata negli Uffici del nord da altri colleghi nei processi di terrorismo, in cui quella “modalità organizzativa” era già stata sperimentata senza provocare eccezioni di nullità. Ad ogni modo, era stato l’arrivo di Falcone all’ufficio Istruzione (inizio 1980) e, soprattutto, la felice intuizione di Chinnici di assegnargli il processo c/Rosario Spatola + 75 a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo (e dell’Italia). Infatti, la sua determinata convinzione che bisognasse strategicamente accompagnare ogni istruttoria di mafia con indagini bancarie e societarie, avrebbe fatto toccare con mano a tutti l’impossibilità di gestire processi di quelle dimensioni da parte di un singolo magistrato. Falcone vi riuscì mirabilmente con il “processo Spatola” (riguardante 76 imputati e 90 capi di imputazione), ma probabilmente non sarebbe stato in grado – da solo – di mettere in piedi e di gestire il cd. maxi-processo. L’occasione di quella straordinaria indagine bancario-societaria su Spatola & C. gli era stata offerta da un altro paradosso, verificatosi nel periodo precedente. Era avvenuto, infatti, che sul cadavere di “quel” Giuseppe Di Cristina da Riesi (ucciso, come detto, il 30.5.1978) fossero stati rinvenuti ben 300 milioni di lire in assegni circolari di piccolo taglio, intestati a decine di nominativi diversi (quasi tutti mafiosi). Orbene, il sistema di assegnazione “non strategico” dei processi aveva fatto sì che il giudice istruttore incaricato di occuparsi della vicenda, accertando che gli stessi erano stati emessi a Napoli, ne disponesse lo stralcio e l’invio per competenza a quell’autorità giudiziaria senza neppure pensare all’utilità di estrarne una fotocopia, da allegare agli atti del processo per l’omicidio Di Cristina, che rimaneva comunque in carico a lui. Giovanni Falcone, intercettando casualmente qualcuno di quegli assegni circolari nell’istruttoria Spatola, era riuscito faticosamente a recuperare tutti i titoli bancari ed a scoprire, con meraviglia, che si trattava della redistribuzione degli utili di un importantissimo traffico di sigarette e di stupefacenti. La “santa barbara” così innescata da Falcone, soprattutto sul versante dei rapporti societari che erano venuti alla luce, fece comprendere che quelle indagini – oltre ad essere auto-alimentanti (nel senso che ognuna ne faceva aprire molte altre) – dovevano avere carattere “sistemico” e dovevano essere organizzate con filosofia tutt’affatto diversa. Falcone, però, al di là di tutto, aveva posto il vero problema dei processi di mafia: ovvero, che il metodo di lavoro scelto e realizzato non è affatto “neutro” rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere, di talché la stessa scelta organizzativa contiene, già in sé, una opzione di risultato. Aspetto, questo, che soprattutto le vicende degli anni successivi avrebbero dimostrato essere il vero cuore di una “guerra mai finita”. Le vicende tragiche di quel periodo, in particolare gli omicidi eccellenti del 1980/82 nonché la sconvolgente uccisione con auto-bomba di Rocco Chinnici (29.7.1983), fecero accendere una nuova attenzione nazionale su Palermo e sui suoi uffici giudiziari. L’arrivo del consigliere istruttore Caponnetto, nel novembre 1983, portò alla fondamentale svolta organizzativa cui si è fatto innanzi cenno. In particolare, cambiò a Palermo radicalmente il modo di interpretare il lavoro quotidiano, sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai colleghi che si occupavano di terrorismo, i quali avevano addirittura creato un network di scambio di informazioni e di atti, che li vedeva incontrarsi periodicamente in varie città italiane per scambiarsi opinioni ed ipotesi investigative. Il metodo di lavoro in pool comportò, all’ufficio Istruzione di Palermo, che nulla più potesse essere acquisito in indagini di mafia senza che gli originari quattro colleghi del pool non ne fossero informati in tempo reale. Era l’ “uovo di Colombo”, ma a Palermo le cose più ragionevoli sono le più difficili da realizzare. L’abnegazione ed il carattere dolce (ma allo stesso tempo tenace) di Nino Caponnetto fece il resto. Nessun giudice istruttore, ancorché non facente parte del pool, poteva più ignorare che non doveva più essere una monade isolata, ma la tessera di un unico mosaico. La stessa Procura di Palermo, in previsione dell’apprestamento di requisitorie scritte sempre più impegnative, dovette strutturarsi in modo tale da avere dei sostituti, che seguissero a tempo pieno l’andamento dei processi che erano stati “formalizzati”. Questo modello di lavoro “in pool” contro la criminalità mafiosa si calava nel più vasto dibattito giudiziario sull’organizzazione degli Uffici. E, a tal riguardo, basti ricordare che lo stesso CSM si rese conto dell’importanza della rivoluzione di Falcone, dedicandovi un apposito incontro di studi (Fiuggi, luglio 1985), nel quale l’allora consigliere superiore Franco Ippolito riconobbe ufficialmente che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM”. Tuttavia, questa ricostruzione sarebbe incompleta, se non si facesse cenno all’opera – ora strisciante ora più visibile – di quanti opposero a tale nuovo metodo il richiamo strenuo alla vecchia filosofia, che voleva il giudice istruttore una monade isolata, che, nella sua “turris eburnea”, partoriva le indagini. In particolare, ciò che veniva contestato – in modo sempre più virulento – era l’interpretazione di Falcone (e del pool), secondo cui al giudice istruttore (ai sensi dell’art. 299 cpp del 1930) incombesse l’obbligo di indagare autonomamente, pur in assenza di un’attività efficace da parte del pm e della polizia giudiziaria: “Il giudice istruttore ha l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità”. Questo punto – ancora oggi – va messo nel necessario rilievo, perché sono stati “ciclici” i tentativi anche recenti di sottrarre al pm (giacché ormai la figura del giudice istruttore è scomparsa) il potere di iniziativa nella ricerca della notitia criminis. Dunque, da quel novembre 1983, l’organizzazione del lavoro giudiziario di indagine a Palermo fu imperniata su una “vera specializzazione” e, soprattutto, su un continuo ed approfondito scambio di informazioni fra i giudici istruttori, facendo nascere il cosiddetto “metodo-Falcone”. Tra l’altro, si instaurò un sistema di confronto costante (con riunioni collegiali) in modo da permettere l’aggiornamento, in “tempo reale”, delle conoscenze di tutto il pool sulle dinamiche di Cosa nostra e sugli sviluppi investigativi. In questo clima, e solo con questa organizzazione, potè vedere la luce l’ordinanza di rinvio a giudizio dei 474 imputati del primo maxi-processo, in data 8.11.1985, e partì il 10 febbraio 1986 quel dibattimento, che sarebbe arrivato a sentenza (in tempo-record) il 16 dicembre 1987.

IL "METODO FALCONE” E TUTTI I SUOI NEMICI. Tuttavia, la rivoluzione copernicana del “metodo-Falcone” fu immediatamente oggetto di una sorda e sotterranea azione di logoramento, che, in certi momenti, divenne una vera e propria “guerra”. Sono a tutti noti, ormai, gli attacchi (di qualsiasi natura) portati al pool (frattanto giunto a sei unità e mutato in alcuni dei suoi componenti), che culminarono nello “contestato” episodio della mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere Istruttore di Palermo (19 gennaio 1988). Non si trattò, infatti, soltanto di una fiera opposizione all’uomo ed al magistrato Falcone, ma della punta più avanzata ed arrogante dell’attacco al “suo metodo di lavoro”: ancor più significativo, perché avvenuta nel momento in cui migliori e storici sembravano essere i risultati ottenuti (la sentenza del maxi-processo era stata pronunciata appena un mese prima, con risultati mai conosciuti nella storia giudiziaria precedente: oltre 2.600 anni di reclusione e ben 19 ergastoli). Il CSM, con quella scelta del gennaio 1988, consegnò se stesso ad una memoria collettiva non commendevole, come in plenum ebbero a dire chiaramente taluni dei 10 consiglieri superiori, che votarono per Falcone. Si trattò, invero, non della discussione per la nomina ad un incarico direttivo, ma soprattutto di una chiarissima “scelta di campo”, avente per obbiettivo la “filosofia organizzativa” che lo Stato-giurisdizione si voleva dare nel condurre indagini sulla mafia: indagini che non dovevano più seguire il metodo-Falcone. Il nuovo “sistema” votato dal CSM (che appare corretto definire “metodo-Meli”) mostrò subito di essere il ritorno ad una sorta di Medioevo organizzativo ed investigativo, con lo smantellamento del pool e con la festosa révanche di quei magistrati palermitani (e non solo), che mai avevano sopportato il “sistema-Falcone” e che avevano sempre osteggiato l’uso dei collaboratori di giustizia (spregiativamente chiamati pentiti). Le sponde istituzionali e mediatiche, in quegli anni difficili, furono numerose in ogni momento, tanto che il pool dell’ufficio istruzione, dal marzo 1988 in poi, fu di fatto distrutto. Giovanni Falcone, ad ogni modo, forte delle sue convinzioni (a maggior ragione dopo gli esiti favorevoli del maxi-processo) tentò inutilmente, con il sopraggiungere del nuovo Codice di procedura penale, di esportare quel metodo organizzativo nella procura della Repubblica di Palermo: ma sappiamo tutti cosa accadde. L’azione oppositiva più velenosa fu sempre “carsica” e “burocraticamente ineccepibile”, ancorché egualmente corrosiva, vischiosa e quotidianamente defatigante. Per dirla con le parole di un magistrato, testimone attento e diretto di quella stagione, si ebbe cura di usare sempre il “sistema delle carte a posto”. Ma Falcone, nonostante la sua indomita tempra di combattente, uscì sfibrato da quella “guerra”, iniziata contro di lui sin dalla fine del “processo Spatola” (1981), e – per evitare un invischiamento quotidiano in quel “tritacarne” mediatico – decise di accettare l’invito del Ministro della Giustizia, Claudio Martelli, per andare a capo della Direzione generale degli Affari penali. A partire dal marzo del 1991, però, da quella innovativa postazione strategica (cosa che nessuno allora comprese), egli continuò con la sua rivoluzionaria “idea organizzativa” sulle indagini di mafia fino a farla divenire legge dello Stato attraverso il D.L. n° 367 del 20 novembre 1991, che istituì le Direzioni Distrettuali Antimafia nelle Procure. Nella formulazione legislativa delle DDA egli riversò non solo il suo “metodo” ma tutta la sua esperienza giudiziaria, aggiungendovi anche i “prevedibili rimedi” alle infinite trappole, che gli erano state tese nel decennio precedente. Ecco il perché della sua attenzione spasmodica alla formulazione minuziosa dell’art. 70-bis cpp, sia con il forte riferimento alle “attitudini ed alle esperienze specifiche” per potere far parte della DDA (e non già alla mera anzianità) sia – e soprattutto – con l’uso delle seguenti, meditate, parole: “Il procuratore distrettuale cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini”. Ognuno di quei lemmi era il “distillato” dell’esperienza (spesso negativa) maturata da Falcone nel corso della sua vita professionale, e verrebbe da ipotizzare che dietro a ciascuna parola vi era un volto oppure il ricordo di una nota burocratica o, ancora, di un ostacolo frapposto da qualcuno per impedire o ritardare un’indagine. In altri termini, Falcone aveva ritenuto – con il suo innato “ottimismo della volontà” – di avere preservato (al massimo livello possibile) quel “metodo di lavoro” dal pericolo di una possibile futura cancellazione, avendolo consegnato alla forza vincolante di una legge dello Stato. Quella “cancellazione” che egli aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle ai tempi del consigliere Meli, allorché dovette assistere impotente (ottobre 1988) allo smembramento – con un freddo ordine di servizio – di importanti filoni di indagine che, con fatica inimmaginabile, egli aveva riunito negli anni precedenti per costruire un efficace mosaico investigativo (ad esempio, quello degli “omicidi politici”, dei Cuntrera e Caruana, degli “omicidi strategici” della seconda guerra di mafia, degli appalti pubblici mafiosi). Era la prima volta, comunque, che in Italia un “metodo di organizzazione” del lavoro giudiziario veniva stabilito attraverso una legge. Ma, ucciso Falcone nel maggio 1992, quel “metodo”, pur trasfuso nelle Direzione distrettuale antimafia, trovò egualmente degli ostacoli inattesi. Si vuole fare riferimento ad una circolare del CSM del febbraio 1993, con cui (in modo improvvido) si posero dei limiti temporali (6 anni) alla permanenza dei sostituti procuratori nelle DDA. Ciò contrastava frontalmente non solo con la convinta idea di Falcone che le indagini antimafia dovessero essere condotte da magistrati sempre più specializzati, ma soprattutto con la lettera della legge istitutiva delle DDA, che aveva previsto un tetto massimo (8 anni) solo per la funzione apicale del Procuratore nazionale. Ma in quella circolare del CSM vi era, anche, qualcosa di più, giacché si diceva testualmente: “Appare, infatti, necessario evitare sia la creazione di veri e propri centri di potere … sia una eccessiva personalizzazione di funzioni così delicate”. Ritornava così, inaspettatamente dopo le stragi del 1992, il réfrain tante volte utilizzato negli Anni Ottanta contro Falcone, secondo cui “fare antimafia” determinava l’accumulazione di “potere” da parte dei “professionisti dell’antimafia”.  Ma “potere” verso chi, verso che cosa? La domanda è sempre rimasta priva di risposta, tuttavia l’accaduto è stato un chiaro indice del fatto che un (apparentemente) “semplice metodo organizzativo” di indagini sulla mafia era interpretato da qualcuno nel Paese (anche a livello di CSM) come un “problema di potere”! I tentativi degli anni successivi di modificare, su questo punto così qualificante, la circolare sulle DDA sono, purtroppo, andati a vuoto. Ed inoltre, il tetto temporale dei 6 anni (del tutto incoerente con le ragioni della legge istitutiva del 1991) ha raggiunto la dimostrazione massima della sua incongruenza quando dalle DDA sono dovuti andar via (per tale motivo) proprio i magistrati più esperti e specializzati, per cui questa struttura – che avrebbe dovuto essere strategica nelle indagini di mafia – ha finito oggettivamente non solo col  “burocratizzarsi”, ma (cosa più grave) ha perso quello slancio vitale che il pensiero di Falcone aveva pensato di attribuirle. E così, ancora una volta, la realtà storica ha dimostrato che la scelta del “modello organizzativo” per le indagini nei processi di mafia non è affatto neutro, e non è forse immune da “interferenze esterne” allo stesso ambito giudiziario.

La crisi che fa cambiare lingua a Cosa Nostra, scrive il 31 dicembre 2017 su "La Repubblica" Vincenzo Vasile - Giornalista. Il ritornello suppergiù è: “la mafia fa schifo”. E fa impressione ascoltare le parole di apparente disprezzo che alcuni boss come Francolino Spadaro o certi super-favoreggiatori come Totò Cuffaro hanno dedicato alla mafia. La mafia ha cambiato strategia di comunicazione, dai tempi della “mafia non esiste”? Nella mia memoria c’è ‘u ‘zu Tano di un quartiere di Palermo di piccola e media borghesia che trovavi sempre pronto a intervenire per qualunque dissidio, e sapevi che era lui l’uomo giusto per recuperare una refurtiva, ottenere un certificato, chiamare gli spazzini, dilazionare un debito o un affitto. Nessuno conobbe il timbro della voce o l’inflessione della parlata di questo mafioso, capozona della “Vaselli” (l’impresa di un aristocratico romano amico di Vito Ciancimino che ebbe per decenni la concessione del servizio dei rifiuti ripartito per mandamenti come Cosa Nostra), finché zio Tano non apparve nella “gabbia” di uno dei processi quando ero ai miei primi passi di cronista giudiziario. E lì scoprimmo che dietro i sorrisi gli ammiccamenti e i loquaci silenzi c’erano un’impressionante balbuzie e una voce in falsetto non consona con gli stereotipi “machisti” e il rango mafioso dell’imputazione. Ma a parte qualche correzione di tono, frutto delle batoste giudiziarie, delle carcerazioni e dell’impopolarità crescente che almeno dalle stragi del 1992 ha assediato l’organizzazione criminale che deteneva il record del radicamento sociale e politico, non mi sembra che si possa parlare di una vera svolta nel linguaggio e nella comunicazione di Cosa Nostra. O meglio: non sono così sicuro che la rottura del silenzio e della negazione dell’esistenza stessa della mafia si tratti di una sofisticata strategia, quanto piuttosto dei segni e dell’effetto di una crisi strutturale, di valori, e quindi di linguaggio. Chi trionfava nei giorni pari della mafia si adatta ai giorni dispari: il sindaco democristiano di Corleone negli Anni Settanta diceva ad Alfonso Madeo (giornalista prima del "Corriere" e poi direttore dell'Ora) che la mafia non esiste, mentre il suo mafioso di riferimento, Luciano Liggio, che amava parlare con la stampa, ormai in catene, dieci anni dopo concesse a Enzo Biagi che “se esiste l’antimafia vorrà dire che anche la mafia esiste”. Ci sono poi altre mafie, e altri mafiosi. E dagli atti giudiziari come dalle interviste ricavo la convinzione che rispetto al passato, proprio per via della crisi e dei rovesci giudiziari, la legge del silenzio o quanto meno della riservatezza sia stata a volte contraddetta, e sia divenuto più frequente l’uso della comunicazione come strumento criminale, che era caratteristica ben più tipica della camorra, sin dal secolo scorso. Ricordo a Napoli negli Anni Ottanta a una conferenza stampa indetta nel salone di un grand hotel a Santa Lucia da Pupetta Maresca leader della Nuova Famiglia, e si poteva interloquire spesso dentro ad aule di giustizia assai meno controllate di adesso o per via epistolare con Raffaele Cutolo: lì l’uso anche smodato e logorroico della parola era una regola, ciò che a Palermo era un’eccezione. Da tempo anche i boss siciliani sono diventati abbastanza loquaci, i “pentiti” come gli “irriducibili”, contraddicendo la vecchia solfa della “meglio parola” che nella cultura popolare è (o era?) “quella che non si dice”. Affermare che “la mafia fa schifo” in fondo non costa niente, se invece intanto va in porto la ricostruzione del tessuto organizzativo, il ricompattamento di Cosa Nostra. Il brand “Cosa Nostra” è in declino, anzi non sappiamo bene se i commissari liquidatori abbiano mantenuto i diritti su quel marchio. Del resto, non è chiaro se la mafia siciliana mantenga ancora quel nome: i diversi tentativi via via abortiti di ricostruire la struttura unitaria dell’organizzazione, la Commissione e la stessa leadership, hanno forse consigliato qualche rinnovo di codici interni, qualche rispolveratura di vecchi linguaggi, incrostazioni e comportamenti. Più interessante sarebbe capire come nel Terzo Millennio i mafiosi parlino tra loro di se stessi e della mafia, della loro “cultura”, e dei loro “valori”, come ne percepiscano la crisi. Il codice destinato all’esterno, quanto differisce dalle comunicazioni interne? Il più recente spiraglio è aperto dal caso del capomafia di Bagheria, Pino Scaduto, membro della residua Commissione: “Tua sorella s’è fatta sbirra”, dice al figlio, informandolo di una vietatissima relazione sentimentale della donna con un carabiniere. E in una lettera indirizzata a una parente: “Questo regalo quando è il momento glielo farò – scrive - tempo a tempo che tutto arriva”. La traduzione di “regalo” è: “morte”. Il mandato di uccidere non va in porto perché il figlio si rifiuta, ma è importante leggere con quali parole. Dalla trascrizione di una conversazione di Scaduto jr. con un amico (approfittiamone finché il decreto Orlando non toglierà l’accesso ai virgolettati): “Io non lo faccio, il padre sei tu e lo fai tu... io non faccio niente... mi devo consumare io? Consumati tu, io ho trent'anni, non mi consumo”. Sicché il valore dell’ “onore” mafioso sbandierato dal mafioso più anziano, non riesce a prevalere sull’argomento più concreto e prosaico della pellaccia: “consumarsi” in siciliano, significa “rovinarsi”. E onore famiglia religione sono parole che acquistano significati sorprendenti, come sappiamo, ben prima di Buscetta, nella cultura e nello slang dei mafiosi. Sul finire del 2000 uno dei tentativi di rifondazione di Cosa Nostra attorno al superlatitante Salvatore Lo Piccolo di San Lorenzo prevedeva il ripristino di un vecchio decalogo con terminologia immutata e condita degli stessi strafalcioni: "Non ci si può presentare da soli ad un altro amico nostro - se non è un terzo a farlo". "Non si guardano mogli di amici nostri". "Non si fanno comparati con gli sbirri". "Non si frequentano né taverne e né circoli". "Si è il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa Nostra. Anche se c'è la moglie che sta per partorire". "Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti". "Si ci deve portare rispetto alla moglie". "Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità". "Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie". "Chi non può entrare a far parte di cosa nostra: chi ha un parente stretto nelle varie forze dell'ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali". Ma oggi, nel 2017 il codice linguistico associato al decalogo mafioso richiama ancora ambiguamente il rispetto dei “valori morali” da parte di un’accolita di pluriassassini? Se davvero sono tornati più o meno in sella, i trecento ex detenuti della nuova rifondazione mafiosa riusciranno a risorgere e a comunicare con i linguaggi di quelli che hanno tenuto loro il posto? Tutto dipende dalla loro energia e dalle loro risorse, oltre che da una cosa che non sappiamo prevedere: se quelli di fuori hanno mantenuto l’imprinting di quelli che stavano dentro, come la figlia di Totò Riina che s’affaccia alla tribuna di Facebook per pubblicare il selfie con il dito sulle labbra in segno di invito al silenzio e al “rispetto”, l’operazione potrebbe rivelarsi meno complicata di quanto possiamo immaginare.

Il nuovo dizionario dei boss, scrive il 30 dicembre 2017 su "La Repubblica" Salvatore Cusimano - Giornalista. Prima scena. E’ il 2005. Appaiono grandi manifesti in tutta la Sicilia. Una scritta a caratteri cubitali su sfondo colorato: “La mafia fa schifo”. Una campagna di comunicazione della Regione Siciliana. Lo scalpore dura ben poco. Lo scetticismo di questa terra archivia in pochi giorni la faccenda. Pochi anni dopo Salvatore Cuffaro detto Totò, il presidente-governatore della Sicilia, alla guida della giunta di governo dell’isola, fautore di quella campagna, nel 2008, due anni dopo la sua rielezione plebiscitaria, viene accusato di favoreggiamento aggravato alla mafia. Per questo reato Cuffaro viene condannato con sentenza definitiva. Pena scontata con i benefici di legge. Siamo ora nel 2009. Cambiamo scenario. Siamo a un paio di migliaia di chilometri da Palermo nel circolo Arci di Paderno Dugnano, a nord di Milano. Il circolo è intitolato a Falcone e Borsellino. Una foto dei due magistrati è sulla parete a memoria perenne del sacrificio di due uomini giusti che hanno speso la loro vita per il nostro Paese. Le microspie delle forze dell’ordine registrano un incontro” straordinario”. Sotto quella immagine fortemente simbolica non sono seduti i pensionati e i giovani aderenti alla più grande associazione italiana di promozione sociale, dichiaratamente di sinistra, ma un drappello di ‘ndraghetisti, trenta in tutto, riuniti in un summit per eleggere il referente delle cosche calabresi per il Nord Italia. Una location perfetta per apparire insospettabili. Ultima scena. Villabate. Un paesone alle porte di Palermo. Sempre 2005. Il comune è impegnato in campagne di sensibilizzazione sul tema della mafia nei territori. Sostiene iniziative in memoria delle vittime delle stragi del ’92 e del tributo di sangue versato in Sicilia da rappresentanti delle istituzioni, alla presenza di star del cinema, testimonial d’eccezione. Poco tempo dopo l’amministrazione viene sciolta per mafia, il presidente del consiglio comunale dell’epoca Francesco Campanella, promotore di tante di quelle iniziative antimafia, si rivelerà essere non solo un mafioso, ma presto tradirà i suoi accoliti e il suo capo mandamento Nino Mandalà e volterà le spalle anche al suo partito l’Udeur, una delle formazioni nate dalla diaspora democristiana. In comune questi episodi, ma se ne potrebbero citare decine di altri, hanno lo scarto fra la vita vera e la sua rappresentazione. In terra di Sicilia lo scostamento (sui quali riflettono anche gli psicologi) è tanto più grave perché non cela solo un astioso opportunismo ma sembra rivelare un’incarnazione di disvalori che ha radici ben più profonde di quanto ci si immagini, a fronte della cui conservazione val bene anche una manifestazione di facciata che inneggi al vento antimafioso di cui tutti, a parole, si fanno paladini. Accodarsi al mainstream, se possibile addirittura capeggiarlo. Militare fra le file dei banditi intestandosi pubblicamente i valori delle guardie. Forse mai come oggi è necessaria la riscrittura di un dizionario civile, che scavi nel lessico alla ricerca dell’autenticità delle azioni, mascherate da frasi di maniera e da comportamenti contraddittori. Parole troppo usurate e gridate per essere vere e credibili. Amaramente bisogna riconoscere (e non è la prima volta che questo blog lo sottolinea) che sotto l’ombrello dell’antimafia è germogliato di tutto: tante associazioni dignitose, interessati al bene comune e alla crescita della consapevolezza civile, ma anche parassiti e approfittatori, distribuiti fra tutte le categorie e professioni compresa quella giornalistica. Avere la patente di chi si schiera contro le cosche, è utile ribadirlo, serve ad aprire molte porte, anche quelle che l’ascensore sociale di una comunità in declino non assicura più. Una milizia che serve anche a tenere a riparo le attività sotterranee della “terra di mezzo” da indagini e inchieste giudiziarie. Uno stratagemma in qualche caso risultato efficace, soprattutto nella fase di avvio dell’attività illegale. Oggi chi indaga sa che non ci sono terre franche e anzi bisogna scavare dietro gli slogan abusati per trovare molti cervelli e molte braccia della criminalità che cambiano sempre volto (vestendo anche quello della migliore società impegnata, riconosciuta e apprezzata nei saloni e nei palazzi che contano) per sopravvivere e rinviare il conto finale con la giustizia.

Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Libertà di informazione sempre più a rischio in Italia. I casi sono andati aumentando e nell'anno che si chiude Ossigeno per l'informazione (l'osservatorio promosso dalla Fnsi e dall'Ordine presso l'Associazione stampa romana) ha accertato gravi violazioni: intimidazioni, minacce, ritorsioni e abusi nei confronti di 423 giornalisti, blogger, fotoreporter, video operatori. Quest'anno i cronisti colpiti sono undici più del 2016, e per il 25% donne. Ossigeno ha pubblicato i nomi di ciascuno degli operatori dell'informazione colpiti e ha descritto gli attacchi ingiustificabili che hanno subito. Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento). Altre tipologie prevalenti sono state le aggressioni fisiche (20 per cento), le azioni per ostacolare la libertà di informazione con modalità non perseguibili per legge (7 per cento) e i danneggiamenti di beni personali o aziendali (4 per cento). La regione italiana più colpita è stata il Lazio, dove sono state accertate più intimidazioni e ritorsioni. Solo a Roma e nei dintorni sono stati colpiti 141 giornalisti e blogger, il 33 per cento dei 423 casi riscontrati nell'intero territorio nazionale. Nel Lazio c'è stato un incremento di otto punti percentuali rispetto al 2016. Questa concentrazione delle intimidazioni e delle minacce nella Capitale e nei centri circostanti è stata segnalata da Ossigeno ripetutamente da maggio in poi e rappresentata in un dossier intitolato "Allarme Lazio". E' il primo anno, dal 2013, che la percentuale degli avvertimenti supera quella delle azioni legali pretestuose. Le cifre di Ossigeno rispecchiano l'andamento delle intimidazioni e delle minacce attuate in Italia contro i giornalisti e descrivono in dettaglio il 6 per cento del fenomeno. Per avere una stima attendibile del numero di cronisti colpiti effettivamente da queste violazioni durante l'anno bisogna dunque moltiplicare per quindici il numero dei casi accertati. Moltiplicando 423 per 15 si ottiene 6.435. Nel 2017, Ossigeno è stato in grado di verificare con cura 216 differenti episodi (14 meno del 2016). Il numero dei minacciati è quasi il doppio degli episodi esaminati perché in 87 di questi casi sono state prese di mira più persone.

Giovanni Tizian, la mia storia, scrive il 16 dicembre 2017 su "La Repubblica" Attilio Bolzoni. Conosco la strada maledetta che da Bovalino porta a Locri e conosco anche la Calabria mafiosa che da Reggio sale verso l’Aspromonte. Ma non riesco neanche ad immaginare cosa poteva essere quella strada e cosa poteva essere quella Calabria di quasi trent’anni fa, quando uccisero in una sera d’autunno un uomo che si chiamava Peppe Tizian. Un nome come tanti ingoiato dall’indifferenza e dalla paura, un morto dimenticato come tanti se non ci fosse stato un figlio che in nome del padre ha voluto ricordare a se stesso e all’Italia cos’è dignità e cos’è giustizia.

Giovanni Tizian è un mio collega, un giovane giornalista che scrive per L’“Espresso”. L’ho visto arrivare a Roma qualche anno fa. Se n’era dovuto andare da Modena - dove lavorava per la “Gazzetta” - perché qualcuno gli voleva «sparare in bocca» per un paio di articoli contro un signorotto del crimine. Tanto tempo prima Giovanni ancora bambino se n’era dovuto andare anche dalla Calabria, portato via dalla madre e dalla zia per farlo crescere lontano da un ambiente infame dopo l’uccisione del papà. Destini che si incrociano intorno a una famiglia che aveva soltanto il desiderio di una normale esistenza, che s'inseguono dalla Locride alla pianura padana. Con quei "calabresi" che sono sempre lì, a minacciare le vite degli altri. Canaglie che il più delle volte sono rimaste impunite, padrone di decidere chi deve morire o chi deve mettere la testa sotto i loro piedi. Dedichiamo questa serie del blog alla storia di Giovanni Tizian che è sì la storia di Giovanni ma è anche quella di migliaia di uomini e di donne senza volto, voci soffocate, silenziate dall'ignavia di chi sta intorno a loro, da interessi meschini, da piccole e grandi complicità. Poi c'è lo Stato, lo Stato che non fa sempre quello che deve fare. Due anni ci sono voluti ai familiari per visionare gli atti dell'inchiesta sull'uccisione di Peppe Tizian, ne sono passati altri ventotto e nulla si sa ancora sui mandanti e gli esecutori di quel delitto nella Locride. Niente di niente. Frammenti di verità che Giovanni ricerca con la passione e il dolore ma anche con gli strumenti del suo mestiere, l'indagine e le connessioni, il contesto, le testimonianze, il racconto. Da acerbo cronista Giovanni è diventato anno dopo anno giornalista di robusta struttura mantenendo - nonostante la vita blindata e una notorietà improvvisa arrivata con le gravi intimidazioni ricevute da un boss della 'Ndrangheta - un profilo di sobrietà e di "educazione” per nulla comuni, un pudore molto meridionale che nasconde un privilegio: l'essere considerato per quello che è e non solo per quello che di tanto drammatico è accaduto intorno a lui e alla sua famiglia. Qualche riga la vorrei dedicare infine al boss che l'ha minacciato, Nicola "Rocco" Femia, un imprenditore del gioco d'azzardo legato ai clan di Gioiosa Ionica. Arrestato, processato, condannato (e poi pentito), ha sempre indicato Giovanni Tizian come il "colpevole" delle sue disgrazie giudiziarie per quegli articoli. Una "moda" mafiosa che ha preso piede in tanti altri luoghi d'Italia, quella di accusare alcuni giornalisti. Vuol dire che fanno bene il loro mestiere e le loro notizie fanno danno.

Una lontana estate di fuochi, scrive il 20 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Il capannone avvolto dalle fiamme. Un rogo spaventoso che in quella notte di luglio del 1988 illuminava tutta la contrada Sandrechi, sulla strada che collega Bovalino a Platì. Il mobilificio di mio nonno bruciava così, mentre noi lo guardavamo attoniti. Gli anni Ottanta e Novanta furono anni di piombo per la Calabria e per il paese nel quale sono nato. L'Aspromonte e le famiglie di ‘Ndrangheta, le loro regole, l'Anonima sequestri, i lobi delle orecchie mozzati e inviati ai familiari per convincerli a pagare i miliardi richiesti. Ma i clamorosi sequestri di persona, gli ostaggi nascosti nelle grotte di quei monti impenetrabili erano solo la vetta visibile, quella che più catturava l’attenzione dei media e dell’Italia tutta. Il resto però, quello che non veniva raccontato, ha ferito a morte la mia terra e tantissimi cittadini onesti che hanno pagato con la vita il prezzo della loro dignità. La ‘Ndrangheta stava completando la sua evoluzione iniziata con la costituzione de “La Santa”, struttura nata a metà degli Anni Settanta per consentire ai più importanti capi di conferire con massoneria, forze dell’Ordine e uomini politici. Serviva a gestire meglio gli affari illeciti e avere accesso al potere. Erano gli anni della seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Quasi mille morti. Mafiosi contro mafiosi. E poi il massacro degli innocenti. Gente onesta ammazzata senza scrupolo per affermare il loro potere criminale. Questo era lo scenario della mia infanzia nella Locride. Terra antica, con le impronte della gloriosa Magna Grecia ancora visibili in alcuni luoghi, saccheggiata da uomini che si definiscono d'onore: gli 'ndranghetisti. All'epoca la mafia calabrese era considerata un gruppo disordinato di pastori feroci, sanguinari e ignoranti. Per l'Italia, la Calabria era una regione periferica e pericolosa da cui stare lontani. Anche per i politici. Salvo le doverose e fruttuose processioni pre-elettorali. Così nessuno capì il dramma che si stava consumando nella punta dello stivale. E che stava già guastando tutta la nazione. Oggi paghiamo le conseguenze di quella cecità. Il mobilificio di mio nonno Ciccio moriva quella notte di luglio. E con esso la speranza di riscatto. Avevano resistito alle estorsioni, ai camion fatti saltare durante la notte. Ci avevano creduto. I miei familiari e i quindici operai che lavoravano in quel capannone non vollero arrendersi. Continuarono. Follemente, senza alcuna certezza, forse per disperazione, non fermarono l’attività. Nei garage di ognuno di loro si tagliava, s’incollava, si assemblava. Ma quell’incendio anonimo aveva bruciato il futuro. E non era che l'inizio della guerra.

Quella sera che uccisero mio padre, scrive il 17 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Il giorno è il 23 ottobre, l'anno il 1989. Il sole era tramontato da un pezzo. Ero un po’ cupo, davanti alla tivù, in attesa dei cartoni animati della sera, mentre pensavo a quel nuovo maestro che non mi piaceva affatto. Aveva modi bruschi e sguardo duro e non riuscivo a farmelo andare giù. Che sarà mai? cercava di sdrammatizzare nonna Amelia. E già, che sarà mai? L'orologio della cucina segnava intanto le 19 e la casa profumava di salsiccia e broccoli. La cena era quasi pronta, ma aspettavamo che arrivassero i miei zii e mio padre. Peppe Tizian. Ultimamente si tratteneva più a lungo negli uffici del Monte dei Paschi di Siena, a Locri, dove lavorava. Mia madre si era lavata i capelli e li aveva avvolti in un asciugamano a mo’ di turbante. Nel frattempo raccoglieva il disordine di un’intera giornata e sistemava la mia cartella per il mattino dopo. Era un lunedì sera freddo, strano per il periodo. Il camino era acceso e le castagne lì vicino aspettavano di essere abbrustolite. Un insolito squillo di campanello, ripetuto e lungo, mi distrasse per un attimo dai cartoni serali. I passi affrettati di mia madre per raggiungere il citofono, non trattennero però i miei pensieri. E nemmeno la sua corsa per le scale. Continuai a guardare la tv, mentre al portone di casa mia due poliziotti, un maschio e una donna, ci comunicavano che papà era morto. Ammazzato lungo la strada che da Locri porta a Bovalino. Vittima di un agguato mafioso davanti al museo della antica Locri Epizefiri. L’ennesima vittima di una logica criminale che stava risucchiando la Calabria in un buco nero di violenza e ingiustizie. Nell’ottobre in cui fu assassinato mio padre il nome di Bovalino risuonava quotidianamente nei telegiornali nazionali. Le telecamere della Rai e i fari sempre accesi sulla piazza principale narravano solo una parte della storia. Tra i fitti boschi dell’Aspromonte, nelle grotte fredde e profonde, ancora erano tenuti prigionieri Casella e Celadon. E l’Italia tutta aspettava una risposta dallo Stato. Una presa di posizione forte che mettesse fine alla stagione terribile dei sequestri di persona. Mia madre mi abbracciò forte prima di correre verso il luogo dell’omicidio. Mi rassicurò: sarebbero tornati presto, sia lei, sia mio padre. Molto tempo dopo mi raccontò tra le lacrime che sotto il capo reclinato di mio padre, sul sedile del viaggiatore, c’erano due libri di fiabe per me.

Peppe Tizian, un delitto senza colpevoli, scrive il 18 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Il dolore per quel lutto incomprensibile lo raccontavo solo a una stella, scelta insieme a mia madre la sera nella quale mi disse che Peppe non c’era più. Tre giorni dopo l’omicidio. Neanche con i miei familiari parlai più di mio padre. Tutti gli interrogativi li lasciai a loro. Domande che anteponevano la giustizia e la dignità alla rassegnazione di fronte a tanto strazio che non aveva né un motivo né uno scopo. Bussarono alle porte della Procura, della Questura, alle porte del buon senso. Nessuna risposta. Né per l’incendio e tantomeno per l’assassinio. Sembrava che tutto quello che era successo fosse dovuto a inevitabili cause naturali. Da accettare senz’altro pretendere. E non, invece, alla mano di uomini spietati che perseguivano il proprio potere seminando terrore e morte. L’unica sconfortante risposta che arrivò furono le parole del pubblico ministero che seguiva il caso: nella vita di Peppe Tizian non c’erano ombre, e questo non aiutava gli investigatori che annaspavano in un mare di possibili, fantasiosi moventi. E poi l’archiviazione, neanche un anno dopo. Oggi mi chiedo come mai non furono seguiti gli indizi evidenti: la banca che inevitabilmente - visto che nessuna legge antiriciclaggio esisteva ancora- era lavatrice di tutti i soldi dei sequestri e della droga che ormai scorreva a fiumi, l’incendio del mobilificio e i tentativi di continuare a lavorare nonostante tutto. Tracce che per buon senso ognuno leggerebbe come un’ottima base di partenza. Come mai non si diede seguito alle indagini nonostante si fosse a pochi passi dall’individuazione della matricola abrasa dell’arma del delitto. Il caos giudiziario nella Locride, in quegli anni, era pari solo a quello dell’informazione nazionale. Alle forze dell’ordine e ai sempre più esigui magistrati veniva richiesto impegno estremo sui sequestri di persona degli imprenditori del Nord. L’esercito schierato nelle cittadine spaventava noi bambini, ma non certo gli uomini della ‘Ndrangheta. Non c’era tempo né forze per rispondere ai cittadini locali, piegati dalla forza mafiosa. Restava il dolore, la paura e piano piano anche la vergogna di dover giustificare il fallimento della fabbrica e un morto ammazzato. Quando la giustizia non dà risposte, le vittime restano in un limbo, a metà strada tra il torto e la ragione.

Lontano dalla Calabria dei carnefici, scrive il 19 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Il paese era chiuso a riccio sulle proprie sventure. Piegati dal non vedere via d'uscita, si sopravviveva adeguandosi alle leggi dei carnefici. La 'Ndrangheta veniva ridotta dai media e dai politici a banditismo primitivo. Mentre già all'epoca era radicata in cinque Continenti. Aveva cellule nel Nord del Paese. Incassava tanti denari e non solo dai sequestri. Mentre ancora tutti puntavano il dito verso l’Aspromonte, le 'ndrine si espandevano altrove, alla ricerca di eldoradi dove arricchirsi ancora di più. I pastori dai modi bruschi e primitivi indossavano l'abito manageriale e gestivano appalti milionari e trattavano enormi partite di cocaina coi narcos. E nessuno li riconosceva. A Milano gli stessi imprenditori atterriti dalla possibilità di finire ostaggio dell'"Anonima sequestri” non avevano timore a sedersi al tavolo con spregiudicati titolari di aziende in odore di 'Ndrangheta. Il motivo? Semplice: di quelle famiglie temevano il volto feroce, non la loro capacità finanziaria. I soldi anestetizzano le paure e fanno sparire il puzzo di capra. Trasformano l'omertà in convenienza. A casa loro intanto, i boss continuavano a comportarsi come le bestie. Perché quel pezzo di terra era loro. Comandavano loro. Il resto della mia famiglia però non era disposta a sottomettersi. Niente giustizia né verità, ma sulla dignità, sulla lealtà verso i propri ideali non erano disposti a cedere. Così decisero di lasciare il paese dove eravamo nati, bagnato da un mare incantevole ma anche da tante lacrime. Anche noi non avevamo una visione reale delle dimensioni del fenomeno mafioso calabrese. Scegliemmo una regione, l’Emilia Romagna, che credevamo incarnasse i valori che per la mia famiglia erano un faro: libertà, equità, giustizia, solidarietà. Io avevo ormai terminato le scuole elementari, a Salice, una piccola scuola di campagna, che mi accolse quando dopo la morte di mio padre, l’antipatia che nutrivo per quel maestro si era trasformata in panico vero e proprio. Lo strappo più doloroso fu quello nel lasciare i miei amici, uno in particolare. Per il resto, nonostante quel fondo di tristezza che mi accompagnava sempre, trovavo eccitante l’idea di andare a vivere in una città viva, dove forse avrei visto anche la neve.

Una nuova vita “tranquilla”, scrive il 20 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Prima di partire mia nonna volle farci un regalo. Per sollevare l'umore di tutti. Per offrirci ancora visioni di bellezza. Organizzò un viaggio alle isole Eolie. Lo fece nonostante le critiche condizioni economiche, e devo dire che diede ai suoi figli e a lei stessa grande energia e speranza. Anch’io ero molto felice. Soprattutto durante un giro in barca che mi ha fatto ricordare quando Peppe mi caricava sulla deriva a vela e sentivamo il vento, e mi diceva che del vento non bisogna aver paura: bisogna capirlo e poi ti diventa amico. Ma questo non lo dissi a nessuno. Di Peppe Tizian io non parlavo. Ascoltavo i discorsi di mia madre e mia nonna, di mia zia e di qualche amico carissimo. Assorbivo la loro forza nel tenere vivo il ricordo e la speranza. Lo depositavo in qualche parte profonda del cervello. Lo lasciavo lì, così il cuore non avvertiva la sofferenza. La sentiva però la mia pancia di bambino, che mi faceva male così all’improvviso e niente serviva a calmare il dolore. Come un buco nero che si contraeva violentemente per poi finalmente, piano piano tornare a rilassarsi. Lentamente anche questo segnale scomparve. La nuova vita a Modena era piena di distrazioni e attività. Una tra tutte mi prendeva tempo e passione: il basket. E poi c’erano i cinema, quasi sotto casa, negozi e amici nuovi. Non mi accorgevo neanche dei sacrifici che mia nonna e mia madre facevano per consentirmi quella normalità. Certo la nuova casa non aveva né le dimensioni, né le comodità e nemmeno la vivacità della grande casa di Bovalino. Mi mancava la grande terrazza dove scorrazzavo con una piccola jeep elettrica. Mi mancava il caminetto davanti al quale mio nonno e mio padre si concentravano in lunghissime partite a scacchi, nelle sere d’inverno, e io a cavallo sul bracciolo della poltrona su cui sedeva l’uno o l’altro mi divertivo ad aspettare con pazienza le mosse della regina. Anche gli uomini della ‘Ndrangheta però, a nostra insaputa, stavano da tempo giocando la loro partita a scacchi con Modena e tutta l’Emilia Romagna. Quando noi arrivammo, già loro erano lì da tempo. Invisibili e modesti nei comportamenti, a Reggio Emilia in particolare, stavano conquistando posizioni economiche con le loro ditte edili, ma miravano alle menti. L’obiettivo delle ‘ndrine in quel pezzo di Padania era creare una ragnatela mortale nella quale attirare imprenditori, politica e professionisti.

Lacrime di Natale a Bovalino, scrive il 21 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Crescevo, ma quel buco nero nello stomaco restava lì. Non si contraeva più, ne sentivo però la pesantezza, l’ingombro. Vissi una difficile adolescenza, colma d’affetto per fortuna, ma carica di fantasmi e di paure che non riconoscevo e non sapevo chiamare. La giustizia mi sembrava un valore finto, pura retorica per mantenere un ordine che conveniva solo a pochi. Avrei voluto risposte, ma non facevo neanche domande. Cominciai a evitare anche di tornare in Calabria. Non aspettavo più con ansia che si avvicinassero le vacanze per tornare a Bovalino, dai miei amici, nella mia casa. Quando i miei familiari partivano per trascorrere qualche tempo lì, io trovavo mille scuse per non andarci, neanche per un giorno. Arrivai a odiare quei luoghi, senza consapevolezza del perché. Non pensavo al passato, non parlavo di mio padre, mi sembrava che neanche mi mancasse. Non mi piaceva la scuola che frequentavo, non mi piaceva il modo di vivere degli adulti. Frequentavo tanta gente ma stavo bene solo con i miei pochi amici. Tornai a Bovalino, costretto, mi dicevo, da mia madre, che voleva che trascorressimo il Natale tutti insieme nella vecchia casa di famiglia. Era il 2002 e avevo 20 anni. Oggi credo che in fondo se ci sono tornato era perché sentivo che dovevo farlo. Che era arrivato il momento di crescere e leggere tra le pieghe del mio disagio di vivere. E fu proprio su una di quelle poltrone sulle quali sedevano mio nonno o mio padre, col coraggio che viene da un bicchiere di troppo, davanti alle braci del caminetto che stavano finendo di consumarsi lentamente, che sopraggiunsero le lacrime. Fuori i boss, dalle terrazze delle loro case pacchiane e sontuose, salutavano la nascita di Gesù Bambino con colpi di pistola verso il cielo. Per ricordare a tutti che erano loro i padroni. Loro erano Dio. La mezzanotte era passata da un bel po’. Mi raggiunse mia madre.

Alla ricerca di una verità e di giustizia, scrive il 22 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Da quella notte ho cominciato a fare pace con il mio passato. Il buco nero che avvertivo in fondo allo stomaco cominciò ad abbandonarmi via via che il ricordo di mio padre tornava nella sua pienezza, non più ostacolato dalle mie paure e dai miei sensi di colpa. Sentivo di dovere qualcosa a quell’uomo di appena 36 anni, quasi gli anni che oggi ho io, generoso e sorridente, che aveva pagato con la vita il suo voler restare libero e onesto. Erano passati dodici anni. Tredici dall’incendio della fabbrica di mio nonno. Ormai sembravano fatti lontani. C’era ancora tanto da fare invece. Intanto ripartire da dove i miei familiari si erano dovuti fermare. Da quella memoria che non era mai stato possibile condividere. Da quella giustizia che non aveva ancora dato risposte. Da quella nebbia che avvolgeva tutte le responsabilità. Mi muovevo con passi incerti, da principiante. Solido però dei rituali e dei racconti che in famiglia tenevano vivo il ricordo e la speranza. Ero da poco iscritto all’ Università e per la prima volta cominciavo a vedere ben chiara la strada davanti a me e sentivo che era in continuità con il mio passato. Davanti il futuro che volevo costruire, dietro tutto quello che era accaduto. E le due dimensioni vivevano della stessa linfa, come le radici e le foglie di un albero. Cominciai a cercare nei libri di chi aveva scritto di ‘Ndrangheta risposte a domande che mi tenevano sveglio la notte. Studiai quelle pagine, le date, i nomi, i movimenti, i segreti dell’associazione mafiosa più potente del mondo, la più impenetrabile. Anche Modena e l’Emilia non erano immuni da presenze legate alle ‘ndrine. Prima di partire per le vacanze estive dissi a mia madre che, una volta in Calabria, intendevo recuperare il fascicolo della pratica giudiziaria riguardante l’omicidio di mio padre. Fece un lungo sospiro, non so se liberatorio o di apprensione, e mi disse che mi sarebbe stata a fianco, come sempre.

I miei primi articoli sulla 'Ndrangheta al Nord, scrive il 24 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Le mie lunghe letture e la documentazione raccolta in quegli anni sulla 'Ndrangheta, infine, erano confluite in gran parte nella mia tesi di laurea. Sentivo però che il moto interiore privato aveva sollecitato un’altra passione. Quella per il mestiere di giornalista. Provai così a inviare qualche articolo a un giornale on line e fu pubblicato. Era alle porte la primavera del 2005 e una mattina, tornando dalla nottata di lavoro, decisi di passare dalla Gazzetta di Modena. Non sapevo come funzionasse. Ma ci volevo provare. Entrai e chiesi con chi potevo parlare per offrire la mia collaborazione. Mi dissero di aspettare e dopo poco mi raggiunse Giovanni, il caporedattore. Mi fece accomodare nel suo studio e cominciò a domandarmi come mai fossi interessato a quel mestiere. Non sapevo cosa rispondere. Non intendevo raccontargli tutta la mia storia. Così gli dissi semplicemente che era il mestiere che avrei voluto fare. “E di cosa ti piacerebbe scrivere?” mi chiese.  “Di mafie” risposi. A Modena, fino ad allora, di mafie non si parlava e non si scriveva. A che scopo scrivere su un giornale locale di fatti che non riguardavano quel territorio?  Se rimase stupito non lo mostrò. Dopo un po’ di tempo però Giovanni sorrideva e batteva la testa nel ricordare il nostro primo incontro. Cominciai a lavorare per la Gazzetta di Modena quasi gratis. Avevo tanto materiale e quando arrivò un nuovo direttore mi azzardai a proporre un’inchiesta su fatti di mafia lì, in Emilia. Comparve la parola ‘Ndrangheta. Gli emiliani, e non solo, non riuscivano neanche a pronunciarla, non sapevano come scriverla quando il termine era preceduto dall’articolo. Questo mi diede la dimensione della voragine storica tra il Sud nel quale ero nato e il Nord dove ero cresciuto. A stento e solo pochi ricordavano la temuta "Anonima sequestri”, ma nessuno la metteva in relazione con la ‘Ndrangheta, ritenuta un fenomeno di criminalità locale e primitiva. In pratica, roba per cultori del genere.

Quando ho cominciato a capire quella Calabria, scrive il 25 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. La mattina che andammo con mia madre al tribunale di Locri, a presentare la domanda per avere il fascicolo giudiziario dell’omicidio di Peppe Tizian, eravamo spaesati, emozionati ma risoluti. Iniziava per noi un cammino difficile e pieno di insidie, ciò nonostante era come se ci fossimo ripresi in mano la vita. Ce lo consegnarono poco meno di due anni dopo. Un tempo lunghissimo per chi ha già aspettato tanto. Nel frattempo io instancabile cercavo altre risposte. Lunghe notti di veglia nella casa d’accoglienza per minori, dove lavoravo, e poi al mattino a studiare vecchi e nuovi articoli di giornale e il materiale giudiziario che trovavo su internet. Ero assillato dalla ricerca di uno straccio di verità. La dovevo a mio padre, a chi era sopravvissuto, al mio presente e al mio futuro. Fu così che riuscii a capire qualcosa d’importante sulle possibili cause che stavano dietro l’incendio della fabbrica di mio nonno. O quantomeno a individuare chi avrebbe avuto interesse a mettere le mani su quel terreno e sul capannone. Così molti anni dopo provai a dare io una risposta a mia madre, a mia zia e ai miei zii, a mia nonna. A loro che avevano sacrificato i loro anni migliori per quel mobilificio. Gli dovevo tanto. Dopo essermi procurato un'aggiornata visura camerale e catastale del fabbricato, mi parve di leggere chiaramente quello che in più di 20 anni nessuno aveva voluto comprendere. L'area qualche anno dopo il nostro fallimento era stata acquistata da un clan di Platì: i Barbaro. L’avevano trasformata in una fabbrica di parquet. Ma nessuno ci andava a comprare. Al Nord come al Sud. Fagocitano nelle maniere più svariate attività economiche pulite e le svuotano da dentro lasciando solo il guscio. Oppure ne fanno terra bruciata, solo perché il posto è strategico per i loro loschi affari. Il controllo assoluto del territorio. Nella Locride succede anche questo. Gli inquirenti però non se ne erano accorti. O forse non c’era tempo. Se da una parte il mio interesse diventava sempre più professionale, dall’altra cresceva l’impegno civico. Conobbi don Ciotti e Libera e attraverso loro gli amici dell’associazione "daSud". Con Libera e "daSud" ho percorso il Sentiero della Memoria in Aspromonte e per la prima volta lì, tra quelle montagne colpevoli di troppi segreti, ho raccontato la storia della mia famiglia, l’omicidio di mio padre, il silenzio che da troppo tempo opprimeva le nostre vite e il desiderio di riscattare quel nome, Peppe Tizian, dalla dimenticanza istituzionale e dall’incuria della società addormentata. A Milano, durante la Giornata di Libera, dedicata alle vittime delle mafie, venne letto il nome di mio padre. Eravamo in tanti, io e mia madre defilati dallo spazio dei familiari, nascosti tra la folla, tremammo dall’emozione.

La privacy di Sua Eccellenza Rocco Femia, scrive il 25 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. C'era un ambito ancora poco indagato dai media che attirò la mia attenzione: il prosperare in Emilia delle sale di video slot e gli interessi mafiosi collegati a quell’attività. I Casalesi sembravano farla da padroni. Ormai allenato, però, nel fare collegamenti tra fatti e nomi che sembravano non c’entrare nulla l’uno con l’altro, non rimango indifferente quando tra le carte giudiziarie a mia disposizione spunta un nome: Nicola "Rocco” Femia, e un luogo: la provincia di Ravenna. Un imprenditore del gioco originario di Gioiosa Ionica e residente a Conselice, legato ai Valle-Lampada e al boss Mazzaferro. Femia da trafficante di cocaina era diventato un punto di riferimento nel settore del gioco d’azzardo. Tanto da essere interpellato come consulente dal casalese Nicola Schiavone, figlio di Sandokan. La mia prima inchiesta su Femia e il suo giro d’affari fu pubblicata sulla "Gazzetta di Modena” nel 2010. Emergevano insolite alleanze tra Casalesi, criminali appartenenti alla mafia calabrese e faccendieri di Cosa Nostra. Nel dicembre del 2011 scrivo ancora di Femia. E la cosa al boss-imprenditore non piace. Per nulla. Si sente stanato, disturbato nella sua privacy. E reagisce. Chiama Torello, suo faccendiere piemontese, uomo di potenti relazioni pubbliche e gli dice che sulla Gazzetta di Modena c’è un giornalista che per la seconda volta osa fare il suo nome, indicandolo come uomo di ‘Ndrangheta. E Torello lo rassicura: «O la smette o gli spareremo in bocca». Stia pur tranquillo Sua Eccellenza Rocco. Quel giornalista ero io, ovviamente, che ignaro di tutto continuavo a fare la mia vita di sempre. Femia, mentre si lamentava con Torello della mia insistente attenzione nei suoi confronti non sapeva di essere intercettato dalla procura di Bologna dopo la denuncia di un operaio marocchino vittima di un pestaggio da parte dei suoi scagnozzi. Chi ascolta le intercettazioni rimane impressionato dalla violenza verbale dei due e passa subito al procuratore di Bologna - allora era Roberto Alfonso - la registrazione della telefonata.

La mia vita blindata per un nome di troppo, scrive il 26 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Ero fuori città quando mi chiamarono dalla Questura di Modena. Mi trovavo a Catania con la mia ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie. All’ora di pranzo del 21 dicembre del 2011, tra un boccone ancora non ingoiato e lo sguardo interrogativo di Laura, sopraffatto dall’incredulità, imparai che la mia vita era in pericolo perché avevo pronunciato e scritto un nome finora sconosciuto. La libertà d’informazione aveva disturbato il lupo nella tana. Mi assegnarono una scorta armata e feci ritorno a Modena. Il resto della mia famiglia era lì, mi aspettava preoccupata e attonita, ma sempre al mio fianco. Ancora nessuno, se non chi indagava, conosceva i motivi per i quali ero sotto protezione. La minacciosa intercettazione sarà resa pubblica solo la mattina in cui Femia e i suoi saranno arrestati. Più di un anno dopo. Non ho mai parlato volentieri della mia condizione di scortato. Mi sembra che abbia catalizzato troppe morbosità. Le persone comuni mi hanno spesso immaginato chi come un eroe, chi come un parassita che sfrutta la scorta per un piccolo spazio di notorietà. Alcuni studenti, quando andavo a parlare di mafie nelle scuole, sembravano interessati maggiormente all’aspetto balistico, alla potenza di fuoco, al numero degli agenti che mi seguiva, che non al racconto della portata criminale delle organizzazioni mafiose. Ho raccolto tanta solidarietà, ma anche critiche feroci e spesso ingiuste che mi hanno ferito e mi fanno male tuttora. Mi sono dovuto difendere non solo dai mafiosi ma anche da chi, per diversi motivi, era disturbato da questa mia condizione. Qualcuno mi ha definito un privilegiato. Io ho dovuto crearmi una corazza per fronteggiare l’innegabile paura di rimanere vittima di un agguato e per non cadere nella trappola del protagonismo. Sono sempre rimasto quello che ero, come avevo promesso a mia madre, pur nell’inevitabile e affrettata crescita che la situazione mi richiedeva. Cambiò però la mia situazione lavorativa. Il giornale non mi ha abbandonato, anzi. E anche per tutelare la mia persona fui mandato a Roma, collaboratore dell’Espresso. Gran salto, ma anche una grande responsabilità nei confronti di chi ha creduto in me e dei lettori. Oggi giro ancora con la scorta, non è sempre semplice, ma cerco di vivere come se lo fosse. La vita è tutta una questione d’abitudine, diceva nonna Amelia.

La scoperta della mafia sulla via Emilia, scrive il 27 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Rocco Femia, i suoi figli e i sodali furono arrestati nel gennaio del 2013. Stanati nella loro lussuosa villa con piscina nel Ravennate. Ghiacciato da ricordi di violenza e sofferenza che venivano dal passato, non provai quasi nulla. Mi concentrai sugli aspetti informativi e giudiziari della vicenda. A breve sarebbe cominciato il processo e bisognava decidere cosa fare. Costituirsi parte civile? Proseguire questa battaglia di libertà o riprendermi l’autonomia della mia vita quotidiana? Lessi le intercettazioni contenute nelle carte delle indagini e mi resi conto che la telefonata di minacce tra Torello e Femia è stata solo l’inizio di una serie di azioni più velate di tentativi di fermarmi. Oscuri intrallazzi con segretari di politici modenesi, tentativi di influenzare la “Gazzetta di Modena” tramite acquisti di grandi spazi pubblicitari, progetti di querele temerarie. Insomma una guerra dichiarata alla libertà d’informazione e alla democrazia, prima ancora che a me personalmente. Decisi quindi di costituirmi parte civile e con me tanti altri, tra cui l’Ordine dei giornalisti e associazioni come Libera, istituzioni locali e nazionali.  Si aprì in questo modo a Bologna il primo grande processo per ‘Ndrangheta in Emilia Romagna: Black monkey, dal nome di una delle schede truccate trovate durante le perquisizioni nei locali della famiglia Femia. Lunghe udienze che seguivo da lontano per evitare di far diventare il processo un problema personale tra me e il boss Nicola "Rocco” Femia. Il giorno in cui la corte mi interrogò guardai per la prima volta negli occhi l’uomo che mi voleva morto, lo ascoltai esprimersi nel suo italiano stentato, mentre mi indicava ancora una volta come causa dei suoi problemi giudiziari. Risposi alle domande della corte pacatamente per timore di sbagliare o di essere poco chiaro. Me ne andai senza ricambiare gli sguardi di sfida con i quali i Femia mi accompagnavano verso la porta. Black monkey era ancora lontano dal concludersi che si aprì l’altro fronte con Aemilia, processo alla ‘Ndrangheta emiliana dei Grande Aracri di Brescello, nel quale sono emersi numerosi contatti e relazioni tra i boss di Cutro e Femia. In Emilia la mafia non c’era fino a quando qualcuno non è andato a cercarla. E l’hanno trovata, o meglio sono emersi i livelli in superfice. Ma tanto ancora resta da conoscere.

Un attacco contro tutti i giornalisti, scrive il 28 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Il processo di primo grado al clan Femia si è concluso il 22 febbraio del 2017. Pesanti condanne hanno stordito avvocati difensori e imputati. Riconosciuta l’associazione mafiosa. Pietra miliare, la sentenza, per l’antimafia giudiziaria del Nord. Mentre il giudice leggeva le condanne quasi non respiravo. Poi solo pena. Nicola Femia mi aveva additato per tutto il processo come l’unico responsabile dei suoi guai giudiziari. Anzi io e la Guardia di Finanza. Le frequenti dichiarazioni spontanee di Femia sono interessanti per comprendere l’altra faccia dell’intimidazione. «Ho avuto la custodia in carcere per un giornalista, non c'è una denuncia, non c'è un capo di imputazione». «Un giornalista che organizza un processo», per colpa del quale «io rispondo di un'ordinanza di custodia cautelare», che «deve girare con la scorta, ma dove sono le minacce? Non ho questo capo di imputazione. Mi devo difendere. Chiedo che venga fatta una diffida al giornalista che scrive cose false». «Se ho commesso un reato è giusto che paghi. Chi sbaglia deve pagare – e poi aggiunge - Sbaglia Femia? Deve pagare Femia. Sbaglia il giornalista? Deve pagare il giornalista». Così si rivolge ai giudici, il boss delle slot: il suo nemico sono io. Ma parla ad altri. Il messaggio deve arrivare fuori e indica un bersaglio ben preciso: Giovanni Tizian. Non gli hanno creduto i giudici, che nelle motivazioni della condanna, nel capitolo riguardante le minacce da me ricevute scrivono: Giovanni Tizian «ha dovuto blindare la propria esistenza, compromettere la propria libertà di movimento con limitazione anche della propria attività professionale, oltre che subire un grave pregiudizio di ordine psicologico, per sé e per i propri familiari. Il danno che ha subito, quindi, è estremo». E ancora: «Il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian, colpevole di aver denunciato sulla stampa l’attività criminale dei Femia, è il tratto più inquietante e sinistro dei fatti venuti alla luce» e precisano che non si tratta solo di un attacco personale ma «di un aspetto addirittura eversivo, un attentato alla Costituzione la quale, all’articolo 21, stabilisce che la stampa non può essere soggetta a censure. In ciò si manifesta in modo ancora più drastico la pericolosità della mafia quale contropotere che tende ad avere il controllo sociale, a tacitare l’informazione e, lentamente ma progressivamente, a inserirsi nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse». Queste lapidarie parole descrivono la potenza eversiva delle mafie e dicono che la mia storia non è più qualcosa di personale ma riguarda tutti.

Lo Stato, la giustizia, la mia famiglia, scrive il 29 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. Ancora prima che in aula si leggesse la pesante condanna Nicola "Rocco" Femia aveva già deciso di collaborare con la giustizia. Le sue parole ora ricostruiscono scenari che vedremo se si confermeranno veri. A proposito del periodo dei sequestri dichiara che c’erano accordi tra servizi segreti e sequestratori, tra carabinieri e ‘ndranghetisti. Che chi avrebbe dovuto difenderci ci ha guadagnato, porgendo il fianco ai criminali. Mafiosi che avrebbero pagato il pizzo a uomini dello Stato. In quel contesto s’incastonano sia l’incendio della Fonti Cucine, la fabbrica di mio nonno, per la quale ancora i miei familiari stanno pagando debiti a uno Stato che continua a vessarli senza tuttavia avergli mai dato quella giustizia che gli spettava per diritto, sia l’omicidio di Peppe Tizian, un uomo di 36 anni che tornava dal lavoro per raggiungere suo figlio e per la morte del quale nessun colpevole è stato individuato, nessun indizio è sembrato sufficiente, nessuna sentenza è stata mai pronunciata. In entrambi i casi la giustizia ha proclamato tutta la sua incapacità. Anche questi fatti avrebbe dovuto riguardare tutti. Il mio paese, Bovalino, e l’Italia. Così non è stato. E credo che il Paese abbia perso un’occasione importante per far luce su uno dei mali che lo sta divorando. Se il dito di un piede va in cancrena, il ginocchio non può stare tranquillo. Invece tra gli Anni Settanta e gli Anni Novanta, il resto dell’Italia ha fatto finta che il problema delle mafie non lo riguardasse. Intano lì, nella Locride, tra l’Aspromonte e il mar Ionio si stava giocando una partita tra la democrazia e la tirannia. Tra libertà e asservimento. E riguardava tutti gli italiani. Quando ripenso alla mia infanzia in Calabria e la rileggo alla luce di quanto è emerso negli anni successivi, credo che quelle partite di calcio in piazza, circondati dai soldati dell’esercito in mimetica e armati fino ai denti, quegli elicotteri che ci svegliavano di notte, quella paura di non vedere tornare a casa qualcuno di caro, quelle fiamme, quel sangue, quelle televisioni sempre puntate su di noi, siano state una violenza inaudita per i bambini che hanno vissuto tutto questo. Una striscia di Gaza nella punta della penisola italiana. Una ferita che non si può perdonare e per la quale mai nessuno ha chiesto scusa. Ancora spero però, che verrà un giorno in cui per quegli uomini e quelle donne macellati, per le speranze rubate, per la dignità cancellata, qualcuno paghi o almeno emergano le responsabilità. In modo tale da poterla raccontare tutta quella storia.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti. 

Magistrati capopopolo. Ora tocca a Grasso, scrive Piero Sansonetti il 28 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il primo a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi e i corrotti fu Tonino Pietro. Fu anche il primo a entrare in politica…

In principio fu Di Pietro. Sì, fu lui a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi, i corrotti. La cui immagine campeggia sui giornali e in Tv. E che poi si autonomina capopopolo e entra in politica con fare da Peròn. Prima di Di Pietro questo personaggio non esisteva.

Poi vennero i tanti figliocci di Di Pietro. Ma nessuno col suo carisma, col suo piglio. Per esempio De Magistris, per esempio Ingroia, per esempio Emiliano. E ora, ultimo della serie, Piero Grasso. I magnifici cinque. Non tutti uguali. Non tutti con la stessa carriera e robustezza professionale. Tutti però con la medesima idea in testa. Che il consenso – ingrediente fondamentale della politica, e quindi del potere – non si conquista con un programma, con una strategia, con un sistema di idee, ma si conquista con la spettacolarizzazione della propria figura; e una interpretazione populista del ruolo del magistrato può aiutare moltissimo.

Per ora sono cinque, ma piccoli Di Pietro crescono. In fila ci sono molti aspiranti. Per esempio Di Matteo, per esempio Davigo. Di Pietro irrompe sulla ribalta della grande politica subito dopo la più importante inchiesta politico- giudiziaria di tutti i tempi. “Mani Pulite”. Che porta il suo marchio ed è frutto del suo ingegno. Anche altri magistrati collaborarono con lui (come Borrelli, come Davigo) ma senza Di Pietro e le sue straordinarie capacità di inquisizione e di dominio della scena, “Mani pulite” si sarebbe fermata prima di cominciare. Come era successo con decine di altre inchieste, che sfioravano il potere politico, affossate nei decenni precedenti. Di Pietro prima di tutto rase al suolo il palazzo, minacciando persino i templi della grande economia e della Finanza. Poi decise di lasciare la magistratura, dopo aver ferito a morte Craxi, Forlani, Martelli, La Malfa, De Mita, e un altro centinaio di dirigenti politici medi o alti. A quel punto si mosse con circospezione, respingendo una proposta della destra, accettandone una della sinistra e alla fine mettendosi in proprio e creando un partito che ebbe un ruolo decisivo negli equilibri del centrosinistra fino al giorno che un nemico imprevisto (Milena Gabanelli) decise di eliminarlo usando uno strumento che di Pietro conosceva bene: la Tv. E in una trasmissione Tv lo accusò di disporre di troppe case (anche se non era vero) e in pochi giorni fece in modo che i sondaggi, che ormai lo davano al 10 per cento, scendessero al 2, spalancando la porta a Beppe Grillo.

De Magistris seguì una strada diversa. Non disponeva certo delle stesse capacità investigative di Di Pietro, si lanciò lo stesso in una grande inchiesta che catturò l’attenzione dei mass media. Mise sotto accusa mezza Calabria e un po’ di Campania e Basilicata, con l’inchiesta Why Not. Titoli in prima pagina centinaia, condanne zero. Ma non era quello che contava, e quando si presentò candidato per fare il sindaco di Napoli, stravinse nel tripudio popolare.

Di Ingroia si sa. Cercò di mettere a frutto le inchieste antimafia di Palermo, e soprattutto il processo per la famosa trattativa stato-mafia. Ma gli andò male. Mise insieme un partitino che doveva riportare in vita il vecchio partito di Di Pietro più Rifondazione e altri. Restò sotto la soglia del 3 per cento alle elezioni del 2013, e niente Parlamento.

Infine Emiliano, ma la sua vicenda è ancora in viaggio. Anche lui faceva il magistrato in Puglia, ed era molto popolare. Diventò famoso e così riuscì a farsi eleggere prima sindaco di Bari e poi presidente della Regione. Ora punta in alto, probabilmente non ha rinunciato a succedere a Renzi alla direzione del Pd. Però l’operazione è ancora in alto mare.

Ed ecco, infine Grasso. Che sembra senza molti dubbi il nuovo leader della nuova formazione di sinistra nata in opposizione a Renzi. All’inizio si pensava che il leader di questa formazione potesse essere Giuliano Pisapia, ma Piero Grasso sembra avergli soffiato il posto. Sarà un caso, naturalmente, ma forse no: Pisapia è un celebre avvocato garantista, Grasso invece è un magistrato. E normale che le cose vadano così? E’ un’inventariabile conseguenza del nuovo corso della democrazia populista, che sta dilagando in Italia e non solo? La fusione tra populismo giudiziario e populismo politico è il destino immodificabile? E per la magistratura è un bene, o è una perdita di funzione e di autorevolezza? Le lascio lì, queste domande. Ricordandomi però, forse perché sono vecchio, che una volta il rapporto tra magistratura e politica era diverso. Anche allora, ogni tanto, i magistrati entravano in politica, ma con intenzioni diverse e diverse ambizioni. Non dovete pensare che i magistrati siano solo persone in cerca di potere. Molti di loro non lo sono affatto. Voglio raccontarvi una storia di una quarantina di anni fa. C’era un magistrato palermitano molto impegnato nelle indagini sulla mafia. Aveva fatto condannare all’ergastolo Luciano Liggio, uno tra più celebri e spietati capi della cupola. Lui si chiamava Cesare Terranova. Nel 1972 accettò di candidarsi al Parlamento per il Pci ed entrò in commissione antimafia. In quegli anni non esistevano i professionisti dell’antimafia. Non avevi nessun vantaggio a strepitare contro le cosche, anche perché né la politica né i giornali ammettevano l’esistenza di Cosa Nostra. Facevano finta che fosse una leggenda. Terranova decise di andare in Parlamento per denunciare. Non cercò mai di fare una carriera politica. Ancora in quegli anni, una volta, si rifiutò di pubblicare le liste di “proscrizione”, alla vigilia delle elezioni, anche se al suo partito sarebbe convenuto. Perché – disse – il compito della commissione antimafia non era quello. Nel 1979 rinunciò alla candidatura e tornò a fare il magistrato. Forse sbagliando. La mafia non gli perdonò il suo impegno. Ha la memoria lunga Cosa Nostra. Il 25 settembre, un paio di mesi dopo aver abbandonato Montecitorio, stava guidando la macchina nel centro di Palermo, con a fianco la guardia del corpo, Lenin Mancuso. Gli sbarrarono la strada e iniziarono a sparare, coi fucili e conle rivoltelle. Lui cercò di fare marcia indietro ma gli furono addosso. Gli diedero il colpo di grazia alla nuca. Mancuso morì il giorno dopo.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

ASSENTE AI PROCESSI SI DIFENDE SU PANORAMA. Saguto: “Io vittima di un errore giudiziario. Sul mio conto ho 18 euro”, scrive "Il Sicilia l'8 marzo 2018. Mentre il processo sullo scandalo beni confiscati entra nel vivo, la giudice Silvana Saguto è la grande assente nell’aula del processo di Caltanissetta. Preferisce difendersi dalle pagine del settimanale Panorama. Ecco un estratto della lunga intervista in edicola oggi. Intercettazioni Saguto vs figli di Borsellino [La Repubblica, 21.10.2015]. “Sono la sola donna che ha avuto il coraggio di zittire Totò Riina e che gli ha inflitto, insieme alla Corte d’Assise, 13 ergastoli. Ho organizzato i confronti tra quest’ultimo e collaboratori di giustizia come Buscetta, Mutolo e Marchese. Mi sono formata e cresciuta accanto a uomini come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, tengo a ricordare, mi voleva un bene incredibile”. Sui figli di Borsellino, nelle intercettazioni, diceva: «Lucia è una cretina» e Manfredi «uno squilibrato». “È una frase estrapolata dal contesto. Tagliando e cucendo brandelli di intercettazioni si può fare dire a un uomo ciò che si vuole. Se sono riusciti a ricostruirli ad arte come nel mio caso, non oso immaginare cosa siano stati capaci di fare in altri. La verità è che hanno provato a farmi saltare in aria con questa inchiesta. Massimo Ciancimino, come risulta dalle intercettazioni, ha detto: «Dobbiamo toglierla dalle misure di prevenzione». Ho deciso di parlare perché sono certa di potermi discolpare. Sono stata indicata come il giudice più corrotto d’Italia e ho subito un processo mediatico su fatti che sono stati solo asseriti e mai dimostrati. Il procuratore generale non si rende conto della nullità delle accuse”. Non è vero che ho detto «Sono Dio onnipotente». È stato sicuramente omesso un «non». Sono oltretutto una donna cattolica. Praticante. Non mi paragonerei mai a Dio. L’accusa di tesi copiata? La famosa tesi di mio figlio sa su cosa è stata fatta? Sulle misure di prevenzione. Sa di chi sono i tre casi analizzati in questa famosa tesi? Tre miei decreti. È come accusare Fidel Castro di aver rubato un sigaro che lui stesso produceva. Di che cosa stiamo parlando? Non troveranno nulla. Ho solo due mutui e una casa ipotecata. Sul mio conto corrente ho 18 euro. Il mio mutuo si trova presso Banca Nuova. La mia difesa è cambiata con la scelta degli avvocati Ninni Reina e Giulia Bongiorno che di fronte al Csm, alla prima udienza, ha dichiarato: «Per me è un onore difendere la dottoressa Saguto». Ho paura di essere vittima di un errore giudiziario. Ma non accadrà.

"Cene, regali, viaggi e negozi di lusso". L'agente di scorta svela la bella vita della Saguto. Al processo, l'audizione del poliziotto che seguì la giudice per 12 anni. E intanto lei attacca su Panorama: "Tanti figli di magistrati nella mia sezione", scrive Salvo Palazzolo il 7 marzo 2018 su "La Repubblica". «Ogni settimana, andava nei ristoranti più costosi della città e della provincia, ma anche oltre, nel Messinese. E poi in negozi esclusivi: Hermes, Gucci, Louis Vuitton». L’agente di scorta Achille De Martino racconta la bella villa della giudice Silvana Saguto, accusata di aver gestito in maniera allegra i beni sequestrati alla mafia e di aver intascato delle mazzette dal “re” degli amministratori giudiziari, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. «Quando scoppiò il caso con le perquisizioni, nel settembre 2015, io non ci credevo - premette l’assistente capo della polizia che ha scortato la giudice Saguto dal 2004 al 2016, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso - per me era una giudice integerrima. Ma poi anche io ho iniziato ad avere dei sospetti». E giù con una lista di spese “esorbitanti”: «Molte erano per i figli», spiega il poliziotto nell’aula del tribunale di Caltanissetta. «Il figlio Elio si era inizialmente iscritto alla facoltà di Medicina di Varese, poi passò a Roma dove andò ad abitare in un costoso residence con piscina e campo da tennis. E quando tornò a Palermo, prese in affitto la casa del figlio del dottore Natoli, in un altro residence di Mondello pure questo con piscina e campo da tennis». Dopo l'avviso di garanzia per la madre, il figlio tornò a casa dei genitori. E anche la giudice iniziò a ridimensionare le spese: «Ad esempio, non andava più nel parrucchiere più costoso, ma in un centro commerciale. E non comprava più dolci da Costa se andava a cena da amici, ma faceva la torta in casa». Intanto, mentre il processo entra nel vivo, la giudice resta la grande assente nell'aula del processo di Caltanissetta. Preferisce difendersi dalle pagine del settimanale Panorama. In un'intervista che uscirà sul prossimo numero passa al contrattacco. Dice: "C'erano i figli di tanti giudici a lavorare in quella sezione". La sua sezione. "La legge dice che gli amministratori giudiziari devono essere persone di fiducia, chi meglio dei parenti di un magistrato?". Silvana Saguto va anche oltre. Gli insulti ai figli di Borsellino, registrati nel corso delle intercettazioni? "Non ho apprezzato il loro atteggiamento". Gli agenti mandati a ritirare le scarpe? "Era una questione di sicurezza". La spesa di 15 mila euro mai saldata al supermercato? "Un debito. E comunque della spesa si occupava mio marito". E si autoassolve: "Ho paura di essere vittima di un errore giudiziario. Ma non accadrà".

Silvana Saguto: "Non ci sto a pagare per tutti". L'ex presidente della sezione misure di prevenzione a Palermo accusata di aver fatto business sui beni sequestrati alla mafia rompe il silenzio su Panorama e coinvolge i colleghi, scrive Panorama il 7 marzo 2018. Così facevan tutti. Silvana Saguto - magistrato ex responsabile della gestione dei beni sequestrati alla mafia a Palermo - rompe il silenzio e racconta a Panorama, nel numero in edicola da giovedì 8 marzo, la sua verità. Dopo l’inizio del processo che la vede sul banco degli imputati per aver gestito quei beni con familiari e amici, mentre il Csm ne ha chiesto la radiazione, Saguto decide di coinvolgere i suoi colleghi con nomi e cognomi. "C’erano i figli di tanti giudici a lavorare in quella sezione" assicura Saguto, il cui marito ha ottenuto 800 incarichi da Procura e Tribunale, giustificando se stessa e i suoi colleghi con questa motivazione: "La legge dice che gli amministratori giudiziari devono essere persone di fiducia, chi meglio dei parenti di un magistrato?". Ma Saguto va oltre. Gli insulti ai figli di Borsellino? "Non ho apprezzato il loro atteggiamento". Gli agenti mandati a ritirare le scarpe? "Era una questione di sicurezza". La spesa di 15 mila euro mai saldata al supermercato? "Un debito. E comunque della spesa si occupava mio marito". Che effetto le fa essere sul banco degli imputati? "Ho paura di essere vittima di un errore giudiziario. Ma non accadrà".

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”. 

Gli "attori" dell'aula bunker di Palermo, scrive Marco Tranchina il 24 agosto 2017 su “La Repubblica”. Tesi di Marco Tranchina - Università di Palermo, Relatrice professoressa Alessandra Dino. Secondo il sociologo canadese Erving Goffman, l’essere umano è un “attore sociale” che agisce in base alla situazione in cui si trova, “recitando la parte” più conveniente che si addice a quella circostanza, in un determinato ambiente che lo studioso chiama “Teatro della vita quotidiana”. Utilizzando questa prospettiva teorica, ho voluto analizzare il particolare comportamento messo in scena dai criminali associati a Cosa Nostra, dimostrando che gli attori sociali mafiosi non smettono mai di recitare la parte di “uomini d’onore” (per come è inteso all’interno di Cosa Nostra) nemmeno in “teatri” fortemente sconvenienti come, per esempio, l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, durante il maxiprocesso del 1986. Tommaso Buscetta, primo collaboratore di giustizia della storia di Cosa Nostra, protagonista dell’intero maxiprocesso, è un modello perfetto per comprendere la particolare comunicazione mafiosa messa in scena durante quello storico evento giudiziario. La sua straordinaria intuizione fu quella di accusare i suoi ex compagni di avere tradito il senso di Cosa Nostra, riuscendo in questo modo a schivare l’etichetta di pentito (che nell’ambiente mafioso è la più grave offesa). Nella sua prima apparizione in aula durante il primo grado del maxiprocesso, Buscetta spiegò di essere entrato a far parte di Cosa Nostra perché ne condivideva gli ideali di base e per questo motivo decise di uscirne quando la fazione corleonese conquistò il pieno potere, “cominciando con delle cose – racconta Buscetta – che non erano più consoni all’ideale della Cosa Nostra, con delle violenze, che non appartenevo più a quegli ideali”. E continuava così: “Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo. Quindi non sono un pentito”.  Con questa dichiarazione, satura di impliciti, malintesi e omissioni, il collaboratore di giustizia riuscì a mantenere la figura di uomo d’onore, affibbiando al contempo quella di pentiti ai corleonesi. Se don Masino recitò bene il ruolo di uomo d’onore, Michele Greco non fu da meno. Soprannominato “il Papa”, antagonista di Buscetta, indicato da tutti i collaboratori di giustizia come il più alto boss di Cosa Nostra (seppur assoggettato a qualsiasi decisione dei “corleonesi”), Greco calò il sipario del primo grado del maxiprocesso con un messaggio in codice che gli consentì di continuare ad indossare la maschera dell’uomo d’onore che mai comunica in modo esplicito: “Io vi auguro la pace, signor Presidente, a tutti voi io auguro la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, e per il compito che vi aspetta la serenità è la base fondamentale per giudicare. Vi auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita, oltre a questa occasione”. Alla luce delle caratteristiche del mafioso fin qui osservate e considerando il contesto entro cui si svolse l’evento comunicativo, Michele Greco non avrebbe potuto essere esplicito nell’avvertire la Corte di essere prudente durante la fase di giudizio. Sembrerebbe, infatti, che quell’ambigua propalazione andasse oltre il suo significato apparente, velando una minaccia che aveva lo scopo di intimidire i magistrati. Tanti altri esempi possono essere riscontrati, studiati e quindi approfonditi nelle varie fasi del maxiprocesso (e non solo). Tutti portano alla conclusione che gli associati a Cosa Nostra non cessano mai di essere “uomini d’onore”, nemmeno in ambienti estremamente ostili, come l’aula di un tribunale. Questo comportamento, come si è visto, implica una comunicazione fortemente ermetica e piena di messaggi da decifrare. Proprio come disse Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra è il regno dei discorsi incompleti”.

Ma attori sono anche gli antimafiosi.

Ingroia, Di Matteo e la verità. La Trattativa sopra tutto, scrive Riccardo Lo Verso il 30 marzo 2017 su "Live Sicilia". Tutte le strade portano, sempre e comunque, alla Trattativa fra lo Stato e la mafia. Secondo Antonio Ingroia, anche la morte dell'urologo Attilio Manca rientra nel contenitore del presunto e scellerato patto fra boss e rappresentanti delle istituzioni. È il processo che Ingroia ha istruito quando era procuratore aggiunto a Palermo e da cui è uscito per tentare, senza successo, la carriera politica. Ed è ad Antonino Di Matteo, uno dei suoi ex colleghi rimasti a rappresentare la pubblica accusa nel dibattimento in corso davanti alla Corte d'assise, che Ingroia si affida per ristabilire la verità. Non importa che al momento la sua verità non coincida con quella della magistratura. Ingroia, che assieme all'avvocato Fabio Repici assiste i familiari di Manca, infatti, ha la certezza che l'unica "verità vera" sia quella da lui rappresentata, raccogliendo anche alcune testimonianze di pentiti. Ieri il giudice di Viterbo ha condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione, oltre a 18 mila euro di multa, la sola Monica Mileti, la donna accusata di aver ceduto la dose di eroina che, nel 2004, avrebbe provocato a Viterbo il decesso per overdose dell'urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Una verità che non convince i familiari della vittima secondo cui, fu un omicidio di mafia. “Si tratta di una sentenza abnorme e profondamente ingiusta in un caso paradossale, in cui la verità processuale è il rovescio della verità reale. Purtroppo i giudici di Viterbo - ha scritto in una nota Ingroia - a causa dell'estromissione delle parti civili, non hanno potuto valutare tutti i fatti e tutte le prove, tra cui quelle da noi ritenute decisive, non hanno potuto considerare evidenze fondamentali, e non hanno neppure ascoltato la verità dei familiari di Attilio Manca. Attilio Manca - ha aggiunto - è stato ucciso per aver operato Provenzano a Marsiglia con il benestare di pezzi dello Stato ai più alti livelli: era diventato un testimone troppo scomodo, il suo è un delitto di Stato che si inserisce nel quadro di quella scellerata trattativa che uomini delle Istituzioni strinsero con i boss mafiosi, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Ma non si è voluto che si arrivasse alla verità, che fosse fatta giustizia. E da quel processo è stata estromessa la parte civile e la sua verità. Noi però non ci arrendiamo. A Viterbo non si è fatta giustizia”. I familiari di Manca non si sono potuti costituire parte civile perché non erano stati considerati parte offesa del reato. Non era contestato l'omicidio, ma la cessione di droga. Dunque, secondo il giudice, i parenti non erano più legittimati a chiedere i danni all'imputata. La procura di Viterbo ha escluso il collegamento con Provenzano, sostenendo che gli accertamenti tecnici hanno stabilito che il decesso avvenne per un'overdose di eroina. Ingroia non ci sta e attacca i magistrati di Viterbo: “Confidiamo in un’altra magistratura, confidiamo nei due esposti presentati alla Procura distrettuale antimafia di Roma, che ha avuto già l’effetto di far aprire un fascicolo per omicidio di mafia, e alla Procura nazionale antimafia”. Ed è qui che si inserisce l'auspicio di potere tornare a lavorare fianco a fianco con Di Matteo. Lui come parte civile, il pm di Palermo come nuovo sostituto della Dna “dove ci auguriamo prenda il posto che merita il più rapidamente possibile Nino Di Matteo. Con la sua grande esperienza in indagini di alta mafia un magistrato come Di Matteo potrà infatti sicuramente contribuire a ristabilire la verità e a fare giustizia. Lo dobbiamo ad Attilio, lo dobbiamo alla sua famiglia”. Il “rapidamente” potrebbe scontarsi con la richiesta del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che chiede al ministero di fare restare Di Matteo per altri sei mesi a Palermo in modo che possa occuparsi delle inchieste e dei processi in corso, compreso quello sulla Trattativa.

Di Matteo, Ingroia e i fissati della trattativa Stato-mafia, scrive Michele Magno il 30 luglio 2017 su "Formiche.net". La trattativa Stato-mafia si estende in Calabria. Lo ha annunciato il procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo. Nonostante la dimostrazione della sua esistenza si sia fin qui scontrata con un lungo elenco di assoluzioni nella realtà processuale, c’è un gruppo di accaniti assertori della trattativa che non demorde. Oggi il suo esponente di spicco è il sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo (ministro degli Interni in pectore del M5S?). Ieri era Antonio Ingroia, l’ex star della magistratura siciliana che aveva elevato -insieme a Marco Travaglio- Ciancimino jr a “icona dell’antimafia”, nonché ex leader di una lista intitolata “Rivoluzione civile” (un clamoroso flop elettorale), poi messo a capo dal governatore Rosario Crocetta di “Sicilia e-Servizi” (con esiti certo non esaltanti per il funzionamento del web della Regione). La sua parabola è emblematica. Basta dare solo un’occhiata alla storia nazionale per accorgersi che gli italiani fanno presto ad invaghirsi del Girolamo Savonarola di turno, e fanno anche presto a disfarsene. Alla fine del Quattrocento il frate domenicano si presentò al popolo fiorentino come il moralizzatore di una Chiesa simoniaca e corrotta e di una società lasciva e viziosa, per fondare una “Nuova Gerusalemme” mondata dal vizio e dal peccato. Conosciamo l’infausto destino a cui andò incontro il “profeta disarmato”, come lo definì Niccolò Machiavelli. Gli odierni “Piagnoni”, come si chiamavano i seguaci di questo tragico personaggio, con le loro intemerate contro la “casta” tendono ora a rinverdirne le gesta. In che modo?  Non è difficile capirlo: confondendo etica pubblica e morale privata. In altre parole, escludendo che il politicamente utile possa essere moralmente giusto se misurato con il metro di quell’etica pubblica che riguarda, appunto, la salus rei publicae, l’interesse generale contrapposto agli interessi particolaristici (beninteso, la “salute della patria” ha contenuti storicamente mutevoli, che danno sempre luogo a conflitti e interpretazioni divergenti). Da noi, infatti, l’appello all’etica continua ad essere usata come una clava per abbattere nemici e avversari, per trasformare i rei in peccatori e i peccatori in rei, per sublimare ogni ladro di galline in un incallito mafioso (ogni riferimento al fu Mafia Capitale non è puramente fortuito). Eppure Max Weberci ha insegnato che la politica non è nata ad Assisi. Ma a Luigi Di Maio e ad Alessandro Di Battista che gliene importa? Per loro è nata sulla Rete di Gianroberto Casaleggio, quando Beppe Grillo nei suoi spettacoli teatrali entrava ancora in scena indossando la tunica di Savonarola e spaccando un computer sul palcoscenico.

Pur avendo una certa dimestichezza con le tortuosità della sinistra italiana, confesso che senza i preziosissimi portolani di Formiche non capirei un fico secco di quel cafarnao che è oggi il dibattito interno al Pd sulla questione delle alleanze (pre o post elettorali). Certe volte ricorda Hellzapoppin, il film diretto nel 1941 da Henry C. Potter, pietra miliare della commedia dell’assurdo e del surreale. Purtroppo, osservando le rotte di navigazione di Matteo Renzi, “Non è pileggio [traversata audace] da picciola barca/ Quel, che fendendo va l’ardita prora,/ Né da da nocchier ch’a se medesmo parca [ si risparmia per paura]” (Dante, Paradiso, Canto XXIII).

Pecca fortiter, sed fortius crede (“Pecca anche molto, ma credi ancora di più”): con questo motto Lutero esprimeva il primato della fede sulle opere buone ai fini della salvezza dell’anima. Papa Francesco recentemente ha affermato il contrario: all’Inferno ci andranno non coloro che credono poco o non credono, ma gli iniqui, i corrotti, i bancarottieri, chi vive solo per fare soldi. A occhio e croce, almeno stando alle cronache di questi mesi, sarà pieno di italiani.

“Siate morbidi sulla morale ma tenete duro sul dogma”, diceva il gesuita di André Gide. A me il gesuita Bergoglio piace anche perché sostiene, in fondo, esattamente il contrario.

I piani del pm Di Matteo dopo la "Trattativa". La questione che qui si solleva è marginale, è un dettaglio, ma indicativo come solo i dettagli sanno essere, scrive Massimo Bordin il 13 Luglio 2017 su "Il Foglio". Di come stia evolvendo, secondo copione, la marcia di allontanamento dal processo “trattativa” del dottore Antonino Di Matteo, leggerete sicuramente in queste pagine meglio di quanto si possa scrivere qui, dove ci si si limita a constatare che, più che una candidatura a semplice parlamentare Di Matteo gradirebbe direttamente una nomina a ministro. In proposito è comunque disponibile a lasciare una opzione al futuro presidente del Consiglio che potrà scegliere se utilizzarlo a via Arenula o al Viminale. La questione che qui si solleva è marginale, è un dettaglio, ma indicativo come solo i dettagli sanno essere. Nei suoi interrogatori in aula Di Matteo ha sollevato il tema processuale della nomina di Mancino a ministro degli Interni. La tesi accusatoria è che Mancino fosse stato scelto perché più disponibile ad assecondare la famosa trattativa del suo predecessore Enzo Scotti. L’argomento usato dal pm Di Matteo, nelle sue domande a esponenti politici della Prima repubblica, per avvalorare la tesi dell’accusa su come quella nomina fosse sospetta, consisteva nel far notare che Mancino, prima di allora non fosse mai stato ministro. Naturalmente si trattava di un avvicendamento all’Interno della stessa maggioranza e, anche se l’argomentazione resta vagamente surreale, non si attaglia a un governo di una forza che non ha mai governato. Dunque Di Matteo, per non destare sospetti, farebbe il ministro solo con il M5s. Almeno questo è logico ma rende inquietante il concetto che il pm ha espresso ieri in un’intervista: si tratterebbe di “continuare il lavoro fatto con la toga”. In termini di metodo, oltre che di merito, quello che inquieta non è tanto la continuazione ma l’antefatto.

«Oltre la trattativa»: il coraggio di anticipare una sentenza. Un viaggio attraverso venticinque anni d'inchieste, processi, clamorosi colpi di scena e mistificazioni giudiziarie dopo la stagione delle stragi. Un viaggio che si legge come un romanzo ma che ha l'accuratezza e la precisione di un reportage giornalistico per scandagliare le piste alternative alla (assai) presunta trattativa che sono state troppo presto abbandonate dagli investigatori. Perché fu ucciso Paolo Borsellino? Che cosa c'entra l'esplosiva indagine su mafia e appalti su cui stavano lavorando in gran segreto prima Giovanni Falcone e poi il giudice ammazzato in via D'Amelio, e che fu poi insabbiata? Perché il Ros del generale Mario Mori e del colonnello Giuseppe De Donno, oggi sotto processo a Palermo, incontrò Vito Ciancimino? Questa è la storia degli eroi che volevano arrestare i sanguinari boss corleonesi Riina e Provenzano durante le pagine più buie della nostra Repubblica.

In libreria un testo che riscrive la storia giudiziaria della Sicilia e (forse) dell'Italia intera per dimostrare che il processo di Palermo a Mancino, Mori & co. è solo un gigantesco errore investigativo. L'autore? E' un carabiniere che ha scritto un libro partendo da un fascicolo segreto finito nelle mani di Falcone e Borsellino, scrive Federica Giorgio il 21 agosto 2017 su "TGNews 24". «Oltre la trattativa» c’è la scommessa dell’autore: scrivere un libro per suggerire, ben prima dell’uscita della sentenza, che il processo al presunto accordo tra politica, carabinieri e Cosa nostra è, in realtà, un processo inutile. Oltreché dannoso perché ha allontanato gli investigatori dalla vera pista che Vincenzo Zurlo, carabiniere a sua volta, indica con nome e cognome. E che noi tacciamo per invitare alla lettura di un libro che, al netto di qualche incertezza nello sviluppo logico della narrazione, è scorrevole e ben scritto. Un piccolo aiutino però possiamo darlo a quanti sono appassionati al tema: prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino hanno avuto tra le mani un esplosivo dossier, confezionato dal Ros di Mario Mori e del capitano Ultimo, che i mafiosi seguaci di Binu Provenzano e Sasà Riina temevano più di tutti. Un dossier che consentiva allo Stato (la parte buona, verrebbe da dire) di mettere le mani nelle tasche dei mafiosi per «alleggerirli» dei tesori e della potenza economica che, in trent’anni di silenzio, erano riusciti ad accumulare. È questo il dossier, archiviato peraltro pochi giorni dopo l’attentato di Via D’Amelio, che Zurlo mette nel mirino incrociando, da investigatore qual è, informazioni frammentate e raccolte in centinaia di faldoni di atti processuali collegati.

Il libro “Oltre la trattativa” di Vincenzo Zurlo. Un libro coraggioso non tanto e non solo per il contenuto quanto per la tempistica: se il processo sulla Trattativa reggesse alla prova del giudice, questo libro perderebbe di efficacia. Se invece andasse come scritto nel testo, allora bisognerebbe togliersi il cappello davanti all’autore e all’editore, la Iuppiter di Napoli.

"Oltre la trattativa". Le verità nascoste sull'assassinio del Giudice Borsellino, scrive "5 righe". Una pista alternativa per spiegare la stagione delle stragi del 1992, quando l’Italia e il mondo intero hanno conosciuto l’orrore e la follia assassina dei bombaroli di Cosa Nostra.  “Oltre la trattativa-Le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie” scritto daVincenzo Zurlo per i tipi di Iuppiter Edizioni, con la prefazione del direttore di Panorama Giorgio Mulè, racconta quella che potrebbe essere la verità alternativa al processo che si sta celebrando a Palermo, che vede imputati il gotha della mafia corleonese e gli uomini delle istituzioni che lo hanno sgominato, a cominciare dal generale Mario Mori, ex comandante del ROS ed ex direttore del Sisde. Un testo che unisce all’agilità della narrazione l’accuratezza e la ricercatezza del dettaglio dell’indagine giornalistica. Una ricerca che va oltre le ipotesi, assai fragili, del teorema della trattativa tra Stato e mafia, per spiegare quello che potrebbe essere il vero movente, secondo l’autore dell’omicidio di Paolo Borsellino. Se c’è una traccia da seguire, per Zurlo, e che è stata colpevolmente abbandonata per inseguire i fantasmi di un ipotetico accordo tra carabinieri e mafiosi, questa traccia va nella direzione della informativa su mafia e appalti. Un verminaio dove hanno stretto sì accordi uomini d’onore - o meglio del disonore - ma con politica e imprenditori più o meno collusi.  Uno scenario investigativo a cui lavoravano prima Falcone e poi Borsellino, ma che non è mai stato realmente approfondito e sviluppato per il suo esplosivo potenziale giudiziario. L’interrogativo principale che si prospetta per il lettore, messo puntualmente al corrente dei fatti dall’autore è: quanto è credibile un’inchiesta, come quella sulla trattativa, che viene smentita, in altri atti, proprio da quelli che sono i testimoni eccellenti del tempo? E come mai la pubblica accusa, pur al corrente dei fatti, ignorerà questi importanti e pratici indizi per seguire delle affascinanti chimere? Oltre la trattativa è una controinchiesta che ha il merito di ricostruire quanto fatto nelle sedi giudiziarie, continentali e non, in cui si sono dibattute vicende di mafia dell’ultimo quarto di secolo. Nasce quindi dallo studio di migliaia di atti processuali, che al pari di un mosaico denso di dettagli consegna uno spaccato inquietante anche -e soprattutto- del mondo di quella magistratura ostile agli eroi Falcone e Borsellino.

Vincenzo Zurlo è laureato in giurisprudenza e specializzato in criminologia forense. E’ un sottufficiale dei carabinieri che ha fatto parte del ROS, il gruppo che arrestò Totò Riina e gli altri capi della cupola corleonese. Nel 2013 ha fondato l’associazione LegalmenteItalia, che porta nelle scuole progetti legati alla cultura della legalità e al rispetto delle regole.

“Oltre la trattativa” di Vincenzo Zurlo: le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie, scrive Massimo Martini su "Magazine sicurezza" il 23/08/2017. “Quello che leggerete nelle prossime pagine è molto più di un libro: è un’opera di verità. Un’opera coraggiosa perché si incarica di risalire controcorrente un fiume dove sono passati e continuano a scorrere, perché con la forza dei fatti supera le rapide insidiose dell’omologazione, perché con il rigore della ricostruzione storica non teme di infrangersi nelle rocce a pelo d’acqua della delegittimazione”. Così si apre la prefazione di Giorgio Mulè, direttore di Panorama, al libro di Vincenzo Zurlo “Oltre la trattativa -Le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie”. Come un attento timoniere, in rotta verso la verità in un mare di atti giudiziari, Zurlo, come sottolinea Mulè riesce a non essere “risucchiato dai mulinelli più pericolosi intorno ai fatti di mafia e dell’antimafia: la distorsione della realtà”. Sì, perché da quel lontano 1992, che strappò alla vita e alla lotta contro il Male nazionale, la mafia, prima Falcone e poi Borsellino, le acque hanno fatto in tempo a intorbidirsi, la verità a esser contesa tra i venti di una narrazione più necessaria che aderente alla realtà dei fatti. “E’ alla fine degli anni ’80 che bisogna iniziare il viaggio” scrive ancora Mulè “per comprendere quello che accadrà nell’estate del 1992. E’ necessario iniziare da giovedì 21 settembre 1989 quando Giovanni Falcone interroga l’ex sindaco di Baucina, un piccolo paese in provincia di Palermo. Si chiama Giuseppe Giaccone, uno stimato professore universitario di algologia con un passato da sacerdote: è un democristiano e quando si presenta a Falcone è un uomo terrorizzato.” Cosa teme l’ex sindaco Giaccone? Perché si reca risoluto dai carabinieri di Palermo della Caserma Carini, lì dove gestisce le operazioni un “signor” colonnello Mario Mori? Le sue rivelazioni, “l’alpha della tangentopoli italiana”: i meccanismi opachi che costeggiano l’aggiudicazione degli appalti pubblici, daranno vita a uno straordinario lavoro, condotto da Giovanni Falcone con il contributo di Mori e De Donno. Da quel fascicolo ripartirà, dopo la strage di Capaci, Borsellino, trovando a sua volta la morte. Mulè, cronista di “nera” del giornale di Sicilia ai tempi delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ricorda come l’informativa mafia-appalti, redatta da Mori e De Donno, venne colpevolmente tralasciata sin dall’inizio, par far strada alla presunta trattativa stato-mafia, al centro del “processo del secolo”, in corso a Palermo. Il direttore di Panorama non esita a definirlo, con Zurlo: una farsa, concludendo con logica disarmante e fiducia nel futuro: “L’autore non ha la necessità di assumere l’onere della difesa, paradossalmente è l’accusa la sua migliore arma: perché non solo è contraddittoria e illogica, ma surreale. La storia dirà che il processo show e il processo “farsa” si riveleranno per quel che sono: un’impostura. E insieme il più grande affronto agli eroi dell’antimafia, a coloro che sono stati uccisi e a quelli sopravvissuti ai quali però è toccato vivere il tempo lurido dell’infamia”.

Quella zona grigia dove lo Stato scarica i suoi eroi. Da Mori a Ganzer, da Ultimo a Pollari: gli uomini dello Stato nell'ora del bisogno abbandonati al loro destino, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". È la frontiera più difficile. Perché chi la supera lo fa a suo rischio e pericolo. In modo clandestino. E però è proprio lì, spesso solo lì, in quella zona grigia, una terra fangosa per definizione, che lo Stato, anche il nostro sgangherato Stato, tenta di tenere a bada i suoi nemici più pericolosi: la mafia, anzi le mafie, perché in Italia c'è anche il federalismo criminale, il terrorismo. Anzi, pure qui, a grappolo, i terroristi: una volta le Brigate rosse, oggi i tagliagole nati dal big bang di al Qaida. Chi si avventura in quel paese finisce inevitabilmente con lo sporcarsi le mani. Anzi, il rischio è quello di sprofondare letteralmente nella palta. Accordi indicibili. Informazioni ottenute a caro, carissimo prezzo. Violazione delle norme. Il catalogo degli strumenti utilizzati per sconfiggere o almeno rallentare quelle trame assassine è lungo e poco elegante. Ma si sa, la guerra si fa come si può, specialmente se hai davanti boss o kamikaze che non controllano Stati, non sventolano bandiere ma drogano l'economia, sciolgono i corpi nell'acido, tagliano le teste, minacciano la nostra civiltà. Chi oltrepassa quella linea invisibile si ritrova ricoperto di guano, ma al ritorno a casa, magari dopo aver centrato l'obiettivo, deve poi giustificare quello che giustificare si può, ma fino a un certo punto. Siamo un Paese strano. In bilico fra eroismo e tradimento, fra orgoglio e vergogna. Anzi, diciamola tutta: i nostri agenti segreti, i nostri poliziotti, i nostri militari partiti per quelle lande oblique rientrano spesso fra polemiche, processi, avvisi di garanzia. Con risultati paradossali: la magistratura che indaga sui servizi che indagano sugli estremisti della jihad; i carabinieri che hanno catturato Totò Riina inquisiti per non averlo catturato prima. E poi tutto un saliscendi di sospetti, misteri, dietrologie. Sembra una filastrocca maligna. Un gioco del domino sfasciatutto. Gli italiani in prima linea, anzi oltre la prima linea, non ricevono medaglie e se cadono sul campo non vengono sepolti in un cimitero degli eroi che da noi, del resto, non c'è. Chi va, chi va oltre non viene coperto, non viene tutelato, al momento del bisogno viene abbandonato come un furfante al suo destino. Deve districarsi da solo fra avvocati, carte bollate, interrogatori umilianti. Non vogliamo difendere dietro uno scudo paratutto tutto quello che è accaduto nella storia patria, ci mancherebbe. C'è stata una stagione, per fortuna superata, quella delle bombe, delle complicità o delle connivenze fra Stato e antistato che richiama dolorosamente una memoria di sangue. Piazza Fontana. Piazza della Loggia. La mattanza della stazione di Bologna. E non vogliamo neanche semplificare e cancellare con un tratto di penna partite complicate, multistrato, con tanti attori in campo, come la trattativa, ma sarebbe più corretto dire le trattative fra Stato e Cosa nostra. Ma uno Stato, anche il nostro, dovrebbe fissare principi chiari e semplici e dovrebbe difendere i servitori che l'hanno servito, per finalità Superiori, con la S maiuscola, oltre le leggi, oltre i codici, oltre le nostre certezze quotidiane. C'è una terra, quella terra, in cui il galateo è un libro sconosciuto. Laggiù, lontano ma a volte molto più vicino di quanto possiamo pensare, si tratta solo alzando la voce, riempiendo zaini di banconote, a volte mostrando le armi. Non c'è niente, o quasi, mettiamola così, che non si possa fare se lo Stato abbia pesato i pro e i contro. E stabilito che quella è l'unica via per scongiurare rischi tremendi, pericoli immani, scenari apocalittici. Inutile nascondersi come lo struzzo sotto la sabbia dell'ipocrisia. L'importante è non procedere in modo cialtrone, all'italiana, con una mano che finge di non conoscere l'altra. Decisivo è che chi riceve un mandato lo esegua anteponendo il bene comune, quello della collettività, al tornaconto personale, o peggio al salto dall'altra parte della barricata. È, dovrebbe essere, questo il criterio, la bussola, la stella polare pur nella notte e nelle tenebre della realtà contemporanea. Poi si possono fare scelte di un tipo o dell'altro. L'America, per intenderci, non paga un dollaro bucato ai fanatici dell'Isis e lascia morire, fra indicibili orrori, gli ostaggi; ma poi il presidente Obama in persona autorizza il lancio di droni che fanno a pezzi i soldati del califfo e lo stesso Obama ha seguito in diretta dalla situation room l'eliminazione di Bin Laden. Da noi probabilmente l'avrebbero indagato. Così mandiamo i nostri alfieri negli avamposti più lontani, poi magari li condanniamo in Corte d'assise. Per salvare la faccia, la perdiamo definitivamente.

La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…,scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato.

Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario.

L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione.

L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale?

La mafia, raccontata così, ci rende nervosi. Ecco perché. Intervista a Isidoro Meli, autore del romanzo "La mafia mi rende nervoso" (Edizioni Frassinelli), scrive Joseph M. Benoit il 16 Luglio 2016 su "La Voce di New York". Meli: "Mi dà molto fastidio la narrazione sulla mafia... gli eroi dell'antimafia, trattati alla stregua di santi, e la mafia descritta come la piena incarnazione del male. E' una rappresentazione ipocrita della realtà, che allontana dalle responsabilità collettive sulla mafia stessa. Provenzano? I capi in Italia non comandano, mediano". Il romanzo di Isidoro Meli, giovane palermitano, colpisce il lettore già dalla copertina. La combinazione di un telecomando della playstation e il tema della mafia fa sperare che scriva ai giovani in un modo che parte dalle loro sensibilità. Seguendo quella tradizione sana che va da Sciascia a PIF, Meli reagisce contro la confusione creata dalla rappresentazione commerciale e la bigotteria culturale nella quale il tema mafia è stato spesso avvolto. Al dubbio tremendo che non si muova mai niente e non si cambi mai nessuno, Meli risponde con cosa ne possa pensare oggi un giovane che è stato cresciuto con quell’inutile e dannosa agiografia. Vittorio Mazzola, voce narrante di questo romanzo, racconta la storia di Tommaso Traina, il figlio muto di un mafioso ucciso dai compari, i quali per compensare la famiglia della perdita, lo assumono come portapizzini. L’ennesimo libro arriva con un tema sovraesposto? No, La mafia mi rende nervoso (edizioni Frassinelli, 2016) non è sulla mafia. Questo libro è contro la rappresentazione della mafia fornita dai mass media da mezzo secolo. L’autore è cresciuto in quell’atmosfera. Lui preferisce uno stile un po’ fumetto e brioso che fa ridere. Finisce con un pensiero toccante per la sua auto-consapevolezza. Questo è il regalo ideale per quei giovani lettori rimasti.

C‘è stata una causa particolare che l’ha spinta inizialmente a ideare questa storia?

“Avevo letto un libro sulla mafia, non ricordo più il titolo, e credo abbia poca importanza: era l’ennesimo libro sulla mafia pieno di stereotipi e retorica. Ricordo che insisteva molto sul profondo valore arcaico dell’uso dei pizzini e al contempo sulla sua efficacia. Io ho sempre trovato l’uso dei pizzini antiquato, inutile e ridicolo. Così ho pensato di scrivere una storia, che all’inizio doveva essere una rappresentazione teatrale sullo stile della classica commedia degli equivoci alla Plauto, su un tizio che scambiava i pizzini: li faceva arrivare ai destinatari sbagliati o ne cambiava direttamente il testo, generando appunto una serie di equivoci e situazioni esilaranti. Poi, non avendo esperienza di scrittura teatrale, ho preferito scrivere un romanzo”.

Il libro colpisce a vista. Infatti, i tema del romanzo sono tutt’altro che della solita stoffa sul discorso. E’ giusto dire che le dispiace l’odierno trattamento pubblico del discorso almeno quanto il fenomeno stesso?

“No, è eccessivo. La narrazione sulla mafia mi dà molto fastidio, ma non quanto la mafia stessa. Mi dà fastidio l’eccesso di retorica, il continuo appoggiarsi a dicotomie – gli eroi dell’antimafia, trattati alla stregua di santi, e la mafia descritta come la piena incarnazione del male. E’ una rappresentazione ipocrita della realtà, che allontana dalle responsabilità collettive sulla mafia stessa. Pif spiega molto bene il concetto nella puntata de ‘Il Testimone’ dedicata a Roberto Saviano: rappresentare gli uomini e le donne che lottano contro la mafia come eroi senza macchia o santi, è un modo per deresponsabilizzarci tutti: per affrontare la mafia devi essere una persona speciale. Invece no, sono persone come noi, con pregi e difetti, vizi e virtù. Sono persone normali che si assumono le loro responsabilità. La rappresentazione di questi soggetti come eroi, come speciali, ha anche un’altra funzione: nel momento in cui viene fuori un loro tratto umano – un difetto, un vizio, una colpa, un errore, in parole povere una ‘macchia’, è possibile distruggerli interamente, cancellando anche quanto di buono hanno fatto, nei loro limiti. La vicenda recente di Pino Maniaci è un esempio perfetto. Ma anche il clima che si è creato intorno a Saviano: come se determinati atteggiamenti che assume (il ruolo di pulpito, alcune forme di egocentrismo) possano cancellare l’importanza e il valore del suo primo romanzo”.

In un esempio di rappresentazione v. la realtà, Leonardo Sciascia; il suo pensiero, il suo messaggio, la sua reputazione, sono stati spesso strumentalizzati e stravolti dall’episodio dei professionisti dell’antimafia. Cosa ne pensa di quella storia che investì in modo particolare il giudice Borsellino?

“E’ un discorso molto complesso. Sciascia in quell’articolo criticava le modalità con cui Borsellino era stato nominato procuratore della repubblica di Marsala al posto di un altro giudice – il dott. Alcamo – che lo precedeva in graduatoria. La nomina faceva riferimento a competenze ‘particolarissime’ che inducevano in via eccezionale a preferire Borsellino. Sciascia vedeva in questa eccezione il rischio di una concessione enorme e non controllata di potere e, soprattutto, la creazione di un pericoloso precedente. E nell’articolo faceva riferimento a come, negli anni ’20, la categoria antimafia fosse stata utilizzata da una parte del partito fascista – la più conservatrice – per rimuovere la fazione avversa, di origine socialista. Che dire? La vicenda di Borsellino dimostra che le competenze particolarissime evidentemente sussistevano, e che la sua nomina era funzionale alla lotta contro la mafia, e da questo punto di vista l’articolo di Sciascia sarebbe da considerare come un rigurgito reazionario. Diverse vicende successive, di abusi di potere da parte dell’antimafia, dimostrano come i timori di Sciascia fossero fondati. Non credo sia necessario schierarsi da una parte o da un’altra anzi, credo sia proprio deleterio perché superficiale. Credo sia fondamentale conoscere, approfondire, capire le ragioni che giustificano le singole posizioni e scelte.

Nella sfera umana della Sua vita privata, ha avuto delle esperienze notevoli con la dinamica della rappresentazione contro la realtà del fenomeno mafioso.

“Sì. Ho avuto cognizione di situazioni in cui ciò che era rappresentato non corrispondeva al vero.  L’esempio più semplice che mi viene in mente è il modo in cui è cambiata radicalmente la rappresentazione del rapporto tra la città di Palermo e Falcone e Borsellino dopo le stragi, come provo a spiegare alla fine del libro. E’ facile accusare la mafia di avere diffuso ad arte maldicenze e calunnie su di loro. Ma è una mezza verità. La mafia avrà anche gettato i semi, ma ha trovato terreno fertile. Palermo non ama chi prova a cambiare le cose. E’ un difetto grave della mia città. Tutti i luoghi e le comunità hanno difetti, e non c’è niente di male. Basterebbe ammetterlo, riconoscere i propri errori e provare a migliorarsi, poco a poco. La beatificazione di Falcone e Borsellino che viviamo da 25 anni non serve a questo, serve più che altro ad ignorare il problema. I miti servono sempre a falsificare la realtà. C’è ovviamente del buono, venuto fuori dopo le stragi, una presa di coscienza del problema da parte di frange della popolazione, e anche una sua esternazione (che prima era del tutto assente). Ma è ancora poco. Meno di quanto non sembri”.

Altro esempio di rappresentazione v. la realtà, secondo Lei, Provenzano è morto con segreti gravissimi che non ha rivelato, oppure lui forse non era quel capo di tutti i capi sbandierato dai più, dato che quei segreti non sono riusciti a salvarlo dalla morte in galera, che di solito non avviene mai per i veri boss (vedi Lucky Luciano, Carlos Marcello, ecc.).

“Questa domanda presuppone un approccio diffuso e secondo me errato, che ho notato anche in questi giorni, soprattutto su Facebook, in relazione alla morte di Provenzano: presuppone che la mafia sia la roba un po’ da fumetto che ci hanno raccontato, una ditta individuale in cui il capo comanda e ha dei sottoposti che eseguono, come una specie di banda bassotti in grande. Ma io non credo funzioni così. Io credo che la mafia sia un organismo basato sulle relazioni. I presunti vertici di turno sono quelli in un determinato momento più abili a gestire quelle relazioni. Ma l’organismo, la mafia, non dipende da quel vertice, e le decisioni non le prende il vertice. La cosa che ho notato di più in questi giorni, su Facebook, sono i post in cui si legge una reazione emotiva forte contro Provenzano. Lui, mandante di stragi di stato, di omicidi efferati e bimbi squagliati nell’acido. Finalmente è morto, finalmente arriva l’inferno per lui. Lo capisco. E’ normale. Quelle decisioni, lui, ce le ha nel sangue. Ma prendersela con Provenzano è come prendersela con l’AD di Shell per i massacri perpetuati in Nigeria. Li ha fatti Shell, non il suo AD. Il sistema non è fatto in modo tale da mettere ai vertici persone con idee difformi da quelle che alimentano il sistema. Non ci fosse stato Provenzano, ma un altro, sarebbe andata allo stesso modo. Si porta dei segreti nella tomba? Certo. Tutti noi ce ne portiamo. Non era in realtà il capo? Boh, c’è un capo? C’era forse, in parte, nella mafia americana. Ma l’America è un paese in cui la democrazia funziona, si gioca abbastanza allo scoperto. E allora escono i Lucky Luciano e i Gambino. Ci si sfida apertamente, chi vince comanda. E’ una democrazia basata sulle regole. L’Italia è una democrazia basata sulle eccezioni, in cui non vince chi ha più voti/potere, vince chi li usa meglio. Voglio dire, vale anche nel calcio. L’Italia non è mai più forte. E’ più sveglia. I capi in Italia non sono i più bravi a comandare, ma i più bravi a mediare”.

Le scelte tecniche della struttura del racconto ci sembrano del tutto originali in confronto alla marea di materia in tema. Queste scelte le sono venute spontanee o sono state piuttosto travagliate?

“Abbastanza spontanee. La prima stesura conteneva già gran parte di quello che è stato pubblicato. Gli interventi successivi sono serviti a bilanciare maggiormente gli ingredienti – il peso della voce narrante, o della figura del poliziotto. L’unica scelta che ha richiesto riflessione e un certo travaglio personale è proprio l’intervento, estremamente autobiografico, sulla morte dei due giudici, perché è – con tutti i limiti dettati dalle circostanze – un ammissione di colpa. E una richiesta di scuse. Cose che senza un travaglio interiore a monte, non valgono niente”.

Falcone e quella storia che non sarà ricordata. Quella volta che incontrai Giovanni Falcone dopo che la mafia uccise tre donne, scrive Sciascianamente Valter Vecellio il 27 Aprile 2017 su "La Voce di New York". Il 23 maggio saranno venticinque anni che Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta venivano uccisi dal tritolo della mafia all’altezza di Capaci. Lo celebreranno, Falcone. Fiumi di parole, discorsi, dichiarazioni. Nessuno parlerà di come lo trattarono quando era in vita Falcone. Palazzo di Giustizia di Palermo era – come è – quel grande edificio di stile razionalista, progettato dagli architetti Ernesto e Gaetano Rapisardi negli anni Trenta del Novecento, nel solco e nella tradizione della corrente tipica del regime fascista. L’appuntamento è per la tarda mattinata, mezzogiorno. All’entrata un usciere mi indica un corridoio sulla destra. Alla fine del corridoio una stanza, un tavolo, un poliziotto che da ore non deve aver chiuso occhio e ora, crollato, dorme. Sonno profondo, tutto il mio tossicchiare è vano. Mi siedo in un angolo, attendo. Penso: potrei metterci una bomba, mettermi a sparare, portare via qualcosa, indisturbato. Passano i minuti, il poliziotto torna in sé. “Lei che cosa fa qui?”, domanda ancora assonnato. “Ho un appuntamento con il dottore”.

“Il dottore”, fa il poliziotto, “è dovuto andare di corsa, c’è stato un delitto; farà tardi…”.

“Non importa. Se posso lo attendo…”.

“Faccia pure”. Il poliziotto non mi degna di uno sguardo. Non mi chiede documenti, non si preoccupa di quello che posso avere con me; neppure chiede perché voglio vedere e parlare con il “dottore”.

Devo avere un aspetto molto rassicurante, penso. Oppure… Un paio d’ore dopo, il “dottore” arriva. Chiede scusa per il ritardo, non c’è stato un delitto, c’è stata una strage, hanno fatto fuori tre donne, Leonarda, Vincenza e Lucia, la madre, la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia, il “chimico” di Cosa Nostra capace di trasformare quintali di morfina base in miliardi. Qualcuno ha saputo che aveva cominciato a “cantare”, e uccidendo le tre donne ha provato a farlo tacere.

Il “dottore” è stanco, sono ore che è sotto pressione. “Se vuole, rimandiamo”, propongo. “No, cinque minuti per un caffè e parliamo”.

E’ Giovanni Falcone, il “dottore”, e quella è la prima volta che lo incontro, che gli stringo la mano. Mi concede il pomeriggio, per parlare di mafia, e per spiegare quello che per lui è chiarissimo e a me risulta oscuro. Lo incontrerò poi altre volte; una volta al Consiglio Superiore della Magistratura; altre volte in scali d’aeroporto: a Zurigo, a Sofia, a Parigi. Lui era già all’Ufficio Affari penali, portatovi dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, dopo che a Palermo per Falcone l’aria si era fatta irrespirabile: per colpa dei mafiosi, ma anche a causa del lavoro ai fianchi di tanti colleghi magistrati che lo vedevano come polvere negli occhi. Ogni volta la promessa di vederci con calma, per sapere qualcosa di più di una famiglia mafiosa che da sempre mi intriga, il clan dei Caruana-Cuntrera, partiti da Siculiana e ora sparsi in mezzo mondo, droga e ogni sorta di “affari” purché procurino denaro. Perché questi ricordi? Tra qualche giorno saranno venticinque anni che Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, tre uomini della scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani), venivano uccisi dal tritolo mafioso fatto esplodere all’altezza di Capaci. Lo celebreranno, Falcone. Fiumi di parole, discorsi, dichiarazioni. Avesse la possibilità di vedere quello che accadrà, ne sorriderebbe: quel suo sorriso ironico, accompagnato magari da una scrollata di spalle. Un anno indimenticabile, il 1992: ad Agrigento la mafia ha già ucciso Giuliano Guazzelli, detto il “mastino”; e poi l’esecuzione del discusso parlamentare democristiano Salvo Lima; e altre volte toccherà andare: per la strage di via D’Amelio, dove è il fraterno amico di Falcone Paolo Borsellino, ad essere ammazzato; e poi l’intoccabile Ignazio Salvo…  Un altro poliziotto di valore, Rino Germanà, si salva miracolosamente a settembre, dai colpi di kalashnikov esplosi da Leoluca Bagarella… Una interminabile stagione di sangue e di piombo, come se qualcuno, d’un tratto volesse liberarsi di “amici” ormai diventati ingombranti, pericolosi; e di avversari che coniugavano sapere, capacità di capire, irriducibile impegno perché legge e diritto non siano parole prive di senso. Con l’avvicinarsi al 23 maggio sarà un crescente coro di “bravo”, “sagace”, “unico”. Falcone, beninteso, era davvero bravo, sagace; purtroppo unico: siciliano di quella Sicilia dolente e consapevole che conosce il sugo del sale, a cui tutti devono gratitudine; ha onorato il nostro paese nel mondo, e il mondo ci ha invidiato. Si leggeranno e si ascolteranno tante cose di e su Falcone. Molto si preferirà tacerlo, dimenticare, omettere. Non per caso. Un passo indietro: 21 giugno 1989. Sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza in pace, si scopre una borsa imbottita di candelotti di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Un attentato, dice Falcone, concepito da menti raffinatissime. Ma c’è chi giunge a insinuare che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità. Tommaso Buscetta, quando decide di “pentirsi” e raccontare le sue verità, a Falcone dice: “Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai”. Cosa Nostra, paziente, aspetta. Aspetta e uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà vice-dirigente della squadra mobile… Per paura di nuovi attentati Falcone, Borsellino e le loro famiglie vengono trasferiti all’Asinara; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato presenta il conto: 415mila 800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno. Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsissima esperienza di mafia. A favore di Meli e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti del CSM eletti nelle liste di “Magistratura Democratica”. Uno dei due, Elena Paciotti, poi viene candidata ed eletta dal PCI al Parlamento Europeo. Meli, appena insediato, smantella il pool, teorizza che tutti devono fare di tutto. Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino, l’amico fraterno, si ribella, rilascia interviste con accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, costretto a doversi difendere al CSM. Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia; lo bocciano. Si candida al CSM, i suoi stessi colleghi non lo votano. E’ la stagione delle lettere anonime del “corvo”: è accusato di gestione discutibile e disinvolta del “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine si raggiunge quando Leoluca Orlando e altri leader della Rete, lo accusano di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. E’ costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di dirigere gli Affari penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Sono in pochi a difenderlo: Martelli e i socialisti; Marco Pannella e i radicali…

Infine la procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato, il CSM lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che aveva firmato un documento, assieme ad altri decine di colleghi, in cui si individua la Procura Antimafia come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del CSM designato dall’allora PCI, firma sull’“Unità” un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l’amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Il 13 luglio rivela: “So che è arrivato il tritolo per me”. A due colleghi magistrati confida, in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Il 19 luglio, due minuti prima delle 17 un’autobomba lo uccide a via D’Amelio assieme ai cinque uomini della scorta. Andava a trovare la madre.

Diceva Falcone: “Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite; poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo, poco tempo per riaffermare la nostra professionalità. Dopodichè tutto verrà dimenticato. Di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi devono essere continuamente aggiornati”. Palermo è davvero la città irredimibile di cui parlano Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino? C’è una frase di Falcone che invita ciascuno a fare il proprio dovere, la prima resistenza contro il potere e la violenza mafiosa. Sciascia con largo anticipo comprende come stanno le cose, e indica una strada. Eppure per qualcuno lo scrittore coltiva l’idea che la mafia non sia “quell’organizzazione pericolosa che Falcone aveva scoperto”. Davvero? Proprio Falcone non era d’accordo: intervistato da Mario Pirani per “La Repubblica” nell’ottobre del 1991, il magistrato dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. In altre occasioni sostiene di essersi formato anche attraverso i suoi libri. Quel Falcone che una volta morto tutti celebrano, e che quand’era vivo veniva accusato di aver “disertato”, di aver lasciato il palazzo di Giustizia di Palermo per un “comodo” posto di Direttore agli Affari Penali a Roma, di essersi venduto ai socialisti. Istruttiva la lettura di un brano del libro “I disarmati” di Luca Rossi. Riporta una cruda “riflessione” ad alta voce di Falcone: “…Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini; e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello lì che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa…”. Tutto questo difficilmente sarà ricordato e raccontato.

La Mafia e i suoi boss raccontati da chi ci ha vissuto accanto. Intervista del 22 ottobre 2016 di Stefano Vaccara su "La Voce di New York" con Serge Ferrand, giornalista francese autore del libro "Parla il numero uno di Cosa Nostra". Bonfirraro editore pubblica il libro di un giornalista-scrittore francese che afferma di aver vissuto per anni in Sicilia da contadino lavorando la terra del "lupo": il capo di tutti i capi della mafia che gli avrebbe fatto rivelazioni esplosive - Andreotti e Craxi capi di Cosa Nostra? Armi biologiche? - Ma chi è Serge Ferrand d'Ingraodo? Lo abbiamo intervistato. Avvertiamo subito il lettore che si accinge a leggere questa intervista di tenersi forte. Forse quello che Serge Ferrand, scrittore e giornalista francese, ci racconta sulla mafia è troppo per essere ritenuto credibile. Forse Serge è un impostore. Forse l’editore Bonfirraro ha rischiato troppo a pubblicare il suo Parla il numero uno di Cosa Nostra e noi, dopo averlo letto in anteprima, a procedere con questa intervista. Forse… Eppure potrebbe essere anche vero il racconto di un giornalista in carriera in Francia che oltre trent’anni fa abbandona tutto per trasferirsi in Sicilia. Nell’isola dove era arrivato la prima volta da inviato de Le Figaro Magazine per scrivere sull’omicidio eccellente del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre 1982. Abbagliato dai misteri della Sicilia, Ferrand prende la decisione di rimanerci, per sempre. Ecco noi abbiamo deciso, come l’editore Bonfirraro, di andare avanti e ascoltare la storia che racconta Serge Ferrand. Il dubbio resta, ma pensiamo sia doveroso raccontarvela e se continuerete a leggere, allora tenetevi forte. Prima di tutto le credenziali: Ferrand non è un giornalista “normale”. Negli anni Settanta e Ottanta in Francia conduceva inchieste diventando coloro che erano il focus dello studio. I suoi sono libri di cruda realtà vissuta, Ferrand si mimetizza con coloro di cui scrive, per raccontarli scava nell’anima dei suoi soggetti vivendogli accanto. Come accade con la vita dei canzonieri di strada a Parigi nel suo libro d’esordio Le Busker, o a contatto degli agenti dei servizi di sicurezza nel libro in cui si annuncia la guerra che verrà per le strade di Parigi, 25 anni prima degli attacchi dell’ISIS.  Ma lasciamo che lui si presenti ai lettori de La Voce di New York: “Sono conosciuto in Francia per avere scritto quattro libri, Le Busker (Laffont 1979), Les Hommes de main (Michel, 1981), Aux order du S.A.C., con Gilbert Lecavelier  (Michel 1982) e Demain la guerre civile? (1991), con Charles Pellegrini, ex capo dell’Antigang. Sono stato anche grand reporter del Figaro Magazine, giornalista a Minute, e direttore del L’Officiel Protezione/Sicurezza. Prima avevo studiato con il sociologo Lucien Goldmann (che non mi piaceva) e soprattutto un po’ più di tre anni con il filosofo Emil Cioran (che mi piaceva molto). Nella realtà, ho studiato più di nove anni. Chiaro, non sono un scemo francese un po’ suonato (ding-dong, ding-dong!) venuto in Sicilia a inventare cose impensabili per un pubblico italiano completamente idiota. Capito?”

Ferrand è nato in Algeria, 71 anni fa, in famiglia una bisnonna siciliana vissuta abbastanza a lungo per affollare i ricordi del fanciullo Serge. “Mafiusu mi chiamava la mia bisnonna siciliana in Algeria. Io non comprendevo perché. Poi ho capito che nel dialetto siciliano, mafiusu e mafia non sono la stessa cosa…”. Quindi l’attrazione fatale, irresistibile per la Sicilia, un richiamo di sangue che gli fa lasciare tutto, anche una bellissima innamorata che aveva a Parigi, che durante parte dell’intervista condotta via skype, ci mostra in fotografia. Nell’isola l’unico lavoro che trova è quello del contadino. Lui, un giornalista e scrittore affermato, a spaccarsi la schiena per la terra d’altri. Già, strano, ma forse è un lavoro cercato, voluto… Perché poi si capisce che la zappa Ferrand la usa per coltivare la terra ma anche i rapporti con colui di cui poi scriverà, anni dopo, di essere il capo della mafia. Prima di inviargli delle domande via e-email e avergli chiesto dei chiarimenti via skype, abbiamo letto il libro. Un saggio durissimo, non solo provocatorio, avvolte offensivo nei toni come nello stile. In cui Ferrand proclama una sua versione di storia della Sicilia e di averne compreso l’animo del popolo siciliano. Dove Ferrand racconta del lascito delle dominazioni del passato e di quelle presenti, usando termini che in certi tratti sembrano razzisti, xenofobi. “Non sono di sinistra e non uso il politically correct” e aggiunge: “Ma non sono razzista o anti semita. Ero di destra sì, ma adesso queste categorie non valgono più”. Al lettore con la tentazione di voler leggere il suo libro, avvertiamo che il linguaggio di Ferrand è crudo, violento e dissacrante. Ma cosa c’è di strano, un libro sulla mafia non tratta di violenza, sopraffazione, morte? Sì ma Ferrand quel linguaggio lo riserva spesso anche per i nemici della mafia, organizzazione segreta che seppur spietata e capace di lastricare le strade siciliane di migliaia di vittime (Ce lo ripeterà spesso: “i morti ammazzati dalla mafia sono molti di più di quelli che si pensa”) alla fine dal suo scritto appare come se fosse un “male necessario”, un potere occulto che deve agire, che nella penna dell’autore francese appare giustificato nelle sue terribili azioni. Questa la nostra sensazione leggendolo il libro e di questo avvertiamo il lettore. Serge adesso dice di essere in pensione. Vive in una barca a vela di dieci metri, nel porto di Sciacca, provincia di Agrigento. Ma non ha vissuto sempre così. Fino a qualche anno fa viveva in un altra provincia, quella di Palermo, nella zona di Aspra. Dice che andava spesso nelle campagne attorno a Corleone. Che ha vissuto anche a Bagheria. E che quello che ha scritto nel libro, l’intervista che ha avuto con quello che lui chiama “il lupo”, ha inizio 15 anni fa. “Sono diventato amico e uomo di fiducia di colui che era il mio datore di lavoro. Lui sapeva che ero un giornalista-scrittore e ha cominciato a raccontare. Lui ora è il capo della mafia, ma prima lo era Bernardo Provenzano che ho conosciuto perché lo vedevo spesso con ‘il lupo’. Mi hanno parlato anche insieme, hanno raccontato molte cose. Ma allora non era il momento per scriverne…”. Prima di rispondere alle nostre domande, Serge Ferrand ci invia questa ulteriore prefazione. Come se volesse ancora indicarci cosa è la mafia. “Caro Stefano, innanzitutto una piccola, banalissima evidenza: cosa siamo? Degli uomini, certo, cioè persone che devono mangiare, bere, cagare, pisciare, fornicare e pagare le bollette. Soprattutto pagare le bollette… È un po’ quello che il "lupo" – così nominato non da lui stesso ma da Riina – ha avuto l’intelligenza di suggerire attraverso il suo discorso sulla merda (si trova in uno dei primi capitoli del libro, ndr). Anche tu devi pagare le bollette, e per questo c’è il bisogno per te di ‘adattarti; all’ambiente. Cioè – per il buono giornalista che sei – la necessità di essere (un po’ o molto) conosciuto senza mai scrivere cose sgradevoli a questo ambiente di uomini, donne e gente conosciuta e potente. Per questo motivo fai dell’antimafia il tuo modo di vivere; l’assegno della fine del mese e la tua carriera dipendono di questo piccolo, diciamo, dettaglio. So che hai capito di che sto parlando…” Forse abbiamo capito. Ferrand continua così. “Dunque la mafia, cosa è per te, per il mio editore e per tantissime persone in Italia, negli Usa e nel mondo? Un mondo criminale, costituito da micro-gangster incapaci di pensare minimamente, degli analfabeti senza cuore né sentimenti. Anche se ho trovato – strano che nessuno giornalista lo abbia notato! – delle ‘antiche’ frasi pronunciate da siciliani importanti che difendono i mafiosi e anche Sciascia ne ha scritte alcune; ma lui aveva già costruito la sua fama. Contro la mafia, evidentemente. Sì Stefano, così va il mondo, ti prego di non negarlo (questo mi farebbe ridere!). Ora risponderò alle tue domande”. Avete capito da che parte sta l’autore del libro? Per Serge Ferrand, che dice di aver vissuto al fianco dei mafiosi per anni, la mafia serve come per chi deve andare in bagno. Una necessità. Ecco la nostra prima domanda.

Dunque prima di tutto la domanda ovvia, sulla credibilità: perché dovremmo credere che questo vero capo di tutti i capi delle mafia, “il lupo”, esista veramente e che proprio tu abbia potuto fargli quelle domande e ricevere quelle risposte?

“Su quello che chiami credibilità… Sei un siciliano, mi hai detto, ma non so se hai veramente vissuto in Sicilia. Uno che direbbe – come l’ho fatto – che ha intervistato il capo di Cosa Nostra sarebbe morto da molto tempo se non fosse vero: questo è sicurissimo. Perché il ‘lupo’ mi ha fatto queste rivelazioni? Non lo so, ma penso che il fatto di avere lavorato la terra con lui per dodici anni mi ha (molto) aiutato. A proposito, è Riina che lo ha soprannominato ‘il lupo’”.

Dopo aver risposto a questa domanda con un “non lo so”, in una conversazione via skype, Ferrand aggiungerà: “Probabilmente per come stanno andando le cose nel mondo, per i disastri che si annunciano, la mafia ha deciso che valeva la pena farsi conoscere meglio. Ci sarà ancora bisogno del suo lavoro…”.

Apologia della mafia: alla fine della lettura del libro questa è l’impressione che resta, come se la mafia fosse necessaria e non solo all’Italia ma al mondo. È veramente questa la tua opinione?

“Apologia della mafia? Non veramente e ho spiegato perché: la mafia è una cosa, Cosa Nostra un’altra, anche se tutti fanno confusione, come me trent’anni fa. Ne parlerò nel mio prossimo libro. Un’altra cosa, sulla mia credibilità: quando usciranno le foto di me davanti a una decina di scheletri trovati in uno dei tanti buchi della montagna, questa credibilità sarà un fatto, non la fantasia malsana di un mitomane. Che la mafia sia una cosa necessaria? Penso di sì; è un modo di pensare e reagire molto siciliano. Cosa Nostra necessaria? Non lo penso, anche se penso che senza i suoi traffici illeciti, l’Italia del sud (ma anche quella del nord, con i suoi investimenti nelle grande imprese) sarebbe un entità direi, scheletrica”.

Nel libro si parla di terza guerra mondiale in arrivo: sarebbe questo il motivo per cui il “lupo” avrebbe deciso di raccontare alcuni “segreti”, come per avvertire di ciò che sta arrivando? E perché? Che ci guadagna la mafia ad avvertire che il mondo sta crollando?

“La guerra mondiale? Ma ci sono tanti libri che parlano di questa cosa (necessità?); se non li hai letti, che ci posso fare? Consigliarti di leggerli? Laurent Artur du Plessis e tanti altri. Perché il ‘lupo’ ne ha parlato? Non lo so, ma penso che sia una cosa importante, come le armi biologiche che possiedono in Germania e i miliardi di euro che ho visto in (soltanto) tre dei loro conti in Svizzera. E no, la mafia non ci guadagna niente, in questa guerra. Subirà, come te, come me, e milioni di altri”.

L’immagine della strage mafiosa del 29 luglio, 1983 a Palermo che uccise il giudice Rocco Chinnici (nella foto piccola)

Nel libro “il lupo” è un killer che in più di 40 anni uccide migliaia di persone. Da sconosciuti, ai grandi delitti eccellenti di mafia, da Mattarella a Chinnici, da La Torre a Dalla Chiesa, da Falcone a Borsellino. Insomma sempre la sua mano su tutto: possibile che su tutti i delitti ci sia sempre l’impronta di un unico killer, “il lupo”, ora a capo della mafia?

“Sì, il lupo uccide da tanto tempo (non era neanche adolescente quando ha iniziato); era la sua funzione in Cosa Nostra. Il suo bisnonno era il capo di Cosa Nostra nel mondo. Perché non si sa? Cosa Nostra è un organizzazione segretissima, amico mio, segretissima. Composta di strati impermeabili”.

Di tanti delitti il mandante finora era stato indicato Totò Riina, invece dal libro emerge un altro capo mafia responsabile di tutto. Don Saruzzo Di Maio prima e Bernardo Provenzano poi: il “lupo” sarebbe il loro killer fino a quando poi diventerà lui il boss. Riina sarebbe solo il capo di una fazione, violenta ma isolata… E neanche Matteo Messina Denaro, ritenuto da magistratura e media il capo ora latitante di Cosa Nostra, avrebbe un ruolo di protagonista… Se questo fosse tutto vero, chi ha interesse a diffondere che il boss sia stato Riina e che ora sia Messina Denaro? E perché la vera mafia non li sconfessa? Insomma potresti spiegare meglio questa faccenda della leadership…

“Sì, per tutti il capo si chiamava Salvatore Riina, ma il vero Capo era Sarridu di Maio, non Saruzzo, come dici. Cosa Nostra non si immischia mai nelle storie fantasmagoriche inventate dalla stampa, mai, assolutamente mai. Il nuovo capo si chiamerebbe Matteo Messina Denaro? Chi l’ha detto o scritto? I magistrati? La stampa? Allora è vero, confesso, è vero! Scherzo, naturalmente. Ho incontrato una decina di grandi capi dell’organizzazione quando Bernardo Provenzano ha nominato il ‘lupo’, e tutti – me lo ha spiegato quest’ultimo – erano incensurati. E non conosciuti come ‘mafiosi’ o legati alla mafia. La sua forza viene anche da questo minuscolo dettaglio”.

Nel libro è forte e presente un’opinione anti immigrati, anti musulmana, e spesso si sfiora il vero e proprio razzismo…. Non si capisce bene quando queste sono le posizioni del “lupo” e quando invece questi atteggiamenti ricalcano le convinzioni dell’autore. Insomma sembra che il pensiero qui coincida. Mi sbaglio forse? Vuoi spiegare meglio quando il pensiero del lupo coincide col tuo pensiero? Appare spesso, non solo sul problema immigrati…

“No, la mafia non è ‘razzista’, come dici. È un po’ come me, lei pensa che mescolarsi non sia una cosa tanto buona (un po’ quello che vediamo ogni giorno, ma che facciamo finto di non vedere). Né antisemita; molti ebrei sono ‘politicamente corretti’, ma alcuni politicamente scorretti, come Edward Luttwak in America e Eric Zemmour in Francia”.

Mafia siciliana e mafia americana: si parla nel libro del delitto di Enrico Matteie si accenna anche a quello dei Kennedy… Però, almeno sui Kennedy, sembra che il lupo abbia le idee confuse, parla di un delitto prima di JFK del “parente stretto” ma chi sarebbe?

“Mattei? Mi ha raccontato quello che ha fatto, niente altro. All’epoca, era un semplice soldato. JFK? Suo padre aveva fatto un patto con Cosa Nostra, per la vendita d’alcool, durante il proibizionismo, prima di investire in imprese legali. Il resto è nel libro, non so niente di più, visto che non conosco Cosa Nostra americana”.

Capi di governo come Fanfani, Andreotti, Craxi, nel tuo libro diventano capi di Cosa Nostra (che secondo il racconto sarebbe il braccio finanziario della Mafia). Invece che premier, il lupo li chiama capi di stato… Ma se fosse veramente stato così, come ti racconta il lupo, come mai uno come Craxi finisce per morire in esilio in Tunisia? Perché la mafia non lo protegge?

“Fanfani e gli altri? L’ho detto, punto e basta. Puoi credere quello che vuoi, ma è così. Craxi è morto solo? Scherzi, probabilmente. Ma era caduto, peccato per lui. Potrei darti altri nomi, ma non lo farò”.

Potresti rivelare qui qualcosa altro, che non c’è nel libro e magari lo renderebbe più credibile?

“No, non aggiungerò niente altro per il momento. Credibilità o non…”.

Poi Serge ci manda un ulteriore messaggio: “Quello che è vero è che i contadini hanno vinto la battaglia contro i ‘borghesi’ di Cosa Nostra. Te l’ho già spiegato: Cosa Nostra è composta di strati impermeabili. C’è – grosso modo – lo strato contadino, lo strato borghese, e lo strato finanziario, che si conoscono ma non si frequentano. Che cosa ha da fare un contadino con un uomo della finanza? A priori, niente, salvo che oggi, sono degli ex contadini, con la mentalità e la spietatezza di contadini, che comandano e fanno (o piuttosto fanno fare a chi lavora nella finanza, abbastanza terrorizzati) tanti affari nel mondo, al posto dei borghesi, troppo molli. Una vera rivoluzione, che è costata decine di migliaia di morti in Sicilia. Tutto qua, questa è la realtà. Sono partito per vivere tredici anni in montagna perché sapevo tutto questo, e il libro si è fatto poco a poco. L’ho fatto pubblicare oggi perché attualmente il mondo è molto più malato che venti anni fa”.

A proposito di mondo malato: il lupo chi spera che vinca le elezioni in America?

“Per chi voterà Cosa Nostra versione americana? Non lo so, ma la mafia siciliana voterà mentalmente per Donald Trump, che non sarà probabilmente eletto (con tutto l’establishment, le multinazionali e questa stampa contro di lui). Sarà presidente – penso con tristezza – Hillary Clinton, che porterà tutti ‘all’apocalisse’, come dice lei, con una guerra (già in preparazione negli Usa e in Russia) contro Vladimir Putin. A proposito, sai che la Clinton è una lesbica rifatta dalle testa ai piedi con la chirurgia estetica, tinta in biondo e anche ebrea? Voi una prova? Te la manderò… Ah, non accusarmi di essere antisemita; sarebbe un errore”.

Serge Ferrand continua a dirci che ha tanti altri segreti, che per ora non può rivelare. “Ma sto scrivendo un altro libro. Sarà sotto forma di romanzo, sarà tutto vero e non solo sulla mafia. Penso un ottimo copione per il cinema americano”.

Chi è veramente Serge Ferrand d’Ingrado, giornalista francese sparito dalla Francia e riapparso in Sicilia? Cosa ha fatto nell’isola per oltre trent’anni? Perché l’editore Bonfirraro gli ha dato fiducia e quindi credibilità?

Noi abbiamo cercato di risolvere il mistero ponendogli delle domande. A questo punto, spetterà ad altri verificare ulteriormente il suo racconto.

Quando Riina non riuscì a far fuori “u Commissario”. Il mio collega Rino Germanà, che a Mazara del Vallo fece il suo dovere di poliziotto e riuscì a non morire, scrive Pippo Giordano il 31 Maggio 2016 su "La Voce di New York". Ho partecipato ad una trasmissione tv insieme a Rino Germanà, che un quarto di secolo fa scampò ad un agguato mafioso nel trapanese rispondendo al fuoco e buttandosi a mare. Il boss di Cosa Nostra Totò Riina lo voleva morto quel poliziotto che non poteva comprare e che stava svelando gli intrecci mafia-massoneria. In occasione del 24esimo anniversario della strage di Capaci, io e Rino Germanà, già questore della Polizia di Stato, siamo stati ospitati dall’emittente televisiva Teleromagna per parlare di mafia. Perché due poliziotti siciliani con un passato di lotta alla mafia, non più in servizio, si mettono in gioco parlando del loro vissuto, della propria esperienza investigativa? Si potrebbe, parimenti, fare un’altra domanda: perché il più alto tributo di sangue nel condurre la lotta a Cosa nostra è stato versato dai figli della Sicilia? Le risposte stanno nel DNA dei Siciliani. Popolo abituato a soffrire, un Popolo svegliatosi dal letargo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. E quando analizzi la vicenda di Rino Germanà, ti rendi conto che il male può essere sconfitto. Conoscendolo e frequentandolo capisci quanto amore traspare per la sua Terra, la Sicilia. In una terra come quella di Mazara del Vallo, non era facile fare “u Commissario” di Polizia e non era facile farlo conservando l’integrità morale e senso del dovere. Anche un altro giovanissimo commissario fu allontanato da Trapani perché aveva osato toccare i “pezzi da novanta”. Quel giovane, il 6 agosto del 1985, fu ucciso a Palermo. Si chiamava Ninni Cassarà ed era il mio dirigente. Quindi, per aver innescato le ire di Totò Riina, significava, che Rino Germanà non era in vendita né disposto a tradire lo Stato. La lealtà, così come l’onestà, non l’acquisti al supermercato, ma esse sono il paradigma dell’essere poliziotto in generale, ma in particolare in terra di mafia. Guai a non capire l’esigenza d’essere onesti, altrimenti c’è il baratro. Gli ideali di giustizia sono l’architrave dell’essere uomo e poliziotto. E tutto questo ha dato fastidio, tanto fastidio a Totò Riina, che “u Commissario” ficcasse il naso su Cosa Nostra trapanese. Germanà, aveva “arruspigghiato” (svegliato) un territorio mafioso lasciato da tanto tempo al controllo dei boss. In sostanza, aveva rotto non solo gli equilibri, ma anche quei meccanismi che regolavano e assicuravano la pace sul territorio con beneplacito della massoneria. Del resto Mazara del Vallo rientrava a pieno titolo nell’influenza egemonica di Totò Riina. Quest’ultimo, risentito dal comportamento di Germanà, che non perdeva occasione per riaffermare la supremazia dello Stato sul territorio, ne decise la morte. E non diede l’incarico a un killer qualsiasi, ma affidò la spedizione di morte alla crema di Cosa Nostra, ovvero suo cognato Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Rino Germanà, come racconta egli stesso, pur attinto da colpi di arma da fuoco, ingaggiò un conflitto a fuoco, salvandosi. La vicenda drammatica di Rino Germanà, conclusasi felicemente anche se rimasto ferito, fa parte di un copione di violenza, che la Terra siciliana ha dovuto subire per tanti anni. Quanti uomini, magistrati, poliziotti e carabinieri ammazzati da Cosa nostra. Troppi! E ogni qualvolta che uno di “Noi” veniva ucciso, eravamo li pronti a riprendere l’impari lotta. Sovente la morte si è aggirata in lungo e largo tra le nostre piccole stanze della Mobile palermitana e solo quando vedevi il corpo di un collega trafitto dai proiettili, realizzavi di essere stato lasciato solo dallo Stato. Dieci morti ammazzati, solo nella Squadra mobile di Palermo. La solitudine prendeva il sopravvento ed ognuno di noi, nel proprio intimo portava i segni drammatici per aver perso un amico, un collega. Tuttavia, tutti e dico tutti, eravamo consapevoli di essere nel mirino dei mafiosi. Eravamo diversamente folli di giustizia, di verità e che nemmeno la paura riuscì a scalfire le nostre corazze. Eravamo un avamposto di pochi uomini, e ciononostante riuscimmo a sbeffeggiare un esercito di 5000/6000 mafiosi. La sproporzione era abissale. Poi, ti rincuora e ti rende felice l’apprendere, che il 14 settembre 1992 uno di “Noi”, Rino Germanà è rimasto vivo. Lo stesso Totò Riina, intercettato dalla DIA il 16 novembre 2014, mentre parla con un altro mafioso nel carcere di Opera a Milano, cita appunto l’attentato di Rino Germanà: evidentemente ancora oggi nutre rancore e astio verso Germanà, ma noi, io e Germanà, continueremo a combattere la mafia, senza pistole: solo con la parola.

Il popolo malato di mafia che ha bisogno di una legge per ricordare, scrive il 2 marzo 2017 Marilù Mastrogiovanni su "Articolo 21". Il Parlamento ha approvato la legge che istituisce il 21 marzo come giornata nazionale della memoria e dell’impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. Certo è importante, che in una legge si cristallizzi l’obbligo, per tutte le tutte le cittadine e i cittadini, di “ricordare” e dunque di “impegnarsi” contro le mafie, anche in “nome” delle vittime che le mafie hanno mietuto. Serve sempre, la legge. Ma serviva, una legge? Se non altro, serviva, per togliere da ogni imbarazzo chi accetta di aderire alla giornata contro le mafie, ma con dei distinguo. Distinguo sui nomi, da ricordare, distinguo sui fatti, da denunciare, distinguo sui modi, con cui aderire, se e in che modo e a patto che. La mia è una terra che vive di distinguo. Per esempio, c’è il distinguo di chi è contro la mafia, purché i discorsi rimangano sulle linee generali. Chi è contro la mafia, purché i nomi non si facciano e i fatti non si spieghino poi bene bene bene. Nella mia terra, il Salento, persone così, hanno provato imbarazzo per almeno 30 anni a fare il nome di Renata Fonte, la consigliera comunale di Nardò uccisa perché si opponeva ad una grossa speculazione edilizia sulla costa ionica, a due passi da Gallipoli, a porto Selvaggio, oggi parco regionale che NON porta il suo nome. Dove il suo nome è ricordato da una targa, che viene periodicamente buttata giù. Renata era una giovane maestra, mamma di due bambine ed era spinta da passione civile e per questo impegnata in politica. Era una cittadina che voleva fare fino in fondo il suo dovere. Come Antonio Montinaro, capo della scorta di Falcone. Come Peppino Basile, consigliere comunale di Ugento (Lecce) e provinciale: lui era un rompiscatole e fu ucciso con 24 coltellate davanti alla porta di casa sua, come Renata Fonte, che fu sparata mentre rientrava dall’assise comunale. Due rompiscatole che dicevano “no”: di entrambi sono sconosciuti e impuniti i mandanti dell’omicidio. Di Peppino, sono sconosciuti anche gli esecutori materiali: quelli che la Procura ha tenuto in prigione per oltre un anno, erano due innocenti. Peppino Basile è una vittima innocente di mafia, non riconosciuta ancora come tale. Perché in una terra dove viene assolto dall’imputazione per mafia chi minaccia, picchia, utilizza la sua parentela con i boss ergastolani della sacra corona unita per infettare l’economia e il mercato, come si fa poi, a riconoscere lo status di vittima di mafia a chi, sull’altare della legalità, ha sacrificato la sua vita? Bene ha fatto Salvatore Capone, deputato salentino (Pd) ad inserire nel suo comunicato di plauso per l’approvazione della legge sulla giornata della memoria e dell’impegno, un passaggio sulla mia povera città, Casarano, ricordando anche chi, “ogni giorno, e non mancano episodi recentissimi, è impegnato sul fronte del contrasto al crimine organizzato e alle infiltrazione mafiose nei terreni sani dell’economia e della società civile”. Per una frase così, pronunciata in un dibattito pubblico alla presenza dell’attuale viceministra Teresa Bellanova, l’ex sindaco Remigio Venuti s’è visto distruggere il piano terra della propria casa con una bomba. Perché aveva detto che a Casarano l’infiltrazione della criminalità organizzata era andata nel profondo del tessuto sociale. Come giornaliste e giornalisti, abbiamo il dovere della memoria e abbiamo l’obbligo di mettere in fila i fatti, perché qui la mafia è impercettibile anche leggendo i giornali. Si riduce ogni fenomeno allo stesso titolo: “Ennesimo episodio incendiario”. E giorno dopo giorno, nella cronaca che parcellizza, nel quotidiano, i grandi fenomeni, facendo perdere lo sguardo d’insieme, nel dovere della cronaca senza mai esercitare quello di critica, troppo “giornalismo” alimenta l’oblìo. La mia è una terra dove non si riesce a condannare i mafiosi – a meno che non abbiano la lupara e lo stigma di mafioso – e dunque non si riconoscono le vittime della mafia. Né quelle vive, né quelle morte. Qui non si riconosce la mafia della porta accanto. La mia è una terra dove ancora si aspetta che la mafia uccida con 18 colpi di kalashnikov per capire che quella “è gente cattiva”. Qui, si risolve tutto con una confessione: ci si cosparge il capo di cenere e la finiamo lì. Qui, dove si muore di fame e di caporalato, la mafia dà lavoro, dà concessioni edilizie, dà le case popolari, ti toglie i rifiuti davanti alla porta di casa e te li nasconde sotto il tappeto, perché tu non li veda. Qui, dove si muove di tumore, di fame e di fatica, si va avanti a tirare la carretta, fino a tirare le cuoia. Qui, sì che serve una legge per ricordarci che le vittime innocenti di mafia sono morte anche per noi. Ma tanto, la legge, qui, ce la facciamo da soli. E dunque, a che serve ricordare?

La giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare?

La Mafia Com'è? Insopportabilmente illiberale, scrive Sergio Scandura - Giornalista di Radio Radicale. Val la pena riprendere una sentenza dimenticata, se non omessa, della Cassazione che sembra mettere un punto più che offrire uno spunto.

«La forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l'uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell'assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, (nell'abilitare in specifiche professioni o assegnare incarichi con esami di Stato o concorsi pubblici truccati ndr), tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio».

Questa sentenza, del 9 giugno 2015, non è stata mica scritta da un collegio qualsiasi ma dalla sesta sezione della Cassazione, proprio quella ritenuta persino più "pelosa" per dottrina e garanzie, dunque non certo distratta ad argomentazioni in punto di diritto. Forse dovremmo giusto partire da questo cruciale passaggio che, fatta la tara di alcune foglianti caricature, non riguarda solo il nulla osta dei giudici della Suprema Corte al procuratore capo della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone per il 416 bis al processo Mafia Capitale. In quel "sostanziale annullamento della concorrenza" c'è una conclusione non di poco conto che ora abita nelle più autorevoli librerie di giurisprudenza. Non se ne annulla solo il vincolo dialettale di una consorteria come requisito per certificarne lo stato di "famiglia" ma si dà ragione a chi, come Giovanni Fiandaca, da un paio di anni a questa parte ritiene necessario un "update" al 416 bis, eliminandone cliché sociologici, coppole e "punciutine". In una parola sola, questa sentenza di Cassazione ci dice che la Mafia è illiberale. Insopportabilmente illiberale. Cominciamo a individuarla da qui?

Tangenti con le “stelle”. Dopo le indagini ed arresti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, la Procura come sempre si prende il palcoscenico…Cosa aspettavano dopo la prima inchiesta dei Carabinieri i “signori” dello Stato Maggiore della Marina Militare ad introdurre delle nuove procedure di controllo contro la corruzione? O forse erano troppo impegnati ad accontentare i desideri e le spese milionarie dell’Ammiraglio Di Giorgi per il rifacimento degli interni delle nuove navi della Marina Militare, per occuparsi di qualche “bustarella” tarantina? Di Antonello de Gennaro, 11 marzo 2017, "Corriere del Giorno". L’inchiesta sulle tangenti a Maricommi, il Commissariato della Marina Militare nella base navale di Chiapparo a Taranto, ha origine nel marzo 2013 a seguito di indagini effettuate dai Carabinieri che portarono all’arresto di cinque ufficiali della Marina Militare cui due in servizio allo Stato maggiore a Roma, un sottufficiale e un dipendente civile. L’ampiezza dello scandalo e il fatto che alcuni imprenditori di Taranto, in rapporti di lavoro con le strutture della Marina Militare, fossero costretti a pagare tangenti per aggiudicarsi le commesse sono emerse nel 2013, a seguito dell’arresto in flagranza di reato del capitano di fregata della Marina Militare Roberto Di Gioia direttore di Maricommi Taranto, e subito dopo del suo “vice” Giuseppe Coroneo anch’egli capitano di “fregata”. Dopo l’arresto, i Carabinieri di Taranto perquisirono gli uffici di quattro imprese locali i cui titolari, sarebbero stati costretti a sottostare alle pretese del direttore di Maricommi. A fare luce nell’inchiesta condotta dagli investigatori dell’Arma dei Carabinieri, furono alcuni file sequestrati al Di Gioia nel corso dell’arresto.

LA 1A INDAGINE: I CARABINIERI. Il capitano di fregata La Gioia, venne incastrato e bloccato dai Carabinieri nel suo ufficio della base della Marina di Taranto., grazie alle rivelazioni di imprenditore che aveva raccontato agli investigatori dell’ Arma di essere stato costretto a versare 150.000 euro al Direttore di Maricommi per garantirsi il regolare pagamento delle fatture emesse dalla sua impresa, titolare dell’appalto per il ritiro e il trattamento delle acque di sentina dalle navi ormeggiate a Taranto e Brindisi dove la Marina Militare ha un’altra base. L’imprenditore aveva anche rivelato il tentativo di coinvolgerlo nelle manovre degli ufficiali corrotti della Marina Militare per pilotare una gara d’appalto, per la quale finì sul registro degli indagati un altro imprenditore con l’accusa di “tentativo di turbativa d’asta”. A seguito della sua denuncia, l’imprenditore ha collaborato con i Carabinieri permettendo loro di svelare il “sistema” di tangenti. Il 12 marzo 2013, infatti, l’imprenditore si recò nell’ufficio del capitano di fregata Di Gioia per consegnargli una tangente da duemila euro ma quando uscì dalla stanza, entrarono i Carabinieri che arrestarono l’ufficiale della Marina. Subito dopo, i Carabinieri perquisirono l’appartamento del Di Gioia trovando 36.000 euro in contanti mentre altri 8.000 euro sono stati rinvenuti nella cassaforte del suo ufficio oltre alle famose pen drive contenenti la contabilità occulta che il comandante di Maricommi Taranto custodiva in una valigetta. Nella memoria delle “pennette” venne trovata la contabilità “nera” delle tangenti pagate da un elenco di imprese, accanto ad ognuna delle quali, era riportato il valore dell’appalto che si era aggiudicato e il pagamento di tangenti, equivalenti al 10% dell’importo della commessa aggiudicata.  A finire sotto processo insieme ai militari della Marina Militare anche ed un gruppetto di faccendieri ed imprenditori composto da Alessandro Dore, Giovanni Cusmano, Giovanni Cusmano, Attilio Vecchi, Marco Boccadamo, Riccardo Di Donna, Fabrizio Germani, un sottufficiale della Marina, Antonio Summa ed il funzionario Leandro De Benedictis. L’Ammiraglio De Giorgi (oggi ex) Capo di Stato Maggiore della Marina Militare a seguito dello scandalo inviò presso la base navale tarantina un nuovo ufficiale di sua “fiducia”, il capitano di vascello Giovanni Di Guardo, per “fare pulizia”. Mai scelta (?) più infelice, infatti il nuovo ufficiale appena insediatosi, fece circolare delle ridicole circolari sulla moralizzazione degli uffici. Ma in realtà continuò ad alimentare il sistema delle tangenti sugli appalti, che rispetto al passato aumentarono! E tutto questo badate senza che i precedenti investigatori dell’Arma ed il magistrato inquirente si accorgessero di nulla.

LA 2A INDAGINE: LA GUARDIA DI FINANZA. Successivamente lo scorso anno gli uomini della  Guardia di Finanza  hanno avviato delle proprie  autonome indagini effettuando degli accertamenti grazie ai quali hanno  scoperto (senza alcun tangestista reo-confesso) che il precedente giro di tangenti non solo non era mai finito, ma anzi era aumentato, e che l’organizzazione si avvaleva persino della collaborazione  del sottufficiale infedele dei Carabinieri Paolo Cesari (il quale aveva partecipato alla prima indagine), che si faceva pagare per dare informazioni riservate sull’inchiesta e depistare i successivi  accertamenti ed indagini nel (vano) tentativo di proteggere il giro di affari illeciti che imperversavano nella base navale tarantina di Maricommi. A tenere buona compagnia al Cesari, applicando la “par condicio” fra le Forze dell’ordine, è comparso anche l’ispettore della Polizia di Stato Fabio Giunta il quale ha cercato di danneggiare l’indagine della Guardia di Finanza, venendo però scoperto ed indagato per “rivelazione del segreto d’ufficio”, per aver riferito al nuovo Comandante di Maricommi Di Guardo che un’auto appostata fuori dalla sua villa era appunto della Guardia di Finanza. E’ stato quindi alla preziosa attività investigativa della Guardia di Finanza che è stato possibile scoprire ed accertare che a Taranto avevano messo in piedi un vero e proprio “cartello” di società collegate tra di loro  allo scopo di orientare e controllare  l’assegnazione in loro favore di oltre 200 appalti e affidamenti,  gestiti dalla direzione Maricommi di Taranto, estromettendo i concorrenti in maniera tale da potersi garantire l’assegnazione di appalti e dei conseguenti profitti di ingente quantità in maniera illecita per un ammontare complessivo accertato di 5 milioni e 460 mila euro. E tutto ciò che ha consentito alla Procura di Taranto di poter mandare a processo gli imputati Giovanni Di Guardo, ex comandante della base di Maricommi; la sua compagna rumena Elena Corina Boicea; il tenente della Marina militare Francesca Mola, e gli ufficiali Massimo Conversano(ex capo dell’ufficio viveri, vestiario e casermaggio della Marina militare) e Gerardo Grisi (all’epoca dei fatti in servizio presso il comando logistico di Napoli) ed il dipendente civile Marcello Martire, insieme agli imprenditori-faccendieri-tangentisti  Vincenzo Pastore, Paolo Bisceglia, Giuseppe Muschiaccio, Giuseppe Calabrese, Gaetano Abbate, Vitantonio Bruno, Giovanni Perrone, Valeriano Agliata e Pietro Mirinao, e l’ispettore di polizia Fabio Giunta insieme al luogotenente dei Carabinieri Paolo Cesari.

Nel corso della conferenza stampa voluta e convocata dal Procuratore Capo di Taranto (affiancato in seconda fila dal suo “aggiunto ” prossimo a lasciare il suo incarico semi-direttivo alla fine del prossimo maggio) dell’ Ammiraglio Edoardo Serra, comandante del Comando Marittimo Sud della Marina Militare, dal sostituto procuratore titolare dell’inchiesta, dal comandante provinciale di Taranto della Guardia di Finanza Col. Gianfranco Lucignano e dal comandante del Nucleo di Polizia tributaria Ten. Col. Renato Turco.

Come avevamo annunciato nei giorni scorsi il CORRIERE DEL GIORNO ha deciso di non citare più i nomi dei magistrati della Procura di Taranto in segno di protesta per le continue fughe di notizie lasciate impunite sui soliti organi di stampa “amici” e ventriloqui dell’attività della magistratura tarantina, alla faccia della millantata legalità… Fermo restando il massimo rispetto per quei magistrati seri (e ce ne sono ! ) in servizio a Taranto che fanno con abnegazione il proprio lavoro, senza ambire a foto, nome e titoli sui giornali. Come spiegheranno (presto) questi magistrati al Csm tutte queste fughe notizie lasciate impunite?

Come non definire quindi imbarazzanti le dichiarazioni dell’ammiraglio Eduardo Serra, al comando della flotta Sud della Marina militare? “Non sospettavamo di Di Guardo – ha detto – il suo curriculum era pulito. Le mele marce vanno identificate e allontanate. Per il futuro rivedremo le procedure di controllo per evitare episodi di corruzione”. Ma come sarebbe a dire? !!! Forse all’ Ammiraglio Serra deve essere sfuggito qualcosa… e cioè che nel corso delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza di Taranto, tre imprenditori hanno ammesso di aver conosciuto Di Guardo, allora capitano di fregata proprio quando era in servizio come capo ufficio amministrativo al Centro gestione scorte navali della Marina Militare a La Spezia, e di avere iniziato a versargli tangenti sin dal 2010-2011!

Lo scenario di corruzione che è venuto fuori sugli appalti controllati e “vivisezionati” dai finanzieri nel corso delle indagini è a dir poco incredibile, e riguarderebbero ogni genere di materiali, da quelli più avanzati dal punto di vista tecnologico ai capi di vestiario per i militari. Ed infatti gli investigatori della Guardia di Finanza in servizio in Liguria, sono all’opera anche per verificare se anche le altre aste siano state “truccate” ed accertare che i prezzi pagati dalla Marina Militare siano stati realmente congrui. Nel 2011 Di Guardo quando era ancora a La Spezia firmò una gara d’appalto per la fornitura di “21 salvagenti tipo 8+4” per un valore di circa 160 mila euro. Secondo esperti del settore i “salvagenti tipo 8+4” sono dei battelli autogonfiabili capaci di ospitare 8 persone più eventuali altre 4″.  Ma è emerso un piccolo particolare: la marina mercantile li paga “un decimo della cifra sborsata dal Ministero della Difesa”.

Cosa aspettavano quindi dopo la prima inchiesta ed arresti dei Carabinieri i “signori” vertici dello Stato Maggiore della Marina Militare ad introdurre immediatamente delle nuove procedure di controllo contro la corruzione? O forse erano troppo impegnati ad accontentare i desideri e le spese milionarie dell’Ammiraglio Di Giorgi per il rifacimento degli interni delle nuove navi della Marina Militare, per occuparsi di qualche “bustarella” tarantina? E’ semplicemente imbarazzante se non ridicolo dichiarare oggi dopo 4 anni dal primo arresto: “per il futuro rivedremo le procedure di controllo”! Aspettano forse il prossimo “ufficiale -tangetista”?  Un vecchio proverbio non caso dice: “Non c’è due senza tre”.

Tra i reati contestati dalla Procura di Taranto ai 17 imputati ,  vi è anche  l’associazione per delinquere, che vede coinvolti il capitano di vascello Giovanni Di Guardo, l’ex comandante di Maricommi, che fu mandato a dirigere il reparto proprio per fare pulizia dopo la prima ondata di arresti che aveva travolto il Commissariato della Marina militare (inchiesta già approdata all’udienza preliminare per altri 11 imputati, tre dei quali hanno chiesto il rito abbreviato); la tenente di vascello Francesca Mola, i capitani di vascello Massimo Conversano e Gerardo Grisi, e Marcello Martireun  dipendente civile della Marina militare , il sottufficiale dei carabinieri Paolo Cesari e l’ispettore di Polizia Fabio Giunta , nonchè la compagna rumena del Di Guardo, Elena Corina Boicea, e gli (im)prenditori Valeriano Agliata, Paolo Bisceglia, Vitantonio Bruno, Vincenzo Calabrese,  Pietro Mirimao,  Giuseppe Musciacchio, Vincenzo Pastore, Giovanni Perrone,   ed  il commerciante Gaetano Abbate. A Taranto purtroppo non è arrivato un Procuratore Capo del livello di Giuseppe Pignatone (Roma)  o  di Armando Spataro (Torino), ma è arrivato da quasi un anno un procuratore capo proveniente dalla Procura di Trani dove i fatti dicono non essersi mai accorto di quello che succedeva in quegli uffici giudiziari, circostanze a dir poco gravi che  a seguito dei numerosi esposti  hanno comportato l’  intervento del  Csm cioè del Consiglio Superiore della magistratura nella gestione della procura tranese rimuovendo e trasferendo dei magistrati in servizio in quegli uffici giudiziari giudiziari (e di cui ci siamo abbondantemente occupati, come sempre documentalmente) . Ecco spiegato il perchè nei corridoi degli uffici giudiziari di Taranto sono sempre più numerosi gli investigatori delle varie forze dell’ordine a sostenere che “sono cambiati gli uffici” “è cambiato qualche nome” ma di fatto “non è mai cambiato nulla”! Come dargli torto?

Il ciclone Pignatone fa infuriare i giornalisti, scrive Piero Sansonetti su "Il Dubbio". Il procuratore di Roma interrompe la continuità delle carriere tra magistratura inquirente e giornalismo giudiziario. Rovesciando una tradizione che aveva permesso a un drappello di Pm di lavorare spalla a spalla con i redattori di cronache giudiziarie dei principali giornali italiani. Quelle che nessun’altra Procura ha sinora avuto il coraggio di fare. Un ciclone si è abbattuto sul giornalismo italiano. Si chiama Pignatone. Nelle redazioni dei giornali regna il panico. I grandi giornalisti d’inchiesta sono sgomenti, atterriti. Il ciclone è arrivato senza alcuna avvisaglia, imprevedibile. Pignatone – che per la precisione è il dottor Pignatone Giuseppe, classe 1948, Procuratore di Roma – ha deciso di interrompere la continuità delle carriere tra magistratura inquirente e giornalismo giudiziario, e ha stabilito che l’articolo del codice penale che impone il segreto d’ufficio sulle indagini preliminari va rispettato. Rovesciando una tradizione almeno quarantennale e ininterrotta che aveva permesso a un drappello abbastanza cospicuo di Pm di lavorare spalla a spalla non solo coi carabinieri e con la polizia, ma soprattutto coi redattori di cronache giudiziarie dei principali giornali italiani. I quali venivano stabilmente riforniti di notizie segrete – in modo assolutamente illegale ma altrettanto assolutamente tollerato – e di queste notizie facevano la parte essenziale del proprio lavoro, e anche del lavoro di intere redazioni e di molti direttori. L’altro giorno, con un gesto clamoroso, il dottor Pignatone – verso il quale, in passato, questo giornale ha spesso e volentieri rivolto svariate critiche e poche lodi – ha firmato un atto rivoluzionario, togliendo al nucleo dei carabinieri che si chiama “Noe” la titolarità delle indagini sul caso Consip e affidandola al nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma. Motivando la sua scelta in modo esplicito con la necessità di fermare la fuga di notizie e di far rispettare il codice penale costantemente violato da investigatori, Pm e giornalisti.

La rabbia dei giornalisti. E ora? La decisione di Pignatone ha creato sconcerto e rabbia. Il direttore del Fatto Quotidiano, si è scagliato contro di lui facendo con ironia notare che invece di prendersela con gli imputati, Pignatone se l’è presa con gli investigatori che indagano sugli imputati. Non è esattamente così: le indagini su chi è indiziato proseguono, solo che si interrompe il reato commesso per giorni e giorni da giornalisti e inquirenti che facevano trapelare notizie ad hoc, danneggiando ovviamente le indagini e danneggiando, ancor più ovvia- mente, gli indiziati (e il loro parenti…). Sebbene il ragionamento di Travaglio non regga, si capisce perfettamente però la sua furia. Il giornale che lui dirige, più di altri, si fonda programmaticamente sulla fuga delle notizie giudiziarie e sulla violazione del segreto ottenuta unificando le carriere di alcuni giornalisti (appunto: quelli detti di inchiesta) e di alcuni investigatori. Se Pignatone rompe questo gioco, per alcuni il danno è enorme.

«Compratemi, ho una fuga di notizie». Il giorno prima della mazzata di Pignatone, un giornalista del “Fatto”, ospite da Mentana, alla Sette, aveva invitato i telespettatori a comprare il suo giornale il giorno successivo, per leggere una “fuga di notizie” clamorosa. Voi direte: beh, ingenuo questo ragazzo a parlar così! No, non era ingenuità, era solo un modo di parlare del tutto conseguente con il senso comune che dilaga nel giornalismo italiano. I giornalisti che fanno dipendere il loro lavoro dai carabinieri, o dai Pm, o da altri funzionari dello Stato o dei servizi segreti, non trovano che ci sia niente di male in questo loro modo di comportarsi: sono stati educati così, sono nati nel dopo– Tangentopoli, non hanno mai saputo che una volta il giornalismo di inchiesta era ricerca della notizia e non affiliazione a una banda politico– giudiziaria. Il giornalismo per bande è diventato negli ultimi anni una realtà accettata da tutti, considerata un fatto ordinario, legale, apprezzabile, persino ad alto contenuto etico. E i giornali si accorgono che nascono pochi bambini Così è successo che chi ieri abbia dato un’occhiata ai giornali online, sia rimasto un po’ stupito. C’è stato il ritorno in grande stilo della politica estera, sebbene non ci fossero molte notizie, o di temi non proprio nuovissimi come il calo delle nascite. La notizia che vengono al mondo meno bambini di un tempo, sebbene vecchia più o meno di 27 anni, ha conquistato tutte le home page. E il caso Consip è scivolato un po’ giù. Se i Carabinieri non danno più notizie, vince l’ufficio stampa dell’Istat: meno bambini, ridotta la produzione industriale, inflazione bassa, e persino Gentiloni da Pippo Baudo! Roba fresca.

Il misterioso signor Bill. Oppure la storia del misterioso Bill. Chi è Bill? Oddio Bill è sempre stato il nome di un personaggio misterioso nella storia recente italiana. Una volta, mi ricordo, era il nome di battaglia di un certo Urbano Lazzaro, partigiano controcorrente che diceva di essere stato lui ad arrestare Mussolini, a Dongo, e che a fucilarlo non fu il colonnello Valerio, come dice la storia ufficiale, ma nientedimenoché Luigi Longo in persona, cioè il luogotenente di Togliatti, forse per ordine degli inglesi che volevano fare dispetto agli americani o qualcosa del genere. Ora il misterioso Bill è invece solo l’autista di un camper che qualche anno fa scorrazzò Matteo Renzi nella campagna per le primarie. Il suo vero nome è Roberto Bargilli e in gennaio pare che abbia mandato un sms a quel Russo che dovrebbe essere uno degli uomini chiavi dell’affare Consip, per dirgli: “La pianti di telefonare a papà Renzi? ”. Vi pare poco? Non è forse questo sms una prova quasi certa della colpevolezza diretta del presidente del consiglio? Beh, certo, non è chiarissimo quale sia il reato, ma non è molto importante. In realtà in tutto il caso Consip non è chiarissimo quali siano i reati principali. Dicono i giornali che si tratta di un clamoroso caso di corruzione per strappare un appalto miliardario. Benissimo: ma qualcuno ha preso il soldi per farsi corrompere? Qualcuno li ha dati? Qualcuno ha assegnato l’appalto?. No, questo, no, dicono i giornali, però…

Indizi e reati. Ecco il problema è tutto qui: non c’è niente di male se gli inquirenti decidono di approfondire delle vicende che non appaiono loro chiare e che potrebbero nascondere fatti di corruzione e reati. E si adoperano per scoprire i reati, o impedirli, o punirli. E’ il loro lavoro. Il problema è che per un inquirente serio un indizio è un indizio, e cioè qualcosa che serve a cercare eventuali colpe, o viceversa a escluderle, e non è di per se una prova, né tantomeno è esso stesso il reato. Invece per i giornali, qualunque ipotetico indizio è il reato. Papà Renzi è andato a Fiumicino in auto e poi non ha preso l’aereo? Beh, è chiaro che è colpevole? Colpevole di che? Vedremo, vedremo, ma è colpevole…

Il giornalismo di inchiesta. Il moderno giornalismo di inchiesta funziona così. Non fa inchieste, non cerca notizie. Riceve informazioni dagli apparati o da qualche altra figura istituzionale e decide non di informare ma di eseguire la pena. La frustata di Pignatone potrebbe avere effetti davvero imprevisti. Se la degenerazione del giornalismo italiano si dovesse trovare senza più ossigeno, magari anche dentro la nostra categoria si muove qualcosa. E a qualcuno viene in mente che lo Stato di diritto non necessariamente è il nemico dell’informazione.

La lotta tra carabinieri dietro la fuga di notizie, scrive Errico Novi il 7 Marzo 2017 su "Il Dubbio".  Inchiesta Consip, il trasferimento non gradito del mitico “capitano Ultimo” ha generato la faida all’interno dell’Arma che si è consumata a colpi di “indiscrezioni”. Inimicizia tra magistrati? Diffidenza della Procura di Roma nei confronti dell’imprevedibile Henry John Woodcock? Non è detto, anzi pare proprio che non sia il presunto conflitto tra pm a poter spiegare la revoca del mandato al Noe per le indagini Consip. Dietro la clamorosa decisione del procuratore Giuseppe Pignatone ci sarebbe invece un fortissima tensione nella catena di comando dell’Arma. Attriti e dissensi che nascono dal trasferimento dell’ormai ex vicecomandante operativo dello stesso Noe, il mitico Sergio De Caprio alias Capitano Ultimo. Una situazione non del tutto serena che però non può essere automaticamente messa in rapporto con le fughe di notizie. Su un simile nesso, al limite, dovrebbe far luce l’indagine aperta dalla stessa Procura capitolina. Ma certo il terremoto al vertice del Nucleo operativo ecologico, reparto d’eccellenza dell’Arma, offre una serie di elementi che vale la pena di riassumere. Comprenderli significa anche rispondere a un interrogativo che il profano si pone già di fronte all’acronimo: perché un reparto denominato Nucleo operativo ecologico, istituito per perseguire i reati ambientali, è impiegato in indagini sulla corruzione? Il merito è anche di carabinieri del valore e dell’intraprendenza dello stesso De Caprio. Lui, insieme con altri ufficiali, si è trovato una quindicina di anni fa in una complicata situazione: era al Ros, il reparto guidato in passato da Mario Mori e che in seguito alle disavventure giudiziarie di quest’ultimo aveva perso parte dell’antico prestigio. È per questo che all’inizio degli anni Duemila De Caprio ed altri chiedono di essere trasferiti al Noe, reparto dedito appunto alla tutela dell’ambiente ma che godeva già di alcune prerogative importanti, a cominciare dalla possibilità di operare sotto copertura. Proprio la presenza di militari del valore di Ultimo ha fatto sì che il Noe acquisisse mandati investigativi che altrimenti non gli sarebbero stati assegnati. Comprese indagini contro la pubblica amministrazione. Nel Noe, De Caprio assume qualche anno fa il ruolo di vicecomandante operativo. Il massimo grado a cui potesse aspirare con il suo grado, che non era e non è ancora quello di generale. Nell’estate del 2015 il primo duro colpo: il comandante generale Tullio Del Sette riorganizza il Noe e sottrae al vicecomandante De Caprio le funzioni di polizia giudiziaria. Ma dal suo ufficio nel quartiere Aurelio a Roma, Ultimo continua a esercitare una forte influenza sui militari abituati ormai a considerarlo un punto di riferimento. Gode di eccellenti rapporti con gran parte della magistratura inquirente. Non fa eccezione la Procura di Napoli e in particolare il pm Woodcock. Nei mesi scorsi si sviluppa l’indagine sul caso Consip, di cui in questi giorni si è saputo praticamente tutto. Il lavoro investigativo è condotto appunto dal Noe, istruito da Woodcock e dalla sua collega Celeste Carrano. L’incrinatura fatale arriva a fine 2016, quando Del Sette decide di assegnare De Caprio a un nuovo incarico. Non più al Noe ma al “reparto Interno” dell’Aise, il servizio segreto sull’estero. Un secondo schiaffo, almeno così lo vive De Caprio. E pure i suoi uomini: la seconda linea di comando, i tanti marescialli che lavoravano con Ultimo al Noe, sono agitatissimi. Pare che a Del Sette e al direttore dell’Aise Alberto Manenti esprima un forte dissenso lo stesso Woodcock. Arriva un nuovo vicecomandante operativo, ma è come se i vertici del Noe continuassero a riconoscersi nella leadership virtuale di De Caprio, e in ogni caso lavorano con la stessa determinazione di sempre sull’inchiesta Consip. Nell’ambito dell’indagine, nello stesso periodo, finisce indagato anche il comandante Del Sette. Le fibrillazioni a quel punto, com’è immaginabile, diventano fortissime. È in questo clima che si verificano le ripetute sconcertanti «rivelazioni di notizie coperte da segreto», come le definisce propriamente la Procura di Roma nel comunicato diffuso sabato scorso. Risentimento? Rancore? E con quali conseguenze? De Caprio potrebbe avere le sue ragioni per nutrire tali sentimenti. Si è visto trasferito e nello stesso tempo mortificato nell’aspirazione di acquisire il grado di generale. Si è reso conto di non essere tra le figure dell’Arma in stretta relazione di fiducia con l’esecutivo. Guarda a Emanuele Saltalamacchia, destino opposto al suo: comandante provinciale a Firenze, diventa generale senza neppure essere costretto a trasferirsi, perché gli viene assegnato come nuovo incarico il comando regionale sulla Toscana. Saltalamacchia, per inciso è a sua volta indagato per gli stessi reati contestati a Del Sette e Lotti: rivelazione di segreto e favoreggiamento. Tutto filtrato, come per gli altri due, dalle carte dei pm alla stampa. È un reato. Ad accertare chi l’ha commesso saranno altri carabinieri, del Nucleo investigativo di Roma. A cui ora la Procura capitolina ha deciso di affidarsi, forse anche per evitare che un fascicolo già caldissimo si arroventi ancor di più per le tensioni tra il Noe e il vertice dell’Arma.

Ci sono quelli che hanno il vizio di scrivere e danno notizie che fanno male, scrive Attilio Bolzoni su "Mafie.Blogautore. Repubblica". Ma ci sono anche gli altri, quelli che stanno sempre in silenzio stampa, pure quando il collega della scrivania accanto è perseguitato dagli scagnozzi di un boss o la porta di casa sua sta bruciando per un attentato. Fanno finta di niente. A volte per indifferenza, a volte per paura. Muto tu e muto io. Sono le due facce del giornalismo in terre di mafia. Non c'è solo la Sicilia e non ci sono solo la Calabria o la Campania. Li vogliono con la bocca chiusa anche in Emilia, in Lombardia, in Veneto, a Roma, a Fondi e a Latina. Diffondono informazione scomoda dappertutto, in cambio ricevono insulti o minacce o pallottole in redazione. E citazioni per milioni di euro. Un articolo di troppo può mandare all'aria un affare, certi nomi è sempre meglio non farli. Chi tace, di sicuro ci guadagna. Soli, sperduti nelle province italiane più lontane, ci sono decine di giornalisti e blogger che sono diventati corrispondenti di guerra a casa loro. Irriverenti e coraggiosi, con la passione del raccontare si sono sostituiti come antenne sul territorio alle tradizionali associazioni antimafia sempre più ossequiose e ammanigliate con i poteri locali che le foraggiano di consulenze e incarichi. Andare oltre, il confine è impercettibile. Bastano trenta righe in cronaca e ti stampano addosso il marchio di sconsiderato o anche di spione. Poi il silenzio degli altri che isola, tutti sempre un passo indietro o al servizio del signorotto che paga di più o al momento più potente. “Comprati e venduti”, è il titolo dell'ultimo libro di Claudio Fava, storie di giornalisti ma anche di editori, padrini e padroni. La palude di quarant'anni fa e quella di oggi, un racconto ricavato dagli atti dal primo rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia su mafie e informazione. Complicità e atti di ribellione, omertà e violenze contro chi oltrepassa una linea invisibile. E poi i morti. Non c'è luogo in Europa dove siano stati uccisi tanti giornalisti come in Sicilia: otto in poco meno di vent'anni, tutti per mano mafiosa. Una mattanza dimenticata. Ma oggi non basta più ricordare e onorare solo i giornalisti morti. Bisogna avere più rispetto per quelli vivi. Anche quando sono nei paraggi, quando controcorrente scoperchiano vergogne o denunciano opacità negli ambienti apparentemente più insospettabili. Si fa un gran parlare di giornalismo di qualità e si straparla di giornalismo d'inchiesta. Tutti lo invocano, tutti lo vogliono. Ma a una condizione: che si occupi sempre degli altri. Il giornalismo d'inchiesta piace solo quando è lontano da casa propria.

Un articolo pagato a caro prezzo, scrive Claudio Riolo - Docente di Analisi delle Politiche pubbliche dell'Università di Palermo. Nel novembre 1994 la rivista Narcomafie mi chiese, nella mia veste di politologo, un commento critico alla decisione di Francesco Musotto, allora Presidente della Provincia di Palermo oltre che avvocato penalista, di mantenere la difesa di un suo cliente, imputato nel processo per la strage di Capaci, mentre la stessa Provincia si costituiva parte civile. Scrissi l’articolo, ironicamente intitolato “Lo strano caso dell’avvocato Musotto e di Mister Hyde”, senza immaginare che le conseguenze mi avrebbero accompagnato per circa vent’anni della mia vita. Dopo cinque mesi Musotto avviò solo nei miei confronti, senza tirare in ballo la direzione della rivista, un procedimento civile per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa, chiedendomi 700 milioni di vecchie lire. Fu subito evidente il significato intimidatorio e simbolico di quell’iniziativa: “Colpirne uno per educarne cento”. Così la risposta immediata fu corale. L’articolo venne ripubblicato nel maggio 1995 su Narcomafie e sul quotidiano il manifesto, aggiungendo alla mia firma quella di 28 noti esponenti del mondo politico e culturale, che se ne assunsero la responsabilità “condividendone in pieno i contenuti e ritenendolo legittima espressione dell’esercizio della libertà di stampa, di opinione e di critica politica”. Ma Musotto non accettò la sfida e, nonostante minacciasse di querelare tutti, si guardò bene dal procedere contro gli altri firmatari o le testate giornalistiche. Inaspettatamente nel 2001, dopo quasi sei anni di lungaggini giudiziarie, sono stato condannato in primo grado a pagare 140 milioni di lire per danni morali, e ho cominciato a subire il pignoramento di un quinto dello stipendio. Nel frattempo numerose associazioni del fronte antimafia lanciarono una “campagna per la libertà di stampa nella lotta contro la mafia” per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul crescente uso strumentale dei procedimenti civili a scopo intimidatorio, in particolare per limitare la libertà d’informazione, di critica e di ricerca sul fenomeno delle contiguità tra politica e mafia. Fu raccolto anche un fondo di solidarietà, di cui ho usufruito per pagare le spese legali. Nel 2003 la condanna è stata confermata in Appello e nel 2007 la Cassazione ha respinto il mio ricorso, rendendola definitiva. Ero ormai rassegnato a continuare a subire il pignoramento dello stipendio, che in effetti è durato tredici anni e si è concluso nel 2014. Ma la consapevolezza della posta in gioco riguardo all’esercizio di diritti fondamentali m’indusse a presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in meno di un anno ha emesso una sentenza di condanna dell’Italia per violazione dell’art.10 (libertà di espressione) della Convenzione. La Corte ha ritenuto che il mio articolo, pur contenendo una certa dose di provocazione, non era diffamatorio ma fondato su fatti veri e legittima espressione di “un’opinione che non supera i limiti della libertà d’espressione in una società democratica”. Lo Stato italiano è stato condannato a risarcirmi con una cifra sostanzialmente equivalente a quella che mi è stata sottratta, e che Musotto ha incassato senza doverla restituire. Sarebbe ora che il Parlamento italiano, che ne discute da almeno cinque legislature, modificasse in modo non peggiorativo la normativa sulla diffamazione, per depenalizzarla e ad un tempo per impedire l’uso strumentale del procedimento civile a scopo intimidatorio o speculativo. Bisognerebbe invertire la tendenza alla “monetizzazione del danno morale” in direzione di una terza via “extragiudiziale” (giurì d’onore, rettifica, diritto di replica) in grado di tutelare più efficacemente la reputazione personale senza mettere a repentaglio la libertà d’informazione, di critica e di ricerca.

La nostra battaglia in nome di Pippo, scrive Ivana Sciacca - giornalista de I giovani Siciliani. «Se un giornale non è capace di verità si fa carico di vite umane», così scriveva il direttore Pippo Fava trentadue anni fa. Vale ancora. Svelare l’inghippo delle istituzioni che continuano a fare affari con imprenditori in odor di mafia e quindi con i clan mafiosi rimane una battaglia aperta, a Catania e non solo. Le conseguenze di questo intreccio tra poteri legali e illegali le tocchiamo con mano nelle vite delle persone: vittime di violenza, vittime di ignoranza, vittime di privazioni. I poteri forti continuano a trovare nel monopolio dell’informazione gli alleati per impedire che gli eventi diventino notizie: un edificio che crolla, un minorenne che spara, un porto da cementificare anche se le ditte appaltatrici sono indagate per infiltrazioni mafiose, promesse di assegnazioni di case a famiglie che aspettano da anni, discoteche mafiose inaugurate a braccetto con chi governa che però giura “Niente sapevo!”.

Pino Maniaci, i buoni e i cattivi, scrive Pietro Suber - Giornalista. L’attacco del servizio della Cnn sembra tratto dallo soap stelle e strisce “Sopranos”. Sotto il titolo (“He goes after the mob; now is the target” - Ha dato la caccia alla mafia, ora ne è diventato il bersaglio) si vedono i folti baffoni di Pino Maniaci, noto soprattutto per le sue denunce antimafia, spesso pittoresche, impegnato a lanciare freccette contro un muro. Sul bersaglio appeso alla parete le facce dei boss di Cosa Nostra, quelli in carcere o passati a miglior vita fino all’ultimo super-latitante, Matteo Messina Denaro. «Tutti pezzi di merda siciliani», commenta sprezzante il protagonista. Il network televisivo americano ha voluto incoronare il volto della battagliera tv Telejato di Partinico finito di recente in una brutta storia di estorsioni. Il giornalista, secondo la Procura di Palermo, avrebbe estorto ad alcuni amministratori locali denari e favori, tra cui un contratto a termine per l’amante, minacciando di scatenare contro di loro delle campagne di stampa dagli schermi televisivi. Ma nel servizio della tv americana le accuse restano a margine. Maniaci viene descritto come una star dell’antimafia, l’unico giornalista libero in grado di dare la caccia ai mafiosi (“The mafia hunter”). Per questo il “sistema” se la prende con lui costruendo accuse infondate su cui Maniaci - spiega il suo avvocato, l’ex magistrato Antonio Ingroia - «ha fornito ampia e puntuale spiegazione». Che la vicenda sia complessa, dai contorni nebulosi, nessuno obietta, come la personalità del protagonista, dalla mille sfaccettature. Da una parte il racconto surreale del network statunitense che cerca di esaltare a tutti costi l’eroe, infiorettando la sua biografia, senza farsi troppe domande sul perché di recente Reporter sans Frontieres abbia deciso di togliere a Maniaci il roboante titolo di “Information Hero”. Dall’altra c’è la difficoltà oggettiva di raccontare la realtà siciliana in bianco e nero, da un parte i buoni dall’altra i cattivi. Mettendo per esempio a confronto il diabolico Maniaci e il suo opposto, Riccardo Orioles, tra i fondatori (insieme a Giuseppe Fava ucciso dai clan catanesi) della rivista I siciliani. Orioles, giornalista scomodo e politicamente scorretto, si trova da tempo in difficoltà economiche e con gravi problemi di salute.  Tanto che alcuni colleghi, con una petizione diretta al Presidente Mattarella, hanno chiesto che Orioles abbia accesso al sostegno della legge Bacchelli. Buoni e cattivi a confronto: «L’unico problema – è lo stesso Orioles a sottolinearlo – è che la maggior parte degli opinionisti si è dimenticata di dire che il sottoscritto è anche il direttore responsabile di Telejato, quindi direttore del cattivissimo Maniaci, di cui evidentemente condivide i contenuti essenziali». Mafia e antimafia, tutto e il contrario di tutto. In nessun luogo come in Sicilia, spiega il Gattopardo, la verità ha vita breve.

La mafia e il branco degli indifferenti, scrive Giovanni Tizian - Giornalista de L'Espresso. La minaccia peggiore per un cronista è l'isolamento. Quel doversi confrontare con l'indifferenza di chi, invece, dovrebbe non solo indignarsi ma anche agire di conseguenza dopo che un sistema è stato smascherato. Troppe volte, tuttavia, il giornalista che si occupa di mafie resta solo, con i suoi guai, le sue querele, le sue paure di fronte a segnali inequivocabili spediti dai clan. In un Paese in cui le cosche imprenditrici non creano allarme, anzi fanno proseliti, la reazione spontanea è minimizzare la questione mafiosa, ridurla a una storiaccia di ordine pubblico. Perciò in assenza di morti ammazzati e ferocia gratuita, la maggioranza è convinta che i padrini non siano poi così malvagi. E che peraltro contribuiscono alla crescita del Pil nazionale, all'occupazione e a far girare l'economia. Il riciclaggio, in fondo, non è una bomba di tritolo piazzata sotto un'autostrada. Ripulire denaro sporco, corrompere funzionari pubblici e spartirsi appalti con le cricche imprenditoriali, è cosa diversa dal radere al suolo un negozio per punire il titolare che non paga il pizzo. La mafia non esiste, fine della storia. I cronisti che quotidianamente si ritrovano a raccontare il nuovo volto del crimine organizzato avvertono, eccome, questa ostilità sociale. Più il livello di complicità si alza, più lo scherno nei loro confronti si fa duro. «Questo signore vede la mafia ovunque...», «È alla ricerca di visibilità, poverino», «Infanga per quattro lire l'immagine della nostra regione». Il teorema dei negazionisti di professione è un virus. Prima o poi rischia di infettare tutti. Finché cittadini, politici, imprenditori, professionisti, non capiranno che i quattrini delle mafie sono mortali per l'economia sarà difficile cambiare rotta. Il giornalista sarà sempre quello che vede fantasmi dappertutto. La mafia uccide anche con il denaro, cioè uccide il mercato, lo orienta a favore dei farabutti. In questo senso continua a essere una mafia sanguinaria. E finché non coglieremo tale distorsione non sposteremo di una virgola l'orientamento negazionista che rafforza, al pari dell'omertà, i nuovi protagonisti del crimine. Omicidio dell'economia, esatto. Provate a chiederlo a quegli imprenditori onesti tagliati fuori dai giochi dei grandi appalti cosa pensano del riciclaggio e della corruzione. La stessa domanda ponetela, poi, a quei figli che hanno assistito al suicidio del padre, spolpato dall'usura dei clan che gli hanno sottratto l'azienda in un solo mese. Oppure fatevi un giro nelle periferie italiane, chiedete dei morti di eroina. Chi pensate che sia il grande regista occulto, la mano invisibile che sta dietro a questi traffici? Ecco, immaginate un ragazzo, riverso a terra, con un filo di vomito che gli cola dalla bocca e una siringa nel braccio. Ucciso da un'overdose. Da questa morte i clan hanno tratto profitto. Denari che ritornano nelle nostre comunità ripuliti in locali alla moda, ristoranti, discoteche, società di costruzioni, imprese del gioco d'azzardo legale. Pensate a quante vite sono state necessarie per creare imperi economici rispettati e apparentemente puliti. Pensate a questo quando un cronista prova a raccontare il potere politico e finanziario delle mafie contemporanee. Almeno provateci, prima di isolarlo e prenderlo per pazzo.

Scrivere di morti in fondo all'Italia, scrive Carmelo Sardo - Giornalista. Il mio primo morto ammazzato l'ho raccontato che non avevo ancora ventidue anni, in una striscia di terra dove si faceva fatica solo a pronunciarla la parola <mafia>. Era il 1983. Acerbo cronista di nera, non avevo mai visto un corpo imbottito di piombo, coperto da un lenzuolo bianco, e il sangue e i parenti che urlavano per il dolore e i carabinieri che provavano a tenerci a distanza. Lavoravo a Teleacras e, quella mattina, il cameramen non era ancora arrivato: dovetti precipitarmi con la telecamera a documentare l'agguato. Pensavo e speravo che fosse un caso isolato. Era invece solo l'inizio di una cruenta guerra di mafia che da Palermo si era allargata anche nella <mia> provincia, Agrigento. Da quel giorno mi toccò correre da un morto all'altro con una frequenza impressionante. Fu per me uno svezzamento umano, prima ancora che professionale, carico di comprensibile angoscia. Non era facile <leggere> quel che stava accadendo. Senza la tecnologia di oggi, a quel tempo per documentarsi bisognava farlo sul campo questo lavoro. Incontrare gli investigatori, andare a bussare a casa dei parenti delle vittime. Non era facile.  Ricordo le case-fortino dei Malacarne di Palma di Montechiaro, costruite nel delirio cementizio di quegli anni, occhi spettrali che curiosavano dalle feritoie di porte d'acciaio dove inutilmente andavo a bussare. La mafia irruppe furiosa con omicidi <eccellenti> di capi e di sottocapi, in una mattanza che scombussolò la mia giovinezza e mi fece crescere troppo in fretta. Dovevi stare attento pure ad andare al cinema, perché rischiavi di ritrovarti coinvolto in una strage, come successe la sera del 21 settembre 1986 a Porto Empedocle quando davanti al bar Albanese alcuni sicari di Cosa Nostra uccisero la famiglia Grassonelli. Io ero arrivato lì due minuti dopo, il cinema da una parte e i morti dall'altra. Il primo processo dell'era moderna di mafia venne celebrato con grave ritardo ad Agrigento 42 anni dopo un dibattimento in era fascista. Alla prima udienza mi è gelato il sangue quando dal gabbione mi sentii chiamare da uno di loro. Mi fece cenno di avvicinarmi. Dietro a un sorriso il boss mi disse che i miei servizi in tv <erano molto chiari, ma dovevano essere più prudenti>. L'esperienza più dolorosa l'ho vissuta la mattina del 21 settembre del 1990 davanti al cadavere del giudice Rosario Livatino.  Poi li presero, gli assassini che avevano ammazzato il giudice. Un quarto di secolo dopo sono andato a incontrarli in carcere. Sono miei coetanei. Loro uccidevano, io raccontavo come uccidevano.

Scoop e complotti, scrive Mirko Macaro - Giornalista. Cronista alle prime armi, mi ritrovai catapultato in prima linea a scrivere di mafia poco più che ventenne e da precario. In una terra di confine che, di mafia, proprio non voleva sentirne parlare.  Con uno sparuto gruppo di giornalisti (loro sì) vissi la particolare stagione che squassò le certezze della mia sonnolenta Fondi e, di riflesso, dell’intera provincia di Latina. La stagione dei cicloni, avviata nel 2008 con l’esordio della Commissione d’accesso in Comune, la prima a certe latitudini. Seppi del suo insediamento alle porte del Municipio. Scoop con una gola profonda atipica. Un pensionato che, fisso a guardare il Comune anziché un cantiere, si era imbattuto in “gente curiosa”. Fu l’inizio di un effetto domino clamoroso. Arrivarono gli arresti nell’inchiesta antimafia Damasco, arrivò anche la richiesta di scioglimento del consiglio per infiltrazioni della criminalità organizzata, tenuta in un limbo dal Consiglio dei Ministri fino al colpo di teatro seguente. L’autoliquidazione dell’amministrazione: dimissioni al fotofinish, la mattina in cui da Palazzo Chigi era attesa la decisione definitiva. Una sequela corredata da guerre politiche intestine ai massimi livelli. E da atti intimidatori a raffica. Roghi, pistolettate. Non mancarono un paio di bombe.  Strani giorni dalla profonda provincia. Arrivavo a raccontarli per primo spesso e volentieri. Inanellando una sequela vertiginosa, da strappare il respiro. Lavoravo in un quotidiano da neanche due anni. Un corrispondente da un microcosmo incappato in qualcosa che appariva gigantesco. Troppo grande per l’aspirante giornalista di periferia. Troppo grande per l’incolpevole e laboriosa Fondi, ferita al cuore e dall’immagine scalfita. Molti gridarono al complotto, parte della stampa si sentì accerchiata. Nel 2014 la Cassazione, esprimendosi sulle condanne ad alcuni dei principali imputati dell'inchiesta Damasco, ha parlato piuttosto chiaramente: la mafia c’era. Condizionava diverse attività comunali. E anche uno dei primi mercati ortofrutticoli d’Europa.

La verità che fa male, scrive Graziella Di Mambro - Giornalista di Latina Oggi. Descrivere la periferia turistica di Roma come un luogo gravemente intaccato dalla presenza di clan di camorra e ‘ndrangheta è stato considerato un vile attacco all’immagine delle dune di Sabaudia, del promontorio del Circeo e complessivamente del ritratto da cartolina che la provincia di Latina ha avuto fino al 2008. Anno in cui è cominciato l’accertamento giudiziario e amministrativo delle infiltrazioni mafiose nella politica e in alcuni enti, per primo il Comune di Fondi e il suo Mercato Ortofrutticolo. Verifiche poi sfociate nella richiesta di scioglimento di quel Consiglio e in due processi. Il negazionismo è stato un “avversario” della cronaca e della trasparenza forse anche peggiore dell’omertà e del ritardo nelle indagini importanti. Emblematica la reazione del Comune di San Felice Circeo al titolo più azzeccato sulla presenza mafiosa nell’agro pontino, “Circeo Connection”, richiamo di copertina dell’Espresso nell’agosto di quell’anno. Era un reportage che riprendeva e ampliava le inchieste di Latina Oggi cominciate nel 2006 sul “caso Mof”. Tre mesi e molte polemiche dopo seguì un comunicato ufficiale del Comune di San Felice Circeo che affermava, tra l’altro, “l’assise civica verrà chiamata ad approvare una delibera in cui si dà mandato al sindaco e alla giunta di intraprendere tutte le attività utili a contrastare quei fenomeni giornalistici che producono grave nocumento all'immagine e all'economia del paese”. Giusto per la cronaca, il principale processo per la presenza della mafia a Fondi, ossia Damasco, prende il nome da un siriano, Bouzan Hassan, che faceva il buttafuori nelle discoteche di San Felice. Quasi dieci anni dopo quel titolo sono emersi non solo la dimensione reale del fenomeno e una mappa aggiornata dei clan ma è chiaro che c’è ancora tanto da raccontare, anche al fine di salvare ciò che resta del turismo sulle dune amate da Alberto Moravia e Anna Magnani.

Come schivare trappole e polpette avvelenate, scrive Alessia Candito - Giornalista del Corriere della Calabria e corrispondente di Repubblica. Valutare con attenzione, soppesare le informazioni, sezionarle ai raggi X. E poi osservare ancora. Scovare e pubblicare notizie giù al Sud, è lavoro delicato. E non perché scrivere di questo o quel fattaccio potrebbe diventare pericoloso per la propria incolumità. Questo è un rischio che alla fine si impara a mettere in conto. Se vivi nella città che le ‘ndrine chiamano “mamma” e che di tanto in tanto le istituzioni centrali si ricordano di riconoscere come “capitale della mafia più potente del mondo”, lo spauracchio è un altro. In Calabria, nulla è come sembra. E la ‘ndrangheta è una holding criminale ramificata, che per anni è stata in grado di farsi beffe di tutti. Si è mostrata agreste e tribale, ma fin dai primi del ‘900 ha vissuto in simbiosi con la classe dirigente (locale e non solo). Si è raccontata stracciona, ma ha percorso da pioniera le vie della finanza internazionale. Si è fatta conoscere per storie di faide e di sangue, ma ha messo insieme partiti politici ed ha deciso governi. In gergo mafioso si chiama “falsa politica” e storicamente è stata per i clan il passaporto per l’anonimato. Allora il rischio, giù al Sud, è di cantare canzoni che altri hanno deciso di farti cantare. Come? I metodi potenzialmente sono tanti. Ci sono le “polpette avvelenate” con cui astute manine svelano indagini in corso o infangano chi le inchieste le fa. Ci sono le “trappole” in cui insospettabili fonti attirano il cronista, allettato da un possibile scoop, con il solo risultato di screditarlo e vanificarne anche il precedente lavoro. E poi ci sono le gigantesche messe in scena, come quelle che per anni hanno permesso ai clan di regolare propri conti interni con soffiate e conseguenti arresti, troppo spesso frettolosamente strombazzati dalla stampa come l’ennesimo “definitivo colpo al cuore dei clan”. Scrivere al Sud significa camminare su un filo teso sul baratro della colossale cantonata. Ecco perché bisogna valutare con attenzione, soppesare le informazioni, sezionarle ai raggi X. E poi osservare ancora, sempre.

Fonti e giuste distanze, scrive Alberto Stabile - Giornalista di Repubblica. A quel tempo si viaggiava a una media di settanta, ottanta omicidi l'anno tra Palermo e provincia, che dal punto di vista della distribuzione territoriale del potere delle cosche erano considerate un tutt'uno, il grande feudo da arare e seminare, la torta da spartire. Era una fase particolare degli anni 70, tra i delitti cosiddetti “eccellenti” (Scaglione, De Mauro, la strage di via Lazio) e la guerra di mafia degli anni 80. Ed era considerato un “periodo di tregua”. Ho avuto la fortuna di lavorare con molti colleghi bravissimi ma uno di loro resta per me fondamentale, Nino Sofia. Quando penso a Nino, non penso a scoop o a scoperte clamorose, ma all'atteggiamento che bisogna avere davanti ai fatti e nei rapporti con le fonti. Penso, cioè, a quell'abitudine ormai decaduta di mantenere una distanza verso l'oggetto del nostro lavoro e, a proposito delle fonti, di non rinunciare mai ad adoperare nei loro confronti quello che veniva definito un “filtro critico”. In questo, Nino, è stato un maestro. E' così che il nostro lavoro dovette anche contemplare lunghissime analisi. Avevamo a che fare con casi molto complessi e non c'erano neanche i “pentiti” ad arricchire il grande libro delle rivelazioni, anche se le “fonti anonime” cui polizia e carabinieri abbondantemente attingevano nei loro rapporti ne costituivano una forma ante litteram. Era il “ragionamento” ad appassionarci nei pomeriggi in cui non c'era da correre appresso a un'emergenza. E spesso quel gioco di ipotesi che s'addentrava sulla scena oscura degli intrecci tra mafia e politica ci spingeva a formulare scenari che allora credevamo estremi, paradossali: “Ti immagini se di questo passo dovessero prendere di mira il capo della Dc...il Presidente della Regione...l'Alto Commissario...il giudice...” Così ho imparato che Palermo è il luogo dove le previsioni peggiori sono destinate ad avverarsi.

Contro la solitudine del cronista, scrive Elisa Marincola - Giornalista, portavoce di Articolo21. Il mestiere del giornalista risponde a dinamiche contraddittorie, in cui la riservatezza su fonti e ricerche fa i conti con un’aspra competizione, tra testate e individui, e con il fastidio crescente da parte di chiunque sia oggetto della notizia. Un fastidio espresso con il metodo mafioso, con minacce, danneggiamenti, violenze fisiche, ma anche - secondo una mentalità almeno omertosa - attraverso querele per diffamazione o, peggio, liti temerarie, con assurde richieste di risarcimento. Nella diversità dell’attacco, il reporter, di un grande editore o di un blog di provincia, è solo. Spesso è un freelance a pochi euro al pezzo, vive questa condizione di obiettivo del tiro al piattello in assoluto isolamento, dai cittadini destinatari delle notizie, e dai rappresentanti della sua stessa categoria, distratta e infastidita, quasi che essere cronista sotto attacco sia una forma di protagonismo e che avere la scorta sia un privilegio e non una pesante riduzione di libertà. Una solitudine che pesa nelle aule dei tribunali, dove rischia di trasformare il o la giornalista, vittima di violenze o testimone di reati, nel vero imputato del dibattimento. Come Articolo21, da sempre richiamiamo tutti a schierarsi al loro fianco. E lo facciamo rilanciando le loro inchieste, continuando a scavare nelle oscurità da loro svelate, ma anche chiedendo in tutte le sedi, associative e istituzionali, strumenti di sostegno. Un richiamo che ora la Federazione Nazionale della Stampa, con il segretario generale Raffaele Lorusso e il presidente Giuseppe Giulietti, ha fatto proprio, istituendo la costituzione di parte civile in loro difesa. Lo ha già fatto con Paolo Borrometi, giovane cronista picchiato e minacciato per aver denunciato la mafia a Scicli. Lo ha già fatto con Federica Angeli, giornalista di Repubblica, testimone di un omicidio a Ostia. E ora è con Lilli Mandara, pluriquerelata dal governatore dell’Abruzzo Luciano D’Alfonso. Ma non basta garantire un avvocato. Per rompere il muro dell’isolamento bisogna stare fisicamente al loro fianco davanti ai giudici, anche per evitare che quelle aule siano chiuse ai cronisti, come richiesto per il processo Aemilia a Bologna. Articolo21, come in passato, sarà insieme alla Fnsi con Federica, Paolo, Lilli e tutti coloro che dovranno testimoniare o difendersi per aver svolto il proprio dovere. Quello di dare a tutti noi le notizie che ci consentono di essere cittadini consapevoli.

Scusate il ritardo, scrive Pierluigi Senatore - Giornalista di Radio Bruno di Carpi. Se in Sicilia la mafia uccide solo d’estate, in Emilia Romagna fino a qualche tempo fa avrebbe potuto ammazzare in ogni stagione e nessuno avrebbe mai collegato il fatto alla mafia. La mafia era il “solito” fenomeno che non ci riguardava e comunque “noi” avevamo gli anticorpi. Anche i giornalisti si sono cullati e beati di questa favola. Non avevamo gli strumenti per capire cos’era la mafia e, di certo, non aiutavano i vertici delle forze dell’ordine o i rappresentanti locali della politica. Tutti, per anni e anni, sempre a minimizzare il fenomeno. Nonostante l’aumento di arresti o reati legati, ad esempio, allo spaccio di stupefacenti. Non ci si chiedeva da dove arrivava la droga, perché si continuava a costruire case e ancora case che poi rimanevano vuote. Non ci si chiedeva perché aprivano in continuazione i “compra oro” e le sale giochi. Le domande sono aumentate solo quando alcuni magistrati hanno iniziato a lanciare l’allarme, così anche in Emilia si è cominciato a fare “giornalismo antimafia”. Un tipo d'informazione che dai più, però, è considerata una perdita di tempo. Poi è arrivata l’inchiesta Aemilia, nel gennaio del 2015, che ha scoperto a quali profondità si era infiltrata la criminalità organizzata in tutta la regione. Duecentotrentanove indagati e centoquarantasette rinviati a giudizio. Una lista che comprende imprenditori, commercialisti, politici, rappresentanti delle forze dell’ordine. E anche giornalisti. La cosiddetta “società civile”, da queste parti, è sempre stata convinta di avere gli anticorpi necessari per combattere le mafie. E' stato molto brusco il risveglio dopo gli arresti in massa di due anni fa. E abbiamo scoperto che, in realtà, quegli anticorpi noi non li abbiamo mai avuti. Giornalisti compresi.

Le mafie sotto casa, scrive Gaetano Alessi - Attivista antimafia. «La 'ndrangheta si è infiltrata in Emilia-Romagna senza colpo ferire, ricorrendo alla forza solo quando la corruzione non funzionava, ma purtroppo funzionava quasi sempre». Basterebbe questa semplice considerazione di Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, per spiegare la presenza in terra emiliana di oltre 50 cosche di mafia italiana ('ndrangheta, camorra, sacra corona unita e cosa nostra) ed almeno 7 mafie straniere. Uno tsunami mafioso che ha potuto contare sul silenzio della società civile, la collusione della grande economia ed una classe di professionisti che ha visto nei soldi delle mafie non un pericolo, ma un'opportunità. In decenni di perfetta simbiosi mutualistica si sono creati veri e propri imperi come, ad esempio, quello dei Grandi Aracri, provenienti da Cutro (Crotone) ed adottati dal paese di Brescello (Reggio Emilia), comune che - non a caso – nell'aprile del 2016 si è conquistato il primato del primo scioglimento per infiltrazione mafiosa in Emilia-Romagna. L’impero dei Grande Aracri è stato ora smantellato dalla magistratura, che nel gennaio del 2015 ha dato vita alla maxi operazione “Aemilia”, poi sfociata nel più grande processo alle mafie che il Nord Italia ha finora conosciuto: 238 imputati, 189 capi di imputazione, oltre 100 milioni di euro sequestrati e già 300 anni di carcere inflitti con le condanne del rito abbreviato. E tutto ciò riguarda una sola delle oltre cinquanta cosche presenti in regione. Nonostante questi numeri ancora in molti pensano che in fondo le mafie in Emilia-Romagna non esistono, che al massimo sono un caso isolato, che di certo stanno nella provincia a fianco e che comunque chi continua a parlarne è un agitatore sociale.

Le notizie che non ho mai trovato, scrive Salvo Palazzolo - Giornalista di Repubblica. Ho cominciato nel peggiore dei modi il mestiere di cronista a Palermo, non capendo cosa accadeva attorno a me. Il 19 luglio 1992, aspirante collaboratore di Tele Scirocco, rimasi per tre ore a vagare in via d’Amelio, fra brandelli di cadaveri, sangue, auto in fiamme e palazzi sventrati. Non riuscì a prendere un solo appunto, non capivo da che parte iniziare a guardare, a cercare, a raccontare. Lo conservo ancora quel taccuino rimasto vuoto. Perché altre volte in questi anni ho sentito forte la stessa sensazione di angoscia, di rabbia, per non aver capito in tempo. O anche in ritardo. Non ho capito, e basta. Sono passato accanto a uomini e donne che avevano da raccontare una storia, un brandello di verità, un indizio, un segreto, un desiderio di cambiare vita. Sono passato vicinissimo, e non me ne sono accorto, o l’ho capito quando ormai quei testimoni non c’erano più. A volte penso che bisognerebbe fare una lista delle cose che non si capiscono ancora sul fenomeno mafia, bisognerebbe mettere insieme tutte le domande dei magistrati, dei poliziotti, dei giornalisti, dei sindacalisti, dei sacerdoti, dei ragazzi delle scuole, di tutti quelli che cercano di capire per davvero cosa è diventata oggi la mafia e quali segreti ancora custodisce. La scandalosa latitanza di Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993, è la domanda che più mi inquieta, domanda ancora senza risposta, che le racchiude tutte. C’è una mafia che non comprendiamo, che non vediamo, che non raccontiamo. Tutto questo c’è nell’assenza dell’ex giovanotto di Castelvetrano che conosce i segreti della stagione delle stragi mafiose del 1992-1993. Vorrei provare a fare una lista delle notizie che ho perso per le strade di Palermo, chissà quante sono. Ci penso da tempo, per adesso ho cominciato a fare la lista delle prove rubate e di quelle inquinate, la lista dei depistatori e dei testimoni, la lista degli uomini delle istituzioni che potrebbero sapere e per qualche ragione non parlano. E ancora, la lista dei morti senza giustizia, la lista dei morti senza un corpo, e la lista dei morti per suicidio che suicidi non sono stati. Bisognerebbe tornare a raccontare le mafie a partire dalle tante, troppe cose che ancora non sappiamo.

Quelli che morivano e quelli che tacevano, scrive Alessandra Ziniti - Giornalista di Repubblica. «Lo ricordo bene Mario Francese, con quel suo fare ironico si intratteneva da me in procura cercando invano di carpire informazioni e raccontando quel che sentiva per le strade di Palermo». Quello del Presidente del Senato Pietro Grasso è un ricordo che va a ritroso di quarant'anni, quando lui era un giovane pubblico ministero a Palermo e Mario Francese era un cronista che seguiva il fiuto senza paura, ficcando il naso negli affari di quei corleonesi sanguinari che non erano ancora “scesi dalle montagne” alla conquista della città. Ma che certo non avevano alcuna intenzione di farsi mettere il bastone tra i piedi da un giornalista, incurante di quella “regola” che negli anni 70-80 almeno in Sicilia era la norma: raccontare solo quello che non si poteva fare a meno di raccontare, non dare fastidio alla mafia e soprattutto ai loro amici tenutari dei meglio salotti e del potere palermitano. Funzionava così e basta, come dimostra il doppio tributo che il giornalismo palermitano ha pagato con il sangue, prima con Mauro De Mauro e poi con Mario Francese. Anche perché a Palermo non è che il panorama giornalistico di quegli anni fosse troppo variegato: il giornale L’Ora era l’unica altra voce, ma era dei “comunisti” e quindi ci stava pure. E il Giornale di Sicilia non aveva nessuna remora a tacere quello che si doveva tacere. Persino il giorno dell'inizio di un'indagine sugli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo (era il 1984), la notizia che giornalisticamente valeva l’apertura del quotidiano fu relegata in un trafiletto di poche righe in una pagina interna. Così come quell’indimenticabile titolo di prima pagina “Silenzio, entra la Corte”, il primo giorno del maxiprocesso e l’affannoso rincorrersi di interventi e interviste a fare da controcanto alle clamorose rivelazioni dei pentiti di mafia e alla forza scardinante del maxiprocesso. Fu proprio in quegli anni, quando il maxiprocesso e don Masino Buscetta aprirono le porte della Sicilia alla stampa nazionale e internazionale, che il giornalismo anche a Palermo riuscì a liberarsi dalla melma della palude. Trent’anni di pagine di archivio raccontano un’altra storia, diversa da quella degli anni bui, ma diversa anche da quella di oggi dove in Sicilia, come nelle regioni ancora condizionate dalle mafia, il giornalismo ha davanti una sfida che è sicuramente meno cruenta ma altrettanto infida: quella con l’antimafia da strapazzo, con quei “testimonial” che per anni hanno ingannato tutto e tutti monetizzando ruoli istituzionali o di primo piano, e che – con colpi bassi, minacce più o meno velate e con la nuova arma delle querele temerarie delle richieste di risarcimento danni in sede civile - provano ancora oggi a decidere cosa deve andare sui giornali e che cosa no.

Cosa Vostra e quei soldi nel Nord-Est, scrive Francesco Trotta - Blogger, scrittore e coordinatore dell'associazione Cosa Vostra. Nel Nord-Est da più di anno è nata "Cosa Vostra". Siamo un gruppo di ragazzi che vede le mafie dove gli altri non le vedono. Perché, qui in Veneto, abbiamo capito che l'importante è fare sempre e a qualsiasi costo. Perché, si dice, «no stemo mai coe man in man». L'importante era ed è fare schei. Soldi. Poi la crisi, che ha messo in ginocchio tante aziende, ha mostrato altro: il problema mafia riguarda anche le terre dei Dogi. Mentre l'ultimo ex governatore - Galan - minimizzava, la storia e le inchieste giudiziarie tracciavano le linee che collegano la classe imprenditoriale e dirigente alla mafia. Già negli Anni Ottanta mafiosi e trafficanti di droga riciclavano il denaro acquistando immobili. Addirittura c'era chi, come Enrico Nicoletti, cassiere della Banda della Magliana, costruiva abusivamente un albergo. Oggi, invece, nel Nord-Est che produce c'è posto anche per le aziende mafiose, in tutti i campi. Dai rifiuti all'edilizia, dalla ristorazione alle scommesse. Gli appalti pubblici, indubbiamente, sono l'oggetto dell'interesse criminale. Dalle grandi alle piccole opere: a Padova si è fermata un'azienda impegnata nella costruzione di un asilo nido. Il colmo a Dueville (Vicenza) dove l'appalto per costruire la Caserma dei Carabinieri viene vinto da una ditta in odore di mafia. Non sono singoli episodi né fenomeni circoscritti. L'ultima operazione contro la cosca Piromalli ha svelato nel Nord-Est una filiera agroalimentare compromessa fino alla grande distribuzione. Le implicazioni con la società civile non mancano. Il sedicente commercialista della 'Ndrangheta, Paolo Signifredi, coinvolto già nell'inchiesta Aemilia, "liquidava" le aziende, d'accordo con i titolari. Non parliamo di mafiosi o di uomini del Sud. Ma di veneti "doc". Difficile dire poi: «Non sapevo chi fosse». Ad Albignasego (Padova) l'imprenditore edile Giuseppe Faro, legato a Cosa Nostra catanese, riusciva a far approvare dal Comune una variante urbanistica. Pecunia non olet, quindi. Lo sa bene Sandro Rossato, imprenditore veneto del settore rifiuti, ritenuto dalla magistratura legato alla famiglia 'ndranghetista Alampi, con cui aveva scelto di allearsi per espandere la propria attività. La comunione di intenti illeciti è spiegata da un camorrista, Mario Crisci, capace di far cadere nella rete dell'usura cento imprenditori: «Siamo venuti qui perchè il tessuto economico non è onesto». Se in certi casi alcuni imprenditori risultano vittime, ma ben pochi poi sono disposti a denunciare (omertà?), in altri casi si tratta di collusione. Oggi gli schei e i metodi delle mafie fanno gola anche al Nord-Est.

Se restiamo cronisti facciamo più paura, scrive Giuseppe Baldessarro - Giornalista di Repubblica. Ogni volta che si inizia a parlare di un giornalista per le minacce che ha subito, si smette di parlare delle notizie che scrive. E’ automatico. Quando nasce un personaggio muore il cronista che è in lui. Lo sanno bene anche i mafiosi, ed è per questo che non sperano altro ogni volta che inviano una lettera minatoria, danno fuoco all’auto di un corrispondente, o sparano alla sua porta a scopo intimidatorio. Per questo è importante saper reagire evitando di cadere nella trappola. Ovviamente questo non significa che quando la serenità di un cronista, o peggio la sua incolumità, vengono messi in discussione non si debba denunciare pubblicamente o non sia necessario che tutti ci si stringa attorno al collega creando un cordone di solidarietà a sua protezione. Tuttavia bisogna poi essere altrettanto pronti a gestire la fase immediatamente successiva, evitando ogni personalizzazione dell’evento in quanto tale. E' chiaro che la diffusione di notizie che riguardano i cronisti mettono in moto una serie di meccanismi difficili da controllare. E’ successo ad ognuno di noi. Con le minacce, non sembri un paradosso, arrivano anche gli inviti ad eventi pubblici, le interviste, persino i premi. La società, per fortuna, si mobilità in nome della libertà di stampa. Detto questo la nostra vera sfida è quella di tornare a scrivere le notizie per come ognuno di noi sa e deve fare, nel silenzio delle redazioni, restando concentrati sul nostro lavoro. Negli anni ho imparato che i premi più gratificanti sono quelli che arrivano dalla quotidianità di un mestiere che è straordinario, da fare sempre e avendone cura in ogni istante. La “popolarità”, mi sia consentito il termine, a lungo andare non paga. Le minacce sono incidenti di percorso, pericolose e fastidiose rogne da mettersi alle spalle prima possibile per ripartire esattamente da dove si era rimasti. Alle mafie, al malaffare, ai corrotti e ai corruttori non fanno paura i personaggi. Sono invece terrorizzati dai cronisti. Contro le minacce dobbiamo restare cronisti.

Tiro al bersaglio, scrive Alberto Spampinato - Giornalista, fondatore e direttore di Ossigeno per l'Informazione. Sono oltre 410 i giornalisti che nel 2016 hanno subito intimidazioni e querele strumentali. Il fuoco divampa, limita il diritto di cronaca, ma nessuno corre a spegnerlo, cambia le leggi e le procedure che lo consentono. Manca la volontà politica. C’è poco da stare allegri. Ma qualcosa si muove. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, considera “prioritario porre un freno alle querele temerarie” e ha fatto un nuovo appello a provvedere. Inoltre è arrivata una forte e inequivoca richiesta della Federazione nazionale della Stampa al Governo e al Parlamento affinché sblocchino il disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa all'esame del Parlamento, da tre anni e mezzo, insabbiato al Senato, modificandolo ancora prima di approvarlo, per abrogare la pena detentiva per questo reato, ma aggiungendovi una norma (che non c’è nel testo attuale) in grado scoraggiare l'abuso a scopo strumentale delle querele, che ormai ne fa un vero e proprio strumento di intimidazione preventiva contro i cronisti che indagano su mafia, malaffare e corruzione. E’ una richiesta pienamente condivisa da Ossigeno per l’Informazione, che ne ha motivato l’urgenza con i dati resi noti il 24 ottobre scorso con il dossier “Taci o ti querelo!”, che cita dati ufficiali del Ministero della Giustizia. Questi dati sono impressionanti. Dicono che i procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa sono una marea, stanno dilagando di anno in anno, intasando la macchina della giustizia. Durano anni e oltre il 90 per cento si conclude con il proscioglimento dell’accusato. Ma ogni anno ci sono anche centinaia di giornalisti condannanti a pene sproporzionate, con pene detentive che ogni anno superano il secolo di carcere. Questa situazione è indegna di uno Stato di diritto e toglie ogni alibi ai temporeggiatori e ai minimizzatori.

La stampa con il silenziatore, scrive Paolo Borrometi - Giornalista, direttore della testata LaSpia.it e collaboratore dell'agenzia Agi. Nella Sicilia orientale, più a sud di Tunisi, c'è un luogo dove ancora la “mafia non esiste”. E' una provincia lontana, fra le più ricche dell’isola, dove si sono sempre mischiati interessi mafiosi, economici, massonici e -negli Anni Settanta - anche eversivi. Ma qui a Ragusa, in alcuni drammatici casi, la stampa usa ancora il silenziatore. Non vuole il rumore, non cerca la verità. Oggi esattamente come ieri, quando quella verità la inseguiva uno dei nostri colleghi che non c'è più, forse il meno citato e ricordato di tutti, Giovanni Spampinato, ucciso la sera del 27 ottobre del 1972 con sei pistolettate. Non era un eroe, era un giornalista. Ma stava però sempre un passo davanti agli altri, solo, esposto ai venti. La pagò cara. La pagò cara anche per colpa dei silenzi dei suoi colleghi. Eppure ancora dopo tanto tempo, a distanza di quarantaquattro anni dalla sua morte, si parla poco di lui, del suo omicidio, dei mandanti che hanno deciso di spegnere la vita di un giornalista. E' dimenticato. Ragusa, la sua città, non lo ricorda mai. Come se quel delitto non fosse mai avvenuto. Troppo scabrosa la sua vicenda, troppo misteriosa. Anche dopo tutti questi anni meglio non parlarne. Far finta di niente. Ancora oggi a Ragusa c'è chi sostiene che, in fondo, «Giovanni se l'è andata a cercare», che «Giovanni non si è voluto fare gli affari suoi», che l'assassino, «poverino», era rimasto vittima delle circostanze. Il carnefice che diventa vittima, il mondo capovolto. L'assassino che era poi il figlio del presidente del Tribunale di Ragusa, sullo sfondo personaggi della destra più pericolosa, contatti con i “neri” che in quegli anni mettevano bombe in giro per l'Italia. Un silenzio infinito. Che ancora resiste. E non solo per Giovanni Spampinato, non solo intorno alla sua storia rimossa dalla città. A Ragusa nel 2017 non si può, non si deve parlare di mafia.

La "guerra" di Ester, scrive Ester Castano - Giornalista. La mia storia di cronista alle prime armi è legata a Sedriano, 11 mila abitanti nell'hinterland milanese, primo comune della Lombardia sciolto per mafia. E' difficile fare la giornalista in un luogo dove tutti negano l'esistenza della mafia e del malaffare, dove tutti magari parlano di mafia e di malaffare ma sostengono che sono faccende che non riguardano - nemmeno sfiorano - la loro comunità. Questa mia storia comincia con un incontro con Alfredo Celeste, sindaco di Sedriano arrestato nell'ottobre del 2012 per corruzione - la procura gli contestava aiuti e raccomandazioni in cambio di voti raccolti nelle elezioni comunali precedenti - e appena qualche giorno fa assolto da ogni accusa dai giudici di Milano. La vicenda giudiziaria si è chiusa in primo grado, ma vorrei raccontare qualcosa che va al di là delle inchieste e delle sentenze. Vorrei raccontare cosa è capitato a me, che avevo vent'anni e stavo iniziando a fare la giornalista. E' l'ottobre del 2011 e il sindaco Celeste - che è un professore di religione - non celebra matrimoni civili perché contrastano con la sua coscienza cristiana ma intanto invita Nicole Minetti in pieno 'Ruby-gate' come madrina di un concorso di creatività femminile. Il sindaco teme contestazioni e, per affrontarle, chiede aiuto al padre di una sua consigliera comunale. Si chiama Eugenio Costantino, l'8 febbraio scorso è stato condannato a 16 anni di reclusione per 'Ndrangheta. Una suora e una maestra elementare intanto protestano indignate per quella manifestazione, Celeste annuncia querela contro di loro. La vicenda mi incuriosisce, decido di approfondirla. Incontro il sindaco. Gli chiedo se è vero che se l'è presa con la suora e con la maestra, parto dalla Minetti ma arrivo subito alla 'Ndrangheta. Alla presenza di alcuni imprenditori calabresi trapiantati in Lombardia, ai loro rapporti con la politica locale. Poi un anno di articoli, interviste, carte studiate. E una sfilza di querele nei miei confronti, sempre archiviate. E insulti, scherni, sberleffi ricevuti anche da colleghi di giornali locali. Poi ancora la minaccia del sindaco Celeste: «La Castano è persona violenta e aggressiva, se mi avvicina di nuovo o se anche solo telefona scatta immediatamente una denuncia per molestie». La diffida mi viene puntualmente notificata in una caserma dei carabinieri. Subito dopo il sindaco sarà arrestato (e ripetiamo, in questo febbraio del 2017 assolto in primo grado) e dopo qualche mese il comune di Sedriano sciolto per mafia dal ministero dell'Interno.

In mezzo una raffica di richieste danni da decine di migliaia di euro a una ragazza poco più che ventenne (io), più le umiliazioni per un precariato vissuto pericolosamente con articoli retribuiti 5 euro lordi. Sono andata avanti, siamo andati avanti con il mio direttore dell'”Altomilanese” Ersilio Mattioni. Senza timore. E ficcando il naso dove c'era bisogno di ficcare il naso. Anche se in molti volevano farci sentire in colpa, perché raccontavamo le collusioni della 'Ndrangheta in un piccolo comune della Lombardia. Noi non scriviamo sentenze, noi non siamo giudici. Siamo giornalisti, diamo notizie, cerchiamo di descrivere la realtà che abbiamo intorno. Ed è quello che abbiamo fatto. Raccontando le relazioni di amministratori con esponenti dell'associazione criminale che poi sono stati condannati. Di sicuro, fin dall'inizio in molti volevano farci stare zitti.

La mia versione sulla "guerra" di Ester, scrive Alfredo Celeste - Ex sindaco di Sedriano, primo comune della Lombardia sciolto per 'Ndrangheta. Rettifica. Leggo l’articolo “La guerra di Ester” del 21 febbraio scorso pubblicato su “mafie.blogautore.repubblica.it” nella rubrica “Mafie a cura di Attilio Bolzoni”. Comprendo perfettamente che con la mia assoluzione con formula piena, decretata l’8 febbraio u.s dal Tribunale di Milano sez. 8, la signora Ester Castano, autrice dell’articolo di cui sopra, senta crollare la sua credibilità di “giornalista d’inchiesta” e che tenti affannosamente di rilanciare la menzogna. Per questo, da quanto emerso nel dibattimento del mio processo, quanto scritto nella “Guerra di Ester” (ma contro chi?) non corrisponde a verità e in particolare: L’incontro con la Minetti è del maggio 2011: chiesi a Costantino, padre di un consigliere comunale, come a centinaia di altre persone, di partecipare alla serata che sarebbe stata contestata dalla sinistra. La signora Castano non era presente. La stessa, però, si  presentò nel mio ufficio cinque mesi dopo nell’ottobre 2011, perché è solo il 14 dello stesso mese che nasce il settimanale “Altomilanese”, e chiede spiegazioni della querela contro ignoti, che l’amministrazione comunale aveva presentato per i fatti succeduti durante la manifestazione stessa (una suora  ugandese, che accompagnava una delle 80 partecipanti al concorso “creatività della donna” viene “invitata”, con modi incivili, a non entrare nell’auditorium, ma senza esito). La religiosa non è mai stata destinataria della querela, e non avrebbe avuto senso in quanto vittima, così come descritto nelle parole della signora Castano. Nel nostro primo incontro in Comune, io e la signora parliamo di tutto e di più, fuorché di ‘ndrangheta e similari. La stessa scrittrice, nei suoi successivi e numerosi articoli che hanno descritto il nostro primo incontro nel palazzo municipale, lo conferma smentendo le sue attuali parole. Tutti gli articoli della signora di un anno prima del mio arresto, sono riferiti per diffamare unicamente la mia attività amministrativa e la mia vita privata e la mia professione di insegnante di religione, per una chiara strategia di lotta politica dell’editore dell’epoca, mio acerrimo avversario.  Niente a che vedere con la criminalità organizzata. Ho presentato per questo un’unica, ripeto, un’unica querela per diffamazione aggravata per la quale il Gup di Biella ha sentenziato di non doversi procedere perché in presenza di “esercizio del diritto di critica politica, pur accesa. Il rispetto della verità del fatto, in riferimento all’esercizio di critica politica, assume un limitato rilievo… “.  Compensate le spese: “...perché la querela, trattandosi di questione che ben poteva essere sottoposta all’attenzione di un giudice…”, e quindi  nessuna  pretestuosità o azione intimidatoria. La sentenza dell’8 febbraio del Tribunale di Milano, che mi scagiona completamente dalle accuse, perché il fatto non sussiste, ha escluso collusioni con la ‘ndrangheta, come del resto le aveva escluse ben chiaramente il pubblico ministero, titolare dell’indagine, sin dal capo d’imputazione iniziale. Si chiede ai sensi della vigente legge sulla stampa la rettifica di quanto sopra, con riserva di ogni altra azione.

La mafia dal balcone di casa mia, scrive Federica Angeli - Giornalista di Repubblica. “Mamma, ma perché vengono sotto il nostro balcone a gridare “Infame, gli infami muoiono? Ma chi sono, cosa vogliono?”. Difficile spiegare la mafia a tre bambini. Una mamma ha il dovere di far sognare i proprio figli il più a lungo possibile. Ma la scelta di combattere la malavita in un quartiere di Roma, Ostia - dove per anni il buio e il disinteresse delle istituzioni hanno permesso ai clan di diventare potenti e di ribaltare le regole del vivere civile e l'esistenza di una cittadina - ormai è stata presa. Ed è impossibile, quando si vive con quattro carabinieri armati al tuo fianco dalla mattina alla sera, nascondere ai propri figli le conseguenze di quella scelta. E soffocare anche quelle grida sotto il nostro balcone quasi ogni sera, da mesi ormai. Grida che dicono che prima o poi la pagherò. E' questo è il mostro che stiamo combattendo. A Ostia e dentro la mia famiglia. Una favola. Ecco come raccontarlo ai figli, con una favola. «C’era una volta una mamma, la principessa Penna, che ha deciso di dire basta al Male. Mister Mafia era il signore che governava una piccola città sul mare, Ostia, e tutti dovevano fare quello che voleva lui. I negozianti dovevano pagare a lui soldi ogni mese altrimenti la bottega andava a fuoco. Se Mister Mafia sceglieva di avere uno stabilimento balneare, lui doveva averlo. Chiunque tentasse di fermarlo la pagava cara: anche con la vita. Un bel giorno la principessa Penna decise di raccontare a tutti quello che Mister Mafia e i suoi amici facevano e, da quel momento, per loro sono iniziati un po’ di guai. I magistrati hanno cominciato a indagare su di loro e a farli arrestare, in giro si parlava solo di loro e non c’era più un affare che potessero portare a dama senza finire sul giornale. La principessa Penna venne affidata alla cura di quattro Cavalieri con la pistola, per tenere al sicuro lei e i suoi tre bambini. Nessuno poteva farle più del male, il prezzo da pagare era "solo" quello di non avere più libertà e qualche dispettuccio la notte, come gli insulti sotto il balcone o la benzina sulla porta di casa». “Ma la favola come finisce mamma? Chi vince alla fine?”. La fine della nostra favola la scriveremo insieme, nel frattempo continuiamo a lottare.

Controinformazione di un terremoto, scrive Angelo Venti - Giornalista, fondatore e direttore di Site.it. Aprile 2009, L’Aquila: il “Modello Bagdad dell’informazione” applicato per la prima volta in Italia. Enti locali esautorati dei loro poteri, 35 mila sfollati chiusi in 171 tendopoli e altrettanti trasferiti sulla costa, territorio militarizzato, decine le “zone rosse”, forti le limitazioni per i giornalisti, con tv e inviati che si muovono solo al seguito delle truppe del Dipartimento di protezione civile. E’ in questo scenario – e per dare voce ai terremotati e informarli di quanto sta succedendo - che site.it apre una sua redazione all’interno del cratere e dà vita al foglio “Sollevati Abruzzo”. Un pugno di giornalisti, alcuni con esperienze di zone di crisi o di guerra ma tutti con una conoscenza diretta di quel territorio, che si ritrovano loro malgrado ad applicare una tattica da “guerriglia informativa”: a disposizione solo fotocamere, computer, chiavette wifi, un gruppo elettrogeno e ciclostile. Si dorme all’addiaccio e si stampa praticamente alla macchia, con gli amici che assicurano rifornimenti di cibo, generi di prima necessità, benzina, carta, inchiostro. La rete per diffondere i ciclostilati – la cui distribuzione viene impedita nelle tendopoli - è anche strumento di raccolta delle informazioni a cui si sommano ricognizioni continue, verifiche, visure camerali, studio di decreti e ordinanze del Dipartimento. Oltre che sul ciclostilato, le notizie sono pubblicate su rete internet e, pur di farle circolare, la redazione le gira anche ai colleghi disposti a rilanciarle. Un singolare modello di lavoro che porta comunque risultati. Il caso delle macerie triturate a Piazza d’armi, lo scandalo dei bagni chimici, le ditte in odor di mafia nel Progetto Case, le denunce sugli abusi del potere di ordinanza, sugli effetti devastanti delle deroghe alle leggi, sull’allentamento dei controlli, sulla corruzione, sulle infiltrazioni, sullo sperpero di risorse pubbliche. Un lungo lavoro riassunto nel “Dossier Abruzzo, la fine dell’isola felice” e che sfocierà, nel 2010, nell’assegnazione del Premiolino con la seguente motivazione: «Attraverso site.it ha diffuso documentatissime inchieste sugli appalti nella ricostruzione del post terremoto, sui lati oscuri, gli abusi di potere e le infiltrazioni delle mafie in terra d’Abruzzo, diventando un punto di riferimento per gli inviati di giornali e tv».

Cortocircuito in Val Padana, scrive Elia Minari - Coordinatore dell'Associazione culturale antimafia "Cortocircuito" di Reggio Emilia. La nostra avventura nasce nel 2009 con “Cortocircuito”, giornalino studentesco di alcuni licei della città di Reggio Emilia, nel ventre della pianura padana. Da otto anni cerchiamo di approfondire, con video-inchieste e reportage, la penetrazione delle mafie nel Nord Italia. Indaghiamo su questo tema, da studenti, ponendo delle domande e collegando tra di loro vari documenti: visure delle camere di commercio, delibere comunali, visure catastali e interdittive antimafia. Andando oltre la superficie dei pregiudizi e dei luoghi comuni, ci siamo resi conto che molte delle figure chiave delle quali ci stavamo occupando avevano cognomi nordici. Quando abbiamo iniziato non immaginavamo di vedere una nostra video-inchiesta proiettata in Tribunale dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna. Negli anni precedenti abbiamo realizzato approfondimenti sui cantieri della linea Tav tra Milano e Bologna, sulla costruzione di alcune scuole, sugli affari di due discoteche emiliane e sui subappalti dello smaltimento dei rifiuti. Su diverse di queste vicende, ambientate tutte nel Nord Italia, dopo la pubblicazione delle nostre inchieste la magistratura ha aperto fascicoli d’indagine. Un altro reportage realizzato ha costretto alle dimissioni il sindaco di Brescello, il paese emiliano noto per i film su “Peppone e Don Camillo”. A seguito della nostra inchiesta, i carabinieri hanno avviato un’indagine che nel 2016 ha portato allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Nella relazione allegata al decreto di scioglimento, firmato dal presidente della Repubblica, viene citato esplicitamente il nostro video-documentario. Nel caso di Brescello abbiamo mostrato come la ‘ndrangheta nel Nord Italia cerchi non solo il contatto con il mondo imprenditoriale e politico, ma miri anche al consenso della cittadinanza, attraverso sponsorizzazioni e finanziamenti a sagre ed eventi sportivi. Dalle nostre inchieste emerge il volto inedito di una criminalità interessata all'informazione: uomini della ‘ndrangheta impegnati a redigere comunicati, convocare conferenze stampa, pilotare interviste su giornali locali.

Per i beni mafiosi, è l'anno della svolta, scrive Umberto Postiglione - Prefetto, Direttore dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati. Poco dopo aver assunto la direzione dell’Agenzia Nazionale, a metà del 2014 mi resi conto che era necessario dare una forte spinta all’attività della struttura. Quello che oggi considero un miracolo dovuto essenzialmente alla passione e all’impegno di dirigenti e funzionari, si è materializzato. Diventando, prima l’Agenzia dei record nel numero dei beni restituiti alle istituzioni e alla società civile (circa 5.500 fra il 2015 ed il 2016) e poi l’Agenzia capace di organizzarsi, a normativa invariata, potenziando le proprie capacità attraverso iniziative costruite a partire dal 2015. Il primo sforzo è stato diretto verso l'individuazione di percorsi capaci di coniugare i beni confiscati con l’unica risorsa a disposizione nel panorama pubblico, i fondi europei. Grazie alla collaborazione con la Presidenza del Consiglio-Dipartimento per le Politiche di Coesione e con l’Agenzia per la Coesione Territoriale, è stato promosso un piano di interventi che, al momento, sta vedendo le regioni italiane, nei cui territori è concentrato il 93% dei beni confiscati, impegnate ad elaborare con i comuni programmi per il recupero dei beni confiscati a funzioni di crescita sociale e civile, con il sostegno dei fondi Pon e Por. Per migliorare l’efficienza del lavoro dell’Agenzia, è stato creato un nuovo sistema operativo, “Open Regio”, che consente a tutti i possibili destinatari di accedere alle immagini, alla localizzazione ed a tutta la documentazione relativa ai beni che sono in fase di destinazione nei territori. Tale sistema è fondamentale per la realizzazione del programma di consegna dei beni attraverso lo strumento della conferenza dei servizi informatica. Tutti gli aventi titolo all’assegnazione, mediante password appositamente rilasciata, possono entrare in “Open Regio” per verificare se vi siano beni di interesse e chiederne l’assegnazione. Le procedure svolte attraverso tale sistema hanno ridotto in maniera straordinaria i tempi della gestione da parte dell’Agenzia. Nei primi esperimenti svoltisi a Reggio Calabria e Trapani, i beni sono rimasti nella disponibilità dell’Agenzia per soli 3 mesi dalla loro confisca definitiva e sono già in via di consegna agli assegnatari. L’evoluzione positiva dell’Agenzia troverà ulteriore spinta dal progetto denominato “Intervento di sviluppo delle competenze organizzative e gestionali dell’ANBSC”. Si tratta di un importante programma di potenziamento quantitativo e qualitativo delle risorse umane, sostenuto dal Pon Governance, che nel corso del biennio 2017-2018, doterà l’Agenzia di risorse umane su 3 livelli: 50 risorse aggiuntive distribuite fra le sedi sul territorio e distinte fra operatori data entry, professionisti dei rami legale, aziendale, tecnico ed altissime professionalità in grado di fornire servizi di due-diligence aziendale per i casi di elevata complessità. Se a tutto ciò si aggiungerà quanto previsto dalle modifiche al Codice Antimafia ancora all’esame del Senato, allora potremo essere certi che a fianco della magistratura e delle forze dell’ordine, nel contrasto all’accumulo di patrimoni mafiosi, ci sarà una macchina nuova e straordinariamente efficiente.

Un patrimonio di tutti nelle mani di pochi, scrive Nando Benigno - Coordinatore nazionale Scuola di formazione Antonino Caponnetto. La rivoluzione è arrivata con l'associazione Libera nel 1995 e con quel milione di firme chieste per una legge che permettesse un riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Il mafioso, sul proprio territorio, poteva essere non solo arrestato, processato e condannato ma perdeva tutto ciò che aveva illegalmente accumulato. E non solo. Quei beni - terreni case, ville, appartamenti, officine, pizzerie, ristoranti, complessi residenziali, catene di discount, agenzie viaggi, complessi sportivi - potevano essere restituiti ai cittadini per un uso sociale. Adesso, dopo più di vent'anni, sono decine di migliaia. Come si fa a gestire un patrimonio così gigantesco? Le prefetture sono adeguatamente attrezzate per svolgere il compito di valutazione dei soggetti interessati alla gestione dei beni da assegnare? I Comuni e le Regioni, hanno le risorse finanziarie per aiutare gli assegnatari dei beni confiscati a superare le iniziali difficoltà di avvio della gestione sociale dei beni confiscati? E, soprattutto, la loro gestione è veramente sociale? Oppure gli assegnatari, una volta ottenuto il bene, lo sentono come loro e solo loro? E gli amministratori dei grandi patrimoni sottratti alle mafie chi sono e chi li designa? Visto che il bene confiscato è considerato un bene comune, perché assegnatari ed amministratori non provano a spiegare alla cittadinanza del luogo dove è stato confiscato e cosa realmente ne fanno? Quotidianamente si annunciano notizie anche di sequestri di contanti e di conti correnti, ossia denaro liquido. Dove vanno a finire tutti questi soldi? Perché non restano a disposizione del territorio dov'è avvenuto il sequestro per aiutare le attività produttive degli stessi beni confiscati? Il territorio deve essere più coinvolto, il territorio deve sapere il destino di queste sue ricchezze. Altrimenti c'è il rischio che queste diventino ricchezze soltanto di pochi.

Beni confiscati e "raccomandati", scrive la Redazione catanese de "I Siciliani giovani". «Per farcelo affidare c’è voluto l’aiuto politico!». A Catania sono diversi gli assegnatari che hanno ammesso che i beni confiscati li hanno ottenuti così. Almeno sino al 2010, anno in cui è stata istituita l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, nata per velocizzare i tempi di assegnazione, ma incapace persino di aggiornare la lista che riporta solo trentadue beni in una città come Catania. Città, dove un giorno sì e l’altro pure, per anni si sono sempre confiscati tesori mafiosi. Nel 2013 con l’elezione del sindaco Enzo Bianco le cose sarebbero dovute cambiare, e i beni confiscati sarebbero dovuti diventare “una priorità”. Ma così non è stato. Anche l’approvazione del regolamento comunale, ottenuto nel 2014 con le unghie e con i denti grazie alla pressione di diverse associazioni antimafia, rimane un miraggio: dopo tre anni non è stato mai applicato. «Ma di bandi ne abbiamo fatti uscire già due”, dicono i fedelissimi del sindaco, “e tanti altri ancora ne pubblicheremo!». Due bandi: il primo ritirato subito perché nessuna associazione no profit avrebbe potuto spendere milioni di euro in assicurazioni e ristrutturazioni - Catania è stata l’unica provincia della Sicilia a non fare mai richiesta dei Fondi europei per la ristrutturazione dei beni confiscati – e il secondo bloccato nell’attesa che venga convocata una commissione che selezioni i partecipanti e assegni quindi il bene. Riassumendo: abbiamo dei beni sottratti ai mafiosi che potrebbero essere utilizzati, l’Europa è disposta pure a darci dei soldi, ma nessuno può usufruirne perché non c’è un ufficio che se ne occupi. Intanto il Comune, al tracollo finanziario, continua a pagare affitti a privati per uffici pubblici, chiude scuole inagibili in attesa di ristrutturarle e migliaia di famiglie sono senza un tetto. Beni confiscati? Come se non ci fossero.

Sicilia, nessuna confisca dopo lo scandalo, scrive Salvatore Cusimano - Giornalista. E se per trovare la mafia dovessimo cercare l’antimafia? Ovviamente è una provocazione. Ma lo slittamento di un pezzo del fronte antimafioso verso l’uso clientelare e familistico della gestione del patrimonio accumulato col crimine, secondo i metodi della più becera politica meridionale e siciliana, autorizza l’iperbole. Lo scandalo Saguto, che porta il nome dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione di Palermo, sospesa da funzioni e stipendio dal Consiglio Superiore della Magistratura, ha prodotto un impatto notevole nell’amministrazione dell’imponente mole di terreni, case, pacchetti azionari, aziende gestiti dallo stato attraverso elefantiaci studi legali e voraci custodi giudiziari e nella stessa attività dei tribunali siciliani. I dati dell’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) aggiornati a dicembre del 2016 non lasciano dubbi. Le confische in Sicilia sono passate da 49 del 2014 a 15 del 2015. Per il 2016 non si registra nessun provvedimento né di primo né di secondo grado e tanto meno definitivo. Anzi, molti dei sequestri attuati si sono risolti in una revoca. Un crollo verticale senza precedenti. La legislazione sui patrimoni illeciti sembra aver perso la sua forza propulsiva per il vizio italiano di costruire apparati burocratici sovradimensionati e inefficaci e normative farraginose. Solo da pochi giorni, a 35 anni di distanza dall’introduzione della legge, per esempio il Ministero dell’Economia ha sciolto la riserva sulla vendita delle aziende confiscate. L’ANBSC sarà affiancata dalla CONSAP, Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici, al 100% del Ministero per lo Sviluppo Economico. Tuttavia molte delle imprese mafiose, una volta confiscate, sembrano essere destinate fatalmente al fallimento perché non possono più contare su clienti “scelti e convinti” con la forza di persuasione che solo i clan riescono a esercitare. Così ditte edili, di trasporti, di intermediazione sono costantemente in bilico fra bilanci in rosso e chiusura. Altre (supermercati, alberghi, ristoranti, cliniche) possono farcela e alcune, anche dopo il sequestro, godono di ottima salute. Oltre 6000 fra terreni e edifici sono stati assegnati. Altri 6800 sono in attesa del bando pubblico. Sulla base di questi elementi un ripensamento si impone recuperando il senso più profondo di una legislazione che, nelle intenzioni di chi ha pagato con la vita la sua intuizione, doveva essere non solo all’avanguardia nel mondo ma anche l’arma definitiva per abbattere il sistema mafioso e la sua rete di complicità nella politica e nella società.

Latifondi e Tribunali, scrive Giacomo Di Girolamo - Giornalista e scrittore. I più grandi possidenti agricoli in Sicilia erano, trent'anni fa, gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Erano tempi di mafia, quelli. I più grandi possidenti agricoli oggi, in Sicilia, sono i tribunali. Sono tempi di antimafia, questi. E non sono comunque tempi facili. Perché al di là della retorica sui beni sequestrati, c’è una grande confusione oggi, sulla loro gestione. Giudici costretti a fare da manager, agronomi che mettono su cooperative, commercialisti che diventano imprenditori, amministratori che fanno i signorotti. Più un popolo di partite iva, intermediari che diventano campieri, e sembra di essere all’origine della mafia, quando oggi, come un secolo fa, queste figure che sfruttano la manodopera e ingannano il padrone. Ieri lo facevano in nome della mafia, oggi lo fanno in nome dell’antimafia. La vicenda che ha coinvolto Silvana Saguto, è indicativa di un andazzo che in molti avevano già tentato di denunciare. Inascoltati, perché tutto puoi criticare, ma mai un amministratore giudiziario o il dirigente di qualche associazione o cooperativa antimafia. Il problema oggi è non solo cosa fare con tutti questi beni. Il vero problema è il “come” gestirli. Cioè: il modello. O, in altri termini: la partecipazione. Il coinvolgimento, cioè, nella gestione, non solo delle istituzioni e delle primedonne dell’antimafia, ma anche della comunità in cui il bene ricade. Spesso certa ideologia antimafia equipara la proprietà mafiosa di un’azienda con chi ci lavora: se è mafioso il proprietario lo sono i suoi dipendenti.  Mi è capitato di assistere al fallimento di aziende sequestrate gestite da amministratori più dediti a collezionare gettoni di presenza che fare profitti. I lavoratori vedevano, avrebbero voluto parlare, ma la risposta era: zitti. Magari, se queste persone, fossero state ascoltate, si sarebbe evitata la chiusura. Bisognerebbe introdurre, nella gestione delle aziende sequestrate, la buona pratica dell’ascolto.

Caso Maresca - Don Ciotti: la verità detta e ancora da dire. Il "don" di Libera ha querelato il magistrato e Panorama. Poi le scuse di Maresca e la querela (contro di lui) cancellata. Ora deve arrivare la verità, scrive l'11 marzo 2017 Giorgio Mulè su "Panorama". Questo articolo comincia dalla fine della storia, ma il colpo di scena arriverà comunque nel finale. Il primo marzo, il magistrato Catello Maresca, impegnato a Napoli contro la Camorra, rende pubblica una lettera che inizia così: "Caro don Luigi e cari amici di Libera". Il "caro don Luigi" è don Luigi Ciotti e Libera è l'associazione da lui fondata che raccoglie tra l'altro circa 1.600 cooperative, alle quali sono stati assegnati immobili e aziende confiscate (oltre 1.400 ettari di terreni) alle mafie. Nella lettera, Maresca - che può vantare tra l'altro di aver sgominato il clan dei casalesi, arrestato il superboss Michele Zagaria e di aver dato l'impulso per la confisca di beni per milioni di euro - affronta il contenuto di una sua intervista pubblicata da Panorama nel gennaio del 2016. È passato cioè oltre un anno. Oggi dice: "Mi dispiace tantissimo per lo spiacevole equivoco che è nato a seguito della mia intervista...". E inizia un'interminabile sequela di scuse e precisazioni dopo aver sostenuto che il giornalista ha male sintetizzato le sue parole o che ha liberamente interpretato il suo pensiero. Maresca si "dispiace perché mai ho voluto neanche lontanamente mettere in dubbio la storia e il valore inestimabile della storia di Libera" ma si "dispiace" anche perché alcune considerazioni "sono state strumentalizzate e utilizzate in una ingiusta e scorretta campagna di delegittimazione di Libera e del lavoro di molti volontari". Il molto dispiaciuto dottor Maresca difende di quell'intervista un concetto che è "pronto a dimostrare con decine di esempi".

Vediamo il concetto: "In certi territori è chiara la percezione che solo chi sia legato al mondo di Libera offra le garanzie di affidabilità necessarie per gestire beni confiscati. Viene, quindi, naturale che anche soggetti - per così dire - poco interessati alla causa volontaristica antimafia, cerchino di avvicinarsi a Libera al solo scopo di trarne vantaggi personali e utili propri".

Il 13 gennaio 2016, dopo che erano circolate le anticipazioni della sua intervista, il magistrato aveva detto all'Ansa che "bisogna constatare che purtroppo, con il tempo, allo spirito iniziale (di Libera, ndr) esclusivamente volontaristico si sia affiancata un'altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell'intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale".

Intervista e successivi interventi di Maresca scatenarono le ire di don Ciotti che davanti alla commissione Antimafia ne parlò etichettando sempre il magistrato come "questo signore", definì le affermazioni "sconcertanti" e annunciò una denuncia perché "il fango fa il gioco dei mafiosi".

Maresca rispose a stretto giro, scrisse un articolo sul Mattino il 15 gennaio nel quale bollò come "scomposta" la reazione di don Ciotti e invitò il sacerdote a non rivolgersi a lui con l'appellativo "questo signore". E quanto "addirittura" alla minaccia di querela rivendicò "la legittima espressione di opinione sul sistema di gestione dei beni confiscati e sulle sue criticità".

Soprattutto ribadì il nocciolo della questione e scrisse di suo pugno: "Resto personalmente convinto che esista l'alto rischio che sigle che hanno guadagnato sul campo stima ed onorabilità sul fronte antimafia possano essere vittime, anche inconsapevoli, di strumentalizzazioni da parte di soggetti interessati ad altro".

Due mesi dopo, a marzo 2016, don Ciotti annunciò di aver querelato Maresca e Panorama dal momento che il magistrato non aveva fatto alcuna marcia indietro.

E adesso, prima di andare avanti, riepiloghiamo: il pm antimafia Maresca rilascia un'intervista a Panorama con riferimenti problematici su Libera e la gestione dei beni confiscati; dopo la pubblicazione non invia alcuna smentita o precisazione a Panorama; ribadisce i concetti dell'intervista con altre e successive dichiarazioni; risponde per le rime a don Ciotti con un articolo sul Mattino; incassa in silenzio la querela di Libera; a distanza di oltre un anno scrive una lettera aperta a Libera per scusarsi.

Don Ciotti lo accoglie come il figliol prodigo perché "fa onore a tutti prendere coscienza che si può aver sbagliato", allarga le braccia sul perché Maresca abbia deciso di tornare sui suoi passi dopo oltre un anno e annuncia soprattutto che ritirerà la denuncia contro il magistrato mentre proseguirà "contro il settimanale Panorama".

E adesso veniamo al non-noto di questa storia. Il dottor Maresca sa perfettamente che non c'era nulla da smentire di quell'intervista come testimoniano vari sms che inviò all'autore, il giornalista Carmelo Caruso, e al sottoscritto.

Ma c'è molto di più. Il 22 gennaio dopo che il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti tornò sulla vicenda Maresca-Libera (Roberti dichiarò: "Nessuno si deve offendere se qualcuno avverte su un possibile rischio di infiltrazione"), Maresca mi inviò un messaggio che recitava così: "Anche questa è una soddisfazione".

Il 10 marzo, a seguito dell'annuncio della querela di don Ciotti, mi scrisse questo messaggio in risposta alle affermazioni del sacerdote: "Ciao Giorgio, che vuoi fare? Questi hanno davvero perso il contatto con la realtà. Vuol dire che dovrò fare l'anti-antimafia. Ora taccio ma ti assicuro che ci sarà da divertirsi a svelare nel possibile processo tutte le belle cose su Libera".

Il 26 marzo segnalò al giornalista che lo aveva intervistato un articolo il cui titolo recitava "Non lavoro più in nero per te" - Don Ciotti lo prende a ceffoni" accompagnato da questo messaggio: "Questa storia la conosceva?".

E subito dopo: "Qui da noi non hanno perso il vizio di tenere lavoratori a nero". E ancora: "Vedi pure i soldi per la manifestazione di Messina da dove li hanno presi. E i soldi delle coop che fine fanno. Auguri".

Già, dottor Maresca, molti auguri. Ci vediamo in tribunale: Panorama sarà sul banco degli imputati, ma lei sarà chiamato a testimoniare con l'obbligo di dire la verità per onorare la promessa di indossare i panni dell'anti-antimafia e spiegare perché "ci sarà da divertirsi a svelare tutte le belle cose su Libera".

Nel frattempo, dopo essersi cosparso il capo di cenere con don Ciotti ed essere stato graziato dal fastidio di un processo in qualità di imputato, ha annunciato che il 21 marzo sarà a braccetto con il ritrovato amico in occasione della giornata della memoria per le vittime della mafia. A proposito di memoria, di vittime e di mafia mi rimbomba una frase di Giovanni Falcone: "Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola".

Associazione Contro Tutte le Mafie (Taranto), Associazione Caponnetto (Latina), Casa della Legalità (Genova), Antiracket Capitano Ultimo (Foggia), Associazione Terra dei Fuochi, (Napoli): docent!

«Lotta alla mafia? Non spetta alle toghe, loro devono far rispettare la legge». La lezione di Macaluso, scrive Davide Varì il 4 Marzo 2017, su "Il Dubbio". In un appassionante intervento alla Scuola superiore della magistratura, lo storico dirigente e intellettuale comunista illustra le trasformazione delle cosche e spiega: «Le cose sono cambiate, i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo del passato». «Ho 92 anni suonati e nella mia vita ho visto di tutto. Eppure, parlare a dei giovani magistrati mi emoziona, mi commuove». Se qualcuno avesse detto a Emanuele Macaluso che un giorno sarebbe stato invitato dalla Scuola superiore della magistratura per tenere una lezione sulla mafia, la politica e la giustizia, lui, vecchio comunista siciliano, lo avrebbe fulminato con una “taliata”, magari facendo spallucce e voltandosi dall’altra parte. E invece è accaduto. E così il grande suggeritore di Giorgio Napolitano, si dice infatti che i suoi saggi consigli abbiano accompagnato il settennato e mezzo del presidente più “politico” degli ultimi anni, si è ritrovato, emozionato come un ragazzino alla prime armi, a dover spiegare a un nugolo di imberbi magistrati il complicatissimo rapporto tra politica e magistratura italiana. E allora conviene partire dalla fine, dalle parole con cui Macaluso ha chiuso il suo lungo e suggestivo intervento: «Eravamo all’inizio degli anni 80. Achille Occhetto era il segretario regionale del Pci siciliano e nel corso del suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario invitò tutti, magistrati compresi, a combattere contro la mafia. Poi prese la parola il presidente della Corte d’Appello di Palermo che con grande serenità e chiarezza spiegò al giovane Occhetto e a noi tutti, che la magistratura non doveva fare nessunissima lotta, neanche contro la mafia: “La magistratura deve applicare le leggi e basta”, disse». Ma questa è solo la conclusione dell’intervento di Macaluso. Per più di un’ora il vecchio comunista ha raccontato episodi chiave della storia della Sicilia e del nostro Paese. A cominciare dal fascismo e da Mussolini che «quando presentò il Listone in Sicilia si affacciò con i mafiosi sui balconi delle piazze, salvo poi inviare il prefetto Mori che perseguitò figli, moglie e genitori dei latitanti o presunti tali». E poi la liberazione e lo sbarco alleato, che divenne il momento in cui si saldò l’alleanza tra Stato, Chiesa, latifondo e Cosa nostra. E l’avvento della Dc col ricordo di Giuseppe Alessi: «Grande avvocato antifascista e primo presidente della regione Siciliana, che rifiutò di iscrivere i mafiosi nella Dc e per questo fu “minacciato” dal vescovo in persona». Poi Alessi si dimise, o fu fatto dimettere, e arrivò Arcangelo Cammarata che con i mafiosi era decisamente più disponibile e malleabile. E quel blocco di potere tra Chiesa, Stato, latifondo e mafia si rafforzò con le grandi lotte contadine. E a quel punto Macaluso ha spiegato ai giovani magistrati chi era Placido Rizzotto: «Un combattente che io conobbi e che fu ucciso dalla mafia perché lottava al fianco dei contadini». E se è vero che Rizzotto fu ucciso dalla mafia, è soprattutto vero che a tradirlo furono gli uomini dello Stato. A cominciare da un giovane ufficiale di nome Carlo Alberto Dalla Chiesa, il futuro generale Dalla Chiesa, il quale al processo sulla morte di Rizzotto dichiarò che quel delitto non aveva nulla a che vedere con la politica e con la mafia. «Ma io capisco quella sua posizione, allora c’era un unico grande nemico: il comunismo». Ma anche i giudici ebbero un ruolo in quel sistema. Anche pezzi di magistratura fecero parte di quel blocco di potere. «Il giudice Guido Lo Schiavo teorizzò in un libro quel legame: “Dire che la mafia disprezza la polizia e la magistratura è un’inesattezza – scrisse Lo Schiavo -, la mafia ha sempre rispettato la giustizia e la magistratura, si è inchinata alle sue sentenza collaborando anche alla cattura dei banditi”». Ma qualcosa iniziava a cambiare, tanto che nel ‘ 78 la procura di Palermo fu affidata a Gaetano Costa: «Un uomo rigoroso, colto, onestissimo. Un amico che pur avendo le sue idee non si iscrisse mai a Magistratura democratica per mantenere la sua indipendenza. Ma Costa fu isolato – ha raccontato Macaluso – tanto che quando preparava mandati di arresto per i mafiosi nessun aggiunto li firmava con lui. E questa fu la sua condanna». Poi arrivò la generazione che si era laureata nel ‘ 68 e allora la magistratura cambiò davvero e quel patto osceno venne meno: «E fu proprio la fine di quell’alleanza che determinò l’inizio del terrorismo mafioso che raggiunse il culmine negli anni ‘ 90». Ma di lì in poi Cosa nostra inizia a perdere. «Io credo che la mafia siciliana abbia perso – ha infatti ribadito alla platea di giovani magistrati Macaluso-. Questo non vuol dire che la mafia non c’è più. Io ritengo che le cose siano cambiate, che i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo che hanno avuto in passato». Poi la frase finale, il congedo da quella platea così particolare: «I giudici non fanno battaglie, i giudici devono far rispettare la legge. Non lasciate che la politica scarichi su di voi questa responsabilità». E chissà se qualcuno ascolterà le parole di un vecchio comunista.

Sciascia e il florido mercato dell’antimafia, scrive Alberto Cisterna l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Trenta anni sono molti. Ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla Mafia sembra il moto di pochi giri. E ancora oggi va chiarito il senso delle parole dello scrittore. Come Sciascia aveva immaginato, è stata la società civile a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Trenta anni sono molti. Ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla mafia sembra il moto di pochi giri. Tra le parole che Sciascia adoperò nel suo celebre articolo sui “Professionisti dell’antimafia” sarebbe difficile trovare (ancora oggi) un punto di equilibrio condiviso, una convergenza che vada oltre l’immensa stima verso l’intellettuale e il sommesso tributo a chi parve la vittima più immediata di quelle parole, ossia Paolo Borsellino. La morte sua e di Falcone, di fatto, sono suonate come un sigillo sul “torto” di Sciascia, sull’errore tante volte rinfacciatogli per quella posizione. La falce mafiosa ha giocato uno scherzo terribile al genio di Racalmuto, facendolo apparire un antagonista di colui che, invece, lo amava profondamente (Falcone) e, addirittura, lo annoverava tra i suoi maestri (Borsellino). In questi giorni Felice Cavallaro e altri hanno ricostruito con chiarezza il clima di 30 anni or sono. Le scuse, le incomprensioni, i riavvicinamenti tra i protagonisti della querelle sono stati rievocati con precisione, ma quelle parole restano un materiale incandescente, difficile da manipolare. Sciascia evocava il rischio che, in nome di una professionalità così difficile da misurare e valutare, si consumassero ingiustizie, si aprisse la strada alla discrezionalità più sfrenata. In un settore, come quello della lotta alla mafia, in cui peraltro era e resta decisivo l’approccio dei media, la mediazione tra carte processuali e pagine dei giornali. Una cristalleria, fragile e incline alle crisi di nervi ancora oggi. C’è da chiedersi per quale ragione. La prima, sopra ogni altra, è che le mafie dopo trent’anni non sono state ancora battute. Sono all’angolo, in enorme difficoltà, sbrindellate in molte articolazioni, ma non sono ancora state sconfitte. Abbiamo la legislazione più severa del mondo, la migliore polizia giudiziaria, una parte importante della magistratura interamente votata a questa battaglia eppure non se ne viene a capo. La cosa più sconfortante è, soprattutto, che nessuno si senta in dovere di fornire un’indicazione, di dare una scadenza, di indicare un evento che possa servire da punto di verifica. Si combatte e basta in un’emergenza senza fine. Una gigantesca guerra di trincea in cui si lotta per vette, per colli o per radure che, una volta prese, non hanno alcun significato decisivo. Sono ormai centinaia le conferenze stampa in cui si annunciano sequestri, catture di boss e arresti salutati con toni roboanti e che, poi, si rivelano solo l’ennesima tappa di un’Anabasi infinita e sconsolata. La seconda, di ragione, che rende ancora scivolose le parole di Sciascia e arduo un ragionamento pacato, riposa nel mondo in cui la politica si è organizzata per combattere la mafia. Centrale in questa visione era il mito della società civile che doveva sostenere la prima linea delle toghe e delle polizie con la forza della propria innocente purezza. Un mito che Sciascia aveva spezzato con le sue parole, suonate come un j’accuse lanciato proprio contro chi doveva essere solo sostenuto e tutelato. Però, come l’intellettuale siciliano aveva immaginato, è stata la società civile – quella cioè che le mafie tiene in vita con la sua domanda di illegalità – a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Se le parole di Sciascia fossero oggi messe al centro di una discussione serena, si capirebbe che i «professionisti dell’antimafia» di cui occuparsi non sono (i pochissimi) magistrati o poliziotti che fanno carriera solo per la professionalità e l’impegno profuso sul fronte delle cosche. Lo sguardo dovrebbe volgersi a quel mondo in cui (esclusa Libera e pochi altri) vivono e operano gruppi della società civile con lo sguardo volto alle cordate di “combattenti” da promuovere mediaticamente e la mano tesa alle casse pubbliche di una politica che considera l’obolo all’antimafia sostanzialmente alla stessa stregua di una mazzetta alla mafia.

Il mercato dell’antimafia? Ne fanno parte anche i magistrati, scrive Tiziana Maiolo il 13 gennaio 2017. Che esista, e non da oggi, un “florido mercato dell’antimafia”, come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. E l’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria “antimafia”. Le geniali intuizioni di Sciascia e quelle carriere dei pm “anti”. Che esista, e non da oggi, un “florido mercato dell’antimafia”, come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. E l’aveva previsto trenta anni fa, senza mai sbagliare un colpo, la genialità di Leonardo Sciascia. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. Basterebbe il fatto che si pensano, si esibiscono (e ci costruiscono carriere) come “antimafia”. Non è solo un fatto linguistico. Nessun Pubblico ministero né alcun giudice può mai definirsi “anti” qualcosa o qualcuno, soprattutto ergersi a combattente nei confronti di un fenomeno, neppure il più criminoso e sanguinario quale è per l’appunto la mafia. Essendo la lotta alla criminalità organizzata compito dello Stato e delle forze dell’ordine, solo in un caso i Pubblici Ministeri (e mai i giudici) potrebbero gettarsi nella mischia dell’” antimafia”, se fossero sganciati dall’Ordine giudiziario e sottoposti all’esecutivo. Ma così non è e difficilmente sarà. Questa definizione solo apparentemente lessicale è importante proprio per quel che diceva Leonardo Sciascia, cioè che attraverso questa sorta di “professionismo” e di costruzione di carriere si sarebbe arrivati a una crisi profonda dello Stato di diritto e a un’amministrazione della giustizia strabica e, alla fine, ingiusta. È vero, non solo i magistrati si sono macchiati del “reato” di professionismo. Ci sono state scalate politiche nate sulle lenzuola bianche alle finestre, e florilegi di convegnistica e produzioni per così dire letterarie a fare da contorno all’attività della giustizia con il piglio dell’inevitabile, quasi tutto fosse concesso in nome di una battaglia di religione. Pure si sarebbe potuto fare diversamente. E diversamente si è fatto in tante parti d’Italia, senza protagonismi né luci della ribalta. Un piccolo esempio di un episodio cui ho partecipato personalmente. Quando ero assessore alla sicurezza a Buccinasco (cittadina attaccata a Milano e ingiustamente chiamata la “Platì del nord”), abbiamo aperto un asilo in una villetta confiscata. L’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria “antimafia”. Qui sta la differenza tra il fare e l’apparire. L’asilo non era “anti” niente, ma forse era utile. E ancora non ho capito che sapore abbia la pizza mafiosa rispetto a quella dei ragazzi di Libera. La magistratura ha enormi responsabilità in tutto ciò. Non può chiamarsi fuori. Neanche Falcone. La polemica di Leonardo Sciascia sul maxiprocesso non fu questione di facciata né di personale inimicizia. Fu allarme e avvertimento: non combattete i fenomeni, non innamoratevi di un’ipotesi, non lasciatevi lusingare dalle sirene che agiscono per interesse. Era appena entrato in vigore il nuovo codice di procedura, almeno “tendenzialmente” accusatorio e ne fu fatta carne di porco. Venne incenerito il giudice Carnevale (vogliamo ricordare i sondaggi di Martelli-Falcone sulla sua giurisprudenza, senza risultato?) perché troppo pignolo e si portò a casa il risultato politico. Sì, politico. Con conseguenze tragiche. Ma quel che di politico successe dopo le stragi fu ancora peggio. Leggi speciali (l’ergastolo ostativo esiste ancora oggi) e gestione sciagurata dei “pentiti” (con un vero mercato della calunnia affidato alle mani di delinquenti assassini) servirono a distruggere lo Stato di diritto e a costruire brillanti carriere ad alcuni Pubblici Ministeri. Non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, li troviamo ogni giorno sui giornali, qualcuno ai vertici massimi dello Stato. E qualcuno vuole ancora mettere in discussione la genialità di quell’intuizione di Leonardo Sciascia?

Le aziende messe ko dallo Stato in nome dell'antimafia. In fumo 72mila posti di lavoro. Non è mai stato creato un albo degli amministratori giudiziari e neppure una tabella dei compensi. E i furbetti fanno affari e disastri, scrive Luca Fazzo, Lunedì 05/01/2015, su "Il Giornale". Serrande abbassate sul Café de Paris, nel cuore di via Veneto, a Roma. Trentadue operai al posto di 2.500 alla Colocoop di Milano. Un buco di due milioni e mezzo alla Calf di Catania, che prima macinava utili. Cos'hanno in comune un bar nella Capitale, una cooperativa di lavori stradali, una società di servizi portuali in Sicilia? Sono passate nel tritacarne della legge antimafia, quella che prevede misure draconiane per colpire gli interessi economici della criminalità. Legge sacrosanta nei princìpi. Ma che si risolve in una Caporetto quando, dopo che aziende grandi e piccole sono finite nel mirino della giustizia, accusate a ragione o a torto di essere la longa manus delle cosche, a prenderle in mano è lo Stato. Dovrebbe essere lo Stato a incarnare l'economia buona che prende il posto di quella cattiva, mandando avanti secondo legalità ciò che prima viveva nell'orbita del crimine. Risultato: un disastro. L'ultimo rapporto di Srm, l'osservatorio sull'economia meridionale di Intesa San Paolo, parla di settantaduemila posti di lavoro (diecimila più dell'intera Fiat!) persi nel passaggio delle imprese dalle mani del crimine a quelle dello Stato. Di oltre millesettecento aziende sequestrate, ne sono ancora vive trentotto. Trentotto. E va bene che la catastrofe può avere più di una spiegazione nobile: l'azienda mafiosa sta a galla più facilmente, perché non rispetta le regole, paga in nero, intimidisce i concorrenti, soggioga i clienti. Tutte armi che lo Stato non ha. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dietro alla catastrofe dei beni c'è anche un colossale problema di inefficienza dello Stato, che si è assunto un dovere che non è in grado di compiere. A partire dai livelli più alti. Il Codice antimafia varato nel 2011 prevedeva che venisse creato un albo nazionale degli amministratori giudiziari, i professionisti incaricati di gestire le aziende confiscate: sono passati più di tre anni, e l'albo ancora non c'è. A febbraio dello scorso anno, il governo ha promesso il varo di una tabella nazionale dei compensi da pagare agli amministratori: non si è vista neppure questa, col risultato che ogni tribunale si regola a modo suo, e a mandare avanti (e più spesso ad affossare) le aziende sono commercialisti pagati a volte cifre spropositate. Anche sui criteri di scelta ci sarebbe da discutere: nell'inchiesta su Mafia Capitale compare il nome di Luigi Lausi, uno dei professionisti cui il tribunale romano ha affidato una lunga serie di aziende confiscate, di cui Salvatore Buzzi dice «Lausi è mio». E a volte, come nel caso della Piredil di Milano, si scopre che gli amministratori inviati dal tribunale continuavano a trescare con i vecchi proprietari. Ci sono tre modi in cui lo Stato interviene per colpire gli interessi economici del crimine. Il primo, il più semplice, è l'interdittiva antimafia spiccata dalle prefetture, che non decapita le aziende ma si limita a bloccare i loro appalti pubblici: spesso è più che sufficiente per affossarle. Sacrosanto quando dietro ci sono davvero i clan; meno quando, come nel caso della Colocoop, nel frattempo i manager sospettati di essere collegati ai clan sono stati assolti. Poi c'è il sequestro disposto dai pm durante le inchieste. Infine, ed è lo strumento più usato, il provvedimento delle cosiddette «misure di prevenzione», che può scattare a prescindere dall'esistenza di un'inchiesta penale, sulla base di un semplice sospetto, o anche se il processo penale è finito in nulla. Il provvedimento ha una durata massima di diciotto mesi, quanto basta per disintegrare qualunque azienda, ed è inappellabile. Il caso più eclatante da questo punto di vista è probabilmente quello di Italgas, l'azienda di distribuzione gas di Snam, tremila addetti, messa sotto amministrazione giudiziaria dal tribunale di Palermo il 9 luglio 2014 sulla base di remoti contatti di un manager locale con una ditta in odore di mafia. Il manager non è mai stato neanche indagato, la ditta è stata assolta con formula piena, ma Italgas rimane commissariata. Per giovedì prossimo era fissata un'udienza, ma a fine dicembre i pm hanno chiesto e ottenuto il rinnovo del commissariamento per altri sei mesi; nel frattempo, secondo alcuni calcoli, gli amministratori nominati dal tribunale hanno già presentato parcelle per diversi milioni di euro. Nel corso dell'audizione davanti alla commissione Antimafia, il deputato di Scelta civica Andrea Vecchio ha motivato così il trattamento riservato all'azienda: «Mi sono arrivate chiacchiere da bar secondo le quali, in passato, la quasi totalità delle imprese che hanno messo i tubi per la Snam, da nord a sud, erano mafiose». Così, tra inchieste serie e chiacchiere da bar, l'elenco delle aziende inghiottite e distrutte in nome dell'antimafia cresce giorno per giorno. Fare i conti di questo disastroso business è quasi impossibile. Secondo le stime più caute, il valore totale dei beni confiscati è intorno ai dieci miliardi di euro, ma la commissione Antimafia parla di un totale superiore ai trenta miliardi. Una parte di questo colossale patrimonio è costituito da beni immobili, che hanno il pregio di essere poco deperibili, e di poter essere dati in affido a associazioni antimafia come Libera di don Ciotti, o usate - è uno degli ultimi casi - per alloggiare i carabinieri della compagnia di Partinico. Ma la fetta più grossa è quella delle attività imprenditoriali, ed è qui che lo Stato-manager fa i danni peggiori. Dal momento della confisca di primo grado, i beni vengono presi in mano dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati, guidata da un prefetto. In teoria, dovrebbe esserci anche un consiglio direttivo, ma è vacante da tempo, compresi i due «qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali», che dovrebbero cercare di evitare la dissipazione dei beni sequestrati. Così, nel frattempo, la distruzione va avanti. Gli amministratori giudiziari vengono pagati profumatamente, qualunque siano i danni che producono. «La verità - dice un addetto ai lavori - è che oggi fare l'amministratore dei beni confiscati è un business ambito. Si fanno un sacco di amicizie, non si rischia niente, si guadagna bene».

Antimafia, la profezia di Sciascia. È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi, scrive Paolo Mieli il 6 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina (rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

C'è un problema se la Commissione antimafia si occupa di Massoneria. Lo sconfinamento della commissione parlamentare dai suoi compiti è però forse dovuto ad obiettivi meno ambiziosi e più contingenti, scrive Massimo Bordin il 3 Marzo 2017 su “Il Foglio”. Il sequestro degli elenchi degli iscritti alla massoneria non è una novità assoluta. E’ evidente che un provvedimento del genere presta il fianco a critiche dal punto di vista della libertà di associazione e della riservatezza e anche questo dibattito è qualcosa di già visto. Il Gran Maestro in carica parla di un atto intimidatorio, un deputato del Partito democratico membro della commissione Antimafia pone la questione del giuramento di fedeltà “all’Istituzione” – come i massoni chiamano la loro associazione – che vede in contrasto con la fedeltà alle istituzioni repubblicane. In buona sostanza il deputato Davide Mattiello chiede che i massoni siano allontanati dagli “incarichi pubblici apicali”, così si esprime. A parte il merito della proposta, c’è comunque il dubbio che possa essere la commissione antimafia a occuparsi di un argomento del genere, a meno di equiparare tout-court la massoneria alla mafia. Lo sconfinamento della commissione parlamentare dai suoi compiti è però forse dovuto ad obiettivi, diciamo così, meno ambiziosi e più contingenti. A offrire un indizio di dove voglia andare a parare l’antimafia, guidata dalla “cattolica adulta” Rosy Bindi, è il pentastellato Michele Giarrusso, l’unico avvocato favorevole alla pena di morte, che insiste sulla necessità di acquisire gli elenchi massonici non solo di Calabria e Sicilia ma anche e soprattutto della Toscana. Quel tizio, con la barbetta bianca e il borsalino, andrà pure a Medjugorje ma la commissione ha un sospetto. O una speranza.

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente, si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

«L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per u paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale. In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso. Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne».

Un sentito grazie a Sabrina D’Elpidio e Annalisa Insardà per aver contribuito alla realizzazione di questa intervista.

La giustizia è Cosa Nostra. Edito da Mondadori, 1995, di Attilio Bolzoni, Giuseppe D'Avanzo. E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Racconta di giudici e di boss, di avvocati e di politici, di processi di mafia pilotati e di inchieste insabbiate, di Palazzi di Giustizia condizionati dal volere degli uomini d'onore. E ripercorre alcuni scabrosi episodi che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sono diventati clamorosi "casi giudiziari". E' scritto a quattro mani da Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, due tra i più bravi cronisti italiani di storie di mafia. 

Lo stato nascosto. Le trattative che portarono alla pax mafiosa. Libro di Antonio M. Moccia, Rosalia Monica Capodici. Questo è un libro diverso, particolare, una riflessione, che gronda in ogni sua pagina della passione civile degli autori, sugli aspetti più delicati dell'intero sistema criminale mafioso. Quelli che hanno condizionato, e continuano a condizionare, la nostra democrazia ed un quadro politico istituzionale sempre più esposto alla erosione del cancro mafioso. Si parla, e lo si fa con cognizione di causa e grande onestà intellettuale, dei nodi essenziali del sistema di potere mafioso: il rapporto con la politica, i tanti compromessi, la mediazione, i sotterranei "dialoghi pericolosi" tra lo Stato e la mafia, l'isolamento e la delegittimazione di tanti uomini delle istituzioni che, sull'altare della convenienza o dell'opportunità politica, sono stati traditi dallo Stato prima di essere uccisi dal tritolo o dal piombo dei mafiosi.

Recensione Libro: Lo stato nascosto. Per il politico, stringere il patto con l’organizzazione mafiosa significa insomma effettuare una precisa scelta di campo. Significa impegnare, da subito, i propri futuri comportamenti, anche sul piano istituzionale, in una logica di servizio a beneficio degli interessi dell’organizzazione. Di cosa parla Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia. Ci sono argomenti come quello trattato nel libro Lo stato nascosto – le trattative che portarono alla pax mafiosa di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia che non solo devono essere discussi ma anche approfonditi per ricordare che bisogna lottare contro i poteri violenti e che per quanti anni siano passati dalle stragi di Falcone e Borsellino non è cambiato poi molto. Da questo libro degno di attenzione – già solo per la sfida lanciata dai due scrittori di portare alla luce fatti ai più celati che riguardano la gestione dello Stato da parte della mafia, – Capodici e Moccia sono riusciti a dare una visione globale del potere nascosto utilizzando i fatti e non le teorie. Nel libro Lo stato nascosto, infatti, si utilizzano le sentenze, i risultati dei processi, ma non quelli conosciuti ai più, al contrario si porta alla luce tutto ciò che i giornalisti hanno trascurato, non sappiamo ovviamente se la distrazione da parte della stampa è stata voluta o meno. Quel che conta adesso è sapere. Tutto ciò che viene raccontato in questo libro ci riguarda da vicino, fa parte della nostra quotidianità senza che in alcuni casi ce ne rendiamo conto ed è per questo che è fondamentale aprire gli occhi sulla verità e scoprire chi gestisce la maggior parte della nostra ricchezza, delle nostre stanze di potere, dei traffici e di parte della società. La presenza della mafia si è diffusa a qualsiasi livello e settore: che si tratti di istituzioni o quartieri non c’è distinzione, perché le organizzazioni criminali sono ormai ovunque. Le conseguenze che portano questo sistema criminale possiamo prevederlo e osservarlo continuamente, basta guardare il telegiornale, ma la mafia condiziona la democrazia anche quando non ce ne rendiamo conto, è questo che tendono a sottolineare con il loro libro Capodici e Moccia. Ciò che viene portato sotto i riflettori, e quindi alla portata di tutti i lettori, è il rapporto che intercorre tra Stato e mafia, i compromessi a cui vanno incontro chi gestisce la politica, ma nel libro Lo stato nascosto c’è anche spazio per gli eroi che hanno combattuto e purtroppo sono caduti per tradimento o isolamento sotto il nemico. Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia, pubblicato dalla casa editrice Salvatore Insenga Editore va letto e discusso senza ombra di dubbio. Vorrei concludere citando una frase di Paolo Borsellino che potete leggere nella prefazione di Nino Di Matteo: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

Crocetta e i gran maestri della massoneria convocati in commissione nazionale antimafia. Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione, scrive Rino Giacalone il 30/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia all’indomani delle audizioni in Sicilia, ha convocato il presidente della Regione Crocetta e i gran maestri degli ordini massonici per approfondire i temi emersi nel corso della missione a Palermo e Trapani, dove tanto si è parlato di indagini giudiziarie che riguardano i contatti diventati stretti tra mafia e massoneria. Un fronte che non serve solo, hanno detto in audizione i magistrati di Trapani e Palermo, a coprire la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ma rappresenta la nuova stagione criminale di Cosa nostra che se non spara più, grazie al sostegno della massoneria, «ha migliori capacità di inquinare i settori della vita politica, sociale ed economica del territorio» ha tra l’altro affermato la presidente della commissione Rosy Bindi.  Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione Rosario Crocetta. Certamente tra le domande che attendono il governatore siciliano quelle relative a Patrizia Monterosso segretario generale di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione Sicilia. Il nome della Monterosso nel corso del processo a Catania contro l’ex governatore Raffaele Lombardo, è stato fatto dal pentito agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Tuzzolino ha affermato che la Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano, dove avrebbe fatto da garante ad una serie di affari sugli impianti eolici. La Monterosso ha già smentito la circostanza: «Non appartengo alla massoneria, le uniche volte in cui mi sono imbattuta in cose che riguardano questo tipo di associazione sono state delle mail ricevute all’indirizzo istituzionale della segreteria generale, nel luglio 2015 ho ricevuto due messaggi da una loggia di Catania, c’era una lista di 17 nomi, forse si trattava di iscritti, ma io ho subito denunciato alla Polizia Postale di Catania, a novembre 2014 nella casella di posta è arrivata una email del Grande Oriente d’Italia, direttamente da Palazzo Giustiniani. Anche in questo caso ho denunciato».  In commissione nazionale antimafia però la circostanza ha suscitato attenzione. Critico è stato il leghista “siciliano” Angelo Attaguile: «Come siciliano - ha detto - sono preoccupato, i politici passano i burocrati restano, da siciliano mi preoccupo che al Governo regionale ci siano funzionari e burocrati che non dovrebbero stare al loro posto».  Mantenendo poi fede a quanto annunciato in Commissione nazionale antimafia sono stati convocati gran maestri degli ordini massonici, il prossimo 3 agosto verrà sentito in gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi. La presidente Bindi ha spiegato a Trapani il perché di queste convocazioni, «intendiamo sapere se siano a conoscenza di logge segrete nel trapanese, della cui esistenza abbiamo appreso dai magistrati e soprattutto come intendano comportarsi». 

Il caso Trapani: una saldatura tra mafia e massoneria. La visita della Commissione in Sicilia. Bindi: “Sui beni confiscati abbiamo dato troppa voce in capitolo all’agenzia regionale”, scrive Rino Giacalone il 21/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia è pronta ad aprire un caso Trapani e denuncia: «la latitanza di Matteo Messina Denaro è coperta da intrecci tra mafia e massoneria altolocata». Massoneria che oggi starebbe cavalcando un forte attacco contro la magistratura trapanese: «certe indagini stanno dando fastidio». Forti i toni usati dalla presidente Rosy Bindi, ma anche dal suo vice Claudio Fava, dai commissari Davide Mattiello (Pd), dai 5 Stelle Mario Giarrusso e Francesco Dell’Uva e dal leghista siciliano Angelo Attaguille. «Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi - dice la presidente Bindi - abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese».  Se volete venire a conoscere cos’è la nuova mafia, che c’entra tanto con le stragi del 1992, bisogna venire in provincia di Trapani. E la commissione antimafia su questo ha raccolto tanto ascoltando magistrati, giudici, investigatori. Claudio Fava: «Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria ed è strano che esista un concentrato di logge segrete a Castelvetrano, la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro e del suo sistema di potere». «In questa provincia - dice il deputato Davide Mattiello - bisogna ricercare quell’accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull’esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito coperture altolocate per la sua ventennale latitanza».  I magistrati trapanesi ascoltati, a cominciare dal procuratore Viola, hanno confermato indagini aperte sul fronte della massoneria ma hanno consegnato precisi elementi dei contrasti che la magistratura trapanese subisce. «Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - racconta il senatore Mario Giarrusso - abbiamo sentito parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole che altri giudici usavano a Trapani negli anni ’80, quando si scopriva la loggia segreta Iside 2. Abbiamo sentito i magistrati inquirenti che si sono detti non al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio». «C’è una Procura sotto tiro - dice il vice presidente Fava - sotto le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti».  La presidente Bindi ha annunciato che verranno convocati i vertici degli ordini massonici, i Gran Maestri saranno convocati in commissione: «Chiederemo loro se sanno di logge segrete e se sanno perché non hanno denunciato, se invece non sanno chiederemo che agiscano per espellere questi corpi fornendo collaborazione all’autorità giudiziaria». Tanti i temi toccati, con l’annuncio, dopo avere ascoltato in giudici della Corte di Assise, Pellino e Corso, che verrà aperto un approfondito esame sui depistaggi emersi durante il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Affrontato anche il tema della gestione dei beni confiscati, partendo dall’assedio che oggi continua a subire la Calcestruzzi Ericina, l’impresa confiscata al boss di Trapani Vincenzo Virga. C’è un progetto che prevede di mettere in rete la Calcestruzzi Ericina e tutte le imprese del settore che producono calcestruzzo, oggi sequestrate e confiscate.  Ma il progetto registra forti ritardi nell’attuazione e i ritardi stanno tutti dentro l’agenzia nazionale dei beni confiscati. La commissione ha puntato attenzione sulla sede regionale dell’agenzia e la Bindi ha chiosato: «Credo che sia stata lasciata all’agenzia regionale troppa voce in capitolo». Infine è stato affrontato il caso Castelvetrano, dove il Consiglio dopo un tira e molla si è sciolto per non far restare consigliere quel Lillo Giambalvo intercettato a esaltare la figura del latitante Matteo Messina Denaro. A Castelvetrano la commissione ha registrato attraverso le audizioni un maxi concentrato di logge, troppe per il territorio che protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro.  La commissione ha sentito il sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l’ex capogruppo del Pd Pasquale Calamia. «Ci saremmo aspettati una presa di distanza del sindaco di Castelvetrano che non c’è stata» ha detto la presidente Bindi e il vice presidente Fava continua: «Se Castelvetrano fosse in Baviera non ci porremmo il problema di una Giunta dove siedono tre assessori appartenenti alla massoneria, ma si tratta della città di Messina Denaro». E sul boss, latitante dal 93, la presidente Bindi aggiunge: «Aspettiamo anche noi la buona notizia della cattura».  

"Nel Trapanese una nuova cupola fatta di mafia e massoneria", scrive Rino Giacalone il su "Live Sicilia" il 20 luglio 2016. "Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese". Sono le parole della presidente della commissione parlamentare antimafia, on. Rosy Bindi, espresse a conclusione della tre giorni siciliana, una missione durante la quale numerose sono state le audizioni ma c'è stata anche la significativa presenza alle manifestazioni a ricordo dei 24 anni dalla strage di via d'Amelio. "Abbiamo ritardi anche politici da scontare - ha detto ancora l'on. Bindi -. Falcone e Borsellino non sono stati mai ascoltati da una commissione antimafia, a 24 anni dalla strage di via d'Amelio abbiamo ascoltato Lucia Borsellino, figlia del procuratore aggiunto paolo ucciso con la sua scorta il 19 luglio del 1992, a lei abbiamo promesso il nostro impegno, ma dobbiamo anche dire che si tratta di restituire non solo a lei e alla famiglia Borsellino, e ancora alla famiglia Falcone, alle famiglie dei poliziotti uccisi, dobbiamo restituire al paese segmenti di verità che appartengono al Paese". Commissione antimafia che ha raccolto tanto sulla mafia in provincia di Trapani, ascoltando magistrati, giudici, investigatori. "Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria, anomalo che un concentrato di logge segrete esiste a Castelvetrano, la terra - ha detto il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava - dove il boss latitante Matteo Messina Denaro ha costruito il proprio sistema di potere". "Lavoreremo per capire meglio - ha aggiunto il deputato Pd Davide Mattiello - ma abbiamo la forte impressione che qui bisogna cercare quell'accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull'esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito altolocate coperture per la sua ventennale e perdurante latitanza". "Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - ha detto il senatore Mario Giarrusso di 5 Stelle -, non è possibile sentire parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole di altri magistrati, quando a Trapani negli anni '80 si scopriva la famosa loggia segreta Iside 2". E un quadro pesante a proposito degli uffici giudiziari trapanesi emerge al termine delle audizioni fatte a Trapani dalla commissione parlamentare antimafia. Situazione che ha spinto la presidente Rosy Bindi a ipotizzare la possibilità che a parte la relazione finale prevista a fine legislatura su tutte le missioni svolte nel corso del mandato parlamentare, su Trapani potrebbe esserci una specifica relazione. Sullo scenario già descritto delle connessioni tra mafia e massoneria, si è sviluppata una attenzione che poteri occulti dedicano proprio alla Procura di Trapani, "nel 2016 - ha detto il senatore 5 Stelle Giarrusso - sentiamo magistrati inquirenti che non dicono non sentirsi al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio, un clima assurdo che rimanda ad altri tempi ed altre vicende". Sulle parole di Giarrusso si sono ritrovati altri commissari come Fava, vice presidente della Commissione antimafia: "Siamo preoccupati del clima pesante che riscontriamo nei confronti degli uffici giudiziari, abbiamo l'esatta percezione che c'è una Procura sotto tiro, con intrusioni e pedinamenti, sono le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti, la Commissione avrà scrupolo e attenzione". Su questi temi sono stati sentiti dalla commissione antimafia in prefettura a Trapani il procuratore della Repubblica Marcello Viola ed i pm Marco Verzera e Andrea Tarondo, e le dichiarazioni rese dai magistrati sono state secretate. In particolare la commissione antimafia ha ascoltato i giudici della Corte di Assise che hanno processato e condannato due boss mafiosi all'ergastolo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, risalente al 1988. "Abbiamo apposta voluto ascoltare i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, presidente e giudice a latere della Corte - ha detto il presidente Bindi - perché interessati al processo e interessati a conoscere la fase dei depistaggi". "Non escludo - ha aggiunto il vice presidente Claudio Fava - che per questo delitto si faccia ciò che è stato fatto per altri analoghi delitti". Chiaro il riferimento alla costituzione di una commissione che come è stato fatto per il delitto di Peppino Impastato, si occupi anche del delitto Rostagno.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scriveva già a suo tempo Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconocimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante. "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore". Salvo Palazzolo

Ecco a voi il "nano" e il circo dell'antimafia, scrive Simona Musco il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Nino Lo Giudice, il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria, accusa il poliziotto Giovanni Aiello, "Faccia di mostro", di essere l'autore della strage di via D'Amelio. «È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro». Chi è "faccia da mostro" - Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il 94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra». Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.

Lo Giudice: ''Faccia da mostro dietro via d'Amelio''. Il pentito calabrese: "Fu lui a premere il pulsante per la strage", scrive “Antimafia Duemila” il 09 Agosto 2016. Un altro pentito torna a parlare di "faccia da mostro", l'uomo dei servizi che secondo alcuni collaboratori di giustizia (tra cui i siciliani Vito Galatolo e Vito Lo Forte, e il calabrese Consolato Villani) avrebbe preso parte a molte stragi ed omicidi eccellenti. È Nino "il nano" Lo Giudice, scrive di Walter Molino il 9 agosto 2016 su Il Fatto Quotidiano, a parlare nuovamente di quel personaggio che sarebbe stato riconosciuto nell'ex poliziotto Giovanni Aiello. “È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta" ha detto il pentito calabrese, aggiungendo che "fu lui a schiacciare il pulsante in via d’Amelio" e a confidarglielo è stato, ha precisato, "Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona" ma "quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Scotto, condannato in primo grado ma poi assolto in appello per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è fratello di Gaetano, imputato per l’omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi da Cosa nostra nel 1989, oggi in libertà. La storia della collaborazione di Lo Giudice è tra le più travagliate: tre giorni prima dell'udienza, nel giugno 2013, nella quale il pentito doveva comparire a deporre al processo "Archi-Astrea" a Reggio Calabria, l'ex mafioso si era allontanato dalla località protetta senza lasciare alcuna traccia, tranne un memoriale nel quale ritrattava le sue deposizioni sostenendo che era stato costretto e “spronato da più parti”. E una pen drive con delle immagini dove il collaboratore diceva “non mi cercate, tanto non mi troverete mai”. Poi però era stato arrestato, a novembre, in un appartamento alla periferia della città. Ora che è tornato a collaborare le sue dichiarazioni sono state verbalizzate dalle procure di Reggio Calabria e Catanzaro, oltre ad essere condivise con quelle oltre lo Stretto in Sicilia. Sulle sue dichiarazioni poggiava il lavoro del sostituto Gianfranco Donadio, allora incaricato dal presidente del Senato Piero Grasso di fare luce sulle indagini riferite alle stragi del '92 e '93, in particolare sul ruolo che avrebbero ricoperto elementi riconducibili ai servizi segreti e ad ambienti “deviati” dello Stato. Lo Giudice, nel memoriale, aveva accusato proprio Donadio di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, tra cui anche quello di “faccia di mostro”. Il superprocuratore Franco Roberti, il 6 settembre 2013, aveva avocato su di sé le indagini. Poi ci fu una misteriosa fuga di notizie sulle colonne de Il Sole 24 ore e L’Ora della Calabria in merito al resoconto di due riunioni nel quale il pm aveva esposto gli sviluppi di un’indagine. Sarà solo a settembre 2014 che il pentito 'ndranghetista chiarirà il perchè del suo agire, spiegando ai pm di aver "iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi". In seguito, proseguiva Lo Giudice, "mi portarono fuori città" dove "c’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”. Ora il collaboratore confermerebbe di aver riferito a Donadio solo circostanze veritiere, aggiungendo poi altri dettagli su "faccia da mostro": "Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via d’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi (condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,ndr) che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. “La seconda volta - continuava - Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella” e in seguito “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Anche per queste dichiarazioni Lo Giudice è stato recentemente sentito dal pm di Palermo Nino Di Matteo. Ed è proprio per l'omicidio Agostino che oggi lo stesso Aiello è indagato a Palermo assieme ai boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Vincenzo, padre di Nino Agostino, pochi mesi ha riconosciuto "faccia da mostro" in Aiello, durante un confronto all'americana nel quale ha confermato che si tratta dello stesso personaggio presentatosi a casa sua pochi giorni prima dell'omicidio chiedendo del figlio. Lo Giudice nelle sue dichiarazioni parla di Aiello anche in riferimento all'assassinio del commissario Ninni Cassarà, datato 6 agosto 1985, alla barbara uccisione del piccolo Claudio Domino (colpito da proiettili a 11 anni), al fallito attentato all'Addaura e alla strage di Capaci, entrambi contro il giudice Giovanni Falcone. "Il nano", tra l'altro, è il solo a dichiarare di aver ricevuto "di prima mano" le parole confidenziali di Aiello. Ma altri ex mafiosi di Cosa nostra parlano di "faccia da mostro" dichiarando che “frequentava Fondo Pipitone” a Palermo (feudo della famiglia mafiosa dei Galatolo, ndr) e che era “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”.

«Io prete, vi ricordo mio padre: giudice ucciso da Riina e dimenticato da tutti». Padre Giuseppe, prete a Imola, è il figlio di Alberto Giacomelli, giudice ucciso a Trapani il 14 settembre del 1988 su ordine di Totò Riina: «Mio padre non ha nulla di meno di altri magistrati uccisi dalla mafia», scrive Nino Luca l'11 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il coraggio di una firma». Questo potrebbe essere il titolo di un libro dedicato al magistrato Alberto Giacomelli. Ma quel libro non è stato mai scritto. Nessuno l’ha potuto leggere. Nessuno ci ha pensato. Anche per questo il vile omicidio di Alberto Giacomelli è caduto nell’oblio, in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra. Trovare una foto di Alberto Giacomelli su internet è una impresa. Un solo video, di un vecchio Tg Rai, racconta la sua morte. Una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. Alberto Giacomelli, magistrato, a sua volta figlio di un giudice, è in pensione da quindici mesi. Alle 8 del mattino, saluta la moglie ed esce dalla sua casa padronale immersa tra le palme e i gerani, nelle campagne di Trapani, frazione Locogrande. A bordo della sua Fiat Panda, percorre la strada sterrata, poi svolta a sinistra per immettersi sulla provinciale che conduce in città. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto, poi gli sparano tre colpi con una Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. Quando muore Alberto Giacomelli ha 69 anni. Nessuna targa in queste strade polverose ne ricorda il sacrificio. Nel 1985 Giacomelli, presidente della sezione del tribunale di Trapani «Misure di prevenzione», aveva disposto il sequestro di una villetta e dei relativi terreni a Mazara del Vallo. Beni riconducibili a Gaetano Riina, fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. La sua firma doverosa sul documento di confisca derivava da una delle prime sentenze di applicazione della legge «Rognoni -La Torre». Giacomelli aveva compiuto il suo dovere di giudice. Due anni dopo i Riina impugnarono il sequestro. Gaetano, fratello per più famoso capo dei capi, cercò di mantenere il possesso della casa facendosi nominare «affidatario». Ma un’altra sentenza, di altri giudici, confermò la confisca decisa da Giacomelli. L’anno dopo la «vendetta» fu consumata. «Giacomelli - svelò il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori - fu ammazzato per “una questione di famiglia”. Non famiglia “Cosa nostra” ma “famiglia di sangue”». Dopo 14 anni di depistaggi, il 28 marzo 2002, Totò Riina viene condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante. La sentenza definitiva il 12 marzo 2003.Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. I killer non sono stati mai individuati con certezza. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un magistrato in pensione nella storia d’Italia. La sua firma di servitore dello Stato, lo condannò a morte. A distanza di 28 anni, il figlio Giuseppe, sacerdote a Imola, ha voglia di raccontare la storia del padre. Innanzitutto perché la sua figura rischia di essere dimenticata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Poi, per ristabilire la verità, quella verità troppe volte «mascariata» (macchiata) da falsi pentiti: «Giocava alle corse clandestine di cavalli organizzate a Locogrande», si disse. Oppure: «Bisogna indagare nelle sue proprietà terriere...». Tutto falso. Un anno prima, sconosciuti avevano bruciato la villa dei Giacomelli a Custonaci: «La casa si riempì di fumo - racconta padre Giuseppe - ma allora non abbiamo dato peso eccessivo all’episodio. Mio padre riceveva qualche telefonata di minacce... ma lui riattaccava senza raccontare nulla». Oggi padre Giuseppe reclama per la propria famiglia il riconoscimento di vittima della mafia. «Il rammarico più grande - afferma dalla sacrestia della chiesa del Pio Suffragio di Imola - è l’oblio in cui è caduto l’omicidio, quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno. Non c’è una gerarchia delle vittime della mafia. Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».

Altre ombre sulla mancata cattura di Provenzano e Messina Denaro, scrive “Articolo 3”. Dalle dichiarazioni del generale Nicolò Gebbia, oggi in quiescenza, che dice di essersi accorto di essere stato “preso in giro e condotto per il naso verso direzioni che non erano quelle che avrebbero potuto assicurare alla giustizia i principali latitanti di mafia”, alle dichiarazioni di una decina di ufficiali e sottufficiali dei carabinieri che hanno parlato di una serie di fatti che hanno impedito di svolgere adeguate indagini. Elementi che si aggiungono alle denunce dei due sottufficiali, Saverio Masi, oggi caposcorta del pm Nino Di Matteo, e Salvatore Fiducia (indagati a loro volta per calunnia), nei confronti di cinque ufficiali accusati di avere ostacolato la cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro negli anni che vanno dal 2001 al 2008. A riportare la notizia è oggi il Fatto Quotidiano che evidenzia come per tutti, “denuncianti e denunciati, la procura di Palermo ha chiesto l’archiviazione, ritenendo non riscontrati i fatti perché avvenuti alla sola presenza dei protagonisti”. Eppure all’interno del fascicolo si parlerebbe di intercettazioni improvvisamente interrotte, pedinamenti negati, e risulterebbe anche una sparizione di un file con notizie sui latitanti nei computer investigativi (sparizione denunciata alla polizia postale e archiviata perché ritenuta uno scherzo). Inoltre si parlerebbe persino diuna microspia trovata dentro una gazzella. Tutti episodi che sarebbero avvenuti nel periodo in cui il reparto di investigatori della Carini era guidato dal colonnello Gianmarco Sottili. Secondo quanto riportato dal quotidiano vi sarebbero anche riscontri come nel caso del mancato sequestro di un computer a casa dell’ex consigliere provinciale Udc, Giovanni Tomasino, che il capitano Vincenzo Nicoletti ritenne di non sequestrare. Sarebbe stato quest’ultimo a rivolgersi a Masi facendo intendere che Provenzano non si doveva catturare (“Noi non abbiamo al- cuna intenzione di prendere Provenzano. Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo…”).

Il maresciallo Saverio Masi: "Ho visto Matteo Messina Denaro". L'attuale capo scorta di Di Matteo ai pm: "La caccia a Provenzano? È stata ostacolata", scrive “Live Sicilia” l’8 settembre 2016.  La pagina controversa delle indagini per la cattura di Bernardo Provenzano è stata rivisitata al processo per la trattativa Stato-mafia attraverso l'audizione del maresciallo Saverio Masi, attualmente capo della scorta del pm Nino Di Matteo. Masi, che è stato condannato recentemente per falso ideologico a sei mesi di reclusione, ha parlato soprattutto degli ostacoli creati, a suo dire, da alcuni ufficiali del gruppo dei carabinieri di Palermo rispetto alle sue iniziative investigative nella caccia a Provenzano e a Matteo Messina Denaro. Masi, che all'epoca dei fatti era in servizio alla sezione antirapine, ha ripetuto fatti già raccontati in altri processi. Ha quindi riferito che le sue iniziative non incontravano il sostegno della "scala gerarchica" soprattutto nella fase culminante degli appostamenti nelle campagne di Mezzojuso in cui si pensava che si trovasse il covo di Provenzano. A Masi sarebbero state create difficoltà e gli sarebbe stato impedito con un pretesto di piazzare una telecamera per tenere costantemente sotto controllo il casolare. Alla fine l'operazione venne abbandonata. Un ufficiale gli avrebbe detto: "Non abbiamo intenzione di catturare Provenzano. Non rompere più i c...". Oltre alla mancata cattura di Provenzano, Masi si è a lungo soffermato sui contrasti tra ufficiali del gruppo di Palermo, tra cui i colonnelli Giammarco Sottili e Antonello Angeli. Le divergenze, che sarebbero state non solo verbali ma anche "fisiche", covavano in silenzio ma sarebbero esplose in occasione di una perquisizione in casa di Massimo Ciancimino. Il colonnello Angeli avrebbe trovato copia del "papello" con le richieste della mafia per fermare le stragi. Ma il documento non sarebbe stato sequestrato. Al telefono Sottili avrebbe detto che non era necessario acquisirlo "perché già lo abbiamo". Masi ha riferito che Angeli aveva intenzione di sollevare il caso con una campagna di stampa. Ne parlarono in due incontri "all'oscuro dei superiori" ma poi la campagna non partì perché il giornalista contattato non diede la sua disponibilità. Da quel momento, ha detto Masi, Angeli cambiò atteggiamento. Non si fece neppure rintracciare. Masi è stato sentito come imputato di reato connesso su denuncia degli ufficiali chiamati in causa ma una settimana fa, ha precisato il pm Vittorio Teresi, la Procura ha chiesto l'archiviazione del procedimento. "Lo guardai in faccia e lo riconobbi". Era il 2004 quando il maresciallo dei carabinieri Saverio Masi avrebbe incontrato in una strada di Bagheria (Palermo) l'ultimo grande latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Di quell'incontro - di cui informò i superiori solo dopo alcuni giorni - Masi conserva un nitido ricordo e ne ha parlato al processo per la trattativa Stato-mafia, ribadendo quanto già dichiarato in passato. In auto, fuori servizio, Masi incrociò un'altra vettura ferma davanti a una villa con il proprietario che stava aprendo il cancello. Nel superarlo, dopo una piccola manovra, Masi guardò il conducente. "Era identico - ha detto - al fotofit di Messina Denaro pubblicato in quei giorni dai giornali". Non avvertì i suoi superiori con i quali era in cattivi rapporti ma una persona che non trovò più l'auto segnalata. Masi non si fermò. Avrebbe fatto indagini in prima persona: piazzò una telecamera davanti alla villa e identificò il proprietario originario di Castelvetrano, il paese di Messina Denaro. Avrebbe pure fermato l'attenzione su un giro persone riconducibili al boss più ricercato d'Italia. Solo dopo alcuni giorni Masi presentò una relazione di servizio che, in alcune parti, alcuni ufficiali gli avrebbero chiesto di purgare. E solo nel 2010, quando i contrasti con i superiori erano esplosi con uno scambio di denunce, Masi ha tirato fuori la relazione originale che oggi è stata prodotta in udienza dal pm Vittorio Teresi.

Mafia: Saverio Masi, ostacolato per cattura Provenzano e Messina Denaro, scrive l'8 settembre 2016 “Il Foglio”. (AdnKronos). Nel periodo precedente all'arresto del boss mafioso Bernardo Provenzano "fui ostacolato nella ricerca a la cattura di boss latitanti come Provenzano e Matteo Messina Denaro". E' la denuncia del maresciallo dei Carabinieri, Saverio Masi, capo scorta del pm Antonino Di Matteo, nel corso della sua deposizione al processo sulla trattativa tra Stato e mafia all'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Il sottufficiale dell'Arma, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, racconta di "problemi avuti con i superiori sulla cattura di Provenzano". Aveva così chiesto "prima dell'arresto di Provenzano" un incontro con l'allora capitano dei Carabinieri Antonello Angeli "perché avevo saputo che anche lui aveva avuto un trattamento simile". In particolare, critica gli ex vertici del Nucleo operativo di Palermo, Giammarco Sottili e Francesco Gosciu. "Angeli aveva avuto dei problemi a causa di una indagine che riguardava le vicende investigative di Massimo Ciancimino, soprattutto una vicenda che riguardava una perquisizione a casa di Ciancimino". Tutto ruota attorno alla perquisizione a casa di Massimo Ciancimino, nel 2005, quando l'allora capitano Angeli avrebbe rinvenuto "in soffitta" il cosiddetto 'papello' di Totò Riina contenente le dodici richieste del boss allo Stato. "Quando informò i suoi superiori questi gli ordinarono di 'non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano'", dice. "C'erano specifiche richieste in relazione a una trattativa tra Stato e mafia - dice ancora Masi - Sottili disse ad Angeli di lasciarlo lì perché già lo avevano. Ma Angeli mi disse che non ce l'avevano il papello. Mi disse anche che rimase esterrefatto dalla risposta di Sottili. Si aspettò la immediata presenza di Sottili. Invece, niente. Così, per salvaguardare la sua persona aveva fatto fotocopiare la documentazione che Sottili non voleva venisse spostata. Mandò uno dei suoi carabinieri di fare le fotocopie di nascosto degli altri suoi colleghi del Reparto operativo". "Ci siamo incontrati con Angeli di nascosto dai nostri superiori a Palermo, dopo che lui era stato trasferito a Roma - dice - Mi disse che era preoccupato perché volevano avviare una pratica sulla sua salute mentale, e avviarlo a visita psichiatrica, e lui dopo un incontro con Sottili capì che era meglio lasciare perdere e chiese il trasferimento a Roma". E continua a raccontare: "Io ero stato allontanato dalle attività investigative di un altro latitante, Matteo Messina Denaro - spiega - non fidandomi della mia scala gerarchica mi auguravo che ci fosse un ricambio, mi avevano fatto mobbing senza darmi la possibilità di cercare latitanti". Successivamente Masi e Angeli provarono "a fare pubblicare le nostre vicende da un giornale nazionale, in modo che l'autorità giudiziaria ci potesse chiamare per confermare le nostre vicende". "Cercammo un giornalista che avesse credibilità superiore e con un certa caratura. Concordammo quindi sul nome di Saverio lodato dell'Unità". Ma non se ne fece niente. "Io dopo continuai a cercare Angeli ma non si fece più trovare". Il maresciallo Saverio Masi, di recente condannato a sei mesi di reclusione per falso ideologico, racconta poi delle difficoltà che avrebbe incontrato negli appostamenti di un casolare per la ricerca del boss Provenzano. I suoi superiori gli avrebbero impedito di piazzare delle telecamere nel casolare che, ad avviso di Masi, avrebbe potuto essere il covo dell'allora latitante Provenzano. Alla fine l'operazione non si fece più. Masi viene sentito come indagato di reato connesso perché indagato per calunnia nei confronti di Sottili e altri ufficiali dei carabinieri. Ma all'inizio di settembre la Procura ha chiesto l'archiviazione.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.

Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».

Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.

Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana. 

“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:

·      Il certificato di nascita

·      Il codice fiscale

·      La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).

Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?

Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?

Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità». 

COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti». 

POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata». 

“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto.  2. Applica con rigore il mansionario.  3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti.  5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate.  6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio.  7. Non regalare mai un minuto.  8. Otto, undici, tredici, quindici.  9. Vai in ferie a giugno o a settembre.  10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.

La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.

LA MAFIA FIGLIA DEL PROIBIZIONISMO E DELLA BUROCRAZIA.

Che mafia sarebbe senza la linfa del traffico di droga, dello sfruttamento della prostituzione, del gioco d’azzardo, della corruzione per appalti illeciti?

Il proibizionismo, da Al Capone alla cannabis, scrive il 16 agosto 2018 su "La Repubblica" Roberto Rossi - Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, relatore professore Isaia Sales. Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? No, un’idea. Persistente, contagiosa. Una volta che si è impossessata del cervello un’idea pienamente formata, compresa, si avvinghia nella testa ed è quasi impossibile sradicarla. Le varie forme di proibizionismo nella storia hanno avuto sempre una costante: un'idea. Presente e insindacabile. Senza alcuna pretesa di carattere morale, si è cercato di comprendere queste idee analizzandole sotto un punto di vista storico per ragionare su come e quanto il presente sia influenzato dal passato e su come, queste idee, possano essere messe in discussione per il bene della collettività ed il male delle organizzazioni criminali.

Tutto parte nel 1920 con il “Volstead Act” che dichiarò l'alcol illegale negli Stati Uniti. L'alcol era stato individuato come la causa di molti dei mali che affliggevano la società come l'assenteismo al lavoro, le violenze domestiche e addirittura la nascita di bambini deformi. Questo fece nascere il mercato nero di alcol che andò nelle mani della criminalità che, da predatoria si trasformò in imprenditoriale e da comune ad organizzata. Il "magnate" del contrabbando di alcolici fu Alphons Capone che raggiunse un potere tale da divenire il ricercato numero uno della Cia. Il giro d'affari di questo mercato fu enorme: 3 miliardi di dollari che corrispondevano al 3% del Pil nazionale. Praticamente grazie a questi soldi sono nate e si sono radicate le mafie in America. Dunque la mafia americana nasce, indirettamente, a causa di un preconcetto morale che demonizzò l'alcool per ragioni "progressiste", ritenendo il suo consumo immorale. Questa immoralità non era percepita però dalla maggior parte della società, per questo il contrabbando avanzò senza che le persone si sentissero fuori dalla morale e quindi fuori legge. Ciò generò una reazione sociale automatica: ovvero la creazione di un circuito illegale che deterrà il monopolio di quel bene. è nient'altro che la legge del mercato, ed allora avvenne con l'alcol, mentre oggi avviene con la cannabis.

L'altra forma di proibizionismo è quello della cannabis negli anni 30. Questa pianta venne definita la coltivazione da un miliardo di dollari per le sue straordinarie potenzialità di sfruttamento soprattutto in campo industriale. Ciò face storcere il naso a molti affaristi americani dell'epoca, uno su tutti Andrew Mellow, proprietario della Gulf Oil, ma anche segretario del tesoro degli USA che nominò a capo dell'ufficio narcotico Harry J. Anslinger che aveva il compito di screditare le potenzialità della cannabis. Attuò così una campagna mediatica contro la marijuana che faceva leva sui sentimenti razziali e xenofobi degli americani ed in poco tempo fece della marijuana il simbolo del peccato, della depravazione e della violenza. Gli si attribuirono caratteristiche del tutto false come, tra le altre cose, il fatto che rendesse le donne infedeli e depravate. Non ci volle molto affinché tutti credessero a ciò. Il nemico del popolo era nuovamente creato. Nel 1937 Roswelt approvò il Marijuana Tex Act che proibiva la coltivazione della pianta in tutta l'America. Le assurde teorie di Anslinger vennero smentite più volte da diversi rapporti scientifici, su tutti il Rapporto La Guardia e Shafer; dati concreti che vennero oscurati dalla schizofrenia di messaggi oramai entrati prepotentemente nelle teste delle persone. La "guerra alla marijuana" fin dalle origini dunque è stata viziata da un artificio ideologico che prescinde da solide fondamenta scientifiche ed oggi ne subiamo ancora i riflessi. Ciò mi ha portato alla riflessione che collega la campagna mediatica di Anslinger alla società attuale, ovvero la società della post-verità. Eletta come parola internazionale dell'anno 2016 dall'Oxford Dictionary, post-verità" indica una situazione in cui i fatti obbiettivi sono molto meno influenti sull'opinione pubblica rispetto a concetti promulgati attraverso il mezzo dell'emotività. Ed è proprio questo il motivo per il quale il proibizionismo va avanti: da sempre Anslinger ha parlato all'emotività della gente e l'emotività fa agire d'istinto, mentre la razionalità richiede il dovere di fermarsi, ragionare e riflettere. All'epoca non c'era tempo per riflettere, altrimenti il male si diffondeva. Nella società della post-verità non importa realmente che le informazioni convincano con argomentazioni razionali, con prove. Queste ultime devono solo colpire alla pancia, suscitare violente reazioni, per diventare più virali possibili. Oggi la chiamano post-verità, ma Anslinger settant'anni fa già faceva scuola. La cannabis è una costante del nostro Paese e per comprendere la portata del fenomeno basta analizzare i dati: in Europa i consumatori di cannabis sono 16,6 milioni, in Italia 5 milioni. La cannabis è la sostanza più confiscata di tutte in Europa.  In Italia un detenuto su quattro entra in carcere per motivi legati alla droga. Il 56.3% delle operazioni di polizia riguardanti la droga attengono alla cannabis. La cannabis mafiosa in Italia che proviene perlopiù dall'Albania genera un giro d'affari d 4-5 miliardi l'anno e nel 91% dei casi risulta essere altamente tossica perché tagliata con piombo e metalli pesanti che creano il plusvalore per le mafie. Oltre a ciò in Italia non mancano le produzioni nostrane: le ultime piantagioni scoperte sono state a Reggio Calabria, tra le serre dell'Aspromonte e in Campania, tra i monti lattari, con un sequestro record di 34 mila piante di marijuana. Gli studi di Ferdinando Ofria, professore di politica economica all'Università di Messina, ci dicono che, tra le tante cose, qualora si legalizzasse in Italia il gettito fiscale oscillerebbe tra i 5 e gli 8 miliardi e si creerebbero fino a 300 mila nuovi posti di lavoro. La cosa ancora più importante è quella che verrebbero indebolite moltissimo le attività criminali mafiose che si finanziano continuamente anche attraverso le piazze di spaccio presenti nelle periferie delle città italiane.

La qualità della vita è la prima vittima delle mafie. Queste infatti, non investono per migliorare i territori di cui sono figlie, perché le mafie hanno la principale intenzione di far restare le cose esattamente così come stanno, affinché possano sostanziarsi del degrado e della disperazione in cui riversano le periferie italiane. Si verifica quella che alcuni sociologi americani hanno definito la "teoria delle finestre rotte" secondo la quale "se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre" (una sorta di senso di rassegnazione). Dunque legalizzare non vuole dire promuovere il consumo di droga, anzi, è esattamente il contrario, più si è contro e più si dovrebbe essere favorevoli alla legalizzazione, in modo tale che le prime ad essere ripulite saranno proprio le piazze di spaccio. L'obbiettivo non deve essere eliminare totalmente la droga, in quanto sarebbe pura utopia, ma cercare di ridurre o eliminare le gravi conseguenze indotte dalle droghe nelle persone e nelle intere comunità. La stessa direzione antimafia ha dichiarato già nel 2015 che la lotta repressiva alla cannabis in Italia è un totale fallimento. Dunque probabilmente sarebbe arrivata l'ora di provare ad affrontare il problema in un modo diverso, slegandosi dai riflessi di un'ideologia che viene, come abbiamo visto, da molto lontano. Siamo in un'epoca che si dichiara post-ideologica ma che conserva dell'ideologia gli aspetti peggiori, dove l'immobilismo dello Stato, rispetto al tema della legalizzazione, equivale ad una resa che consegna nelle mani della criminalità miliardi di euro annui. Legalizzare non vuol dire assolutamente incentivare al consumo di cannabis, significa regolamentare un mercato già libero e totalmente criminale. "C'è solo qualcosa di peggiore del non cercare informazioni e del sostituirle con supporti ideologici per le scelte, ignorando i dati reali, ed è quella di conoscere i dati reali e ciò nonostante di andare avanti come se nulla fosse".

IL PROIBIZIONISMO AIUTA LA MAFIA. Non ha trovato il giusto risalto sui giornali, a par te il nostro e pochi altri, la notizia che s' è recentemente costituito in Parlamento un nuovo fronte trasversale contro la droga e contro la mafia. Sotto l'impatto drammatico degli ultimi eventi siciliani, 78 deputati e 31 senatori di vari partiti hanno formato un Intergruppo antiproibizionista, con l'obiettivo dichiarato di ribaltare l'impostazione dell'infausta legge Iervolino-Vassalli sulla tossicodipendenza. La novità maggiore consiste nel fatto che questo schieramento tende a identificare la lotta alla criminalità organizzata con la lotta al traffico di stupefacenti, fonte principale di finanziamento per le mafie di tutto il mondo, ricusando il proibizionismo e rilanciando perciò la prospettiva della legalizzazione. Fino a qualche tempo fa, per effetto di una crociata tanto inopportuna quanto inefficace dilagata anche nel nostro paese, chi s' azzardava a sostenere le tesi antiproibizioniste rischiava di passare per un pericoloso sovversivo, un estremista radicale o ancora peggio un attentatore della pubblica moralità. Il fatto che ora 109 parlamentari, compresi alcuni esponenti democristiani e perfino un socialista, tutti rappresentanti legittimi del popolo sovrano, si siano decisi a prendere in considerazione un'ipotesi del genere, non può che confortare retrospettivamente le avanguardie di una campagna che all' estero era stata avviata dal Premio Nobel per l'economia Milton Friedman e dal settimanale inglese "The Economist". Ma proprio per evitare altri equivoci sarà opportuno riflettere più a fondo sul problema, cercando di superare per quanto possibile l'emotività contingente. La legalizzazione della droga, ben distinta dall'ipotesi della liberalizzazione, tende a sottrarre il consumo di stupefacenti all' attuale regime di clandestinità per sottoporlo a controllo sanitario. La lotta alla criminalità organizzata non è certo l'unico motivo per sostenere questa proposta, ma la legalizzazione è senz' altro l'arma principale per combattere la mafia. Non si tratta di una resa, bensì di una scelta responsabile e consapevole. Come all' epoca del proibizionismo sull' alcol, nella Chicago di Al Capone, il divieto stesso è incentivo allo spaccio, alimento della criminalità grande e piccola, fonte di danni alla salute e purtroppo di morti. Sicché si può dire, senza troppe forzature, che le vittime della mafia sono vittime della droga, vanno comprese e computate cioè nel suo inventario di sangue. PER la multinazionale del narcotraffico, la legalizzazione sarebbe verosimilmente fatale, perché eliminerebbe di colpo un gigantesco giro d' affari, un flusso continuo di entrate, un colossale cash-flow. Quando la compravendita di una merce, per effetto della sua stessa illiceità, consente di moltiplicare all' infinito l'investimento iniziale, non c' è guerra o apparato poliziesco che tenga. Il suo potere di penetrazione e corruzione diventa inarrestabile. Tant' è che lo Stato, in Italia come in tutto il mondo, non riesce a impedire lo spaccio e il consumo neppure nelle carceri, cioè nel luogo deputato alla reclusione, dove il cittadino-detenuto è sotto controllo ventiquattr' ore su ventiquattro, 365 giorni all' anno. Come si può pensare, allora, che la repressione funzioni nelle strade, nelle piazze, nei parchi pubblici, dove la vendita della droga di fatto è già libera? Molto più efficacemente le risorse umane e finanziarie impiegate oggi contro lo spaccio potrebbero essere utilizzate in una strategia più raffinata. E cioè in una grande offensiva d' informazione, educazione, dissuasione, come quelle che hanno già dato o stanno dando risultati confortanti nella lotta all' alcol e al fumo. Chissà quante capacità, quanti sacrifici e anche quante vite di agenti, poliziotti e magistrati, si potrebbero risparmiare e impiegare diversamente. Può anche accadere che la mafia si riorganizzi in altro modo, mutando traffici e commerci: i rifiuti tossici, le scorie nucleari, i chip e quant' altro. Ma nel frattempo gli apparati statali saranno riusciti a smantellare una rete impenetrabile di complicità, collusioni, connivenze, spostando e aggiornando la propria difesa sui nuovi fronti. E visto che ora il tema torna all' ordine del giorno, conviene dire francamente che a questi fini sarebbe inutile distinguere - con un residuo di cautela o ipocrisia - tra droghe leggere e droghe pesanti. Mentre le prime offrono rendimenti modesti, l'eroina e la cocaina rappresentano le voci più consistenti nel bilancio criminale della Mafia Spa. In questo caso, il prezzo della materia prima può lievitare fino a cinquemila volte. Soltanto sul mercato italiano, le stime variano da 40mila a 150mila miliardi all' anno, per un giro d' affari che non ha nulla da invidiare alle stangate del governo né al deficit o al disavanzo statali. Per combattere la criminalità organizzata, insomma, non basta legalizzare le droghe leggere. E non basta neppure per ridimensionare e circoscrivere il consumo clandestino di stupefacenti, senza illudersi di riuscire un giorno a debellare questa terribile piaga dalla società. Proprio in rapporto alla natura e alla dimensione del fenomeno, per essere risolutiva la legalizzazione va applicata evidentemente su scala internazionale. Se a introdurla fosse un solo paese o un solo Stato, questo rischierebbe di diventare un porto franco per i trafficanti, gli spacciatori e i tossicomani di tutto il mondo. Ma la mafia, quella italiana o americana, quella cinese o giapponese, è anch' essa una multinazionale che non conosce confini, valichi e frontiere. Perciò va combattuta sul suo stesso terreno, sotto ogni latitudine. CONSIDERATO a torto o a ragione la "casa madre" dell'organizzazione, il nostro paese ha interesse più di altri ad affrontare il problema in termini nuovi, ponendosi alla testa del movimento antiproibizionista. Si tratta di assumere con coraggio un'iniziativa, sul piano europeo prima e internazionale poi, per promuovere un salto di mentalità e di cultura, per sollecitare un confronto aperto, per stimolare una riflessione comune. E' una grande questione di costume civile. Contro la mafia e contro la droga, la lotta non può che essere unica, contestuale, simultanea. L' una e l'altra si possono sconfiggere, insieme, con una strategia d' attacco imperniata sulla legalizzazione, per togliere l'acqua dalla vasca in cui nuotano i pescecani della criminalità organizzata. Di Giovanni Valentini del 5 agosto 1992 su "La Repubblica".

Mafie e droghe tra proibizionismo e crociate antidroga, scrive Umberto Santino. Pubblicato su “Narcomafie”, n. 5, maggio 2002, pp. 6-14, con il titolo: Il circolo vizioso. Nel giugno del 1987, alla fine del processo denominato “Pizza connection”, la Corte distrettuale di New York condannò Gaetano Badalamenti e Salvatore Catalano a 45 anni di carcere. Secondo i magistrati americani Badalamenti per molti anni era stato una sorta di capo dei capi del traffico internazionale di eroina, che dalle raffinerie attorno all’aeroporto di Palermo fluiva incessantemente verso il mercato degli Stati Uniti, e il “gruppo Catalano”, in stretto collegamento con il boss di Cinisi, aveva assunto negli ultimi anni la regia del traffico. In realtà già allora la mafia siculo-americana non era l’unica organizzazione criminale interessata al traffico di droga, ma con ogni probabilità rivestiva un ruolo di primo piano, se non egemonico. Quel che è certo è che Badalamenti operava su piste già aperte in precedenza. L’ingresso della mafia siciliana nel traffico di droga era avvenuto molti anni prima. Il primo sequestro di una partita di droga in terra di Sicilia rimonta al 1952: 6 kg di eroina furono sequestrati ad Alcamo, a metà strada tra Palermo e Trapani, e vennero denunciati mafiosi destinati ad avere un ruolo di primo piano nella storia della mafia: Frank Coppola tornato nella sua Partinico dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, Salvatore Greco esponente della ben nota dinastia palermitana, John Priziola indicato come capomafia di Detroit. In quegli anni gran parte dei traffici avvenivano fuori dalla Sicilia, ma ad opera di siculo-americani, di cui il più noto era Lucky Luciano che operava in stretta collaborazione con società farmaceutiche, come la Schiapparelli di Torino e la Saicom di Milano, che dirottavano verso il mercato clandestino dell’eroina quantitativi consistenti di morfina usata per scopi farmaceutici. Operavano fuori dalla Sicilia anche i fratelli Salvatore e Ugo Caneba, che imbarcavano verso gli Stati Uniti l’eroina fornita dai corso-marsigliesi e in gran parte prodotta nel laboratorio milanese. Da inchieste degli anni ’60 risulta che la mafia siciliana sarebbe stata “la principale artefice del contrabbando di stupefacenti diretto dalla mafia statunitense” (Commissione antimafia 1976, p. 459).

Dal summit di Palermo del 1957 alla Pizza connection. Il patto di collaborazione tra mafia siciliana e mafia nordamericana sarebbe stato siglato nel summit svoltosi a Palermo nell’ottobre del 1957, nella piena indifferenza degli organi investigativi che non furono allarmati dalla presenza all’hotel delle Palme di boss notissimi, come Giuseppe Genco Russo, Joe Bonanno, Lucky Luciano, Gaspare Magaddino. In quell’occasione si sarebbe formato un gruppo operativo composto da membri della famiglia Bonanno con la collaborazione di mafiosi di Partinico e di Castellammare del Golfo, paese d’origine di Bonanno. Le famiglie mafiose siciliane operavano come fornitrici di droga alle consorelle americane che avrebbero avuto il monopolio della commercializzazione negli Stati Uniti e in Canada. Negli anni ’70 la direzione sarebbe passata dagli americani ai siciliani. Al di là di queste rappresentazioni inficiate da una buona dose di semplificazione, quel che è certo è che la Sicilia in quegli anni diventa laboratorio di produzione. Nel corso del 1980 sono state scoperte varie raffinerie di eroina operanti a Palermo e nelle vicinanze: una in via Villagrazia, nei pressi della villa di Giovanni Bontate, un’altra in contrada Piraineto di Punta Raisi, gestita da Gerlando Alberti, un’altra a Trabia. Nel 1982 sarà scoperta una quarta raffineria, a Palermo, in via Messina Marine. Ciascuna di esse produceva 50 kg di eroina a settimana. La signoria territoriale esercitata dalle famiglie mafiose, e in particolare dalla famiglia Badalamenti sull’area dove sorge l’aeroporto di Palermo, espressione di un potere statuale che caratterizza la mafia siciliana fin dai suoi primi giorni, si sposa con i traffici internazionali, a riprova di un’elasticità e capacità di adattamento che non svelle le radici ma le rafforza, funzionalizzando aspetti arcaici e premoderni alle nuove occasioni di accumulazione offerte dal mercato mondiale. Così, stando alle inchieste giudiziarie, quattro famiglie siciliane (gli Spatola-Inzerillo, i Gambino, i Bontate e i Badalamenti) avrebbero costituito un gruppo compatto, cementato anche da legami di parentela, e assieme ai cugini americani avrebbero avuto un ruolo egemonico nel mercato dell’eroina. A capo di questo gruppo sarebbe stato il boss siculo-americano Carlo Gambino. Nello scontro con i corleonesi, al centro della guerra di mafia dei primi anni ’80, queste famiglie sono risultate perdenti, ma i sopravvissuti continuano a gestire negli anni successivi il traffico di droga, come risulta dall’inchiesta e dalle condanne del processo denominato “Pizza connection”. Sulla mafia di quegli anni circola una lettura schematica e fuorviante: l’inserimento nel traffico di droga avrebbe snaturato l’organizzazione “Cosa nostra” (denominazione venuta alla luce in seguito alle rivelazione di Buscetta), si sarebbe verificata una sorta di mutazione genetica che avrebbe sepolto sotto palate di dollari le regole e i “valori” che avrebbero caratterizzato la vecchia mafia, fedele alle sue radici contadine. Nella versione di Buscetta, i suoi amici (da Bontate a Badalamenti) rappresentano la mafia “buona”, che agiva nel rispetto di codici comportamentali fondati sull’onore, mentre i corleonesi sono i portatori di una sanguinaria deregulation all’insegna dell’arricchimento facile. In realtà i protagonisti dei traffici di sigarette e di eroina sono proprio gli amici di Buscetta, mentre i corleonesi erano i parenti poveri e imbracciano le armi per chiedere una maggiore porzione della torta. Su questa base una mafiologia tanto diffusa quanto gratuita ha favoleggiato di una “mafia tradizionale in competizione per l’onore e il potere”, che sarebbe stata soppiantata da una “mafia imprenditrice” che solo negli anni ’70 avrebbe scoperto “la competizione per la ricchezza”. La storia della mafia reale ignora distinzioni tra mafia buona e mafia cattiva (la strage di Portella della Ginestra e gli assassinii dei militanti del movimento contadino non sono meno feroci degli omicidi e delle stragi degli anni più recenti) e un’analisi adeguata legge gli adattamenti dettati dai mutamenti del contesto come uno dei caratteri fondamentali del fenomeno mafioso, la cui persistenza nel tempo è frutto della capacità di combinare rigidità formale ed elasticità di fatto. Senza questa elasticità la mafia sarebbe morta con il feudo, non si sarebbe riambientata in una società urbanizzata e a economia prevalentemente terziaria e successivamente in uno scenario sempre più internazionalizzato e finanziario. E il mantenimento del radicamento territoriale l’ha salvaguardata dal destino dei mutanti alla deriva. Così si è realizzato quel mix di continuità e innovazione che informa i fenomeni di durata, la signoria territoriale si è sposata perfettamente con la “riproduzione allargata del capitale” e ricchezza, prestigio e potere, per la mafia, ma non solo per lei, hanno fatto e continuano a fare tutt’uno.

Non c’è stata quindi nessuna degenerazione, nessuna mutazione da “uomini d’onore” in “uomini del disonore”, ma questo non vuol dire ignorare o sottovalutare le conseguenze che ha avuto l’inserimento nel traffico di droga delle famiglie mafiose. Ci sono stati aggiustamenti organizzativi (si è formata almeno per qualche tempo una struttura interfamilistica che gestiva il contrabbando di sigarette e il traffico di droga) e la lievitazione dell’arricchimento ha scatenato appetiti all’origine della conflittualità interna ed esterna, fino al “delirio di onnipotenza criminale” di Riina e soci, culminato con le stragi di Capaci, via D’Amelio, di Firenze e di Milano. Resta da vedere se le stragi siano state soltanto il frutto di un “delirio” o di dinamiche più complesse innescate dai processi di transizione che hanno portato alla cosiddetta “seconda Repubblica”, ma francamente non so quali risultati sortiranno le indagini che tentano di far luce in questa direzione.

Proibizionismo e accumulazione mafiosa. Se alla radice di questa stagione di sangue sta l’enorme arricchimento dovuto al traffico di droga (anche se non vanno sottovalutate le altre fonti di accumulazione, vecchie e nuove, dalle estorsioni all’usura, agli appalti di opere pubbliche), non è difficile individuare nel proibizionismo la causa e l’occasione più propizia per la scalata criminale e per la traduzione dell’agire mafioso in impresa che gestisce in regime di monopolio o di oligopolio l’offerta di un bene o servizio illegale ma con una domanda di massa. Dal proibizionismo dell’alcol negli anni ’20 a quello attuale delle droghe assistiamo alla replica di un copione: i gruppi criminali diventano soggetti economico-finanziari di prim’ordine con tutto quello che ciò comporta come ruolo socio-politico e come interazione se non identificazione con ambienti di potere. Gli effetti più significativi del proibizionismo degli alcolici, introdotto negli Stati Uniti con il Volstead Act del 1920 e durato fino al 1933, furono l’inosservanza della legge e quindi una illegalità diffusa, l’esposizione a rischio dei consumatori, il salto di qualità dei gruppi criminali e l’incremento della corruzione dei pubblici ufficiali, dai poliziotti ai magistrati e ai politici. Il proibizionismo (la Prohibition) è stato definito la “levatrice del crimine organizzato in America” (Sifakis 1982, p. 589). In effetti in quegli anni le gangs, che erano in disarmo o si limitavano ad attività poco redditizie, compirono un salto di qualità, si formò una nuova leva di criminali-imprenditori che realizzavano livelli di accumulazione pari se non superiori alle grandi corporations legali. “Siamo più grandi della U.S. Steel” sosteneva Mayer Lansky, e personaggi come lui, come Al Capone, Lucky Luciano, Benjamin “Bugsy” Siegel, non sarebbero diventati così noti, ricchi e potenti, senza le grandi opportunità offerte dalla Prohibition. Si calcola che Al Capone abbia intascato 60 milioni di dollari dal bootlegging (spaccio clandestino di liquori). E questo arricchimento degli imprenditori del crimine porta a un rovesciamento dei ruoli: se prima erano i politici che riuscivano a controllare i gangsters, ora sono questi ultimi che dettano ordini. “I own the police” (“Ho in mano la polizia”), diceva Al Capone, e non era una spacconata, anzi i suoi legami andavano ben oltre la polizia di Chicago. La storia del proibizionismo delle droghe è nota: dalla conferenza internazionale di Shangai del 1909 alle Convenzioni dell’Aja (1912), di Ginevra (1925, 1931, 1936), alla Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 fino alla Convenzione di Vienna del 1988, si è imposto il modello americano, fondato sulla criminalizzazione della produzione, commercializzazione e consumo, con effetti che riproducono e aggravano quelli generati dal proibizionismo dell’alcol: l’espansione dei consumi e la diffusione dell’illegalità, la lievitazione dell’accumulazione illegale e il rafforzarsi e proliferare delle mafie attirate dai grandi profitti che si possono realizzare producendo e smerciando su scala mondiale un prodotto a larghissima richiesta. Com’è noto, le stime del volume d’affari annuale del narcotraffico hanno oscillazioni rilevanti. Secondo il National Intelligence Council, sarebbe tra i 100 e i 300 miliardi di dollari, mentre le Nazioni Unite parlano di 400 miliardi e la Banca mondiale di 1.000 miliardi. In ogni caso il traffico di droghe sarebbe ancora l’attività più remunerativa: il traffico di armi sarebbe al secondo posto con 290 miliardi di dollari, seguirebbero a notevole distanza il traffico di rifiuti tossici (10-12 miliardi) e la tratta di esseri umani (7 miliardi) (Politi 2001).

Un mercato sempre più complesso. Il mercato delle droghe negli ultimi decenni è diventato sempre più complesso per il proliferare delle sostanze psicoattive (a quelle naturali si sono affiancate quelle di sintesi), l’espansione dei consumi e l’incremento dei soggetti criminali che producono e commercializzano le varie droghe. Ai gruppi storici che operavano da tempo sul mercato delle droghe (oltre alla mafia siciliana e alle altre mafie italiane, la ‘ndrangheta, la camorra e da alcuni anni anche la criminalità pugliese, la mafia turca, le triadi cinesi e la yakusa giapponese) si sono aggiunti gruppi di formazione più o meno recente, come i cartelli colombiani, le mafie albanese, russa, nigeriana ecc. Alcuni gruppi, prima impiegati come manovalanza criminale, hanno via via acquistato autonomia e si sono messi in proprio. Si può discutere l’uso generalizzato del termine “mafie” per i vari gruppi criminali ed è certamente da respingere lo stereotipo secondo cui ci sarebbe una piovra universale diretta da una cupola mondiale che per qualche tempo sarebbe stata pilotata dal quasi analfabeta Totò Riina. Anche l’espressione “crimine transnazionale”, usata dalle convenzioni internazionali e dalla letteratura giuridica e criminologica, è meramente descrittiva. Quel che è certo è che il traffico di droghe ha aperto, ancora più del contrabbando di sigarette, le porte del mercato internazionale e della globalizzazione del crimine. A un monopolio o oligopolio oggi si è sostituito un polipolio dell’offerta e mentre vari gruppi hanno fatto registrare livelli notevolmente alti di conflittualità interna non si sono verificati fino a oggi episodi significativi di contrasto tra i vari gruppi tali da far pensare allo scatenarsi di una guerra tra loro. Si è stabilito un regime di convivenza pacifica, di criminal agreement, che dimostra che anche i gruppi più violenti, come Cosa nostra siciliana o la mafia albanese, quando ci sono in gioco grossi affari riescono ad agire, o a interagire, sottomettendo la cultura della violenza ai dettami della razionalità economica. Che tipo di rapporti si è stabilito tra vecchi e nuovi soggetti criminali sul terreno del traffico di droghe e su altri terreni di accumulazione illegale? Siamo di fronte a un universo in mutazione, in cui si ripropone, in termini che bisognerebbe studiare attentamente sulla base di una documentazione adeguata, la dialettica continuità-trasformazione, radicamento-internazionalizzazione o globalizzazione.

Per quanto riguarda il nostro Paese, le organizzazioni criminali storiche e nuove negli ultimi anni hanno fatto registrare significativi mutamenti in risposta alle ondate repressive e alle novità del contesto. Cosa nostra siciliana, dopo la stagione delle stragi, si è “sommersa” e “inabissata”, cioè è tornata alla mediazione, e per arginare l’emorragia dei “pentiti” ha innalzato le barriere della segretezza e della compartimentazione, rivedendo i criteri di reclutamento e disciplinando più rigidamente le relazioni tra i vari sodalizi. Ma è significativo che alla sua testa, anche se affiancato a quanto pare da un “direttorio”, ci sia un uomo per tutte le stagioni come l’eterno latitante Bernardo Provenzano, prima killer con Luciano Liggio, poi stragista con Riina e ora regista della transizione nel nuovo secolo. Secondo la Dia, i rapporti di Cosa nostra con i sodalizi criminali stranieri sarebbero sporadici e inconsistenti (Dia 2001, p. 7), ma da recenti inchieste comincia a emergere una realtà ancora tutta da esplorare. La relazione conclusiva della Commissione antimafia del marzo 2001 parla di un “comparto estero” di Cosa nostra e di una “strategia di “globalizzazione finanziaria” delle organizzazioni criminali nel contesto di una integrazione in chiave transnazionale dei “mercati criminali”” (Commissione antimafia 2001, pp. 66 sgg.). In realtà la finanziarizzazione della mafia è un fenomeno avviato già da tempo, anche se ha fatto fatica a emergere per la dittatura dello stereotipo “mafia imprenditrice” presentato negli anni ’80 come una grande scoperta, mentre le analisi economiche sul crimine organizzato erano state elaborate negli Stati Uniti già vent’anni prima.

Oggi si parla della possibilità che Cosa nostra “si stia ritagliando un ruolo internazionale tanto importante quanto evoluto; un ruolo di struttura finanziaria in grado di attivare e controllare attività illecite – condotte materialmente da varie organizzazioni italiane e straniere che agiscono raccordandosi tra loro – servendosi della medesima struttura che negli anni passati essa ebbe ad utilizzare per gestire la parte finanziaria dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri e dal traffico di stupefacenti, e cioè i trasferimenti di denaro, il riciclaggio e i reinvestimenti” (Dia 2001, p. 21). Bisogna vedere quanto in questa ipotesi giochi l’immagine già consolidata nel recente passato.

La ‘ndrangheta avrebbe negli ultimi anni mutuato il modello organizzativo di Cosa nostra, con la creazione di mandamenti e l’adozione di una struttura unitaria e sarebbe l’organizzazione più proiettata sul piano nazionale (in particolare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana) e internazionale.

La camorra, strutturata in molteplici gruppi in conflitto tra loro, intreccia attività classiche, come estorsioni, usura, appalti, contrabbando di tabacchi lavorati esteri e traffico d droghe, e nuove, come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il commercio di carni dopo l’emergenza “Mucca pazza”, e opera in collegamento con altri gruppi con proiezioni a livello internazionale e internazionale, in particolare in Germania e nel Regno Unito.

Anche la criminalità organizzata pugliese ha struttura reticolare e i vari gruppi interagiscono fra loro e con altre organizzazioni italiane e straniere, in particolare di etnia kosovaro-albanese, sul terreno del traffico di clandestini e di stupefacenti, di cui la Puglia è diventata uno dei crocevia più importanti.

Tra i principali gruppi stranieri insediatisi nel territorio italiano (albanesi, nigeriani, cinesi, colombiani, russi) gli albanesi sono i più numerosi e avrebbero assunto un ruolo prevalente: sono i grandi rifornitori di droghe dei gruppi criminali italiani e operano alla pari con essi. Dall’Albania arrivano in Italia ingenti quantità di marijuana, di eroina e cocaina. Una volta interrotta per i conflitti nell’ex Iugoslavia la via balcanica dell’eroina verso il Nord Europa (ma recentemente si sarebbe riaperta), i gruppi albanesi controllano la cosiddetta “rotta balcanica meridionale”, che dalla Turchia passando per la Bulgaria arriva in Albania e attraverso il canale di Otranto giunge in Italia. Gli albanesi hanno rapporti con i cartelli colombiani, ricevendo sul loro territorio carichi di cocaina in arrivo dai porti nordeuropei, in particolare olandesi, e non si esclude che la “cocaina rosa” sia raffinata in Albania.

La mafia albanese è strutturata su base clanica e familistica e ha rapporti continuativi con le organizzazioni pugliesi e campane ma anche con la criminalità comune. I rapporti con organizzazioni salentine cominciano fin dai primi anni ’80 con il contrabbando di sigarette e con la Sacra corona unita negli ultimi anni ha operato un patto di divisione e territorializzazione del lavoro criminale: i pugliesi gestiscono il contrabbando di sigarette e il traffico di eroina, di cocaina e di armi; gli albanesi il traffico degli immigrati clandestini e il racket della prostituzione e delle droghe leggere, in aree ben delimitate sulle due sponde dell’Adriatico (Piacente 1998).

La criminalità nigeriana è costituita da gruppi rigidamente strutturati senza collegamento tra loro, con una forte connotazione culturale (si fa un largo impiego di pratiche magico-religiose: i riti woodoo) e le sue principali attività sono il traffico di esseri umani, lo sfruttamento schiavistico della prostituzione e il traffico di stupefacenti. Opera in particolare nelle regioni del Centro-Nord ma è presente anche in Campania: qui, per l’esercizio della prostituzione delle immigrate nigeriane la camorra riscuote una sorta di tassa per l’occupazione del suolo.

I nigeriani sarebbero passati negli ultimi anni da corrieri a servizio di altre organizzazioni a imprenditori criminali in proprio, collocandosi ai primissimi posti nella graduatoria dei trafficanti internazionali. Stando alle fonti investigative, i sodalizi dediti al traffico di stupefacenti avrebbero rapporti diretti con i produttori e avrebbero un alto profilo organizzativo, sapientemente mascherato fino all’invisibilità con la rinuncia all’uso della violenza verso l’esterno (Dia 2001, p. 43). I proventi delle attività illecite sarebbero in buona parte investiti in Italia.

I rapporti della mafia siciliana con i cartelli colombiani rimontano agli anni ’80: nell’ottobre del 1987 furono sequestrati sul mercantile Big John nei pressi di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, 596 kg di cocaina, destinati alla famiglia dei Madonia. Allora si parlò di patto di esclusiva tra il cartello di Medellín e la famiglia siciliana e nel ’91 a Milano fu arrestato per riciclaggio il manager Giuseppe Lottusi, indicato come cassiere del cartello colombiano. Allora la porta d’ingresso per la cocaina era la Spagna, ora la droga arriva attraverso l’Albania e i colombiani dispongono in Italia di vari centri logistici in cui vengono svolte le fasi finali della raffinazione e mentre gli uomini dei cartelli curano le operazioni più complesse, i piccoli quantitativi di cocaina vengono gestiti da piazzisti non collegati direttamente con essi (Commissione antimafia 1999, p. 31). Non risulta fino ad oggi un ruolo significativo nei traffici di stupefacenti dei gruppi criminali cinesi insediatisi in Italia, in particolare nelle regioni del Centro-Nord. La criminalità cinese in Italia è costituita da vari gruppi, con composizione variante dalle dieci alle cinquanta unità, e le principali attività sono l’immigrazione clandestina, le estorsioni, le rapine e l’usura, praticate all’interno del gruppo etnico in funzione del pagamento del debito contratto dagli immigrati. Operano nel Centro-Nord anche i gruppi criminali russi dediti a varie attività, tra cui il traffico di stupefacenti. Non risultano rapporti con le organizzazioni criminali italiane, se non per acquisti sul mercato nero delle armi e per speculazioni finanziarie come l’acquisto di rubli, scambiati con denaro di illecita provenienza, destinati all’investimento in Russia in funzione di riciclaggio.

Tra i nuovi arrivati ci sono anche i rumeni, mentre i turchi sono vecchie conoscenze. Da tempo la mafia turca ha un ruolo di primissimo piano nel traffico di eroina e tale ruolo risulta confermato e potenziato negli ultimi anni. Ma i collegamenti con la criminalità italiana, ampiamente documentati per il passato, secondo fonti ufficiali negli ultimi anni si sarebbero affievoliti.

In Italia non siamo ancora al melting pot delle etnie e di conseguenza anche del crimine, ma come del resto per altri paesi occidentali la strada è quella indicata da tempo dal modello pluralistico americano.

Mafie, borghesie mafiose e blocco sociale. Come e più ancora forse di altre attività, il traffico di droghe non solo riproduce e rafforza i gruppi criminali organizzati ma pure contribuisce a generare e a estendere il sistema relazionale che ruota attorno ad essi. Questo sistema attraversa il contesto sociale dall’alto in basso, coinvolgendo vari soggetti, dai produttori di materie prime agli specialisti della raffinazione, dagli spacciatori-consumatori ai professionisti del riciclaggio. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a uno de fenomeni più interessanti di interclassismo o transclassismo criminale. Su questo terreno si incontrano modelli sedimentati in territori geograficamente lontani, come la Sicilia e l’America Latina. Se la Sicilia è la terra madre del modello mafioso, nella sua articolazione complessa (dalle organizzazioni criminali di base, le famiglie, alle strutture di collegamento e di direzione, orizzontali e verticali, al blocco sociale che ruota attorno ad esse, sulla base della comunanza di interessi e dalla condivisione di codici culturali, con un ruolo dominante esercitato dai soggetti illegali e legali più ricchi e potenti: borghesia mafiosa), studi sui paesi latino-americani hanno posto l’accento sulla formazione di borghesie assimilabili a quella mafiosa siciliana (Kalmanovitz 1990, Krauthausen 1998) e ricostruito un quadro delle articolazioni del narcosistema (Rivelois 1999) e del blocco sociale prodotto e cementato dal narcotraffico. Le categorie coinvolte sono numerosissime, si può dire che ben pochi restano fuori. Si comincia con i contadini produttori, si continua con i chimici, i trasportatori (autisti e piloti di navi), i mulas (uomini e donne che imbottiscono il corpo di cocaina o la ingoiano), le guardie del corpo dei narcotrafficanti, i traqueteros (ambasciatori del narcotraffico sulle piazze degli Stati Uniti e di altri paesi), gli avvocati difensori, i contabili, i consulenti finanziari, i giornalisti e scrittori a servizio dei capi del narcotraffico per legittimare le loro gesta, gli amministratori e i politici, i magistrati, i doganieri, il personale del fisco, della polizia, i militari, il personale coinvolto nelle attività di investimento dei capitali, nelle attività commerciali e professionali necessarie per soddisfare le domande di consumo dei narcotrafficanti: architetti, medici, stilisti, sportivi ecc. (Kaplan 1992). È un indotto interminabile messo in piedi dall’economia della droga e dall’iperconsumismo della ricchezza facile. Questo modello si è ormai diffuso su scala planetaria e mentre nelle società occidentali le borghesie mafiose sono una componente del sistema di accumulazione e di dominio, in molte realtà, a cominciare dai paesi ex socialisti, sono le uniche borghesie o hanno un ruolo decisamente prevalente, per le grandi convenienze offerte dai traffici illegali e le grandi difficoltà di innescare dinamiche significative di accumulazione legale. Prima si parlava di narcocrazie, oggi si parla di Stati-mafia e,, anche se bisogna evitare generalizzazioni e semplificazioni affrettate, il traffico di droghe ha certamente un ruolo significativo se non determinante nei processi di criminalizzazione delle istituzioni fino alla coincidenza e sovrapponibilità tra gruppi criminali e soggetti detentori del potere.

Guerre alla droga, geopolitica, narcotraffico e terrorismo. Nei primi anni ’80 il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan dichiarò la “guerra contro le droghe internazionali”, indicando nella produzione e nell’offerta estera il nemico esterno dell’America, contro cui battersi con una strategia basata su due punti fondamentali: l’eradicazione delle coltivazioni e la distruzione delle sostanze prima che passassero le frontiere, la repressione dei trafficanti. Da allora gli Stati Uniti hanno proseguito su questa strada, ma in realtà la guerra alla droga era condotta e continua ad essere condotta con grande cinismo. La droga è stata usata come fonte di denaro per finanziare interventi militari contro il pericolo comunista e la guerra contro di essa è stata il pretesto per imporre o rafforzare il comando su territori di importanza strategica, come nel caso della Colombia. Nessuna meraviglia quindi se per queste operazioni sono stati impiegati i servizi segreti, con grande spregiudicatezza, fino alla complicità con i criminali e all’incentivazione del crimine. È nota l’azione della Cia negli anni ’40 e ’50 in appoggio all’esercito nazionalista cinese (il Kuomintang) contro i maoisti, con l’incremento della produzione di oppio nel Sud-Est asiatico; negli anni ’60 nel Laos nella guerra segreta, finanziata dall’oppio, contro i guerriglieri del Pathet Lao; negli anni ’80 in Afghanistan, a fianco dell’Isi, il servizio segreto pakistano, e con i gruppi fondamentalisti in lotta contro l’invasione sovietica e in Nicaragua a sostegno dei contras antisandinisti, sempre con largo impiego dei capitali provenienti dal traffico di droghe (Santino-La Fiura 1993, pp. 234 ss.). Meno nota, ma non meno spregiudicata, l’azione del Mossad, il servizio segreto israeliano, coinvolto nella Contras Connection e in operazioni in Colombia (A. e L. Cockburn 1993). Negli ultimi anni la guerra alla droga ha avuto una delle sue più significative materializzazioni con il Plan Colombia, un programma di fumigazioni delle coltivazioni di coca e di riforme predisposto dal presidente Andrés Pastrana su pressione dei circoli americani nordamericani e della Cia, lautamente finanziato dagli Stati Uniti e con una fetta consistente del budget destinata a spese militari. L’assistenza militare Usa si estende anche ai paesi limitrofi, Perù, Ecuador e Bolivia, e si configura come una vera e propria militarizzazione del continente sudamericano che usa la lotta alla droga come pretesto per il contrasto ai gruppi guerriglieri e come trampolino di lancio per il controllo di un’area caratterizzata da gravi crisi istituzionali e da un’instabilità generalizzata (Mazzeo 2000). Già prima dell’11 settembre e ancora di più dopo gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono, la lotta al terrorismo ha occupato la prima pagina dell’agenda internazionale. L’immagine dominante è quella dell’Occidente civile assediato dagli altri, dai terroristi, dagli Stati-canaglia che li proteggono, dall’Asse del male (Iran, Iraq, Corea del Nord). Si dimentica che i talebani e lo stesso Bin Laden sono gli stessi che lottavano all’ombra della Cia contro i sovietici e il governo comunista, che l’Afghanistan è salito in vetta alla classifica mondiale dei produttori di oppio perché esso serviva per finanziare la guerriglia anticomunista, che Bin Laden ha interessi in molti paesi del mondo, compresi quelli occidentali, al riparo del segreto bancario, che familiari di Bin Laden sono stati soci in affari di George W. Bush fino ai primi anni ’90 (Santino 2001). Nell’immaginario corrente che vede il terrorismo come un’inspiegabile incarnazione del Male, il traffico di droga ha un posto in prima fila. Secondo la delibera n. 1373 del 28 settembre 2001 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, c’è una stretta connessione fra il terrorismo internazionale e la criminalità organizzata transnazionale, il traffico illecito di droga, il riciclaggio di denaro sporco e il traffico illegale di armi. E questa connessione legittimerebbe il ricorso alla guerra, così com’è avvenuto in Afghanistan e potrebbe avvenire in altre aree del pianeta. Come dimostra anche quanto sta avvenendo in questi giorni nei territori arabi occupati della Palestina, non si fa nulla per rimuovere le cause e si aggravano le situazioni da cui scaturisce la scelta del terrorismo. Tutto ciò è in perfetta coerenza con le logiche proibizioniste e militari che dominano le guerre alla droga, in assenza di qualsiasi politica che ribalti gli effetti criminogeni della globalizzazione neoliberista, un contesto che stimola e favorisce il ricorso all’accumulazione illegale (Santino 2000), in cui la produzione e il traffico di droghe hanno ancora oggi un peso prevalente. Pubblicato su “Narcomafie”, n. 5, maggio 2002, pp. 6-14, con il titolo: Il circolo vizioso.

Droga, il proibizionismo globale verso il capolinea? Scrive il 21 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano", Vittorio Agnoletto, Medico, professore presso l'Università degli Studi di Milano. “Un mondo senza droghe, possiamo farcela” era il titolo della Dichiarazione Politica conclusiva approvata nel 1998 a New York dalla Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Ungass, United Nation General Assembly Special Session) che fissò l’obiettivo di “eliminare o ridurre significativamente” le coltivazioni di oppio, coca e cannabis in dieci anni. Nel 2009 l’obiettivo fu confermato, pur posticipando al 2019 la data entro la quale tali risultati avrebbero dovuto essere raggiunti. Sono stati anni profondamente segnati dalla “guerra alla droga” che hanno avuto come elemento eclatante l’obiettivo di distruggere, attraverso interventi armati e attraverso le famose fumigazioni per via aerea, le coltivazioni di sostanze illegali. Il simbolo di questa stagione è stato il famoso “Plan Colombia” con tutte le conseguenti tragedie che si sono abbattute su migliaia di contadini. Ma tali strategie hanno drammaticamente fallitogli obiettivi dichiarati: il mercato nero delle droghe si è ampliato, così come si sono sempre più globalizzati il ruolo della criminalità organizzata e i fenomeni di corruzione istituzionale dipendenti da tale commercio. Di fronte a simili risultati di anno in anno il dissenso verso la “tolleranza zero” è cresciuto nella comunità scientifica internazionale e ha influenzato le scelte di vari governi. I principali Paesi europei, con l’eccezione dell’Italia, nell’ultimo decennio hanno infatti assunto posizioni innovative ed hanno sottoscritto dichiarazioni di supporto alle Strategie di riduzione del Danno, pratiche che, superando posizioni ideologiche pongono al primo posto la tutela della salute dei consumatori, ad esempio attraverso una riduzione del numero dei decessi per overdose e una diminuzione della trasmissione di patologie quali Hiv ed epatiti. Proprio seguendo questa logica la Svizzera è giunta ad autorizzare trattamenti con eroina per tossicodipendenti di lunga data e tale scelta è stata confermata con un referendum popolare che ha ben colto l’intreccio tra tutela della salute dei consumatori, lotta al mercato nero e aumento della sicurezza per la popolazione generale attraverso la diminuzione dei reati. Negli stessi anni in alcuni stati USA hanno vinto i referendum sulla legalizzazione della cannabis. Il fallimento delle politiche proibizioniste hanno spinto i presidenti della Colombia, del Guatemala e del Messico a chiedere e ad ottenere che la prossima assemblea generale dell’Onu, prevista nel 2019, fosse anticipata di tre anni e si svolgesse dal 19 al 21 aprile 2016. In preparazione di Ungass 2016 centinaia di Ong, da quelle europee ai cocaleros dell’America Latina, si sono riunite nell’International Drug Policy Consortium (Idpc), e hanno presentato una piattaforma che chiedeva: la disponibilità in tutto il mondo di medicinali essenziali per le cure palliative e per il contenimento del dolore, farmaci spesso inutilizzati proprio perché considerati essi stessi parenti prossimi di sostanze considerate illegali; la fine delle violazioni dei diritti umani e degli abusi verso le popolazioni tradizionalmente coinvolte ad esempio nella coltivazione della foglia di coca (prodotto ben differente dalla cocaina); la sospensione di ogni forma di criminalizzazione dei consumatori: attualmente in tutto il mondo sono migliaia le persone imprigionate per uso personale di sostanze. I governi dovrebbero inoltre impegnarsi a chiudere i centri di detenzione e riabilitazione forzata per droga e implementare l’accesso volontario ai servizi socio-sanitari nei quali dovrebbero essere disponibili tutti i trattamenti basati sull’evidenza scientifica. Il sostegno alle già citate Strategie di Riduzione del Danno è stato condiviso dalle più importanti agenzie dell’ONU, dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa Internazionale. L’Unaids, l’Agenzia di Lotta all’Aids delle Nazioni Unite, ha calcolato che per il 2015 sarebbero stati necessari 2.3 miliardi di dollari per sostenere la prevenzione da Hiv fra le persone che usano droghe, mentre erano disponibili meno di 0.2 miliardi di dollari. Il budget totale per la lotta contro la droga si aggira attorno ai 100 miliardi di dollari all’anno. Sarebbe sufficiente una minima parte di queste risorse per generalizzare le strategie di riduzione del danno e salvare decine di migliaia di vite. Il documento conclusivo della Conferenza emerso da un lungo lavorio della diplomazia mondiale è stato votato all’apertura della tre giorni di discussione, con una prassi inaccettabile ma tipica degli incontri intergovernativi. Il documento non contiene grandi novità e nella forma si inserisce nel solco di quelli approvati nelle scorse edizioni: ad esempio non chiede esplicitamente l’abolizione della pena di morte per i reati di droga, né contiene un riconoscimento della Riduzione del Danno. Ciononostante, diversi governi nei loro interventi hanno criticato la mediazione raggiunta, hanno chiesto una modifica sostanziale della prassi proibizionista e forme di regolamentazione del mercato della cannabis.

Nelle raccomandazioni pratiche, allegate al documento finale, si allude, seppure ancora molto timidamente, ai diritti dei consumatori e si comincia a prendere atto che oltre alle sostanze ci sono le persone con le loro vite, le loro scelte e i loro diritti. Molti osservatori, comprese le Ong, pur non condividendo il documento approvato, sostengono che tra le rappresentanze istituzionali globali si è preso atto che il tempo del semplice e duro proibizionismo si è chiuso con un fallimento. È iniziata una pausa di riflessione che, nella speranza di tante Ong e di non pochi governi, dovrebbe condurre ad un vera e propria inversione di marcia nel 2019 quando si svolgerà la prossima sessione generale di Ungass. Raramente, come in questo caso, la sorte di migliaia di vite umane dipende dal tempo che occorrerà alla comunità internazionale per avere il coraggio di compiere nuove scelte.

Il cancro d’Italia che la sta uccidendo: le collusioni tra mafia, politica e imprenditoria, scrive Vincenzo Musacchio, Giurista, docente di diritto penale e direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise, il 14 Settembre 2015 su "La Voce di New York". Le nuove mafie non usano più metodi violenti ma si servono della corruzione per snaturare l'economia e la finanza, sottraendo ingenti risorse destinate al bene comune. Si deve subito impedire ai politici e ai burocrati di turno - attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace - di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire appalti e lavoro. L'attuale legislazione è insufficiente, serve una nuova rivoluzione culturale. In Italia solo nel 2014 sono scattate indagini di natura penale e ordinanze di custodia cautelare nei confronti di esponenti politici in quasi tutte le regioni. Sono stati sciolti oltre duecentocinquanta consigli comunali per presunte infiltrazioni mafiose e più di ottanta parlamentari dell’attuale legislatura sono indagati, imputati e condannati per reati di corruzione, finanziamento illecito ai partiti e per altri reati contro la pubblica amministrazione. Le collusioni tra politica, criminalità organizzata e imprenditoria sono attualmente gli aspetti più preoccupanti per il nostro Paese poiché mettono a rischio la stabilità delle istituzioni democratiche. Le nuove mafie, oggi, non usano più metodi violenti ma si servono della corruzione per alterare i normali processi della politica, minare la credibilità delle istituzioni, inquinare gravemente l'ambiente e snaturare l'economia e la finanza, sottraendo ingenti risorse destinate al bene comune, sgretolando il senso civico e la cultura solidaristica del nostro Paese. La simbiosi tra mafie, politica ed economia attualmente è presente in molti settori produttivi nazionali con grande prevalenza nel settore degli appalti pubblici e delle pubbliche sovvenzioni statali ed europee. I predetti legami servono alle mafie soprattutto per condizionare le scelte degli amministratori che sovrintendono le procedure pubbliche, instaurando in tal modo un circuito per lo scambio di favori illeciti. La politica, da un lato, garantisce affari e profitti alla criminalità organizzata, dall’altro, quest’ultima assicura la disponibilità di voti necessari per essere eletti ai politici collusi. Mafia e politica, sotto questo profilo, si sostengono e si garantiscono a vicenda. Il terreno d’incontro è la corruzione e il profitto economico. Per i mafiosi, le enormi quantità di denaro a disposizione costituiscono anche il mezzo per accedere nella cabina di regia degli enti dello Stato sia a livello centrale che periferico allo scopo di eliminare la possibile concorrenza alle loro imprese e agire in regime di monopolio. In questo contesto, molto preoccupante, occorre domandarsi cosa si può fare per arginare queste situazioni criminose? Una delle azioni da concretizzare, senza tentennamenti, è senza dubbio quella di impedire ai politici e ai burocrati di turno – attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace – di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire assunzioni, appalti e altri vantaggi che consentono loro di offrire ai cittadini possibilità di lavoro. E’ indispensabile fare in modo che per ottenere i propri diritti non si debba più ricorrere al mafioso, al politico o imprenditore colluso. Bisogna assolutamente sradicare la convinzione che la mafia garantisca lavoro. Una cosa difficile da realizzare, soprattutto nel Sud d’Italia, dove lo Stato latita da molto tempo. Dalla rottura dei legami mafie-politica-imprenditoria, a mio avviso, comincerà il vero cambiamento, ma, ciò è possibile solo a condizione che nel nostro Paese si comincino a lottare concretamente la criminalità organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale e la mala politica. Da esperto della materia posso affermare che l’attuale legislazione è assolutamente insufficiente. La dimostrazione della nostra tesi, ad esempio, risiede nel fatto che l’Italia sia la Nazione più corrotta d’Europa e al tempo stesso quella in cui vi sono meno condanne per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Di certo il virus che sta uccidendo lentamente il nostro Stato in buona parte risiede nell’indebolimento delle norme di controllo, nel depotenziamento del sistema giudiziario e in una burocrazia ferma al secolo scorso priva di trasparenza e di economicità. E’ il mix tra corruzione politica, criminalità organizzata ed economia adulterata il vero cancro della nostra società e non si può continuare a parlare di onestà, di trasparenza e di efficienza in uno Stato che, di fatto, non vuole lottare questi fenomeni così aberranti. Il cittadino dovrebbe comprendere che mafiosi, politici e imprenditori perseguono il profitto fine a se stesso servendosi soprattutto di denaro pubblico, di cui non si riesce nemmeno a tracciare il percorso perché le norme sul riciclaggio sono inefficaci e quelle sull’autoriciclaggio inesistenti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir poco allarmante. In questo scenario catastrofico occorrerebbe una rivoluzione culturale che parta dai giovani sulla scorta di quanto accaduto in passato per combattere la mafia – penso alla “Primavera di Palermo” negli anni novanta – quando una moltitudine di cittadini ebbe il coraggio di scendere in piazza dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per dire no alla mafia. Ecco occorre una nuova “Primavera di Palermo” ma questa volta senza i tanti morti ed estesa a tutta la Nazione per dire no alle mafie e alla corruzione. L’Italia si gioca una partita importantissima: o affronta i veri problemi che la attanagliano, e che ho descritto in precedenza, o sarà destinata al collasso totale. 

La corruzione è la nuova mafia? Scrive su "La Repubblica" il 14 agosto 2018 Alessandro Milone - Università Parthenope di Napoli, Dipartimento di Diritto Penale, relatore professore Alberto De Vita. La corruzione è senza dubbio uno dei fenomeni criminali che desta più allarme nella società civile italiana. Negli ultimi anni, infatti, il legislatore è intervenuto più volte per regolare la materia, sia tramite nuove norme penali di tipo repressivo, introducendo inedite figure di reato o aumentando il trattamento sanzionatorio, sia costruendo – anche sulla spinta di pressioni internazionali - un’efficace sistema di prevenzione della corruzione fondato sulla trasparenza amministrativa e sulla vigilanza nei contratti pubblici di cui pietra angolare è l’Autorità Nazionale Anticorruzione. La pervasività della corruzione, che si insinua nella pubblica amministrazione, nella politica, nel mondo delle imprese, e in quello delle realtà professionali, ha indotto numerosi commentatori ed attori della scena politica e giudiziaria nazionale a ritenere che essa sia equiparabile alla gravità del fenomeno mafioso. Delle similitudini fra i due fenomeni criminali sono innegabili: la corruzione, invero, al pari dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, è un virus endemico che infetta i gangli vitali dello Stato minando non soltanto l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione ma anche la concorrenza nel mercato e la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Non può tacersi, tuttavia, sulle differenze che intercorrono fra talune fenomenologie corruttive e quelle mafiose. Se un pubblico ufficiale è infedele o corrotto, rimane tale a seconda che svenda il proprio atto e la propria funzione ad un imprenditore-colletto bianco o ad un mafioso. Per utilizzare le parole di Franco Roberti, già Procuratore Nazionale Antimafia, “mafia e corruzione sono fenomeni diversi e distinti, ma hanno in comune la visione proprietaria e predatoria della cosa pubblica. Tanto il mafioso quanto il corruttore rubano a scapito della collettività”. In più, va ribadito con determinazione che, a prescindere dai poco attendibili indici statistici di misurazione dei fenomeni corruttivi, diffusi dai mezzi di comunicazione, l’Italia non è tanto più corrotto di altri paesi dell’Eurozona. D’altro canto, tuttavia non può ignorarsi che la corruzione rappresenti per l’Italia un nuovo veicolo per le mafie di agire, un’arma silente che desta meno allarme nella società e con difficoltà attira l’attenzione delle forze inquirenti. E' nata così una nuova mafia, per così dire “borghese”, che preferisce sostituire la violenza con l’accordo, l’intimidazione con le tangenti, l’uso delle armi con la corruzione, e che diventa il mezzo con cui le mafie conducono i propri affari. Attuale ed indicativa in tal senso è l’inchiesta della Procura di Roma su “Mafia Capitale”, un’organizzazione che – secondo l’accusa – sarebbe una mafia “originale ed originaria” attiva nel settore degli appalti e dedita alla corruzione. Come è noto, quindi, la corruzione è una fattispecie criminale oscura, difficile da portare alla luce, proprio per la natura stessa del pactum sceleris, in quanto si sostanzia in un accordo-contratto tra due o più attori protagonisti, senza vittime dirette. A causa della sua sistematicità, che il più delle volte sfocia in un più ampio quadro di maladministration, quindi, si è iniziato a pensare di poter debellare tale virus utilizzando gli stessi strumenti investigativi e processuali che il nostro ordinamento giuridico ha costruito per affrontare il fenomeno mafioso. Su questo punto – ovvero sull’estensione del cosiddetto doppio binario antimafia alle fattispecie di corruzione – gli interpreti del diritto si dividono in annosi dibattiti. Coloro che sostengono tale estensione di disciplina, valorizzando l’efficienza della medesima vorrebbero l’applicazione analogica, nel contrasto alle fattispecie corruttive, delle norme sui testimoni di giustizia, sul sistema premiale per i “pentiti”, della disciplina sulle intercettazioni, della presunzione semplice in materia cautelare e le disposizioni in materia di undercover agent. Dall’altro lato si pone parte della dottrina, la quale, in una prospettiva garantista, sostiene la necessità di non cedere, ancora una volta, alla legislazione d’emergenza. La lotta alla corruzione non può fondarsi solo su nuove leggi repressive, diminuendo le garanzie processuali ed attuando forme investigative sempre più invadenti. Si evidenzia come il sistema “doppio binario” sia stato creato per essere un sistema speciale e temporaneo finalizzato esclusivamente ai reati di mafia. Estenderlo, sotto spinte giustizialiste, anche ai reati di corruzione – e quindi potenzialmente a tutti i cittadini - creerebbe un vulnus costituzionale insanabile. In conclusione, una soluzione andrebbe trovata mediando tra le due anime estreme e valutando caso per caso quali istituti possano essere ripresi anche per la lotta alla corruzione, senza sacrificare i valori di garanzia della nostra Carta Costituzionale. In tal senso, l’introduzione di misure come, per esempio, quelle in materia di “daspo” per gli autori di fattispecie corruttive ovvero l’estensione dell’utilizzo di agenti sotto copertura, potrebbero essere condivisibili. La lotta alla mafia ed alla corruzione in realtà non possono essere solamente affidate alla materia penale e al sistema sanzionatorio ma vanno concretizzate anche su un piano politico, culturale, sociale ed economico attraverso un completo risanamento delle istituzioni e del mercato. La cultura della legalità non può che essere l’arma vincente e deve diventare una priorità dello Stato.

"Contro la corruzione ci vuole meno burocrazia, non più demagogia". Parla Cantone. “No alla cultura del sospetto e all’anti corruzione come brand. Sì a pene vere per chi pubblica materiale coperto da segreto”. “I partiti? Sono favorevole a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente”, dice il capo dell’Anac, scrive Claudio Cerasa il 15 Luglio 2017 su "Il Foglio". Contro la cultura del sospetto. Contro i metodi del processo mediatico. Contro l’incontinenza dei magistrati politici. Contro la demagogia sulle correnti della magistratura. Contro gli errori della legge Severino. Contro la patologia delle notizie in fuga dalle procure e poi regolarmente pubblicate su alcuni giornali. E soprattutto, e con Raffaele Cantone cominciamo proprio da qui, contro chi prova a trasformare la lotta alla corruzione in una macchina di propaganda politica. “Sì, me ne rendo conto, e detto da me capisco che possa fare un certo effetto. Ma la realtà oggi è che in Italia la battaglia contro la corruzione è diventata un brand che tira molto, sia mediaticamente sia politicamente. Non credo affatto che i professionisti dell’anti corruzione siano allo stesso livello dei professionisti antimafia, i fenomeni sono troppo diversi per essere paragonati e tendo a diffidare di chi paragona la mafia alla corruzione, ma non c’è dubbio che su questo tema c’è qualcuno che ci specula. E lo dico con rammarico, con grande rammarico, perché è evidente che i cittadini considerano ancora oggi il problema della corruzione come un dramma. E non lo considerano tale solo per effetto di una martellante campagna di stampa che tende a descrivere un paese peggiore di quello che è. Ma lo fanno perché gli effetti della corruzione spesso vengono vissuti direttamente in prima persona, soprattutto quando un cittadino si ritrova a fare i conti con quelle amministrazioni pubbliche che affogano in un mix letale, in cui si combinano inefficienza disarmante, burocrazia infernale e sacche radicate di corruzione. I problemi esistono ma non vanno strumentalizzati né speculando politicamente sull’anticorruzione né dimenticandosi che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, non dicendo che i populisti sbagliano tutto”. Siamo andati, due giorni fa, a fare due chiacchiere con Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anti corruzione, per provare a ragionare su alcuni temi importanti, che all’interno del dibattito pubblico si trovano a metà strada tra il mondo della politica e quello della magistratura. Uno spazio nel quale il numero uno dell’Anac si muove con decisione ormai da tre anni e in quello spazio oggi esistono molti argomenti sui quali vale la pena fare alcune riflessioni. Il nostro ragionamento con Raffaele Cantone parte da una frase molto dura che il presidente dell’Anac ha utilizzato dieci giorni fa in Sicilia nel corso di un convegno organizzato all’Università di Palermo. Cantone, a pochi giorni dalla commemorazione dell’omicidio di Paolo Borsellino, ha ricordato che negli ultimi anni “molte persone si sono improvvisate paladini dell’antimafia e non c’è stata nessuna valutazione sul loro reale operato” e ha aggiunto che “l’antimafia è stata utilizzata più come un brand per propri fini personali, e questo si è verificato in Sicilia così come in altre regioni: bisogna interrogarsi, perché tutto questo finisce per creare disdoro all’antimafia vera”. Cantone si interroga, e si è interrogato, sulla figura dei professionisti dell’antimafia e in questa conversazione con il Foglio sceglie di parlare anche dei professionisti dell’anticorruzione. La premessa è quella che avete letto. Il ragionamento successivo comincia da qui. “Non c’è dubbio che la corruzione e quindi l’anticorruzione siano diventati nel nostro paese una sorta di criterio deformante attraverso il quale vedere tutto quello che accade nel paese. Ma oggi per fortuna non abbiamo un movimento anticorruzione paragonabile al movimento antimafia. L’anticorruzione tutto sommato è un argomento recente e se è giusto dire che è un errore osservare la corruzione come se fosse un pericolo generalmente incombente dietro il quale si nasconde ogni efferatezza che esiste nel nostro paese, bisogna anche dire che esagerazioni a parte la corruzione è ancora un grave problema del nostro paese”.

“Naturalmente occorre trovare la giusta misura tra chi, utilizzando i limitati numeri giudiziari, tende a dire che il problema non c’è e chi invece, utilizzando altri numeri, soprattutto quelli che vengono dagli indicatori internazionali, dice che qui è tutta corruzione. La verità è probabilmente nel mezzo, ma entrambi gli estremismi finiscono di fare danni”. Alcune settimane fa, ricordiamo a Cantone, il nuovo capo dell’Anm, Eugenio Albamonte, ha riconosciuto che sul tema della corruzione in Italia si rischia di pasticciare. “Quanto sia estesa la corruzione – ha detto Albamonte – è complicato dirlo. Così come è complicato dire se l’Italia sia un paese più corrotto degli altri. Non ci sono unità di misura, non è possibile dirlo. Non mi risulta ci siano dei metri per poterla misurare”. E’ davvero così, presidente? “Quando si parla di corruzione, le posizioni che partono solo dai dati numerici sono sbagliate, perché l’unico criterio oggettivo di determinazione della corruzione sono i processi. Il numero dei processi indica i fatti certamente identificati come corruzione ma non sono questi gli unici fatti di corruzione che esistono in un paese. La corruzione spesso si nasconde anche in casi macroscopici di appalti non fatti correttamente, nell’utilizzo di procedure non regolari, nell’abuso di proroghe sugli appalti, nell’eccesso di procedure negoziate, che non a caso a Roma, relativamente agli anni sui quali sta indagando la procura di Roma nell’ambito del processo Mafia Capitale, erano più del 90 per cento del totale. Quello che sappiamo oggi, e lo vediamo da molti indicatori, è che gli episodi accertati sono una quota minore di quelli che si verificano, visto che è impossibile scoprirli tutti. Il punto è capire quanto la quota di episodi accertati sia inferiore rispetto agli episodi che si verificano. Questo è il punto. Che ci sia uno iato tra corruzione scoperta e corruzione reale non lo nega nessuno. Il problema è capire quanto sia grande lo iato. Ho chiesto personalmente all’Ocse di provare a creare dei criteri internazionali, diversi da quelli della corruzione percepita, che ci consentano poi di fare una valutazione complessiva ma a oggi non si è ancora avviato questo processo. Credo sia arrivato il momento di fare finalmente chiarezza”.

Cosa intende Cantone quando dice che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, “non dicendo che i populisti sbagliano tutto”? “La corruzione matura laddove vi è un’amministrazione che non funziona e la politica deve fare di tutto per combattere anche così la corruzione. Intervenire sulle pene non è sempre la soluzione giusta, anzi. E’ molto più efficace invece snellire la nostra burocrazia, rendere più trasparente l’amministrazione. La vera urgenza, oggi, è quella di avere una semplificazione normativa assoluta. Noi continuiamo a legiferare tantissimo e malissimo. Le norme sono difficilissime perfino da reperire e sono complicatissime da studiare e da leggere. Il cittadino dovrebbe, in uno stato democratico, non dico di fare a meno di chi interpreta le norme ma almeno capire almeno quali sono i suoi diritti e doveri. Sarebbe importante, per esempio, fare una commissione di semplificazione normativa permanente, fatta da tecnici che studiano le norme e caso per caso sottopongono al parlamento una soppressione da un lato delle norme inutili, dall’altro una sistemazione del quadro normativo – evitando magari di fare gli errori fatti con i falò in cui si eliminavano norme senza senso. La commissione dovrebbe portare a un miglioramento anche della qualità: dovrebbero esserci dei soggetti che operano un controllo della legislazione in modo da individuare sistematicamente le patologie e creare una sistemazione della legislazione. Potrebbe servire questo ma potrebbe servire anche dell’altro. Per esempio una buona legge sulle lobby. Per esempio una buona legge sul finanziamento pubblico ai partiti”. Il presidente dell’Anac consiglia di rintrodurre il finanziamento pubblico? “Esattamente. Personalmente non sono contrario a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente, in cui ci sia la rendicontazione precisa di tutto. E quando dico di tutto non intendo solo in entrata ma anche in uscita: nella vicenda Lusi, per esempio, i soldi sono stati ricevuti regolarmente, ma poi sono stati spesi senza che nessuno controllasse. Sarebbe preferibile un finanziamento pubblico ben regolato che un finanziamento pubblico surrettizio e non ben regolato come quello che avviene a volte attraverso le fondazioni. E sarebbe preferibile che la politica una volta per tutte fosse disposta a prendere un’iniziativa che l’Italia aspetta da anni: una buona legge sui partiti che stabilisca chiari e semplici criteri di accesso, e che impedisca di fare politica senza essere trasparenti fino in fondo”. “Pm e politica? Serve più continenza”. Sta dicendo che per regolare l’accesso in politica non è sufficiente la legge Severino? “Naturalmente no. La legge Severino stabilisce chi non può candidarsi non chi può”. Crede sia una legge giusta o crede sia una legge da modificare? “Io condivido molto l’impianto, ma non il 100 per cento. Chi rappresenta il popolo deve avere criteri di moralità e di eticità diversi dal cittadino comune. Non è la stessa cosa diventare impiegato comunale o parlamentare” . Cosa non la convince della legge Severino? “Possiamo discutere, si dovrebbe discutere, su quali sono le tipologie di reato, quali le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po’ troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d’ufficio rischia di essere eccessiva ai fini della sospensione che tra l’altro riguarda solo alcuni e non tutti gli altri”. La Legge Severino, dice Cantone, andrebbe modificata: "Bisogna ragionare su quali sono le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po' troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d'ufficio rischia di essere eccessiva". Presidente Cantone, che impressione le ha fatto leggere in questi giorni che un magistrato importante come Nino Di Matteo lasci intendere di essere disposto a scendere in campo con una parte politica?  “Non mi sento di dare una critica a 360 gradi, limitare il diritto di elettorato passivo è pericoloso per la democrazia. Il punto è regolare il diritto all’elettorato passivo. In una democrazia la rappresentanza in Parlamento deve essere il più ampia possibile, però ci sono le situazioni delicate e invece sembra che le situazioni delicate non vengono mai trattate dal punto di vista normativo. Più che parlare di Di Matteo vorrei lanciare un messaggio: perché non è ancora stata fatta una legge seria sui criteri per accedere all’elettorato passivo? Perché si critica solo il magistrato quando si candida ma non si fa niente per risolvere il problema? Poi, certo, io credo che ci sia sempre un criterio di continenza che andrebbe rispetto ma detto questo la posizione di Di Matteo non mi sembra scandalosa”. Presidente Cantone, non trova preoccupante che un magistrato dica, come ha fatto Di Matteo, che l’impegno di un pm in politica ha un senso “soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso”? “Provi a guardare il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato. Se nella magistratura c’è oggettivamente un impegno di tipo morale, etico e sociale, e tu hai esercitato un impegno per la tutela della legalità facendo applicare le norme, io credo che si possa usare questo impegno anche altrove. Questo meccanismo serve, se lei ci pensa, a superare l’idea sacerdotale della magistratura. Se lei guarda il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato è la prova che non è vero che gli unici moralizzatori del paese devono essere i magistrati”. A voler restare ancora nello spazio a cavallo tra politica e magistratura c’è un altro tema che non si può non affrontare in questa fase storica del nostro paese: il caso Consip. Il caso Consip, facciamo notare al capo dell’Anac, è diventato qualcosa di più di un’indagine su alcuni sospetti di corruzione: è diventata un’indagine su un certo modo di condurre le indagini. Cantone, napoletano, conosce bene la procura di Napoli, oggetto di un’indagine incrociata che parte dal Csm e arriva fino alla procura di Roma, ed è convinto che questa vicenda, in un senso o in un altro, “farà scuola per l’importanza che ha assunto e sarà un precedente per orientare futuri comportamenti di tutti gli attori processuali”.

Il presidente dell’Anac dice che “la procura di Roma si è trovata dinanzi a una serie di contestazioni di fatto e sta svolgendo un’indagine corretta, doverosa, anche sul comportamento delle forze di polizia e sulla regolarità dell’assunzione delle prove”. Ripete che “c’è un comportamento corretto nel dire che la procura vuole andare a verificare se le fonti di prova sono state correttamente acquisite, perché il dato non è solo formale” e dice che se le prove a carico di chi ha indagato a Napoli fossero confermate “ci sarebbe da preoccuparsi”. Ma poi, relativamente al caso delle manipolazioni contestate ad alcuni carabinieri del Noe, aggiunge un particolare in più, quasi a voler dire che non basta un sospetto per dimostrare un falso. “Ad oggi abbiamo solo un dato oggettivo, cioè che certe fonti di prova sono state riportate in modo diverso. Però per il falso non basta il dato oggettivo. Basta in sede di indagine, ma in sede di condanna c’è bisogno di capire che quel fatto oggettivo è stato volontario, e non negligente. Noi abbiamo per ora la prova che ci sono dei fatti che sono diversi da come sono stati dichiarati, ma non basta ai fini del falso. A questo punto laicamente dobbiamo attendere che cosa deciderà. Su questo fronte e anche sul resto. Anche sull’individuazione delle possibili fughe di notizie”. A proposito di fuga di notizie. Qualche settimana fa Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma, ha ricordato che l’unico modo per combattere la fuga di notizia è smetterla con questa carnevalata che esiste in Italia, dove sono previste pene risibili per chi pubblica notizie coperte da segreto. Il Foglio ha proposto qualche settimana fa di alzare le pene per i giornali che pubblicano notizie coperte da segreto. Che ne pensa Cantone? “Il tema delle pene diverse secondo me è un tema che si pone nell’ambito di una regolamentazione più ampia. Direi di sì alla vostra idea solo di fronte a qualche condizione. Prima di tutto che si faccia una selezione chiara di cosa è pubblicabile e di cosa è segreto. In secondo luogo che sia garantito l’accesso vero alle fonti di informazione da parte della stampa”. Una volta stabilito cos’è segreto e cosa non è segreto aumentare le pene potrebbe essere un disincentivo? “Assolutamente sì, senza esagerare può essere un disincentivo”. E a proposito di disincentivi, per tornare alla magistratura, non pensa che l’unico modo per risolvere il dramma delle correnti, che lei stesso ha definito “un cancro”, sia quello di rendere inutili le correnti trasformando il Csm in un organo eletto sulla base del sorteggio? “Non credo sia la soluzione giusta. Guardi, mi meraviglio – dice Cantone pensando alle recenti polemiche di Piercamillo Davigo sui criteri scelti dal Csm per fare le nomine – che chi fa una corrente sua dopo dica che le correnti non vanno bene, e francamente mi pare un po’ eccessivo. Ma io non penso che quando si parla di correnti nella magistratura la patologia vera corrisponde al ruolo che queste correnti hanno nelle scelte, per esempio, degli incarichi giudiziari. E’ inaccettabile che l’appartenenza a una corrente sia diventato nella pratica lo strumento chiave di gestione della vita della magistratura. Il sorteggio del Csm non mi convince per molte ragioni. Ma per una in particolare: finirebbe per dare per scontata l’idea che la magistratura non è in grado di eleggere i propri rappresentanti secondo criteri meritocratici”.

Presidente Cantone, tra pochi giorni verrà ricordato il venticinquesimo anno dall’omicidio di Paolo Borsellino, e regolarmente a ogni anniversario dalla sua morte c’è qualcuno, di solito qualche magistrato, che prova a trasformare una giornata dedicata al ricordo in una giornata dedicata alla ricerca di un consenso politico. “Spero che nessuno trasformi il ricordo in un’occasione per rilanciare una battaglia politica. Io penso che l’ultimo a volere una cosa del genere fosse proprio Borsellino, che era molto rigoroso sotto questo profilo. Quanto al resto mi piacerebbe però ricordare che sul caso Borsellino ci sono troppe verità che non sono state accertate. A venticinque anni di distanza, purtroppo, è un omicidio che ha molti punti ancora non chiariti, sia sulle causali, sia sui mandanti, sia sugli esecutori materiali, sia sugli elementi di prova scomparsi. Questo è un dato che va laicamente affermato. Eviterei di fare dietrologie ma eviterei di nascondermi dietro un dito: in quell’omicidio ci sono troppe cose che non tornano”. Venticinque anni fa moriva anche Giovanni Falcone. Quanto crede sia attuale oggi il pensiero di Falcone che considerava la cultura del sospetto non l’anticamera della verità ma l’anticamera del khomeinismo. “Purtroppo è ancora attuale. La cultura del sospetto è ancora forte in Italia. La cultura del sospetto intesa come stimolo a sviluppare degli accertamenti in sé non sarebbe male, il problema è che il sospetto trippe volte viene utilizzato per quello che non è: una verità, che prescinde dalle prove. E da questo punto di vista la cultura del sospetto è certamente, ancora oggi, un vero dramma del nostro paese”.

LA MAFIA DEL COPYRIGHT.

Quando i comunisti stanno dalla parte dei più forti.

Sciopero giornalisti Rai Sport. Ecco perché non c'è la telecronaca di Juventus-Torino (Oggi, 3 gennaio 2018). Sciopero dei giornalisti di Rai Sport, oggi 3 gennaio 2018: niente telecronaca di Juventus-Torino di Coppa Italia, no commenti sci e stop Tg sportivi per tutto il giorno. Ecco perchè, scrive il 3 gennaio 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Sciopero giornalisti Rai Sport: in questi minuti è in onda su Rai Uno la sfida tra Juventus e Torino, valida per i quarti di finale di Coppa Italia 2017/2018, diretta senza però la consueta telecronaca. I giornalisti infatti sono in rotta di collisione con la tv del Servizio Pubblico dopo le ‘sconfitte’ in termini di mercato e acquisizioni dei principali eventi sportivi. Non c’è Gianni Cerqueti, affiancato dalla seconda voce, ma il sottofondo dell’Allianz Arena. Una situazione che però non ha messo dispiacere nei telespettatori, anzi, come si evince dai commenti ironici sui social network: “Partita sulla @RaiSport senza telecronaca un sogno che si avvera! Sempre così grazie @RaiUno #juventusToro”, “Per uno sciopero Rai la partita di coppa è priva della telecronaca. Finalmente si potrà vedere una partita qualsiasi senza per forza sentire parlare della asroma dai faziosi giornalisti della tv di stato.”, “Ma quanto è bella la partita senza telecronaca? Ecco perché non c’è paragone tra stadio e TV”. (Agg. Massimo Balsamo)

NIENTE JUVENTUS-TORINO E TG. Per chi questa sera vorrà vedere Juventus-Torino quarti di finale di Coppa Italia, o assistere alle gare di sci o ancora sentire il notiziario sportivo sulla Rai lo farà con qualche difficoltà: per tutta la giornata infatti è stato indetto e confermato lo sciopero dei giornalisti di Rai Sport, in piena rotta di collisione con la tv del Servizio Pubblico dopo le recenti (e cocenti) sconfitte in termini di mercato e acquisizioni dei principali eventi sportivi dei prossimi mesi. Lo sciopero durerà tutto il giorno e dunque non andranno in onda nessun notiziario sportivo di Rai Sport (sia sui canali principali che sulla striscia quotidiana di Rai News24), le gare di sci andranno in onda senza alcun commento e soprattutto la telecronaca del derbyssimo di Coppa Italia tra Juve e Toro verrà mandata in onda senza la telecronaca, il commento tecnico e neanche gli studi pre e post partita. Insomma, nulla di nulla: il motivo? Di certo l’assegnazione dei diritti televisivi dei Mondiali in Russia 2018 (pur sempre senza l’Italia) andata a Mediaset in chiaro e la perdita totale della Formula 1 dal prossimo anno (a pieno appannaggio di Sky Sport) non hanno aiutato il già complicato rapporto tra Rai Sport e Via Mazzini. Da qui la protesta, con un botta e risposta assai velenoso che possiamo vedere qui sotto.

LA REPLICA DELLA RAI. Secondo il comunicato espresso da Vittorio di Trapani, Segretario Usigrai, lo sciopero è motivato sotto più punti di vista: «Ci scusiamo per il disagio. Ma è una protesta necessaria, per ribadire il diritto di voi cittadini che pagate il canone a poter assistere gratuitamente ai più importanti eventi sportivi. Che, infatti, registrano sempre straordinari risultati di ascolto. La Rai invece non trasmetterà in diretta tv alcuni grandi appuntamenti, come i mondiali di calcio. È la prima volta che accade. Ed è a rischio anche la Formula1. Tutto a beneficio della concorrenza privata». L’attacco è diretto contro l’azienda del Servizio Pubblico, in particolare lo stesso direttore di Rai Sport (ad oggi Gabriele Romagnoli, ndr) è messo sotto scacco. «L’azienda e il direttore di Rai Sport dunque fanno scelte di segno contrario, per di più spendendo soldi in costose collaborazioni e per acquistare prodotti da società esterne. Noi vogliamo una Rai Servizio Pubblico che trasmetta più sport, con sempre maggiore qualità. Riteniamo inaccettabile che ormai lo sport sia un privilegio dei pochi che possono permettersi un abbonamento alla pay tv. Vogliamo che – grazie alla Rai – lo sport sia di tutti e per tutti». Dura e diretta la replica dell’azienda di Via Mazzini che con un altro comunicato non comprende né giustifica le motivazioni addette dai giornalisti di Rai Sport che questa sera manderanno in “muto” il derby di Torino: «L’agitazione dei giornalisti di Rai Sport è incomprensibile perché ignora che la Rai investe sul prodotto Sport oltre 200 milioni di Euro l’anno. Con l’eliminazione dell’Italia la Rai non poteva sostenere ulteriori e ingenti investimenti dettati da sole ragioni commerciali; non è un caso che altri servizi pubblici di importanti paesi europei, pur con le loro nazionali qualificate alla fase finale, non trasmetteranno le partite dei Mondiali di Russia. Sorprende infine che, invece di valorizzare gli eventi di cui Rai detiene i diritti come la Coppa Italia, i giornalisti di Rai Sport abbiano deciso di privare i telespettatori del loro autorevole commento». 

Pirateria, la mafia dei ladri digitali che muove miliardi. Dimenticate il giovane hacker di una volta: oggi la copia di film, musica e sport è in mano a gang sofisticate, potenti e ipertecnologiche. Lo racconta l’affiliato di una banda che "lavora" su film e match di calcio: «Prima ero nella droga, ma questo settore è meno rischioso», scrive Emanuel Coen e Fabio Macaluso, scrive Emanuele Coen e Fabio Macaluso il 22 agosto 2018 su "L'Espresso". La pirateria digitale continua a prosperare, dopo che la riforma del copyright è stata rimandata a settembre dal Parlamento europeo, su pressione dei big di Internet e dei teorici della libertà della Rete. Alimentata da organizzazioni criminali sempre più potenti e ramificate, la pirateria è un flagello che colpisce duramente gli autori - scrittori, registi, musicisti - e l’industria della cultura: editori, produttori di materiali musicali, film e serie televisive. Di recente è stato calcolato da Ipsos per Fapav, la federazione contro la pirateria audiovisiva: il 37 per cento degli adulti italiani ha fruito illecitamente di film e serie tv nel 2017, con circa 631 milioni di atti di pirateria compiuti, cifra che non tiene conto del live streaming degli eventi sportivi e dell’accesso illegale ai contenuti televisivi attraverso appositi decoder. La relazione Baruffi del 2017, atto finale della commissione parlamentare d’inchiesta su contraffazione e pirateria della scorsa legislatura, ha evidenziato come in Italia ogni giorno le visioni abusive sopravanzano quelle legali. Come se in uno stadio da 80 mila posti, ben 50mila spettatori non pagassero il biglietto per vedere un concerto dei Radiohead. In assenza della riforma, dunque, continua a valere il principio dell’irresponsabilità degli operatori di internet e delle telecomunicazioni, sancito dalla direttiva europea sul commercio elettronico del 2000, secondo cui questi soggetti non hanno l’onere di verificare il traffico di informazioni sulle proprie infrastrutture. Si attiverebbero solo su segnalazione dei titolari dei contenuti d’autore per rimuovere quelli distribuiti illegalmente. Un sistema che non regge più, perché sono miliardi i prodotti creativi continuamente caricati in rete dai pirati e dal pubblico degli utilizzatori: solo su YouTube, ogni minuto sono postate circa quattrocento ore di contenuti audiovisivi. Per questo motivo, la nuova direttiva sul copyright prevede che operatori come Google o Facebook si dotino di strumenti automatici per controllare la circolazione dei contenuti protetti dal diritto d’autore. Il rinvio di questa soluzione, dunque, continua a far fiorire il business della pirateria, che in Italia vale almeno sei miliardi di euro all’anno - quasi la metà del fatturato del traffico degli stupefacenti, 14 miliardi di euro nel 2017 - a danno degli autori e dei prodotti culturali: musica, libri, giornali. Un modello complesso, articolato, basato su entrate di natura pubblicitaria - vale a dire motori di ricerca e siti pirata ospitano a pagamento i messaggi promozionali - accessi a pagamento ai siti e alle applicazioni illegali e gli introiti derivanti dalla vendita dei set-top-box illegali e dall’utilizzo abusivo delle pay tv. Un fiume di denaro, realizzato a danno dell’industria creativa. Nel silenzio generale, considerato che intorno a questo fenomeno non sembra esserci alcuna disapprovazione sociale, come denuncia Paolo Genovese, regista del film campione di incassi “Perfetti sconosciuti”. «In molti non si rendono conto della situazione, anche perché i siti pirata sono graficamente attraenti e ben organizzati. Addirittura catalogano i film per generi, paesi o registi e contengono le rispettive critiche. Meglio di Netflix, ma a costo zero. Un fatto devastante, perché a causa di questa perfetta apparenza non siamo in condizione di spiegare ai nostri figli che questi percorsi sono illeciti. È necessario il lavoro culturale e quello delle forze dell’ordine», riflette il regista.

STORIE CRIMINALI. Alcune storie raccontano bene questo fenomeno. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio scorsi 150 uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza e forze di polizia svizzere, tedesche e spagnole, hanno smantellato un’organizzazione criminale che decriptava i segnali televisivi di Sky e Mediaset Premium per commercializzare il servizio ai “clienti” che vogliono vedere l’ultima serie del “Trono di Spade”. Una gang talmente efficiente, che la Procura di Roma nell’ordinanza di custodia cautelare ha scritto che essa detiene «una capacità organizzativa importante in grado di fornire servizi del tutto analoghi a quelli delle aziende lecite, dalle verifiche di fattibilità all’installazione del servizio, alla loro fornitura con standard adeguati fino all’assistenza tecnica alla clientela». Malavita organizzata, come affermato dalla guardia di finanza. Dopo alcune ricerche siamo riusciti a conversare con un affiliato, che ha dichiarato: «Prima lavoravo negli stupefacenti, ma non essendo giovane è diventato troppo rischioso. Sono un esattore, riscuoto gli abbonamenti dai clienti». E questi pagano soddisfatti le loro quote mensili. In Italia, secondo uno studio Doxa/Politecnico di Milano del 2017, vi sono almeno 800mila utilizzatori abituali di servizi televisivi illegali, ma, secondo Sky, la cifra si attesta intorno al milione e mezzo. In queste settimane ha fatto notizia anche un’ordinanza del Tribunale di Milano, che ha emanato un ordine nei confronti dei fornitori della connessione a internet, da Tim a Vodafone, per bloccare l’accesso a un sito che distribuiva illegalmente contenuti editoriali di Mondadori e automaticamente a tutti i siti “alias” a esso collegabili, messi a disposizione degli utenti dalla stessa organizzazione sotto altri nomi. Quel portale si era sfacciatamente dato una missione, scrivendo sul suo portale: «La battaglia contro di noi è persa in partenza. Il nostro sito rimane sempre online sotto qualsiasi nome, disegno e dominio. Oscurato un dominio ne facciamo 100mila al suo posto». Mentre in Italia i controlli risultano ancora sporadici, in Gran Bretagna qualcosa si muove. Per i contenuti sportivi, protetti dal copyright, la Premier League e i maggiori internet provider britannici hanno trovato un accordo, che è stato reso esecutivo dall’Alta Corte di Giustizia di Londra. Durante il corso delle partite che si disputano nella stagione, sistemi informatici intercettano i siti che permettono lo streaming illegale degli incontri, che vengono disattivati automaticamente attraverso il blocco degli indirizzi IP, l’etichetta numerica che identifica e rende operativi i siti internet. Questo ha consentito la chiusura di circa 6mila siti pirata in meno di un anno, con la soddisfazione della stessa British Telecom che ha investito centinaia di milioni di sterline per acquisire i diritti di trasmissione online delle gare calcistiche.

TECNOLOGIE AVANZATE. I pirati sono tecnologicamente avanzati e hanno fantasia: oltre i tradizionali portali “torrent” e “peer-to-peer,” sono operativi i “cyberlocker”, piattaforme nate per scopi legali - conservazione di dati in remoto e trasferimento di file - diventate successivamente un vero e proprio paradiso per i contraffattori. Vi sono i Cdn (“content delivery network”), sorti per la protezione dagli attacchi informatici e il miglioramento delle performance dei siti, quindi diventati il miglior strumento per mascherare l’identità degli amministratori di quelli pirata. In grande ascesa è lo “stream ripping”, vale a dire la sottrazione, attraverso siti o applicazioni dedicati, della musica dai video caricati sulle piattaforme come YouTube. E non ha flessioni il “camcording”, l’illecita registrazione audio o video di un film in sala, fenomeno che colpisce nove film su dieci. Inoltre, come spiega Luigi Smurra, colonnello della guardia di finanza, sono operative in luoghi segreti «le centrali “sorgenti”, dove sono installate apparecchiature informatiche per decriptare il segnale delle emittenti pay-tv, utilizzando schede regolarmente acquistate, per poi farlo confluire su server esteri appositamente noleggiati». E la lista è inesauribile perché i sistemi illegali si adeguano all’avanzamento tecnologico.

ARMI SPUNTATE. Internet è quindi un ambiente violato, dove soggetti criminali operano in un habitat molto favorevole mentre ai titolari dei diritti d’autore, secondo l’attuale normativa, non rimane altro che dotarsi di costose strutture antipirateria, collaborare con le forze di polizia e rivolgersi ai tribunali e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per ottenere la rimozione dei contenuti che circolano illegalmente. L’Autorità, da quando opera nella tutela del copyright, si limita a bloccare il nome di dominio (“Dns”) dei siti pirata, mai avendo disposto - nonostante sia in suo potere - il loro oscuramento attraverso il blocco degli indirizzi IP. Una posizione anacronistica, non condivisa dalla filiera culturale, come fa notare il presidente dell’Associazione italiana editori (Aie) Ricardo Franco Levi. «È essenziale che le disposizioni di blocco dei siti pirata siano estese anche agli indirizzi IP, per evitare che pochi istanti dopo il blocco del Dns i gestori del sito pirata lo aggirino semplicemente cambiando la denominazione», sottolinea.

GOOGLE PIGLIATUTTO. L’assetto attuale favorisce anzitutto gli operatori di internet che catalogano, indicizzano, e suggeriscono i contenuti, incrementando ogni giorno il tesoro dei dati personali raccolti, pianificando le inserzioni pubblicitarie e incassando i relativi introiti. Google è il più chiaro esempio di piattaforma non “neutrale”, anche se afferma che «i contenuti generati dagli utenti rappresentano una nuova e significativa fonte di ricavi» per il comparto della cultura. In effetti, il motore di ricerca americano si è dotato di un meccanismo di riconoscimento dei contenuti con uno strumento che si chiama “Content ID” che permette di gestire automaticamente il 98 per cento dei diritti dei titolari dei prodotti musicali che circolano su YouTube, che appartiene a Google. Ma quest’ultimo sfrutta la sua posizione di monopolista non condividendo il proprio meccanismo con l’intera industria creativa e per pagare con una mancia i lavori artistici che ospita sulle sue piattaforme. Secondo l’Ifpi, federazione internazionale dei produttori discografici, ogni utilizzatore di YouTube genera un’entrata annuale a favore dell’industria musicale pari a un dollaro, contro i 20 che derivano dall’utente di Spotify nello stesso periodo.

PUBBLICITÀ ONLINE. In attesa della riforma europea del copyright e dell’improbabile adozione di scelte condivise tra i player del mercato, non resta che migliorare gli strumenti disponibili contro le organizzazioni criminali che agiscono nel settore. Giangiacomo Pilia, sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, afferma che «la pubblicità online è una delle principali fonti di reddito per i siti pirata, la maggior parte dei quali si trova all’estero. Attualmente è possibile risalire a tali flussi finanziari attraverso la consultazione di banche dati estere e con il supporto di organismi internazionali, quali la Financial Intelligence Unit, che si può contattare tramite la Banca d’Italia e soprattutto l’Eurojust». Per questo servono forze dell’ordine, inquirenti e giudici specializzati. Esigenza raccolta dal Consiglio superiore della magistratura: come annunciato dal vice presidente, Giovanni Legnini, svolgerà un’attività di formazione specifica dei magistrati per il contrasto dei reati legati alla pirateria «sulla base delle innovative misure sull’organizzazione degli uffici giudiziari emanate dal Csm negli ultimi due anni, tutte improntate a favorire la specializzazione delle sezioni e dei gruppi di lavoro negli uffici sia giudicanti che requirenti». Soluzioni necessarie, ma con ogni probabilità non sufficienti. Per contrastare un fenomeno così grave e vasto, infatti, servirebbe la presa di coscienza degli utilizzatori dei contenuti creativi. I quali, va ricordato, possono essere ritenuti penalmente responsabili quando scaricano abusivamente in rete o accedono ai servizi televisivi illegali, come confermato definitivamente da una sentenza della Corte di Cassazionedello scorso anno. Non è realistico punirli tutti, ma vanno sperimentati metodi efficaci affinché il pubblico maturi la consapevolezza sul disvalore della pirateria. E accolga il principio chiave per l’affermazione della funzione culturale: lo sforzo di autori e produttori va remunerato per garantire pluralismo, approfondimento e intrattenimento di qualità.

Media&Regime anche sul web: il PD amplia i poteri di Agcom con la scusa del diritto d’autore, scrive Iacchite il 22 luglio 2017. Di Fulvio Sarzana. Fonte: Il Fatto Quotidiano. Niente più post equivoci su Internet e sui social media: è stata approvata alla Camera una nuova norma “balneare” che consentirà di sequestrare direttamente i contenuti sul web. Ancora una volta, ed ancora d’estate, si interviene sulla censura della rete. Solo che, rispetto a precedenti tentativi, questa volta il pericolo è molto più serio dal momento che la norma proposta dal parlamentare del Pd Davide Baruffi, vicinissimo al ministro della Giustizia Andrea Orlando, e da una manciata di deputati dello stesso partito, inserita “last minute” il 19 luglio nelle “Disposizioni per l’andamento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017” e approvata il 20 luglio,  se verrà confermata anche al Senato, entrerà direttamente in vigore. Cosa prevede questa norma? Semplicemente che, su richiesta di chiunque, l’Agcom – l’Autorità Amministrativa che vigila sulle comunicazioni – possa disporre non solo la cancellazione del contenuto di un sito ma anche che lo stesso sito, provider, blog o forum (o anche tutti insieme i soggetti) impedisca che ci siano altre violazioni su Internet. La norma si applica a tutte le piattaforme elettroniche, quindi anche a Facebook, Youtube, Instagram, Twitter fino a blog e forum. Il pretesto è il diritto d’autore che, come è noto, in Italia prevede che pubblicare anche pochissimi frammenti di una conversazione, di un articolo di giornale, o semplicemente di una conversazione critica sui social media, possa essere considerato una violazione e comportare la chiusura del sito. Tutto questo senza che, secondo l’emendamento approvato, la cosa venga mai sottoposta al controllo di un giudice. Dal punto di vista dell’ammissibilità, l’emendamento è stupefacente: non solo le disposizioni comunitarie a cui si riferisce l’emendamento sono state già inserite in Italia (esattamente con il decreto legislativo 140 del 2006), ma le stesse statuizioni europee citate nel testo approvato prevedono esattamente il contrario di quello che Baruffi ed altri hanno fatto approvare alla Camera dei deputati. Gli articoli 3 e 9 della direttiva 2004/48/CE che secondo Baruffi darebbero ad un’autorità amministrativa il potere di “sequestrare” il web, prevedono invece che sia solo l’Autorità giudiziaria competente ad adottare, in casi limite, il potere di adottare misure cautelari sul web. In Italia, invece, farà tutto l’Agcom: giudicherà anche se stessa se per caso qualcuno non dovesse essere d’accordo. La norma europea prevede che se qualche malcapitato si ritrova il sito bloccato in virtù di una sentenza del giudice può presentare un reclamo ad un altro giudice e contestare la decisione di chiudere il sito (o il blog); in Italia a decidere sarà sempre l’Agcom. Dopo aver subito (senza saperlo probabilmente ed in tempi brevissimi) il sequestro del sito, il malcapitato italiano non potrà rivolgersi ad un giudice ma solo all’Agcom che deciderà sul reclamo: come si dice in gergo, “se la canterà e se la suonerà”. Quindi capiamoci: si inseriscono, in una legge che dovrebbe evitare confitti con l’Europa e quindi procedure di infrazione, regole giustificate dal recepimento di una direttiva (precedentemente recepita) ma che affermano il contrario di quello che stabilisce la norma europea. Non si capisce cosa abbia spinto il Partito democratico a questa “inversione a U” in materia di web soprattutto se si considera che l’attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è stato uno dei più fieri oppositori della concessione ad Agcom di nuovi poteri sul web, al punto di appoggiare diverse iniziative contro i bavagli dell’Authority. Presidente Gentiloni, cosa è cambiato?

Internet, per il Pd la censura deve arrivare dall’Agcom: «sequestri senza giudici». Reprimere con la scusa di “normare” il web meglio un emendamento estivo che una legge organica, scrive il 24 Luglio 2017 "Prima da noi". Tra le tante cose che consente la nuova norma è il sequestro immediato di contenuti giudicati dalla parte “scomodi”. La cosa grave e sospetta di forte incostituzionalità è che nel provvedimento di sequestro non viene coinvolto nessun giudice. Una sorta di usurpazione del potere giudiziario da parte della politica. Tutto previsto da un emendamento proposto dal parlamentare del Pd, Davide Baruffi, vicinissimo al ministro della Giustizia Andrea Orlando, e da una manciata di deputati dello stesso partito, inserita “last minute” il 19 luglio nelle «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017» e approvata il 20 luglio. Ora dovrà essere approvata in Senato e poi potrà essere vigente. La norma prevede che su richiesta di chiunque, l’Agcom – l’Autorità Amministrativa che vigila sulle comunicazioni – possa disporre non solo la cancellazione del contenuto di un sito ma anche che lo stesso sito, provider, blog o forum (o anche tutti insieme i soggetti) impedisca che ci siano altre violazioni su Internet. La norma si applica a tutte le piattaforme elettroniche, quindi anche a Facebook, Youtube, Instagram, Twitter fino a blog e forum. Il pretesto è il diritto d’autore che, come è noto, in Italia prevede che pubblicare anche pochissimi frammenti di una conversazione, di un articolo di giornale, o semplicemente di una conversazione critica sui social media, possa essere considerato una violazione e comportare la chiusura del sito (eccezione fatta per i giornali coperti dal diritto di cronaca). Tutto questo senza che, secondo l’emendamento approvato, la cosa venga mai sottoposta al controllo di un giudice. L’avvocato Fulvio Sarzana ha già fatto notare su Il fattoquotidiano le incongruenze sulla ammissibilità dell’emendamento «non solo le disposizioni comunitarie a cui si riferisce l’emendamento sono state già inserite in Italia (esattamente con il decreto legislativo 140 del 2006), ma le stesse statuizioni europee citate nel testo approvato prevedono esattamente il contrario di quello che Baruffi ed altri hanno fatto approvare alla Camera dei deputati. Gli articoli 3 e 9 della direttiva 2004/48/CE che secondo Baruffi darebbero ad un’autorità amministrativa il potere di “sequestrare” il web, prevedono invece che sia solo l’Autorità giudiziaria competente ad adottare, in casi limite, il potere di adottare misure cautelari sul web.  In Italia, invece, farà tutto l’Agcom: giudicherà anche se stessa se per caso qualcuno non dovesse essere d’accordo». Non ci sta l’assoprovider che unisce i gestori delle piattaforme online (quelli che sarebbero principalmente colpiti dall’emendamento) e attacca: «i diritti dei cittadini sul web e delle PMI italiane vengono calpestati per favorire le grandi multinazionali dei contenuti». Anche secondo Assoprovider «la norma conferisce all’Autorità di Garanzia per le Comunicazioni il potere di cancellare siti web, contenuti, blog e forum, ordinando alle piccole imprese italiane di impedire l’accesso ad internet ai cittadini italiani, su semplice richiesta delle grandi multinazionali dei contenuti. E’ stupefacente che il legislatore italiano abbia la massima sensibilità solo per i diritti economici delle multinazionali e trascuri totalmente i diritti economici delle piccole aziende Italiane, che vengono chiamate ad operare gratuitamente e quindi con i propri mezzi economici senza alcuna previsione di ristoro, al solo fine di tutelare i diritti economici altrui.  Questo con grave danno della libertà di espressione e di iniziativa economica previste dalla nostra Costituzione». Secondo l’Assoprovider ci sarebbero anche pesanti ripercussioni dal punto di vista della libera concorrenza. «La funzione censoria attribuita ai provider dall’emendamento Baruffi», spiega Dino Bortolotto, presidente Assoprovider, «priva peraltro i giovani dell’accesso ad internet, deprimendo ancora di più il mercato delle libere fonti informative sulla rete e la scelta nella selezione dei contenuti informativi presenti sul web.  Con questa misura il legislatore inoltre dimostra di non aver in alcuna considerazione i piccoli provider che senza alcun contributo pubblico da anni stanno rendendo meno pesante il digital divide in molte parti d’Italia e che tutto questo possa essere distrutto in nome della tutela dei diritti economici delle multinazionali dei contenuti».

Il diritto all’oblio: è la fine del diritto di cronaca. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale on-line con una interpretazione completamente nuova del diritto all’oblio, scrive Angela Lucaccioni il 12 gennaio 2017. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, cioè ogni soggetto potrà fare in modo che il proprio passato non ritorni a galla con una qualunque ricerca online anche dopo vari anni. Il caso in questione era quello di un titolare di un ristorante che era finito nelle cronache locali a seguito di un accoltellamento nel proprio locale; per questo motivo, chiedeva che il suo nominativo e quello del ristorante fossero rimossi dalle pagine della rivista on line poiché era passato molto tempo dall’accaduto per rimanere un argomento di interesse pubblico. Inoltre il soggetto, motivava la sua richiesta sostenendo che, digitando sul motore di ricerca Google il proprio nome o quello del ristorante, apparivano immediatamente pagine che rimandavano alla rivista in questione contenente i fatti di cronaca. Questo provocava danno alla sua immagine personale ma influiva negativamente anche sull’immagine del ristorante stesso. Il tribunale condannava la rivista on line al pagamento di un risarcimento danni accogliendo così le richieste formulate dal soggetto richiedente l’oblio, con in aggiunta la de-indicizzazione della notizia riportata dal giornale on line. La rivista rimasta scontenta della sentenza, si appellava alla Corte di Cassazione per rivendicare il proprio diritto di cronaca essendo non ancora conclusa la vicenda sui fatti narrati, quindi ancora considerabili di interesse pubblico, inoltre le pagine in questione erano finite ormai in archivio e sostenevano di aver rispettato tutti i punti del codice deontologico dei giornalisti.

La Corte di Cassazione riassume tutto affermando che “i ricorrenti censurano la pronuncia del Tribunale dolendosi essenzialmente che siano stati valorizzati del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 136 e gli artt. 7, 11, 15 e 25 e non invece gli artt. 99, 137, e 139 inerenti al trattamento dei dati personali per scopi storici e finalità giornalistiche, nonché le regole introdotte dal menzionato codice deontologico, ivi inclusi gli artt. 1, 2, 5, 6 e 12”.

Analizzando singolarmente ogni articolo:

Art. 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero. 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: a) effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica.

Art. 7. Diritto di accesso ai dati personali ed altri diritti. 1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile. 2. L’interessato ha diritto di ottenere l’indicazione: a) dell’origine dei dati personali; b) delle finalità e modalità del trattamento; c) della logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici; d) degli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2; e) dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati. 3. L’interessato ha diritto di ottenere: a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati; b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati; c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato. 4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte: a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta; b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.

Art. 11. Modalità del trattamento e requisiti dei dati. 1. I dati personali oggetto di trattamento sono: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione del- l’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati. 2. I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati.

Art. 15. Danni cagionati per effetto del trattamento. 1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile. 2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’articolo 11.

Art. 25. Divieti di comunicazione e diffusione. 1. La comunicazione e la diffusione sono vietate, oltre che in caso di divieto disposto dal Garante o dall’autorità giudiziaria: a) in riferimento a dati personali dei quali è stata ordinata la cancellazione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo indicato nell’articolo 11, comma 1, lettera e); b) per finalità diverse da quelle indicate nella notificazione del trattamento, ove prescritta. 2. È fatta salva la comunicazione o diffusione di dati richieste, in conformità alla legge, da forze di polizia, dall’autorità giudiziaria, da organismi di informazione e sicurezza o da altri soggetti pubblici ai sensi dell’articolo 58, comma 2, per finalità di difesa o di sicurezza dello Stato o di prevenzione, accertamento o repressione di reati.

Anche dopo il parere del Garante della Privacy, che si schierava dalla parte di PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy del proprietario del ristorante predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Questo ha reso così il diritto di cronaca collegato ad una scadenza oltre il quale non si può andare; il problema che in realtà sorge, è dato dal fatto che sono in molti a ritenere che la sentenza in questione è ricollegabile alla sentenza Google Spain.

Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, … Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, …. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain? «La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda.

Le reazioni del Direttore del giornale. Il Direttore del giornale on line: “Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo, siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall’Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…”.»

La maggioranza dei commenti che fanno riferimento questa sentenza trovano assurda e irragionevole la decisione del giudice che si sminuisce su una data di scadenza degli articoli e che principalmente non trova più nella de-indicizzazione la soluzione, ma arriva a chiedere la netta cancellazione della notizia. Per molti questo risulta lo scandalo in quanto così facendo non si parlerebbe più di libertà di cronaca. Sono molti i giornalisti e non, a sperare che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per poter ottenere un ribaltamento della sentenza e quindi ristabilire definitivamente l’importanza del diritto di cronaca. Analizzando i vari commenti trovati sul web a questa sentenza anche il Guardian ironizza sulla decisione presa dalla Cassazione. Oltre a sostenere che la legge italiana ha fatto un miscuglio legale cercando di avvicinare due casi diversi come il Google Spain e la sentenza in questione, il giornale inglese scrive: “almeno in Italia, ‘il diritto di essere dimenticati’ ora ha un nuovo significato: il diritto di rimuovere il giornalismo scomodo dagli archivi dopo due anni. Questo sicuramente non può essere giusto. Se lo fosse, tutti potrebbero domandare la cancellazione dai siti web di informazioni giornalistiche ed il giornalismo on line sarebbe decimato”.

L’unica autrice (trovata sul web) che a differenza della gran parte dei giornalisti si schiera dalla parte della sentenza è Monica Gobbato (di chefuturo.it). L’avvocato Gobbato ritiene che il diritto all’oblio è un diritto sacrosanto dell’interessato che non deve alcun modo essere perseguitato dalla memoria imprevedibile della Rete. Anche lei da una propria interpretazione della sentenza, dove ritiene che non si affermi assolutamente che il diritto di cronaca abbia una scadenza, imponendo la cancellazione dei dati dall’archivio storico del giornale ma semplicemente dice, come molte altre decisioni sull’argomento, che la de-indicizzazione deve essere garantita in tempi ragionevoli. Lo stesso Luigi Montuori (funzionario dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali) ha spiegato in una recente intervista radiofonica in tema di diritto all’oblio che è importante differenziare il diritto all’oblio e il diritto alla contestualizzazione della notizia. Sul primo aspetto, ad esempio, una persona condannata e che ha espiato la sua pena ha diritto ad utilizzare il codice sulla protezione dei dati personali e chiedere che la notizia venga quanto meno de-indicizzata. Sul secondo aspetto, immaginiamo un cittadino che viene invece indagato e poi prosciolto e che si ritrova con la notizia del suo essere finito sotto indagine ancora in circolazione. Quello che la corte di Cassazione afferma non è la scadenza del diritto di cronaca che permane, potendo la notizia legittimamente risiedere nell’archivio storico del giornale, ma che la stessa deve essere non tardivamente de-indicizzata come invece avvenne nel caso in questione (notizia del 2008 e de-indicizzazione del 2011). Ed è proprio dalla tardiva de-indicizzazione che deriva il risarcimento del danno nel caso in esame di cui all’art. 15 del codice privacy. Inoltre la Gobbato mette a confronto le due sentenze: quella del tribunale di Ortona e quella della Corte di Cassazione. La prima, quella di Ortona del gennaio 2013, che ha visto la condanna del direttore del giornale online abruzzese Primadanoi.it al pagamento di un risarcimento per un fatto di cronaca rimasto online troppo a lungo arrecando così un danno ai protagonisti della vicenda. La seconda, invece, è quella della Corte di Cassazione del 2012, che stabiliva come fosse un dovere dell’editore o comunque del responsabile di un database web tenere aggiornati i materiali relativi a procedimenti giudiziari per garantire il diritto alla contestualizzazione dell’informazione. Secondo il parere della Corte, un articolo può rimanere online ma va obbligatoriamente aggiornato, così da tutelare sia l’immagine della persona coinvolta sia rispettare il diritto dei cittadini ad essere informati. Appare dunque evidente la differenza di approccio tra un Tribunale che cerca di imporre una “data di scadenza” alla permanenza di una notizia nella disponibilità dei lettori di un giornale e la Suprema Corte che, invece, riconosce da un lato il valore di documentazione storica dell’archivio del giornale ma, dall’altro, cerca un punto di equilibrio tra questo valore e le esigenze di aggiornamento figlie del diritto degli interessati a veder correttamente rappresentata la propria immagine online. Nonostante tutto, l’avvocato Gobbato resta una delle poche ad andare contro corrente; la maggior parte dei suoi colleghi sostengono la tesi contraria, cioè il diritto alla cronaca e all’informazione non può avere una scadenza precisa come il latte e lo yogurt. Le notizie e le informazioni riportate dai giornalisti non possono avere un termine prestabilito per legge perchè ciò comporterebbe la fine stessa della stampa e del diritto di cronaca.

DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.

In questa Italia, quanto vale il diritto del cittadino, rispetto al diritto della lobby dell’informazione?

Il cittadino utente è titolare del diritto d’autore rispetto alle opere intellettuali prodotte da aziende che si finanziano totalmente o parzialmente con i soldi pubblici: quindi, opere pagate dallo stesso cittadino contribuente?

Queste sono le risposte che nessun giornalista darà mai. Sfido la Milena Gabanelli e la redazione di Report a trattare questo tema delicato. Lei che lavora in Rai ed al Corriere della Sera.

La tematica da approfondire è nata sulla diatriba dell’uso libero a fini non commerciali dei video e specialmente sull’utilizzo dei video soggetti al diritto di cronaca pubblicati sul web.

Insomma si parla del divieto persistente di scaricare e pubblicare liberamente su youtube il video di terzi.

Per quanto riguarda l’impedimento dello scarico dei suoi video da parte di Mediaset si potrebbe prospettare una ragione palesata dal suo spot sulle reti del Biscione:

“Qui non incassiamo finanziamenti pubblici

qui non siamo colossi americani

qui contiamo solo sulle nostre forze

e qui ogni mattina arrivano migliaia di persone

che cercano di fare il massimo per regalare una televisione moderna, vivace e completa.

Undici reti gratuite e centinaia di programmi in onda ogni giorno, anche su Internet.

Che non ti costano niente, niente.

Nemmeno un bollettino postale.

Così… giusto per ricordarlo.”

Al contrario la Rai è concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo; percepisce, come finanziamento pubblico, un canone pagato dai cittadini e stabilito per legge; con denaro pubblico vengono ripianificati i passivi di cui l'azienda è gravata; è una impresa a carattere pubblico, con finalità non legate al profitto; per le prerogative suddette deve assicurare una comunicazione (politica, culturale, di intrattenimento) equa e qualificante.

Secondo le previsioni della riforma del canone Rai l’importo massimo dovrebbe oscillare intorno ai 60 euro, il minimo intorno ai 35 euro. L’introito stimato per finanziare il servizio pubblico sarà intorno ai 2 miliardi, rispetto al miliardo e 700 milioni attuale, anche grazie a parte dei proventi che lo Stato ricava da tutti i Giochi, compresa la Lotteria Italia.

Ergo la Rai è servizio pubblico e quindi risponde al cittadino contribuente utente.

Eppure su “Il Corriere della Sera” on line del 6 giugno 2014 si legge “Quaranta video. E’ quanto rimane degli oltre 40 mila video storici del canale YouTube della Rai. Nei giorni scorsi, come raccontato anche dal Corriere della Sera, era stato annunciato: i filmati verranno rimossi tutti i 40.000 mila video verranno progressivamente smantellati da YouTube e trasportati sulla piattaforma Rai.tv. E lo stesso accadrà anche per la grande quantità di materiale collocato su YouTube da singoli utenti che hanno ripreso, anche artigianalmente, intere trasmissioni o singole parti: video che comunque appartengono alla Rai. Morale, tutti i video - anche quelli storici - spariscono dal canale. Il rapporto tra la piattaforma video e viale Mazzini si è chiuso senza incidenti. E la motivazione è di tipo prettamente economico. Il ritorno economico di 700 mila euro all’anno è stato considerato insoddisfacente dalla Rai. Da qui la decisione di rimuovere i contenuti dalla piattaforma di Mountain View e di trasferirli su un portale Rai. Morale, per il momento, su YouTube rimangono solo 40 clip. La più vista? «Non ci resta che...», con un’intervista a Massimo Troisi, scomparso 20 anni fa. Poi il link al portale RaiTv per vedere l’intervista integrale.”

Andiamo ai giornali. Se infatti è vero che grandi testate come Il Corriere della Sera, Repubblica, Il Sole 24Ore, non ricevono sussidi diretti, è altrettanto vero che beneficiano ogni anno, come tutti gli altri giornali, dei cosiddetti contributi indiretti: un mare magnum all'interno del quale è difficile orientarsi e che è quasi impossibile censire, visto che le varie agevolazioni fanno riferimento a diversi ministeri e organi di competenza, scrive Gabriella Colarusso su “Lettera 43”. Il grosso dei contributi indiretti ai giornali viene dalle riduzioni fiscali e dalle «forfetizzazioni dell'Iva sulle rese». I quotidiani cartacei infatti pagano l'Iva al 4%, agevolazione che non è concessa anche alle testate giornalistiche online perché la direttiva europea sul commercio elettronico non riconosce loro questo beneficio. Non solo, i giornali di carta hanno anche la possibilità di forfetizzare l'Iva sulle rese (art. 74, dpr 633): l'imposta cioè non viene pagata sulle copie effettivamente restituite, non vendute, ma calcolata a forfait. Si tratta non di soldi dati direttamente ai quotidiani o ai periodici ma di mancate entrate per lo Stato, il cui importo è quasi impossibile conoscere visto che non risulta agli atti del bilancio della presidenza del Consiglio. È l'«Agenzia delle Entrate che ha questi dati», dice una fonte ministeriale a Lettera43.it, «ma finora non li ha resi noti».

Dice il Dr Antonio Giangrande: di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri.

Parlando con un giornalista di un noto quotidiano nazionale - continua il dr Antonio Giangrande, sociologo storico - dopo averne tessuto le lodi per un suo coraggioso video servizio, scaricato da me tal quale da un canale youtube e divulgato sui miei canali web senza profitto, e di cui mi segnalava la mancanza del logo de “Il Corriere della Sera” detentore dei diritti, ho avuto contezza del problema che ha dato spunto a questa inchiesta.

Giornalista A.C.: “Gentile dott. Giangrande, mi hanno appena linkato il canale youtube dell’Associazione contro tutte le mafie, di cui lei è presidente, con la raccolta delle mie inchieste sulle carceri. La ringrazio per l’attenzione ma la pregherei di inserire la fonte da dove ha preso quei video, ossia il sito del Corriere della Sera, nonché di inserire i link originali delle videoinchieste. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle mie opere (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà.  Sicuro di un suo sollecito riscontro, le porgo cordiali saluti”.

Giangrande: “Le porgo le mie scuse, oltre che annunciarle la mia ammirazione. In 20 anni, su 70 libri scritti e pubblicati e centinaia di video montati e pubblicati, nell’indifferenza generale dei media, è la prima volta che qualcuno sollecita una modifica al mio lavoro. Faccio ammenda ed ho già provveduto alla sua sollecitazione, visibile sulla presentazione del video in oggetto, annunciandole che la modifica è possibile sulla presentazione, ma non nel video, in quanto gli spezzoni originali usati e tratti da altre fonti erano già di per sé sguarniti del logo. Salutandola cordialmente le indico che questa è la modifica inserita in presentazione. Ove non bastasse, mi si solleciti la cancellazione totale del video ed io lo farò, tenendo presente comunque che attraverso il mio canale decine di migliaia di utenti usufruiscono della visione. - Inchiesta video del bravo e coraggioso giornalista A.C., pubblicata su you tube in vari video e su varie fonti, che ne hanno consentito la copia ed il montaggio. Da queste fonti è omessa l’indicazione del logo del detentore dei diritti di pubblicazione. Mancanza non riconducibile al curatore di questo video, ossia il dr Antonio Giangrande, che immediatamente provvede a precisare su sollecitazione dell’autore. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle opere dell’autore (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà. Di seguito si indica la fonte. Il video serve a sollecitare l’interesse dell’opinione pubblica ed a far conoscere la problematica e l’autore che se ne è interessato, attraverso i canali di una associazione nazionale antimafia riconosciuta dal ministero dell’interno. Uso del video non a fini commerciali. E’ interesse del detentore dei diritti sollecitare l’immediata cancellazione del video, nel caso in cui non aderisse all’iniziativa benefica. Si dà il caso che, invece, sul libro anche a lettura libera “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”, saggio esclusivo d’inchiesta sulla giustizia italiana, ogni articolo di stampa riporta autore e testata di riferimento con il link che riporta all’articolo originale. Si cerca di fare servizio pubblico, disinteressato e con ritorsioni impunite e taciute, nel rispetto della legalità. Per questo si ringraziano i detentori del copy right dei pezzi di cui non si è chiesta la cancellazione”.

Giornalista A.C.: “La ringrazio per le parole di stima. I suggerimenti che le davo erano per evitare che si attivi l’ufficio legale del Corriere. Ho visto che nel testo ha inserito le precisazioni ma il video risulta ancora senza logo CorriereTv. Se guarda il link che le ho inviato può vedere che il logo c’è e c’è sempre stato. Pertanto le suggerirei di prendere le videoinchieste nella loro interezza come da pubblicazione.”

Giangrande: “Dr A.C. il video in oggetto ha avuto 27.613 visioni e non sono pochi, tenuto conto dell’argomento che tira poco, rispetto alla visione di tette e culi che vanno per la maggiore. Questo è anche merito del canale divulgativo con i canali ad esso associati. Canali che non ricevono emolumenti da You Tube per la pubblicità, nonostante le 50 mila visioni settimanali dei suoi video.

Con questo mio video ho voluto dare onore a lei, e solo a lei, per il lavoro svolto, rimarcando il nome dell’autore. Del fatto che il Corriere ne detenesse i diritti non ne ero a conoscenza, fino a quando non mi è arrivata la notizia da lei, tanto è vero che i video li ho tratti da….. Video pubblici e liberamente scaricabili. Youtube mi ha comunicato la semplice violazione di brani, che colpiscono il video sin dall’origine e che ne vietano la visione in Germania. Una cosa le voglio precisare: Il Corriere della Sera, a differenze di La Repubblica o altri giornali con TV web, non permette assolutamente lo scarico dei suoi video, o così risulta a me. I video di La Repubblica ed altri si possono scaricare per pubblico interesse, attinenza e verità. Essi sono già con il logo incorporato ed il nome dell’autore. E’ scandaloso non poter scaricare i video, se il Corriere percepisse il finanziamento pubblico per l’editoria. In tal caso il diritto d’autore dovrebbe essere condiviso col pubblico, come dovrebbe essere per la Rai. Anche in questo caso ci troviamo a non poter scaricare i video, nonostante da pagatori del canone siamo piccoli azionisti della RAI. Visionarli e sciropparci preventivamente la pubblicità, invece sì, ci è permesso. Comunque, per gli effetti dell’impedimento, anche se volessi, non potrei riprogrammare il video. A questo punto, non potendomi permettere una lite con il Corriere, né con chicchessia; Avendo già ampie ritorsioni per quello che io faccio, e che nessuno fa, contro i poteri forti: specialmente i magistrati, che in galera ci mandano, spesso, gli innocenti. Non avendo amici a cui chiedere aiuto, né sovvenzionamenti, non essendo di sinistra, e non essendo Libera; Essendo già vittima predestinata di ritorsioni impunite; Tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimane che eliminare il video dal mio canale, così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema. In questo modo tutti saremo contenti, meno la libertà dell’informazione: la verità esiste solo se conosciuta e certamente non va remunerata. Ogni forma divulgativa va sfruttata. Mi spiace per lei, il cui nome non sarà più accomunato ad una giusta battaglia. Ed è quello che fino ad oggi ho voluto fare. Con ossequi, rimanendo intatta la mia stima per lei.”

Giornalista A.C: “Non sto qui a discutere la sua personale interpretazione del diritto d’autore (lei vuole scaricare gratis ciò che altri hanno pagato senza neanche chiedere il permesso). I video che segnala non sono pubblici e nemmeno liberamente scaricabili, presto o tardi verranno bloccati da chi ne detiene i diritti, avendoli pagati. Stia tranquillo che la libertà di informazione su questo tema non sarà intaccata. Tutte le videoinchieste sulle carceri sono liberamente visionabili con una semplice ricerca su google, sono stabilmente in home page sul sito del Corriere (home- inchieste - Le nostre prigioni) e non hanno bisogno di pubblicità avendo superato le migliaia di visualizzazioni. Inoltre periodicamente sono riprese dai vari network che ne hanno interesse previo consenso del Corriere. Nessuno le ha imposto di togliere i video ma di citarli correttamente e mandarli in onda senza alterazioni rispetto all’originale. Se questo per lei rappresenta una difficoltà allora fa bene ad eliminarli. Può piacere o meno ma questi sono i doveri e hanno pari dignità dei diritti. La ringrazio per le intenzioni più felici e nobili, spero di esserle stato di aiuto in qualche modo.”

Non ho voluto andare in polemica, sicuro della piega che il seguito avrebbe avuto. Passare per stravagante ed ignorante va bene, ma avevo ben fatto intendere che tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimaneva che eliminare il video dal mio canale, non potendolo modificare, né lo potevo scaricare direttamente da “Il Corriere della Sera”. Così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema.

Ma la doverosa precisazione va data a tutti quelli che pensano di detenere lo scettro della verità e questo potere usato per far poltiglia nell’opinione pubblica.

Per prima cosa va detto, per chi è digiuno di giurisprudenza, che il Diritto materiale nasce su volontà di una maggioranza storica in Parlamento, spesso trasversale e molte volte influenzata da lobbies di potere. Solo per questo la maggioranza in Parlamento ha sempre ragione, traviando l’interesse della maggioranza dei cittadini. Comunque dura lex, sed lex.

Per secondo va precisato che non è degno di vanteria il fatto che qualcuno paghi dei diritti, arrogandone la proprietà, con i soldi di terzi (i cittadini), a cui poi se ne nega la paternità.

Queste convinzioni, essendo tacciate di opinioni, vanno supportate da fatti, iniziando proprio da quel brocardo “dura lex, sed lex”.

C'è un articolo, nella legge sul diritto d'autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l'art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." Questa norma, massima espressione del concetto di libera utilizzazione, è sempre più dimenticata ed ignorata, scrive “Movimento Costo Zero”. Addirittura c'è chi sostiene, come Enzo Mazza, presidente di FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) che "l'uso di materiale coperto da diritti senza autorizzazione è sempre illecito, le storie sull'education ecc. sono bufale che girano in rete". Ad affermazioni di questo genere, fanno eco le spiegazioni delle denunce che SIAE ha indirizzato verso i gestori di siti didattici e culturali: ecco che la citazione parziale di un'opera, così come permessa dall'art. 70, diventa una manipolazione (non gradita: ma la lesione dell'onore e della reputazione non dovrebbe essere rilevata dagli autori o dai loro eredi?) dell'opera stessa, che SIAE, non si capisce a che titolo (visto che il mandato SIAE può avere ad oggetto soltanto i diritti di utilizzazione economica), avrebbe il dovere di sanzionare.

"Il giornalista è uno che, dopo, sapeva tutto prima". (Karl Kraus), scrive Dagoreport su “Dagospia”. “Il Salario (confutato) dell’impostura. "Su un punto la tranquillizzo: i contributi pubblici ai giornali indipendenti come il nostro sono oggi (per fortuna) inesistenti. I nostri stipendi ce li pagano lettori e inserzionisti". L'impudica rispostina di Sergio Rizzo ("contributi inesistenti") appariva sotto la lettera di un ingenuo deputato, Silvano Moffa, che si lagnava per la campagna anti parlamentari del Corrierone. Per altro, meritevole. Nonostante le omissioni. Si tratta presidente della Commissione lavoro della Camera che una volta ricevuti i pesci in faccia dal Corriere, si troverà nell'aula di Montecitorio a votare l'ennesima proroga milionaria ai Signori dell'editoria.

Almeno fino al 2014, secondo la promessa di Monti. Una missiva garbata e argomentata in cui il povero Moffa, en passant, ricordava al Gabibbo (impunito) i contributi pubblici versati all'editoria (un miliardo di euro annui) con cui anche i giornalisti arrotondano lo stipendio. Magari turandosi il naso o ignorandone addirittura la puzza (di provenienza). Ma i professionisti dell'Anti casta sono fatti così. Moralisti à la carte. Tant'è che al momento di andare al "mercatino delle pulci" (altrui) non guardano mai cosa si vende (di guasto) sulle proprie bancarelle dove acquistano per mangiare. E fanno finta di non vedere che da molto tempo i grandi giornali (Corriere, Repubblica, Stampa etc) sono in mano ai Poteri marci. E che questi giornaloni, come ha osservato Salvatore Bragantini (autorevole collaboratore del giornale in cui scrive, spesso sbugiardato, Sergio Rizzo), "sotto il profilo della cronaca economica (...) formano una formidabile flotta, che segue per lo più un'aurea massima: Cane non mangia cane". La citazione appare nel volume dal titolo eloquente: "Capitalismo all'italiana, come i furbi comandano con i soldi degli ingenui". Ma nella stampa (in genere), rovesciando una massima di Calderon de La Barca: "Il servo più furbo trova sempre che la valigia del padrone sia più leggera da portare della sua". Già, perché sembra calato dalla luna chi, proprio sul Corrierone dei "padroni del vapore", disquisisce di "giornali indipendenti" e senza prebende pubbliche. O si sente addirittura fortunato, disconoscendo persino che l'editoria non riceva soldi dallo Stato. Stiamo parlando di un miliardo annuo pagato con le tasse dei cittadini attraverso ben sette voci di sussidi: contributi diretti, credito d'imposta per investimenti, fondo mobilità e rimborsi per carta e teletrasmissioni; Iva privilegiata al 4% rispetto a un'imposta ordinaria del 20%. Un regalino da niente, da parte del governo e del parlamento. Per poi sentirsi accusare di dirigismo. E mettere in croce notai, benzinai, tassisti, avvocati, commercianti, medici e chi più ne ha più ne metta. In un recente studio del Reuter Institute for the Study of Journalism dell'Università di Oxford, tra i cinque paesi presi in esame Italia risulta al primo posto quanto a flussi di sovvenzioni pubbliche rispetto al numero effettivo dei lettori. Il campione esaminato riguarda Italia, Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Nello studio si osserva pure che da questo meccanismo di aiuti (public support) non c'è "nessuna correlazione tra spesa pubblica (sussidi) e penetrazione dei giornali (copie vendute)". Come a dire? Si stratta di soldi dello Stato che finiscono al macero. Come le copie rese dalle edicole. Sergio Rizzo sembra appartenere allora a quella categoria di giornalisti che, per dirla con Francesco Giavazzi (altro editorialista di punta di Flebuccio de Bortoli), "non sanno distinguere tra gli interessi dei loro editori e le regole della trasparenza". E, spesso, neppure si avvedono "che l'essenza della libertà sta anche "nel diritto di opporsi a difendere le proprie convinzioni solo perché sono le nostre convinzioni" (Isaiah Berlin).

E la doppia morale del Corriere della Sera? Scrive “Stampa Alternativa”. La “Terza pagina” del Corriere della Sera, sabato scorso ha deciso di trattare il libro La casta dei giornali di Beppe Lopez, edito da Stampa Alternativa e Rai Eri, che in un paio di settimane è stato ristampato quattro volte e ha venduto 50 mila copie. Un successo, nonostante lo spinoso tema: “come l’editoria italiana è stata finanziata e assimilata dalla casta politica”. Passaparola, grande accoglienza dal mondo di Internet e dei blog, della televisione pubblica e privata, da radio e giornali regionali. I grandi giornali nazionali, infatti, hanno sinora ignorato o trattato il libro marginalmente, con reticenza o sotto titoletti incomprensibili. E il motivo è comprensibile: La casta dei giornali racconta e documenta il portentoso flusso di danaro pubblico, circa 700 milioni di euro all’anno, che finisce nelle casse dei grossi gruppi editoriali, rimpolpaldo di conseguenza anche gli utili degli azionisti. Andando più nel dettaglio, si parla di 29 milioni a Mondadori, 23 milioni a Rcs, 19 milioni al Sole 24 Ore, 16 milioni a Repubblica Espresso, eccetera. Con ovvia distorsione del mercato e annientamento dell’editoria regionale e indipendente, e conseguente manipolazione della circolazione delle idee e della democrazia. Ora, il “Corriere della Sera” recensisce, meritoriamente controccorrente, l’inchiesta di Lopez. Ma seguendo un metodo trasversale e liquidando con poche battute il cuore del libro. Pierluigi Panza che ha scritto il pezzo ha puntato a delegittimarlo, semplicemente parlando d’altro. Sin dal titolo: “La doppia morale della Rai”. Si attacca la Rai, che poi è come sparare sulla Croce Rossa. Panza si dichiara deluso, si sarebbe aspettato di “trovarci svelate le segrete trame, i legami lobbistici, il sistema delle raccomandazioni diffuso nei giornali con tanto di nomi e cognomi”. Si sarebbe aspettato cioè tutto un altro libro. Magari “sul modello della Casta di Stella e Rizzo”, dove si parla meritoriamente di tutti e di tutto, meno che dei finanziamenti pubblici all’editoria. Ma la Rai non è quell’editore finanziato con le tasche di tutti i cittadini? Ma la Rai, almeno, non faccia la morale agli altri, pubblicando con i soldi dei cittadini un libro contro il finanziamento agli (altri) editori. È il nocciolo della recensione. Ma sarebbero bastati un paio di minuti a Panza per verificare che la partnership editoriale della Rai Eri con Stampa Alternativa per La casta dei giornali non prevede, da parte sua, l’esborso anche solo di un euro. Anzi, il contratto firmato dalla due case editrici, prevede che la Rai Eri non solo non ha investito economicamente sul progetto ma percepirà il 2% sui diritti di vendita. Sarebbe gradita e corretta, come nella grande tradizione del “Corriere della Sera”, pubblicare un’errata corrige al riguardo, anche perché sarebbe una beffa non conforme alla storia di Stampa Alternativa, dopo aver garantito alla Rai Eri il suo guadagno, passare addirittura per gli ennesimi mungitori di “mamma Rai”.

Alla bisogna, sempre sul web si trova: Finalmente abolito il copyright sui contenuti prodotti con fondi pubblici, scrive Simone Aliprandi sul suo blog. Ci voleva l'intervento dei cosiddetti "saggi" per fare questo grande passo innovativo... ma l'importante è che sia stato fatto. Sì, perchè è proprio una mossa saggia quella di abolire il diritto d'autore su tutto ciò che è stato prodotto da enti pubblici e con finanziamento prevalentemente pubblico. Una condizione già presente in altri ordinamenti giuridici e che l'Italia, presa da faccende più urgenti, non aveva mai preso seriamente in considerazione. Ma ecco che con la prima riunione dei "saggi" (nominati da Napolitano) tenutasi questa mattina al Quirinale, il primo passo è stato effettuato. Dunque, testi, immagini, video, musiche, trasmissioni televisive, contenuti multimediali, siti web, banche dati e anche software: tutto senza vincoli di diritti d'autore e diritti connessi a condizione che siano prodotti da un ente pubblico o che comunque la loro produzione sia stata finanziata con fondi pubblici per più della metà. Il provvedimento produrrebbe i suoi effetti a partire da 60 giorni dalla data della sua formale adozione. Dunque entro quest'estate dovremmo già riuscire ad avvantaggiarci di questa sostanziale innovazione. Negativo ovviamente il parere del CPPC (Consorzio Produttori Pubblici di opere sotto Copyright), il quale minaccia di sollevare al più presto una questione di legittimità costituzionale.

Su queste basi è nato un movimento di libertà civica “Scarichiamoli”. L'accesso pubblico al sapere e la libera fruizione delle opere dell'ingegno rappresentano un minimo comune denominatore per movimenti tra loro diversi, che si occupano di problemi diversi, ma che trovano una base condivisa nello sviluppo "aperto" della Società della Conoscenza. In armonia con i principi promossi da questi movimenti, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici e le opere di pubblico dominio fossero:

pubblicamente accessibili (facilmente reperibili su Internet);

universalmente accessibili (accessibili anche per i diversamente abili);

liberamente fruibili (non occorre pagare per: leggere un testo, vedere un'immagine, ascoltare una musica);

legalmente fruibili (l'utente è certo di poter scaricare un file nella piena legalità);

ottimamente fruibili (qualità digitale idonea a garantire una buona visualizzazione e/o un buon ascolto).

Inoltre, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici fossero:

persistentemente non soggette a tutti o ad alcuni diritti di utilizzazione economica (l'autore rilascia la propria opera con licenza free/open content persistente o con licenza libera copyleft: innanzitutto, ciò consente a chiunque di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a diritti connessi all'esercizio del diritto d'autore (altri diritti esclusivi che impediscono, innanzitutto, di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a misure tecnologiche di protezione (l'autore rilascia la propria opera con licenza, free/open content persistente o libera copyleft, contenente una clausola anti-TPM o più clausole anti-TPM).

LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.

Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?

Tutto inizia e finisce con una E-mail.

Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.

Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.

Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube.  Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.

Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.

Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.

Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.

YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.

Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.

Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.

Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.

YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.

Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.

California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.

Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.

YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.

La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.

“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.

Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.

L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.

Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?

Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.

Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.

Youtube e gli (ab)usi per “difendere” il diritto d'autore, scrive "News Linet" il 25/11/2010. Oggi, sul noto blog Radio Music Smile, è apparso un post, firmato da “Ale”, in cui si parlava di un argomento un po' estraneo al mondo radiofonico, ma comunque legato a quello dei media. “Ale” raccontava che nella notte tra l'11 e il 12 novembre, Youtube avrebbe disattivato alcuni canali al cui interno erano stati caricati video con spezzoni di trasmissioni Mediaset. L'azienda televisiva avrebbe dato ordine, a quanto pare, di rimuovere interi canali per il solo fatto che vi fossero dei filmati d'archivio di vecchie trasmissioni, come ad esempio estratti dei “Mai dire gol” degli anni Novanta. È giusto, oppure no? Youtube, realmente, viola il diritto d'autore rendendo fruibili video prodotti da aziende commerciali o, comunque, private? In linea di massima, Youtube proibisce la pubblicazione di video coperti da copyright, appartenenti ad aziende televisive, case discografiche, produttori cinematografici e quant'altro. Come tutti sanno, però, i video vengono pubblicati direttamente dagli utenti, appartengono a loro archivi personali, hanno una bassa risoluzione, oppure fanno parte (sono lo sfondo, la colonna sonora) di produzioni realizzate da privati cittadini. Youtube, per difendersi, si è spesso appellato al “fair use”, l'utilizzo leale, per l'assenza di scopo di lucro e, appunto, per la bassa risoluzione che spesso hanno i filmati. Non è notizia di oggi, però, il numero infinito di cause intentate contro il colosso del video sharing, di proprietà di Google, per violazione del copyright. Cantanti, major discografiche, network televisivi come BBC, Viacom e, non ultima, Mediaset, hanno intentato cause milionarie e hanno costretto il portale a rimuovere centinaia di migliaia di video. Ora, la realtà è leggermente differente da ciò che comunemente si crede. Quando parliamo di video rimossi da Youtube, spesso non sappiamo che il portale – nella maggior parte dei casi – non rimuove fisicamente e in prima persona i contenuti. Come spiegato minuziosamente dal blog Byoblu, infatti, i produttori audiovisivi posseggono un meccanismo di rimozione indipendente, per cui in qualsiasi momento possono operare censure e blocchi lasciandone Youtube all'oscuro. È una realtà, non v'è dubbio, che gli editori abbiano a disposizione veri e propri team che setacciano il web alla ricerca di contenuti potenzialmente lesivi dei propri diritti d'autore. I video segnalati dal team vengono inseriti nel cosiddetto Content Id, il sistema di individuazione di materiale “pirata”, e l'editore può scegliere se inserirci un annuncio pubblicitario e, quindi, renderlo lucrativo, oppure bloccarlo. In tal caso il proprietario del canale riceve una segnalazione, e gli è impossibile tornare a caricare il video. Nel luglio 2008, Mediaset ha citato Youtube in giudizio, presso il Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento di 500 milioni di euro per il presunto caricamento illecito di alcuni video con spezzoni del Grande Fratello e nel dicembre 2009, il Tribunale ha disposto la rimozione dei video incriminati. Si è trattato, però, di un provvedimento cautelare, in attesa della decisione definitiva. Ora viene da chiedersi: ma in che modo questi video ledono l'azienda produttrice? La risposta è semplice: per quanto concerne i video di “Mai dire gol” recentemente spariti, ad esempio, è in uscita in queste settimane (come riferisce sempre il blog Radio Music Smile) una collana di dvd prodotti da Mediaset con “il meglio di...” delle trasmissioni della Gialappa's band degli ultimi vent'anni, quindi tutti i “Mai dire...”. Altra ragione è l'imminente lancio del nuovo canale digitale Mediaset Extra, che ricalca l'esperienza di Rai Extra e ripropone pezzi d'archivio delle trasmissioni degli anni passati: chi ha visto già tante volte lo spezzone in rete, non sarà più interessato a vederlo e, trovandolo in tv, cambierà canale. Per quanto concerne i filmati del Grande Fratello, infine, essendo il programma, a quel tempo, il contenuto più visto dell'intero panorama televisivo Mediaset, veniva spesso riproposto all'interno di trasmissioni di contorno che, inevitabilmente, entravano in concorrenza con la rete. Su questi aspetti la situazione è chiara. Ci sono, però, a volte, situazioni in cui le aziende, forti della possibilità di decidere del futuro di un video in base alle violazioni del copyright, travalicano un po' i confini e abusano di questo loro potere. È ciò che pare sia accaduto, secondo quanto pubblicato su it.answer.yahoo.com da un utente che intendeva spiegare il meccanismo di funzionamento della censura online sui portali di video sharing. Censura che, occorre ricordarlo, può essere facilmente, oramai, aggirata attraverso il collegamento a server come Undeletube, DeletedYoutubeViewer o Deletube, dove i video bloccati o cancellati vengono salvati e restano visibili. Ma torniamo agli abusi. L'utente in questione segnalava nove mesi fa la sparizione di un video prodotto da Marco Travaglio (registrato dallo studio della sua abitazione e perfettamente amatoriale), dal titolo eloquente “i Bertoladri”, destinato alla settimanale rubrica “Passaparola”, in rete ogni lunedì sul sito di Beppe Grillo. Il video in questione riguardava i noti fatti attribuiti dalla Procura di Roma ad esponenti della Protezione Civile e a Guido Bertolaso, riguardanti presunti scambi di favori tra l'organo nazionale, dipendente dalla Presidenza del Consiglio, e alcuni imprenditori. Ora, come sempre accade, il video era finito su Youtube. Pochi giorni dopo, però, viene rimosso e a chi ci clicca su appare la scritta “Questo video non è più disponibile a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di Mediaset”. Al gestore dell'account qualcosa inizia a non tornare e allora decide di sporgere un reclamo a Youtube per chiedere quale mai possa essere la violazione del copyright di Mediaset in un video amatoriale, registrato dall'ufficio di casa Travaglio e pubblicato su un blog. La risposta di Google, proprietario del sito, non si fa attendere: si è trattato di “una conseguenza della causa civile intentata da Mediaset nei confronti di Youtube per la pubblicazione di alcuni stralci del Grande Fratello”. A questo punto l'accounter perde completamente in filo. Ma Google si spiega, in una nota del suo ufficio stampa: “Per ordine del giudice della causa civile promossa dinnanzi al Tribunale civile di Roma da RTI contro YouTube – scrivono -, ci è stato ordinato di consentire al Consulente incaricato dal giudice di effettuare verifiche sul corretto funzionamento del sistema di Content ID. La rimozione del video in questione è avvenuta nel corso di queste verifiche ad insaputa di YouTube. Non appena abbiamo avuto notizia ci siamo attivati per risolvere l’inconveniente contattando il Consulente. Va ricordato che YouTube è un hosting Service Provider e nel caso di segnalazioni relative al copyright ha l’obbligo di rimuovere i contenuti segnalati”. Questo è quanto si apprende dal blog Piovono rane. Quindi, la sostanza sarebbe questa: Mediaset avrebbe, quindi, incaricato un Consulente di controllare la pubblicazione di estratti del Grande Fratello ma questo si sarebbe fatto prendere la mano e avrebbe bloccato nientemeno che un video di Travaglio, che nulla c'entra, fino a prova contraria, con Grande Fratello o Mediaset, in cui il giornalista attaccava il presidente del Consiglio. Il video è stato ripristinato ma la notizia, se confermata, avrebbe dello sconvolgente e travalicherebbe, senza l'ombra di un dubbio, il limite sempre un po' incerto della censura. L'azienda, si sarebbe servita di un mezzo lecito come il controllo del web per la segnalazione di violazioni del diritto d'autore, per fini di natura politica e censoria. La ragione? Sarà quella indicata da Bernie Lomax, in uno dei commenti in coda al post: forse la misura è scattata “perché nella libreria alle spalle di Travaglio c'erano dei titoli Mondadori”. O, forse, si è trattato semplicemente di una svista: ma che casualità, no? Battute a parte, gli interventi “preventivi” nei confronti della rete non riguardano certo solo Mediaset o quella parte politica. Chi è senza peccato scagli la prima pietra si diceva nella Bibbia. Non la scaglierebbe, in questo caso, il Partito Democratico. Sempre sul blog Byoblu, infatti, si parla di una “marachella” del consueto team di setacciatori dei produttori audiovisivi, questa volta facenti capo a You Dem, la tv del Pd. Ricordate la contestazione nei confronti del Presidente del Senato Schifani, ai primi di settembre, nel corso della Festa Democratica a Torino? Quella contestazione che Fassino etichettò come “squadrista”? Ecco, un utente anonimo della rete, il giorno successivo il fatto, postò un commento sull'accaduto, allegandovi un video, tratto da Youtube, che riprendeva i momenti “caldi” della protesta. Video che il giorno precedente era stato trasmesso, appunto, da You Dem. Con gran sorpresa dell'autore del post, però, poche ore dopo, il video che accompagnava il suo commento non era più visionabile: bloccato, chiuso, censurato dal team di You Dem che controlla la viralizzazione in rete delle proprie produzioni. Al suo posto, su Youtube, pare ironico ma è vero, v'era il celebre duro commento dell'ex segretario Ds che accusava il “popolo viola” di “squadrismo”. Questo caso, certo, presenta caratteristiche diverse dal precedente perché gli editori non hanno avuto bisogno di appellarsi a un'improbabile svista nella rimozione dei contenuti, ma hanno potuto tranquillamente argomentare che si trattasse di un presunto caso di violazione del copyright. Nonostante ciò, il dubbio che si sia trattato di un intervento politico per non rendersi responsabili di potenziale appoggio “internautico” alla contestazione nei confronti della seconda carica dello Stato, resta più che lecito. Così come il dubbio che questo genere di “piccole” misure per far sì che i produttori audiovisivi abbiano le mani meno legate nell'impedire in tempo reale eventuali violazioni dei propri copyright, finiscano per dar loro via libera con troppa facilità a quel blocco sistematico di contenuti sgraditi, che i più pessimisti chiamerebbero censura. (G.C. per NL)

Diritto d’autore, Gabry Ponte e l’abuso che diventa censura, scrive Guido Scorza il 15 agosto 2014 su "Il Fatto Quotidiano". “The show must go on” – lo spettacolo deve continuare – cantano i Queen in un memorabile e struggente brano pubblicato a poche settimane dalla scomparsa di Freddie Mercury del quale è stato, a lungo, considerato – a torto – una sorta di testamento spirituale. Parole e note, quelle di The show must go on che, evidentemente, non condivide Gabry Ponte – noto [o almeno così dice chi segue le cose della televisione, ndr] – dj, membro degli Eiffel 65 e produttore musicale, lanciato da Maria De Filippi che lo ha voluto tra i giurati del suo “Amici”, il quale nei giorni scorsi dopo aver incassato 10 mila euro oltre le spese di viaggio dall’ente di promozione turistica di Civitella del Tronto, in Abruzzo, visto che il pubblico era al di sotto delle sue aspettative, ha deciso di fare i bagagli e ritornare a casa senza esibirsi e, naturalmente, trattenendo il compenso. Ma la storia è già stata raccontata qui e, forse, meriterebbe di essere archiviata come una delle tante storie dei capricci del “divo di turno” – o di chi si sente tale – rispetto alle quali il meglio che si può fare e non parlarne affatto in modo da evitare di fare immeritata pubblicità a chi, evidentemente, non la merita. Ciò che, però, rende odiosa questa vicenda e impone, al contrario, di parlarne e di continuare a farlo ancora a lungo è ciò che è accaduto subito dopo la fuga notturna di Ponte da Civitella. Vera Tv Abruzzo – una Televisione locale – racconta, infatti, la storia ai suoi telespettatori nel corso del suo Tg, in un servizio di una manciata di minuti, montato con immagini e, pare, qualche estratto musicale di precedenti esibizioni di Ponte. Il video viene caricato su YouTube, inizia a girare, il link è twittato e le immagini sono condivise nel mondo social, quello popolato dai fans di Ponte.

Lo staff del “divo”, a questo punto, evidentemente, teme l’autogol: dopo aver sottratto Ponte ad un’esibizione davanti ad un pubblico ritenuto troppo “modesto” per le grandeur del giovane Gabry, gli utenti di Facebook e Twitter gli stanno dando ciò che probabilmente merita ovvero una lezione di educazione, etica e buone maniere. Ed è qui che, a qualcuno dello staff, deve venire il colpo di genio: segnalare a YouTube ed in ogni dove il carattere illecito, per violazione del diritto d’autore, del servizio giornalistico di Vera Tv Abruzzo. Ponte segnala e YouTube rimuove, senza colpo ferire perché, nel clima di terrore da violazione dei diritti d’autore che si è instaurato nel nostro Paese, ovviamente un intermediario della comunicazione come YouTube davanti all’alternativa tra vedersi trascinato in giudizio da Gabry Ponte o rimuovere un video che non ha mai assunto alcun obbligo giuridico a pubblicare, preferirà sempre rimuovere il video. Nello spazio di poche ore il video scompare dal web o, almeno, dalle piste più battute del web. Ma non basta. Nelle ore successive, Antonio D’Amore, Direttore di Vera Tv, sentendosi – e a ragione – offeso nella sua dignità di giornalista e percependo quanto avvenuto – ed ha ancora una volta ragione – come una gravissima lesione della libertà di informazione, decide di firmare un editoriale nel quale racconta la storia e denuncia la censura. Questa volta c’è solo il suo volto e le sue parole, niente musica di Ponte e niente immagini del “divo”.

La storia, però, si ripete. Il video viene caricato su YouTube e nello spazio di poche ore, rimosso ancora, sempre su segnalazione dello staff di Ponte. E’ possibile che tutto questo accada in Italia? Non c’è diritto d’autore che tenga, quanto accaduto si chiama “censura”. Nel primo caso – quello del servizio giornalistico contenente qualche sua immagine ed un estratto di un suo brano – Gabry Ponte ha evidentemente abusato dei suoi diritti d’autore ovvero li ha esercitati al solo fine di evitare che si parlasse – giustamente – male di una sua assai poco nobile impresa. Nel secondo caso, lo staff di Ponte, deve, addirittura, aver mentito a YouTube, segnalando che il video con l’editoriale del direttore di Vera Tv, violava i diritti d’autore mentre, evidentemente, così non era. Vien voglia di far salire sul banco degli imputati Google, proprietaria di YouTube prima e il diritto d’autore poi, contestando ad entrambi l’aver provato centinaia di migliaia di cittadini italiani della libertà di accedere ad un’informazione di pubblico interesse in aperta violazione della nostra Costituzione e prima ancora della dichiarazione dei diritti dell’uomo, datata addirittura 1789. Ma si sbaglierebbe. Il diritto d’autore e YouTube non c’entrano. La colpa è nostra e, naturalmente, di Gabry Ponte. Nostra – in senso diffuso – per aver consentito senza ribellarci – o ribellandoci troppo poco – che, anno dopo anno, si affermassero online regole e principi che sono la negazione palese di diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino acquisiti da oltre due secoli e del “divo di turno” che ha si è approfittato della situazione, a proprio uso e consumo, a tutela non dei suoi diritti d’autore, ma di un curioso diritto – assolutamente inesistente nell’ordinamento – a che altri non parlino male di lui, neppure quando lui ha torto e li altri ragione. Questa volta ad essere censurata è stata una brutta storia di malcostume e mancanza di buone maniere, una storia di mezza estate, certamente importante – come lo è ogni storia – ma non determinante per l’equilibrio democratico del Paese ma domani potrebbe toccare – ed in realtà è già capitato con relativa frequenza – attraverso le stesse dinamiche, ad una storia che anziché Gabry Ponte – figlio dell’italico tele-comando – riguardi chissà quale rappresentante delle istituzioni. E allora? Che faremo? Assisteremo in silenzio a che “pezzi” di informazione libera, elementi preziosi per la nostra democrazia, vengano censurati, perché qualcuno abusa del proprio diritto d’autore e qualcun altro glielo lascia fare perché fa impresa in un Paese nel quale se si viola il diritto d’autore di una persona si finisce in tribunale mentre se si viola la libertà di informazione di milioni di cittadini non succede assolutamente nulla? Dobbiamo cambiar rotta e farlo in fretta. La carta dei diritti e doveri di internet alla quale sta lavorando Stefano Rodotà nell’ambito della Commissione istituita dalla Presidente della Camera dei Deputati è la strada giusta.

Youtube e diritto d’autore: il copyright come clava per ripicche e censure. L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale, scrive il 30 giugno 2010 "Attivissimo". Vi racconto un bell'esempio di come funzionano male le attuali norme sul diritto d'autore: diventano strumento di vendette personali e di censura.

L'accusa. Nei giorni scorsi ho ricevuto da Youtube una serie di avvisi di violazione del diritto d'autore per alcuni video, tutti riguardanti il tema delle cosiddette "scie chimiche". Anche altre persone che hanno pubblicato video sullo stesso tema si sono ritrovate con i medesimi avvisi, come potete leggere per esempio qui, qui, qui, qui e qui: e non sono gli unici casi. Riporto un paio degli avvisi di contestazione di copyright che mi sono arrivati: provengono tutti dal Comitato Tanker Enemy, ossia da Rosario Marcianò, uno dei più accesi sostenitori delle teorie sciachimiste. Non c'è nulla nei miei video "Scie chimiche, la consegna del Perlone", "Franceschetti: Marcianò è pagato dalla CIA?" e "Enters the CIA" (se non funzionano questi link, leggete l'ultimo aggiornamento) che violi il copyright: il primo documenta la consegna pubblica, durante una conferenza, del "Perlone" (un premio ironico, una sorta di Tapiro low-cost) a Marcianò; il secondo documenta la battuta di Paolo Franceschetti, che durante la stessa conferenza chiede se Marcianò è pagato dalla CIA; il terzo riprende me e gli amici della Società degli Scettici Allegri che entrano silenziosamente nella sala della conferenza indossando i cappellini della CIA. Tutto qui. Sono stati ripresi in un luogo accessibile al pubblico, durante un convegno pubblico, nel quale erano state esplicitamente richieste e permesse le riprese; sono stati ripresi per conto di un giornalista, cioè il sottoscritto; e documentano eventi avvenuti in pubblico. In altre parole, si tratta di diritto di cronaca. Addirittura il quarto dei miei video accusati di violazione riprende il cielo dalla finestra di casa mia, con l'inquadratura fissa che vedete qui accanto. Non ci sono volti o persone o musica. Il cielo, almeno per ora, non è vincolato dal diritto d'autore di nessuno. Sembra piuttosto evidente che si tratta di una ripicca isterica di qualcuno che vuole evitare che si sappia in giro quali affermazioni ridicole e accuse demenziali ha fatto. Coloro che accusano i media ufficiali di censurarli sono dunque i primi a ricorrere a questi mezzucci per zittire chi osa mostrare i loro comportamenti imbarazzanti. E chi si sciacqua la bocca parlando tanto di democrazia diretta in realtà offre sostegno a chi dimostra di non tollerare la democrazia e il diritto, salvo quando fa comodo usarli come scudo per i propri giochetti infantili. Cari sostenitori delle scie chimiche, questi sono i metodi del vostro leader. Pensateci.

La difesa. Ho già inviato a Youtube via mail una serie di opposizioni o Counter-Notification, secondo la procedura descritta qui. È una grossa spesa di tempo, ma è anche un'occasione per mettere alla prova i meccanismi di Youtube. Cosa succede quando qualcuno manda a Youtube una falsa accusa di violazione di copyright? Il video viene subito disabilitato, ancora prima di aver ascoltato le ragioni dell'accusato. Già questo non è granché in termini di giustizia.

L'accusa di violazione come strumento anti-privacy. Leggendo le istruzioni di Youtube emerge un altro elemento interessante: se si fa opposizione inviando a Youtube una Counter-Notification, il testo dell'opposizione viene inviato all'accusatore. E include i dati personali dell'accusato.

In altre parole, accusare un utente Youtube di violazione del diritto d'autore permette di sapere chi è. Conoscendo l'ossessione degli sciachimisti per venire a sapere le identità dei loro "nemici", non è implausibile che dietro il loro attacco ci sia anche questa finalità.

Rischi per chi accusa falsamente. C'è un altro aspetto che merita attenzione. L'accusatore ha dieci giorni di tempo per comunicare a Youtube di aver iniziato un iter giudiziario per far valere il proprio diritto d'autore. Se Youtube riceve questa comunicazione, i video non verranno più riabilitati. Se non la riceve, i video potranno essere riabilitati.

Ma è interessante soprattutto notare che chi abusa del servizio di contestazione del copyright può essere citato per danni. Inoltre Youtube avvisa che l'abuso del servizio di notifiche di violazione porta alla cancellazione dell'account Youtube dell'abusatore.

In altre parole, la mia opposizione è stata inoltrata a chi ha fatto la rivendicazione di violazione del proprio diritto d'autore (Marcianò). Se questa persona non risponderà a Youtube, Youtube potrà ripristinare il video. Notate che non garantisce; presumo e spero sia solo legalese cautelativo. La risposta riguarda il video per il quale ho inviato la Counter-Notification via mail accompagnata dalla scansione della mia firma. Nessuna risposta specifica, per ora, alle Counter-Notification inviate via fax: ho ricevuto invece un'altra mail riguardante un video non specificato, che ha un tono decisamente più perentorio (in senso a me favorevole). In questo caso (ma non dicono a quale video si riferiscono), Youtube sembra garantire il ripristino del video entro un termine preciso. Sono fra l'altro in buona compagnia: la Warner Music ha fatto rimuovere da Youtube un video di una presentazione realizzata da Lawrence Lessig, l'esperto legale fondatore del Creative Commons, accusandolo di violazione del diritto d'autore, in barba alle leggi sul fair use, che Lessig conosce benissimo e rispetta per i propri video. Ne parla Ars Technica.

Mi segnalano questa nuova chicca pubblicata da Marcianò, che sembra essere la sua risposta, in un esilarante inglese maccheronico, a Youtube. Non perdetevi il passaggio in cui si lamenta che io non ero stato autorizzato a sparargli.

Lasciando da parte (a fatica) la costellazione di svarioni d'inglese e le accuse diffamatorie nei miei confronti, la cosa più surreale è che se questa è davvero la comunicazione inviata a Youtube, Marcianò dimostra di non aver capito né come funziona la procedura di risoluzione delle controversie di Youtube, né cos'è il diritto d'autore. La procedura di Youtube richiede che l'accusatore (Marcianò, in questo caso) comunichi a Youtube, entro dieci giorni, di aver iniziato un'azione legale contro il presunto violatore (io, in questo caso), mirata a ottenere un'inibitoria di un tribunale contro la violazione ("After we send out the counter-notification, the claimant must then notify us within 10 days that he or she has filed an action seeking a court order to restrain you from engaging in infringing activity relating to the material on YouTube"). A Youtube non frega nulla delle beghe personali, dell'asta su eBay o se io sono un santo o se invece strangolo i pangolini di notte: interessa che l'accusatore avvii un'azione legale. Se Marcianò non lo fa e non lo documenta, per Youtube il caso è chiuso e i miei video potranno essere ripristinati. Dato che non sembra che Marcianò intenda intraprendere quest'azione legale (e i dieci giorni di termine passano in fretta), rischia che Youtube si rivalga su di lui per falsa rivendicazione del diritto d'autore. Sarebbe un autogol esilarante. L'altro aspetto interessante è che Marcianò sembra credere che riprenderlo in un luogo pubblico, durante una conferenza pubblica di cui lui è relatore e in cui è stato dato esplicito permesso di ripresa, sia una violazione di copyright. Ma apparendo in pubblico, oltretutto come relatore, e anche in trasmissioni televisive, ha implicitamente rinunciato al proprio diritto all'immagine: Marcianò è ormai quella che si definisce formalmente "persona notoria", per la quale non occorre chiedere alcun consenso. Recita infatti l'articolo 97 della legge sul diritto d'autore n. 633/1941: Non occorre il consenso di una persona ritratta quando la riproduzione di un'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta.

Dato che Marcianò ha indossato volontariamente il cappellino della CIA, non può neanche appellarsi al pregiudizio all'onore o alla reputazione. Tutto questo vale soltanto per i video nei quali è ritratto Marcianò: solo uno, tra quelli fatti rimuovere dal mio canale Youtube. Negli altri, che non mostrano Marcianò, non c'è neppure questo aspetto. Marcianò sembra insomma avere ben poche speranze di successo e molte di dimostrare un comportamento vessatorio e ridicolo, che non giova alla sua causa e di certo non lo mostra come abile condottiero del movimento sciachimista. Anzi, non mi sorprenderebbe se qualcuno cominciasse a chiedersi se sia efficace avere come figura di riferimento una persona che si comporta sistematicamente in un modo così imbarazzante, porgendo così maldestramente il fianco al "nemico". Ma a parte questo, l'episodio sta diventando una buona occasione per ripassare il diritto d'autore e il diritto all'immagine. Se vi interessano questi argomenti, potete consultare per esempio i testi delle leggi italiane presso Fotografi.org oppure il sunto presso Photoactivity.com.

Sono stati quindi ripristinati tutti i video che Rosario Marcianò, alias "Comitato Tanker Enemy" aveva segnalato a Youtube per presunta violazione del copyright. La procedura di risoluzione delle dispute sul copyright di Youtube, insomma, funziona: è lenta e strumentalizzabile, ma funziona. L'importante è non mollare e scrivere una mail o un fax di opposizione (counter-notification) scritti in modo chiaro, schematico e in perfetto inglese americano, perché gli oberatissimi addetti di Youtube hanno poco tempo e una soglia di comprensione molto bassa ("Efax" docet).

Non ho avuto tempo di raccontare prima di oggi la successiva puntata di questa telenovela, ma rimedio subito. Il 17 settembre 2009 Youtube mi comunica che tre miei video ora sono oggetto di "un reclamo di violazione della privacy da parte di una persona in relazione ai tuoi contenuti", senza indicarmi chi è il reclamante. Due dei video in questione sono i già contestati "Scie chimiche, la consegna del Perlone" e "Franceschetti: Marcianò è pagato dalla CIA?". Il terzo è una nuova entrata: "Sciachimisti in TV: Magic Moments".

Stavolta Youtube non offre la possibilità di contestare il reclamo. O modifico i video, o li tolgo: Vogliamo offrirti l'opportunità di rimuovere o modificare il tuo video in modo che non violi più la privacy delle persone coinvolte. Modifica o rimuovi il materiale segnalato dall'utente entro 48 ore dalla data di oggi. Se non intraprendi alcuna azione, il video verrà sottoposto all'esame da parte del personale di YouTube e ti verrà vietato di caricarlo nuovamente.

Modificare i video significa crearne nuove versioni e ricaricarle, perdendo quindi comunque link e conteggi dei visitatori dei video originali, per cui tanto vale lasciare che passino le 48 ore e vedere che succede. È quello che faccio. Due dei video, quelli già contestati in precedenza, vengono rimossi. Il terzo, quello nuovo, invece no, probabilmente perché trattandosi di uno spezzone di un programma TV la contestazione di privacy violata è evidentemente priva di senso anche alla luce di un esame sbrigativo e senza istruttoria come quello condotto dai valutatori di Youtube.

Non ci vuole una mente sublime per capire chi ha sporto reclamo, ma qui è Youtube che è maggiormente in difetto, perché non offre alcun canale evidente per risolvere dispute o presentare fatti che chiariscano il contesto o il diritto di ripresa. Non è tutto: siccome il contestante non viene indicato da Youtube nella notifica, non c'è modo di sapere se chi ha inviato la contestazione ha il diritto di farlo, e di conseguenza non si sa come modificare il video per rispettare la privacy del contestante. Se non so chi è e nel video ci sono più persone, come faccio a sapere di chi devo mascherare la faccia?

È quindi molto facile utilizzare gli strumenti di contestazione di Youtube per fini vessatori. Tenetelo presente. Due dei video sono stati di nuovo rimossi qualche tempo fa senza una giustificazione sensata. Ho finalmente trovato il tempo di recuperarli e ripubblicarli qui e qui. Vediamo che succede.

E poi c’o il paradosso: la censura mascherata. Con la scusa di ritenere i contenuti non adatti alla massa, si chiudono i canali per impossibilità di sostentamento.

Video: YouTube che stai facendo? Ecco cosa c’è dietro la richiesta di donazioni di TheShow. Il canale YouTube di candid camera è alla frutta: con le nuove regole di monetizzazione ha perso l'80% dei guadagni, ma è un problema globale che riguarda tutti, scrive Andrea Lombardi il 2 giugno 2017.

La richiesta di Alessandro e Alessio arriva a bomba sui quasi due milioni di iscritti al canale: «o ci aiutate donando anche solo 1€ al mese, oppure probabilmente il canale chiuderà perché YouTube ci ha tolto l’80% dei guadagni». Onore al coraggio di essere stati tra i primi creatori di contenuti in Italia a fare una richiesta di donazioni di questa portata, prendendosi pure in cambio una tonnellata di merda lanciata in faccia da parte dei loro fan, ma l’accorato appello di questi due ragazzi è solo la punta dell’iceberg di un problema molto più ampio. E che non riguarda solo YouTube. Cerchiamo di capire che cosa sta succedendo davvero sul Tubo e soprattutto perché sta accadendo. Come si è arrivati a questa situazione disperata che sta tagliando le gambe a tutti gli youtuber che sopra questa piattaforma ci hanno costruito il loro lavoro?

Il problema in sintesi. Succede che alcuni video balzano alle cronache nazionali (in diversi Paesi) perché contenenti immagini considerate da qualcuno moralmente deprecabili. Fin qui, nulla di nuovo. Il problema è che qualcuno fa notare che Hey, l’utente che ha pubblicato quei video ci sta pure guadagnando sopra visto che prima del video appare quella strafottutissima pubblicità che vedi solo se non hai installato AdBlocker. Perché è così che funziona: sono i proprietari dei canali che decidono di attivare le pubblicità che vedete sui loro video, ricevendo in cambio una parte del guadagno generato dalla pubblicità stessa. Più gente vede quella pubblicità più l’inserzionista dà soldi a YouTube e più quest’ultimo paga l’autore del video in questione. O meglio, pagava, perché le regole sono cambiate. In seguito alle polemiche alcuni grandi marchi come Netflix si sono sentiti danneggiati dal fatto che i loro nomi fossero associati a contenuti moralmente discutibili, quindi hanno minacciato Google di chiudere i rubinetti se non fosse riuscito a mettere le loro pubblicità solo dentro ai video di buon gusto e adatti a tutto il pubblico.

Come ha risposto YouTube? Rivedendo il suo algoritmo di classificazione automatica dei video in chiave restrittiva e aggiornando le regole della “modalità con restrizioni”.

Cos’è la modalità con restrizioni? È un’opzione facoltativa tutt’altro che nuova visto che esiste dal 2010. Alcuni utenti, ad esempio quelli associati ai pc delle scuole o delle biblioteche, possono attivare questa modalità in modo che ogni persona che si collega a YouTube veda solo i video che hanno superato il filtro contro i contenuti violenti, osceni e in generale non adatti a tutto il pubblico. Di per sé è una buona cosa e non sarebbe neanche un grosso problema visto che è un’opzione disattivata di default, ma vediamo perché grazie alle nuove regole potrebbe essere il suicidio di YouTube e la condanna professionale per tutti gli youtuber. Come ho detto, la revisione dell’algoritmo e delle regole è stata fatta soprattutto per tutelare gli sponsor, che hanno minacciato di non spendere più un soldo in pubblicità se YouTube non fosse riuscito ad evitare che il loro marchio venisse associato a video considerati lesivi dell’immagine. Ora, i video che vengono rigettati dall’algoritmo e che quindi non rientrano nella modalità con restrizioni possono comunque essere visualizzati da tutti gli utenti “normali”, quelli cioè che non hanno volontariamente abilitato questa modalità protetta, e possono anche essere monetizzati rimanendo una potenziale fonte di guadagno. Il problema è che dal lato degli inserzionisti è cresciuto l’interesse a investire solo sui contenuti classificati come buoni, inoltre quando si crea una nuova inserzione pubblicitaria questa opzione è quella selezionata per default, come spiega lo screenshot qui sotto. Poco male, no? Basta non caricare video dove si picchiano i cani, si stuprano le compagne di classe e si inneggia all’ISIS e tutto sarà come prima! …e invece no, perché le regole sono cambiate.

Le nuove regole di YouTube. È tutto spiegato nella guida ufficiale di YouTube, non sto inventando niente. Google ha deciso quali sono i contenuti che causano ai video l’uscita dalla modalità con restrizioni, che al di là della teoria significa perdere di colpo il 60/75% dei guadagni dovuti alla monetizzazione. Ecco di cosa non si deve parlare per non essere penalizzati:

Droghe e alcol – ma non essendo specificato vale anche per i video di prevenzione all’abuso di droghe.

Sesso – video con dettagli relativi all’attività sessuale, ma anche videoclip musicali con riferimenti espliciti al sesso o alle droghe.

Violenza – e non si intende solo incitazione alla violenza, ma anche video che contengono disastri naturali e tragedie e persino situazioni violente riportate nelle notizie.

Argomenti adatti a un pubblico adulto – video che trattano dettagli specifici di eventi di terrorismo, guerra, crimini e conflitti politici che hanno provocato morti o feriti gravi anche se non vengono mostrate immagini esplicite.

Linguaggio osceno e adatto a un pubblico adulto – e qui la ciliegina sulla torta perché basta dire la parola “cazzo” per non passare l’approvazione.

Praticamente rientrano in almeno uno dei punti la quasi totalità dei video che non sono già stati pensati per i bambini. Per assurdo, un telegiornale in prima serata in televisione che parla di terrorismo e disastri naturali, con un paio di servizi su omicidi di mafia, sarebbe probabilmente bocciato dall’algoritmo ed escluso dalla modalità con restrizioni. E dico probabilmente perché è YouTube stessa a dire probabilmente. Infatti non dà nemmeno regole chiare e tutti questi contenuti sono indicati nei suoi documenti ufficiali come probabile causa della bocciatura del video.

L’algoritmo fa acqua da tutte le parti. Non potendo controllare a mano tutti i video, Google ha deciso di affidarsi ad un software che controlla i contenuti alla ricerca delle espressioni da censurare nella modalità con restrizioni. Il problema è che questo algoritmo fa acqua da tutte le parti e non funziona. I ragazzi di Quei Due Sul Server sono infatti riusciti a caricare video pieni di bestemmie e farli passare in modalità con restrizioni, mentre si sono visti bocciare contenuti perfettamente aderenti agli standard. Hanno fatto un gran lavoro di sperimentazione e qui sotto spiegano come sono riusciti ad aggirare YouTube. Sostanzialmente ci sono alcuni nomi di marchi (Lego, Marvel solo per citarne due) che se usati in posizioni chiave come il titolo del video sembrano avere un peso tale da permettere all’intero video di passare il filtro.

Non è censura, ma è un problema grave. YouTube è una piattaforma privata, come Facebook, Twitter o qualsiasi altra. Ha degli interessi economici da difendere e ha comunque il diritto di fare il bello e cattivo tempo con i propri utenti. Può persino decidere di chiudere i battenti e scomparire dal web, se ritiene. YouTube non ci deve niente. Alcuni di noi hanno basato il proprio business su alcune di queste piattaforme perché era facile raggiungere le persone ed avere successo (anche economico) con relativamente poco sforzo, dimenticandosi che man mano che creavano contenuti da pubblicare attraverso questi canali stavano sostanzialmente regalando il frutto dei loro sforzi ai proprietari della piattaforma. La stessa cosa vale per le testate che oggi ricevono più traffico tramite Facebook che tramite gli accessi diretti al loro sito, come avevo già scritto siamo stati noi a regalare le chiavi di casa a queste piattaforme. Ripeto, YouTube non applica una vera e propria censura (cosa che avrebbe il diritto di fare, se lo volesse) e in teoria non impedisce ai video che non sono approvati dall’algoritmo di monetizzare, ma di fatto per i meccanismi che vi ho spiegato taglia le gambe agli youtuber più famosi, quelli che hanno costruito una professione intorno ai loro video e che campano grazie a questo, alle volte pagando pure stipendi ad altre persone. Il problema ora è anche di YouTube, però. Perché i suoi guadagni arrivano dagli inserzionisti, è vero, ma in realtà siamo noi spettatori i clienti, ecco perché potrebbe essere l’inizio della fine di YouTube, se questa situazione non venisse prontamente risolta.

Corsi e ricorsi storici (come muore una piattaforma). YouTube dimentica che tagliando le gambe ai creatori di contenuti li obbligherà a cambiare mestiere. Oppure a ridimensionare la quantità di video che caricano, oppure …a cambiare piattaforma. Non è niente di nuovo, abbiamo già visto morire colossi come MySpace e non saremmo stupiti dalla fine di YouTube solo perché appartiene a Google (qualcuno ha detto Google+?). Nascerà (o forse già esiste) qualche piattaforma simile che garantirà buone entrate ai suoi utenti e non appena qualche youtuber di rilievo inizierà ad usarla molti dei suoi fan lo seguiranno. A quel punto si sarà innescata la reazione a catena: nuovi videomaker emergenti cominceranno a caricare lì i loro contenuti perché inizialmente ci sarà meno concorrenza che su YouTube e quindi più probabilità di emergere. La piattaforma crescerà e prospererà finché non farà qualche altra cappellata o arriverà qualcuno di più cool a rubargli la scena. La storia si ripete. È solo uno scenario ipotetico: nel 2016 YouTube è stato il secondo sito più visitato al mondo preceduto solo da Google e seguito a ruota da Facebook, perciò se la situazione dovesse iniziare a farsi critica, prima di spezzarsi, scricchiolerà abbastanza da obbligarli a cambiare rotta. Sempre che nel frattempo non arrivi qualcuno con un’idea abbastanza innovativa da rivoluzionare questo mondo e con sufficienti capitali per realizzarla.

Cosa penso delle donazioni. I TheShow hanno avuto il coraggio di chiedere soldi ai loro fan. Pochi soldi, si parla di micro abbonamenti da 1€ al mese. In cambio hanno ricevuto un migliaio di sottoscrittori (a fronte di 1 milione e 700 mila iscritti al canale) e una tonnellata di merda e insulti vari nei commenti. La gente non solo non è più disposta a pagare per i contenuti che consuma, ma in Italia è sempre pronta a sfogare su di te le proprie frustrazioni e le proprie invidie. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà: questa è la situazione attuale e questa è la cultura all’interno della quale dobbiamo fare impresa. Non dico che non si possa o non si debba cercare di cambiarla, dico però che sono processi lunghi e che se fosse questo l’obiettivo falliremmo rimanendo senza soldi prima di riuscire anche solo a scalfirla. Le donazioni secondo me non sono una strada praticabile, per lo meno non sul medio-lungo periodo. Cosa fare, quindi? Il problema dell’assenza di un vero modello di business per chi crea contenuti online non è solo degli youtuber, ci riguarda tutti. Ne avevo già parlato riguardo ai giornalisti musicali, non ci sono soldi perché chi fruisce dei contenuti non li vuole pagare e perché la pubblicità sul web vale ormai meno di zero. Una possibile alternativa, che però è un bagno di sangue, potrebbe essere quella di slegarsi dalle piattaforme altrui per costruirsene una propria, con la propria pubblicità e senza la mediazione di nessuno: mischiare native advertising e contenuti organici ed essere i soli responsabili di quello che accade sul proprio sito, ma attenzione perché oltre ad essere praticabile solo da chi ha numeri grossi abbiamo anche contro tutti i big. Qualcuno vi ha fatto notare che da un po’ di tempo iOS prevede l’installazione di App di Ad Blocking? Il problema è aperto ed è uno dei nodi cruciali della nostra civiltà. E comunque… le donazioni sono tassate, capre! Basta una ricerca su Google a prova d’imbecille per scoprirlo. Le donazioni ricevute da persone sconosciute sono tassate all’8%. Troppo poco? Peggio per voi che pagate di più, non sfogate la vostra frustrazione da busta paga sugli altri. Grazie. 

IL METODO MAFIOSO.

Zanettin: «Il Csm non è mafioso: sanzionate Mirenda», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 15 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Il magistrato Andrea Mirenda avrebbe affermato che «il Csm non è più garanzia dell’indipendenza, ma una minaccia perché vi siedono soggetti mafiosi». Un virgolettato sul settimanale Il Venerdì di Repubblica ieri in edicola, attribuito al magistrato di Verona Andrea Mirenda, ha convinto l’onorevole Pierantonio Zanettin di Forza Italia, a presentare al ministro della Giustizia Andrea Orlando una interrogazione parlamentare. Mirenda, intervistato in un libro, avrebbe affermato che «il Csm non è un padre amorevole per i magistrati, non è più l’organo di autotutela, non è più garanzia dell’indipendenza, ma una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati, ma faziosi che promuovono i sodali e abbattono i nemici, utilizzando metodi mafiosi». Per Zanettin, fino al mese scorso consigliere laico a Palazzo dei Marescialli, «Mirenda non è nuovo ad esternazioni critiche nei confronti del Csm, ricordo in particolare una polemica (sui criteri di assegnazione degli incarichi direttivi dei magistrati, ndr) risalente a luglio dello scorso an- no, ma queste ultime dichiarazione appaiono di inaudita gravità e travalicano i limiti di un accettabile diritto di critica. In particolare il termine mafioso appare decisamente fuori luogo e addirittura oltraggioso». Da qui la richiesta al ministro della giustizia Andrea Orlando di valutare una sanzione disciplinare per la toga veronese. Ma il magistrato di Verona rettifica e chiarisce la sua posizione: «Nel libro di Iacona l’inciso “metodo mafioso”, crea inutile disorientamento nel lettore», dice. E ancora: «Essa, invero, avrebbe dovuto dare conto anche della successiva precisazione in cui dicevo che si trattava di “chiara espressione di colore”, di un’enfasi, cioè, destinata solo a far capire la drammatica potenza e la pervasività condizionante delle correnti in magistratura».

Sentenza alla milanese, la giustizia è condannata. Robledo vs. Bruti Liberati: il libro inchiesta di Riccardo Iacona parte da uno scontro tra due magistrati. Per raccontare un intero sistema giudiziario ormai malato. Fino al Csm..., scrive l'11 aprile 2018 Marco Mensurati su "Il Corriere della Sera". Il problema della giustizia in Italia è un «Csm mafioso», logorato dal tumore delle correnti che di fatto pone l’autonomia dei pm sotto attacco. Ha la precisione e la durezza delle sentenze la conclusione a cui giunge l’ultimo libro-inchiesta di Riccardo Iacona: un lavoro giornalistico condotto «alla vecchia maniera» che ha permesso all’autore di scattare un’inquietante istantanea dello stato di salute della magistratura.

Riccardo Iacona: Palazzo d'ingiustizia. La rotazione degli incarichi sarebbe “eversiva” perché toglierebbe alle correnti il controllo sulle nomine e, secondo Mirella, le costringerebbe a riprendere a fare il lavoro per cui erano nate: «Devono essere un motore di semplice idealità, perché non è possibile che quattro associazioni di diritto privato si siano impadronite di un organo di rilevanza costituzionale come il CSM, distribuendo incarichi e trasformandolo in un mezzo di asservimento dei magistrati. Il CSM ormai non è affatto un padre amorevole per i magistrati, non è più l’organo di autotutela, non è più garanzia dell’indipendenza, ma è diventato una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati, ma faziosi che promuovono sodali e abbattono nemici, utilizzando metodi mafiosi».

Addirittura mafiosi?

«E’ chiaro che è un’espressione di colore. Ma le voglio raccontare un fatto paradigmatico realmente accaduto. Viene bandito un posto da Presidente di Tribunale. Arrivano venti domande, Tra i concorrenti ci sono perfino presidenti di tribunali di altre città che vogliono trasferirsi, quindi magistrati un certo peso già resi idonei a incarichi direttivi dal CSM. Ebbene, a esser e nominato non è il collega più esperto o con un curriculum migliore, ma un magistrato giovane, presidente di sezione, con una carriera non particolarmente brillante, attivo all’interno delle correnti. Il collega anziano non ci sta e fa ricorso al Tar. E qui arriviamo al punto, perché quando parlo di sistema mafioso mi riferisco ai modi di condizionamento. Questo collega anziano viene avvicinato da qualcuno: “Ma tu non avevi chiesto anche di essere nominato presidente di sezione di qualche corte d’appello?. “Sì, certo”, risponde lui! “Allora non preoccuparti, perché noi ti nominiamo presidente di una sezione di corte d’appello”. Il collega fa due conti: sa bene che per definire il suo ricorso ci vorranno anni, e accetta. Che ne è della battaglia che aveva fatto contro quella nomina illegittima? Il termine tecnico è “cessata la materia del contendere”: il Tar non può far nulla e il giovane collega rimane al suo posto. Lei come lo chiama? Possiamo anche non chiamarlo avvicinamento mafioso, ma certamente sono metodi non trasparenti. Questo accade tutti i giorni nella casa della legalità. Ma se avvenisse nel cda di una banca a partecipazione pubblica, in una giunta comunale o regionale, oppure in una partecipata pubblica gli stessi colleghi non darebbero immediatamente avvio alle indagini? Qui non è possibile, perché non sussiste l’ingiusto profitto: che tu faccia il presidente del tribunale o il pm di prima nomina, lo stipendio è lo stesso. Ma se un giorno la giurisprudenza dovesse ritenere che ingiusto profitto è anche aver raggiunto immeritatamente un titolo che non ti spetta, allora i giochi sarebbero fatti».  

SALVINI-SAVIANO ED I SOLITI MALAVITOSI. Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Tolta la scorta a Ingroia Di Matteo: "È in pericolo", scrive Chiara Sarra, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". L'ex pm - e ora politico a tutti gli effetti - Antonio Ingroia non ha più la scorta da maggio. Lo ha deciso la prefettura di Roma "d'intesa con l'Ucis, l'Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale", secondo cui per l'ex magistrato che aveva avviato le indagini sulla trattativa Stato-mafia, non esiste più "una concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce". Ad annunciarlo è stato il magistrato Nino Di Matteo in una manifestazione pubblica a Milano. "Preoccupa la revoca della scorta a un ex magistrato che si è esposto così tanto per la ricerca della verità", ha detto il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, "I poteri criminali non dimenticano facilmente. Ingroia è un uomo coraggioso che ha combattuto a schiena dritta per le istituzioni. L'incarnazione della magistratura a cui ho sempre aspirato. Togliergli la protezione fa inorridire. Cosa Nostra non dimentica". L'ex magistrato - ricorda il Fatto Quotidiano - "aveva la scorta dal 1991, quando lavorava a fianco di Borsellino, dunque da 27 anni. Nel tempo è più volte cambiata l'intensità della protezione, passando dal secondo al quarto livello di rischio. Negli ultimi anni si era ridotta a soli due uomini che lo scortavano però in tutti i suoi spostamenti".

L'ossessione di Matteo Salvini (e della destra) per la scorta di Roberto Saviano. Il ministro dell'Interno minaccia di "valutare" se allo scrittore minacciato dalla Camorra debba essere garantita una protezione da parte dello Stato. Ma negli ultimi anni questi attacchi sono diventati una costante, scrive Mauro Munafò il 21 giugno 2018 su "L'Espresso". «Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all'estero». Anche adesso che è diventato ministro dell'Interno, Matteo Salvini non rinuncia a uno dei suoi cavalli di battaglia, nonché slogan delle nuove destre: l'attacco alla scorta di Roberto Saviano. La dichiarazione rilasciato oggi ad Agorà è infatti solo l'ultima di una lunghissima serie da parte del leader leghista, che si colloca in un filone alimentato nel tempo anche da altri esponenti della destra. Il tema ricorrente è sempre uno: rispondere alle critiche dello scrittore e giornalista Roberto Saviano cercando di delegittimarlo (e intimidirlo), sostenendo l'inutilità della sua scorta e il suo eccessivo costo per gli italiani. In pratica, vogliono far credere Salvini e gli altri, la protezione da parte dello Stato non serve poiché Saviano non è in pericolo. D'altra parte è da più di un anno che Salvini minaccia di "togliere la scorta a Saviano" una volta arrivato al governo. La colpa dello scrittore? Averlo criticato per le sue proposte sui migranti. «Secondo quel poveretto (di spirito, non di conto corrente) di Saviano io sono (quindi voi siete) razzista, ignorante, farneticante, sgrammaticato... Se andiamo al governo, dopo aver bloccato l'invasione, gli leviamo anche l'inutile scorta. Che dite?», minacciava Salvini su Facebook l'8 agosto del 2017. Per poi rincarare la dose appena tre giorni dopo, sempre sul social network: «Il signor SAVIANO è preoccupatissimo per la possibilità, auspicata da me e da milioni di italiani, che gli venga tolta la SCORTA, di cui inutilmente gode da tempo. Coda di paglia? La paura che fa Saviano alla camorra è pari a quella che fanno le minacce di Kim a Donald Trump: zero. Ciaone Saviano, fatti una vita! A spese tue». Finito qui? Niente affatto. Passano solo due mesi e Salvini, consapevole della forte presa che ha il tema sul suo pubblico, torna ancora sul tema e in un'intervista a Vanity Fair del 5 ottobre 2017, chiede a Saviano di "rinunciare alla scorta". Altri due mesi, 12 dicembre 2017, e alla trasmissione di Radio 2 "Un giorno da pecora" sostiene: «Io la scorta a Saviano la toglierei perché è assolutamente immotivata». Eppure l'attacco costante a Roberto Saviano attraverso la scorta non è esclusiva di Salvini. Che anzi questa battaglia l'ha "presa in prestito" da altri colleghi di destra. Addirittura nel giugno del 2013 il commissario del Pdl dell'Alto Adige, Alessandro Bertoldi, chiedeva: «Visto che lo scrittore sostiene che i trentini e gli altoatesini siano delle persone a cui "piace pippare coca", mi chiedo se non piaccia anche a lui? Anche in questo giorno non ci ha risparmiato i suoi sermoni patetici. Anche in questo giorno ha mancato di rispetto alle nostre forze dell'ordine, rinunci alla scorta, altrimenti chiederemo noi cittadini che il ministero gliela revochi, visto che costa parecchio e fin troppo per un ingrato del genere». Una proposta subito rilanciata e sostenuta dal "Giornale d'Italia" diretto da Francesco Storace, già esponente di An e di altri partiti della Destra. Storace che, sul tema, si ripeterà qualche anno dopo, per l'esattezza l'8 marzo del 2018: «Ora che al sud è scomparsa la mafia su cui ha campato, sarebbe molto bello che Roberto Saviano rinunciasse ai tanti poliziotti di scorta a spese nostre». Nel mezzo, si registra anche la sparata del sempre sopra le righe Vincenzo D'Anna, senatore di Forza Italia e poi di Gal, che nel maggio del 2016 chiedeva di togliere la scorta a Saviano perché: «Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più». A questo lungo elenco di attacchi da destra va poi aggiunto un episodio "da sinistra" , la cui autrice ha però subito derubricato a "gaffe" e per cui ha chiesto scusa. Si tratta dell'allora deputata del Pd Giovanna Palma, che nel 2014 su Facebook scrisse: «Ieri un tribunale ha assolto il boss Bidognetti dall'accusa di aver minacciato Saviano condannando un avvocato. Un flop direi, dopo che per anni ci hanno fatto credere che lo scrittore era nel mirino dei clan più sanguinari. In assenza di minacce di un boss a che può servire la scorta?». Secondo Palma, il messaggio partì per errore, in quanto l'obiettivo dell'autrice era quello di criticare messaggi come quello e sostenere invece la sua solidarietà a Saviano. Lo scrittore Roberto Saviano risponde al ministro degli Interni Matteo Salvini (con un video sulla sua pagina Facebook. Scrive Saviano: "Le parole pesano, e le parole del Ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per 'ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia. Il 17 marzo, subito dopo le elezioni, Matteo Salvini ha tenuto un comizio a Rosarno. Seduti, tra le prime file, c'erano uomini della cosca Bellocco e persone imparentate con i Pesce. E Salvini cosa fa? Dice questo: "Per cosa è conosciuta Rosarno? Per la baraccopoli". Perché il problema di Rosarno è la baraccopoli e non la 'ndrangheta. Matteo Salvini è alla costante ricerca di un diversivo e attacca i migranti, i Rom e poi me perché è a capo di un partito di ladri: quasi 50 milioni di euro di rimborsi elettorali rubati."

Gli odiatori. Macron: «Populisti lebbrosi». Saviano: «Salvini buffone malavitoso» E Santoro-Vauro vogliono far arrestare il ministro dell'Interno, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". Come le vecchie glorie, scendono in campo, imbolsiti dall'età e dalla pancia, convinti di poter rivivere i tempi che furono, stupire ed emozionare le folle. La formazione è quella nota: Michele Santoro, Vauro e Roberto Saviano. Il trio di punta dell'antiberlusconismo militante torna in campo contro Matteo Salvini sperando di ripetere i fasti e soprattutto i fatturati della guerra che fu contro il Cavaliere e che li ha visti sconfitti e beffati. Pensavano di sostituire Berlusconi, a seconda dei momenti, con Di Pietro, Ingroia, la Boldrini o qualche altro dei loro amici manettari moralisti un tanto al chilo e si sono ritrovati con Matteo Salvini tra i piedi. Per loro è più di una punizione divina, è subire la legge del contrappasso. Nel giorno in cui il bulletto dell'Eliseo Emmanuel Macron torna a insultare l'Italia e i «populisti lebbra d'Europa», spuntano anche tutti gli odiatori di casa nostra. Saviano è uscito dal suo letargo e dà di matto tutti i giorni: l'altro ieri ha rivolto un appello a giornali e tv ad oscurare le esternazioni del ministro dell'Interno, ieri lo ha definito un mafioso. Michele Santoro, reduce dal flop del suo ultimo programma televisivo, ha mandato una lettera - firmata anche dal sodale Vauro - alle più alte cariche dello Stato e della magistratura chiedendo l'arresto di Matteo Salvini per alto tradimento della Costituzione. Non sono lontani i tempi in cui questi signori spadroneggiavano sulle tv pubbliche pensando di essere la voce degli italiani. Oggi fanno solo tristezza, quasi tenerezza, come quel soldato giapponese che nella giungla continuò per anni, dopo la resa dell'imperatore, a combattere una guerra a quel punto privata contro gli americani. Cari Santoro e Vauro, uscite dalla macchia e arrendetevi, sarete trattati con il rispetto che si deve ai reduci. Gli italiani hanno deciso a stragrande maggioranza che Matteo Salvini e pure Silvio Berlusconi sono migliori di voi, più democratici, più affidabili. La Costituzione è stata pensata e scritta per mettere un argine alle vostre idee, figlie della tragedia assassina del comunismo, non alle loro che ruotano attorno ai due concetti di libertà e legalità. L'arroganza tipica della mafia non è nelle parole di Salvini, ma nelle vostre violente dichiarazioni contro il ministro degli Interni, simili a quelle fatte ieri l'altro dai Casamonica, una famiglia che di mafia se ne intende. Speriamo sia solo un caso e non l'inizio di una nuova alleanza tra pensatori chic e delinquenti, come ai tempi avvenne con Ciancimino junior e Spatuzza per infangare Berlusconi in diretta tv.

Salvini toglie la scorta a Saviano? Scrive maicolengel su "Butac" il 20/06/2018. No, Matteo Salvini non ha tolto un bel niente, il post che circola online è un falso post vero di Matteo Salvini, ma di quando non ricopriva alcuna carica ad agosto 2017. Ed evidentemente all’epoca il nostro Ministro dell’Interno (o il suo social media manager) non avevano ben chiaro come funzionassero le regole sulla scorta. Condiviso da blog e blogghettini anonimi che godono a seminare disinformazione sul web italiano, tanto sanno benissimo che di gente che ci cascherà ne troveranno sicuramente. E quando non ci cascano diventa comunque un ottimo motivo per far sì che i supporter del protagonista sfruttino la notizia per lamentarsi della bufala che circola nei confronti del loro beniamino. Anche volendo non si può. Capiamoci, Matteo Salvini, pur essendo il nuovo ministro dell’Interno, secondo le regole attualmente in vigore, non può fare quanto riportato nel post fasullo.

Anche se volesse. La scorta viene assegnata non su richiesta, ma solo dopo che la magistratura (come fanno notare nei commenti e come avevo spiegato qualche giorno fa) il tutto dipende dall’UCIS che come riportavo: …sulla base delle normali attività di indagine e su particolari segnalazioni da parte delle forze di polizia, un prefetto può segnalare all’UCIS che Tizio ha bisogno della scorta. Nella segnalazione spiega in base a quali analisi e indagini si è arrivati alla conclusione che quella persona possa essere a rischio. L’UCIS esamina la richiesta e sulla base di altri accertamenti dispone che sia assegnata una scorta, stabilendo inoltre con quale modalità (numero di agenti, mezzi a disposizione e via discorrendo). Quindi non è la persona ritenuta a rischio a dotarsi di una scorta, l’assegnazione compete all’UCIS. Se un prefetto ha ritenuto che sia una manovra necessaria per tutelare un cittadino verso cui sono state fatte minacce ritenute credibili (poco conta che lui la scorta la voglia o meno) si muove l’UCIS. La prefettura può decidere di togliere la scorta a Saviano (e chiunque altro ne faccia uso) solo quando le condizioni di pericolo cessano, o quando un’analisi dei fatti ritiene siano cessate. Non è difficile, e chi in queste storie ci casca con entrambi i piedi è qualcuno che ignora come verificare i fatti, ma anche un personaggio totalmente privo del minimo spirito critico.

Mancanza di spirito critico. È un problema serio quello del non capire. Serio per davvero.  Io non amo i politici italiani, non ce ne è uno che mi stia simpatico, eppure vengo via via accusato di essere pro questo o quest’altro da lettori che non sanno usare nemmeno un motore di ricerca. È frustrante. È grave anche vedere quelli che danno loro retta, perché sono per lo più persone ignoranti, nel senso che ignorano le basi del fact-checking. Non capiscono, non si rendono conto. È deprimente ed è un problema serio.

Il debunking non serve. Qualcuno qualche tempo fa diceva che il debunking non serve, fece uno studio in merito, poi ne fece un altro. Tutto materiale interessante da leggere, peccato che poi non si sia mai arrivati a un punto, il debunking non serve, e quindi? Lasciamo questa gente nell’ignoranza in balia di soggetti come il caro lettore? Ho paura della risposta, perché quello che vedo sui social ma anche dal vivo è un Paese che va sempre peggio. Ciaone…

La mafia e l’ndrangheta fanno schifo e Matteo Salvini è l’uomo giusto per contrastarle concretamente, scrive il 22 giugno 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". La mafia uccide solo d’estate è un fortunato film realizzato da Pierfrancesco Diliberto, più noto come Pif. Il caldo alle porte, l’afa e l’umidità di un solleone che colpisce tutta la penisola. Matteo Salvini è a Roma. Sul sito dell’Ansa si legge: “Sono onorato di essere qui, felice di essere in compagnia del presidente della Regione, che ci siano i comitati dei cittadini che finalmente non hanno più paura di farsi vedere. E’ l’inizio di un percorso da ministro. Conto di aiutare l’agenzia per i beni confiscati e sequestrati aggiungendo personale e soldi”. Il contesto è quello della confisca della villa dei Casamonica alla Romanina, in piena Capitale. “Questo posto è un simbolo lo abbiamo scelto in maniera totalmente slegata dalle minacce o pseudo minacce di qualche Casamonica nei miei confronti che non mi fanno nè caldo né freddo”. Un altro colpo indirizzato al centro dell’obbiettivo. Un altro colpo mandato a segno. Il Ministro dell’Interno ha pugno di ferro e cuore di velluto. Ed il primo è tutto quello che serve per contrastare Ndrangheta, la Camorra, la mafia, la criminalità nigeriana, la criminalità albanese la criminalità cinese e la sacra corona unita tutti tipi di mafie che devono essere contrastate costantemente con coraggio e senza pietà. “Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me. E i voti dei mafiosi mi fanno schifo”. Questo è leitmotiv del numero uno in casa Lega. In quest’ottica si staglia la polemica, fuffa, tra Salvini e lo scrittore Roberto Saviano. Scorta o non scorta? La battuta più folgorante, davanti a questo teatrino ignobile, l’ha prodotta l’intellettuale Adriano Scianca: “Assurdo togliere la scorta all’autore di Gomorra. Togliamola semmai a Saviano”. L’idea che il vice-Premier avesse, come la stampa sta cercando di far passare, “imbruttito” lo scrittore campano è di cattivo gusto. Basta ascoltare le dichiarazioni del segretario della Lega per accorgersi che non esiste nessun clima d’odio, anzi che quest’ultimo è stato creato artificiosamente. “Valuteranno gli organi preposti”. “Gli italiani voglio sapere come vengono spesi i loro soldi, mi sembra che lui stia spesso all’estero. “Questo è l’ultimo dei miei problemi”. Ecco perché la vera intimidazione è stata fatta da Saviano che ha definito, dal suo attico di New York, Salvini il ministro della malavita facendo il a Gaetano Salvemini. Diatribe sul nulla, quando l’Italia brucia sotto il sole di giugno e la mafia sguazza ancora. Basta affacciarsi sui profili social del Ministro dell’interno per leggere: “Villone sequestrato ormai 4 anni fa a Roma al clan dei Casamonica (quelli che mi hanno invitato a ‘rigare dritto’…) che oggi visiterò e farò di tutto per restituire ai cittadini il prima possibile. Il mio impegno a fare la guerra a tutte le mafie sarà totale, per riconsegnare alla legalità i circa 15mila beni sequestrati tra i quali immobili, aziende, ristoranti, auto, negozi e molto altro. #lamafiamifaschifo “. Oppure un attacco ai suoi “nemici” che da tutta Europa vogliono impedirgli di operare a mani libere: “Gli insulti dei chiacchieroni Macron e Saviano non mi toccano, anzi mi fanno forza. Mentre loro parlano, io oggi sto lavorando per bloccare il traffico di immigrati clandestini nel Mediterraneo e per restituire agli italiani le numerose ville sequestrate ai mafiosi. C’è chi parla, c’è chi fa. Bacioni”. Bisogna affiancare Salvini nella lotta alle mafie. A quel conglomerato parastatale che da oltre 70 anni affossa la nostra amata Italia. Chiamatela Camorra. Chiamatela Cosa nostra. Chiamatela ‘Ndrangheta. Per via della provenienza regionale. Chiamatela criminalità nigeriana. Chiamatela criminalità albanese. Chiamatela criminalità cinese. In base alla globalizzazione del crimine. Abbiamo bisogno di un uomo forte, che tra lotte contro le Ong, contro l’immigrazione selvaggia e l’Unione Europea che ci avversa, trovi la forza e la costanza di mettere in ginocchio la mafia. La mafia fa schifo e Matteo Salvini è l’uomo giusto per staccare le teste di quest’Idra che non vuole morire, ma far morire le strutture governative. Tanti italiani ed io Andrea Pasini di Trezzano Sul Naviglio in prima persona voglio essere al fianco del Ministro Matteo Salvini mettendoci la faccia senza paura ma con grande orgoglio perché anche a noi Italiani per bene e giovani imprenditori con la schiena dritta, l’ndragheta, la sacra corona unita e tutti i tipi di mafia ci fanno schifo e ribrezzo.

“Ministro della Malavita” a Salvini: ma Saviano è immune alla legge? Scrive il 21 giugno 2018 Stelio Fergola su "Oltrelalinea.news". Roberto Saviano continua ad insultare in modo totalmente gratuito il ministro degli Interni Matteo Salvini. Stavolta la definizione data dallo scrittore è “Ministro della Malavita”, scritta in uno dei suoi post su facebook: Il motivo? Salvini, da anni, si è “permesso” di mettere in dubbio l’opportunità della scorta a Roberto Saviano, e qualche sera fa (cosa che abbiamo fatto anche noi l’anno scorso, argomentando con dati e fatti), durante la trasmissione Agorà, aveva rinforzato questi dubbi, in modo peraltro decisamente tenue, dichiarando che “decideranno le autorità competenti”, e sottolineando nel finale dell’intervista “è l’ultimo dei miei problemi” e addirittura concludendo con un conciliante “a Saviano mando un bacione”, in diretta. Queste affermazioni, davvero non si sa perché, sono passate come “minacce all’eroe Saviano”. Pietro Grasso, Repubblica, tutti in coro l’esercito dei dominatori della cultura si è schierato compattamente contro il malvagio Salvini che desidera porre fine alla protezione del “giornalista” minacciato dalla camorra. E lui non è stato da meno. Peccato che senza prove e in modo del tutto gratuito, il Vate dell’antimafia che vuole legalizzare la cannabis e l’immigrazione clandestina si permetta di insultare apertamente un avversario, ma questi sono dettagli. Perché il caro Saviano di epiteti a Salvini apertamente fuori legge ne ha lanciati tre, solo nell’ultimo anno. Prima il “mandante morale dei fatti di Macerata”, quando nel capoluogo marchigiano Luca Traini sparò su degli immigrati all’impazzata per vendicare così, a suo parere, l’assassinio della giovane Pamela avvenuto poco prima. Poi la protesta contro la politica annunciata anti-ONG dell’ormai prossimo ministro degli Interni: “quest’uomo vuole affogare le persone in mare”, disse. Ora c’è però da fare una somma, perché le accuse imputabili di diffamazione e di diretta citazione in tribunale cominciano ad essere tante: “Ministro della Malavita”, “Mandante morale di Macerata”, “Vuole affogare le persone in mare”. Passi per “mandante morale”, formula furba per evitare drammi, ma la domanda sorge spontanea: ma la legge per il signor Roberto Saviano vale oppure può continuare impunemente a scrivere tutto ciò che gli pare senza conseguenze, tacendo sulle fesserie che ci propina ormai da anni? Ci auguriamo che le denunce siano già partite.

Roberto Saviano vomita odio su Matteo Salvini, il delirio finale: "Buffone, ministro mafioso, capo di un partito di ladri", scrive il 21 Giugno 2018 "Libero Quotidiano". Eccoci all'ultimo atto della violentissima guerra tra Roberto Saviano e Matteo Salvini. In mattinata, il ministro dell'Interno ha affermato: "Valuteremo se gli server la scorta". Ed eccoci alla replica di mister Gomorra, che arriva in un durissimo video pubblicato su Facebook. "Le parole pesano, e le parole del Ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per 'ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia". Insomma, Saviano arriva a dare del "mafioso" a Salvini. E ancora: "Il 17 marzo, subito dopo le elezioni, Matteo Salvini ha tenuto un comizio a Rosarno. Seduti, tra le prime file, c'erano uomini della cosca Bellocco e persone imparentate con i Pesce. E Salvini cosa fa? Dice questo: Per cosa è conosciuta Rosarno? Per la baraccopoli. Perché il problema di Rosarno è la baraccopoli e non la 'ndrangheta. Matteo Salvini è alla costante ricerca di un diversivo e attacca i migranti, i Rom e poi me perché è a capo di un partito di ladri: quasi 50 milioni di euro di rimborsi elettorali rubati". Dunque, la replica nel merito: "E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da 11 anni? Da più di 11 anni. Ho la scorta da quando ho 26 anni, ma pensi di minacciarmi, di intimidirmi? In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani. Ho più paura a vivere così che a morire così. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone".

Salvini, Saviano e i calabresi, scrive Nino Spirlì su "Il Giornale" Venerdì, 22 giugno 2018.  Ora, basta! Ora, basta veramente! Ne abbiamo strapieni i coglioni, di queste generalizzazioni! Chiunque continuerà ad offendere la Gente onesta di Calabria, se la dovrò vedere, da oggi in poi, con la Legge! Ma insomma! Se il Ministro degli Interni annuncia un censimento dei nomadi attualmente viventi in Italia (operazione già portata avanti, peraltro, da molte amministrazioni locali di Sinistra), parte la levata di scudi, perché gli zingari NON SI TOCCANO! Perché son tutte persone perbene e se c’è qualche ladro o qualche violento, o trafficante di droga e armi, è un caso e non una regola. Se migliaia di bambini, invece che andare a scuola, vanno a rubare, è identità e non reato. Se le donne vengono menate o costrette ad elemosinare o rubare, è cultura millenaria. Dunque, i nomadi, o comunque essi si chiamino, sono tabù. Ma quando si deve offendere o accusare Salvini di chissà quali reati o traffici immaginari, ecco la criminalizzazione di un intero Popolo, quello Calabrese, che, quando serve, è TOTALMENTE NDRANGHETISTA! AVETE ROTTO IL CAZZO!!! Tutti! Da Saviano fino a quella pletora di giornalisti, autori di fiction, scrittori della domenica, conduttori tv e preti in cerca di porpore! Dovete imparare a portare rispetto alla Gente onesta di Calabria! Sia che ci viva, in questo Paradiso, sia che sia emigrata e stia onorando l’Italia nel mondo. Quattro delinquenti impastati col Palazzo, la malapolitica, la massoneria più deviata di un pervertito, NON SONO UN POPOLO! I Calabresi che vanno alle urne sono persone perbene, che rispettano le Leggi e si spaccano la schiena a lavorare. E se è vero che esiste la ndrangheta in Calabria (ed esiste), è altrettanto vero che ci sono “mafiosi” lombardi in Lombardia, veneti in Veneto, laziali nel Lazio, marchigiani nelle Marche, liguri in Liguria, umbri in Umbria e italiani di campanile in tutte le altre regioni d’Italia, sopra e sotto terra. Ci sono mafiosi cinesi in Cina, giapponesi in Giappone, americani in America, russi in Russia, fino ai confini della galassia! E se la mafia ha votato per Trump, lo ha fatto prima per Obama, per Clinton, per Bush, per Kennedy 1 e 2… E in Italia, ha votato Fanfani, Moro, Berlinguer, Craxi, Andreotti, Berlusconi, Renzi, Prodi, Bersani, e chissà quanti altri… NON SAPPIAMO PER CHI VOTA LA MAFIA, perché le percentuali di voti raccolti ondeggiano, a turno, da una riva all’altra. E, se lo sappiamo, diciamolo: vota per tutti! Però, basta! Basta con questa criminalizzazione di NOI CALABRESI! Sciacquatevi la bocca e la coscienza prima di parlare della brava Gente di Calabria! Cretini! Arroganti! Cafoni! La vostra spocchia intellettualoide atterra braccianti e operai, imprenditori geniali, servitori dello Stato ed educatori, professionisti e studenti, anziani piegati dal lavoro nei campi, padri e madri di famiglia, giovani ansiosi d’avvenire e bambini speranza del mondo. Tappatevi quelle boccacce violente e assassine! E guardate dentro di voi: spesso quello che si cerca fuori, alberga nelle proprie viscere!

Meloni: "Dare scorta a giornalisti da cui Saviano ha copiato". La Meloni critica Saviano: "Ovviamente se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra", scrive Francesco Curridori, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". "Non ho gli elementi per giudicare se si debba rivedere la scorta di Saviano. Figuriamoci se io so se sia una priorità della camorra ammazzare Roberto Saviano, e non so bene quale sia la procedura". Giorgia Meloni, ospite di Agorà su Raitre, entra nella polemica tra l'autore di Gomorra e il ministro Matteo Salvini che ieri ha detto che potrebbe rivalutare l'uso della scorta per lo scrittore campano. "Se posso dire una cosa, non ho grande stima per Roberto Saviano, indipendentemente dalla questione della scorta", ha sottolineato il leader di Fratelli d'Italia che. Poi ha polemicamente aggiunto: "Ovviamente - ha aggiunto - se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali Saviano è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra". Per la Meloni: "Saviano è diventato un guru ma dovrebbe essere supportato da maggiore studio. Parla di tutto senza essere preparato, dice cose molto sbagliate. Snocciola dati sull'immigrazione, questioni sulla droga, senza avere le competenze. È una persona parla con prosopopea di temi che non conosce". E dovrebbe essere più preparato "soprattutto ora che avrà una trasmissione e il suo stipendio sarà pagato da tutti gli italiani".

Ma quale Saviano, la scorta serve agli italiani, scrive il 22 giugno 2018 Cristiano Puglisi su "Il Giornale". Fiumi di parole, un profluvio di inchiostro. Tutto e solo per lui, Roberto Saviano. E per la sua scorta. Già, un privato cittadino con un conto in banca in milioni di Euro e la protezione pagata dallo Stato. Un figlio della buona borghesia campana, fresco proprietario di un lussuoso attico a New York, che nella vita ha avuto il merito, incontestabile per carità, di scrivere, ormai 12 anni fa, un romanzo sulla camorra. Eppure la storia e l’attualità del sud Italia sono piene di esempi di coraggio, che la scorta non ce l’hanno. Dai braccianti e sindacalisti che denunciano gli abusi del caporalato ai giornalisti precari che raccontano gli intrecci del malaffare sulle testate locali. E perché non menzionare anche Vittorio Pisani, ex capo della Squadra Mobile di Napoli. Un signore che la camorra l’ha combattuta sul campo. E che, dello scrittore partenopeo, disse: “A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione (…). Ho arrestato centinaia di delinquenti, io giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta”. Tutta gente che, forse per la sola colpa di non avere accesso ai salotti (di sinistra) che contano, non ha potuto rendere questa attività un business, non ha potuto trarne sceneggiature per il cinema e le serie TV e non è stata invitata a parlare da “compagni” altolocati nelle trasmissioni televisive. E allora, francamente, poco importa della scorta dell’autore di “Gomorra”. Se gli organi competenti reputeranno che di rischi non ne corre, bene farà il ministro Salvini a levargliela. In caso contrario che la tenga. Anche se, è chiaro, la protezione di Stato a un milionario che sostanzialmente vive all’estero fa sorridere. Piuttosto la protezione la si dovrebbe dare agli italiani, potenziando l’organico e gli strumenti a disposizione delle Forze dell’ordine e le leggi a loro tutela. E magari varando una norma decente sulla legittima difesa. È questo che chiedono i cittadini normali. Quelli come i tabaccai, i benzinai e tutti gli esercenti che rischiano costantemente di essere rapinati mentre guadagnano onestamente il pane per se e per la propria famiglia. Soprattutto perché questo, nel bel Paese, non è una possibilità remota, ma avviene una volta ogni quarto d’ora, stando ai dati del 2016. E allo stato attuale quei cittadini, se per sbaglio dovessero avere la malaugurata idea di provare a difendersi, rischierebbero pure di finire in galera. Loro, non i delinquenti. Così come quelli che, mentre personaggi alla Saviano si ergono dai loro pregiati immobili a paladini di nomadi e irregolari (a proposito ma come la mettiamo con la storia della legalità?), devono dormire nella propria casa con il terrore di ricevere la visita di qualche ladro, perché magari non possono pagarsi un costoso antifurto. O ancora come gli anziani che, costretti ad abitare in qualche alloggio popolare dopo una vita di sacrifici, devono stare attenti a non farselo occupare mentre vanno a fare la spesa. Ecco, è a queste persone, a questi cittadini che lo Stato deve garantire davvero sicurezza e tutela. Altro che Saviano. Altro che balle.

«Buffone», Saviano replica a Salvini sulla scorta. Dopo l'intervento del titolare del Viminale ad Agorà, scrive "Il Roma" il 21/06/2018. “Secondo te io sono felice di vivere così da più di 11 anni Salvini? Ho più paura a vivere così, che a morire così. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone". Così replica Roberto Saviano replica a Matteo Salvini sulla possibilità che venga tolta la scorta allo scrittore che da anni vive sotto protezione dopo le minacce ricevute dalla camorra. "Togliere la scorta a Saviano? - ha detto il titolare del Viminale ad Agorà - Saranno le istituzioni competenti a valutare se corre qualche rischio, anche perché mi sembra che passi molto tempo all'estero, quindi è giusto valutare come gli italiani spendono i soldi". "Però è l'ultimo dei miei problemi - ha aggiunto Salvini - A Saviano mando un bacione se in questo momento ci sta guardando. E' una persona che mi provoca tanta tenerezza e tanto affetto". Qualche ora più tardi, parlando durante una diretta Facebook dal Viminale, Salvini ha poi precisato: "Saviano? Figuratevi se mi interessa quello che fa Saviano, non sono io a decidere sulle scorte, ci sono organismi preposti. Continui a pontificare, lui è l'ultimo dei miei problemi". "Io - ha aggiunto Salvini - voglio combattere la mafia e la Camorra davvero". "Pensi di minacciarmi? Di intimidirmi - dice Saviano in un video pubblicato su Facebook - In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone". "Salvini ha come nemici gli immigrati, le persone del Sud Italia, sono felice di essere tra i suoi nemici", aggiunge lo scrittore che definisce il leader della Lega "ministro della Malavita". "Il 17 marzo, subito dopo le elezioni, Matteo Salvini ha tenuto un comizio a Rosarno. Seduti, tra le prime file, c'erano uomini della cosca Bellocco e persone imparentate con i Pesce. E Salvini cosa fa? Dice questo: 'Per cosa è conosciuta Rosarno? Per la baraccopoli'. Perché il problema di Rosarno è la baraccopoli e non la 'ndrangheta", prosegue. Alle parole di Salvini avevano replicato in molti. A partire dal Pd. Pina Picierno, europarlamentare dem invoca le dimissioni per il titolare del Viminale. "Salvini ha sempre avuto il vizietto delle minacce facili. Ma da uomo delle istituzioni è intollerabile - ha commentato -. Esporre così Saviano, personalità riconosciuta da tutto il mondo per il suo impegno contro le mafie, è a dir poco vergognoso. Non si minaccia chi non la pensa come noi. È un abuso di potere vero e proprio. Salvini si scusi e si dimetta''. Il vicepresidente della Camera Ettore Rosato definisce invece le parole di Salvini "minacce inaccettabili per un uomo che ha contribuito a far luce su un sistema criminale pervasivo e pericoloso". "La scorta a Saviano - ha sottolineato Rosato - come lui stesso raccontò, non è una concessione ma la protezione che lo Stato deve garantire a chi minacciato per avere combattuto mafia e camorra''. Su Twitter gli fa eco Giuseppe Civati che bolla Salvini "pessimo, violento, pericoloso: un ministro dell'Interno che gioca sporco". Pietro Grasso di Leu su Facebook scandisce: "Non vogliamo altri Pippo Fava, Peppino Impastato, Mario Francese, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano".

Saviano ha un sacco di amici, il povero Marco Biagi no, scrive Pietro Mancini su "Italia Oggi" il 22/06/2018. Ennesima bufera su Matteo Salvini, dopo la sua esternazione sulla scorta di Roberto Saviano: «Le autorità competenti valuteranno se lo scrittore corra, o meno, dei rischi. Intendiamo valutare come si spendono i soldi degli italiani». La protezione dello stato, infatti, dovrebbe essere garantita, in primis, a quanti difendono le istituzioni e i suoi, pro tempore, rappresentanti. Non a coloro che incitano alla ribellione contro lo stato e i legittimi governanti, talvolta, arringando i telespettatori dagli studi della Rai, finanziata con il canone, versato da tutti gli utenti. Immediata la mobilitazione degli intellettuali de'sinistra, dura e pura, anti Salvini. Tra i primi a mitragliare il ministro degli interni, l'attore Alessandro Gassmann: «Togliere, forse, la scorta a chi è minacciato dalla camorra? È intimidazione. Solidarietà a Saviano #ministrodeglinferni». Molto polemico con Salvini anche il direttore di Repubblica, che ospita gli articoli di Saviano. Secondo Mario Calabresi, il saggista campano non ha chiesto la scorta, ma «ha la colpa di aver denunciato i casalesi, mentre la Lega negava la presenza della 'ndrangheta al Nord». Non ricordo, tuttavia, tante proteste, di Repubblica e di altri, quando l'allora ministro dell'interno, il forzista Claudio Scajola, nel 2002, non assegnò la scorta a Marco Biagi, collaboratore del titolare del Lavoro, il leghista Bobo Maroni. Biagi l'aveva chiesta, dopo aver ricevuto pesanti minacce. E, purtroppo, il giuslavorista, 52 anni, fu ucciso dalle Br, mentre tornava a casa, nel centro di Bologna, in bicicletta.

Tutte le ombre del “fenomeno Saviano”: origini storiche, sviluppo, marketing, scrive il 20 gennaio 2017 Stelio Fergola su "Oltrelalinea.news". La mitologia eroica su Roberto Saviano ha origini non lontane, ma nemmeno così recenti. Ci fu un tempo in cui una certa classe di persone, fino agli inizi degli anni Novanta, compì contro le mafie dei veri e propri prodigi. Giornalisti come Giancarlo Siani, Beppe Alfano e Mario Francese descrissero, sui giornali per i quali lavoravano, dettagli scomodi della vita del clan dei Nuvoletta, della famiglia Santapaola e del clan dei corleonesi, oltre a riportare diversi elementi investigativi utili ai tribunali locali. Proprio di Nitto Santapaola Alfano spifferava, nella prima pagina de Il Giornale di Sicilia, il luogo di latitanza: il boss girava indisturbato per le vie di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), vicino casa sua. Mario Francese svelava negli anni Settanta i nomi delle imprese affiliate a Totò Riina in Sicilia. Ovviamente l’elenco può proseguire aggiungendovi i “lavoratori dell’ordine e della giustizia diretti”: personalità come Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Ninni Cassarà, o giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Moriranno tutti, ma il loro sacrificio contribuirà a produrre comunque qualcosa: dopo le stragi di sangue degli anni Ottanta e quelle di inizio anni Novanta, infatti, lo Stato italiano sarà forzato a reagire e a mobilitare una certa quantità di risorse ancora inutilizzate per contrastare le mafie, in particolare quella siciliana. È in questo periodo che entrano in attività organismi come la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e la DNA (Direzione Nazionale Antimafia), fondate entrambe alla fine del 1991. Le ragioni di questa reazione sono varie e non c’è bisogno di dilungarsi troppo, ma possiamo descriverne due principali. La prima è di ordine politico-internazionale: la conclusione della Guerra Fredda tra USA e URSS finì con lo stemperare alcune protezioni politiche “implicite” di cui le mafie, organizzazioni geneticamente ostili ai regimi non democratici (e quindi “sfruttabili” come impedimento locale a qualsiasi tipo di rivolgimento dello status quo), godettero fino al 1989, anno fino al quale il rischio di una presa del potere “totalitaria” – soprattutto da parte comunista – era ancora ritenuta possibile da un punto di vista teorico: difficile pensare, in altre parole, che organismi come la DIA sarebbero potuti sorgere prima. La seconda ragione è di ordine “mediatico”: dopo la strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) in cui persero la vita Borsellino e vari agenti della sua scorta, la misura era veramente colma. Ne andava della vita serena delle istituzioni, sotto l’occhio del ciclone in tutto il Paese a causa di quella scia incredibile di omicidi che duravano da 20 anni e che ormai erano troppo clamorosi per poter essere ignorati. Dopo troppe chiacchiere lo Stato fu costretto dunque a dover tentare una forma di “risalita” che, dal 1993 in poi, condusse a un insolito attivismo, fatto di arresti come quelli di boss del calibro di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. In quella fase i mezzi che il Ministero degli Interni mobilitò furono piuttosto ingenti, potendo sfruttare finalmente anche il neonato articolo 41-bis del codice penale, che imponeva il carcere duro ai mafiosi, impossibilitati a comunicare con l’esterno se non sotto stretta sorveglianza. C’è un risultato poco indagato dalle cronache del periodo di “insolito attivismo”, a lungo interessate dei singoli individui senza dare troppo peso al contesto storico: riguarda tutta una schiera di magistrati e addetti ai lavori (tra cui vi fu qualcuno che collaborò pure con il pool antimafia e partecipò al Maxiprocesso) che si sono trovati nella posizione di arrestare un Giovanni Brusca – e altri come lui – negli anni Novanta, guadagnandone prestigio e fama. I nomi appartenenti a questa insolita categoria sono vari, ma ci limitiamo a chi “sia nel pre-Falcone che nel dopo Falcone” ha più fatto parlare di sé: Giancarlo Caselli, Pietro Grasso ma anche Alfonso Sabella, Antonio Ingroia e qualcun altro. Generazioni intere di giudici di livello variabile, qualcuno buono, molti “medi” (in certi casi decisamente mediocri) che hanno cavalcato l’onda di professionisti geniali dell’anticrimine, sfruttando una fase contingente positiva e arrivando a costruirsi una carriera encomiabile, menzionata da qualcuno come esempio pseudoeroico da imitare.

Grandi meriti o semplice fortuna sopravvalutata? Ad osservare la storia professionale di alcuni di questi personaggi successiva a quella fase, è difficile non propendere per la seconda ipotesi: non è così assurdo pensare che Brusca, per come si stava mobilitando lo Stato negli anni Novanta, lo avrebbe arrestato chiunque. Erano i mezzi e le energie in quel caso a fare la differenza, un fattore di cui né Falcone né Borsellino poterono godere nei faticosissimi anni della loro attività. Il tutto, per di più, alla luce di un mai completamente chiarito quadro di una ipotetica trattativa tra lo Stato e Mafia che, in caso, non avrebbe potuto escludere il “sacrificio” di diversi esponenti di spicco di Cosa Nostra. Senza questa catena di eventi favorevoli il “chiunque”, ovvero l’illustre signor nessuno, forse non avrebbe avuto così tante possibilità di lavorare come assessore alla legalità a Roma, scrivere un libro ben distribuito, o diventare presidente del Senato. Beninteso che anche candidarsi con un partito politico proprio, sebbene di insuccesso come Rivoluzione Civile (uscita malconcia dalle elezioni politiche del 2013 con un modesto 2,25% alla Camera) è un privilegio per pochi: Antonio Ingroia, pur essendo il meno fortunato dei nomi sopracitati, è uno di questi. Il “savianesimo” nasce proprio da questa prolifica e remunerativa “ricerca della gloria eroica”, esattamente come quella di cui hanno beneficiato i “colleghi” giudici. Un sorta di ansia che colpisce gli italiani sempre quando gli eroi vengono ammazzati sul serio: dopo. Lo scrittore casertano prende quindi il posto di Siani, una figura che andava in qualsiasi modo riproposta all’opinione pubblica, e scrive cose che sanno tutti sulla camorra da quasi quarant’anni: il risultato è un romanzo “docu-fiction” dove inventa anche di sana pianta e nel quale vengono riscontrati anche elementi che gli hanno fruttato una condanna per plagio nel giugno 2016 (nonostante certa stampa abbia provato a invertire l’ordine dei fattori spostandolo sull’entità del risarcimento che Saviano ha dovuto pagare alla casa editrice Libra, poi ridimensionato notevolmente, che però non smentisce in nessun modo la sentenza). Comunque, mediaticamente il giochino funziona e risponde alle aspettative della gente. Il mito nasce, favorito dal clima culturale appena esposto, grazie ad un solo mezzo disponibile, utilissimo per incantare le masse: la scorta. Buona parte di quelli che leggono dell’attribuzione della stessa a Saviano sospende completamente ogni valutazione negativa delle istituzioni, che nella fattispecie diventano alla stregua di divinità prive di qualsiasi corruttibilità, margine di errore o altro: come se l’elemento umano in questo caso non esistesse, l’assegnazione è percepita come un’automatica prova di eroismo del personaggio. Nemmeno mezzo pensiero, dunque, sul fatto che parliamo pur sempre di esseri umani, indi soggetti a poter commettere valutazioni sbagliate, in buonafede o malafede che siano, esattamente come tutti gli altri uomini. È un processo mentale che avviene grosso modo anche per la magistratura (ma stranamente non per la polizia, verso la quale esiste invece un’ostilità immotivata e radicata da decenni) e che coinvolge molti aspetti dell’opinione pubblica. Tutto ciò preclude poi anche altre cose, tra le quali le scorte assegnate in passato a personaggi popolari che classificare come “eroi” sarebbe quanto meno bizzarro: uno di questi è Vittorio Sgarbi, ma si può ricordare anche il criticatissimo Emilio Fede, verso cui l’opinione pubblica non è poi così santificatrice, anzi. Eroi o potenti? Si potrebbe anche ritenere del tutto comune che un vip, senza che questi sia considerato per forza un perseguitato, possa usufruire extrema ratio di una protezione, poiché la mitomania, anche vagabonda, si nutre pure di ragioni per commettere atti clamorosi e pericolosi: ma questo è un altro discorso. Altrettanto naturale è che il cittadino medio, preso dalla vita di tutti i giorni, fatta di lavoro, sudore e tentativi (spesso) di arrivare alla fine del mese con qualche soldino in tasca, non possa coltivare l’anima investigativa anche per informarsi su questi semplici elementi, e tenda a recepire il dato di fatto compiuto: Saviano ha ricevuto la scorta, quindi è un eroe. Naturalmente poco si indaga anche sulla veridicità delle presunte minacce ricevute dallo scrittore, che sarebbero avvenute alla fine del processo Spartacus, nel 2008, quindi ben dopo l’assegnazione della scorta nell’ottobre del 2006, il che dovrebbe già far riflettere: ma è solo la punta dell’iceberg. Il fattaccio sarebbe avvenuto in aula quando l’avvocato Santoanastaso, legale dei boss imputati Bidognetti e Iovine, avrebbe chiesto lo spostamento del processo in sede differente a causa, tra gli altri, delle “pressioni di Capacchione e di Saviano”. Difficile interpretare una richiesta di spostamento (pratica peraltro comune tra gli avvocati difensori) come una “minaccia”. Andando avanti con le stranezze, si potrebbe ricordare anche quando, sempre alla fine del 2008, finì sui Tg una notizia quanto meno curiosa che parlava di altre minacce dei Casalesi a Saviano: la famiglia malavitosa avrebbe venduto migliaia di DVD contraffatti del film su Gomorra (in uscita originale qualche settimana dopo) con il bollino “camorra” quale presunto messaggio minatorio. Tralasciando che anche qui il nesso tra la “minaccia di morte” e “DVD contraffatto” sia come minimo esasperato, mi domando che tipo di conoscenza della realtà quotidiana avesse la stampa dell’epoca. Chi scrive è, guarda caso, napoletano, e guarda caso ricorda da quando è bambino che le edicole abbiano sempre venduto un certo quantitativo, pur risibile, di materiale contraffatto, come le audiocassette, i videogiochi e, successivamente, anche i film in VHS e in DVD. Tutto ciò non citando le onnipresenti bancarelle disseminate per le strade, usuali a questo tipo di attività. Che la camorra guadagni (anche) da questi mercati è poi la scoperta dell’acqua calda. Si potrebbe aggiungere, infine, che il libro Gomorra, uscito nell’aprile 2006, riscosse inizialmente un successo discreto per uno scrittore esordiente, ma fu solo dopo l’assegnazione della scorta a Saviano e l’invito in Tv alla trasmissione Le invasioni barbariche di Daria Bignardi, il 3 novembre dello stesso anno, che il romanzo cominciò a macinare numeri e a diffondere le oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo. Ambiguità anche nel riportare i numeri nei pochi articoli che parlano della questione “tiratura iniziale”. Non si trovano dati, stranamente, sulle vendite fino a ottobre 2006, e la maggior parte dei siti si limita a dire che il libro “esaurì la tiratura di 5000 copie in una settimana”: benissimo, e poi? Mistero. L’informazione resta troppo generica e aleatoria per poterla recepire per oro colato. Se Gomorra avesse fatto i numeroni da prima di quel bimestre ottobre-novembre scandito dalla scorta e dal lancio in televisione della Bignardi (cosa comunque fisiologicamente impossibile rispetto alle 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo e alle 2,5 milioni distribuite in Italia), perché non si riportano con orgoglio le cifre? Ecco quindi spiegate le ragioni del savianesimo, dall’origine storica alla clamorosa campagna di marketing che lo sostiene. Un marketing che pare quasi sistemico, se si pensa non solo a quanto abbiamo esposto finora, ma anche a ciò che continua ad accadere e che, di tanto in tanto, fa storcere il naso. Il nostro eroe era stato invitato a parlare in una scuola romagnola il prossimo 15 marzo. L’incontro prevedeva l’obbligo di acquistare, da parte degli studenti che avessero aderito, il suo nuovo libro La paranza dei bambini, al costo di 16 euro (come recitava la circolare della scuola di Forlì, prima che l’evento venisse annullato). Qualcuno schiamazza, qualche giornale (peraltro non certo storicamente ostile allo scrittore) riporta la notizia, ma lui sui social giura: “Non esiste. Nessun obbligo. Da dieci anni vado nelle scuole e i miei scritti mi fa piacere che vengano letti anche fotocopiati o in copie che passano di mano in mano. Ad attaccare il mio lavoro sono giornali un tempo definibili berlusconiani ora solo beceri.” Il giorno dopo l’ “incontro” viene annullato per motivi che lo scrittore pomposamente spiega ai suoi futuri discepoli romagnoli, nuovamente su Facebook, il cui sunto è più o meno il seguente: “Lo faccio per voi! Vi stumentalizzerebbero, sarà per un’altra volta”.  Prendiamo atto che secondo Saviano un documento a conferma dell’accusa – pubblicata per di più dalla scuola protagonista della vicenda – sarebbe una “strumentalizzazione” e chiudiamo anche questa parentesi. Cosa rimane, quindi? Nulla più di un fenomeno costruito in buona parte sulla menzogna o, nella migliore delle ipotesi, nell’esposizione romanzata di fatti già noti. La menzogna è un elemento che ricorre spesso nell’esperienza savianesca, in certi casi in modo clamoroso, come dimostrò la vicenda riguardante la mamma di Peppino Impastato, mai conosciuta dallo scrittore ma narrata in un suo libro successivo in una telefonata probabilmente mai avvenuta. Che lo scopo possa essere quello ipotizzato all’inizio di questa analisi (creare una sorta di Siani o di Alfano artificiale e di successo) è quanto meno possibile. Il problema è che Saviano non ha scritto nulla di nuovo. Ha inventato eventi clamorosi o al più senza rilevanza processuale, inseriti nello stesso Gomorra (la celebre storia dei cadaveri cinesi del primo capitolo, le “gite tranquille” in Vespa, con egli testimone più o meno di qualsiasi nefandezza di Scampia). Un bravo scrittore, forse un ottimo romanziere, ma per parlare di altro ci vuole una certa fantasia. Quella che un Francese certamente non utilizzò per smascherare le imprese di copertura di Riina, o che un Siani non sfruttò quando, sulle colonne del Mattino, descriveva i movimenti di denaro dei traffici di droga a Torre Annunziata. La stessa fantasia che non poteva far parte del bagaglio di Beppe Alfano che sul Il Giornale di Sicilia parlava senza tanti complimenti di come Nitto Santapaola girasse indisturbato per le vie di una frazione di Messina, senza che nessuno lo venisse a cercare. Il monolite della scorta non si associa necessariamente all’aggettivo “eroe”, ma anche ad un altro, ben più rilevante ma meno idealizzabile: “potente”. Come diceva Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. In questo caso non c’è granché da indovinare però, quanto da recepire informazioni quasi sempre evidenti.

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Consip è stato un complotto. L’inchiesta era una montatura, scrive Piero Sansonetti il 21 giugno 2018 su "Il Dubbio". Che il caso-Consip fosse una bufala si sapeva. Non è un caso se i grandi giornali hanno smesso di parlarne. I grandi giornali fanno così: si occupano di un caso giudiziario finché l’accusa appare forte; se a un certo punto l’accusa si smonta, il caso scompare. Nessuno si preoccupa di dare risalto all’innocenza di quelli che erano finiti nel tritacarne. Questa, del resto, è la regola del giornalismo scandalistico, e in Italia il giornalismo scandalistico è quello vincente. Ora però scopriamo qualcosa di più.  Scopriamo che il caso-Consip non è stato solo una bufala, è stato – a quanto pare dalle dichiarazioni dei testimoni chiave – un complotto politico molto serio. Un complotto che aveva come bersaglio Matteo Renzi e il Pd. E che ha prodotto risultati notevolissimi, se è vero che nel dicembre del 2016, quando iniziò l’operazione- Consip, il Pd era accreditato più o meno del 32 per cento dei consensi elettorali, e da quel momento è iniziata la frana che ha portato via al partito di Renzi più o meno la metà del suo elettorato. È chiaro che non si può risolvere la discussione sul perché della sconfitta storica del Pd con la teoria del complotto. No. Però sarebbe sbagliato non mettere nel conto anche questo. E soprattutto sarebbe sbagliato non porsi la seguente domanda: dunque in Italia, anche con forze molto limitate, si può realizzare un complotto politico in grado di modificare le sorti del paese? Una volta era necessario controllare l’esercito, la polizia, la televisione, la radio, le prigioni. Ora si possono fare grandiosi complotti con mezzi artigianali. Se le accuse gravissime del testimone Filippo Vannoni, consegnate al Csm, sono vere (e ne hanno tutta l’aria) è esattamente così. Se è vero che il testimone Vannoni – cioè il testimone chiave di questa vicenda – fu indotto ad accusare il sottosegretario Lotti di avere “bruciato” l’indagine Consip ( e fu indotto, a quel che lui dice, con metodi assolutamente illegali e del tutto estranei alle consuetudini di un paese democratico), e se è vero quello che dice Vannoni sulla volontà di alcuni inquirenti di colpire direttamente Renzi (circostanza, peraltro, già prospettata da una magistrata emiliana, e avvalorata dalle informazioni false contenute nell’informativa del capitano Scafarto), vuol dire che alla fine del 2016 e all’inizio del 2017 ci fu una vera e propria congiura contro il primo partito italiano ( che era al governo), organizzata da alcuni carabinieri infedeli, e realizzata con l’appoggio (consapevole o inconsapevole) di uno o più sostituti procuratori e di un organo di stampa, cioè Il Fatto Quotidiano, al quale fu- rono consegnate le carte segrete e che si occupò di propagandarle e di renderle una bomba atomica contro Renzi e il Pd, nei primi mesi di funzionamento del governo Gentiloni. Sarà il Csm, e successivamente la Procura di Roma, a stabilire come andarono esattamente i fatti e quali siano, eventualmente, gli aspetti con valore penale di tutta questa brutta vicenda. Noi però oggi sappiamo che un uso distorto della giustizia, da parte di qualche giornale, o viceversa (un uso distorto del giornalismo da parte di qualche magistrato) può portare a danni irreversibili. La demolizione del Partito democratico e il suo clamoroso e imprevedibile ridimensionamento, e la sua cacciata dall’area di governo, sono frutti di questa operazione, e sono eventi che non possono più in nessun modo essere cambiati. La magistratura ora potrà rendere giustizia a Lotti, e naturalmente anche a Renzi, e probabilmente ai comandanti dei carabinieri che finirono nel tritacarne insieme a Lotti (forse anche per via di una guerra interna, ferocissima, al vertice dell’Arma) ma non potrà in nessun modo modificare l’andamento della storia politica. E dunque? Io credo che noi giornalisti dovremmo porci questo problema. L’uso dei giornali per manovre politiche spregiudicate, illegali e reazionarie, non è una questione che può lasciarci indifferenti. Il Caso- Consip fu aperto dal Fatto Quotidiano, è vero, e per diverse settimane ignorato dagli altri giornali, che probabilmente avvertivano l’inconsistenza delle accuse. Poi però, da quando i magistrati iniziarono a passare le carte non solo a Marco Lillo ma ad altri giornalisti di altre testate, per alcuni mesi tutti i grandi giornali entrarono nella scia del Fatto. E restarono in quella scia finché non saltò fuori la storia dell’informativa taroccata del capitano Scafarto e il capitano Scafarto non fu indagato. Allora io mi chiedo: vale sempre quella frase fatta (“Se io ricevo della carte dai magistrati è mio dovere professionale pubblicarle”) che risolve tutti i dubbi intellettuali (non dico morali: dico intellettuali) di noi giornalisti? Credo di no. Il giornalismo rischia di diventare un manganello in mano a un pezzo (il peggiore) della magistratura. Un manganello pericolosissimo per la democrazia. Dal quale diventa impossibile difendersi. Noi possiamo accettare questo? Cioè possiamo accettare di trasformarci da agenti dell’informazione in agenti provocatori? Io credo di no.

Vannoni: «Inventai il nome di Lotti, intimidito dai pm», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 20 giugno 2018 su "Il Dubbio". Il grande accusatore di Consip ci ripensa. È andato ieri in scena al Consiglio superiore della magistratura il confronto fra il maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto ed il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni. L’occasione è stata l’udienza disciplinare a carico dei pm napoletani Henry John Woodcock e Celestina Carrano, titolari di uno dei filoni dell’inchiesta “Consip”. Ai due magistrati viene contestato l’interrogatorio del manager fiorentino ed ex consigliere economico di Palazzo Chigi. Indicato dall’ex ad di Consip Luigi Marroni come uno dei soggetti che lo informarono dell’indagine in corso da parte del Noe, Vannoni chiamò in causa l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia. Sul punto venne ascoltato alla vigilia di Natale del 2016 dai pm napoletani come persona informata dei fatti, cioè come testimone, senza quindi l’assistenza di un difensore. Secondo la Procura generale della Cassazione che esercitato l’azione disciplinare davanti al Csm, c’erano però, già allora, gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia avrebbe dunque “leso le sue garanzie difensive”. Si trattò di un interrogatorio molto duro, ha ricordato ieri Vannoni: domande «pressanti», concentrate soprattutto sui «rapporti con Matteo Renzi» e una frase, «vuole fare una vacanza a Poggioreale», che gli sarebbe stata rivolta da Woodcock e di fronte alla quale rimase «colpito e intimidito». A verbalizzare l’interrogatorio fu il maggiore Scafarto, all’epoca capitano del Noe, ha proseguito Vannoni. Ed era proprio Scafarto l’interlocutore principale, con domande ma anche pressioni del tipo «risponda, risponda, risponda!». E ancora: «Confessi!», o «chi te l’ha detto?». «Feci il nome di Lotti per levarmi dall’impaccio, me ne volevo andare. A un certo punto chiesero di posare lo sguardo verso la porta: c’erano dei fili e dissero che erano delle microspie. Scafarto disse che avevano messo microspie ovunque e che sapevano tutto. Il verbale non l’ho riletto, l’ho firmato e me ne sono andato senza salutare», ha poi concluso Vannoni. Interrogato poi dai pm romani, Vannoni raccontò queste “pressioni” e smentì di aver saputo da Lotti dell’indagine Consip. Tutt’altro scenario, invece, per Scafarto, apparso a sua volta ieri davanti alla sezione disciplinare del Csm. Secondo l’ufficiale, Vannoni «fece i nomi di Matteo Renzi e Luca Lotti spontaneamente. Era visibilmente non a suo agio, era particolarmente nervoso e iniziò a sudare. Venne invitato a ricordare chi gli avesse detto qualcosa su Consip, e l’esame venne condotto quasi esclusivamente da Woodcock», ha aggiunto Scafarto, escludendo di aver posto domande al teste. L’ufficiale ha anche smentito le accuse di pressioni esercitate da Woodcock su Vannoni, come quella di mostrare dalla finestra il carcere di Poggioreale e chiedere al manager «se vi volesse fare una vacanza». «Non ricordo», ha poi spiegato Scafarto, «se ci ponemmo il problema di sentirlo come persona informata sui fatti o come indagato. La sera del 20 dicembre», ha aggiunto, «Woodcock contattò il dottor Ielo (titolare del fascicolo Consip trasmesso nella Capitale, ndr), non so cosa si siano detti». Il maggiore è attualmente indagato dalla Procura di Roma, con accuse che vanno dal falso alla rivelazione del segreto d’ufficio. Al termine dell’udienza è intervenuto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini che ha parlato di «testimonianze largamente divergenti» e annunciato che il prossimo 5 luglio saranno sentiti i pm di Roma Paolo Ielo e Mario Palazzi. Nel tardo pomeriggio, le senatrici Pd Caterina Bini, vicepresidente del gruppo dem, e Nadia Ginetti hanno diffuso una nota in cui sostengono che «le ricostruzioni dell’interrogatorio subìto da Filippo Vannoni ad opera del duo Woodcock– Scafarto mettono i brividi: l’inchiesta su Consip doveva in tutti i modi raggiungere l’allora premier Matteo Renzi», secondo le due parlamentari, «continueremo a fare le solite domande, perché vogliamo che si arrivi alla verità: perché, per conto di chi?» .

Pignatone non molla: «Scafarto voleva arrestare Renzi senior e truccò le carte». Caso Consip, la procura di Roma in Cassazione contro il reintegro di “capitan riscrivo”, scrive Francesco De Felice il 14 Aprile 2018, su "Il Dubbio". La vicenda Consip si arricchisce di un altro capitolo che vede protagonista la Procura di Roma e il maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto. Il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi si sono rivolti alla Cassazione per impugnare la decisione del Riesame che di fatto ha riabilitato l’ex capitano del Noe, indagato nel caso Consip per alcune ipotesi di falso in atto pubblico, per un episodio di rivelazione del segreto d’ufficio e per uno di depistaggio. I pm affermano che Scafarto abbia agito con dolo e puntava a ‘”inchiodare Tiziano Renzi alle sue responsabilità” anche attraverso un “travisamento dei fatti e violazione delle regole giuridiche di governo della prova indiziaria” I magistrati romani, in quindici pagine di ricorso, scrivono che “l’impugnata ordinanza, che trasforma orrori di sicuro rilievo penali in errori, qualificati come involontari’con evidente ridondanza linguistica”, rappresenta un provvedimento “che si contrappone alle regole del diritto sostanziale e processuale, della logica e del buonsenso”. La Procura di Roma nel provvedimento con cui ha impugnato l’ordinanza del tribunale del Riesame ribadisce che l’intenzione di Scafarto di voler “inchiodare Renzi senior “oltre che essere assolutamente aderente alla realtà del quadro probatorio all’epoca esistente, era esattamente ciò che l’indagato si rappresentava, così come si deduce non solo dai messaggi whatsapp e dalle conclusioni cui si giunge nell’informativa del 9 gennaio 2017. Ma anche dall’informativa del 3 febbraio successivo, laddove è declinato con solare evidenza a commento delle dichiarazioni di Alfredo Mazzei (il commercialista napoletano di area Pd che parlò di un incontro tra Alfredo Romeo e Tiziano Renzi in una bettola, ndr): “... le dichiarazioni di Mazzei sono di straordinaria valenza – così scrisse l’ufficiale dell’Arma – in quanto consentono di chiudere il cerchio su Renzi e su Carlo Russo (imprenditore di Scandicci, amico del padre dell’ex premier, ndr), nel senso che consentono di affermare che Russo non sia un millantatore ma al contrario egli avesse la possibilità di affrontare ed influire nell’assegnazione dei lotti Consip e soprattutto che egli agisca in nome di Tiziano Renzi, la cui compartecipazione in tutte le dinamiche prospettate da Romeo, a questo punto, appare oltre che scontata imprescindibile… ’’. Se per il Riesame Scafarto nella sua attività di investigatore ha commesso errori “involontari che l’esperienza giudiziaria permette di riscontrare quotidianamente nelle informative di pg”, per la Procura “la prova nei confronti di Renzi senior aveva e ha natura indiziaria, sì che è del tutto evidente che moltiplicare gli indizi sarebbe stato un ulteriore elemento a sostegno dell’accusa”. “Nell’ordinanza del Riesame – spiegano infine i pm – si afferma anche che non è dimostrato il presupposto da cui muove l’accusa per reggere l’elemento soggettivo del reato: la volontà dell’indagato di coinvolgere Matteo Renzi nella vicenda Consip. L’assunto – precisano i magistrati della Procura di Roma – è privo di fondamento storico: in nessun atto di indagine è declinato tale postulato, in nessuna memoria, in nessuna richiesta, in nessuna espressione di pensiero, verbale o scritta".

IL DIO DEI MAFIOSI E DEGLI ANTIMAFIOSI.

Il Dio dei mafiosi, scrive "La Repubblica" il 29 marzo 2018 Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo. Uno di loro ha confessato: «Cosa Nostra si vuole farla risalire all'Apostolo Pietro». Un altro ha parlato di una "Bibbia”, sepolta chissà dove e che celava fra le sue pagine il mistero dei dieci comandamenti di mafia. «Il Signore vi benedica e vi protegga», scriveva sempre nei suoi pizzini Bernardo Provenzano. Devotissimo il corleonese, ogni suo ordine era accompagnato da un’invocazione: «Sia fatta la volontà di Dio». Il Dio dei mafiosi, il Dio che non vede e non sente, il Dio che sta chiuso nelle sacrestie. Un Dio "cattivo” costruito a loro immagine e somiglianza. Chiesa e mafia, mafia e chiesa. Vi siete mai chiesti perché la Cupola si chiama Cupola? Questa puntata del blog "Mafie” la dedichiamo al rapporto fra i boss e la religione, alla lunga tradizione di silenzi e complicità ecclesiali che ha accompagnato la storia delle mafie, ai primi gesti di ribellione di parroci e arcivescovi contro la violenza di Cosa Nostra e Camorra - le marce guidate dai sacerdoti degli anni '80 durante la guerra fra i clan a Palermo, l'omelia del cardinale Pappalardo su "Sagunto espugnata” dopo l'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, le denunce di don Riboldi - sino alle reazioni dei mafiosi che da qualche “parrino” non venivano più considerati amici come un tempo. Salvatore Riina, ancora negli ultimi anni della sua vita s'infuriava per quel piccolo parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, che aveva portato Dio fuori dalle chiese. «Il quartiere lo voleva comandare iddu – sussurrava il capo dei capi con disprezzo durante l’ora d’aria - Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare... il territorio... il campo… la Chiesa». Era rabbioso lo “zio Totò”. Ai boss ha fatto sempre paura la Chiesa che denuncia, che si batte per il riscatto dei territori e dei cittadini. Il Dio annunciato dal piccolo grande parroco stava facendo perdere consenso a Cosa nostra in un regno - il quartiere di Brancaccio - che quelli consideravano il loro cortile di casa. Così lo uccisero, esattamente venticinque anni fa, il 15 settembre 1993. Don Pino Puglisi a Palermo e don Peppe Diana a Casal di Principe, assassinato il 19 marzo del 1994 in terra di camorra. Martiri che non parlavano solo ai credenti ma a tutta la comunità civile. Per questo facevano paura alla mafia. I boss sono stati abituati a ben altri preti e a ben altre chiese. Quelli che celebravano messe nei covi dei latitanti, quelli che facevano (e fanno) inchinare le Madonne sotto le case dei capi-bastone, quelli che ai loro fedeli più speciali spiegano che «c'è una bella differenza fra peccati e reati». Il 9 maggio di quest'anno è il venticinquesimo anniversario dell'anatema lanciato da Karol Wojtila nella Valle dei Templi di Agrigento, quasi un anno dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino e due mesi prima delle bombe esplose a Roma davanti la basilica di San Giovanni e di San Giorgio al Velabro. Il potere religioso obiettivo di attentati mafiosi. E, quasi un quarto di secolo dopo, Papa Francesco che scende nella piana di Sibari e fa la sua "scomunica” a tutto quel mondo. Per raccontare le «due facce della Chiesa» abbiamo chiesto analisi e riflessioni a studiosi come Alessandra Dino e Isaia Sales, Augusto Cavadi e Rosario Giuè; saggisti come Vincenzo Ceruso e Bianca Stancanelli; tanti giornalisti fra i quali i vaticanisti Orazio La Rocca e Paolo Rodari, Piero Melati, Daniele Billitteri e Salvatore Cusimano; alcuni sacerdoti come don Pino Demasi e padre Giovanni Ladiana, don Paolo dell'Aversana e don Cosimo Scordato e Mario Torcivia. C'è un intervento anche dell'ex presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, un altro dell'arcivescovo di Monreale Michele Pennisi. Un ringraziamento particolare va al nostro collega Raffaele Sardo che ha raccolto per noi preziose testimonianze dalla Campania.

«Come carta ti brucio, come santa ti adoro...», scrive su "La Repubblica" il 31 marzo 2018 Massimo Lorello - Giornalista di Repubblica. “Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò la Cosa nostra”. In equilibrio perfetto tra una filastrocca gotica e una fatwa jihadista, l’iniziazione degli affiliati è un rito che sintetizza inequivocabilmente i fondamenti della mafia, gli elementi irrinunciabili della sua stessa esistenza. Tanto criptici appaiono i boss in un luogo pubblico quanto espliciti si rivelano nel chiuso dei summit, specie quando c’è un novizio da accogliere e indottrinare. Era così fino a un po’ di tempo fa perché di questo rito solenne e spettacolare non si hanno tracce recenti. Tuttavia, andando a ritroso, tornando agli anni della mafia stragista, di cerimonie per i nuovi accoliti se ne contano tantissime. Il santino utilizzato durante il rito, spesso ritraeva l’immagine dell’Annunziata. Al nuovo affiliato toccava pungersi un dito per fare uscire il sangue e suggellare così il patto indissolubile con l’organizzazione criminale. Di solito si utilizzava un comune ago da cucito, nel Palermitano qualcuno optava per una assai più identitaria spina di arancio amaro, a Riesi (nel Nisseno) preferivano una spilla d’oro. Alle cosche, dunque, era concessa qualche licenza ma i princìpi fondamentali del rito andavano rispettati. Esattamente come accade con le confessioni religiose dalle quali la mafia trae ispirazione. Di più: Cosa nostra ha cercato sempre di legittimarsi attraverso un legame a filo doppio con il mondo cattolico. Dal prete di borgata all’alto prelato. E attraverso anche un’ostentata devozione a Dio, ai santi e alla Madonna. Lunga è la lista dei boss in prima fila nelle manifestazioni religiose. Lunga è la lista delle processioni che si fermavano davanti alle case dei mammasantissima con tanto di inchino della statua. A Catania il nipote del capomafia Nitto Santapaola era tra gli organizzatori della festa di Sant’Agata e portava la statua della patrona. L’organizzazione delle manifestazioni religiose è stata anche l’occasione per incassare i soldi del racket. Al commerciante imparentato con un poliziotto, per esempio, non venivano chiesti – come prassi – i soldi “per le famiglie dei carcerati” ma lo si esortava a concedere un contributo per la festa del santo protettore della borgata. Attraverso la religione i boss hanno conquistato tanto consenso popolare facendo forza sul perdono senza limiti che Dio concederebbe a tutti. E’ stata necessaria una guerra di mafia culminata nelle stragi di Capaci e via D’Amelio perché la chiesa facesse finalmente chiarezza e arrivasse – dalla Valle dei Templi di Agrigento, il 9 maggio del 1993 - l’anatema di papa Giovanni Paolo secondo contro i mafiosi. Prima di allora tanta distrazione e tanta collusione da parte di vescovi e sacerdoti. Il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, negli Anni Sessanta, mise pesantemente in dubbio l’esistenza della mafia che al massimo sarebbe stata una banale organizzazione criminale da temere molto meno del comunismo. Alcuni religiosi non solo tollerarono la mafia ma andarono pure oltre. Per esempio Stefano Castronovo, frate Giacinto da quando divenne francescano, ma per tanti Fra’ Lupara, a causa dei suoi rapporti con il capo mandamento Stefano Bontate. Frate Giacinto fu ucciso nel 1980 dentro il convento di Santa Maria di Gesù. Nella sua cella gli investigatori trovarono armi e alcuni milioni di lire in contanti. Don Agostino Coppola, che era cugino del boss Frank “Tre dita”, celebrò il matrimonio in latitanza di Totò Riina con Ninetta Bagarella. Coppola amministrava i beni della sconfinata diocesi di Monreale. Sospeso a divinis, si fece 13 anni di carcere. Tornato in libertà e non più prete si maritò con una donna appartenente alla famiglia mafiosa dei Caruana. Il pentito Antonino Calderone diceva che suo fratello Pippo si sentiva eletto da Dio. E un altro pentito, Leonardo Messina, ipotizzava che la mafia risalisse nientemeno che all’apostolo Pietro. Michele Greco, il più autorevole tra i boss palermitani, era detto il Papa. In carcere si portò una copia della Bibbia e prima che la corte del maxi processo si riunisse in camera di consiglio si rivolse così ai giudici: “Io vi auguro la pace, che è la serenità dello spirito e della coscienza. La serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie ma di nostro Signore che lo raccomandò a Mosè”. Michele Greco fu condannato all’ergastolo. Coloro che, già da tempo, avevano preso il suo posto alla guida di Cosa nostra, ovvero i corleonesi, rivelarono altrettanta “sensibilità” religiosa. Bernardo Provenzano nei suoi pizzini grazie ai quali spediva ordini durante la latitanza, faceva sempre riferimento a Dio e alla Provvidenza. Nel covo dentro il quale fu catturato c’era una copia della Bibbia con numerose annotazioni tanto che si parlò di un Codice Provenzano. Non solo testi ma anche arredi sacri caratterizzarono la latitanza di Pietro Aglieri, detto ‘U signurinu. Il suo covo era stato trasformato in una cappella. Il contumace Aglieri incontrò padre Mario Frittitta, carmelitano del rione Kalsa, che per questo fu arrestato. Il sacerdote, condannato in primo grado, venne assolto in appello. Voleva fare il miracolo, Frittitta, portare al pentimento ‘U signurinu. Ma non ci riuscì. Aglieri, detenuto dal 1997, non si è mai pentito. Oggi la chiesa abbonda di preti antimafiosi e la mafia di boss laicizzati che accettano persino i rapporti extraconiugali. Come sono cambiati i tempi. Non c’è più religione. Non quella tanto cara a Cosa Nostra.

Con il volere di Dio e di...Bernardo Provenzano, scrive su "La Repubblica" il 29 marzo 2018 Francesco Petruzzella - saggista. Per anni, inquirenti, studiosi e analisti sono andati alla ricerca del “codice Provenzano”: della formula – cioè – che avrebbe dovuto svelare i segreti di quel particolare fraseggio ricorrente negli scritti del capomafia corleonese, in cui veniva invocato ora Dio, ora la sua benedizione, ora la sua misericordia. «Io con il volere di Dio – scrive il capomafia a Luigi Ilardo – voglio essere un servitore, comandantemi e sé possibile con calma e riservatezza vediamo di andare avandi». Poche parole, legate da una grammatica improbabile e alchemica, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro, seminato dubbi e alimentato accesi dibattiti, che hanno spinto più d’un autorevole commentatore a interrogarsi su quella singolare forma di linguaggio ieratico che il capomafia ha per lungo tempo utilizzato nei suoi pizzini, per rappresentarsi ai suoi complici e sodali quale guida implacabile, ma devota e timorata di Dio. Questi piccoli pezzi di carta – gli investigatori ne contano 72 nel solo periodo compreso tra il 2001 e il 2004 – costituiscono la summa retorica del capomafia di Corleone; arrotolati con cura, sigillati con nastro adesivo e passati di mano in mano seguendo una precisa e rigorosa catena gerarchica, contengono ordini, suggerimenti e consigli ogni volta diversi. Tuttavia, ogni pizzino è simile ad un altro nella costruzione e nello sviluppo semantico: ogni scritto esordisce con un’invocazione, un’esortazione o un richiamo a Dio, a cui segue l’argomentazione d’interesse e, infine, la formula di chiusura, un saluto o un augurio, il più delle volte allargato alla famiglia del destinatario. «Poi mi dici che con il volere di Dio mi spiegherai di presenza gli accordi fatti con il Dottore – scrive ancora Provenzano a Ilardo – In quando a vederci, con il volere di Dio, aspettiamo il momento opportuno... Argomento, Per quello che si può, siamo tutti addisposizione luno con l’alreo, io spero che faremo sempre con il volere di Dio prima questo puntamento con G. e di tutto il resto, con il volere di Dio, ne parleremo di presenza. Grazie di tutto». Non meno ispirato, Provenzano si rivolge ad Antonino Rotolo, uomo d'onore e capo della famiglia mafiosa di Pagliarelli, dolendosi dell’impossibilità di poterlo incontrare personalmente: «Carissimo, ci fosse bisogno, che ci dovessimo vedere di presenza per commentare alcune cose. Mà, non potendolo fare di presenza, ci dobbiamo limitare ed accontentare della Divina Provvidenza del mezzo che ci permette. Così con il volere di Dio ho risposto alla vostra cara». Dopo la sua cattura, inquirenti e magistrati si sono perfino cimentati in un tentativo di esegesi della Bibbia personale che il capomafia teneva sul comodino, ritrovata zeppa di note e appunti nel covo di Montagna dei Cavalli, senza tuttavia che mai si riuscisse a dare di quelle annotazioni e di quei segni vergati sulle pagine sacre, una spiegazione diversa da quella, banale, secondo cui si trattava di semplici pro-memoria utili all’interpretazione dei passi più complessi delle Scritture. Così, invece di sciogliersi in poche battute, il problema si complica enormemente e sollecita nuovi dubbi, nuove domande: cosa sono, cosa rappresentano queste invocazioni, questi abbandoni alla volontà dell’Onnipotente? Davvero il Dio degli uomini può essere anche il Dio di un assassino? Davvero anche i carnefici vivono la medesima prospettiva esistenziale e religiosa delle loro vittime? Le invocazioni al Divino non sono certo un’esclusiva di Provenzano: se “u zu’ Binnu” invocava il Signore e leggeva la Bibbia, anche Michele Greco “il Papa” amava citare versi del Vangelo e tenere le Sacre Scritture sul comodino di casa; invece Leoluca Bagarella, cognato di Riina e killer del gruppo corleonese, Dio lo invocava poco prima di eseguire omicidi, esclamando: «Dio lo sa che sono loro che vogliono farsi uccidere e che io non ho colpa». E come non ricordare lo stupore degli agenti di Polizia, all’atto dell’irruzione nel covo del capomafia Pietro Aglieri,  dopo aver scoperto una cappella appositamente allestita per il latitante, ornata di paramenti sacri, presso cui il carmelitano Frittita celebrava messa e somministrava comunione; le cronache raccontano anche di un disinvolto Luciano Leggio, che da ergastolano spiegava ai cronisti dell’ANSA: «Prego ogni sera prima di addormentarmi … Mi raccomando sempre al padreterno (così chiamo Dio) perché mi aiuti a migliorarmi e mi mantenga disponibile verso tutto e tutti; dopo dico un requiem per i miei defunti e prego perché aiuti i miei cari». Sono tanti, ancora, gli aneddoti e le storie, tutte simili le une alle altre, in cui mafiosi devotissimi invocano con fervore Dio o la Santa Vergine, al punto da sospingerci a chiederci come possa conciliarsi, come possa ritenersi compatibile questo forte sentire religioso manifestato dagli uomini di mafia, con l’esercizio della violenza e della sopraffazione, con la dottrina di morte di cui essi sono portatori. Il Dio che noi conosciamo è amore e gratuità: Ubi Caritas et amor, deus ibi est, secondo gli insegnamenti evangelici (1 Giovanni, 4, 8). E’ un Dio – per dirla con il teologo Alberto Maggi – che non domina ma che si mette al servizio degli uomini: e, dunque, nessuno tra gli uomini potrà pensare di dominare altri uomini e, tantomeno, farlo in suo nome. E’ un Dio al tempo stesso padre e madre – secondo gli insegnamenti di Papa Luciani – che perdona, comprende, accoglie, che è misericordioso e caritatevole. Basta questo, per comprendere che il Dio di Provenzano non è e non potrà mai essere il Dio del Vangelo e delle Sacre Scritture. Piuttosto, è un simulacro vuoto, costruito all’insegna della discrezionalità etica, attraverso schemi di comportamento tribali che mutuano concezioni e modelli della peggiore cultura meridionale, quella del feudo, della robba e dei padroni. E’ un Dio figlio della cultura del favore, di quella cultura che perpetua la dipendenza dalle catene del potere. E’ un Dio che impone cieca obbedienza, invece di contribuire a far crescere desiderio di emancipazione e consapevolezza dei diritti. E’ un Dio creato su misura per giustificare l’accumulazione parassitaria e negare dignità e libertà ad ogni uomo. E’ un Dio che Provenzano e altri mafiosi prima di lui, hanno pensato di poter utilizzare per costruire l’identità forte e carismatica del capo, secondo uno stile di leadership che richiede il riconoscimento e la legittimazione di un potere assoluto e privo di controllo, sacro e ispirato dal Divino, o quanto meno in linea con la sua volontà. Un Dio falso e bugiardo, che però è tornato e torna utile proprio in un mondo – quello delle mafie – in cui i rituali dell’interazione, i simboli, i segni e i gesti assumono un peso e un rilievo di altissimo valore. Lo aveva capito, primo tra tutti, Giovanni Falcone, secondo il quale «l’inter­pretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore [...]. Tutto è messaggio, tutto è carico di significato nel mondo di Cosa Nostra, non esistono particolari trascurabili». Alla Chiesa e ai suoi uomini più coraggiosi, resta oggi il difficile compito di contrastare – dopo averla avallata e giustificata per decenni, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno d’Italia – questa blasfema rielaborazione teologica, che nel silenzio di una gerarchia ecclesiastica spesso indifferente, talvolta complice, ha consentito a Provenzano e a tanti come lui, di invocare impunemente “il volere di Dio” in favore del popolo delle mafie.

Scomuniche e verità scomode, scrive su "La Repubblica" il 6 aprile 2018 Augusto Cavadi - Consulente filosofico e saggista. Le scomuniche ai mafiosi, come le grida di manzoniana memoria, si sono moltiplicate in proporzione alla loro inefficacia. Già nel 1945 i vescovi siciliani ricordano che sono automaticamente (“ipso facto”) scomunicati “tutti i rei sia di rapina sia di omicidio”. Seguono anni di ambiguità sotto l’egida del cardinale Ernesto Ruffini che non era un filo-mafioso, ma uno dei molti che (anche nella magistratura e società civile) riduceva la mafia a fenomeno delinquenziale come tanti nel mondo, senza vederne lo spessore politico-economico. Nel 1993 Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, non usa il termine tecnico “scomunica” ma lancia ai mafiosi quel grido diventato celebre (“Convertitevi: una volta verrà il giudizio di Dio!”) che risuona ancora più eclatante di una mera dichiarazione canonica. Da allora, e specialmente dopo l’assassinio di don Puglisi e di don Diana, i vescovi ribadiscono che, anche senza una condanna esplicita, chi uccide o danneggia gravemente e intenzionalmente il prossimo si pone da solo fuori dalla comunione ecclesiale (ex communione). Si arriva così al recente pronunciamento di Francesco I nei pressi di Sibari il 21 giugno 2014: “I mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio”. Chi segue i complessi rapporti fra Chiesa cattolica e mafie non può non constatare con soddisfazione la crescente consapevolezza, nei pastori e nei fedeli, dell’incompatibilità fra il vangelo e la lupara. Ma, con altrettanta lucidità, non può chiudere gli occhi su alcuni aspetti problematici della questione. Una prima considerazione: i mafiosi non vivono in una sfera vitrea fuori dal tempo e dallo spazio, risentono dei mutamenti culturali epocali esattamente come il resto dei cittadini. La secolarizzazione, che segna mentalità e costumi del Meridione, incide anche sul peso che essi danno agli aspetti teologici, liturgici e canonici. In alcune lettere intercettate e pubblicate, Matteo Messina Denaro confessa chiaramente di non ritenersi più cristiano: non crede più in Dio né in una vita dopo la morte. Una seconda considerazione: una cosa è condannare ex cathedra i mafiosi in generale e tutta un’altra cosa è applicare la condanna, nella concretezza dei territori specifici, ai singoli mafiosi in carne e ossa. Se sono papa o vescovo è relativamente facile comminare scomuniche; se sono parroco in un quartiere popolare di Catania, o in un piccolo borgo dell’Aspromonte, non è altrettanto facile negare a un noto boss il matrimonio in chiesa o il funerale religioso in pompa magna. Ma ciò che riterrei decisiva è una terza, e ultima, considerazione. Se scopro che la mia cucina è infestata da formiche o scarafaggi, prima di attrezzarmi d’ insetticidi, non mi chiederò che cosa attragga tanto gli sgraditissimi ospiti? Analogamente, prima di studiare strategie per cacciare i mafiosi dalla comunità ecclesiale, sarebbe più logico interrogarsi sulle ragioni per cui i mafiosi frequentano gli ambienti cattolici e tengono tanto a occupare posti di rilievo al loro interno (dirigenti di associazioni, superiori di confraternite rionali, amministratori di opere pie…). Si potrebbe scoprire una verità scomoda ma lampante: curie vescovili e parrocchie attirano mafiosi e amici di mafiosi, come il cacio attira i topi, perché sono luoghi dove girano soldi e si muovono leve di potere. Sarebbe così – si chiedono alcuni teologi più schietti – se le comunità cattoliche vivessero in maniera più sobria, più libera dall’affarismo economico, dalle relazioni con ministeri e assessorati, dalle manovre elettorali? Chiese più vicine allo stile evangelico - alla solidarietà con gli impoveriti e gli emarginati; alla cura dell’ambiente naturale; all’osservanza delle regole democraticamente stabilite; al rispetto laico della libertà di coscienza di tutti… - sarebbero ancora appetibili agli occhi dei mafiosi? O questi, piuttosto, se ne terrebbero lontani con sussieguo, come da congreghe di patetici idealisti?

Chiesa e mafia, una ferita sempre aperta, scrive su "La Repubblica" il 7 aprile 2018 Alessandra Dino - Docente di Sociologia della criminalità e della corruzione, Università di Palermo.   Interrogarsi oggi sul rapporto tra Chiesa e mafia chiama in causa differenti piani di analisi. Occorre chiedersi il significato delle devozioni e dei riti religiosi, il ruolo svolto dalla “fede” dentro i contesti criminali; ma è indispensabile anche considerare le posizioni espresse dalla Chiesa nei confronti delle mafie sia nei pronunciamenti ufficiali delle gerarchie ecclesiastiche, sia nelle prassi pastorali sui territori, sia nel dibattito ecclesiologico. Di cruciale importanza è infine l’approfondimento di alcune questioni sollevate dagli studi e sollecitate dalla cronaca; tra queste, il rapporto tra giustizia divina e giustizia terrena, tra pentimento e collaborazione, tra peccato e reato; la possibilità di elaborare una pastorale antimafiosa e il dibattito sulla scomunica per mafiosi e corrotti. Punti nodali che chiamano in causa i non semplici rapporti tra Chiesa e Stato, con una Chiesa unita nei pronunciamenti ma incapace di esprimere, nella prassi, una linea di condotta unitaria. Il legame tra ritualità religiosa e mafia è risalente nel tempo. Col suo ricco corredo di riti e di cerimonie sacre, la religione offre agli “uomini d’onore” e alle loro donne certezze e modelli identificativi. Attribuisce sacralità all’organizzazione, prestigio all’autorità del capo; lenisce inquietudini e momenti di crisi, facendo da sostrato alla coesione del gruppo e agendo come agenzia primaria di produzione di senso. Chiedersi, quindi, quale sia lo spazio oggi occupato dalla questione mafiosa nella pastorale della Chiesa cattolica e nel dibattito ecclesiologico, significa – come ha scritto Rosario Giuè – confrontarsi con una “ferita aperta”. Pesano i silenzi dei ministri della Chiesa. Primo fra tutti quello della Conferenza Episcopale italiana sulle stragi di mafia degli anni ’90, certo non mosso dal desiderio di tener lontano dal regno di Dio il regno di Cesare; ben altra loquacità i vescovi italiani hanno, infatti, mostrato nel contrastare il referendum sulla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Profonde le ferite aperte tra i cattolici dalla netta contrapposizione dell’Episcopato alla legge sul divorzio, nel 1974. Durissima l’opposizione della Chiesa, nel 1978, contro legge sull’interruzione di gravidanza che stava per essere approvata dal Parlamento. Ciononostante, non sono in pochi a sostenere che il sacerdote debba limitarsi a curare lo “spirito” piuttosto che produrre un impegno concreto contro la mafia, offrendo utili scappatoie a chi riesce a conciliare pentimento religioso e fedeltà agli “amici” mafiosi. Recentemente, poi, l’emergere di nuovi scenari chiede strumenti di analisi più raffinati. Di fronte al processo di secolarizzazione che coinvolge anche le organizzazioni criminali si potrebbe ritenere, infatti, che le strade della chiesa e quelle della mafia si avviino a divenire davvero divergenti. La situazione, però, si mostra più complessa e accanto a indicatori di laicizzazione (si pensi a Matteo Messina Denaro che si professa esplicitamente ateo), permangono evidenti richiami a forme di pseudo-sacralità che fanno presagire come non imminenti sia l’abbandono dei simboli religiosi, sia il ricorso alla “fede” da parte dei mafiosi. L’accreditamento che le sacre liturgie offrono è difficilmente sostituibile con altra simbologia di analogo impatto e condivisibilità, ma anche se ciò avvenisse non sarebbe da considerare una vittoria, se la Chiesa non prendesse coscienza dell’ambiguità cui si espone finché rimane saldo il suo legame col potere. E se nel documento del 2010 i vescovi italiani hanno ribadito l’opzione in favore dei poveri, per indirizzarsi concretamente su questo percorso occorrerebbe tranciare quell’alleanza coi potenti che ha reso possibile che l’Italia, culla del cattolicesimo, fosse anche culla di stragi e corruzione. Lungo e travagliato l’iter che ha condotto la chiesa a dichiarare inconciliabili mafia e Vangelo. Difficile capire il perché di dubbi ed esitazioni che non si sono manifestati di fronte a problemi di analoga importanza, come aborto, divorzio, eutanasia. Tortuoso anche il percorso per la beatificazione di Padre Puglisi. Nel frattempo Papa Francesco è tornato con rinnovata chiarezza a decretare la scomunica per “tutti” i mafiosi. È un tema sul quale la Chiesa aveva già dibattuto nel 1944, nel 1952 e nel 1982 esprimendo l’estensione ai mafiosi della scomunica verso “tutte le manifestazioni di violenza criminale”. Affermando nel 1994 “l’insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo” di “tutti coloro che, in qualsiasi modo, deliberatamente, fanno parte della mafia o ad essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa”. Ribadendo tale opposizione nel 1996, nel 2010 e nel 2012. Ma il papa è andato oltre in quest’operazione di chiarezza; celebrando con don Luigi Ciotti la giornata della memoria e dell’impegno nel 2014 e indossando la stola sacerdotale di don Peppino Diana; denunciando corrotti e corruttori che con le mafie fanno i loro affari. «Scandaloso chi dona alla Chiesa ma ruba allo Stato», ha detto il papa, definendo la vita dei «cristiani e dei preti corrotti» «una putredine verniciata». Istituendo, infine, nel giugno del 2017, un gruppo di lavoro incaricato di “approfondire a livello internazionale e di dottrina giuridica della Chiesa” la questione della scomunica per corruzione e associazione mafiosa. Di fronte a questo delicato crinale, l’auspicio è che la Chiesa non si spacchi ancora una volta, attratta dalle sirene del denaro e del potere, dilacerata da un confuso sentimento di pietas, aprendo salvifiche crepe all’esibita devozione di corrotti, collusi e mafiosi; che riesca a schierarsi dalla parte dei più deboli, non avendo timore di confrontarsi col cambiamento, impaurita da una “secolarizzazione” che ha già consumato quando ha accettato il mortale abbraccio coi potenti e i mafiosi.

Ernesto Ruffini, un cardinale dei suoi tempi, scrive su "La Repubblica" il 5 aprile 2018 Vincenzo Ceruso - Saggista, studioso della criminalità mafiosa. Ernesto Ruffini è stato un complice della mafia? La fama che circonda il cardinale di Palermo, al di là delle critiche fondate che gli sono rivolte, è il prodotto di un tipico modo inquisitorio di leggere la storia, per cui tutto si riduce a trovare colpevoli e innocenti, senza entrare nella complessità dei tempi e degli uomini. Non è facile, in pochi tratti, descrivere una figura come quella di Ruffini, arcivescovo di Palermo durante un lungo e complicato periodo. L’alto prelato prende possesso del suo incarico in una città umiliata e ridotta in macerie dalla guerra, nel 1946, e la lascia nel 1967, più ricca, certamente, tornata a rivestire il ruolo di capoluogo dell’isola; ma anche completamente sfigurata dalla speculazione edilizia, grazie alla quale si sono arricchiti tanti boss mafiosi. Ruffini è originario di Mantova e si è formato nella Chiesa preconciliare, come “un curiale tra carità e cultura” (Angelo Romano, 2002, p. 41). Colui che arriva in Sicilia è un uomo d’ordine, vicino all’ideologia del Sant’Uffizio, vive le passioni della Guerra Fredda ed è un acceso anticomunista. È un convinto sostenitore del partito cattolico e della necessità di schierare il suo popolo al fianco della Democrazia Cristiana, contro l’avanzata socialcomunista. Al Cardinale Ruffini possono essere rimproverate molte cose, in particolare di aver considerato la mafia come una forma comune di delinquenza e come il prodotto del degrado siciliano; di non aver capito il suo carattere di organizzazione segreta e il non aver voluto vedere i suoi collegamenti con il potere e con le classi agiate. Senza entrare nel merito delle singole accuse, proviamo però ad accostare due citazioni:

“Non è mai esistita un’organizzazione criminale segreta, gerarchica e centralizzata chiamata mafia, 'Ndrangheta o Onorata Società, i cui membri siano legati l’un l’altro da giuramenti di mutua fedeltà e assistenza, effettuati nel corso di tenebrose cerimonie”;

“Il titolo di mafioso venne quindi esteso a significare persone e costumi di particolare parvenza ed eleganza; ma poi assunse il valore attuale di associazione per delinquere, e qui è necessario richiamare le condizioni dell’agricoltura nella Sicilia Centrale e Occidentale di quei tempi. Venuta meno la difesa che proveniva dal l’organizzazione feudale e infiacchitesi il potere politico, i latifondisti ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e di poveri agricoltori per assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si venne così a costituire uno Stato nello Stato, e il passo alla criminalità, per istinto di sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve”.

La prima citazione è del sociologo Pino Arlacchi e la troviamo nel suo classico lavoro, La mafia imprenditrice, pubblicato all’inizio degli Anni Ottanta; la seconda si trova nella lettera pastorale scritta dal cardinale Ruffini nel 1964. Non è difficile stabilire chi dei due si sia avvicinato di più alla realtà. Ruffini ha capito dunque tutto? Al contrario, per esempio non ha promosso un’azione educativa su quei punti di contatto che esistono tra ideologia mafiosa e mentalità siciliana. Peraltro, si tratta dell’invito che gli viene rivolto, in una famosa lettera scritta dalla Segreteria dello Stato Vaticano, all’indomani di una strage e di una pronuncia contro la mafia da parte del pastore valdese Panascia. Allo stesso modo, non ha saputo, o non ha voluto, vedere le degenerazioni del partito cattolico e le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni. Ma quel che non può essere rimproverato a Ruffini è di aver vissuto nel suo tempo, cioè con le categorie e le conoscenze sulla mafia che all’epoca sono condivise da gran parte della magistratura. Il vescovo mantovano avrebbe potuto leggere le cronache che il giornale comunista L’Ora scrive sulla mafia e avrebbe potuto capirne di più sul fenomeno. Ma non credo si ricordino molti vescovi che, allora, abbiano attinto informazioni dalla stampa comunista. Ruffini ritiene che la Sicilia sia gravemente diffamata dagli avversari politici della Democrazia Cristiana, che usano la questione criminale per scopi politici (le sue accuse di diffamazione si estendono a Danilo Dolci e al bellissimo romanzo Il Gattopardo, scritto da Tomasi di Lampedusa). Ma anche questo non fa di lui un filomafioso. Nel 2010, l’allora ministro degli Interni Roberto Maroni, il cui impegno sul versante repressivo della lotta antimafia non è mai stato messo in discussione, interviene sdegnosamente contro lo scrittore Roberto Saviano, che ha parlato di infiltrazioni mafiose al nord. Stesso riflesso condizionato? Con una piccola differenza: Ruffini scrive negli anni Sessanta del '900 e possiede qualche informazione in meno su Cosa Nostra, di quante ne abbia il ministero degli Interni negli anni Duemila.

Il tenebroso Fra Giacinto, tutto pistola e frustini, scrive su "La Repubblica" il 30 marzo 2018 Enzo Mignosi – Giornalista. Era alto e bello, aitante e tenebroso. Aveva i capelli d’argento, gli occhi magnetici, il volto da attore. Era un frate. Un frate francescano. Si chiamava Stefano Castronovo, fra Giacinto per l’ordine dei Padri Riformati. Ma intorno al convento di Santa Maria di Gesù, dove trascorreva i suoi giorni di uomo consacrato al Signore, gli avevano affibbiato un soprannome che diceva tutto, “frate lupara”, anche se insieme alla corona del Rosario, nel cassetto della sua cella, nascondeva non un fucile ma una pistola calibro 38, sempre carica e con il colpo in canna. “La mia passione è il tiro a segno”, diceva per spegnere ogni maldicenza. Lo uccisero nel monastero il 6 settembre del 1980. Un’imboscata in perfetto stile mafioso, un delitto anomalo che sconvolse la borgata ai piedi del Monte Grifone, tra le campagne di Ciaculli e Belmonte Chiavelli, da sempre in mano alla famiglia Bontade, vecchia mafia, proprio nei giorni che preparavano la grande guerra con i corleonesi. Fra Giacinto era arrivato nel convento molti anni prima, accompagnato da una pessima reputazione, tra i mugugni dei superiori per nulla entusiasti di ritrovarsi nella loro comunità un confratello più che chiacchierato, e pure sanzionato dal divieto esplicito, sancito dal vescovo, di celebrare messa e pronunciare sermoni. Troppe voci, troppi pettegolezzi erano fioriti nella borgata dove i soliti bene informati ripetevano un ritornello che non faceva onore all’ordine monastico e, soprattutto, non faceva a onore a lui, fra Giacinto. Si sussurrava che nell’antico cimitero patrizio, accanto alle vecchie mura, si celava una necropoli clandestina, che sotto terra fossero sepolte decine e decine di cadaveri. Morti di mafia. Si parlava di boss usciti di casa e mai ritornati, di picciotti scomparsi misteriosamente. Tutti vittime della lupara bianca. Strangolati e seppelliti in un cimitero, dove nessuno li avrebbe mai cercati. Si parlava di fra Giacinto come di un donnaiolo impenitente, di un uomo assetato di denaro, capace di tutto, perfino di trasformare la casa di Dio in una centrale dell’usura. Si malignava sui suoi incontri notturni con ambigui personaggi mai identificati, forse agenti che raccoglievano le soffiate del monaco. Altro ancora si raccontava. Per esempio, che tra i cipressi secolari latitanti di alto rango avessero trascorso tante notti serene, lontani dai pericoli di un’improvvisa retata. Come Luciano Liggio, l’inafferrabile primula corleonese a lungo inseguita dal vicequestore Angelo Mangano. Poi c’erano i fatti, noti e conclamati. Soprattutto gli stretti rapporti tra il frate e i Bontade, padre e figlio: don Paolino, l’anziano patriarca che aveva schiaffeggiato pubblicamente un deputato monarchico che si era rifiutato di seguire le sue indicazioni di voto, e Stefano, il “principe”, destinato a diventare il numero uno di Cosa Nostra prima di finire sotto il tiro dei corleonesi. Fra Giacinto era di casa nella villa dei boss, a Villagrazia, trattato con il riguardo e il rispetto dovuto alla gente che conta. E i Bontade ricambiavano spesso le visite recandosi in convento per lunghe e segretissime conversazioni, al riparo da occhi indiscreti. Troppo amici, troppo vicini, il francescano e i mafiosi. Lo sapevano tutti a Santa Maria di Gesù, e la domanda correva di bocca in bocca: chi era quel frate bello e tenebroso, che ai rigori della vita monastica preferiva la mondanità dei salotti borghesi, assiduo frequentatore dei palazzi del potere romano, grande elettore democristiano, legato a Giovanni Gioia, l’ex ministro che rastrellava i voti del clan Buscetta, e all’eurodeputato Salvo Lima, forse ritualmente affiliato a Cosa Nostra? Come conciliava l’abito sacro che portava addosso con le sue relazioni disinvolte e spericolate? Gli spararono a bruciapelo due killer sbucati dalle nebbie alle nove del mattino, quel fatale 6 settembre di trentasette anni fa. Il frate se li ritrovò davanti alla sua cella, al secondo piano del convento. Non gli lasciarono scampo. Due pallottole gli spaccarono il cuore, due gli squassarono la testa. Nessuno vide e sentì nulla. Un’ora dopo, quando i poliziotti della scientifica arrivarono in convento, le sorprese non mancarono. Fra Giacinto aveva fatto voto di povertà ma viveva in una suite con sette stanze, due riservate alle visite pubbliche e private, cinque destinate a camere da letto. Gli arredi erano elegantissimi, le poltrone in pelle, i mobili ricercati. L’alloggio trasudava ricchezze da ogni angolo. C’erano una biblioteca con centinaia di libri pregiati, la tv a colori, un bar personale con un’incredibile varietà di liquori, un impianto stereo hi-fi. Gli agenti trovarono anche la pistola Walther P38, una collezione di frustini e cinque milioni di lire in banconote di grosso taglio. Un’incredibile quantità di elementi da valutare e da mettere in relazione a quanto sarebbe successo sette mesi più tardi, con l’omicidio di Stefano Bontade e, a seguire, con quello di Totuccio Inzerillo, i padroni di Cosa Nostra. Due grandi delitti che spianarono la strada alle truppe di Totò Riina, sceso da Corleone alla conquista di Palermo. Connessione mai dimostrata. Nessuno dei pentiti ha mai detto una sola parola sull’omicidio di fra Giacinto, rimasto il mistero più impenetrabile di quegli anni di piombo. Il caso fu archiviato dopo mesi e mesi di giri a vuoto. Nessun testimone, nessuna ipotesi concreta, nessun colpevole. Solo Leonardo Sciascia, sebbene poco incline ai facili sospetti, si sbilanciò sul movente in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera dopo qualche tempo. Lo scrittore di Racalmuto tuonò contro la storia oscura di certi conventi siciliani e si lasciò andare a pesanti allusioni contro il monaco (“era un soggetto ben noto per i suoi intrallazzi e i suoi libertinaggi”), sposando infine la tesi che fosse un confidente della polizia in piena attività. Fra Giacinto, disse Sciascia, era stato ucciso dalla mafia per le sue soffiate. Era morto da spione.

I "discendenti” diretti dell'Apostolo Pietro, scrive su "La Repubblica" il 4 aprile 2018 Sergio Nigrelli - Giornalista. I mafiosi, a modo loro, sono molto "religiosi". Ma hanno una considerazione così alta dell'organizzazione che, ogni tanto, li porta a straparlare e a dire cose quantomeno improbabili. Diciamolo pure: corbellerie. "Tutti noi uomini d'onore pensiamo di essere cattolici. Cosa Nostra si vuole farla risalire all'apostolo Pietro". Parola di Leonardo Messina, pentito storico, da San Cataldo, provincia di Caltanissetta, Sicilia. Il che sarebbe come dire, parafrasando il Vangelo di Matteo, che "Tu sei Pietro e su questra pietra edificherò la mia...Cosa Nostra". Corbellerie, appunto. Ma Leonardo Messina non si ferma qui. Il collaboratore di giustizia, infatti, nel 1992 parla e per la prima volta, addirittura di una Bibbia dell'organizzazione, quasi una sorta di raccolta di regole comportamentali. Balle? Probabilmente sì. Investigatori e storici della mafia, infatti, sono stati sempre del parere che, data l'estrema segretezza dell'onorata società, di scritto non sarebbe dovuto esistere nulla. "Sono a conoscenza - sosteneva Messina - che esiste una raccolta scritta delle regole di Cosa nostra da noi denominata Bibbia. Ne ho sentito parlare da tale Giambarresi Calogero di Riesi il quale ebbe a dirmi una volta che non era vero che non esistevano queste regole scritte e che questo libro era stato consegnato da Giuseppe Di Cristina (il capo delle "famiglie" di Caltanissetta prima della sua uccisione, avvenuta nella primavera del 1978) prima di morire a Salvatore Rizza, socio di Giuseppe Madonia, poi posato”. Come prevedibile, su questi aspetti delle rivelazioni di Leonardo Messina gli investigatori e i magistrati non sono riusciti a trovare alcun tipo di riscontro. E, in effetti, se la presenza improbabile di un manoscritto del genere avrebbe potuto essere più che giustificato nella mani di un boss come Giuseppe Di Cristina, un pò meno lo sarebbe se fosse finito nelle mani di Salvatore Rizza, uomo da ultima retrovia. Si può mai credere che in un'organizzazione dove si parla a cenni, occhiate, mezze parole e pizzini spesso indecifrabili, possa esistere un Bignami-Bibbia della mafia? Credo proprio di no. Ma le rivelazioni di Messina porteranno ancora oltre. Il mafioso pentito sancataldese, infatti, oltre a parlare del classico rito della "punciuta" che per i clan nisseni avveniva nei locali di un ex vetreria abbandonata, dinanzi il santino e le parole di rito, ebbe pure a raccontare che all'interno di quel capannone abbandonato il tutto avveniva dinanzi a un grande drappo di velluto rosso con l'immagine dell'Annunziata che faceva da sfondo a ogni iniziazione. In seguito a queste ultime dichiarazioni si innescò una curiosa querelle con l'allora vescovo di Caltanissetta Alfredo Garsia che, sentendosi offeso dall'eventuale uso improprio del drappo, ne chiedeva, qualora realmente esistente, la restituzione. Come dire: "Giù le mani dall'Annunziata. Da sempre è cosa nostra...".

Il carmelitano scalzo e il latitante mistico, scrive su "La Repubblica" il 2 aprile 2018 Lucio Luca - Giornalista di Repubblica. Lo portarono in manette all'Ucciardone una mattina di novembre di vent’anni fa e quelle immagini fecero subito il giro del mondo. Un frate carmelitano a testa bassa fra due poliziotti della squadra mobile con l’accusa infamante di aver favorito la latitanza di un boss mafioso. E mica uno qualsiasi. No, quel padrino inseguito dagli “sbirri” di tutta Italia era Pietro Aglieri, il più grosso e ricco trafficante di droga della Sicilia occidentale. Un pezzo da novanta della Cosa Nostra che nel suo percorso mistico di avvicinamento a Nostro Signore - tra una partita di coca e un carico di eroina da raffinare - si era fatto costruire un altare nel suo rifugio segreto e, per celebrare messa ed espiare i suoi peccati, di un prete aveva sicuramente bisogno. Fu così che don Mario Frittitta, il parroco della Kalsa, il quartiere arabo di Palermo nel quale erano nati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si ritrovò alla fine del ’97 in prima pagina su tutti i giornali e le televisioni. La notizia apparve all’alba su Televideo e nel giro di qualche ora diventò di dominio pubblico. Da tempo giravano voci su quel frate, pochi però si aspettavano un epilogo del genere. I poliziotti lo accusarono di avere incontrato più volte Aglieri nel suo rifugio e di aver interpretato con un eccesso di zelo il suo mandato pastorale. Non solo confessioni e messe cantate, insomma, ma anche preziosi consigli al boss del tipo: "Pietrù, non pentirti mai con la giustizia terrena...”. Rimase quattro giorni in isolamento, poi lo spedirono lontano dalla Sicilia. Il suo quartiere, manco a dirlo, si schierò compatto con lui, persino il vescovo dell'epoca manifestò "grande dolore" per l'arresto di quel religioso e si scagliò contro "i giornali ingiusti che sono perverse cattedre di violenze di ogni genere". In primo grado don Mario si difese con i denti: "Certo che ho incontrato Pietro Aglieri, ma io volevo solo convertirlo". I giudici non gli credettero e lo condannarono a due anni e quattro mesi. Poi il colpo di scena: assolto in Appello e in Cassazione. "La conversione del peccatore, anche del mafioso messo al bando dalla stessa Chiesa, è un diritto che ogni sacerdote può esercitare. E dunque non può essere condannato per favoreggiamento un prete che ha incontrato di nascosto un latitante per portargli conforto spirituale". Le motivazioni della Suprema corte non lasciarono spazio ai dubbi: "I sacerdoti non sono tenuti a correre da giudici e carabinieri per consegnare persone o informare di reati dei quali vengono a conoscenza a causa del loro ministero". Insomma, come sostiene il diritto canonico, rientra nei compiti dell'uomo di Chiesa la "conversione del peccatore, sebbene privato dell'ausilio sacramentale dell'eucarestia". Nessun reato, comportamento lecito da prete, assolto con tante scuse. Un trionfo per don Frittitta che, rientrato alla Kalsa, fu accolto da eroe e ancora oggi, ogni tanto, concede interviste per raccontare a chi glielo chiede “quanto fu maltrattato da pm e giornalisti”. Lui, ovviamente, ha perdonato tutti fin da quella domenica di maggio del 2001, quando nell’omelia subito dopo la sentenza definitiva di assoluzione, invocò la misericordia di Dio sui suoi accusatori. Con centinaia di fedeli in piedi a fargli la standing ovation e a chiedergli una foto ricordo per l’occasione. Mentre qualche fan un tantino più esagitato sfogava sui cronisti, "sbirri e sciacalli", la sua rabbia. Storie vecchie, per don Mario è acqua passata. Ha chiesto i danni per quei quattro giorni in cella, un risarcimento - sia chiaro - da devolvere ai bambini poveri della Kalsa. "Mi è stato concesso il privilegio umano e cristiano di capire la sofferenza degli altri" ha recentemente raccontato a un giornale online. "Lo rifarei? Certo che lo rifarei. Io sono un uomo di Dio e un uomo di Dio cerca la pecorella smarrita sulla roccia più impenetrabile. Lo rifarei oggi, domani, dopodomani. Chiaro?". Chiarissimo. Ha pure difeso gli inchini alle case dei boss - le "pecorelle smarrite" appunto - durante le processioni religiose. E ci ha persino fatto sapere che mica era solo lui il prete che andava a confessare i latitanti: "A Palermo ce ne sono tantissimi...". Sembrava scomparso dai radar fino quando i giornalisti "sciacalli" raccontarono l'ultimo incidente giudiziario nel quale era incappato: una mansarda abusiva sul terrazzo della sua chiesa. Niente di grave, per carità, probabilmente soltanto l'estremo tentativo di dormire un po' più vicino al cielo e a quel Padre che ha servito per tutta la vita. I parrocchiani l'hanno immediatamente perdonato. Ma questa, onestamente, non è una notizia.

Don Agostino, l'amico intimo dei Corleonesi, scrive su "La Repubblica" l'1 aprile 2018 Daniele Billitteri - Giornalista e scrittore. “Gesù, Gesù, ora pure un parrino in Cosa nostra”, disse Giuseppe Calderone a suo fratello Antonino che, quella notte del 1969, guidava nel buio. Stavano tornando a Catania da Palermo dove si era svolta una riunione della Commissione regionale della mafia, della quale Giuseppe faceva parte. Quel giorno, a un certo punto, nella stanza del summit era entrato un prete che, con tutti i dubbi del caso sulla fisiognomica, aveva proprio la “faccia del mafioso”: viso rozzo, occhiali bruniti con la montatura d’oro, radi capelli bianchi. Si chiamava Agostino Coppola, un don sia in senso ecclesiale che mafioso. Don di chiesa, dunque, in quanto parroco di Carini, e don di Cosa Nostra, appena “combinato” a Ramacca. Ma essere ammesso a quella riunione lo aveva, è il caso di dire, consacrato. Era una presentazione ai massimi livelli e, in ossequio al protocollo canonico, avevano detto: “Lui è come a noialtri”. Aveva 32 anni. Uno promettente, insomma, visti gli organigrammi dell’allora gerontocrazia mafiosa. D’altra parte don Agostino era uno di “buona famiglia”. Era, per esempio, nipote di Coppola Francesco che a Bruccolino era diventato Frank Coppola e boss. E siccome aveva avuto un incidente con la perdita di due dita di una mano, aveva aggiunto al nome americanizzato anche il temibile nickname "three fingers”, tre dita. Agostino era diventato prete perché nello stile di vita della Sicilia Antica, farsi prete era una svolta: intanto era un lavoro, poi ci si procacciava un’istruzione nei seminari e, se andava bene, si finiva con l’ “amministrare” un territorio, quello della parrocchia o uno, addirittura, diocesano. Va ricordato che la Diocesi di Monreale è una delle più grandi della Sicilia ed è sede arcivescovile. E don Coppola, all’apice della sua carriera ecclesiastica, ne sarebbe presto diventato amministratore dei beni. Il territorio è quello che è: Palermo, Monreale, Corleone, Partinico, Montelepre. Nella toponomastica mafiosa sono i Luoghi dell'Origine, quelli della mafia del feudo, dei campieri, dei soprastanti. E Agostino viene attratto come la tavoletta calamitata di un ficodindia attaccata al frigorifero di casa.  Quasi impossibile salvarsi. Chi sono gli amici di padre Coppola? Uno fra tutti: Luciano Liggio. La “primula di Corleone” diventa il mentore principale del giovane prete rampante che comincia ad operare come “uomo di fiducia” in operazioni dove la fiducia (con la fedeltà) era il primo requisito. E’ la stagione in cui in Cosa Nostra alcuni giovani puledri cominciano a scalpitare per i vincoli, diciamo così, etici su certe attività. Tutti sanno che la mafia non si occupa di meretricio e, fino alle soglie degli Anni Settanta, c’era una certa opposizione ad occuparsi di traffico di stupefacenti. Tra le cose “proibite” in Sicilia, c’erano i sequestri di persona. Troppo “scruscio”, troppo clamore che attira sbirri, controlli, provvedimenti, lacera consolidate reti di rapporti amichevoli tra le cosche e certi apparati pubblici. Ma Liggio se ne fotte, è rampante, violento, vanesio al limite di un narcisismo maniacale. Così organizza la sua cosca e la specializza nei sequestri di persona. Comincia con Luciano Cassina, figlio di uno dei più importanti imprenditori palermitani. Ma entra in conflitto coi vecchi vertici di Cosa nostra. Così, prudentemente, si allontana e se ne va in Calabria da dove gestisce altri due rapimenti tra i quali quello del conte Rossi di Montelera. E in Calabria si porta pure don Coppola che però si “spoglia” e per non dare nell’occhio arriva in compagnia di una donna. Il ruolo del bis-don era quello di tenere i contatti con le famiglie dei sequestrati e incassare i riscatti. Non è cosa che si possa affidare al primo che passa. E Agostino se la cava benissimo. Ma poiché la storia della mafia è costellata di Misteri che non sono misteri, gli investigatori gli zompano addosso, lo denunciano, trovano in casa sua milioni provenienti dal sequestro Rossi. Padre Coppola evita la prima condanna (per il sequestro Cassina) perché in suo favore si muove addirittura il potentissimo arcivescovo di Monreale monsignor Corrado Mingo che dichiara sotto giuramento di essere stato lui a chiedere a padre Coppola di contattare i sequestratori e offrirsi come mediatore “a tutela della incolumità del rapito”. Il che, tuttavia, dimostra che il monsignore sapeva benissimo quanto valeva il suo don. Ma con il sequestro di Rossi di Montelera la cosa non funziona e Coppola viene condannato a 14 anni di galera.  Soltanto dopo la scarcerazione viene finalmente sospeso “a divinis” e spogliato dell’abito talare. E, come Napoleone, don Agostino, stette e dei di che furono l’assalse il sovvenir, come quando aveva celebrato le “nozze latitanti” del Capo dei Capi Totò Riina con Ninetta Bagarella. E non sappiamo quali altri episodi del ministero sacerdotale lo abbiano visto protagonista tra battesimi, estreme unzioni matrimoni e funerali. La salute non era granché. Problemi polmonari lo costringevano a frequenti ricoveri in ospedale. Ma ora era “spogliato”, libero dal vincolo del celibato. Come in un libro scritto male lui, triste solitario e alla fine, si innamora di una dottoressa e la sposa. Ma, poiché “chi è nato tondo non può morire quadrato”, la sposina si chiama Caruana, esponente della omonima famiglia dell’Agrigentino, protagonista del traffico di stupefacenti tra Canada, Venezuela e la Sicilia. Padre Coppola muore nel febbraio 1995 e da allora, sicuramente, manifesta il suo veemente disappunto per il fatto di essere finito, immeritatamente, all’Inferno.

I frati di Mazzarino, una storia senza innocenti, scrive su "La Repubblica" il 7 aprile 2018 Renzo Gatto - Scrittore. E’ una notte di novembre del 1956 quando ha inizio una vicenda noir, paradossale e tragica, che farà il giro del mondo. Da alcuni mesi il giovane frate Agrippino ha raggiunto il convento dei cappuccini di Mazzarino, un paese agricolo in provincia di Caltanissetta, assumendo il ruolo di economo. Presto, però, i suoi conti collidono con gli interessi di Carmelo Lo Bartolo, l’ortolano della comunità, uomo rozzo e violento. Così una notte due colpi di fucile esplodono nella sua cella. L’intento non è uccidere, ma intimidire, e presto arriva la prima richiesta di denaro, che Agrippino soddisfa parzialmente. La vicenda rimane chiusa dentro le mura del vecchio edificio. Almeno in apparenza. Non sarà mai possibile accertare quanti possidenti del luogo siano stati oggetto di richieste estorsive, almeno fino alla primavera del 1958, quando la famiglia Colajanni, proprietaria di una farmacia, riceve una visita inattesa. Padre Venanzio e frate Agrippino si prestano a una mediazione tra i banditi e i Colajanni. “Quella gente” minaccia di rapire il loro bambino, così i genitori, terrorizzati, accettano di consegnare ai due religiosi un milione. Poco dopo è il turno di padre Costantino, ex provinciale della provincia monastica di Siracusa. Mentre si trova in visita a Mazzarino viene avvicinato da Venanzio e Agrippino. Sbalordito e spaventato, Costantino prende atto della richiesta: seicentomila lire. Avrebbe il dovere di rivolgersi alle forze dell’ordine locali e l’autorevolezza per essere ascoltato da un magistrato. Invece paga. A luglio del 1957, i banditi alzano il tiro e spediscono a Siracusa sgrammaticate lettere estorsive addirittura al padre provinciale, che all’inizio le ignora, ma poi convoca padre Venanzio, che gli spiega la situazione. Anche stavolta la sfiducia nelle istituzioni e un’abitudine millenaria al silenzio e hanno la meglio. Il provinciale apre la borsa: una cifra modesta, ma è un chiaro messaggio di resa sia per i confratelli sia per i banditi. Lettere di tenore simile vengono recapitate a un proprietario terriero mazzarinese, il cavaliere Angelo Cannada, e alla moglie Eleonora. Anche loro, come i Colajanni, hanno un unico figlio di pochi anni. E' un punto debole su cui gli estorsori contano molto. Cannada convoca padre Carmelo, membro anziano del convento, che lo incita a pagare. Ma il cavaliere tiene duro, e la banda decide di passare all'azione. Il 25 maggio Cannada subisce un attentato sotto gli occhi della famiglia. Ferito, muore dissanguato poche ore più tardi. A quel punto la vedova versa in due rate un milione nelle mani di padre Carmelo, l'instancabile mediatore del quale continua a fidarsi. Per il pagamento della seconda rata gli estorsori avanzano una pretesa davvero bizzarra, e lo fanno per iscritto, non per bocca del loro ambasciatore. Nella busta, assieme ai soldi, dovrà essere inserita una nota di pagamento. Evidentemente sospettano che il monaco faccia il pizzo sul pizzo, consegnando loro una cifra inferiore a quella ricevuta. In agosto il padre provinciale, informato dell'arrivo di altre lettere, convoca di nuovo Venanzio a Siracusa e gli mette nella bisaccia qualche altra banconota. Ma anche qui c'è un dettaglio non meno paradossale della nota di pagamento acclusa dalla signora Cannada. Ligio ai suoi doveri di responsabile delle finanze francescane, il provinciale dispone che le cifre versate agli estorsori vengano regolarmente iscritte a bilancio. Lodevole esempio di zelo contabile. Nel maggio del 1959 un secondo attentato, stavolta ai danni di un vigile urbano che indagava per proprio conto sulla banda. Dopo il ferimento, la vittima decide di riferire ai carabinieri quello che sa, e finalmente si arriva all’arresto dei colpevoli: Azzolina, Salemi e Nicoletti, il più giovane. Quest'ultimo, interrogato energicamente, racconta ciò che sa, e salta fuori il nome del capo: è Lo Bartolo, l'ortolano, che ha fatto in tempo a fuggire ma viene arrestato a Genova col relativo malloppo. Due giorni dopo il suo arrivo al carcere di Caltanissetta viene trovato impiccato in cella. Si cercano i soldi frutto delle estorsioni: in parte vengono trovati in banca intestati ai monaci. Si cercano le macchine per scrivere con cui gli estorsori avevano redatto le lettere. Tutto porta al convento. Così, il 16 febbraio 1960 il clamoroso arresto dei frati farà tremare le gerarchie vaticane. Nel giugno del 1961, dopo un lungo processo a Messina, i religiosi vengono scarcerati perché “hanno agito in stato di necessità per salvare la vita a se stessi e ad altri”. I laici vengono tutti condannati. La vedova Cannada si ritira dalla parte civile per timore di ritorsioni. Tra quanti contestano la sentenza c'è il cattolicissimo Giovanni Leone, presidente della Camera e futuro presidente della Repubblica. In appello religiosi e laici vengono condannati a pene severe, ma la Cassazione annulla la sentenza. Il processo viene spostato a Perugia, le condanne dei monaci si riducono e stavolta la Cassazione conferma. Magistrati e avvocati, ecclesiastici e laici, investigatori e giornalisti, vittime e carnefici. Tutti, in qualche modo, hanno dato di sé e del proprio ruolo un’immagine discutibile, spesso inadeguata, superficiale. Proprio una storia senza innocenti.

Il cardinale Pappalardo e “Sagunto espugnata”, scrive su "La Repubblica" l'8 aprile 2018 Fabrizio Lentini - Giornalista di Repubblica. Diciotto ore. Una notte e una mattinata. Cariche di rabbia e di angoscia, di dolore e di misteri. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, eroe della lotta al terrorismo rosso, era stato appena massacrato con la moglie Emmanuela nella sua utilitaria, dopo cento giorni da prefetto di Palermo senza poteri, cento giorni di isolamento e diffidenze, di omicidi e avvertimenti ("L'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa", aveva scandito un anonimo al telefono, rivendicando con modalità brigatista l'ennesimo delitto di mafia). Diciotto ore, appena diciotto ore fra una strage eccellente e un funerale di Stato. Tra il venerdì sera del piombo e il sabato pomeriggio dell'ira. Diciotto ore in cui una "manina" svuota la cassaforte del prefetto, per cancellare segreti pericolosi, e un'altra mano affigge sul luogo dell'agguato, in via Carini, il più cupo epitaffio degli anni di piombo mafioso: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Diciotto ore in cui il cardinale Salvatore Pappalardo butta giù il testo di un'omelia destinata a entrare nella storia civile d'Italia: l'omelia di Sagunto. "Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici", tuona l'arcivescovo dal pulpito della basilica di San Domenico, nel corso di un funerale organizzato a tempo di record in quel weekend di fine estate, come per liberarsi presto di una pratica imbarazzante, come per allontanare il peso di un senso di colpa inconfessato. Davanti al vescovo, affiancate, le bare di Dalla Chiesa e della moglie (l'agente di scorta Domenico Russo morirà qualche ora dopo, in ospedale). Di fronte, pallidi e tesi, Sandro Pertini e Giovanni Spadolini, presidente della Repubblica e capo del governo, due uomini simbolo di un'Italia diversa da quella dei silenzi, delle omissioni, delle complicità morali, ma costretti a portare la croce per tutti, a schivare gli insulti e le monetine di una Palermo esasperata e furente. "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur", scandisce Pappalardo citando una frase famosa della letteratura latina (è di Tito Livio, ma lui a memoria la attribuisce a Sallustio) e guardando in faccia gli uomini dello Stato seduti sui banchi delle prime file. E poi, in italiano per non lasciare equivoci, a voce sempre più alta: "Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!". È il punto più alto di un atto d'accusa drammatico e mai sentito dalla bocca di un vescovo di Santa Romana Chiesa, da un successore di quel cardinale Ruffini che descriveva la mafia come un'invenzione dei comunisti. Come nacque quell'orazione veemente e rabbiosa, religiosa e civile, che alternava la citazione del profeta Geremia ("Siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere") all'invettiva contro lo Stato imbelle ("Mentre cosi lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti - siano privati cittadini o funzionari e autorità dello Stato - quanto mai decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire"), lo racconterà anni dopo padre Ennio Pintacuda, il gesuita protagonista della "primavera di Palermo", in quel 1982 tra gli uomini di Curia più fidati di Pappalardo. Dirigeva la radio diocesana "Voce nostra" e la notte del 3 settembre era in arcivescovado. "Il cardinale - racconta nel libro "La scelta" (edizioni Piemme) - rientrò a notte alta, dopo essersi recato sul luogo dell'eccidio, era sconvolto e sfogò tutta la sua costernazione e il suo dolore. Disse che l'indomani, ai funerali, non avrebbe parlato. Con altri sacerdoti che erano pure lì - ricorda Pintacuda - affermammo che proprio in quel momento così difficile era necessario parlare e dare un forte segnale, perché il rischio della sfiducia era fortissimo... Non si poteva permettere ai mandanti di tali delitti politici di intimorirci, bloccarci e azzerare ciò che si era costruito con tanto rischio e fatica per la partecipazione della gente". Di fronte a quelle obiezioni "il cardinale si ritirò a preparare l'omelia". Un'omelia scritta d'impeto. Nutrita di lucido furore prima che di raffinata teologia. Un'omelia che schiererà con decisione la Chiesa dalla parte giusta nella lotta alla mafia e ai suoi complici. E che trasformerà per sempre Pappalardo, nell'immaginario collettivo, nel "vescovo di Sagunto". Uno di quegli atti di coraggio che, tra raffiche di kalashnikov e palazzi sventrati dal tritolo, hanno mantenuto viva, malgrado tutto, la speranza dei palermitani onesti.

Quell'incontro in Curia con Pio La Torre, scrive su "La Repubblica" il 9 aprile 2018 Vincenzo Vasile - Giornalista e scrittore. Quella prima volta che conobbi “il nuovo Cardinale”, Salvatore Pappalardo, fu nel 1976 a Trapani, per l’alluvione. Suo padre - apprendemmo quel giorno del suo esordio pubblico con l’omelia per le vittime - era stato il maresciallo di una stazione dei Carabinieri; e lui, l’arcivescovo che era appena diventato capo della Chiesa siciliana, si era laureato alla Pontificia Accademia Ecclesiastica “in utroque iure”, che significa diritto ecclesiastico più diritto civile: già per questo curriculum di “uomo di legge” qualcosa avremmo dovuto prevedere di come si sarebbero messe le cose in tema di legalità, mafia, Chiesa e dintorni. Le bare arrivarono in Cattedrale quando ancora non c’era gente. Ed erano sei, appena sei, le vittime segnate dalle statistiche prefettizie di quel fiume di fango pietre e acqua che ancora scorreva dal giorno precedente per le vie e le case. Sulle carte topografiche il centro dell’alluvione era segnato come Lago Cepeo; ma a occhio nudo nessuno dalla fine dell’Ottocento per il progressivo interramento si accorgeva più dell’esistenza di quello storico e grande acquitrino che a sua volta, anticamente, alimentava con il reticolo delle antiche senie, tutt’attorno, gli orti sottostanti al monte san Giuliano, sul quale è arroccata l’antica Erice. E l’alluvione invase il 5 novembre 1976 anzitutto il grande quartiere di case popolari piazzato dalla speculazione edilizia e dagli inquinamenti mafiosi dell’amministrazione proprio sotto alla montagna, con una rete fognaria più simile a una rete di pozzi neri. Dove la natura in origine semmai aveva creato un lago, gli uomini avevano realizzato, invece, una distesa di cemento, arricchimenti, mafia e disastri: e l’acqua riprese il letto di quel lago e trasformò in canali tumultuosi le strade fino al centro. Una delle più disastrate dalla furia del fango si chiamava “via degli Orti”, che non c’erano più ma avevano lasciato il loro nome. Chi li aveva cancellati gli orti di Trapani? I responsabili politici erano seduti nella prima fila dei banchi, impettiti negli abiti scuri, non sapevano che di lì a poco avrebbero stabilito un primato: sarebbero state loro le autorità per la prima volta schiaffeggiate e accusate pubblicamente per il sacco urbanistico e mafioso di Trapani da un porporato, in Chiesa, e a un funerale. L’omelia era già iniziata, e la gente con i vestiti infangati, certuni calzando stivali, sulle spalle portava altri “tabuti”, altri dieci, oltre alle sei casse da morto ancora ufficialmente censite. A ogni bara che veniva deposta davanti all’altare, a ogni spostamento degli altri catafalchi e delle corone che si rendeva necessario per far posto agli altri morti, la voce del cardinale saliva di un tono. Fino a raggiungere l’acuto tenorile che sei anni più tardi avremmo riascoltato a proposito di una Palermo che “come Sagunto” muore accerchiata dai nemici mafiosi e dal potere politico inquinato mentre a Roma si chiacchiera a vuoto e per strada si uccide il generale Dalla Chiesa. E quando fu la volta di Falcone, passati quindici anni dal funerale di Trapani, il grido di Salvatore Pappalardo, cardinale arcivescovo capo della chiesa Siciliana, sembrò più sommesso, come rassegnato: “…è lo Stato che dovrebbe proteggere la vita dei suoi uomini, dei suoi servitori, e non l’ha fatto”.

Rileggo la mia cronaca di quella prima sortita di Pappalardo per l’alluvione: «…Ore 9, Palazzo arcivescovile. «Glielo dico. Lo devo dire. Non si può tacere!»: dice con tono accorato, rivolto al vescovo di Trapani, monsignor Ricceri, l'arcivescovo Salvatore Pappalardo, cardinale, presidente della Conferenza episcopale siciliana, venuto a Trapani per officiare nella cattedrale di San Lorenzo la solenne messa funebre per le vittime del nubifragio. E davanti a un nugolo di giornalisti prende a scrivere con grafia fitta un’orazione funebre che dopo le prime dieci righe, prende il tono di un’indignata requisitoria contro il malgoverno d'un sistema di potere clientelare e corrotto che ha sulla coscienza questi poveri morti. (…) non dobbiamo   sottrarci però a riguardare alcuni interrogativi, e cioè la mancata attuazione di quelle previdenze   e provvidenze tecniche che avrebbero permesso l'imbrigliamento delle acque, la loro canalizzazione, la miglior tutela di tanti interessi umani, beni agricoli e urbani. Sappiamo che lavori erano previsti e disposti a seguito   dell'altro, analogo cataclisma (l'alluvione che colpì le stesse zone, provocando 11 vittime, il 2 settembre    1965 n.d.r.)». «Perché non s'è provveduto? Perché si è dato, ancora una volta il triste esempio di una   inefficienza che ci mortifica e ci preoccupa? È giusto che in questo doloroso momento si riaccenda la fiaccola della solidarietà e si diano assicurazioni che le competenti autorità ed organismi su vari livelli faranno il loro dovere». E subito, quasi gridando: «Ma perché non l'hanno fatto già prima? Se il pericolo era noto, i   progetti elaborati, le somme già stanziate?». Mentre un fitto brusio sale dal fondo delle navate il cardinale spiega: «Dio è padrone della nostra vita, ma noi no, e non possiamo per lentezze e inadempienze    variamente imputabili mettere a repentaglio l’esistenza e l'incolumità di tanti cittadini che dobbiamo considerare e rispettare come fratelli. Ma qui entrano in campo altre considerazioni che riguardano il   sorgere non sempre disciplinato di tanti insediamenti urbani, la manomissione di una natura che vuole   essere invece rispettata, il mantenimento d'un equilibrio ecologico che rimane la miglior difesa anche per i   fondamentali interessi dell'uomo». E ancora: «Sia questa una lezione e un richiamo salutare che, se ci umilia e mortifica nel nostro orgoglio e nella nostra presunzione di società progredita, ci aiuti anche a superare con decisione ed energia tutto ciò che paralizza una migliore efficienza, sia politica, sia amministrativa: l'esempio del Belice è ancora un doloroso monito: bisognerà riguadagnare una fiducia che è stata in gran   parte compromessa». Ore 12.30. All'uscita dalla chiesa, mentre un lungo corteo di popolo sta per avviarsi dietro ai feretri, l’imbarazzo e la stizza di chi è stato posto sotto accusa in modo tanto esplicito e con toni di cosi inusitata   durezza si legge in alcuni volti, letteralmente sbiancati.  C'è il segretario comunale dc Erasmo Garuccio, che   prende a parte un amico e quasi gli grida: «Non si doveva permettere a quello di fare una cosa simile». Il deputato regionale Salvatore Grillo, già segretario provinciale democristiano negli anni delle prime alluvioni e dei finanziamenti andati in fumo — al suo fianco l’onorevole Aldo Bassi, sindaco negli anni Sessanta — commenta tra i denti: «Questo non è il discorso che un cardinale dovrebbe fare durante una funzione»...”. Le novità di quel giorno dell’esordio di Pappalardo sono almeno tre: il fatto che il mio giornale, l’Unità, riportasse il discorso integrale di un cardinale, ai più sconosciuto; il fatto che il nugolo di giornalisti presenti in Cattedrale (soprattutto dei giornali locali) avrebbe poi sottovalutato e quasi nascosto le parole di fuoco del porporato;  il fatto che – in ultimo ma non ultimo -  un prelato di quella  rilevanza rompesse pubblicamente il patto a tre non scritto tra i diversi poteri degli apparati dello stato: la mafia la politica e la Chiesa che governava da decenni gran parte della Sicilia. Di conseguenza la grande stampa “bucò” anche le reazioni stizzite dei rappresentanti della Dc, gente di cui si sarebbe sentito parlare negli anni avvenire: quelli che cito nell’articolo sono il deputato regionale della corrente di riferimento degli esattori Salvo (non ancora stigmatizzati come mafiosi), ma che, quando fu chiamato a deporre sull’omicidio del fratello Piersanti Mattarella, presidente della Regione, l’attuale capo dello Stato avrebbe indicato per nome e cognome con questo ruolo; un ex sindaco che era chiamato in causa giusto in quei giorni da un’inchiesta del giovane giudice Ciaccio Montalto (di lì a poco trucidato)  sul sacco urbanistico di Trapani, proprio a partire da quel Lago Cepeo che risultava cementificato con variante apposita del piano regolatore ottenuta da un costruttore della lontana Catania, uno dei tre Cavalieri che saranno segnati a dito da Dalla Chiesa prima di essere ucciso; e il segretario dc imbestialito con chi aveva “permesso una cosa simile” era un futuro sindaco che nel 1985 sarebbe stato immortalato da una vignetta di Forattini con la sua didascalia: “a Trapani la mafia non esiste”.  Gli interessati avevano perfettamente capito, insomma, che con quel Cardinale a capo della Chiesa siciliana sarebbe cambiato il vento. C’è un altro episodio, di molto successivo, che non finì invece sui giornali, di cui fui testimone e che serve a capire la grandezza “politica” del cardinale Pappalardo. Pio La Torre, nel 1982 nuovamente in Sicilia, riprese e sviluppò alcuni dei movimenti di lotta in verità preesistenti al suo ritorno, che avevano visto la convergenza di cattolici e sinistra, con la presenza delle parrocchie e il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche: la marcia antimafia nel “triangolo della morte” Bagheria-Casteldaccia-Trabia e la mobilitazione contro gli euromissili. Senza precedenti un incontro a porte chiuse in Curia tra La Torre e Pappalardo, due uomini così diversi per formazione e storia personale, dalla quale scaturì l’adesione concreta della Chiesa siciliana alle manifestazioni e alla raccolta di firme contro i missili: l’incontro richiesto da Pio, che non aveva mai conosciuto personalmente il Cardinale, doveva rimanere riservato, io mi adeguai alle volontà degli interessati, e non ne scrissi. Solo qualche anno dopo, uno dei partecipanti a quell’incontro, padre Francesco Michele Stabile, vicario episcopale di Pappalardo, raccontò pubblicamente ciò che si dissero quei due. La Torre illustrò al prelato con la sua irruenza la sua convinzione netta e profonda: l’installazione missilistica avrebbe riportato la Sicilia a una situazione simile a quella del dopoguerra, quando le trame della guerra fredda, interessi mafiosi e gruppi reazionari, apparati spionistici di potenze straniere avevano portato alla strage di Portella della ginestra. Oltre al pericolo di essere bersaglio di eventuali rappresaglie, la Sicilia correva, dunque, il pericolo di nuovi rigurgiti mafiosi e di un rafforzamento dei poteri criminali. Pappalardo si disse d’accordo con quell’analisi, e senza troppe esitazioni il passaparola fu diffuso tra le parrocchie: in pochi sanno che le centinaia di miglia di firme per la pace furono il frutto di quest’azione combinata sui sagrati delle chiese e per le diffusioni domenicali dell’Unità. Dopo l’assassinio di La Torre un certo ripiegamento della Chiesa di Pappalardo fu avvertito da diversi osservatori, e non escludo che il messaggio minaccioso del delitto, seguito a cento giorni di distanza dall’assassinio del generale Dalla Chiesa, abbia colpito anche il porporato e i suoi collaboratori.  E quando fu la volta di Falcone, - erano passati quindici anni dal funerale di Trapani - il grido del capo della Chiesa siciliana, mi sembrò più sommesso, come una dolorosa constatazione: “…è lo Stato che dovrebbe proteggere la vita dei suoi uomini, dei suoi servitori, e non l’ha fatto”.

Sua Eminenza e il cortile deserto dell'Ucciardone, scrive su "La Repubblica" il 10 aprile 2018 Piero Melati - Giornalista e scrittore. Dalle parti degli infedeli il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo ci finì d'improvviso il 27 aprile del 1983. Andava come di consueto a celebrare messa, alla vigilia di Pasqua, nel cortile del carcere dell'Ucciardone. Il suo desiderio di confortare i detenuti si trasformò presto in un grande sconforto che a sua volta ne ricevette: il cortile era vuoto, la messa era stata disertata. Perché? Questo figlio di un maresciallo dei carabinieri, che nell'ottobre del '70 aveva preso sulle spalle la croce della porpora in città di frontiera, aveva accompagnato la lunga catena di omicidi importanti che martoriava la città (poliziotti, magistrati, uomini politici) con indignate omelie pronunciate alle solenni messe funebri. Ma poi, ucciso anche il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro, era sinceramente sbottato. La misura, evidentemente, era colma. Aveva sbagliato citazione (non Sallustio, come disse, ma Tito Livio) ma aveva tuonato dal pulpito “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, Sagunto viene espugnata. E questa volta non è Sagunto ma Palermo, povera la nostra Palermo, povera, come difenderla...”. Non doveva difenderla affatto. Questo gli dissero, disertando la messa nell'antico carcere borbonico, i boss dell'Ucciardone, che a quei tempi (ben prima di ogni 41 bis e carceri speciali) imperavano su tutti gli altri detenuti. La citazione del cardinale aveva fatto il giro del mondo. E a quella la mafia, a suo modo, aveva replicato, lanciando un inequivocabile segnale. Non sempre Cosa Nostra ha avuto bisogno del fragore delle armi. Spesso è stata sufficiente una rappresentazione teatrale, come in quel cortile deserto, in quella messa disertata. Un mese dopo lo stesso cardinale rilasciò una intervista in cui dovette dire: “Sono stato frainteso”. E dovette da allora farsi più prudente. I suoi più stretti collaboratori temettero per la sua stessa vita. Non esagerando troppo, se nel 1993 il clan di Brancaccio uccise padre Puglisi. Anni dopo uno dei più leali uomini del cardinale (senza nascondere vergogna ma con grande onestà) ha raccontato che dovette correre a Bagheria, a incontrare Michelangelo Aiello, imprenditore ben introdotto ai vertici delle cosche. Questi minimizzò l'episodio del boicottaggio dell'Ucciardone, ma in perfetto stile elusivo: non c'entrava nulla l'omelia su Dalla Chiesa, era stato solo risentimento verso il cardinale, a cui i detenuti avevano l'anno prima consegnato una lettera, nella quale chiedevano misure meno restrittive a proposito di colloqui e cambio di lenzuola, lettera a cui non era stato dato l'aspettato seguito. La vita del cardinale non era in pericolo, assicurò. E l'emissario della Curia dovette poi precipitarsi al porto, dove il cardinale si stava imbarcando alla volta di una breve vacanza, per rassicurarlo. E Pappalardo effettivamente se ne rassicurò. Ma poi, possiamo ipotizzare, deve averci riflettuto: un segnale era arrivato lo stesso. Un ammonimento vagamente evangelico: noi ti abbiamo chiesto (più colloqui e lenzuola) ma tu non hai risposto. Il lapsus apparentemente innocuo che Pappalardo commise quando pronunciò la frase su Sagunto (la citazione era di Tito Livio e non di Sallustio) è un inciampo freudiano che non fu solo del cardinale, ma di tutti noi siciliani. E che tipo di inciampo? Meriteremmo voti bassi in cultura generale. Troppo spesso non riusciamo a coniugare memoria storica e attualità. Sbagliamo le citazioni e i collegamenti, oppure non ne facciamo affatto. Il cardinale Pappalardo, nel lunghi anni del suo dicastero, aveva respinto le pressioni degli ambienti della Democrazia cristiana siciliana (partito di maggioranza assoluta in Sicilia) a rientrare nei ranghi, a supportarla anche elettoralmente. Egli, invece, non solo non ostacolò la presentazione delle liste di “Città per l'uomo” (formazione cattolica dissidente) ma mai frenò il cammino di Leoluca Orlando, che proprio in quegli anni si andava distaccando dal potentati democristiani legati a Cosa Nostra. Nel 1979 (dunque fresco fresco, rispetto al fatto che stiamo narrando) Leonardo Sciascia pubblicava il libretto “Dalle parti degli infedeli” nel quale raccontava le vicende del vescovo di Patti (Messina) Angelo Ficarra, esautorato dall'incarico per non avere appoggiato (anche elettoralmente) la Democrazia cristiana. Sciascia, analizzando l'epistolario tra Ficarra e vertici vaticani, mette in luce quella catena di blandizie, ammonimenti, pressioni inquisitorie e velate minacce che vennero usate, nei primi anni Sessanta, dalla curia romana per piegare quel degno cardinale. Anche a proposito di Pappalardo, in relazione alla “prudenza” che caratterizzò il suo comportamento dopo la messa disertata, si è detto spesso che devono essergli piovute addosso, e dall'alto, sussurri e suggerimenti. Ma non ne abbiamo tracce né testimonianza. Rileggendo oggi “Dalle parti degli infedeli” di Sciascia possiamo solo ipotizzare qualche analogia tra i due casi. Anche allora per Ficarra, come nel caso di Pappalardo, scrive Sciascia, “tante cose stavano per cambiare: e, si capisce, per non cambiar nulla. Ma appunto perciò cambiavano”.

I gesuiti e la meglio gioventù contro la mafia, scrive su "La Repubblica" l'11 aprile 2018 Umberto Rosso - Giornalista di Repubblica. Quel gesuita fanatico che pensava di vivere nel Paraguay del 1600, riuscì a raccogliere la meglio gioventù contro la mafia. Anche se correvano gli Anni Ottanta, seconda metà, eravamo a Palermo, ed era la stagione feroce della mattanza corleonese. Padre Ennio Pintacuda a dispetto dell’anatema del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, o forse proprio perché in fondo si sentiva davvero un missionario nella giungla amazzonica circondato dagli infedeli, s’insediò in una roccaforte liberata. Un lembo di territorio, forse uno dei pochi, sottratto all’assedio delle cosche e degli uomini politici che le rendevano, allora, invincibili. Una specie di Fort Apache, solo alle spalle di viale Lazio. Via Franz Lehar 6, Istituto di formazione politica dei gesuiti Pedro Arrupe. Diventò un indirizzo celebre, prima a Palermo e presto in tutto il Paese. La scuola-laboratorio della primavera di Palermo e dell’avventura di Leoluca Orlando, figlio spirituale e allievo politico di Pintacuda. Per Bettino Craxi semplicemente un «covo di imbroglioni», e più di tutti lo era proprio lui, padre Ennio Barracuda. Ma il segretario aveva i suoi motivi, i socialisti erano stati messi alla porta a Palazzo delle Aquile. Craxi minacciava di far cadere il governo a Roma con la Dc. «Voi mi volete mettere nei guai coi socialisti», urlava al telefono Ciriaco De Mita con Sergio Mattarella, in quel 1987 regista dietro le quinte dell’eretica giunta anomala. Accanto all’uomo che oggi è il capo dello Stato, nei momenti drammatici e decisivi per la nascita stessa del pentacolore, un altro gesuita. Padre Bartolomeo Sorge, sbarcato in Sicilia per guidare il centro Arrupe, raffinato teologo ma sopratutto acuto politologo con il sogno di rinnovare e salvare la Democrazia cristiana prima del diluvio. Che poi infatti puntualmente arrivò, e la travolse. Pintacuda e Sorge, i gemelli diversi ispiratori dell’esperimento Palermo, che tremare il pentapartito fa. Sorge e Pintacuda, uniti nel teorizzare la teologia della liberazione applicata a Palermo («Assurdo, uno schema terzomondista in un paese occidentale», polemizzava don Gianni Baget Bozzo, socialista) però divisi sulla prospettiva finale della guerra. La nascita di un’altra Dc per poi andare a braccetto con il Pci, nel progetto del direttore di “Civiltà cattolica”. Un partito ex novo, trasversale, per far saltare gli schemi l’obiettivo invece di Pintacuda. Però entrambi uniti e convinti su un principio, un passaggio chiave: mai insieme al Partito socialista di Craxi, in Sicilia poi esibito nella sua versione peggiore di corruzione e collusione con la mafia. La benzina stessa, in qualche modo, che consentì di mettere in moto queste “convergenze parallele” dell’Istituto Arrupe, lo strano tandem che lanciò il centro dei gesuiti sulla scena nazionale. Padre Sorge più con Mattarella, la fatica della mediazione, del confronto paziente, dell’analisi puntigliosa, ma senza l’allora capo della sinistra dc siciliana che fece da scudo e garante per Orlando con i vertici del partito furiosi, la primavera non sarebbe mai nata. Padre Pintacuda più con Orlando, rompere e spaccare, sempre al centro della scena e sotto i riflettori, chi non sta con noi è contro di noi. E siccome l’antimafia siamo noi, chi ci ostacola o critica è colluso. Pintacuda lo teorizza: il sospetto è l’anticamera della verità. Con Luca Orlando, che nel frattempo ha imbarcato anche il Pci al Comune, si lancia presto in una nuova avventura. Impossibile riformare la dc dall’interno, il sistema si abbatte e non si cambia. Nel ’90 fonda la Rete. E la strana coppia del centro Arrupe si separa, prende strade diverse. Non serve un altro partito, obietta Sorge, che in una lunga, appassionata, liberatoria conferenza stampa convocata nel fortino dei gesuiti sconfessa Pintacuda. Il sospetto come metodo è solo caccia alle streghe. Basta demolire, ora serve il filo a piombo per ricostruire. Dopo la primavera, c’è l’estate. Mette fuori il fratello gesuita dal centro di via Lehar. L’estate a Palermo non arrivò. Pintacuda romperà con la Rete e con Orlando, accusato di non fare più gli interessi della città, va a dirigere una scuola della Regione sul castello Utveggio e finisce in Forza Italia. Che a Palermo vuol dire Marcello Dell’Utri, condannato per mafia. Una parabola sconcertante. Ai suoi funerali, Luca non c’era. Padre Sorge se ne va a Milano, a guidare la rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali”, di cui tuttora è direttore emerito. La Dc che voleva cambiare è stata spazzata via, insieme a tutto il resto della prima Repubblica. Ma la passione dell’alchimista politico in lui non si è spenta. Ha scommesso su Renzi.

L'altra strada dei cattolici siciliani, scrive su "La Repubblica" il 12 aprile 2018 Pino Toro - Fondatore del movimento “Una Città per l’Uomo”. Accadde tutto nel giorno di una tragica Epifania. Il 6 gennaio del 1980, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, venne assassinato dalla mafia in via Libertà. Mattarella era l'uomo del rinnovamento, il democristiano che non accettava compromessi e che si rifaceva, con il suo approccio intransigente, alla tradizione più pura del cattolicesimo: quella che accetta il potere esclusivamente come servizio. Chi lo uccise, voleva bloccare i fermenti di una rinascita possibile. Accadde tutto, tutto almeno cominciò ad accadere in quel 6 gennaio. I cattolici siciliani furono idealmente convocati davanti alla macchina crivellata di colpi, una Fiat 132, che custodiva il corpo senza vita di un uomo retto, caduto per i suoi ideali. Lì crebbe, per la prima volta, il lievito di una ribellione che riguardò la chiesa e i fedeli siciliani. Cosa era successo davvero? La presa di coscienza di una semplice e drammatica verità: non era più possibile indugiare, né restare in disparte. Un impegno civile convocava tutti. Anche l'omissione - in quello speciale frangente storico - avrebbe avuto il sapore della connivenza e della resa. Si voltò pagina e provammo a scrivere il primo capitolo di un'altra storia. Si poneva subito un urgente problema politico: che declinazione operativa avrebbe avuto, per i moderati, la rinascita delle coscienze? La Democrazia cristiana non era più il luogo delle battaglie per la promozione umana. La Democrazia Cristiana degli anni Ottanta era ancora il partito di Salvo Lima e Vito Ciancimino, la sede di un potere cinico e colluso, con militanti privati del diritto di incidere e di cambiare l'inerzia di una vicenda idealmente e materialmente in declino. Ecco perché molti cattolici scelsero un'altra strada che li condusse tra le braccia di un movimentismo non più reticente. Fu così che nacque l'esperienza di CxU, del movimento “Una Città per l'Uomo”. In parallelo, pure la Chiesa palermitana si risvegliò dal suo sonno pluriennale, avviando una pastorale di denuncia e di intransigenza. Il cardinale Salvatore Pappalardo è il riconosciuto e storico protagonista di quella svolta. Il 28 gennaio, pochi giorni dopo il delitto di Piersanti Mattarella, al Palazzo arcivescovile - una coincidenza non casuale - si tenne un seminario sul decentramento, sui quartieri, che aveva come tema 'Una città a misura d'uomo'. Il 20 febbraio successivo la Commissione socio-politica della consulta diocesana per l'apostolato dei laici stilò un documento in cui erano rappresentate diverse istanze che poi avrebbero composto il canovaccio di riflessioni del movimento. Il primo marzo si svolse una riunione organizzativa a Palazzo Buonocore, davanti Palazzo di città, a piazza Pretoria. CxU vide la luce ufficialmente il diciannove aprile di quel terribile 1980. Era tutto nel segno di Piersanti, il presidente onesto che voleva abbandonare le zone d'ombra negli appalti, ridare fondamento etico all'agire politico e assumere la trasparenza come presupposto dell'amministrazione. Intanto, il centro studi dei gesuiti, "Pedro Arrupe", guidato da padre Ennio Pintacuda, a cui poi si sarebbe aggiunto padre Bartololemo Sorge, forniva attrezzatura ideologica alla rinascita, indirizzandola verso l'apertura al laicismo più attento e sensibile. In quegli anni, CxU, grazie specialmente all'elaborazione di padre Pintacuda, divenne il luogo di un incontro ricco di prospettive tra quei cattolici e quei laici che non accettavano di ammainare bandiera. E rilanciò l'esigenza di tornare a ricostruire un senso sul territorio, tra le case e le famiglie, sul campo, nelle periferie dimenticate. Oltre al sottoscritto, c'erano padre Francesco Paolo Rizzo, Nino Alongi e Giorgio Gabrielli. Una lista, nel tempo, interminabile di altri uomini di buona volontà: Paolino Giordano, Michele Salamone, Sebastiano Mercadante, Giovanna Gioia, per citarne solo alcuni. Nacque poi la "Scuola di formazione etico-politica "Giovanni Falcone", l'Associazione di cultura ambientale "Paolo Borsellino" e tante altre iniziative per dire no alle stragi e per creare, soprattutto tra i giovani, una vera coscienza antimafia. Alle amministrative del 1985 CxU ottenne due seggi. Nell'agosto del 1987, Città per l'Uomo costituì la cosiddetta 'giunta anomala' del comune di Palermo, ispirata dal sindaco Leoluca Orlando. Era l'incipit della stagione che sarebbe passata alla storia come la 'Primavera di Palermo'. Quali frutti abbia dato questa primavera è un tema storicamente e politicamente dibattuto. Ma è sempre utile ricordare l'ora in cui le coscienze, i cattolici e la chiesa stessa si risvegliarono, perché potrebbe succedere ancora. Accadde tutto il 6 gennaio del 1980, quando dalla disperazione sgorgò la speranza.

Conti, dame e Cavalieri di quel Santo Sepolcro, scrive su "La Repubblica" il 13 aprile 2018 Salvatore Cusimano - Giornalista. Nel settembre del 2013, pochi mesi dopo la sua elezione al soglio di Pietro, papa Francesco Bergoglio incontra nell’aula Paolo VI in Vaticano le dame (in nero) e i Cavalieri (con mantello bianco con doppia croce rossa sovrapposta) dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme riuniti a Roma per la Consulta mondiale che si tiene ogni cinque anni. Francesco ricorda alla platea il loro compito di “pellegrini” non “erranti”, l’obiettivo di Camminare, Costruire e Confessare in ogni momento del loro progetto associativo. E in conclusione il Pontefice non rinuncia a uno dei suoi ricorrenti leitmotiv “la fede non allontana dalla responsabilità per una società migliore”. Insomma la fede non può essere blandita come un privilegio, come una casta o una loggia al riparo della quale giocare la propria personale partita per il potere. Sono passati trenta anni dagli anni più bui dell’Ordine in Sicilia e probabilmente nella sala Paolo VI non c’è più nessuno dei vecchi aderenti all’associazione nell’isola. Se ci fosse stato sarebbe stato percorso da un brivido tanto erano taglienti le parole del Papa seppure pronunciate con ferma pacatezza. In Sicilia negli anni ’70 e ‘80 in realtà Dame e Cavalieri erano ben altra cosa. Ricordavano piuttosto una loggia o una stanza di compensazione in cui era possibile saldare relazioni interessate e dove la missione del “costruire” auspicata trenta anni dopo dal Papa innovatore era più diretta alle carriere e alle ambizioni spicciole che al bene più generale della comunità cristiana. Anche a costo di frequentazioni imbarazzanti. Nel 1982/83, come testimonia nel suo gran libro “La Città marcia” Bianca Stancanelli, circolavano nelle redazioni dei giornali, non senza provocare pochi imbarazzi (anche fra i giornalisti, i direttori e gli editori), gli elenchi degli iscritti all’Ordine. Ovviamente liste ufficiali-non ufficiali che hanno consentito non poche prese di distanze e smentite. In quel gruppo figuravano esponenti di spicco della borghesia palermitana e della provincia, giudici, procuratori della repubblica, superpoliziotti, ufficiali dell’esercito e delle forze armate, docenti dell’università, politici, amministratori comunali, banchieri, imprenditori. Alla testa della robusta pattuglia che si riuniva per le celebrazioni esclusive nel più splendente dei duomi siciliani, quello di Monreale, c’erano l’aristocratico conte Arturo Cassina, “Luogotenente” dell’Ordine, regista più che trentennale degli appalti per la manutenzione al comune di Palermo e il vescovo di Monreale Salvatore Cassisa, a capo della diocesi più vasta dell’isola e personaggio fra i più discussi della Chiesa siciliana. I meno giovani ricorderanno che Cassisa fu allontanato a forza da una diocesi e una abitazione che non aveva alcun diritto di abitare dopo una estenuante battaglia e l’intervento senza precedenti della Congregazione per i Vescovi. A far da scorta a Cassina e Cassisa comandanti dei carabinieri, giudici e “sbirri”. Negli stessi anni in cui l’offensiva mafiosa si faceva più clamorosa e morivano sotto i colpi delle cosche il prefetto Dalla Chiesa e Pio La Torre, sedevano fianco a fianco, sfiorandosi appena con i mantelli candidi, uomini di potere che volevano sfuggire a controlli e inchieste e alte magistratura che avrebbero dovuto indagare sul loro conto. Non a caso l’ex sindaco di Palermo Insalaco, assassinato nel 1988 da Domenico Ganci, uno dei figli del boss della Noce Raffaele, nel suo memoriale puntava l’indice contro Cassina e non mancava occasione di sottolineare il “cerchio magico” che proteggeva il nobile imprenditore e nel quale in prima fila erano proprio appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura che di giorno militavano nei palazzi di giustizia e nelle caserme e nei fine settimana curavano poi relazioni improprie fra gli scranni del Duomo di Monreale, fra un bisbiglio e un’orazione. Gli elenchi si possono ritrovare senza tanti sforzi con una breve navigazione in rete. Di certo fra loro anche tanti in buona fede. Ma resta sospetta la quantità di affiliazioni di personalità così autorevoli e prestigiose e potenti. Gli adepti avevano tutti un sogno da realizzare, il primo dei quali entrare nella stretta cerchia “degli uomini che contano”, uscire dalla stretta dimensione provinciale per assurgere a uno scenario nazionale o addirittura internazionale. Giovanni Falcone che non parlava mai a sproposito ed era sempre controllatissimo, a Bianca Stancanelli consegna un ritratto al vetriolo dei Cavalieri Equestri “il vero potere in Sicilia” ben più potenti degli altri “cavalieri”, quelli “del lavoro catanesi” che un impero economico retto su vaste relazioni anche scottanti coltivavano in gran parte dell’isola e anche oltre lo Stretto. Tuttavia nonostante i sospetti e gli articoli dei giornali Chiesa e Csm si guardarono bene dall’intervenire per sciogliere o commissariare quella che sempre più appariva come una tribù fondata sullo scambio, le minacce, le inchieste finalizzate a fiaccare i resistenti, la costruzione di ricchezze incommensurabili, il sostanziale mantenimento dello status quo. Ci provarono dopo le stragi anche le vedove della mafia, Agnese Borsellino e dopo di lei Maria Falcone e Rita Bartoli Costa a invocare interventi drastici del Vaticano per un’azione energica di pulizia in quegli spazi plumbei in cui i mantelli con croci intrecciate non assicuravano trasparenza e rettitudine. Negli anni ‘90 e Duemila, testimoni e collaboratori di giustizia sciorinarono ben altri nomi che transitavano senza esitazione alcuna dalle logge massoniche agli Ordini equestri, compreso quello del Santo Sepolcro. A Messina e in Calabria soprattutto. Palermo cominciò a spegnersi o forse solo a rientrare nell’ombra per far dimenticare le voci, i sospetti e anche le inchieste che squassarono l’impero di Cassina e la diocesi di Cassisa.

Il sorriso di un sacerdote e il suo assassino, scrive su "La Repubblica" il 14 aprile 2018 Roberto Leone - Giornalista di Repubblica. C’era una volta una Chiesa che negava l’esistenza della mafia e che ospitava i latitanti. Poi arrivò la Chiesa del sorriso e del rifiuto della violenza. Il sorriso di padre, allora non ancora Beato, Pino Puglisi che nella trincea di Brancaccio usa quella forza gentile che alla fine metterà in ginocchio il suo carnefice. “Quel sorriso mi è rimasto impresso nella mente per sempre. Era un sorriso pieno di luce quello di don Pino Puglisi, non lo dimenticherò mai”. Sono le parole di Salvatore Grigoli, quarantasette anni al momento dell’omicidio del parroco di Brancaccio che quel giorno, il 15 settembre 1993, compiva invece cinquantasette anni. Si sono guardati negli occhi per pochi secondi il prete e il Cacciatore della mafia che aveva già ucciso 47 volte. Istanti che bruciano nella memoria dell’assassino. Grigoli una volta arrestato si pente e parla a lungo di come e perché i boss di Cosa Nostra avevano voluto zittire per sempre padre Puglisi. “Padre Pino fu lasciato solo a Brancaccio. Lui continuava a fare prediche contro la mafia, cercava di dire ai giovani di stare attenti. Qualcuno, gente che lo frequentava e che lo conosceva, riferiva ai fratelli Graviano tutto quello che don Pino faceva. Cosa Nostra sapeva sempre tutto. Fu un delitto annunciato, don Pino era sempre più solo. C’era la convinzione che il Centro Padre Nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Secondo me don Pino si poteva salvare, se lo Stato l’avesse protetto.... e poi successe quello che è successo”. E lui stesso che ricostruisce quello che accadde la sera di mercoledì 15 settembre del ‘93. Salvatore Grigoli è con Gaspare Spatuzza che poi guiderà lo scooter utilizzato per l’omicidio. “Non dovevamo uccidere padre Puglisi quella sera, poi però lo abbiamo visto da solo. Stava telefonando in una cabina vicino alla chiesa di San Gaetano a Brancaccio. Era tranquillo don Pino. Andammo a prendere un’arma, una 7,65 con il silenziatore. Quando siamo tornati vicino alla cabina telefonica, don Pino non c’era più. Allora siamo andati ad aspettarlo sotto casa. Lui arrivò e, mentre stava aprendo il portoncino, Gaspare Spatuzza gli prese una mano per toglierli il borsello e gli disse piano: padre questa è una rapina. Ci avevano fatto sapere che l’omicidio non doveva sembrare un’esecuzione di mafia ma l’opera di un tossicodipendente o di un rapinatore. Fu per questo che fu utilizzata una pistola di piccolo calibro e che al prete gli fu portato via il borsello. Io gli stavo sparando e don Pino sorrise e disse: me lo aspettavo”. Un sorriso che fulminò il Cacciatore, ma non solo. Gli effetti di quel delitto furono contrari alle aspettative. “Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi” dice Grigoli agli investigatori dopo l’arresto. “Anzi aveva peggiorato la situazione. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi sono cominciati i problemi e tra di noi commentavano tutto come una maledizione. Per Cosa Nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Ma non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni... la Chiesa di don Pino Puglisi invece era sempre stata una Chiesa diversa”. Diversa come era diverso dai suoi predecessori Papa Wojtyla. “Il perdono che mi ha dato il pontefice - ricorda Grigoli - è stata la mia speranza, il mio sollievo. Lui sarà sempre il mio Angelo custode, mi aiuterà- ancora di più di quanto abbia già fatto su questa terra. Sono sicuro che in cielo incontrerà don Pino e gli parlerà di me insieme si vanteranno del mio cambiamento. Perché sono stati loro due, sono stati soltanto loro due il motivo per cui sono cambiato”. Il sorriso di padre Puglisi, il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, sono il segnale di una nuova Chiesa che si schiera contro la mafia e non è più convitato di pietra della società siciliana. Grigoli lo inizia a sentire ma non ancora a capire qualche mese prima dell’omicidio di Brancaccio. “Ritengo che quel che è accaduto tra me e Dio debba restare nel chiuso della mia anima. Io ero agli ordini dei fratelli Graviano, i boss di Brancaccio, quando nel maggio del 1993 il Papa lanciò nella Valle dei templi di Agrigento, il suo anatema contro gli uomini di mafia. Io non ricordo bene tutte le parole che pronunciò quel giorno il Papa, ero ancora un uomo d’onore, ma ricordo che da quel giorno in Cosa Nostra si cominciò a vociferare che la Chiesa cominciava ad essere molto diversa da prima”.

Una vittima per troppo tempo dimenticata, scrive su "La Repubblica" il 15 aprile 2018 Bianca Stancanelli, scrittrice di "A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario”. L’assassinio di don Pino Puglisi, venticinque anni fa, chiuse il ciclo dei grandi delitti palermitani degli anni Novanta del Novecento. Detto oggi, sembra un giudizio banale, ma ci sono voluti anni perché questa idea si imponesse alla coscienza collettiva. Sul finire del secolo scorso, don Pino era una vittima dimenticata e il suo assassinio sembrava consegnato alla storia come una di quelle morti minori che ricorrono purtroppo nelle insanguinate vicende della mafia. Fu appunto in quegli anni, nell’ottobre del 1998, che “Segno”, la bella rivista palermitana fondata da padre Nino Fasullo, pubblicò la sentenza di condanna in primo grado di alcuni componenti della cosca di Brancaccio coinvolti nel delitto. Io la lessi a Roma, dove ero andata a vivere e a lavorare. Appena nascosta dalla pesantezza della prosa giudiziaria, si svelava in quelle pagine la storia bellissima e tremenda di un uomo, un sacerdote che, nel microcosmo di un quartiere diseredato di Palermo, aveva capito alcune verità essenziali sulla natura della mafia e l’aveva combattuta, nel silenzio e nella distrazione della città, delle istituzioni, perfino della stessa chiesa, con un’intelligenza, uno slancio, una passione che è raro trovare riunite in una sintesi così perfetta. Dalle pagine della sentenza emergeva la figura di un prete che aveva dato la vita - sapendo di rischiarla, prima, e sapendo poi con certezza che l’avrebbe persa - per salvare i bambini di quella desolata borgata palermitana, sottraendoli al reclutamento di una Cosa nostra continuamente impegnata a rafforzare i propri ranghi militari. Figuravano nella sentenza deposizioni dei mafiosi diventati collaboratori di giustizia che accreditavano l’idea che il parroco fosse stato ucciso “perché si prendeva i bambini”, “per non farli cadere… per non darli, diciamo, nelle mani alla mafia”. Sembrava il ritratto di un paradossale pifferaio di Hammelin, tenacemente impegnato a salvare i piccoli di Brancaccio dalla rovina dell’arruolamento mafioso. Leggendo quelle pagine, pensai che era una storia troppo bella perché si potesse accettare che venisse dimenticata; per ricostruirla, però, bisognava andare a Palermo, cercare gli amici, i collaboratori, i ragazzi di don Puglisi, farsi raccontare da loro la storia di quest’uomo che non avevo mai conosciuto. Ci riuscii solo due anni dopo, grazie a un periodo di aggiornamento professionale. Mi bastarono pochi giorni per sapere che un collega del "Giornale di Sicilia”, Francesco Deliziosi, stava lavorando a un libro sulla vita di don Puglisi. Pensai che fosse più saggio rinunciare al mio progetto. Lo dissi al mio editore, Cesare De Michelis, che mi incoraggiò invece ad andare avanti nel lavoro, col buon motivo che i libri, come gli esseri umani, non si somigliano mai. In realtà, più che la biografia di don Pino, a me interessavano i suoi tre anni a Brancaccio; mi stava a cuore capire come quest’uomo gracile e mite, sempre sorridente, fosse riuscito ad allarmare i capi mafiosi del quartiere, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, allora nel pieno della stagione stragista di Cosa Nostra, fino a convincerli a ordinare, per la prima volta nella storia palermitana, l’assassinio di un parroco. E mi conquistava la figura di un uomo di Chiesa che aveva combattuto per fare dei poveri cristi di Brancaccio cittadini capaci di conoscere i propri diritti – la più laica delle battaglie, si direbbe – e per trasformare un “quartiere senza” in un luogo dignitoso per vivere. Non fu facile, allora, rintracciare i collaboratori di don Pino: l’assassinio del parroco li aveva dispersi, allontanati. E non fu facile, spesso, convincerli a raccontare la loro storia. I tanti anni da allora non sono passati invano, a Palermo. Proclamato beato dalla Chiesa, il parroco di Brancaccio sarà celebrato con entusiasmo e devozione quest’anno nell’anniversario del delitto. Venticinque anni dopo la voce di quest’uomo, assassinato da chi voleva ridurlo al silenzio, suona più alta e più forte che mai.

Perché don Pino è diventato Beato, scrive su "La Repubblica" il 16 aprile 2018 Don Mario Torcivia - Redattore della “positio” per la beatificazione di don Pino Puglisi. Il 25 maggio 2013 la Chiesa ha beatificato don Giuseppe Puglisi, ucciso dalla mafia, in odium fidei, il 15 settembre 1993. In queste nostre righe ci soffermeremo sul motivo di tale uccisione e sul perché Puglisi è stato dichiarato martire. Il modo di essere e di vivere il sacerdozio da parte di Puglisi è stato molto stridente con l’immagine che la mafia ha del prete. Per questa organizzazione criminale, il ruolo del sacerdote è relegato soltanto all’aspetto cultuale. Il prete deve amministrare i sacramenti (celebrare Messa, battezzare, dare l’estrema unzione), fare il catechismo. Il compiere un’opera di evangelizzazione che comporti anche il prendersi cura del territorio, e quindi della gente che vi abita, facendosi voce anche dei bisogni (l’assenza di scuole, strutture sanitarie, biblioteche, centri sociali) o il prendersi cura delle giovani generazioni perché abbiano un presente e un avvenire diverso da quello che solitamente hanno i giovani che vivono in determinati quartieri, diventa pertanto un modo altro, direi quasi “rivoluzionario”, di essere prete. Modalità che lo porta a diventare, automaticamente, un oppositore allo status quo posto in atto e voluto dalla mafia. Puglisi, oltre ad annunciare il Vangelo nei modi usuali (catechesi, celebrazioni liturgiche, accompagnamento spirituale, opere di carità) si è contraddistinto per una forte spinta di promozione sociale (non assistenzialismo) della gente della parrocchia di Brancaccio. La fede professata/vissuta da Puglisi - Vangelo e promozione umana, due facce della stessa medaglia - è diventata così motivo di turbamento da parte dei mafiosi perché è consistita nella presentazione di un Dio che, attraverso i suoi ministri, si prende cura concretamente dei bisogni della gente. E quindi di un Dio che confligge in modo assoluto con il dio adorato dai mafiosi - le cui caratteristiche sono l’arroganza, la prepotenza, il sopruso contro i deboli - al quale si deve sacrificare tutto, anche la vita, personale e/o altrui. La scelta di uccidere Puglisi presenta così due livelli di lettura: l’eliminazione di un prete che dava fastidio e l’opposizione radicale del dio dei mafiosi al Dio annunciato da Puglisi. Il prete palermitano ha così involontariamente smascherato la verniciatura religiosa della mafia (le sue preghiere, i suoi riti, i suoi santini, le sue benedizioni) “costringendola” a rivelarsi per quello che è: una forma di idolatria, che non può accettare l’esistenza di un Dio diverso da quello da essa venerato. Uccidendo Puglisi, la mafia ha svelato chiaramente il proprio odio verso il Dio annunciato e professato dalla vita di un prete, autentico discepolo di Gesù Cristo e del suo Vangelo. Ecco il motivo per cui la Chiesa ha riconosciuto che l’uccisione di Puglisi è avvenuta in odium fidei e lo ha proclamato Beato, perché martire, termine tecnico nel cristianesimo per affermare una testimonianza di fede nella vita condotta da un cristiano che ne ha comportato l’uccisione da parte dei nemici di Cristo e della fede cristiana. E, come la testimonianza di amore al Padre e ai fratelli ha comportato per Gesù la morte in Croce, così la vita di Puglisi - totalmente spesa per il Vangelo e per le persone a lui affidate - testimoniando in modo inequivocabile quale sia il vero Dio da adorare, ha attirato contro di lui la mano omicida dei mafiosi. Il Papa, dichiarando Puglisi beato, afferma con chiarezza la nitidezza della testimonianza resa dal prete palermitano ponendolo, per la Chiesa di Palermo, quale modello, per i preti, di esercizio del ministero sacerdotale e, per tutti i fedeli, di vita cristiana tout court, perché vissuta in modo coerente col Vangelo di Gesù Cristo.

Quella chiesa contro i "sovrani” di Brancaccio, scrive il 17 aprile 2018 su "La Repubblica" Rosaria Cascio - Docente, ha scritto numerosi saggi sul “metodo” di Padre Puglisi. A Brancaccio governavano alcuni “sovrani” ed ognuno aveva in mano quel potere di vita e di morte che un cristiano riconosce solo a Dio. E in quei luoghi dimenticati dagli amministratori cittadini, la mafia era l'unica a decidere le sorti di ognuno. Ed aveva deciso, per esempio, che non dovessero esserci la scuola, i servizi e nemmeno fogne e case civili. Il degrado e la promiscuità decisero altro per quegli uomini condannati alla miseria ed alla negazione dei diritti minimi. Essere parroco in quel quartiere controllato dalla mafia significava scegliere da che parte stare. Padre Puglisi, nel settembre del 1990, non ha tentennamenti e decide di mantenere fuori dalla sacrestia il fulcro della sua azione evangelica trasformando Brancaccio nel tempio in cui portare il Vangelo della carità. La Parrocchia si apre ai bisogni delle persone e le incontra nei luoghi in cui nessuno li va a trovare. Riconosce nella deprivazione culturale ed economica i mali del territorio e gli basta questo sguardo d'insieme per definire disumane le condizioni di quelle persone. Cristo non può rimanere chiuso dentro alle sacrestie, la sua incarnazione deve continuare. Così realizza una Parrocchia non più semplice erogatrice di sacramenti ma attenta lettrice dei bisogni dell'uomo e sua compagna nella crescita umana. Sostiene il “Comitato Intercondominiale” nella rivendicazione alle amministrazioni preposte dei servizi mancanti. In parrocchia vengono creati nuovi gruppi di volontari che supportano Padre Puglisi nell'attività missionaria. Tutti prestano il loro servizio ma in modo competente e secondo le linee del volontariato maturo che insegna a pescare e non si limita a dare il pesce. Carità attrezzata, agàpe cristiana modernamente espressa e non quel semplice buonismo in voga in una certa Chiesa. Puglisi dà vita ad una struttura parallela a San Gaetano: il Centro polivalente di accoglienza e servizio “Padre Nostro”. Le sue attività caritative si integrano con quelle liturgiche e di catechesi della Parrocchia. Le scelte di vita, a Brancaccio, non prescindono dall'ambiente in cui si vive e dai condizionamenti in esso presenti. Prima, fra tutte, la mafia. Essa è presente in modo capillare, si prende cura dei bisogni della gente ma è stessa a determinarli. Controlla le vittime di cui è, essa stessa, la carnefice. L'azione di 3P - Padre Pino Puglisi - è diretta a promuovere l'uomo attraverso l'incarnazione del Vangelo nella storia personale di tutti e la mafia, questo, non lo accetta. Egli si propone come alternativo al sistema clientelare e prepotente poiché restituisce ai residenti di Brancaccio la dignità di uomini e donne amati da Dio. Il bisogno in cui la mafia tiene i cittadini viene configurato come diritto negato al quale la criminalità risponde con meccanismi clientelari. Padre Puglisi, invece, risponde con la lotta per i loro diritti. 3P si rivolge ai bambini a cui propone il gioco piuttosto che il furto, il sostegno scolastico anziché la pistola. Con loro, dice, si può ancora avanzare una controproposta di amore che si ponga come alternati va a quella del fascino della mafia. I giovani passeranno dalla sua parte, seguiranno il suo progetto abbandonando definitivamente i sogni di mafia che li affascinavano. 3P diventa pericoloso. E alza il tiro. Modifica il percorso della processione di San Gaetano portando il Santo tra i vicoli. Il folklore religioso lascia il campo ad una spiritualità vera. Mafia e Vangelo sono incompatibili. Niente finanziamenti pubblici per essere liberi di denunciare le inadempienze delle Istituzioni; niente amicizie politiche perché Cristo sta con la gente e non fa accordi politici. La sua, è davvero una controproposta di amore cristiano. Deve morire. L'incarico è dato a Salvatore Grigoli. La mafia uccide Padre Puglisi per riaffermare sé stessa, per affermare il predominio su un territorio e sulle persone di quel territorio. Qui 3P aveva trasformato la sua Chiesa in una prima linea nella promozione umana con lo strumento del Vangelo ma fu interpretata come una lotta, una sfida alla mafia. 3P è andato verso le periferie dell'esistenza umana e lì è rimasto fino alla fine.

Il "Padre Nostro” che ha cambiato un quartiere, scrive Maurizio Artale, scrive il 18 aprile 2018 su "La Repubblica" Maurizio Artale - Presidente del centro "Padre Nostro” di Brancaccio. Per cominciare un passo indietro, tornando al Natale scorso. Da pochi mesi il Centro di Accoglienza Padre Nostro, fondato da don Pino Puglisi quando era parroco a Brancaccio, ha inaugurato l’ultima delle sue articolazioni operative: il Centro Aggregativo Diurno per Anziani. Ai piedi della ciminiera che ne sovrasta la sede, i volontari del Centro hanno allestito il presepio, con personaggi a dimensione naturale, aperto al pubblico senza alcuna restrizione oraria e senza ringhiere né cancelli. Solo un dubbio a tarlare la loro soddisfazione: «E che, pure quest’anno ruberanno il Bambinello?». Don Puglisi era arrivato a Brancaccio nel 1990, mettendosi subito di buzzo buono a faticare a trecentosessanta gradi, in un quartiere dove non esisteva nulla se non la cappa pesante della mafia che soffocava tutti i suoi abitanti. Prendeva l’iniziativa, lì dove c’era l’abitudine al disimpegno e all’indifferenza. «Primereava» in Palermo, come dice ora con insistenza papa Francesco a preti e a laici di tutto il mondo. Fu quell’iniziativa presa senza chiedere il permesso alla mafia, che portò alla sua condanna a morte. Oggi, però, Brancaccio si presenta al pellegrino o al semplice curioso che viene a visitare i luoghi di don Puglisi, molto cambiata rispetto a quegli anni. Il Centro si è impegnato e si impegna ogni giorno ad offrire un’accoglienza strutturata, costante, efficace, capace di risultare davvero “prossima” alla gente più debole e povera. E questo grazie alle tante nuove strutture sociali via via realizzate e che ormai connotano la borgata. Si tratta di tutta una serie di servizi già “sognati” dal parroco martire: il Centro Polivalente Sportivo, il Teatro Brancaccio, oltre al Centro Aggregativo Diurno per Anziani. E ancora: lo spazio di gioco per bambini, la casa delle suore Maestre Pie Venerine, che è luogo di formazione per adolescenti e per giovani, la Casa Al Bayt per l’accoglienza di mamme e bambini vittime di abusi e maltrattamenti, il Centro per il recupero scolastico di minori e adulti, la Casa del Figliol Prodigo, aperta ai detenuti in esecuzione penale esterna. Ma, soprattutto, Brancaccio è divenuto crocevia di relazioni: sono migliaia le scuole, le associazioni, le fondazioni, le diocesi, le città, i seminari, gli istituti religiosi, gli artisti e le istituzioni, i singoli cittadini provenienti da tutt’Italia e anche dall’estero, che grazie al Centro di Accoglienza Padre Nostro hanno tessuto una rete che oggi ci può far dire che Brancaccio è cambiata, che oggi Brancaccio è cresciuta e maturata. Non sempre è stato facile mantenere in buono stato di salute questi rapporti, poiché - come è noto - le relazioni, in quanto tali, subiscono l’influenza di chi ne fa parte, delle persone che vi si lasciano coinvolgere. Soprattutto perché, dopo l’uccisione di don Puglisi, l’istituzione ecclesiastica, che pure ha il ministero della comunione, ha spesso dato l’impressione di latitare da Brancaccio e non ha investito significativamente su quella periferia, derubata il 15 settembre 1993 persino di quel suo pastore, coraggioso e mite al contempo, che era convinto di poter e dover incontrare Cristo nei poveri e nella loro sofferenza. Don Puglisi, pastore non mercenario, testimoniò che proprio Cristo fa la differenza anche nella resistenza alla mafia. Eppure, ora, anche la Chiesa palermitana - guidata dall’arcivescovo Corrado Lorefice - si è data un obiettivo: ispirare la pastorale diocesana al martire di Brancaccio, per re-imparare a parlare ai giovani come lo sapeva fare lui, per rintracciare nella loro crisi esistenziale il filo rosso delle loro più promettenti potenzialità, delle loro migliori attitudini, della loro vera vocazione. L’ultimo sogno che il Centro spera di realizzare a Brancaccio, insieme alla diocesi, è l’asilo nido: lì si può riprendere confidenza con quel Bambinello che la gente di Brancaccio, nel Natale scorso, non ha più trafugato, rispettosa della memoria di chi - venticinque anni fa - s’è fatto piccolo tra i piccoli.

Sapeva di morire ma non aveva paura, scrive il 19 aprile 2018 su "La Repubblica" Pino Martinez - Presidente del "Centro Intercondominiale di via Hazon”. La sera del 15 settembre 1993 una telefonata, suor Carolina, la direttrice del Centro d’Accoglienza Padre Nostro, mi dice piangendo: "Pino, è morto padre Puglisi, è stato trovato in una pozza di sangue". Ho capito che la mano mafiosa aveva posto fine alla sua vita. Si, la mafia di Brancaccio che io avevo osato guardare negli occhi aveva colpito il nostro amico sacerdote che per amore aveva scelto di proteggerci. Di fronte a questa tragedia tutto viene messo in discussione. Paura, dolore e rabbia m accompagnano fino all’ospedale "Bucchieri La Ferla" dove mi sono subito recato per stare qualche attimo vicino al mio amico di circa tre anni di battaglie. In quel tragico momento non ho più certezze. Mi sembra che l’impegno civile del Comitato Intercondominiale, condiviso pienamente e attivamente da padre Puglisi che si riconosceva nel nostro gruppo, sia arrivato alla fine. "Pino, il Comitato Intercondominiale non può finire", mi disse padre Puglisi subito dopo l’intimidazione mafiosa del 29 giugno 1993 nei nostri confronti. "Se mi uccidono non mi interessa, tanto io non ho moglie e figli". Quest’altra frase la pronunciò qualche settimana prima del suo omicidio. Un sacerdote che negli ultimi tempi si esponeva sempre più per proteggere le nostre vite. I momenti vissuti insieme a lui, le nostre battaglie civili condivise con lui, spesso, ancora oggi, mi tornano in mente. Mi torna in mente la prima volta che ci incontrammo. Noi, come Comitato Intercondominiale, avevamo già intrapreso nel nostro quartiere delle iniziative. Sentivamo però il bisogno di non essere soli nel nostro difficile impegno e per questo ci recammo nella nostra parrocchia (San Gaetano) per conoscere il parroco da poco tempo arrivato. A lui esprimemmo il nostro desiderio di essere aiutati. Il sacerdote cercò di capire chi eravamo, da che cosa nasceva la nostra voglia di lottare e se eravamo persone mosse da una qualsiasi appartenenza politica o vicini agli ambienti mafiosi che volevano coinvolgerlo. Resosi conto che eravamo semplici abitanti del quartiere che vivevano sulla propria pelle i drammi sociali di un territorio emarginato dalle istituzioni, cominciò a collaborare con noi. Molti gli incontri con le autorità istituzionali locali per chiedere di realizzare nel quartiere la scuola media, il distretto socio-sanitario di base e altri servizi. Abbiamo affrontato gravi emergenze, come quella dell’epatite virale che verso la fine del 1991 mobilitò molte mamme per alcuni casi clinicamente accertati. Abbiamo organizzato nel maggio del 1993 un corteo antimafia con fiaccolata, la prima volta per le strade di Brancaccio, in occasione del primo anniversario della strage di Capaci. Nel luglio del 1993 una manifestazione sportiva, rivolta ai bambini e alle bambine, per le vie di Brancaccio in ricordo del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Tantissime altre iniziative ancora che dimostravano un impegno quotidiano, sotto gli occhi di tutti, di persone capaci di non cedere ai corteggiamenti politici che avrebbero creato spaccature tra gli abitanti e pertanto un indebolimento del nostro tipo di impegno. Le iniziative intraprese hanno avvicinato padre Puglisi e il Comitato Intercondominiale sempre più alla gente del quartiere e gradualmente si incrementava la richiesta di partecipazione alle attività sociali e parrocchiali. Ciò ha infastidito non poco l’ambiente politico-mafioso di Brancaccio che vedeva affermare nel suo territorio modelli di cittadino e di prete capaci di lavorare in perfetta armonia. Con la nostra azione abbiamo tracciato un confine a Brancaccio. Abbiamo fatto capire in modo chiaro da che parte noi eravamo schierati. Siamo stati intimiditi e padre Puglisi muore perché veniamo isolati dalla Chiesa e dalle Istituzioni, mentre agli occhi degli abitanti di Brancaccio cominciavano ad affermarsi nuovi modelli di lavoratori, genitori, parrocchiani, gente semplice disposta ad impegnarsi per la difesa della propria dignità e dei propri diritti.

Il grido di Karol Wojtyla nella Valle dei Templi, scrive il 20 aprile 2018 su "La Repubblica" Orazio La Rocca - Giornalista, vaticanista del settimanale Panorama. “Mafiosi, voi che portate sulle vostre coscienze tante vittime innocenti, convertitevi! Cambiate vita!...Dio ha detto 'Non Uccidere!'...e un giorno verrà il giudizio Divino!” grida, a sorpresa, Giovanni Paolo II nella storica omelia pronunciata nella Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993. Mai un papa – prima di Karol Wojtyla - si era mai rivolto con tanta forza profetica contro la mafia e qualsiasi altra forma di violenza. E tantomeno un semplice vescovo o qualsiasi altro esponente delle gerarchie ecclesiali, salvo qualche rara eccezione come il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo (che ebbe parole di fuoco il giorno dell'assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa) o anonimi sacerdoti come don Pino Puglisi, il parroco palermitano ucciso a cinquantasei anni dalla mafia per il suo impegno a favore dei giovani il 15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno. Con papa Wojtyla tutto cambia. La svolta, una domenica mattina nella Valle dei Templi di Agrigento, durante la Messa celebrata dal pontefice nel suo secondo pellegrinaggio in terra di Sicilia, dove pronuncerà, a braccio, forse il più memorabile discorso dell'intero pontificato destinato a cambiare la storia della pastorale ecclesiale nei confronti del potere mafioso e delle organizzazioni malavitose non solo nell'isola siciliana, ma in tutto il meridione (camorra e 'ndrangheta in testa) e in qualsiasi altra parte del mondo. Quel 9 maggio del '93 – una splendida domenica mattina di venticinque anni fa illuminata da un sole ormai estivo che rese ancora più bella e colorata la suggestiva spianata archeologica agrigentina – è la data della seconda tappa del nuovo pellegrinaggio di Karol Wojtyla in Sicilia, che già aveva visitato per la prima volta, a Palermo, nel 1982, l'anno dopo l'attentato in piazza San Pietro dove fu gravemente ferito dal terrorista turco Alì Agca. Un pellegrinaggio di tre giorni, dal sabato 8 al lunedì 10 maggio, iniziato con la visita a Trapani e concluso a Caltanissetta, con decine di incontri, celebrazioni, discorsi, in mezzo ad ali di folla festanti che tributano al papa polacco una accoglienza calorosa ed entusiastica ed a tratti anche commovente, tanto – come confiderà Wojtyla in seguito ai suoi collaboratori – da farlo sentire uno di loro, un papa “siciliano”. Un sentimento che lo accompagnerà per tutta la durata del viaggio e che nella indimenticabile tappa alla Valle dei Templi gli darà la forza per pronunziare quello che sarà universalmente ricordato come la più forte, incisiva, severa condanna papale contro la mafia, un anatema, senza se e senza ma, lanciato per mettere all'indice le occulte forze del male che opprimono la Sicilia e tutte le altre forme di violenze malavitose presenti altrove. Un intervento destinato a scuotere le coscienze, spontaneo, non programmato, che il papa pronunzia alla fine della celebrazione, sconvolgendo il cerimoniale, dopo che durante la Messa aveva già predicato l'omelia incentrata intorno alla forza purificatrice e misericordiosa di Dio che, “tramite il sacrificio di Gesù, crocifisso, morto e risorto”, è sempre pronto ad accogliere i “suoi figli, anche quelli che, pur avendo sbagliato, si pentono sinceramente e cambiano vita radicalmente”. Parole alte, profonde, teologicamente ineccepibili, destinate a tutti, anche ai mafiosi, che il pontefice legge sulla base di un testo preparato in precedenza, prudentemente ponderato dalla Segreteria di Stato della Santa Sede. Ma papa Wojtyla quel giorno sa che la Sicilia si aspetta da lui qualche “cosa” di più. Sente che la folla che lo ascolta ad ogni tappa, che lo invoca nei vari appuntamenti previsti nel fitto programma della visita, come pure le migliaia di persone che lo accolgono sulla spianata dei Templi, da anni stanno vivendo una interminabile Via Crucis fatta di vittime innocenti di attentati mafiosi, violenze, oppressioni, culminate pochi mesi prima con le stragi di Capaci e di Via D'Amelio del 23 maggio e del 19 luglio 1992 dove furono trucidati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e i poliziotti  e le poliziotte delle  loro scorte. Giovanni Paolo II sente che, di fronte a tanto dolore e a tanti uomini e donne ammazzati mentre stavano compiendo il loro dovere (anche questo aspetto il pontefice confiderà al rientro dalla Sicilia), deve parlare liberamente, senza fermarsi al testo preconfezionato dai suoi collaboratori. Ed ecco che, alla fine della Messa, col volto teso, lo sguardo fisso sulla folla che lo acclama, la mano sinistra appoggiata al bastone pastorale a Croce astile e sotto un Gesù crocifisso posto davanti all'altare, si avvicina al microfono e inizia a parlare con voce ferma e decisa, sotto lo sguardo preoccupato del cerimoniere pontificio, il vescovo Piero Marini, preso in contropiede dal fuori programma papale. Karol Wojtyla appena apre bocca, col braccio e la mano destra sollevati, richiama subito all'ordine inequivocabilmente i mafiosi che “qui portano sulle loro coscienze tante vittime umane”.  “Carissimi – è l'esordio di Wojtyla – non si dimentica tanto facilmente una tale celebrazione in questa Valle dei Templi. Sono qui per invocare concordia senza morti! Senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime, che sia concordia! Una concordia di pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia. Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente diritto a vivere nella pace! E quanti sono colpevoli di disturbare questa pace, quanti portano sulle loro coscienze tante vittime umane devono capire che non è permesso uccidere innocenti”. Ma questi, i malavitosi, “devono capire – ammonisce il Papa – che non si permette di uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: 'Non uccidere'!”. “Non può qualsiasi uomo, qualsiasi agglomerazione umana, la mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione della civiltà contraria, civiltà della morte”, sottolinea il Papa, che aggiunge: “Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso morto e risorto, di questo Cristo che è vita...via, verità, e vita. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Quando pronunzia queste ultime parole il papa è visibilmente scosso e la gente si commuove insieme a lui. Non nasconde la sua rabbia che accentua con la mano destra alzata come monito. Per concludere, dopo qualche attimo di silenzio, con un saluto di speranza. “Carissimi vi ringrazio per la vostra partecipazione a questa preghiera così suggestiva, profonda, partecipata. Vi lascio con questo saluto: Sia lodato Gesù Cristo, via, verità, vita. Amen”. Giovanni Paolo II lascia Agrigento tra gli applausi dei presenti, continua il suo viaggio, segnato dalla sua forte testimonianza di profeta della lotta alla mafia, che però qualche mese dopo non tarderà a farsi “sentire” a suo modo, con le bombe alla basilica di S. Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa di Roma, e alla chiesa di San Giorgio al Velabro la sera del 27 luglio 1993 e l'assassinio di don Pino Puglisi il successivo 15 settembre, martire della mafia che papa Benedetto XVI ha beatificato nel 2012 raccogliendo il testimone di papa Wojtyla.

Trattative tra uomini di chiesa e uomini di mafia, scrive il 21 aprile 2018 su "La Repubblica" Salvo Ognibene - Saggista, studioso dei rapporti fra Chiesa e mafia. Il 1993 è un anno importante nella storia dei rapporti tra chiesa e mafia: prima l’anatema di Giovanni Paolo II ad Agrigento il 9 maggio, poi gli attentati a Roma alla basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro nella notte tra il 27 e il 28 luglio. Padre Pino Puglisi viene ucciso a Palermo dalla mafia nelle settimane successive, il 15 settembre 1993. Poi, il 19 marzo 1994, in Campania, la camorra uccide un altro sacerdote: don Giuseppe Diana. Dopo la morte del parroco siciliano, si apre il varco per una trattativa portata avanti da alcuni uomini di chiesa, stoppata prontamente dai procuratori Caselli e Cordova di Palermo e Napoli. Alcuni uomini della mafia e della camorra avevano trovato prima la sponda di alcuni ecclesiastici, poi di alcuni uomini politici per portare avanti la strategia della “dissociazione” che avrebbe permesso ai membri della criminalità organizzata di godere di diversi privilegi vanificando, di fatto, la legge sui collaboratori di giustizia. Per fortuna, nonostante i ripetuti tentativi, si arenò tutto. Nel maggio del 1994 i vescovi siciliani con il documento “Nuova evangelizzazione e pastorale” parlano di assoluta incompatibilità della mafia con il Vangelo. Da quegli anni fino ai giorni nostri, molti fatti sono accaduti. La Chiesa italiana, per molto tempo silente e apatica nella lotta contro le mafie, ha preso consapevolezza del problema ed ha iniziato a muovere passi importanti nella giusta direzione. Tantissimi i documenti pubblicati da allora, grande l’interessamento al tema e molteplici gli interventi di vescovi e sacerdoti per far sentire la propria voce. È con il sacrificio del sacerdote palermitano però che prende avvio una nuova fase, in cui la Chiesa, non solo si fa promotrice di una pastorale antimafiosa dotata di un proprio linguaggio ma imposta anche nuove strategie. Nel 1999 viene avviato il processo per il riconoscimento del martirio di padre Pino Puglisi. La causa rimane bloccata per diversi anni; poi, finalmente, l’annuncio: Puglisi sarà beato. La beatificazione del parroco rappresenta un momento storico e sociale importante per la storia della Chiesa e in particolare nel contrasto alle mafie che pone, definitivamente, fuori dal Cattolicesimo e dal Cristianesimo, le organizzazioni mafiose. In questi 25 anni dalla morte del sacerdote siciliano la Chiesa, a piccoli passi, ha sempre più definito la sua posizione ma non sono mancati episodi che hanno fatto vacillare la credibilità di alcune parrocchie locali. Episodi che, in diverse regioni italiane, hanno contraddistinto le celebrazioni di feste patronali in molti paesi e che hanno rappresentato manifestazioni esterne di una falsa religiosità come il funerale di Vittorio Casamonica a Roma o la processione con inchino a Oppido Mamertina. È anche vero che da quando si è insediato papa Francesco ha sempre trasmesso con chiarezza il ruolo della Chiesa nei confronti delle mafie. Lo stesso, in visita pastorale a Cassano allo Jonio, pronunciando un discorso storico, ha affermato che i mafiosi sono scomunicati. Per trasformare le parole in fatti occorre un maggiore coinvolgimento della Chiesa locale che può, con la sua struttura e la sua storia, determinare un cambiamento radicale nel territorio in cui opera, perchè, un paese in salute, che vive bene, è possibile soltanto se “ognuno fa qualcosa…”, come diceva padre Puglisi.

L'attacco del '93 ai monumenti religiosi, scrive il 22 aprile 2018 su "La Repubblica" Franca Selvatici - Giornalista di Repubblica. Prima un giornalista, Maurizio Costanzo, scampato miracolosamente alla esplosione in via Fauro a Roma. Era il 14 maggio 1993. Tredici giorni più tardi, il 27 maggio, un'autobomba devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse l'Accademia dei Georgofili a Firenze, uccidendo cinque persone. A distanza di due mesi, nella notte fra il 27 e il 28 luglio 1993, tre auto imbottite di esplosivo devastarono Roma e Milano (dove persero la vita altre cinque persone). A Roma furono colpite la basilica di San Giovanni in Laterano e la chiesa di San Giorgio al Velabro. Per ben due volte, nel corso della campagna stragista del 1993, gli uomini di Cosa Nostra attaccarono la Chiesa, colpendo – come è scritto nelle imputazioni – “due edifici massimamente rappresentativi della cristianità e della Chiesa Cattolica, nonché alti ed irripetibili simboli del patrimonio artistico mondiale”. Secondo Antonio Scarano, uno dei primi collaboratori di giustizia che aiutarono i pm di Firenze Gabriele Chelazzi e Giuseppe Nicolosi a far luce sugli attentati, San Giovanni in Laterano non era un obiettivo programmato. Scarano era romano e aveva accompagnato gli uomini di Cosa Nostra Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano nei sopralluoghi per studiare gli obiettivi nella capitale. Ai magistrati dichiarò: “Programmato era un altro palazzo a Trastevere, una casa antica a Trastevere... Poi, andando verso casa, San Giovanni l'hanno visto per strada... e Lo Nigro ha detto: 'Qui pure è buono'”. Secondo Scarano, perciò, la scelta della basilica di San Giovanni in Laterano, sede del vescovo di Roma, era stata puramente causale. Per contro, un altro collaboratore di giustizia, Antonino Cosentino, fornì una diversa interpretazione. Fra marzo e maggio del 1994 aveva incontrato nel carcere di Paola Benedetto Graviano, il fratello maggiore di Filippo e Giuseppe, che gli era succeduto nella guida del mandamento di Brancaccio ed era stato lo stratega della campagna di attentati sul continente. Secondo Cosentino, Benedetto gli parlò dei fratelli, che il 27 gennaio del '94 erano stati arrestati a Milano, e delle stragi di cui erano accusati. A dire di Cosentino, Benedetto Graviano era ossessionato dalla Chiesa: “Attacchi alla Chiesa, attacchi alla Chiesa. Parlava di queste bombe che dovevano succedere, che erano successe. Lui parlava sempre di fare gli attacchi alla Chiesa e di mettere in ginocchio lo Stato”. “Quale vendetta ci può essere nei confronti di un museo, di una chiesa?”, si domandò il 31 marzo 1998 nel corso della sua requisitoria il pm Gabriele Chelazzi, prospettando invece che l'attacco alle chiese e ai monumenti e le stragi indiscriminate avessero l'obiettivo di “aprire una partita”: perché – disse - “si vuole invertire una situazione che è in atto, si vuole ottenere che qualcosa cambi rispetto al presente”. Tuttavia la finalità di “mettere in ginocchio lo Stato” non escludeva in assoluto la finalità di vendetta. In particolare contro la Chiesa, dato che proprio alla vigilia della campagna di attentati sul continente, il 9 maggio '93, cinque giorni prima della strage di via Fauro a Roma, ad Agrigento papa Woityla aveva lanciato lo storico anatema contro i mafiosi: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio... Dio ha detto. 'Non uccidere'. L'uomo, qualsiasi umana agglomerazione o la mafia non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà della morte”. Una invettiva durissima che forse scatenò la vendetta di Cosa Nostra.

Il Vaticano e quei "bravi ragazzi” della Magliana, scrive il 23 aprile 2018 su "La Repubblica" Massimo Lugli - Giornalista di Repubblica e scrittore. La fine è ignota. E probabilmente lo resterà per sempre. Nessuna svolta clamorosa all’ultimo capitolo in stile Ken Follet o confessione catartica del colpevole alla Poirot. Mistero insoluto. Tutte le inchieste giudiziarie, le indagini cold case, le fantasie da romanzieri, le speculazioni giornalistiche, i voli pindarici dei criminologi sono finiti, invariabilmente, in un buco nell’acqua. Quel grande intreccio di segreti tra servizi, sagrestie, intrighi in porpora e malavitosi arrembanti resterà per sempre senza soluzione. Zoommata numero uno: una fila di manifesti in bianco e nero che ritraggono una adolescente con la fascetta nera sulla fronte e lo sguardo timido sotto un nome, una scritta e un numero di telefono. Zoommata numero due: un sarcofago seppellito nella basilica romana di Sant’Apollinare in Classe, con un soprannome incastonato di zaffiri: Renato. Zoommata numero tre: un cadavere appeso per il collo sotto il ponte dei Frati Neri a Londra con le tasche piene di sassi. Roberto Calvi, Emanuela Orlandi, Enrico De Pedis. Tre nomi che potrebbero essere altrettante tappe dello stesso, monumentale intreccio di soldi, sesso, segreti. Forse. O magari tra depistaggi, spioni, pentiti a tassametro e rivelazioni farlocche la verità è molto più semplice, a portata di mano e il resto è pura dietrologia. Dopo quasi quarant’anni una cosa sola sembra certa: nessuno lo saprà mai. Il personaggio principale, quello che probabilmente sapeva tutto e si è portato la soluzione nella tomba resta sempre lui: “Renatino”, il “Dandy” di Romanzo Criminale, uno dei padri fondatori dell’unica organizzazione criminale che, anche se per un periodo relativamente breve, ha conquistato l’egemonia sulla turbolenta e indisciplinata mala capitolina. Figura assolutamente anomala e quasi incongrua tra i barabba romani: maglioncini di cachemire, completi di Caraceni, pochi vizi (non fumava, non beveva e non aveva la proboscide da cocaina al posto nel naso come quasi tutti i complici). Malignità senza fondamento lo davano per figlio del cardinal Poletti ma in realtà suo padre lo chiavano Caino visto che aveva ammazzato il fratello. Di sicuro, Renatino e Poletti si frequentavano assiduamente e all’interno delle Mura Leonine, il boss griffato Caraceni era di casa: era intimo di Roberto Calvi ai tempi del suo apogeo, organizzava feste per Flavio Carboni (quello che di secondo nome, stando a tutti i titoli di giornale, faceva “Faccendiere”) andava a cena con Paul Marcinkus, presidente dello Ior. De Pedis, tra incensi e candele, si trovava altrettanto bene che tra pallottole e partite di cocaina e quando un piccolo sindacato di polizia scoprì che, dopo la morte, era finito a far compagnia a cardinali e benefattori, molti si meravigliarono solo in parte. Tre passi indietro nel tempo. Roberto Calvi viene trovato “suicida” a Londra il 17 giugno 1982. La pista principale è quella del crack dell’Ambrosiano, una catastrofe economica della banca legata allo Ior e provocata anche da una vagonata di contante targato Cosa Nostra: 250 milioni di dollari passati per le mani di Pippo Calò, il cassiere della mafia siciliana che, a Roma, aveva trovato buona sponda e ottimi agganci tra i “Bravi ragazzi” della Magliana. Emanuela Orlandi scompare nel nulla un anno dopo, il 22 giugno 1983 e nessuno riuscirà mai a scoprire che fine abbia fatto. Le clamorose “rivelazioni” a puntate che la davano sposata in Turchia, nascosta sotto falso nome in un’isola greca e addirittura ricoverata in sempiterno in una clinica psichiatrica londinese allora venivano definite bufale, oggi fake news ma il concetto non cambia. Enrico De Pedis muore assassinato da due ex complici in via del Pellegrino il 2 febbraio del 1990, quando ormai le tre anime della gang (Testaccio, di cui era il boss indiscusso, Magliana e Ostia) sono ormai nel pieno di una guerra fratricida. Tutti i collegamenti sono arrivati dopo. Una verità, perfino plausibile, l’ha raccontata Sabrina Minardi, sua ex amante, che lo conosceva fin da quando, da ragazzo, Renatino s’arrampicava sulle pendici del Gianicolo con un’altra donna di mala, Fabiola Moretti, a caccia di vipere da rivendere alla farmacia di piazza della Scala. Tra interviste, interrogatori, romanzi e film la Minardi le ha sparate grosse ma la sua ricostruzione fila: Renatino che procura ragazze per i cardinali pedofili, che ordisce traffici economici con lo Ior e organizza il sequestro di Emanuela come arma di ricatto a papa Giovanni Paolo II, colpevole di aver investito tonnellate di soldi (compresi quelli di Cosa Nostra) per foraggiare la titanica impresa di Solidarnosc: far cadere il regime comunista di Jaruzesky. Se non avesse piazzato il corpo di Emanuela accanto a quello del piccolo Giuseppe Nicitra (che sarà rapito e sciolto nell’acido tre anni dopo) e non avesse attribuito il ruolo di carceriera a Daniela Mobili, che all’epoca era in galera, Sabrina Minardi sarebbe stata perfino credibile. Sballata? Confusa? Inattendibile di sicuro. Caso archiviato. La fine è ignota.

Borghesia mafiosa e benedizioni religiose, scrive il 24 aprile 2018 su "La Repubblica" Rosario Giuè - Presbitero e teologo della diocesi di Palermo. Sono profondamente convinto che l’essere cristiani e l’essere Chiesa possa avere ancora senso ed essere vissuto in modo credibile nella società. Francesco, il vescovo di Roma, è testimone umile e convinto di tutto ciò. E ciò vale anche per la questione mafiosa. Ma per essere credibili su questo punto bisogna avere chiaro che il potere mafioso per affermarsi nella società ha bisogno di simboli, di alleanze e di silenzi. Ed è bene anche ribadire che la mafia non è solo quella delle “coppole”, come sembra rappresentata da una certa industria televisiva. Quando si parla di mafia si deve guardare alla mafia borghese, alle classi dirigenti del Paese: alla compenetrazione tra diversi interessi a livello, a partire proprio dalle classi dirigenti compreso l’ambito politico e massonico. Le classi dirigenti di questo Paese da sempre hanno fatto a gara per cercare la benedizione religiosa, la legittimazione ecclesiastica. Giulio Andreotti era ben considerato in Vaticano ai più alti livelli. Un presidente della Regione Sicilia, poi condannato, si recò a Siracusa per consacrare la Sicilia alla “Bedda Matri”. Nei piccoli centri o nei quartieri popolari il capo mafia, che fa parte della classe dirigente locale, è generoso nelle donazioni per restaurare gli edifici di culto o per preparare la festa patronale. Ora i pezzi delle classi dirigenti colluse non possono mostrare apertamente il perseguimento del loro “particolare” costruito sulla violenza e la sopraffazione. Hanno bisogno di sentirsi ben visti, giustificati davanti al popolo. Le liturgie cattoliche, i simboli cristiani sono un grande palcoscenico di visibilità pubblica, direi unico. Per molto tempo la Chiesa cattolica, con le dovute eccezioni, ha fatto finta di non vedere questo rapporto strumentale. Ha prevalso la “ragion di Chiesa”: ora a motivo del liberalismo, ora a motivo del pericolo comunista, ora a difesa dell’unità politica dei cattolici o, per ultimo, a difesa dei valori cattolici in campo bioetico. E così non si è stati capaci di smascherare i sepolcri imbiancati di uomini dello Stato che, dopo avere trattato con la mafia, andavano in chiesa a fare la comunione o a parlare in pubblici dibattiti del valore della dottrina sociale della Chiesa. Una classe dirigente che si è formata nelle scuole religiose cattoliche non ha trovato di meglio che mettere i propri talenti a servizio del “demone” del denaro e del potere mafioso, usando la religione come reliquia medievale, per salvarsi o per nascondere la cattiva coscienza. Chi aveva la responsabilità della profezia, purtroppo, aveva perso la voce! Le processioni che si fermano davanti alle case dei boss, episodi rilanciati in modo eclatante dalle televisioni, sono una triste ma piccola punta di un iceberg.  Recentemente si è visto, per esempio in Calabria, che il vescovo di Mileto è intervenuto sull’usanza poco evangelica in un piccolo centro di fare portare a spalla le sacre statue, il giorno di Pasqua, alle famiglie vincitrici di un’apposita asta ben orientata dalla mafia locale. Ma quella vicenda è poca cosa. L’uso privato e distorto dei simboli religiosi va cercato prima di tutto tra le classi dirigenti del Paese, che non hanno mancato occasione per esibire il loro essere stati scout o l’essere devoti alla tale Madonna. Più preoccupante è che le classi dirigenti legati al potere mafioso non vogliano rinunciare ai simboli religiosi. Sanno che il linguaggio rituale parla al popolo semplice, se manca una mediazione critica. E fanno il loro bel gioco nell’apparire!  Pezzi delle classi dirigenti del Paese, amici degli amici, si sono fregiati del titolo di “cattolico” senza che, da parte ecclesiale, si facesse tanto chiasso. Ora, se non si parte dalle scelte dei vertici della Chiesa italiana, sarà più difficile poi richiamare alla loro responsabilità le diocesi. Se non si auto-analizzano le scelte “politiche” della Conferenza Episcopale, sarà più difficile chiedere al solitario parroco d’impegnarsi e, comunque, sarà più complicato lavorare per il cambiamento e la liberazione dal potere mafioso in Italia.

Don Stilo, il “benefattore” di Africo, scrive il 25 aprile 2018 su "La Repubblica" Angela Panzera - Giornalista, collaboratrice de "Il Dispaccio” e corrispondente dalla Calabria per l'agenzia Aska. «Benefattore e padre degli africesi» da un lato e «il religioso calabrese legato per antonomasia alla ‘Ndrangheta» dall’altro: è questa la doppia memoria legata alla figura di Don Giovanni Stilo. Su di lui si sono scritti fiumi e fiumi di inchiostro, articoli, libri, dossier, sentenze prima di condanna e poi assolutorie. Nonostante sia morto da 18 anni il suo nome, e la vicenda giudiziaria che lo ha riguardato, appare ancora oggi nelle ordinanze di custodia cautelare che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene nei confronti dei soggetti legati alla criminalità organizzata della Locride e della profonda Jonica. E appare proprio per descrivere l’humus e la genesi dei rapporti intrecciati tra le principali famiglie mafiose calabresi come Nirta, Morabito, Palamara, Barbaro, Papalia e gli ambienti deviati delle istituzioni clericali, delle forze dell’ordine e della massoneria. L’opinione pubblica è però, ancora spaccata in due. La sua “carriera” lo ha visto essere per cinquant’anni sacerdote di Africo, nella diocesi di Locri. Nel 1951 il piccolo centro della jonica venne colpito da un’alluvione che spazzò via l’intero paese e vide morire tre persone. Don Stilo, in questo contesto, assunse il ruolo di vera e propria guida spirituale degli esodati. La prefettura reggina ordinò agli abitanti di allontanarsi dal sito, ritenuto pericoloso, e di ripararsi nella vicina Bova e contestualmente furono disposti aiuti rivolti anche alla ricostruzione di Africo a ridosso della zona marina. In seguito alla decisione della prefettura si parlò di vero e proprio “miracolo”, un miracolo tutto da addebitare all’operato del parroco africese. Un merito che però, si portò dietro l’ira degli abitanti di Casilinuovo, colpito anch’esso dall’alluvione, ma rimasto escluso dai benefit prefettizi. Già in quegli anni furono evidenziati i legami del sacerdote con la politica locale e gli ambienti criminali. Africo infatti, divenne il suo feudo, il suo regno, il campo base del suo operato che andò ben oltre quello di uomo di Chiesa. Si parlò della costituzione di un vero e proprio “ufficio di collocamento” che Don Stilo ha eretto fra le mura della sua sacrestia. Fonda cooperative agricole, come quella lattiero-casearia "la Cooperazione", vende e compra terreni e nel corso del tempo allarga i suoi orizzonti “imprenditoriali”. C’è chi lo accusò di aver costruito una fitta rete clientelare che gli permise di “sistemare” i propri parenti come il fratello Salvatore il quale diventerà sindaco tra le fila della Democrazia cristiana. C’è chi lo vorrebbe invece “santo” poiché è riconducibile a lui l’assegnazione di posti di lavoro, ai cittadini africesi, all’interno del Corpo Forestale, la costruzione della ferrovia e della scuola.  Proprio nel mondo della scuola Don Stilo blinderà la sua “carriera” e si assicurerà la benevolenza dei cittadini. Costituì, nella nuova Africo, un istituto privato, la “Serena Juventus”, un “diplomificio” che permise a molti giovani di ottenere l’agognato titolo didattico. Le lezioni però, non erano affatto gratis ma a pagamento ed ancor di più remunerativo era l’ottenimento della maturità, appellata poi come “maturità facile”, per la quale l’istituto divenne famoso in tutta Italia. I diplomi inoltre, si sarebbero rivelati anche eccellente merce per lo scambio di favori nel sistema clientelare e tra i maturandi vi furono molti mafiosi calabro-siciliani, tra i quali don Agostino Coppola, sacerdote e sequestratore, legato ai corleonesi, nipote di Frank “Tre Dita”. Africo e Corleone, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, negli Anni Ottanta furono sempre più strette e il legame vide tra i protagonisti proprio Don Stilo. Il sei agosto del 1984, su ordine del sostituto procuratore Ezio Arcadi, polizia e carabinieri arrestarono il sacerdote che soggiornava presso l’albergo “Lombardia” di Montecatini Terme. L’accusa era pesantissima: la procura di Locri lo riteneva un elemento di spicco della cosca Ruga-Musitano-Aquilino. Una ‘ndrina che avrebbe operato, con altre famiglie mafiose locali, in alcuni sequestri di persona. Il capo di imputazione aveva preso corpo attraverso intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, così come disse il “pentito” Franco Brunero, e di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l'ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Salomone, il primo marzo del 1983, si presentò ai carabinieri di Africo dopo essere fuggito dal soggiorno obbligato a Sacile, in provincia di Udine. Ai militari Salomone raccontò di essere stato, poco prima, a casa di don Giovanni Stilo. Per gli inquirenti il prete lo aveva ospitato e protetto nel giorno in cui boss di San Giuseppe Jato era "scomparso" ed è per questo che venne accusato anche di favoreggiamento personale. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti ma, nel contempo era stato scarcerato. La Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, rimise tutto in discussione e ordinò un nuovo processo di secondo grado che venne celebrato a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa. Un’assoluzione che poi divenne definitiva ma che, non riabilitò del tutto il prelato anche se negli anni ebbe comunque la totale libertà di gestire le sue attività godendo di entrambi gli occhi serrati della Chiesa e dell’appoggio della Dc. Nei suoi confronti il Vaticano non prese mai provvedimenti, neanche quando venne condannato. Le istituzioni religiose, locali e nazionali, si trincerarono dietro un imbarazzante silenzio. Il “prete padrone” di Africo morì il 9 dicembre del 2000 e con sé portò dietro una serie di segreti che ancora oggi, e proprio oggi, vanno ad intrecciarsi con la storia criminale di Calabria e Sicilia e persino dell’Italia intera. Gli stessi segreti che riguardano due grandi boss siciliani: Liggio e Riina. Già nell’estate del 1974, secondo un’informativa della Guardia di Finanza, “Lucianeddu” Liggio avrebbe trascorso una parte della sua latitanza, proprio ad Africo, ospitato da Don Stilo e sempre ad Africo “u zi Totò”, vestito da prete, si sarebbe recato spesso. Qui il boss corleonese sarebbe stato ospitato dal mammasantissima Giuseppe Morabito alias “U' tiradrittu”. Fu durante una delle tante visite in Calabria che Riina stipulò l’alleanza con la ‘Ndrangheta? È nella Locride che calabresi e siciliani decisero di dar vita alla stagione delle cosiddette stragi “continentali”? A queste domande sta cercando di rispondere il processo della procura antimafia reggina scaturito dall’indagine “Ndrangheta stragista”. Proprio agli atti dell'inchiesta ci sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca che i legami fra mafia calabrese e siciliana li conosce bene. «Ci sono stati ottimi rapporti tra ‘Ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà- dirà Barreca ai magistrati - sulla Ionica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don Stilo e Antonio Nirta», Quest’ultimo era il boss indiscusso di San Luca e sarebbe stato in contatto con il prete di Africo. Così come Giovanni Sigilli, capomafia di Taurianova, a cui avrebbe battezzato il figlio e poi Vincenzo Femia 'ndranghetista di Casignana a cui celebrò le nozze ed infine a ‘Ntoni Macrì mammasantissima di Siderno a cui chiese una “raccomandazione”, come dichiarò lo stesso boss. Ed infine, una serie di massoni legati alla P2 e a mafiosi siciliani. Come Giovanni Brusca, l'assassino di Giovanni Falcone il quale, durante il processo per l'omicidio del giudice calabrese Antonino Scopelliti, disse: «Quando avevamo perso le speranze degli agganci in Cassazione per l'esito del maxiprocesso, nell'agosto 1991 abbiamo incontrato Don Stilo, conoscendolo come persona influente in campo politico». Verità o calunnie? Su questo opinione pubblica e giustizia sono ancora spaccate in due.

Quegli “inchini” in segno di rispetto, scrive il 26 aprile 2018 su "La Repubblica" Giuseppe Baldessarro - Giornalista di Repubblica. L’inchino lo pretendono, e se è l’inchino di un Santo, di una Madonna o di un Cristo tanto meglio. Perché quando s’inchina il patrono di una comunità è come se s’inchinasse l’intera città. Non si è quasi mai trattato di un reato, o almeno non sono risusciti a trasformarlo in tale i magistrati che pure hanno provato a indagare sul fenomeno. Così se è vero che ci sono i preti che lottano le mafie ce ne sono altri che davanti ai boss sono pronti a prostrarsi. Uno dei casi che fece maggiore clamore lo si registrò in Calabria, a Oppido Mamertina, nel luglio del 2014, poche settimane dopo che Papa Francesco, sempre in Calabria (a Cassano), aveva tuonato contro padrini e picciotti, scomunicandoli pubblicamente. Una scena vista mille volte. Vista e taciuta. Solo che quella sera un paio di carabinieri al seguito della processione della “Madonna Delle Grazie” hanno fatto quello che altri carabinieri, in altre occasioni, non avevano evidentemente mai fatto. A Oppido, quella sera, lo Stato si è indignato. Ha lasciato la processione ed ha scritto una relazione finita poi in mano alla procura della repubblica di Reggio Calabria. Come da tradizione, quel mercoledì nel cuore dell’Aspromonte, era in corso la processione, figlia di un rito secolare e sentito dai fedeli della parrocchia di frazione Tresilico. Un corteo che a un certo punto è stato clamorosamente abbandonata dal comandante della stazione dei carabinieri di Oppido e da due militari per una ragione precisa. Il maresciallo Andrea Marino e i suoi uomini avevano fatto marcia indietro dopo aver assistito a una scena intollerabile per chi porta la divisa. La statua della Madonna delle Grazie, preceduta dai sacerdoti, ma anche da mezzo consiglio comunale, arrivata all'incrocio tra Corso Aspromonte e via Ugo Foscolo, era stata fatta fermare da alcune decine di portatori davanti alla casa del boss del paese, Giuseppe Mazzagatti. Una “fermata” di pochi istanti, seguita da un inchino dell’effigie verso la dimora di Giuseppe Mazzagatti, capo clan di 82 anni, già condannato all'ergastolo per omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso. Un padrino temuto e ancora potente, nonostante l’età e le condizioni di salute gravi che lo “costringono” ai domiciliari. Assistendo all'episodio, il maresciallo aveva immediatamente ordinato a suoi carabinieri che si trovano ai lati della statua di abbandonare la cerimonia. Apriti cielo. In serata l’allora sindaco di Oppido Domenico Giannetta aveva spiegato indignato l’accaduto: “Sentiamo con sobrietà di condannare il gesto se l’obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l’effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico”. Già, l’ordine pubblico prima di tutto.

Il “padrone” del santuario che piace alla 'Ndrangheta, scrive il 27 aprile 2018 su "La Repubblica" Alessia Candito - Giornalista del Corriere della Calabria e corrispondente di Repubblica. Per un pezzo di Calabria, Papa Francesco può continuare a sgolarsi inutilmente. In barba agli appelli antimafia del pontefice, c’è chi fra i suoi sacerdoti con ‘ndrine e clan – per di più di massimo livello – continua a trovarsi a proprio agio. E ci sta così bene da figurare fra gli imputati di un maxiprocesso antimafia, dove gli tocca difendersi dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e partecipazione ad un’associazione segreta in odor di ‘Ndrangheta. Contestazioni pesanti ma più che giustificate per i magistrati perché della terra di mezzo in cui si mischiano borghesia e clan, don Pino Strangio – sostengono gli inquirenti – era e forse è un fondamentale punto di riferimento. Per decenni canonico del santuario di Polsi, luogo sacro dei clan che lì convergono ogni settembre per la festa della Madonna della Montagna, don Pino di quell’umanità per anni è stato portavoce e pubblico difensore. Parente di quegli Strangio divenuti noti per la strage di ferragosto che ha mostrato alla Germania il volto più sanguinoso della ‘Ndrangheta, dal pulpito per anni il parroco ha tuonato contro giornalisti, forze dell’ordine e magistrati, accusati di perseguitare intere famiglie «solo per il cognome che portano». Quando qualcuno osava ricordare la particolare e sospetta densità mafiosa della comunità di pellegrini che affollavano il suo santuario, era sempre il primo a insorgere. E quando qualcuno faceva notare quelle pesanti parentele che forse non facevano di lui la persona più adeguata a gestirlo, non ha mai esitato a rispondere per le rime. «Che mandino un maresciallo a predicare, così la facciamo finita una volta per sempre» ha detto nel ‘99 con una durezza quanto meno inusuale per un “servo di dio”, sulla carta disponibile a svolgere il proprio apostolato in ogni angolo del globo. Ma servo don Pino non lo è mai stato. Di Polsi e San Luca, pugno di case arroccate sui fianchi dell’Aspromonte da cui il santuario dipende, è sempre stato il padrone, uso a diffondere il proprio verbo non solo in chiesa, ma anche per le vie del paese, dove messaggi e omelie per anni hanno risuonato grazie a potenti altoparlanti. A nome delle pecorelle della sua comunità invece, don Pino non ha mai esitato a usare i microfoni, che per anni gli sono stati messi (o ha chiesto che gli fossero messi) sotto il naso. Indignato, su ogni media disponibile ha tuonato contro le autorità ogni volta che la Questura ha vietato i funerali pubblici di picciotti e boss per evitare che si trasformassero in informali summit. Tronfio, ha difeso la decisione dei cittadini di San Luca di voltare le spalle alla democrazia, rifiutandosi di presentare liste per le elezioni. E persino in tribunale, quando è stato chiamato a testimoniare, non ha esitato a schierarsi a difesa dei suoi. E se questo avveniva in pubblico, ben più preoccupante – dice l’inchiesta che oggi lo ha spedito davanti ai giudici - è stata per anni l’attività che don Pino Strangio ha svolto in segreto. Era lui a incontrarsi regolarmente con esponenti di punta della ‘Ndrangheta reggina per discutere di candidature, elezioni, alleanze. Sempre lui a tentare di riservare a sé e ai suoi importanti finanziamenti regionali. Era lui a progettare di “offrire” un paio di latitanti di medio rango per disinnescare la pressione dello Stato su San Luca, ma soprattutto – emerge dall’inchiesta – ad alimentare la macchina del fango contro i magistrati reggini quando quei tentativi sono caduti nel vuoto. E forse non si tratta solo di iniziative personali. Per i pentiti, quello di don Pino è un compito ereditario. «Don Stilo – dice il collaboratore Marcello Fondacaro - lasciò la sua eredità a don Strangio di San Luca, la sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici». Parente del potentissimo clan Morabito di Africo, padrone dei fondi per la ricostruzione post alluvione e di una scuola trasformata in diplomificio e rifugio per affiliati e latitanti, per alcuni persino massone di rango, arrestato per mafia e poi scagionato, don Stilo è morto senza esser mai stato raggiunto da una condanna. Ma per i pentiti era sacerdote e uomo di riferimento della ‘Ndrangheta. E non è morto senza eredi. «Don Pino Strangio era malandrino, a Gioia Tauro – dice il pentito Antonio Russo -  era ben quotato nell'ambito della 'Ndrangheta diciamo... per la 'ndrangheta era un malandrino, non perché era stato battezzato ma per i fatti che lui faceva». Tutti elementi che tuttavia alla Chiesa calabrese non sembrano essere bastati per prendere le distanze dal suo sacerdote. Ufficialmente vescovi e preti si spellano le mani per il nuovo corso - quanto meno ufficialmente - antimafia del Vaticano, alcuni rispediscono al mittente offerte che puzzano di clan, ma a don Pino la gerarchia cattolica calabrese non sembra voler rinunciare. Da Polsi è stato allontanato, o meglio sono state accettate le sue dimissioni.  Ma a San Luca Pino Strangio rimane il padrone. Della parrocchia e probabilmente anche della comunità.

Calabria, la prima chiesa costruita su un bene mafioso, scrive il 28 aprile 2018 su "La Repubblica" Don Pino Demasi - Vicario Episcopale della Diocesi Oppido-Palmi. Il potere mafioso, dovunque ma soprattutto nella Piana di Gioia Tauro, si è da sempre rafforzato attraverso la visibilità sul territorio. Anche da ciò è derivata l’ostentazione sfacciata dell’opulenza da parte dei mafiosi con l’edificazione di lussuose ville, alberghi, palazzi e aziende agricole. Da qualche tempo, però, la Piana di Gioia Tauro ci racconta una storia di impegno delle istituzioni e di tanta gente comune che accoglie quei beni, li “abita”, togliendo in tal modo consenso e territorio ai mafiosi e costruendo nuove comunità finalmente libere dalle mafie. Il tutto reso possibile da una legge, la 109/96, sull’uso sociale dei beni confiscati. Una legge che trasforma i beni dei mafiosi in “bene comune”, un patrimonio da difendere e rafforzare anche per rivivere la memoria di chi ha perso la vita in nome di quei valori sanciti dalla Costituzione e che alimentano la vita democratica. Storie vere anche di una Chiesa, la Chiesa particolare che è in Oppido-Palmi. Una Chiesa che, pur tra e con mille contraddizioni, ha scelto anch’essa di sporcarsi le mani per cancellare i grigi ed i neri della malavita con i colori ed i bianchi della buona vita del Vangelo. Una Chiesa che ha scelto di sentirsi sempre più coinvolta in ogni azione civile diretta a formare le coscienze e ad ispirare ogni azione al bene comune. Una Chiesa che, soprattutto durante l’Episcopato di don Luciano Bux, ha voluto dare una impronta seria e coraggiosa alla lotta alle mafie e alla mafiosità, due facce della stessa medaglia, che in queste contrade camminano affiancate, si proteggono vicendevolmente ed insieme minano la civiltà, la bellezza, l’economia, la sicurezza e la vita sociale. Don Luciano Bux (Vescovo di Oppido–Palmi dal 2000 al 2012), ha capito subito che la Chiesa ha il dovere di impegnarsi per una vera e propria forma di mobilitazione della vita cristiana orientata alla libertà, al ripristino della dignità delle persone, alla costruzione di percorsi d’integrazione, alla pacificazione, alla redenzione, alla legalità. Per Monsignor Bux, spendersi per togliere terreno alla malavita, contendendosi semmai con il "capobastone" di turno una strada o una piazza da destinare al gioco dei ragazzi fa parte dell'impegno quotidiano del credente in Cristo, che è venuto per restituirci la gioia di vivere da uomini liberi. Don Luciano, persona molta attenta al territorio, ha capito sin da subito che la 'Ndrangheta si serve di simboli. Ha capito da subito che la visibilità sul territorio è indispensabile e funzionale al sistema mafioso. Da qui la necessità di contrapporre i segni del potere mafioso con il potere dei segni. E quale segno più dirompente dell’utilizzo, anche da parte della Chiesa, di una legge -la 109/96 - sull’uso sociale dei beni confiscati. Una scelta di campo molto forte e profondamente profetica che inizia con l’affiancare Libera nella nascita e nell’accompagnamento della Cooperativa Valle del Marro–Libera Terra, la prima cooperativa in Calabria sui terreni confiscati alle mafie. Nel cammino pieno di difficoltà ed ostacoli, la cooperativa grazie anche al supporto della Chiesa locale è riuscita a sfidare le ritorsioni della 'Ndrangheta, che in più di un'occasione hanno colpito mezzi agricoli e coltivazioni e a segnare importanti traguardi nel settore agro-biologico, consolidati nel tempo anche da incoraggianti segnali di cambiamento culturale nella comunità. Una scelta, quella di Don Luciano Bux, che continua con il Centro del laicato nell’ex palazzo Molè a Gioia Tauro. Un palazzo che oggi ospita l’Istituto di Scienze religiose con l’annessa biblioteca aperta al pubblico, la Caritas Diocesana e tutti i movimenti, associazioni e aggregazioni laicali della Diocesi. Un palazzo che è diventato un polmone vivo di relazioni vere ed un centro di cultura. A Polistena quello che fu un tempo segno del potere mafioso dei Versace oggi è il Centro Polifunzionale Padre Pino Puglisi. Ieri luogo di incontri e di affari. Per i mafiosi e i loro alleati, ma pur­troppo anche di tanti giovani. Oggi luogo di incontri veri ed autentici tra cittadini italiani e migranti, tra giovani ed anziani, tra ragazzi di ogni parte d’Italia. Ieri il luogo dove si calpestava la dignità delle persone. Oggi lo spazio dei diritti e delle opportunità condivise. Infine il segno più eclatante: l’istituzione a Gioia Tauro di una nuova Parrocchia dedicata a San Gaetano Catanoso e la decisione di costruire la prima Chiesa al mondo su un terreno confiscato alle mafie. In un territorio, quale quello di Gioia Tauro, che si rivela oltre che inquinato dalla presenza delle organizzazioni criminali e dalla loro cultura dell’illegalità, anche privo di risorse e strutture, una nuova Parrocchia diventa per sé stessa presidio sociale e di legalità. In questo senso la nuova Parrocchia nel regno dei Piromalli vuole essere innanzitutto una risposta alla pedagogia criminale intercettando i ragazzi prima che entrino nei circuiti mafiosi e lavorando sul versante della formazione delle coscienze. Se a questo aggiungiamo la scelta di costruire la nuova Chiesa su di un terreno confiscato, il tutto assume un valore aggiunto di inestimabile importanza perché su quel  terreno bagnato di sangue, che parla di  angherie e violenze, in quella ex strada statale 111 (ora Provinciale 1), uno dei luoghi simbolo in un recente passato dell’ostentazione del potere e  dell’opulenza mafiosa, il nuovo  tempio diventa segno di rinascita di una  Chiesa in uscita, che  vuole  essere testimone credibile di giustizia, ma diventa  anche luogo dove la gente ritrova la voglia, la passione ed il coraggio della lotta per il cambiamento. Questo in sintesi un tratto del cammino di una Chiesa di frontiera che ha voluto fare una scelta di campo. Un cammino che continua tutto in salita e con molti ostacoli e resistenze sul piano pastorale ancora da rimuovere. Un cammino di una Chiesa che per amore del suo popolo, questo l’aspetto più importante, non ha voluto e non vuole essere complice di silenzi, convinta che accettare il silenzio e stare alla finestra a guardare significherebbe avere paura, perdere la dignità e la credibilità e non essere più la Chiesa di Cristo.

Reggio non tace contro i complici dei boss, scrive il 29 aprile 2018 su "La Repubblica" Padre Giovanni Ladiana - Padre gesuita e sostentitore del Movimento “Reggio Non Tace”. La ‘Ndrangheta non cerca più il consenso sociale nel mondo cattolico: la “scristianizzazione” della società non glielo rende più conveniente; certo, ci sono ancora individui coinvolti, ma essa cerca il consenso in un altrove da focalizzare, per agire di conseguenza. I processi “Gotha” e “‘Ndrangheta stragista”, in corso a Reggio, stanno scoperchiando i luoghi in cui da anni s’è consolidato un blocco di potere che da Reggio raggiunge tutti i continenti: decenni d’inchieste e studi già dicevano che la ‘Ndrangheta ha messo in sordina la violenza (relegata a garanzia di riuscita) e s’identifica sempre più con l’alta finanza: con la sua liquidità illimitata ricicla fiumi di denaro che (complici non settori malavitosi dell’economia ma banche e persino Stati non canaglia), dominano i settori più alti d’ogni potere. E poiché scopo sociale della ‘Ndrangheta è il potere in ogni ambito, è lì offrono che cercano alleanze e da almeno due decenni fa blocco col neoliberismo finanziario. In minima parte, e solo sul piano territoriale, investe i capitali in imprese produttive (movimento terra, edilizia, …) ed è sempre più attiva negli investimenti finanziari e nei settori che li garantiscono. Ma anche parlando dell’alleanza della ‘Ndrangheta col neoliberismo finanziario, non ci si può limitare a vederne l’aspetto criminale (il riciclo del denaro): occorre capire perché fanno blocco di potere. I processi in corso hanno scoperchiato il reticolo di fogne che da anni infesta Reggio. E se la magistratura dovrà provarle, come diceva Borsellino: che la magistratura non possa provare che una persona è mafiosa non consente di considerarla onesta. Da qui, per formare una coscienza responsabile informarsi sui fatti è necessario ma non basta. Sta emergendo una dimensione del potere ‘ndranghetista come attacco alla democrazia, perché mira a distruggere i valori della Costituzione. Dunque è questo il quadro globale dei nostri compiti: ispirandoci alla Costituzione, che è anzitutto antifascista, per il rifiuto del fascismo, ma soprattutto perché fonda la democrazia su una visione dell’uomo e della convivenza civile che mira a una società che non permetta più ciò che l’aveva generato; dunque fondata su una visione della giustizia che mette al primo posto la solidarietà, che non lascia indietro nessuno. Ciò ha sempre generato attacchi anche violenti contro la Costituzione ed è questo che fonda l’attuale blocco di potere criminale; e chi vuole lottare contro la ‘ndrangheta deve fondare l’impegno morale e civile sulla difesa e riaffermazione della Costituzione: perché è un disegno di potere che garantisce il dominio di alcuni su altri e, per ottenerlo, mira a cancellare gli strumenti democratici, con la complicità di mondi ipocritamente perbene. Allora, per un risveglio delle coscienze fondato sull’impegno per la giustizia, occorre ripartire dalla solidarietà con gli ultimi, misurata sulla sobrietà responsabile, unica via per la vera liberazione da ogni prepotenza. Purché la solidarietà non si riduca a pietismo e nasca dal recupero delle categorie di amico e nemico. Oggi affermarlo pare un ritorno all’estremismo; invece è solo la conseguenza della previa decisione di stare da una parte e non dall’altra in una guerra in atto, nella quale ci sono carnefici e vittime. Per tutto questo è riduttivo circoscrivere la scomunica di Papa Francesco ai membri militari delle mafie: le sue parole sono rivolte anche a chi con essa fa affari e accresce potere; dunque al sistema finanziario neoliberista che se ne pasce. Infatti il papa ha creato una commissione che studi i rapporti tra criminalità e corruzione, in vista d’una denuncia chiara delle loro connessioni e di sanzioni canoniche conseguenti. Intanto, c’è qualcosa d’immediato che occorre attivare. Coi processi in corso sono partiti, come sempre, molti tiri al segno contro gli inquirenti, per questo oggi come non mai è necessario creare intorno a loro una rete di sostegno civile, senza attendere di tornare a piangere morti. In questo quadro, a Reggio è nato “ReggioNonTace”, che non è un’altra associazione antimafia, ma un movimento che ha come fine il risveglio delle coscienze, personale e sociale, con l’attivazione degli strumenti della partecipazione responsabile alla costruzione del bene comune. E lo fa in assoluta gratuità e con la libertà che ne consegue.

Confraternite, battesimi e cresime di mafia, scrive il 30 aprile 2018 su "La Repubblica" Michele Pennisi - Arcivescovo di Monreale. I mafiosi hanno sempre preteso di avere una loro religiosità, che li inserisce organicamente dentro un’identità culturale legata a un determinato territorio. Si tratta di una religiosità asservita ai propri disegni di potere usata per accrescere la propria legittimazione sociale. La mafia è una religione capovolta con una sacralità atea che rende schiave le persone inserendole in un circolo diabolico dal quale è difficile uscire. I mafiosi, indifferenti alle verità di fede, in un ambiente in cui il sentimento e la pratica religiosa sono ancora consistenti e la religione cattolica è maggioritaria e radicata nella cultura di un popolo, mostrano interesse per i simboli e le manifestazioni religiose. Essi pretendono di dimostrare che la mafia è espressione autentica di quelle zone, anche attraverso i gesti di devozione dei loro capi, che non si pongono alcun problema sull’evidente contrasto fra quei simboli e la coerenza nella vita quotidiana. Quest’atteggiamento schizofrenico crea notevole confusione e ambiguità. In tal modo la fede cattolica e i suoi segni più sacri sono resi strumenti di ostentazione di potere, di acquisizione di consenso sociale e di onorabilità ecclesiale. Il loro interesse per dei riti religiosi cresce in alcune circostanze: per esempio quando la chiesa diventa il luogo nel quale celebrare eventi significativi riguardanti gli esponenti del clan, come i matrimoni o i battesimi dei figli o dei nipoti, e giunge all’apice col funerale. In realtà queste manifestazioni pseudo religiose non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento dei valori evangelici. Bisogna quindi analizzare criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della chiesa a pieno titolo, nient'affatto fuori della sua comunione, nonostante la loro appartenenza a quella “struttura di peccato” che è la cosca mafiosa. Per questo motivo i vescovi siciliani nel 1994 dichiaravano che “siffatte manifestazioni” di devozione meramente esteriore “dovranno essere considerate strumentali e perciò false ed esse stesse peccaminose”.  In una nota pastorale del 24 dicembre 2014 i vescovi calabresi condannano come atea e anticristiana la ’Ndrangheta e denunciano l’ “uso distorto e strumentale di riti religiosi” che, surrogato del sacro, si pongono “come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’unico vero Dio”. Nella stessa direzione, Papa Francesco, durante l'udienza i dei fedeli della diocesi di Cassano allo Ionio il 21 febbraio 2015 ha affermato che i “gesti esteriori di religiosità non bastano per accreditare come credenti quanti, con la con la cattiveria e l’arroganza tipica dei malavitosi, fanno dell’illegalità il loro stile di vita”. Perché questi pronunciamenti diventino effettivi, si richiede un’estrema vigilanza da parte dei pastori della chiesa, affinché le espressioni della religiosità popolare non diventino il set su cui i mafiosi possano inscenare una rappresentazione del loro potere intimidatorio e di seduzione verso i giovani. Per questo nella mia diocesi ho emesso dei decreti contenenti la proibizione per i mafiosi a fare da padrini per il battesimo e la cresima e a essere membri delle confraternite e delle norme per disciplinare le processioni. Bisogna che le comunità di fede, a partire dalla fedeltà al Vangelo, si rendano protagoniste di una loro lotta alle mafie e dello sviluppo di una teologia della liberazione nei confronti di un’organizzazione, che rende schiavi di un potere basato sulla violenza e l’ingiustizia, ossia sull’esatto opposto dell’autentica fede. La resistenza alla mafia esige un rinnovato impegno educativo che porti a un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti, per non fare del denaro e della ricerca del potere gli idoli cui sacrificare tutto a partire dalla vita delle persone.

Il parroco “spiritualmente unito” al picciotto, scrive l'1 maggio 2018 su "La Repubblica" Mara Chiarelli - Giornalista di Repubblica. Voleva essere ricevuto dal papa «come il padre accoglie un figlio nel dolore», perché lui stesso, come un padre, aveva accolto i familiari di Rocco Sollecito, il boss di Grumo Appula, battezzato dalla 'Ndrangheta e ucciso in Canada. Don Michele Delle Foglie, parroco della chiesa madre di Santa Maria dell’Assunta, la più importante del comune a 20 chilometri da Bari, non si aspettava tanto clamore. Tanto rumore, insomma, per una messa che, aveva spiegato, in fondo altro non era che un incontro di preghiera in ricordo di un figlio della comunità. E invece la sua scelta di celebrare la messa in suffragio del boss a dicembre 2016 aveva acceso un fuoco di polemiche, spentosi con molta difficoltà nei giorni successivi. Don Michele Delle Foglie, fratello di Silvestro, imprenditore della zona nel settore dei rifiuti (coinvolto in inchieste giudiziarie per violazioni ambientali), intendeva dimostrare la sua vicinanza alla famiglia di Rocco Sollecito, ucciso sette mesi prima a migliaia di chilometri di distanza. E lo aveva fatto affiggendo un manifesto in paese: “Il parroco don Michele Delle Foglie – c’era scritto – spiritualmente unito ai famigliari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina, invita la comunità dei fedeli alla celebrazione di una santa messa in memoria del loro congiunto”. La sua iniziativa, però, era stata considerata fuori luogo da una larga fetta di compaesani e fortemente osteggiata dalle autorità. Tra queste, il sindaco di Grumo Michele d’Atri, che aveva subito informato questura, prefettura di Bari e carabinieri. Immediata la reazione del questore Carmine Esposito, che aveva posto un veto: “La celebrazione del rito religioso, tenuto conto delle modalità dell’episodio criminoso che ha determinato la morte di Rocco Sollecito – si leggeva nell’ordinanza - potrebbe essere occasione di episodi di intimidazione, opera di proselitismo ed esaltazione di valori negativi, i cui riflessi potrebbero determinare grave pregiudizio per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Dunque niente campane a raccolta, per ricordare il boss emigrato, ma una semplice messa per i parenti all’alba, nella chiesa matrice, senza cortei e, aveva espressamente vietato il questore, senza “lancio di palloni aerostatici e accensione di fuochi pirotecnici”. Sì perché a Bari e nella sua provincia vige una strana usanza, quella di onorare qualsiasi ricorrenza, dal diciottesimo compleanno alla comunione, fino alla scarcerazione, con fuochi d’artificio che siano visibili il più lontano possibile e, magari, siano udibili anche dalle celle del carcere per dare modo ai parenti reclusi di partecipare. Non a caso, sempre nel barese, a Valenzano era scoppiata un’altra polemica relativa al lancio di una mongolfiera, durante la festa patronale, sponsorizzata da una nota famiglia mafiosa del luogo e “dedicata” alla memoria di un altro ammazzato. «Le messe non onorano, ma ricordano», aveva precisato don Michele Delle Foglie, che si presentava come <il confessore di tutti i peccatori. Dobbiamo inchinarci davanti al dolore dei parenti di questo signore – aveva ribattuto – e ricordarlo come tutti: davanti alla morte siamo tutti uguali>. La morte per Rocco Sollecito era arrivata davanti ad una fermata dell’autobus, a Montreal, nel maggio 2017, per mano di un sicario armato di pistola, che lo aveva sorpreso alla guida della sua Bmw bianca. E il suo assassinio aveva rappresentato l’ennesimo colpo alla Cupola inizialmente composta da sei membri, che dalla fine degli anni Novanta aveva gestito i businèss illeciti a Montreal. Uccisi uno alla volta, ad eccezione degli unici due reclusi in cella, in nome del narcotraffico.

Brindisi, il sacerdote già finito in Paradiso, scrive il 2 maggio 2018 su "La Repubblica" Tea Sisto - Giornalista. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, la Vergine Maria, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, non necessariamente in quest’ordine. E ancora Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Cristo in croce, Rosario Livatino Carlo Alberto dalla Chiesa. Non necessariamente in quest’ordine. Perché quelle immagini, sia di vittime innocenti di mafia che sante, portate in processione, che non pareva in verità una processione rituale, o in corteo, che non sembrava propriamente un corteo, si sorpassavano a ogni prevedibile cambio di passo dei partecipanti alla marcia. Ecco, marcia è il termine esatto di ciò che c’è stato a Brindisi il 23 maggio scorso, a venticinque anni dalla strage di Capaci. A volerla era stato don Cosimo Zecca, 45 anni, da meno di cinque parroco di San Nicola, la chiesa di un quartiere periferico, tra i più a rischio e tra i più lasciati nel degrado della città. Un quartiere-dormitorio che, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio degli Anni Sessanta, qualche amministratore, forse per spiccato senso dell’umorismo o per ineffabile ottimismo, volle chiamare Paradiso, confermando il nome di quella che prima era una contrada immersa nel verde.

La marcia di centinaia di fedeli e dell’attivissima associazione di quartiere partì di pomeriggio dalla chiesa per fermarsi nella piazzetta dedicata ai Caduti di Capaci. Lì la messa, che non pareva una vera e propria messa, con l’omelia di don Cosimo che, quel giorno del mese dedicato alla Madonna, parlò soprattutto di mafia tra quelle immagini e i cartelli che riportavano le frasi di Falcone e Borsellino. Poche settimane prima don Cosimo aveva protestato contro gli atti vandalici nella scuola media del quartiere. Da sempre mantiene un rapporto con il Centro di aggregazione giovanile del Paradiso, ricavato da una villa confiscata alla mala e gestito da due cooperative sociali laiche che cercano con doposcuola, corsi di musica, concerti e convegni, di strappare i ragazzi del quartiere al destino e alla “pratica”, talvolta criminale, dei loro padri. Al Cag i furti di pc e strumenti musicali e gli atti di teppismo non si contano più. Insomma non si può dire che il Cag sia popolare tra una porzione degli abitanti del Paradiso che preferirebbe non essere disturbata nell’educazione delle nuove generazioni. Quella stessa porzione, piccola ma molto rumorosa e arrogante, non gradisce neanche don Cosimo, questo parroco che dichiara di ispirarsi a Oscar Romero e a don Tonino Bello, che si dà troppo da fare contro la mafia e per l’accoglienza dei migranti, che si batte per la difesa dell’ambiente, che invita a parlare nella sua chiesa il gesuita Giovanni Ladiana (da sempre in prima linea contro la ‘ndrangheta), che organizza persino marce, che non si fa i fatti suoi. Dà fastidio, destabilizza, rimette il gioco il rapporto tra chi vuol comandare e chi è costretto a subire. Sono spesso vicini vicini gli infastiditi da questa invasione, irrimediabilmente pacifica, del “loro” territorio. Chi vuol tenere sotto scacco il quartiere si ritrova, quasi ogni giorno, in un bar poco distante dalla chiesa. Alla fine è arrivato l’attacco diretto e inequivocabile al sacerdote: una manifestazione con tanto di megafono davanti alla sua chiesa organizzata da un comitato di quartiere spuntato dal nulla. Tutto nasce, alla fine dell’agosto scorso, da una delle tante fake news in circolazione riportata da un sito web. Questa la “bufala”: i migranti ospiti del dormitorio saranno spostati in una tendopoli davanti al Centro di aggregazione giovanile del Paradiso. Scandalo: il quartiere, sin dalla sua nascita, non ha mai visto un solo immigrato. Neanche uno ha sbagliato strada e si è ritrovato lì a sua insaputa. Don Cosimo tranquillizza alcune parrocchiane.  “No, non è vero. Ma anche se fosse?” E poi dall’altare: “La mia chiesa e questa comunità parrocchiale sono aperte a tutti, senza discriminazioni e cercano di vivere il Vangelo che non a caso ha detto: ero forestiero e mi avete ospitato. Quando mi si dice che faccio politica dico: certo, se la politica deriva dal termine polis, interessarsi della città”. Apriti cielo. I leoni della tastiera si scatenano su facebook contro il parroco e chi lo sostiene. Al sit in davanti alla chiesa, organizzato in un orario in cui il parroco celebra la messa, urla dall’altoparlante il leader della protesta, già condannato per associazione a delinquere finalizzata al contrabbando. Sulla t-shirt, indossata per l’occorrenza, il motto dannunziano “memento audere semper”. Accanto a lui un ex consigliere comunale, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, assolto in primo grado, da pochi giorni assolto anche in appello e in attesa del verdetto di Cassazione. Poi c’era un avvocato, ex assessore, oggi aspirante candidato sindaco a Brindisi per centrodestra, Lega compresa. I due accompagnatori un mese prima avevano diffuso sul social una foto: sguardo fiero e mani tese nel saluto romano davanti a una torta di compleanno con la svastica celtica. Il repertorio del sit-in era quello classico. “Non siamo razzisti, ma dobbiamo proteggere le nostre famiglie e i nostri bambini dai migranti”, “Non li vogliamo”, “Prendeteli a casa vostra” “Continueremo la nostra protesta e sarà concitata” e così via. Don Cosimo aprì le porte della chiesa e continuò, nonostante il frastuono, a celebrare la messa. Non fece una piega neanche quando gli arrivarono offese pesanti e minacce sui social. Anzi continuò a rilasciare dichiarazioni a favore dell’accoglienza, contro la criminalità e il modus operandi mafioso. Molti gli hanno espresso solidarietà, compresi tutti gli altri parroci di Brindisi. Non è solo. Si è però infuriato, poche settimane fa, quando si è ritrovato, sul bianco muro esterno della parrocchia, la scritta “chiesa di merda”. Lui ha risposto a tono all’ennesima provocazione. “Ciao don Cosimo. Andiamo a prendere un caffè al bar prima della chiacchierata?”. “No, lascia perdere. Sai bene chi troviamo là. Poi usciamo di cattivo umore. Non ne vale la pena. Te lo offro io il caffè, in sagrestia”. Così sia.

Don Peppe Diana, il prete che ha sfidato i Casalesi, scrive il 3 maggio 2018 su "La Repubblica" Raffaele Sardo - Giornalista. E’ il 19 marzo 1994. Sono appena passate le 7 del mattino. Don Giuseppe Diana, giovane parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, arriva prima del solito nella sua parrocchia. E’ anche il giorno del suo onomastico. Dopo la messa delle 7.30 ha dato appuntamento in un bar a diversi amici per offrire un dolce e un caffè. Sulla porta il sagrestano lo saluta. In chiesa ci sono già alcune donne e le suore. C’è anche Augusto di Meo, il suo amico fotografo ad aspettarlo. Vuole essere tra i primi a fargli gli auguri per il suo onomastico. Ma ad aspettare don Peppe c’è anche un’altra persona. E’ sul piazzale della chiesa, in auto. E’ un uomo con meno di quarant'anni. Ha i capelli lunghi e indossa un giubbotto nero. Appena vede il prete entrare, scende, si guarda intorno, mette la pistola nella cintura e si avvia a passo deciso verso la sagrestia. Don Peppe, intanto, mentre comincia ad indossare i paramenti sacri, sta ancora concordando con il suo amico fotografo il da farsi per vedersi dopo la messa. Ed ecco che entra l’uomo col giubbotto. “Chi è don Peppe?”, chiede lo sconosciuto. Don Diana si gira e risponde: “Sono io”. L’uomo tira fuori la pistola dalla cintola e spara quattro colpi, al volto e al petto. Don Peppe non ha il tempo di rendersi conto che gli stanno sparando. Cade in una pozza di sangue. Per lui non c'è niente da fare. Muore così, a trentasei anni, il prete che aveva osato sfidare apertamente la camorra dei Casalesi.  Il killer si dilegua. Ad aspettarlo ci sono dei complici con l’auto del motore acceso. Le persone in chiesa scappano via. Augusto, il fotografo l'amico di don Diana, invece, corre dai carabinieri a denunciare l’accaduto. Sarà lui a riconoscere in Giuseppe Quadrano il killer del sacerdote. Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di giustizia. Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo. Quanto ai mandanti, la giustizia ha accertato che la morte di don Diana venne ordinata dalla Spagna, dal boss Nunzio De Falco detto “’o Lupo”, con l’intento di colpire il clan Schiavone-Bidognetti. Ma prima della sentenza definitiva, ci sono stati vari tentativi di infangare la memoria di don Diana. Tentativi che iniziarono sin dalle prime ore dopo la sua morte, quando venne fatta circolare la voce che era stato ucciso per vicende di donne. A queste voci seguirono vere e proprie campagne denigratorie con articoli apparsi sul “Corriere di Caserta” che avevano l’obiettivo di delegittimare non solo la figura di don Diana, ma soprattutto il suo forte messaggio lanciato dagli altari delle chiese della Foranìa di Casal di Principe, a Natale del 1991, con il documento “Per amore del mio popolo”. Un messaggio dirompente contro la cultura camorristica e criminale, nato nel cuore di quella che lo stesso don Diana definiva la “dittatura armata” della camorra. Da 19 marzo di ventiquattro anni fa, molte cose sono cambiate. La sua morte è stata come un seme caduto nella buona terra, perché ha dato molti frutti. I colpi inferti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura ai clan, sono stati pesanti. Le condanne all’ergastolo per i capi della camorra casalese hanno messo in ginocchio l’organizzazione criminale. Nel frattempo diversi beni sono stati confiscati ai boss e assegnati ad associazioni e cooperative sociali. Ora i criminali sono per lo più in carcere, mentre nel cimitero di Casal di Principe la tomba di don Giuseppe Diana, è meta di migliaia  di visitatori. E’ la rivincita dei familiari e degli amici di don Diana che, sin dal giorno dopo la sua uccisione, ne hanno difeso la memoria tra mille insidie.  Il giorno dei funerali di don Diana, il vescovo di Acerra, Don Antonio Riboldi, pronunciò parole profetiche: “Il 19 marzo 1994 è morto un prete, ma è nato un popolo”.

Una vita donata per la sua terra, scrive il 4 maggio 2018 su "La Repubblica" Don Paolo dell'Aversana - Parroco del Santuario della Madonna di Briano, sottoscrittore con don Giuseppe Diana del documento "Per amore del mio popolo”. Scelta di vita, la sua che lo portò a rinunciare a fare gli studi teologici a Roma per continuarli a Napoli, stando nella sua terra. Scelta di vita che maturò e portò avanti ogni giorno attraverso il suo ministero pastorale nella parrocchia del Santissimo Salvatore, prima, e poi, come parroco nella Parrocchia di San Nicola, sempre a Casal di Principe. Ma anche nella Scuola, come insegnante di Religione, nella sua attività con gli scout, come assistente, come cappellano dell’Unitalsi nei pellegrinaggi a Lourdes con gli ammalati, sempre testimoniava questo amore per la sua terra. Da questo legame con la sua terra e il suo popolo scaturiva la sua voglia di stare in tutte le cose, perfino al centro di ogni attenzione. Riusciva a donare tutto se stesso con il desiderio di sapere, di conoscere il da farsi. Era il suo modo di vivere le problematiche più laceranti di coloro che lo circondavano o di chiunque lo cercava perche aveva bisogno di lui: lo coinvolgevano totalmente e a lui piaceva essere coinvolto. “Voleva vivere la sua vocazione fino in fondo, pur nel travaglio della fragilità umana; non dimostrava mai stanchezza né insofferenza nel servizio. Poteva anche prenderlo la tentazione del ritiro dall’impresa, di volgersi indietro, ma egli era consapevole che camminare con Dio non vuol dire restare immune dalle difficoltà del viaggio, bensì essere certi del successo anche quando gli ostacoli appaiono insuperabili. Era il suo modo di vivere il suo ministero e questo lo rendeva più intraprendente, più coraggioso. Niente e nessuno lo prendeva in modo assoluto ma in tutte le cose entrava in una maniera tutta sua, originale, estroversa e, all’apparenza, perfino scanzonata. Ma tutte queste cose diventavano sue e ne portavano tutti i segni. Non poteva, allora per questo suo amore, assistere impotente “al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente, vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Questo scriveva nel documento “Per amore del mio popolo” firmato dai Parroci della Forania di Casal di Principe e distribuito nel Natale del 1991. Da questo suo lasciarsi coinvolgere dal contesto sociale in cui viveva scaturì il suo stile di essere sacerdote. Pastore capace di sentire “in pieno la responsabilità di essere ‘segno di contraddizione, cosciente “che come Chiesa dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà” (Per amore del mio popolo). Pastore capace di essere profeta e che chiedeva alla sua Chiesa “che non rinunci al suo ruolo profetico”. Questa la sua vita, questa la sua testimonianza. Per amore don Peppino si donava, ogni giorno, in tutte queste cose, senza riserve e senza rinunce e, come il suo Signore, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv. 13, 1)

Dopo di lui, un popolo in cammino, scrive il 5 maggio 2018 su "La Repubblica". Salvatore Cuoci - Rappresentante del "Comitato Don Peppe Diana”. Sono passati ventiquattro anni dall'uccisione di don Peppe Diana. Da quella mattina il tempo è trascorso velocemente, ma quel ricordo, quella memoria e quel sacrificio restano ancora vivi e presenti nei nostri cuori e nelle nostre menti. In quei cinque metri si giocarono la vita e la morte, la guerra e la pace, la passione e la Resurrezione. In quei cinque metri, quella mattina, si sarebbe disegnato e compiuto il destino di un popolo: affondare definitivamente nella fornace della camorra, cadendo nell'oblio dei sentimenti, restando fermi nella palude della vita, o reagire, risorgere e combattere per liberarsi dalle catene della schiavitù per costruire un futuro più libero e sereno. La scelta in quei momenti drammatici, in quel primo metro di corridoio, fu un fatto di istinto, di rabbia, con tanta voglia di reagire ad uno stato di cose che sembrava immutabile e ineluttabile. Intanto Augusto, il suo amico fotografo che aveva assistito inconsapevolmente a quell'atroce delitto, non si voltò dall'altra parte, ma corse in caserma a denunciare. Alcuni di noi si ritrovarono dapprima attoniti, frastornati, messi al tappeto come un pugile vinto, poi la razionalità prese il sopravvento e cominciammo a camminare con la testa e la schiena dritta, a fronte alta verso la resistenza ai poteri camorristici. Non eravamo in tanti all'inizio, non è stato un plebiscito anche se la scelta pareva logica, quasi scontata, ma la paura, le connivenze, l'impunità e l'arroganza dei camorristi, non aiutarono la gente a prendere coscienza e la sfida si fece più dura ed anche più pericolosa. Il secondo metro è stato una sofferenza. Ricordare don Peppe Diana, farne memoria, catechesi per le nuove generazioni, accettarne l'eredità, seppur pesante, non sempre è stato facile, non sempre ha trovato unità e consensi, neppure tra pezzi della stessa chiesa o tra gli abitanti di Casal di Principe e dei comuni limitrofi. Se un prete è stato ammazzato, qualcosa avrà pur fatto, fu il giudizio frettoloso della gente, quasi un alibi per liberarsi del peso ingombrante di una figura ritenuta scomoda perchè leale, schietta, vera, diretta, amata dai giovani della parrocchia e del quartiere ai quali si era completamente dedicato. La sentenza definitiva rende giustizia, se ce ne fosse stato ancora bisogno, al giovane sacerdote, riconoscendogli, giustamente, un'incessante azione pastorale a favore delle giovani generazioni, degli immigrati, del popolo per amore del quale non ha taciuto. Ma la sofferenza è stata tanta di fronte ai tentativi di infangarne la memoria, a volte con titoli assurdi sui giornali, altre con attacchi di politici di ventura in cerca di un po' di pubblicità. Così come c'è stata sofferenza per le vittime innocenti e anche per quei giovani ammazzati che spesso inconsapevolmente si trovavano a scegliere tra il bene e il male, lasciandosi sopraffare dall'inganno del potere e dei soldi facili. Il terzo metro è stato la bellezza di riappropriarsi dell'identità di popolo. Il cammino fatto spesso in solitudine, le cadute, le sconfitte, ma anche la caparbietà e la costanza dell'azione pur con venti contrari, hanno determinato nel tempo una presa di coscienza delle persone, soprattutto nei giovani, che non hanno vissuto direttamente quella stagione di guerra e di morte. La venuta del nuovo vescovo Spinillo, il coraggio ritrovato dalla chiesa, la scuola, l'azione incessante delle associazioni e del Comitato don Peppe Diana, di Libera, delle istituzioni hanno consentito ad un fiume in piena di ritrovarsi nella giusta direzione, di capire che il tempo era scaduto e che bisognava tornare a riappropriarsi del proprio destino. Finalmente quella folla è diventata popolo in cammino, celebrando il ventennale dell'uccisione di don Peppe in una grande e corale manifestazione di coinvolgimento e di protagonismi diffusi. E' stato l'inizio del riscatto, di una nuova vita, di una nuova visione, di una nuova storia che insieme, anche se le fatiche non mancano, stiamo continuando a scrivere. Il tema dei beni confiscati alle mafie e soprattutto la ricerca di una via alternativa all'economia criminale che per anni ha imperversato su questi territori, hanno costituito il quarto metro percorso in quel corridoio sospeso tra la vita e la morte. La messa a coltura di tanti terreni sottratti alla camorra, l'uso delle  ville liberate dal malaffare come sedi di associazioni e di importanti manifestazioni,  l'esperienza delle cooperative sociali, la produzione del vino, degli ortaggi, della cioccolata, delle stoffe, il turismo responsabile,  la produzione dei prodotti senza glutine, il pacco alla camorra, il ristorante sociale, gli orti, la vigna e l'occupazione di tanti giovani sono il segno tangibile che le cose possono cambiare, che è possibile capovolgere, con il sogno e la fantasia, perfino un luogo di morte e farlo diventare un luogo di vita, di scoperta, di viaggio. Ne sono testimonianza i tantissimi giovani che ogni anno, da qualsiasi parte d'Italia, vengono a fare i campi estivi o a visitare la tomba di don Diana, a capire, vedere, affondare le mani dentro del cambiamento. L'ultimo metro è quello che ancora dobbiamo percorrere. E' il cammino che ci deve portare alla piena liberazione, a lasciar cadere le zavorre che ancora appesantiscono il nostro andare.  E' un cammino faticoso, duro, perchè ci chiama soprattutto alla responsabilità personale, al nostro modo di essere, agli stili di vita da modificare, all'equità. Ma qui sta tutta l'eredità di don Peppe Diana. Quella di costruire la città possibile, la comunità di amici sulle cui mense rosseggia il vino nuovo del cambiamento.  Occorre ritrovare "il coraggio di avere paura", avere la speranza che la fine del tunnel sia vicina - già ne intravediamo la luce- che gli ostacoli non mancheranno, ma ci sostiene la consapevolezza che presto entreremo nella piena estate, con il gusto della ricerca e il desiderio perseverante dell'utopia. Coraggio, popolo tutto.

Il mio amico prete a Casal di Principe, scrive il 6 maggio 2018 su "La Repubblica" Renato Natale - Sindaco di Casal di Principe. Vivevamo una sorta di schizofrenia. Sdoppiati fra una mente che razionalmente aveva ben chiaro i pericoli ed i rischi di una situazione di vera guerra, ed un cuore, o stomaco o fegato, che ci faceva vivere ed agire come se fossimo protetti da una corazza, per cui nulla poteva succederci. Per anni alcuni di noi hanno portato avanti le loro battaglie in difesa di una dignità umana messa in discussione da forze criminali potenti e feroci. Conoscevo don Peppe da quando eravamo giovanissimi. Ho ancora una foto che lo ritrae insieme ad altri amici nel salotto di casa mia, adolescente. Poi lui era diventato prete ed io comunista. Ma questo non ci impediva di condividere battaglie ed ideali di libertà e giustizia. Del resto io ero un cattocomunista e con don Peppe avevo condiviso anche esperienze tipiche del mondo cattolico. Ero stato barelliere a Lourdes con lui che era scout e sacerdote. Successivamente mentre io fondavo una associazione di medici per dare assistenza agli immigrati, lui costruiva un centro di accoglienza. Nel 1988 abbiamo organizzato una manifestazione anticamorra con un corteo per le strade della città, un corteo affollato ma anche circondato da tanti guaglioni dei clan che sputavano al nostro passaggio ed inveivano contro i giovani manifestanti. Pochi giorni dopo alcuni colpi di pistola furono sparati verso le finestre della casa colonica dove viveva all’ora don Peppe. Ma noi non eravamo intimoriti e continuavano per la nostra strada. Nel ‘91 Don Peppe scrive e pubblica il documento “Per amore del mio popolo”. Io nel ‘93 decido di candidarmi a sindaco. Lui mi dà il suo aiuto in quella sfida. Ero ed eravamo convinti che nulla ci potesse colpire. Io poi pensavo anche che il prete con il suo collare bianco e la sua veste nera, fosse un paraurti, una difesa, contro ogni rischio e pericolo. Spesso nelle varie iniziative in quegli anni di terrore, lasciavo andare avanti la chiesa del territorio, non solo don Peppe, ma anche gli altri preti che a Casale erano convinti che la loro missione apostolica non era disgiunta da un impegno civile in difesa della libertà. Ma una mattina, il 19 marzo del 1994, all'improvviso, ci sentimmo nudi ed indifesi. Ci apparve chiaro e netto davanti lo spettro della paura. All'improvviso ci accorgemmo di essere fragili, una piccola fiamma in una bufera, pronta ad essere spenta. Quella mattina il rito quotidiano del primo caffè viene interrotto da una telefonata e dall'annuncio della sua morte. Il terrore si impadronì della mia mente. Capisco in quei momenti che può succedere, posso essere ucciso. Non è più la coscienza razionale a dirmelo, ma è lo stomaco. La schizofrenia si ricompone. Quando in Chiesa vedo il suo corpo con il volto sfigurato dai colpi di pistola, sono sopraffatto dallo sgomento e dal terrore. Davanti al suo altare impreco contro un Dio che chiede ai suoi figli l'estremo sacrificio della vita. Ora so, ora so con certezza: possono uccidermi. Se hanno ucciso un prete in Chiesa, possono uccidere chiunque e in qualunque momento. Il primo impulso fu quello di scappare, fuggire lontano con tutta la mia famiglia, sicuro oramai che, dopo il prete, sarebbe toccato al sindaco. Ma come si può fuggire con un cadavere ai tuoi piedi? Come puoi lasciare che quella morte vada incontro alla putrefazione anche della memoria? Il soldato che nella battaglia vede cadere gli amici, i compagni, non può più tirarsi indietro perché, così facendo, renderebbe inutili e stupide quelle morti. Bisogna andare avanti per rispetto di quei caduti. La morte di don Peppe ha dato nuovo impulso alla lotta per la libertà. Da quel giorno, un numero sempre più crescente di uomini e donne hanno portato avanti la sua bandiera e un po' alla volta sono riusciti a sconfiggere il drago della criminalità. Oggi si respira un'aria diversa a Casal di Principe, anche se nessuno di noi è così ingenuo da pensare che tutto sia veramente e completamente finito. Sappiamo che spesso sotto la cenere cova ancora il male. Sappiamo che ha assunto forme diverse e che può di nuovo colpire, ma di sicuro molto è stato fatto e molto è cambiato grazie al sacrificio di un uomo.

Don Riboldi, vescovo nella terra "maledetta”, scrive il 7 maggio 2018 su "La Repubblica" Marco Sarno - Giornalista de Il Venerdì di Repubblica.  L’esercito di Dio in terra ha gli occhi di quest’uomo che ha attraversato il dolore di un Paese. Nelle foto che lo ritraggono da giovane ha una faccia incredibilmente pulita e sulla cui testa spunta un ciuffo poco il linea forse con l’immagine dei preti dell’epoca. Lo sguardo è vigile, di chi si sforza di osservare tutto. Anche il gesto delle mani è diverso. Sembra accarezzare ciò che lo circonda eppure dietro quella pacatezza si nasconde l’audacia di chi vuole arriva al cuore delle cose toccandole. Quando parla si capisce che appartiene a quella categoria di uomini per la quale Emil Cioran ha scritto «chi non ha sofferto non è un essere: tutt’al più un individuo. E don Antonio Riboldi è stato tutto questo e altro ancora. Quel “qualcosa" doveva averlo visto o intuito anche papa Paolo VI che nel 1978 lo proclamò vescovo di una diocesi “maledetta" e vacante da dodici anni, di Acerra. Posto dove per altro ha scelto di essere sepolto. Don Riboldi non ha mai amato le cose semplici e su questa virtù ha costruito le sue battaglie. Che fossero politiche, contro le violenze, la pedofilia, il terrorismo. Con leggerezza ha attraversato la storia d’Italia lasciando ovunque le tracce del suo passaggio. D’altronde lo si sarebbe dovuto intuire subito. Lui catapultato nel nome della fede da una frazione, Triuggio, nel cuore della Brianza a due passi, per ironia della sorte, da Arcore per finire in un pezzo dell’altra Italia. Bella e vituperata. Vicina eppure così lontana dal Continente. La storia pubblica di don Riboldi comincia in una delle notti più buie d’Italia: è quella tra il 14 e il 15 gennaio del 1968. È la notte del terremoto. La notte del Belice. Don Antonio è un sacerdote dell’ordine dei Rosminiani finito nella parrocchia di Santa Ninfa, nel trapanese. Se essere uomo di fede significa non lasciarsi intimidire allora lo ha fatto. Come quando denunciò in tv il degrado in cui continuavano a vivere le popolazioni del Belice: «Com’è essere prete lì in mezzo? Come si fa a dire ad un uomo che per anni vive nelle baracche dove ci sono i topi e piove che Dio è qui e ti ama?». Eppure don Riboldi sembra un predestinato. A lui la Chiesa non ha risparmiato nulla. Dopo il terremoto lo aspetta Acerra. Il Bronx, il luogo in terra dove non c’è spazio per gli uomini di volontà. C’è la camorra. C’è un territorio dove neppure Dio entra. Si spara, si uccide, si rovesciano i comandamenti. È il luogo dove violenza e paura sottomettono la fede. Le beghine che vanno a messa alla domenica sono votate al silenzio nella casa del Signore. Lì arriva in lontananza il rumore sordo dei colpi di pistola che spezzano le vite e non hanno rispetto per il futuro. Dove non si nomina il nome del boss invano. Sono gli anni che preludono alle stragi e quei luoghi assomigliano a cimiteri con le tombe aperte. In quegli anni Raffaele Cutolo è il simbolo della prevaricazione e della restaurazione. Si alza di nuovo forte la voce di don Antonio Riboldi che non chiede, non lancia anatemi ma pretende: lavoro per i giovani, aiuto agli uomini di buona volontà, alla politica e punta sul coraggio dei giovani. E con loro compie un miracolo terreno quando nel 1980 organizza ad Ottaviano, feudo di Cutolo, la storica marcia che porta in strada migliaia di ragazzi. A chi lo metteva in guardia dai rischi rispondeva: «Meglio ammazzato che scappato dalla camorra». Ormai fa paura. Come tutti i simboli che combattono l’ingiustizia è diventato un potere forte suo malgrado. E quando dal carcere Cutolo lo chiama per confessarsi si capisce che qualcosa cambia nei rapporti di forza. La chiesa fino ad allora assente diventa contropotere. «Camorristi, vi scomunico». Il resto è storia. La resa, vera o presunta, della camorra grazie alla sua mediazione, le trattative, occupando spazi che sarebbero appartenuti allo Stato, con gli affiliati che vogliono consegnarsi e raccontano dove nascondono gli arsenali. Saranno gli uomini a giudicare don Riboldi proprio perché uomo tra i suoi simili. E ci sarà un motivo se è stato, di volta in volta, prete terremoto, prete anti camorra. Se n’è andato all’alba di un giorno di dicembre di un anno fa a Stresa. Aveva 94 anni. Con lui il tempo non è stato un galantuomo. Gli ha concesso di celebrare con angoscia e fermezza i cinquant’anni del terremoto del Belice. Anche in quella occasione ha fatto sentire la sua voce. Non ha perdonato, nel nome della memoria, le istituzioni, la politica, la burocrazia. Tutti coloro che non hanno mai sanato quella piaga. O pagato un debito che fosse politico o morale nei confronti di quella tragedia. Ha vissuto nel nome di Dio e degli uomini e oggi è sepolto per sua volontà ad Acerra, in quella Terra dei fuochi che il suo amore è riuscito solo in parte a bonificare. E anche da morto fa paura. Nel giorno del funerale la camorra ha mandato l’ennesimo messaggio intimidatorio facendo esplodere un ordigno artigianale non lontano dalla ditta di onoranze funebri. «La Chiesa è amore», amava ripetere. Anche dove si trova adesso, per chi crede, continua a vegliare. Per chi è rimasto su questa terra vale un pensiero: al giudizio finale verranno pesate solo le lacrime. Per don Antonio Riboldi sono tante.

Impastato, l’eroe comico (come tutti gli eroi veri) dell’antimafia. Nel 2018 sono 70 anni dalla nascita e 40 dalla morte del più coraggioso, più paradossale, più sfigato eroe civile. Un figlio di mafioso che colpiva la mafia con la satira. Senza protezioni, scrive Bruno Giurato il 7 Maggio 2018 su “L’Inkiesta”. Nella storia vasta e tragica dei guerrieri antimafia lui è stato il numero uno. Il più coraggioso, il più scoperto. Il più anti-istituzionale, il più paradossale. Il più comico. Peppino Impastato nel 2018 avrebbe compiuto 70 anni (è nato il cinque gennaio 1948, è stato ucciso 40 anni fa, la notte tra l’otto e il nove maggio 1978) non ha la maschera integerrima del combattente per la legalità, anche se poi integerrimo lo era eccome, piuttosto la smorfia di quello che nella tradizione popolare siciliana si chiama Giufà, lo sfigato che rivela i guasti, gli imbrogli, le ipocrisie. Dal di dentro. Perché attenzione, Impastato non è solo quello che urla “La mafia è una montagna di merda”, frase poi diventata un claim nel tascapane bricioloso di chi non sa che vuol dire vivere in un posto di mafia. Impastato è quello che con la sua trasmissione Onda Pazza, che andava in onda su Radio Aut a Cinisi, in pieno feudo mafioso di Don Gaetano Badalamenti, apriva con la canzoncina “Facciamo finta che tutto va ben” e sparava un mix feroce di satira e informazione. Striscia la Notizia, Le Iene, Blob, sono figli dell'archetipo/Peppino. Chiamava Cinisi “Mafiopoli. Una città dove c’erano tanti amici, ed erano tutti amici e amici degli amici”, nominava Badalamenti “Grande capo Tano Seduto”, e raccontava “Don Tano prega” mentre in sottofondo andava “Pregherò” di Celentano. Poi, a un certo punto, arrivava sempre la colonna sonora de Il Padrino. Provate a pensare di fare una cosa del genere, una trasmissione di notte, in un paese di 20 mila orecchie che stanno ascoltando solo voi e due appartengono a Don Tano. E non c'è scorta, e non c'è appoggio dei giornali e delle tv perché fuori di lì nessuno vi conosce. In due, Impastato e Salvo Vitale, a fare avanspettacolo, usando la forma che distrugge il rispetto nella terra in cui vige il proverbio: «U rispettu è misuratu/ cu lu porta l’avi purtatu». Ridere al buio davanti alla Malamorte. Avanspettacolo e denunce: i consigli comunali convocati a notte tarda. L’autostrada per Punta Raisi costruita a zig zag per non toccare i terreni degli "amici e degli amici degli amici, tutti amici". Siamo al paradosso del paradosso. L'eroe dell'antimafia che può fare antimafia grazie al fatto di essere figlio di un mafioso. Suo padre Luigi, soprannominato “Reginedda”, era uomo d’onore e amico di Don Tano Badalamenti. Badalamenti aveva chiesto a Luigi di ammazzare il proprio figlio. Invece il padre coprì Peppino. Il gioco di specchi si amplifica sempre più. Il padre mafioso che protegge il figlio eroe dell'antimafia, il vincolo di sangue -simbolo del tribalismo mafioso- che diventa salvacondotto per il più libero e solo eroe dell'antimafia. Impastato era stato sempre un libero guerrigliero anti istituzionale. Era convinto che l’università fosse inutile: si iscrisse a filosofia e si presentò al primo esame senza studiare niente, a scopo dimostrativo. Prese 28. Abbandonò. Nelle foto di quando ancora non aveva il barbone ideologico, emerge l’aria sfottente, equivoca, già dalla piega delle labbra. Un guerrigliero con il dono dell’ironia. E anche della sfiga. Era innamorato di una certa Anna, con la quale non ci fu mai nulla, e lui, per auto-presa in giro fece l’acronimo del suo nome: Amore Non Ne Avremo. Un guerrigliero che non si perdeva in chiacchiere personal-politiche. Impastato, comunista doc, convinto della serietà di quello che faceva usando l’ironia, detestava ogni fricchettonismo e hippismo, chiamava i fricchettoni: “ri-creativi che non creano un cazzo”. Era figlio di un mafioso, e in un certo senso proprio questa sua condizione gli aveva permesso una certa libertà di denuncia, oltre a dargli una ricca conoscenza di nomi, fatti, cose. Siamo al paradosso del paradosso. L'eroe dell'antimafia che può fare antimafia grazie al fatto di essere figlio di un mafioso. Suo padre Luigi, soprannominato “Reginedda”, era uomo d’onore e amico di Don Tano Badalamenti. Le “minchiate” di Peppino il “disgraziato” gli avevano procurato guai. Anni dopo la madre di Impastato raccontò che Badalamenti aveva chiesto a Luigi di ammazzare il proprio figlio. Invece il padre coprì Peppino. La crepa del paradosso si allarga sempre più. Il padre mafioso che protegge il figlio eroe dell'antimafia, il vincolo di sangue -simbolo del tribalismo mafioso- che diventa salvacondotto per il più libero e solo eroe dell'antimafia. Fino a un certo punto. Fu la morte fortuita di Luigi, investito di notte dall’auto di una donna, per caso, a lasciare Peppino senza protezione. Ai funerali del padre Impastato non strinse la mano di Tano Badalamenti, decretando la propria condanna a morte. E l’esecuzione avvenne nel modo più feroce. E si disse che Impastato era morto preparando un attentato, come Feltrinelli. Si cercava, dopo averlo ucciso, di distruggere la sua credibilità. Solo che il fool, il guerrigliero, il giullare, alla fine ce l’ha fatta. Sappiamo della sua guerra, del suo coraggio di giullare, della sua smorfia. Che poi a vedere bene il quadro di Dürer, il cavaliere di fronte a morte e diavolo ha quella smorfia lì. Quel sorriso lì. Un po' da Giufà.

Peppino Impastato, 40 anni fa la morte del militante che prendeva in giro il potere dei boss. Le lotte e gli slogan in difesa della sua terra, la sfida alla mafia nel paese dei "cento passi". E quella notte del delitto imperfetto sui binari, scrive Enrico Bellavia l'8 maggio 2018 su "La Repubblica". Irridente, geniale ed entusiasta. Un trascinatore nella sua Cinisi muta, cieca e sorda. Militante rigoroso, quanto irrequieto, fermo nel proposito di denuncia, ma convinto che l'arma dell'ironia, dell'irriverenza, dello sberleffo fosse molto più efficace di estenuanti dibattiti e di pagine su pagine di documenti. Peppino Impastato studiava anche quelli con il piglio da giornalista, riconoscimento postumo nella sua esistenza. Come l'elezione a consigliere comunale di Democrazia proletaria, successo dopo cocenti amarezze, arrivata dopo il funerale. E allora eccolo nella memoria dei compagni di un tempo, i dibattiti, certo, i comizi ma anche il cineforum, il circolo di Musica e Cultura, i concerti, l'emancipazione femminile, le feste, le scorribande con i compagni, le serate di chiacchiere e le divergenze fino alle incazzature su fumo, nudisti e amore libero. Le rotture con chi voleva dare a quelle esperienze un'impronta hippy. Ma anche il carnevale, quel suo travestimento da clown che sorprese e spiazzò tutti quando si presentò irriconoscibile con i bambini che gli facevano corona. O quella sua idea che se il Comune opponeva l'occupazione di suolo pubblico per impedire una imbarazzante mostra sulle malefatte di Tano Badalamenti e dei suoi complici in municipio, era allora la mostra stessa a doversi mettere in movimento, a camminare sulle gambe di chi ci credeva, su e giù per il corso, così che potessero vederla tutti.

Peppino, l'antimafia e l'ironia. Erano le lotte per immagini e slogan secchi: quella sulla costruzione dell'Az10 il primo dei complessi turistici che avrebbero contribuito a privatizzare e a sfregiare la costa, gli espropri di campi e pascoli e lo sfascio sociale creato dalla realizzazione della terza pista dell'aeroporto. Lo scalo stesso e il suo essere snodo per il traffico internazionale dell'eroina, raffinata tra mare e montagna nel grande golfo di Castellammare. Il dito puntato su Pino Lipari, un geometra dell'Anas, che molti e molti anni dopo avrebbe portato dritto alla rete di protezione di Bernardo Provenzano. E poi c'era Onda Pazza, l'appuntamento quotidiano di Radio Aut, quel picchiare duro su Tano Seduto e la sua Mafiopoli. La voce che usciva da quel microfono l'ascoltavano tutti: gli amici e i detrattori. Se la ricordano quelli che a Cinisi lo hanno amato e quelli che ancora trovano sempre una ragione per scrollare le spalle. Eppure quel grappolo di case che partono dal Municipio e corrono fin quasi alla costa, con le sue strade squadrate, le campagne avare e le mucche dei "vaccari" un tempo molto più generose di latte e carne, con le seconde case dei palermitani corsi a ritagliarsi uno rettangolo vista mare, oggi nel mondo è il paese di Peppino e non più quello di don Tano, come qui ancora qualcuno chiama il boss morto in carcere negli Usa, prima che la condanna per l'assassinio di Impastato diventasse definitiva. È il paese dei Cento Passi, l'invenzione del film che ha fatto di Peppino un'icona ma è anche il paese di Casa Memoria. Lì dove si custodisce il senso di una vita nota a morte avvenuta, grazie all'impegno di chi gli è sopravvissuto in un ponte ideale con Palermo, dove opera il centro di documentazione alla memoria di Peppino, animato da Umberto Santino che ha dedicato la propria esistenza a battersi per la verità, pur non avendolo mai conosciuto.  Ma Cinisi è anche il paese di Felicia, la madre di Peppino, la donna esile e minuta, dalla tempra fortissima che riuscì a chiudere gli occhi solo quando un pezzo della giustizia pretesa arrivò, 23 anni dopo l'omicidio. Incrociando in tribunale Vito Palazzolo, il braccio destro di don Tano, trascinato a rispondere di quel corpo dilaniato sui binari della ferrovia che si voleva far passare per suicida gli sibilò in faccia: "Vergogna". Costringendolo ad abbassare lo sguardo. Quando le dissero delle condanne prima di Palazzolo e poi di Badalamenti, rispose solo: "Ora posso morire". Alla nipote fino a pochi giorni prima di andarsene chiedeva di metterle ancora una volta "u cinema di Peppino", il film che di quel figlio ridotto "a un sacchetto di resti" gli aveva restituito l'onore della verità. Per notti e notti, prima di allora, sola in casa, se ne stava a contemplare la foto del figlio, percuotendosi le tempie. Se ne accorsero quando la ricoverarono trovando ai raggi X i segni di quei colpi. Lo aveva accudito e coccolato quel figlio, difeso anche contro il marito Luigi, mafioso, che lo aveva ripudiato. Perché Peppino le prime lotte le aveva fatte nel perimetro della sua famiglia, prendendo le distanze dal padre e dal mondo degli amici degli amici. Una rottura insanabile, un disonore, per uno che alle scampagnate con la famiglia si trovava con Luciano Liggio, che aveva visto il corpo dilaniato dello zio capomafia Cesare Manzella, che avrebbe rifiutato le farisaiche condoglianze dei boss al funerale del padre.  Fedele alla linea dettata da Felicia che al marito aveva proibito di portargli in casa i suoi amici. Era anche questo Peppino, intransigente, segnato da un'esperienza sentimentale che lo aveva amareggiato, deluso dalla piega che le convenienze e i minuetti della politica, anche a sinistra, anche a Cinisi, i compagni cooptati nel sistema avevano preso. Ne aveva scritto in una lettera. I carabinieri del futuro generale Antonio Subranni, corsi il 9 maggio di 40 anni fa a chiudere sbrigativamente l'indagine su quel che doveva essere un bombarolo morto in servizio durante la preparazione di un ordigno, usarono anche quella per farlo passare per suicida. Un kamikaze, contro l'evidenza della pietra sporca di sangue con la quale lo avevano stordito, delle sue mani integre, risparmiate da una bomba che si voleva esplosa mentre la maneggiava, dei testimoni mai cercati, delle chiavi di Radio Aut inspiegabilmente lucide, provvidenzialmente trovate tra gli sterpi da un carabiniere. Prima di interrogarsi su cosa fosse accaduto, gli investigatori avevano fretta di stabilire come uscirne. "Era tutto apparecchiato", rivelò un investigatore della polizia, arrivato sul luogo del delitto quando già i militari avevano sentenziato le loro certezze. Le perquisizioni? A casa degli amici e della vittima. Ad afferrare carte per costruire l'inganno. Funzionale all'impunità di un boss forse già allora confidente che doveva essere risparmiato dal suo stesso crimine. A dispetto delle tante, troppe tracce, di un delitto assai imperfetto.   

Impastato, il mistero dell'archivio sparito. Il fratello: "Non archiviate l'inchiesta", scrive l'8 maggio 2018 "Repubblica TV". La mattina del 9 maggio 1978, il corpo dilaniato di Peppino Impastato fu ritrovato sui binari della ferrovia Palermo-Alcamo. L'allora maggiore Antonio Subranni orientò subito le indagini sulla pista dell'attentato terroristico suicida. Invece, il giovane attivista che denunciava la mafia dai microfoni di Radio Aut era stato assassinato. Siamo tornati sul luogo del delitto, con il fratello di Peppino, Giovanni, e con due suoi compagni, per ripercorrere il depistaggio istituzionale che per troppo tempo ha tenuta lontana la verità. Giovanni Impastato chiede che l'inchiesta sul depistaggio non venga chiusa e che l'archivio di Peppino sia restituito alla famiglia, "perchè - dice - quella notte fu sequestrato illegittimamente dai carabinieri". Per il depistaggio, sono indagati il generale Subranni (di recente condannato a 12 anni nel processo Trattativa Stato-mafia) e tre sottufficiali, la procura di Palermo ha chiesto l'archiviazione per prescrizione.

Cinque indagini, la condanna in primo grado per il boss di Cosa nostra Tano Badalamenti e due richieste d'archiviazione per i carabinieri di Antonio Subranni non sono bastate a scrivere la verità sull'omicidio dell'attivista di Democrazia proletaria, assassinato a Cinisi nella notte tra l'8 e il 9 maggio del 1978. Sullo sfondo resta la relazione dell'Antimafia che parla di "patti" tra mafiosi e pezzi dello Stato e una pista che conduce a un altro mistero italiano, scrive Giuseppe Pipitone l'8 maggio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Doveva essere solo la storia di un pazzo, uno dei tanti. Un terrorista saltato in aria mentre cercava di fare esplodere la ferrovia. E invece era la storia di una ribellione: la ribellione a Cosa nostra fatta da un figlio di Cosa nostra. Ma quella di Peppino Impastato è soprattutto la storia di un depistaggio. Un caso insabbiato perché legato a una pervicace e inconfessabile convivenza, sempre la stessa: mafiosi protetti da pezzi dello Stato. Il risultato è che non sono bastati quarant’anni, cinque inchieste della magistratura, una della commissione Antimafia, due condanne in primo grado per boss di Cosa nostra e altrettante richieste d’archiviare le indagini su quattro carabinieri per scrivere la verità sull’omicidio dell’attivista di Democrazia proletaria, assassinato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. La notte della Repubblica – Sarebbe passata alla storia come la notte della Repubblica, con i telegiornali a raccontare del ritrovamento di via Caetani, la Renault, le Brigate rosse e il cadavere di Aldo Moro. In coda una notizia locale: la morte accidentale di un bombarolo pazzo in terra di Sicilia. Non era accidentale e non era neanche quella di un bombarolo pazzo. La verità era un’altra ed era vicina, vicinissima, addirittura a pochi metri da casa del morto. Anzi ad appena cento passi, per citare il film di Marco Tullio Giordana che diede notorietà alla storia dell’attivista di Cinisi. Figlio e nipote di mafiosi, Impastato era nato e cresciuto nella stessa strada in cui abitava Gaetano Badalamenti, il boss del paese che sarà condannato all’ergastolo per quell’omicidio ma solo in primo grado: Tano Seduto, come lo chiamava Peppino dai microfoni della sua radio Aut, sarebbe morto prima della Cassazione.

Indagini, pentiti e archiviazioni – D’altra parte per arrivare alla sentenza della corte d’Assise su Badalamenti si è dovuto attendere fino al 2002: un pezzettino di verità con ventiquattro anni di ritardo. Ed è per questo motivo che la principale domanda rimasta inevasa ancora oggi è soprattutto una: perché gli uomini del generale Antonio Subranni avrebbero depistato le indagini sull’omicidio Impastato? A sancirlo non c’è alcuna sentenza, ma anzi sull’ex numero uno del Ros, recentemente condannato a dodici anni alla fine del processo sulla Trattativa Stato – mafia, è stata avanzata una richiesta d’archiviazione. A tirarlo in ballo è il pentito Francesco Di Carlo: “Gaetano Badalamenti – ha raccontato il collaboratore – spingeva Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo mi ha detto: no, la cosa si è chiusa. Non spuntava più niente nei giornali per un periodo, era stata archiviata”. Per due volte, però, la procura di Palermo ha chiesto al gip di chiudere l’inchiesta su Subranni, accusato di favoreggiamento, e su Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo, accusati di falso. Il motivo? Su quei reati si è ormai abbattuta la prescrizione. L’ultima richiesta d’archiviazione è del giugno del 2016 e da allora si attende che un gip decida cosa fare dell’indagine riaperta nel 2010 dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, e poi portata avanti dai pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia. Comunque vada l’ultima inchiesta sul caso Impastato ripercorre nel dettaglio le manovre compiute dai carabinieri per evitare a tutti i costi di battere la pista mafiosa.

Come insabbiarono l’omicidio – Un depistaggio ricostruito dal centro Impastato – autore nel 1994 della prima istanza di riapertura dell’inchiesta – e poi finito al centro del lavoro della commissione parlamentare Antimafia, che ha messo in fila omissioni e buchi di un’indagine deviata già sulla scena del delitto. Quella mattina di maggio di quarant’anni fa, gli investigatori arrivati nelle campagne tra Cinisi e Terrasini non vedono che a pochi metri dal cratere sui binari c’è una pietra, poi trovata dai compagni di Impastato: è un grosso sasso con una larga macchia scura di sangue. Con tutta probabilità è l’arma usata per ammazzare Peppino: poi i killer “vestirono il pupo”, lo legarono al binario e fecero in modo che sembrasse un terrorista morto suicida. Ma nella prima informativa dei carabinieri di quel sasso rosso non si parla. “In proposito – si legge in un articolo del Giornale di Sicilia di quel periodo – gli investigatori hanno detto di avere trovato accanto a quelle macchie degli assorbenti igienici femminili e sono convinti che l’indagine ematologica non sposterà il quadro già delineato”. Si parla, invece, dell’esplosivo usato per il presunto attentato: era dello stesso tipo di quello che veniva utilizzato nelle cave. Eppure non una perquisizione sarà ordinata nelle cave intorno Cinisi, tutte o quasi di proprietà dei mafiosi. “Anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia”, scrivono sicuri i carabinieri nel primo rapporto presentato in procura.

La testimone scomparsa era a casa sua – E siccome la mano mafiosa era da escludere a priori, non vengono sentiti neanche quelli che potevano essere i testimoni oculari del delitto. Come Provvidenza Vitale, la casellante di turno al passaggio a livello di Cinisi la notte in cui Impastato viene ammazzato. Per trentadue anni nessuno è mai riuscito a trovarla. O meglio: si disse che era immigrata negli Stati Uniti perché rimasta vedova e sui verbali i carabinieri scrissero semplicemente che la donna era “irreperibile”. Solo che Vitale non è mai scomparsa e non è mai stata neanche irreperibile. Salvo brevi soggiorni da alcuni parenti Oltreoceano, ha sempre abitato a casa sua, a Terrasini, cittadina attaccata a Cinisi, poco più di diecimila abitanti ad ovest di Palermo. A scoprirlo è proprio il pm Del Bene che va a interrogarla nel 2011: la donna, però, ha ormai 88 anni e pochi ricordi di quella notte di maggio del 1978. Il pm, però, appura che Vitale non si era quasi mai allontanata da casa, che ha sempre abitato a due passi da luogo in cui Impastato fu ucciso, dove ha cresciuto sei figli. Addirittura uno dei suoi generi è un carabiniere: perché, dunque, per tutti questi anni gli investigatori avrebbero cercato di celare agli organi inquirenti l’esistenza della teste chiave in un caso delicato come quello Impastato?

L’indagine della commissione Antimafia e quei patti mafia – Stato – Una risposta prova a darla la commissione Antimafia nel 2000. “Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un  sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti; un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”, scrive il relatore Giovanni Russo Spena. “È anche del tutto probabile – continua la relazione di Palazzo San Macuto – che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. È ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capimafia i quali, agli occhi del popolo mafioso, vogliono apparire come i più fieri avversari della ‘sbirraglia‘ ma in realtà con la ‘sbirraglia’ trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco. Per un lungo periodo storico la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stata un dato di fatto, anzi è stata il cuore di quelli che oggi vengono chiamati ‘colloqui investigativi'”. È davvero così? Le indagini su Impastato sono state insabbiate solo per un patto di non belligeranza tra boss e carabinieri? Per un doppio gioco, uno scambio di favori, una trattativa ante litteram che aveva come obiettivi la cattura dei latitanti e il controllo della zona?

Il sequestro informale e i pezzi mancanti – È l’ipotesi della procura di Palermo che proprio per il Patto con Cosa nostra ha ottenuto recentemente la condanna di Subranni. Sullo sfondo del caso Impastato, però, ha fatto capolino di recente anche un’altra pista investigativa molto più nera e oscura. Un’ipotesi legata a un’altra scoperta fatta dai pm, un foglio su cui i carabinieri avevano scritto: “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”. A casa di Peppino ci fu un sequestro informale dunque, cioè un sequestro non autorizzato da nessuno. Quello foglio è un dettaglio importante perché si affianca a un altro elenco, questa volta formale, in cui i carabinieri avevano appuntato di avere portato via da casa Impastato solo sei fogli tra lettere e volantini, con scritti d’ispirazione politica e propositi di suicidio. “Voglio abbandonare la politica e la vita”, è il testo di un appunto che per gli inquirenti doveva essere la prova del suicidio. Nei documenti sequestrati, però, c’era anche altro. Lo ha raccontato Giovanni Impastato, fratello di Peppino: “Ricordo che mio fratello poco prima di morire si stava interessando attivamente alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri. In seguito a quel fatto, gli uomini dell’Arma vennero a perquisire casa nostra dato che mio fratello era considerato un estremista. Da lì Peppino iniziò a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier: una cartelletta che fu sequestrata e mai più restituita”.

La pista della casermetta di Alcamo Marina – La strage della casermetta di Alcamo Marina è ancora oggi uno dei tanti misteri insoluti di questo paese. I carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta furono trovati uccisi la notte del 27 novembre 1976 nella frazione balneare della cittadina in provincia di Trapani, a trenta chilometri da Cinisi. Per il duplice omicidio furono arrestati quattro giovani, Giuseppe Vesco, Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. Fu il primo ad accusare gli altri tre, che all’epoca frequentavano ancora le scuole superiori. Furono torturati e costretti a suon di botte a firmare una confessione. Il loro accusatore, cioè lo stesso Vesco, morì invece carcere in strane circostanze: fu trovato impiccato in cella nonostante gli mancasse la mano destra. Come avrebbe fatto a fare il nodo scorsoio con un mano sola? Quello di Alcamo Marina è un delitto strano. Un duplice omicidio maturato in un contesto inquietante e ancora oggi senza un colpevole: come quello di Impastato, appunto. Vesco, Santangelo e Gulotta hanno dovuto aspettare 36 anni perché spuntasse a sorpresa un testimone a raccontare la verità: grazie alle parole del brigadiere in pensione Renato Olino furono assolti nel processo di revisione, ma solo nel 2012.

Gladio, le convergenze parallele, il puzzle – Gli autori della strage della casermetta, invece, rimangono senza volto. Si ipotizzò soltanto che Apuzzo e Falcetta vennero assassinati perché durante un posto di blocco ebbero la sfortuna di imbattersi in un furgone: a bordo c’erano armi destinate a una base di Gladio nelle vicinanze. È per questo motivo che la strage della casermetta viene subito risolta addossando la colpa a quattro innocenti? Perché c’era il rischio di svelare con 25 anni di anticipo l’esistenza dell’organizzazione paramilitare clandestina che aderiva a Stay Behind, cioè l’operazione promossa dalla Cia in Europa in chiave anti comunista? Sono soltanto ipotesi, piste investigative mai confermate e dunque domande senza una risposta, ma che gli inquirenti hanno collegato in tempi recenti al caso Impastato. L’attività di controinformazione di Peppino era forse riuscita a raccogliere elementi sulla strage della casermetta? Ed è anche per questo motivo che le indagini sull’assassinio del giovane di Cinisi furono depistate? Impastato divenne un caso da insabbiare per occultare i reali motivi che ne avevano decretato la morte? In questo caso il fatto che dai microfoni di radio Aut mettesse alla berlina Badalamenti sarebbe soltanto un motivo in più per metterlo a tacere. Gli investigatori la chiamano “convergenza di interessi”: si verifica quando sono molteplici i motivi e i mandanti di un delitto eccellente. E quello di Impastato un delitto eccellente lo è stato senz’altro. Doveva essere solo la storia di un pazzo. Oggi è la storia di un puzzle incompleto: negli anni c’è sempre stato qualcuno che ha tentato di nasconderne qualche pezzo.

Il Dio degli antimafiosi (quello che “La Repubblica” mai scriverà). Due secoli di Chiesa antimafia, scrive Antonio Maria Mira giovedì 20 novembre 2014 su "Avvenire". «La mafia ha i piedi in Sicilia ma la testa forse a Roma. La mafia diventerà più crudele e disumana, dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per portarsi anche al di là delle Alpi». Era il 1900 e così parlava don Luigi Sturzo. Frasi praticamente sconosciute. A citarle è un altro sacerdote, don Luigi Ciotti. «Questa è la profezia di un uomo che fonderà una forza politica come servizio per il bene comune, un siciliano attento, che disturbava i poteri forti di allora. In quegli stessi anni preti impegnati, per amore dei poveri e per la loro denuncia della corruzione mafiosa venivano ammazzati: don Giorgio Gennaro, don Costantino Stella, don Stefano Caronia». Dunque, sottolinea, «c’è stata una Chiesa che ha sempre saputo essere attenta alle mafie. Magari numeri piccoli, ma c’erano sacerdoti e vescovi che condannavano questo male. Una Chiesa che ha reagito, ha parlato. Ma – denuncia – c’è stato anche chi per tiepidezza, prudenza, ignoranza, superficialità è stato dall’altra parte. Non possiamo nasconderlo, ci sono state delle risposte, dei sacrifici, del coraggio, ma anche dei grandi vuoti». Questo il fondatore del Gruppo Abele e di Libera andrà a raccontare oggi al convegno "L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia", che vedrà per due giorni a Roma gli interventi di storici, sociologi, antropologi. «Un’operazione collettiva – spiega Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all’Università di Tor Vergata e organizzatrice dell’iniziativa –, un progetto di ricerca del quale il convegno è la prima uscita pubblica, che si prefigge si analizzare l’immaginario devoto: da un lato come viene utilizzato dalle organizzazioni criminali nei riti di affiliazioni, nelle processioni, nei funerali, nei matrimoni e nei battesimi, e dall’altro su come la Chiesa sia impegnata a creare modelli di santità e di devozione alternativi a quelli delle organizzazioni criminali». L’obiettivo è di affrontare questi temi «con metodo analitico. Da allargare poi alle esperienze di altri Paesi come il Messico, la Russia e il Giappone. Aprendo anche un focus su come ne ha parlato il cinema. Un lavoro che, se troveremo i finanziamenti, vorremmo portare non solo agli studenti universitari, ma anche nelle scuole». Un progetto articolato, dunque, e don Ciotti racconterà della “Chiesa dell’antimafia” che, come abbiamo visto parte da molto lontano. Ancor prima di don Sturzo. «Nel 1877 – cita ancora – il giornale La Sicilia cattolica, organo della curia vescovile di Palermo, denunciava la collusione tra la buona società e il crimine organizzato: “Che vale essere avvocato, sindaco, proprietario e perfino deputato se delle loro proprietà e titoli se ne servono a proteggere il malandrinaggio. Per giungere ad alcunché di positivo bisogna non transigere con la mafia”. Attenzione – avverte don Luigi – noi ne parliamo oggi ma qualcuno se ne era già accorto allora». Per questo, aggiunge collegandosi alla finalità del progetto, «la storia è importante. Come Chiesa abbiamo un patrimonio molto importante, una storia fatta di storie. Certo con fasi alterne. E io sono andato a scoprire proprio queste oscillazioni della Chiesa in alcuni momenti attenta, in altri distratta». Nel suo scavare la storia don Luigi trova una scomunica datata 1° dicembre 1944. La lanciano i vescovi siciliani in una "lettera collettiva" di condanna dei «gravi mali morali». Dove si legge: «Si è inflitta la seguente censura: incorrono ipso facto nella scomunica riservata all’ordinario tutti coloro che si fanno rei sia di rapina sia di furto congiunto con atti di violenza sia di omicidio ingiusto e volontario». «Il testo – commenta don Ciotti – ufficialmente non menziona il termine mafia, ma dal contesto si capisce che si riferisce a fatti e circostanza che riguardano la mafia. Dunque i vescovi siciliani c’erano già da allora su questi temi e questo mi fa un po’ arrabbiare...». Perché poi bisogna arrivare al 1963 quando l’allora segretario della Segreteria di Stato, Giovan Battista Montini, scrive al cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini «per chiedergli di intervenire dopo la strage di sette uomini delle forze dell’ordine. E lo invitava “a commisurare i progetti pastorali con l’emergenza mafiosa”. Aveva proprio ragione perché le mafie non sono un mondo a parte, ma sono parte del nostro mondo. E quindi siamo chiamati a leggere la storia, a immergerci nella storia». Una storia che arriva poi, nell’analisi di don Ciotti, alla famosa invettiva di Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento. La mafia risponde con le bombe alle chiese di Roma il 28 luglio, e uccide don Puglisi il 15 settembre. La motivazione arriva il 19 agosto quando Marino Mannoia, protetto dall’Fbi in Usa, dice: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: “Non interferite”». Quindi se prima era sacra e intoccabile vuol dire che in troppi non avevano contrastato la mafia. «Un altro mafioso, Leonardo Messina, spiegò: “La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da cosa nostra”». Come fece il cardinale Salvatore Pappalardo al funerale del parroco di Brancaccio: «Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. E la comunità civile e ancor più la comunità cristiana che deve reagire coralmente non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denuncia, e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli». E don Ciotti riflette: «Questo è il Vangelo che raccomanda la parresia che è il contrario dell’ipocrisia. E allora è necessaria una svolta ulteriore nella Chiesa che non può essere affidata solo a qualche vescovo, a qualche sacerdote e alle parole di un Papa».

Ossessione antimafia (comunista nda): lo Stato vuole controllare le omelie, scrive Andrea Zambrano il 07-02-2018 su "La Nuova Bussola Quotidiana". Una parrocchia che si fa tribunale del popolo e un vescovo che diventa procuratore generale obbligato a denunciare il minimo sospetto di mafiosità. E in mezzo sacerdoti come osservati speciali per concorso esterno le cui omelie vengono tenute d’occhio da un osservatorio statale. E' il punto centrale del Tavolo 13 su Religione e Mafia promosso dal ministero e coordinato da Alberto Melloni e che la Cei ha bocciato. Con questo criterio trionfa il sospetto e il pregiudizio, proprio il terreno più fertile perché il potere mafioso cresca e germini i suoi semi di morte. Una parrocchia che si fa tribunale del popolo e un vescovo che diventa procuratore generale obbligato a denunciare il minimo sospetto di mafiosità. E in mezzo sacerdoti come tanti osservati speciali per concorso esterno le cui omelie vengono tenute d’occhio da un osservatorio statale apposito: tutto deve essere ricalibrato secondo la nuova definizione di Teologia della liberazione dalle mafie, anche la cura d’anime e l’attività pastorale e spirituale. Soltanto la confessione, grazie a una sentenza della Cassazione, per il momento non sarà toccata. Per tutto il resto lo scenario delineato dalle conclusioni del Tavolo 13 su Religione e Mafia all’interno degli Stati generali del Ministero della Giustizia va nell’ottica di un controllo statale di tutta l’attività ecclesiastica. Facile capire perché il documento – a cui hanno lavorato 13 “esperti” nominati dal Guardasigilli Andrea Orlando e coordinati da Alberto Melloni – è stato bocciato senza appello dal segretario della Cei Nunzio Galantino. Proprio perché sembra di scorgervi una metodologia di controllo da politburo sulle attività e sulla libertà concordataria della Chiesa cattolica italiana. Ma soprattutto perché parte da premesse di sospetto sulla reale percezione che la Chiesa italiana ha del fenomeno mafioso. Il documento chiede quindi “alle Chiese (ci sono anche le altre confessioni religiose, ma quella Cattolica è “l’imputato” numero 1) qualcosa di molto di più di ciò che finora è stato chiesto”. In particolare che cosa? Una “vigilanza sulle pratiche devozionali e l’esplicitazione della coincidenza peccato/reato nella adesione alle Mafie”. Sembra da parte degli estensori della Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna, che ha avuto nella stesura del documento una larga voce in capitolo per numero di membri e per autorevolezza di componenti, tra cui l’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, sembra che quella delle devozioni pubbliche sia un’ossessione. Complice la letteratura giornalistica fatta di inchini e processioni in favore di boss, molto limitate nel numero e scarsamente documentate a fronte di una terra, il meridione, che di processioni e devozioni vive ancora a differenza del nord Italia, con spirito genuino e sincero di fede di popolo. Infatti si intima alla Chiesa di “vigilare affinché le espressioni della religiosità popolare non diventino il set su cui inscenare una rappresentazione del potere mafioso con effetti di intimidazione verso le vittime e di seduzione verso i giovani”. Sembrano parole di chi non conosce il sud Italia, dove sicuramente ci sono episodi discutibili ed eccesivi, ma che non corrispondono alla realtà dei fatti. Lo dimostra il fatto che a comprovare le presunte connivenze tra Chiesa e Mafia il lavoro ministeriale non è in grado di elencare che un paio di episodi di sacerdoti, molti anni fa, trovati a celebrare messa in un covo di un boss, un prete arrestato nel ’97 perché palesemente mafioso e pochissimo altro. Tutto il resto è letteratura data per scontata per arrivare ad affermare un postulato del tutto discutibile: la Chiesa non ha fato abbastanza nella lotta antimafia. Certo, vengono citati esempi luminosi e paradigmatici: don Pino Puglisi, don Peppino Diana, il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento e la scomunica lanciata ai mafiosi da Papa Francesco. Ma è strano, molto strano, che non si citi l’impegno antimafia del giudice Rosario Livatino, guarda caso servo di Dio. Eppure anche lui è stato un figlio della Chiesa siciliana, fulgido esempio di fede e di lotta alla mafia. Il documento parla un linguaggio che non appartiene a quello cattolico, più incentrato sulla conversione dei cuori che non sulla resistenza civile. E affronta anche alcuni cenni storici per cercare di spiegare la presunta indifferenza quando non complicità delle strutture ecclesiastiche verso i poteri mafiosi: “Gerarchie ecclesiastiche affaccendate nei decenni della guerra fredda in una viscerale avversione al comunismo hanno favorito e non hanno ostacolato un cattolicesimo imperniato sulla cerimonialità collettiva e sulla devozione ai santi minimizzando la pericolosità quand’anche non favorendola del fenomeno mafioso ai fini di rideclinare in senso anticomunista una nuova societas christiana”. Parole gravi, che di fatto attribuiscono alla Chiesa una sorta di connivenza nel segno dell’anticomunismo. Insomma: ne esce un quadro di una Chiesa troppo impegnata nella lotta al comunismo e per nulla alla Mafia. Con queste generalizzazioni “savianesche” ne esce umiliato tutto il clero siciliano (di Ndrangheta e Camorra non si parla, anche qui una lacuna). Letteratura, si dirà. Ma presentata con il sigillo governativo dello Stato. Che ora passa a incassare una sorta di tributo che sa di imposizione. E al primo punto troviamo l’aspetto più inquietante: il monitoraggio della predicazione. “Dallo Stato emerge la poca attenzione che la storiografia ha sinora prestato alla predicazione come fonte sia contro sia a favore delle Mafie nelle comunità di fede”. Ma questo è un dato che accompagna la vita delle comunità sacerdotali alle quali sta più a cuore la conversione del peccatore che la denuncia di questo o quel comportamento sospettoso. Perché non è il suo compito. Capirlo non è difficile, ciononostante si propone di costituire un osservatorio sulla predicazione in Italia, composto, si badi, da giudici e giornalisti per consentire ai responsabili delle comunità di fede nelle quali si suppone vi sia un reclutamento criminale di vigilare e poter intervenire con l’auspicio di atti correttivi risolutivi o di predisporre catechesi su ciò che davvero ha valore per la costruzione del tessuto sociale”. Reclutamento nelle parrocchie? Ma su quali basi? Su quali informative di polizia? Tradotto: in una parrocchia si sospetta che il parroco non parli a sufficienza della mafia. Allora si mette in moto l’osservatorio dove giudici e giornalisti, notoriamente le due categorie più sensibili al professionismo antimafia dovranno verificare il comportamento del sacerdote. Se questi non soddisferà i criteri, bisognerà intervenire per purgare il pericoloso nemico del popolo. Come? Questo il documento non lo dice, ma è importante che passi il concetto. Il candidato del Pd Andrea Orlando saprà riproporre la tematica all’attenzione del Parlamento. Con questo criterio trionfa il sospetto e il pregiudizio, proprio il terreno più fertile perché il potere mafioso cresca e germini i suoi semi di morte. Ma soprattutto il controllo sociale sull’attività spirituale di ministri del culto. Sembra di essere tornati nella Repubblica Popolare Tedesca. Ma siamo in una sala del ministero di via Arenula con molti cattolici doc con patente di essere adulti.

E' SCONTRO CON LA CEI. La Scuola di Bologna vuole prendersi anche l'Antimafia, scrive Andrea Zambrano il 07-02-2018 su "La Nuova Bussola Quotidiana". Galantino accusa il tavolo ministeriale su Mafia e Religione definendolo "banale e arrogante". Ma l'obiettivo non è il Guardasigilli, bensì il suo "tifoso" Alberto Melloni, che con il vescovo "dosettiano" di Palermo confeziona uno studio per accusare la Chiesa di non fare lotta antimafia. Ci mancava anche lo scontro ecclesiale per il controllo del mainstream antimafia. L’attacco è di quelli eclatanti, ma è passato in sordina, forse perché nessuno si è accorto della sua portata. Il terreno è il campo dell’antimafia dove fa specie che due vescovi si mettano l’un contro l’altro per il controllo della vulgata sulla legalità. Soprattutto se uno dei protagonisti è il segretario della Cei Nunzio Galantino, che della Conferenza Episcopale Italiana sembra anche il presidente ombra. I fatti risalgono a qualche giorno fa. Galantino viene invitato a Roma a Contromafiecorruzione, un’iniziativa organizzata da Rete Libera di don Ciotti. Nel portare il suo sostegno ai partecipanti, il vescovo si lancia su un j’accuse molto preciso. E’ rivolto agli Stati Generali per la Lotta alle mafie, un organismo ministeriale creato dal titolare della Giustizia Andrea Orlando che ha lavorato su diversi tavoli e ha presentato i suoi lavori a fine novembre scorso a Milano. In particolare, nel mirino del vescovo segretario è finito il tavolo 13, quello che Orlando ha istituito per affrontare la tematica su Mafia e Religione. A Galantino non sono piaciute le conclusioni di questo tavolo. “Tra le affermazioni, banalità, non documentate, scritte con una buona dose di arroganza e sicuramente sostenute da preconcetti e mancanza di conoscenze dirette, leggo di una fattuale estraneità delle Chiese, o almeno della Chiesa cattolica, a una lotta alle mafie”, ha detto. E ha proseguito: “Posso esibire, storie, nomi e fatti che, non da oggi, vedono uomini e donne di Chiesa impegnati, non intorno al Tavolo 13, ma per strada mettendoci faccia e impegno”. Poi ha rincarato la dose bocciando di fatto quel tavolo ministeriale: “La mia non è una rivendicazione quanto piuttosto la voglia di prendere le distanze da chi farebbe bene ad abbandonare ideologismi sterili per vedere dove c’è l’impegno e riconoscerlo”. Insomma, l’attacco di Galantino è significativo, ma sbaglierebbe chi pensasse che l’obiettivo del segretario Cei fosse solo politico, o almeno di quella politica Pd che tramite Orlando ha licenziato il documento sostenendo la tesi che la Chiesa non faccia abbastanza per la cultura antimafia. No. E’ uno scontro tutto ecclesiale. Per capire il peso di questo scontro infatti è bene andare a guardare chi ha composto fino al novembre scorso il Tavolo 13 promosso dal ministero. In cima troviamo una vecchia conoscenza del cattolicesimo democratico, quell’Alberto Melloni che del ministro Orlando è stato non solo consulente in questo tavolo, ma di cui è anche tifoso politico, avendo appoggiato pubblicamente la sua candidatura nell’aprile scorso alle primarie Pd. Un tifo politico che Melloni non nasconde e che probabilmente si ravviverà in questi giorni dato che l’esponente della minoranza Pd è candidato in un collegio a Reggio Emilia, che non è solo un fortino elettorale rosso, ma è anche la città in cui Melloni vive e insegna, quando non è impegnato in altri incarichi consulenziali. Ora, a parte la curiosità di Melloni che viene nominato coordinatore del tavolo da Orlando, di cui politicamente fa il tifo, ma evidentemente non ci sarà materia per conflitti di interessi vari, è significativo andare a spulciare anche gli altri nomi del board ministeriale. E qui si scopre che ci sono davvero tante conoscenze di Melloni. Esperti di religione forse sì, ma chissà poi quanto esperti di mafia, malavita, legalità, criminalità organizzata etc…In tutto, compreso Melloni ci sono 14 membri. E tra questi spiccano diversi componenti della Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna, il think tank del cattolicesimo progressista di cui Melloni è segretario plenipotenziario e già beneficiato lautamente dagli ultimi governi, non senza ambiguità. C’è ad esempio Davide Dainese, classe 1981, che è membro della Scuola di Bologna e si occupa prevalentemente di Tarda Antichità e Patristica. E c’è Silvia Cristofori, ricercatrice di antropologia culturale che ha svolto ricerche in Rwanda e nel contesto migratorio romano. Anche qui non c’è traccia di competenze nel campo di boss e mammasantissima. Forse un po’ di esperienza potrebbe avercela un altro membro del tavolo, e anch’egli membro in via San Vitale a Bologna, don Giuseppe Ruggieri, che è entrato in Fondazione nel lontano 1978 e ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Ma nessuna, ahinoi, nel campo della lotta alla Mafia, né al rapporto tra Chiesa e criminalità organizzata. Insomma: per trovare un qualche membro della Fondazione più o meno con attinenza alla tematica in oggetto bisogna ricorrere a monsignor Corrado Lorefice, da pochi anni vescovo di Palermo. Che almeno è siciliano, il che non significa automaticamente che si intenda di Mafia, ma almeno in questa penuria di competenze fornite da via San Vitale, può fare la sua figura. Di sicuro è considerato affiliatissimo alla scuola di Bologna, dove ha studiato e grazie alla quale ha potuto dare alle stampe un volume sulla Chiesa povera di Dossetti e Lercaro, uno dei “core business” della Fscire. Non è questo il luogo per analizzare le conclusioni del tavolo, per questo rimandiamo a un successivo articolo, se non dire che le conclusioni scaturite dagli incontri della commissione, appena tre in tutto, hanno fortemente irritato il segretario della Cei. Per una sorta di ingerenza negli affari della Chiesa portati avanti da un governo ma con il lavoro di esponenti di Chiesa, vedi il vescovo Lorefice, e di studiosi che si fregiano, vedi Melloni, la patente di cattolici doc, moderni e molto vicini a Papa Francesco. E a questo tentativo di indirizzare le politiche antimafia della Chiesa italiana Galantino ha risposto con una veemenza che di fatto smentisce la granitica sicurezza che la Scuola di Bologna ha sempre vantato circa il suo potere nella mappa del cattolicesimo che conta. Di sicuro è uno scontro insolito, dove l’antimafia non è altro che una scusa per disegnare equilibri e scenari di potere diversi. Con questo documento bocciato da Galantino si chiedono alla Chiesa e alla Santa Sede interventi canonici e magisteriali nuovi, ma si preannuncia anche l’inquietante scenario di un monitoraggio della predicazione dei preti, per controllarli in chiave antimafia. E si denuncia anche l’impossibilità della Cei a collaborare con il tavolo di Orlando. La relazione licenziata da Melloni e dai suoi uomini parla chiaro quando denuncia “la difficoltà manifestata dalla presidenza (Bassetti) e dalla segreteria (Galantino) della Cei a contribuire in forma di audizione scritta ai lavori del tavolo” oltre al “diniego alla richiesta da indirizzare all’episcopato di una lettera che chiedeva a ciascuna chiesa diocesana di confessione cattolico-romana di prendere posizione sul tema”. Una difficoltà che per Melloni & co è indice della “fattuale estraneità delle Chiese – o almeno sicuramente della Chiesa cattolica – a una lotta alle mafie che, essenzialmente, è condotta soltanto dalle istituzioni dello Stato”. Firmato, rivisto e corretto per conto di un governo Pd dalla scuola di Bologna, nota esperta di mafie e affini.

Il papa mano nella mano con don Ciotti? Non ci resta che piangere. Lunedì 24 marzo 2014. Fantasie dell’Avvocato fiorentino Julo Alberto junior Scopetani su "Riscossa cristiana" riportato da "Imola Oggi". Siccome tra i miei clienti ne ho alcuni che fanno uso di droga , “leggera” o pesante non importa, e ho anche genitori che hanno la disgrazia incommensurabile di dover convivere con uno o più figli che fanno uso di stupefacenti seguo con interesse le iniziative (praticamente inesistenti) per il recupero e la cura delle tossicodipendenze e da anni (ma anche mio padre affrontava questi problemi che erano argomento di discussione in famiglia), per quanto mi è possibile, cerco anche di dare il mio contributo a questa vera e propria “guerra” contro la droga. Se guardassimo i numeri verremmo presi dallo sgomento. Nelle scuole superiori si contano sulla punta delle dita coloro che NON hanno fatto uso di droga (ripeto: non importa di quali droghe perché non esistono le così dette droghe “leggere”). Questa corsa alla morte sembra ormai inarrestabile se si pensa che da noi, giorni fa, la prima regione, con una giunta di centro destra (sic) si noti bene, che ha introdotto l’uso della cannabis medica è stata la Regione Abruzzo (Presidente il forzitaliota Chiodi)….e lì hanno dato ad intendere che da anni e anni si facevano aspettare e soffrire i malati mentre era in corso la ricerca scientifica che riuscisse a isolare quelle sostanze chimiche efficaci alle cure e che non provocassero danni…secondo Johan A. Benson dell’Institute of Medicine (IOM), la ricerca sui cannabinoidi è in corso da anni e forse qualcuno degli elementi potrà anche risultare utile alla medicina ma è comunque -sentenzia lo stesso scienziato – impensabile “vedere nel futuro la sigaretta di marijuana da fumare come medicina”. Negli Usa ad esempio ci sono diversi farmaci contenenti dei principi attivi dei cannabinoidi come il Marinol che è in libera vendita dal 1985 e il Marinol non procura danni alla salute come invece produce la Cannabis. Eppure nella Regione Abruzzo (ma è la tiritera di tutti i sostenitori della libertà di drogarsi) si sosteneva che il Marinol fosse troppo lento ad agire e non efficace per tutti i sintomi. Tutto falso, in quanto in realtà la “cannabis medica” già esiste ed è proprio il Marinol, che riesce a veicolare dosi controllate di THC senza alcune delle controindicazioni dell’assunzione per inalazione (in altre parole, invece di usare farmaci ottimi e non nocivi, si è voluto legalizzare il consumo dello spinello libero, una vera e propria calamità). Il discorso fatto per la Cannabis vale per tutte le altre droghe e vedremo come. E la droga è legata al fenomeno della distruzione della famiglia cominciata con l’introduzione del divorzio: ricordo – ero un ragazzino – quando negli anni Sessanta e Settanta papà andava, insieme a don Luigi Stefani e al generale Acrisio Bianchini, nelle scuole – allora fu il Provveditorato agli studi a chiamarli – per mettere in guardia i giovani dai mercanti di morte. Ho ancora, in archivio, alcune delle “linee” delle conferenze di mio padre e don Luigi Stefani il quale ammoniva: “Le manchevolezze dei genitori, l’incoerenza, la lontananza dagli ideali che li affascinano, si ingigantiscono ai loro occhi (degli adolescenti n.d.r). Il televisore, l’auto sportiva, le ferie all’estero, i pranzi fatti in un soffio con lo scatolame e le ricette lampo dei cibi preconfezionati, tutta l’efficienza dimostrata dal loro nido domestico, anzichè, come i genitori si aspetterebbero, far crescere la stima per la famiglia, cova nel ragazzo la reazione.

Si sente immediatamente solo, incompreso, comincia a nutrire risentimento, e spesso odio contro la famiglia e la società. Non c’è che un’azione compensativa: intrupparsi in un clan, con giovani che, frustrati come lui, si sentono come lui, la pensano come lui, hanno gli stessi atteggiamenti di lui, si rivoltano a quelle che anche lui chiama ingiustizie e fanno come lui i confronti. Nasce il gruppo: il giovane isolato è debole, il giovane nel gruppo è forte! La sua insicurezza trova una medicina, la sua esistenza inappagata e il suo tormento trovano nell’evasione del gruppo un rimedio. Come meravigliarsi a questo punto se la droga completa il quadro, fornendo gli elementi chimici per facilitare l’evasione, il sogno represso, il conforto nella disperante situazione? Si vuole tirare la conclusione cruda paradossale dopo questo esame? Eccola: la droga è la risposta alla sete di affetto e alla paura degli adolescenti.”

E alla paura degli adolescenti che entreranno in questi “paradisi artificiali” di morte si aggiunge il terrore dei genitori che si troveranno soli a dover lottare contro i cinici mercanti di morte che, buttandola in politica, cercheranno anche di darsi un tono di “rispettabilità” e si diranno “antiproibizionisti” per cui il male maggiore è prodotto non dal drogarsi, ma nel proibire la tossicomania. “Il problema della droga è altrove, non nelle sostanze ma nelle leggi” afferma Marco Tardasch, già parlamentare radicalpannelliano, Consigliere Regionale toscano prima del PdL (sembra portato dall’On. Altero Mattioli) e ora, insieme al viceministro alla P.I., il ciellino Gabriele Toccafondi (omen nomen?), uno dei leader del nuovo centrodestra che segue, scodinzolante come un cagnolino, il Toccafondi che lo porta (come modello?) nelle scuole cattoliche a farsi propaganda elettorale. Eh sì, quante pene, povero papà che vedevi avanzare i fantasmi di morte e la tua, la vostra battaglia, sembrava ormai vana per cui poteva ben scrivere don Stefani: …Dio che ci tormenti e \ ci rubi la pace le nostre vie \ divergono : \tu parli di mondi \ che non ci toccano, \ la nostra fame e sete \ vanno saziate \ quaggiù abbiam fabbricato \ con le nostre mani \ bastioni di pietra \ e i paradisi ce li dà \ la droga \a piene mani resta nel tuo cielo \ lasciaci in pace; \ il nostro secolo \ ride di te…

Già, nelle balere si cantava il ritornello di “Dio è morto” era il trionfo dell’uomo che voleva farsi Dio per superbia, di fronte a un Dio che per amore si era fatto uomo. E quando si diceva che al divorzio sarebbe, inevitabilmente seguita, con la distruzione della famiglia, la droga, l’aborto, l’eutanasia, il matrimonio sodomitico…dicevano che eravamo terroristi e che non c’era un nesso tra il divorzio e la droga e l’aborto e l’eutanasia e il matrimonio gay…oggi avremmo preferito aver avuto torto e, invece, ahimè, avevamo invece ragione. Avanzava dunque la morte “non vista non intesa” e si chinava sui giovani “con la sua lampada accesa”…Nel 1996 a Torino i mercanti di morte gettano, finalmente, la maschera e fanno approvare dal Consiglio Comunale un ordine del giorno per cui bisogna legalizzare le droghe in quanto il vero problema è rappresentato dal proibizionismo…non ci si perita ad affermare chiaramente di voler legalizzare anche l’eroina : “Per quanto riguarda l’eroina -sentenziano Manconi e Pisapia – è ora che anche in Italia si avvii ,con rigorosissimi criteri scientifici, la sperimentazione di un programma terapeutico come quello che prevede la somministrazione controllata di sostanze stupefacenti”. In altre parole l’installamento della “stanza per il buco” dove, a spese dello stato, si somministra la morte. A questa macabra proposta dà subito il suo entusiastico assenso il deputato di Forza Italia Marco Taradasch (poi da Consigliere Regionale toscano fonderà anche, con certo Massimo Lensi, GEL, Gay e Libertà, ovvero l’associazione della “destra” – sic – sodomitica) per cui può iniziare la mattanza in quanto “Questa è la strada” .

A questo punto entra in azione il nostro eroe don LUIGI CIOTTI e – riportiamo testualmente le parole di archiviostorico.corriere.it -: ”L’ordine del giorno del Consiglio Comunale torinese segue una decisione della giunta, che alcuni mesi fa aveva approvato l’istituzione di una “agenzia” , promossa da DON LUIGI CIOTTI e il Gruppo ABELE , per gl’interventi nel campo delle tossicodipendenze con il compito di coordinare le varie istituzioni…negli interventi di RIDUZIONE DEL DANNO (leggi somministrazione gratuita dell’eroina n.d.r). E’ già in funzione a Torino …un camper attrezzato che frequenta i luoghi a rischio della città.”

Insomma don Luigi Ciotti già nel 1996, in accordo con le istituzioni torinesi, somministrava la morte nel camper del Gruppo Abele…E non c’è da meravigliarsi di questo prete che negli anni della contestazione sessantottarda – quando i seminari erano ricettacolo di sovversione e, secondo le drammatiche prove portate dal professore universitario di New York John Rao, di omosessualità – entrasse proprio nel seminario a Torino, il cui arcivescovo, il cardinale “rosso” Michele Pellegrino (affiliato alla setta massonica secondo la famosa Lista Pecorelli) …un seminario, tra i tanti, dove si insegnava che non esisteva il peccato e dove era “vitato vietare”….i frutti si sono visti dopo. Era dunque don Ciotti un prete del Sessantotto che subito abbracciò l’insegnamento di don Milani per cui “L’obbedienza non è più una virtù” e si dette, anima (finché credette all’anima) e corpo alla causa degli ultimi secondo le regole di un filantropismo laico, privo di Carità cristiana, che, a poco a poco, diverrà una forma di comunismo- radicale e, infine, di “radical-ciottismo” portando il “nuovo verbo laicista” per cui, eliminata la colpa individuale (il peccato) la responsabilità di qualsiasi cosa ricadeva sulla società: era la società che veniva messa sotto accusa quando i delinquenti rapinavano le banche, quando i borseggiatori e gli scippatori facevano i loro colpi e quando i criminali comuni con la tessera della Sinistra andavano in giro, con la chiave inglese ad aprire i crani dei “fascisti” come fossero cocomeri di Rassina…Dunque don Ciotti diventa un prete “di strada” o meglio “di marciapiede” affermando – a differenza di un altro santo prete come don Oreste Benzi che in strada andava davvero dai drogati e dalle prostitute invitandoli a “cambiar vita” e a non più peccare e dando loro la sua umana e cristiana solidarietà, come andava a recitare il S. Rosario fuori dalle cliniche dove si praticavano gli aborti o l’eutanasia – che “non si va in strada a insegnare ma ad apprendere, dimenticando che Gesù nelle strade del suo tempo non andava certo ad apprendere ma ad insegnare “…non chiamate nessuno maestro perché uno solo è il Maestro…la Via, la Verità e la Vita…” Gesù, Sommo Sacerdote, andava per le strade del suo tempo per rimettere i peccati in attesa del Giudice Supremo…altro che “chi sono io per giudicare…”

Negli anni Settanta don Ciotti, preso dall’anarchismo antiautoritario, retaggio del Sessantotto, inizia a formare gruppi alternativi al carcere e vuole addirittura abolire questa “struttura borghese”…poi questa moda decadde e don Ciotti allora, sulla scia dei preti operai (che però, con tutti i difetti, a differenza di don Ciotti, quelli lavoravano davvero…) iniziò a fare il tribuno : volete aiutare i drogati? E allora dategli la droga….e iniziò, sempre con grande fiuto degli affari, quel percorso che, lo vedranno nel 1996, lo porterà a fare il banditore e l’ antesignano della “stanza del buco”… a elargire i “paradisi artificiali”… Così come lo stesso “prete di strada” aiuterà, dopo, sulla scia del suo compare e sodale don Gallo, le ragazze (non certo) ad uscire dall’aborto…anzi…così come aiuterà l’iter di tutte quelle leggi infami che hanno portato la società alla deriva attuale. Nel frattempo don Ciotti riuscirà a insinuarsi nelle maglie del potere dell’ “antimafia” (ricordate le parole del grande Leonardo Sciascia? “Volete scoprire chi sono i mafiosi? Andate a un corteo dell’antimafia”) costruendosi un potere faraonico finanziario (miliardi e miliardi e miliardi.) con la vendita dei beni sequestrati (giustamente) ai mafiosi e, graziosamente, dati alle cooperative gestite dalla sua “cupola”, ovvero Libera e le altre associazioni…qualcuno vorrà fare un’inchiesta su questi patrimoni e sul loro uso? Come don Ciotti abbia trattato o tratti i suoi “dipendenti” è presto detto…i deprecati “padroni delle ferriere” ottocenteschi, al confronto, erano candidi filantropi…

Un episodio per tutti: Filippo Lazzara è un giovane lavoratore siciliano, impegnato nel sociale ed è ammaliato dal “populismo” chiacchierone di don Ciotti. Lazzara si può dir fortunato: in Sicilia, in questo periodo di crisi, (siamo nel 2010) lavora, con un contratto a tempo indeterminato, in un supermercato a Partenico. Si accorge delle infiltrazioni mafiose in quella azienda e, da persona che non ama l’omertà, dopo un colloquio con don Ciotti, si decide a denunziare il malaffare. Il prete professionista dell’antimafia lo rassicura: vedrai che, su al Nord, ci sarà un radioso avvenire anche per te. Nel 2011 parte la denunzia al supermercato in odore di mafia e Filippo segue don Ciotti in Piemonte impegnandosi nel lavoro in alcune delle migliaia di cooperative del tribuno rosso : “La Certosa”, “Associazione 15-15″ quindi in “Filo d’Erba”…finché si accorge che, in realtà, don Ciotti lo fa lavorare senza contratto, senza prospettive…chi sa che non rimpianga, nonostante tutto, il malaffare mafioso che, però, gli assicurava almeno uno stipendio sindacale regolare…tenta un colloquio con don Ciotti, il “padrino” dell’antimafia, ma invano….poi finalmente, nel marzo del 2011, ecco il confronto diretto con don Ciotti che degenera , ragion per cui il prete rosso passa alle mani e…ai piedi…e colpisce il ragazzo con una gragnuola di pugni e calci…mentre il poveretto, forzatamente, viene allontanato dalla scorta del ras dell’antimafia…

“Non lavoro più in nero per te”. Don Ciotti lo prende a ceffoni e pedate. Filippo al pronto soccorso (dieci giorni di prognosi) denunzia il tutto e il tribuno don Ciotti è costretto ad ammettere: “Mi sono saltati i nervi…” “Oltre ad essere stato picchiato – commenta amaramente Filippo Lazzara – mi hanno fatto terra bruciata intorno…non so dove sbatter la testa. Lui è un intoccabile …Tutte le porte mi sono state chiuse in tutti gli ambienti. Don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere i cazzotti dal Papa è una cosa che l’antimafia….” Già, brutta esperienza “ricevere i cazzotti dal Papa”…forse ne sanno qualcosa i francescani dell’Immacolata che, mi risulta, siano tenuti “sotto sequestro” con …impossibilità di uscire dall’ordine…e c’è chi ha il coraggio di definire il Medio Evo come l’epoca dei secoli bui…forse anche per loro sarebbe il caso di rivolgersi all’antimafia?

Eppure avevamo letto da qualche parte che, secondo la Chiesa, quattro sono I PECCATI CHE GRIDANO VENDETTA AL COSPETTO DI DIO e cioè 1) Omicidio volontario; 2) peccato impuro contro natura (sodomia);3) oppressione dei poveri; 4) frode nella mercede agli operai. Certo è facile fare i tribuni, i capipopolo ma…poi bisogna agire di conseguenza, essere coerenti se si vuol essere buoni cristiani e, maggiormente, se si vuol dare lezioni ad altri o, addirittura, fare il processo alla Chiesa che avrebbe aiutato l’oppressione dei poveri o le mafie con il suo “silenzio”….fino all’avvento di Bergoglio come, soavemente, ha affermato proprio don Ciotti alla presenza del papa…Il fatto di Stefano Lazzara come si può configurare se non come un’oppressione dei poveri ovvero un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio? E il non voler regolarizzare la situazione di una persona rispetto al proprio lavoro non è forse frodare gli operai della loro giusta mercede? Mi si dirà che, ormai, nella nuova “chiesa conciliare” queste cose sono ormai desuete, non si insegnano più…è la prassi o…l’ortoprassi…del resto anche don Ciotti a una precisa domanda di Vittorio Zincone sul matrimonio sodomitico (“Lei è favorevole ai matrimoni gay?”) non ha forse risposto di esserlo? “Non mi irrigidisco sui termini – ha sentenziato il tribuno rosso – ma sono radicale nel chiedere che a tutti e a ciascuno vengano riconosciuti gli stessi diritti. Deve valere per le nostre chiese, ma è obbligatorio, senza se e senza ma, per lo Stato di diritto”.

E la sodomia non è forse un altro dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio? Sempre a Giuliano Zincone che gli faceva una domanda sull’eutanasia Don Ciotti ha risposto di essere, naturalmente, favorevole e che anzi “sono stato vicino e continuerò ad esserlo alla famiglia Welby”…la stessa famiglia che aveva deciso di dare la morte (lui consenziente) a Piergiorgio Welby al quale, giustamente, la Chiesa rifiutò il funerale religioso…. Che cos’altro è l’eutanasia se non un “omicidio volontario” ovvero la morte somministrata, per di più, a una persona gravemente invalidata e oppressa dai pensieri e dalla solitudine…altro dramma conseguente alla dissoluzione delle famiglie…E anche l’omicidio volontario (e quindi, a maggior ragione, l’eutanasia) è un altro dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio…ovvero i quattro peccati più gravi di tutti gli altri che provocano la morte dell’anima…. Un giudizio di don Ciotti sul processo di “beatificazione” di don Tonino Bello? “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione.”

Il libro-vangelo preferito da don Ciotti è “Colti da stupore” di Carlo Maria Martini, il gesuita Maestro di papa Francesco, un libro che ti fa “respirare aria fresca…a cinquant’anni dal Concilio”, un concilio che ha rivoluzionato tutto e che porta don Ciotti ad affermare di non vedere nulla di male se un vescovo si dichiarasse gay (“Alla faccia dei Comandamenti divini e…dei quattro peccati che gridano vendetta la cospetto di Dio”) anzi “l’importante è vivere la propria dimensione in modo trasparente”. E’ chiaro dunque che per don Ciotti i così detti “princìpi non negoziabili”, ovvero quelli che attengono al “diritto naturale” come la difesa della vita dalla nascita alla morte naturale, appunto, non solo non esistono…ma sono un non senso…per lui non esiste il peccato…e basta …e i politici davvero “in gamba”, quelli capaci di ascoltare le sue “istanze” sono: “Romano Prodi che è anche un amico. Bruno Tabacci e Livia Turco.”

Ma anche la presidentessa della Commissione Antimafia Rosy Bindi, il sindaco di Roma Ignazio Marino, alias dottor Morte, quello che ha dedicato la vita a…far fuori gli altri…ovvero i più deboli, i più indifesi come i bambini non nati (aborto) o come gli anziani, gli handicappati, i malati terminali (eutanasia); e ancora il Presidente del Senato Pietro Grasso, il Giudice Gian Carlo Caselli…tutta gente che ha fatto corona intorno ai due personaggi del giorno: papa Bergoglio e don Luigi Ciotti che sono arrivati, mano nella mano, su una Ford Focus, il papa con la talare bianca e il Ciotti con maglione (“Non ho mai indossato una giacca e non vedo perché dovrei farlo ora con il papa…si adegui lui” ha dichiarato il prete da marciapiede) tra l’entusiasmo della folla che li ha accolti con comparsate e lancio di palloncini e coriandoli e schitarrate …un tripudio che conferma, nonostante le chiese vuote e i confessionali ormai inesistenti, Bergoglio uomo dell’anno con copertina del “Time” del “Vanity Fair” del “Rolling Stone” e della rivista gay (“chi sono io per giudicare?”) “The Advocate” ora…icona dell’antimafia e in attesa di ricevere l’ambita onorificenza che sta arrivando da “Fortune”, la rivista economica del mondialismo americano che ha dichiarato Francesco l’uomo più importante e influente del pianeta.

Ma non ci fu qualcuno che disse “Siate nel mondo ma non del mondo?”…Il Vangelo? Mah sì, cose passate da “pelagiani” e “criptolefebvristi”. Sì, ha detto papa Bergoglio, ai mafiosi, cambiate vita, convertitevi…Già, convertitevi, cambiate, altrimenti andrete all’inferno…all’inferno? Allora l’inferno esiste? E dire che una tra le accuse fatte ai francescani dell’Immacolata tenuti, come i corpi del reato, “sotto sequestro”, era proprio quella di aver fatto credere che esistesse davvero l’Inferno e anzi di aver effettuato proprio a Firenze, nel Salone del Ghirlandaio in Ognissanti (prima che anche quel Convento fosse “normalizzato” e i frati colpevoli di troppa “ortodossia” deportati) un convegno di cui sono stati pubblicati gli atti!

Non si era detto “Chi sono io per giudicare?” Non si era dato il “libera tutti”? Non si era data l’impressione di proclamare il “FUTTI, FUTTI, CA’ DIO PERDONA A TUTTI?” Del resto un personaggio che potrà piacere o non piacere ma sulla cui ortodossia (comunista) nessuno può avere dei dubbi, Giorgio Napolitano, lo stesso che, coerentemente, aveva applaudito i carri armati sovietici che schiacciarono sotto i cingoli ogni anelito di libertà del popolo Magiaro (trentaduemila morti tra studenti e operai , che lui definì “teppisti”, assassinati dalla normalizzazione rossa) ma che, per il nostro presidente novantenne, andarono lì : “per fermare l’aggressione imperialista nel Medio Oriente” e per : “impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione” non ” a difendere solo gl’interessi militari e strategici dell’URSS ma a salvare la pace nel mondo”., ebbene Napolitano, ha compreso, prima di tutti gli altri, la “svolta epocale”, in campo etico, di questo papato e ha giocato d’anticipo, sollecitando il Parlamento ad approvare una legge sull’Eutanasia e ce ne parla uno dei più illustri aedi del Regime, Aldo Cazzullo (omen nomen anche lui?) che coglie al volo la mossa di Napolitano e il precedente ammiccamento di papa Francesco per cui (Udite! Udite!): “L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge sulle unioni civili…(leggi matrimoni gay n.r.c.) e sul fine vita…(leggi eutanasia n.r.c.) . Il Presidente Napolitano ha già sollecitato il Parlamento a intervenire. Sulle unioni civili e sul testamento biologico la Chiesa ha dato segnali di apertura al dialogo, a cominciare dal superamento stesso dell’espressione stessa di “valori non negoziabili”, come ha chiarito papa Francesco nell’intervista al “Corriere della Sera” … Finora i partiti hanno affrontato i temi etici più come una bandiera da sventolare che come una questione da risolvere…Il clima politico di questa legislatura…permette di proseguire lungo altre strade cui serve un consenso ampio…è possibile anche superare la rigidità di regole che rendono stranieri in patria i figli degli immigrati…(leggi discorso di Bergoglio a Lampedusa n.d.r.)”- Cfr. Aldo Cazzullo in “Dialogo sereno senza ideologie” su “Il Corriere della Sera” del 20 marzo 2014.

Qualcuno che comincia ad avere i capelli bianchi ricorderà la cosìddetta “Repubblica conciliare” che già si stava delineando negli anni Sessanta e Settanta? A Napolitano risponde indirettamente quel Toti nominato da Berlusconi suo “Consigliere”, che già aveva fatto sapere “urbi et orbi” che lui (vale a dire il centrodestra), in effetti era per il “divorzio breve”, alla giacobina per intendersi, il matrimonio che si scioglie così, alla buona, da mane a sera, sotto gli alberi della Libertà…quindi parlerà più chiaramente e a chi gli domandava un giudizio sulla “mossa” del Presidente Napolitano e sul nuovo corso della Chiesa di papa Francesco, sui così detti diritti civili ,rispondeva (cito a memoria) : “…Certo che siamo disponibili a prendere in considerazione i patti di solidarietà e il “fine vita” (eutanasia n.r.c.) dopo che papa Francesco ha fatto cadere quella barriera, quel muro che impediva il dialogo tra le varie forze…su quelle posizioni anacronistiche sono rimasti solo i tradizionalisti del Nuovo Centro Destra….”

Stiamo freschi: Bondi, probabilmente affetto da un’ennesima crisi ormonale onanista, aveva, anni fa, rinnegato, dopo aver rinnegato i suoi trascorsi veterocomunisti, la sua precedente posizione a favore della vita e aveva dichiarato: “Ma qui stiamo impazzendo…ci facciamo scavalcare a sinistra dal Cardinal Martini….”

C’era stata la posizione di Gaylan che aveva fatto sapere all’universo mondo che lui le unioni civili le schifava perché era più avanti (unioni tra umani e animali?) e che parteggiava per le nozze…con conseguenti annessi e connessi di uteri in affitto etc. etc. Quindi Capuzzone aveva tuonato che nel centrodestra ci doveva essere spazio per tutti…anche per quelli come lui e il suo sodale Taradasch…La Mara Carfagna aveva annuito e si era gettata alla sbaraglio in difesa dei diritti (in)civili….Dudò aveva prepotentemente abbaiato e passato la parola a Stefania Prestigiacomo che aveva rivendicato il suo pionierismo in queste “battaglie” a tutto fuoco…Quindi il Toti nostro aveva trovato la sintesi : “Ora siamo tutti fratelli! Viva Francesco!” E l’esercito dei “tradizionalisti” da chi sarebbe rappresentato? Da quei retrogradi -parola totesca- di Alf(u)mo, la Quagliarella, quello che si presentava in costume adamitico al cospetto del vate Pannella, il “nuovo crociato” Taradasch, il “ragazzo che vinse a Lepanto” Magnolfi, il rappresentante del nuovo che avanza Cicchitto, Mario Lupi, il fratello brutto della figlia di Fantozzi, il cui sedere ha vinto il “Premio Vinavil” per essere rimasto sempre attaccato alla seggiola…il suo sodale, l’ultratrombato Toccafondi, tempra eccelsa di teologo e filosofo, tanto da meritare da Renzi – con il quale ha in comune, insieme a Taradasch, il merito di non aver lavorato un’ora nella sua vita – il sottosegretariato alla P.I….accompagnati da una masnada di “vecchi ottoni” che non si decidono a raggiungere il cimitero degli elefanti…. Voi capirete bene quale battaglia sia possibile fare, con queste truppe, in difesa del Diritto naturale…contro l’aborto, il divorzio, la droga, l’eutanasia, le unioni gay, il “gender”…avevamo un’arma ed era quella della preferenza e ce l’hanno tolta (Destra- Centro- Sinistra) presentandoci una legge truffa per cui lorsignori porranno (s)governarci non con il cinquanta per cento più uno dei voti ma con…il trentasette…

Dunque il papa si è presentato, come già detto, a Roma, mano nella mano a don Ciotti, per ricordare le vittime della mafia…ed è lecito pensare che ormai l’unico peccato esistente sia quello di “mafia”…però dovremmo intenderci: non è un mafioso lo spacciatore di droga, attività- lo sappiamo bene- in mano alle cosche? E non sono mafiosi i vari “Dottor Morte” che con le loro lobby falcidiano le vite dei nostri “ultimi”, ovvero i bimbi non nati, gli ammalati terminali, gli handicappati, gli anziani non auto-sufficienti? Non sono mafiosi quelli che favoriscono la lobby gay distruggendo le famiglie e uccidendo l’anima dei nostri figli che vengono “ammaestrati” (Ricordate l’altra mammana Fornero?) nelle scuole pubbliche onde creare degli “invertiti dello spirito” per cui non si nasce uomo o donna ma si è quello che ci impongono le convenzioni sociali e la società? Eppure il papa ha parlato, e stavolta ha parlato chiaramente, senza possibilità di fraintendimenti: “La droga è un male, e al male non si addicono cedimenti. Le legalizzazioni anche parziali, oltre ad essere quanto meno discutibili in rapporto all’indole della legge, non sortiscono gli effetti che si erano prefissate…ogni azione che favorisca la diffusione o il consumo di droghe rappresenta una complicità moralmente grave con i cartelli (mafie n.r.c.) che traggono vantaggi esorbitanti, financo e più largamente economici, dal commercio che essi realizzano…la serena convinzione dell’immortalità dell’anima, della futura resurrezione dei corpi e della responsabilità eterna dei propri atti, è il metodo più sicuro anche per prevenire il male terribile della droga, per curare e riabilitare le sue povere vittime, per fortificare nella perseveranza e nella fermezza sulle vie del bene”. Ma che sbadato…ho sbagliato…e ho riportato, virgolettate, le parole del Beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI…e me ne scuso subito…anche se, ormai, penso sarà troppo tardi per non attirare sulle mie povere spalle di medico di base l’accusa di “pelagianesimo” e di “criptolefevrismo” e, conseguentemente, quella “tenerezza” francescana che si manifesta in sonore legnate distribuite dagli squadristi conciliari, non importa se in tonaca o in orbace. BUONASERA.

Invano ho atteso una e-mail di Corradino e, ogni tanto, apro la posta del computer…ma niente di niente… mi è arrivata proprio oggi, indirizzata a Corradino, la rivista “Fides Catholica”(Anno VIII N.13 pagg.300) dell’Istituto Teologico “Immacolata Mediatrice” diretta da p. Serafino M. Lanzetta con articoli di P. Lanzetta, Giuseppe Brienza, Suor Cecilia M. Pia Manelli, Marco Bracchi, Sabatino della Rovere…mi immergo nella lettura a cominciare dal fondo del p. Serafino che, a differenza del don Milani, titola “L’obbedienza è ancora una virtù”…comprendo ora tante cose…quindi inizio a leggere un saggio di Giuseppe Brienza: ”Pietro Fiordelli, testimone e padre della pastorale familiare italiana”…un personaggio che papà sempre citava e che Corradino considera una sorta di “Santo”…andrebbe diffuso, ora che è messo in discussione il matrimonio cattolico, questo saggio “brienziano”..e poi, poi, la mia passione – e, soprattutto quella di Corradino – la Massoneria, in un lungo articolo di p. Paolo Siano :” Saggio sulla stampa massonica inglese e statunitense del Secolo XIX tra anticlericalismo ed esoterismo”…ringrazio Iddio che, nonostante tutto, da qualche spiraglio, ci fa arrivare ancora la sua voce. Fantasie dell’Avvocato fiorentino Julo Alberto junior Scopetani su "riscossa cristiana".

Di un vescovo (non faccia il demagogo) e del procuratore Dda di Napoli (s'è allargato troppo), scrive Carlo Valentini su Italia Oggi numero 231 pag 7 del 29/09/2016. Don Ciotti è finito nella morsa. Se stesse per lui il Corano andrebbe letto in chiesa. Non c'è pace per don Luigi Ciotti, prete irruente. Forse troppo? Ha bacchettato quei vescovi che non sono intervenuti, a suo parere, con la necessaria energia in occasione delle processioni con inchini dinanzi alle case dei boss o del matrimonio con l'elicottero atterrato in piazza. C'è chi si è risentito e tra essi il vescovo di Patti (fa parte della città metropolitana di Messina), monsignor Ignazio Zambito, che non digerisce il rimbrotto e quindi sbotta: «Don Ciotti si occupi delle cose sue, non dica ai vescovi quello che devono fare. Indubbiamente se si accerta che è stato fatto un inchino di natura mafiosa, bisogna intervenire. È un fatto da condannare. Tuttavia, nell'adottare queste decisioni, occorre prudenza e mai mettere in difficoltà i parroci i quali spesso sono sballottati. Non sempre certi avvenimenti sono collegati a fenomeni mafiosi. Piuttosto penso che alcune prese di posizione sulle processioni, di stampo moralista, nascondano il desiderio di limitare o, peggio, coprire la religiosità popolare che invece è una ricchezza e va incoraggiata». Ma il vescovo va oltre nel contestare don Ciotti e lo fa su un giornale cattolico, La fede quotidiana: «Don Ciotti è definito un prete antimafia ma queste definizioni non mi piacciono. Il sacerdote non è contro qualcuno ma per la conversione. Oggi sentiamo parlare di peccati contro la legalità, la natura e simili, indubbiamente è giusto. Sono cose politicamente corrette che fanno guadagnare gli applausi facili, specie ai soliti amanti degli spettacoli televisivi. Sento tuttavia parlare poco dell'aborto e se lo ricordi non scattano i battimani, vieni ritenuto vecchio e medioevale o scarsamente sociale. Spesso facciamo una morale a senso unico che segue quanto piace o quanto il mondo vuole sentirsi dire. Per esempio ho letto che proprio in Sicilia un sacerdote sull'altare ha benedetto una coppia di lesbiche. Siamo alla profanazione, un gesto sacrilego. La benedizione non si nega ma questa non deve confondere o dare scandalo ai fedeli, corrompere linguaggio e morale». Infine vi è il dissenso sull'appello di don Ciotti all'embrasson nous coi musulmani: «La Chiesa – dice il vescovo- come edificio è dedicata al culto cattolico con una precisa liturgia. Se vogliamo incontrare i musulmani si faccia in altri luoghi idonei. Ai musulmani chiedo rispetto come quello che loro pretendono. Vogliono che nelle loro moschee ci si tolga le scarpe? Bene, si comportino accettando i nostri segni e tradizioni, assicurando inoltre nei loro paesi la libertà religiosa. Quanto al Corano, io non lo permetto all'interno delle chiese della mia diocesi. Inoltre, relativamente all'accoglienza, pur nel rispetto della doverosa carità, vedo migranti che buttano il cibo offerto dai volontari, perché non lo trovano di loro gradimento. Chi ha fame mangia, non mi pare che nelle loro terre avessero di meglio. E allora i conti non mi tornano». Parole chiare, non c'è che dire. Mentre secondo l'accusatore diventato accusato, don Ciotti, «non si può non tacere dinanzi alle ingiustizie e ad ogni tipo di illegalità, bisogna vigilare perché i riti sacri non si trasformino in esaltazione di personaggi potenti e boss mafiosi e in mortificazione di poveri ed ultimi, è necessario sostenere le vittime innocenti nella loro richiesta di giustizia e di verità e accompagnare il cammino di coloro che intendono pentirsi. Occorre corresponsabilità di chi insieme deve perseguire il bene comune, cittadini, Chiesa e istituzioni, perché mafia e corruzione sono i parassiti di un sistema che impoverisce tutti». Qualche tempo fa il sostituto procuratore della Dda di Napoli, Catello Maresca, puntò il dito contro don Ciotti e la sua associazione Libera: «Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi. Libera gestisce i beni confiscati alle mafie attraverso cooperative non sempre affidabili, spesso in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale». Don Ciotti ha querelato il magistrato («tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Lo abbiamo denunciato perché si tace una, due, tre volte ma quando viene distrutta la dignità del lavoro di tante persone, è un dovere ripristinare la verità») però ammette (dinanzi alla commissione parlamentare antimafia): «Il tema dell'infiltrazione è reale, le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Adesso ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio realtà che non avevano più i requisiti ed esse sono le prime a gettare fango contro di noi. Chiediamo alle autorità di aiutarci». Certo non è facile operare border line e in una trincea dove molti, anche sacerdoti, hanno pagato con la vita. Ma questo confronto-scontro tra il «prete antimafia» e la gerarchia va registrato. Anche perché la voce del vescovo di Patti non è isolata. Interviene per esempio lo scrittore messinese Nino Lo Iacono: «Quando nel 1972 il cardinale Michele Pellegrino ordinò sacerdote Luigi Ciotti gli assegnò come parrocchia la strada, dando a tale decisione un significato preciso: la strada era ed è rimasta scuola di vita ed a tale scuola il neo sacerdote avrebbe dovuto attingere. Questo prete di strada ha saputo capitalizzare nel tempo tutte le esperienze fatte, iniziando con associazioni come il Gruppo Abele per finire a una specie di holding che gravita intorno a Libera. L'attività antidroga e antimafia è diventata un impegno primario e il sacerdote di strada si è trasformato in un personaggio. Il palcoscenico della così detta antimafia di Stato gli è da supporto per incassare applausi di rito e penso che egli abbia passato più tempo dietro i microfoni che dietro gli altari o in mezzo ai poveri». Nel 2014 don Ciotti ha ricevuto dall'università di Milano la laurea honoris causa in scienze delle comunicazioni, soprattutto in riferimento all'impegno nella diffusione attraverso i media delle problematiche sulla legalità e il contrasto alla criminalità organizzata. Al di là delle critiche, a questo ha dedicato la sua vita e il suo impegno: «Se ancora dopo decenni stiamo parlando di lotta alle mafie –conclude- qualcosa non torna. La storia ce lo dice: ci può essere una politica senza mafia ma non una mafia che può fare a meno della politica. Non solo: come già aveva capito don Luigi Sturzo, la mafia non è un problema relegabile a poche realtà territoriali ma è qualcosa di più complesso perché da sempre la mafia fa e continua a fare affari al Nord. La legalità è solo un mezzo, il nostro vero obiettivo è la giustizia. Senza responsabilità, senza civiltà, senza educazione e lavoro, legalità rimane solo una bella parola».

I finti buoni del volontariato (c'entra anche Don Ciotti?), scrive Laura Eduati - Giornalista l'01/04/2014 su "Huffingtonpost.it". Nelle redazioni è arrivato un romanzo che nessuno prende per fiction, bensì come un'inchiesta giornalistica mascherata sull'operato (malevolo) di don Luigi Ciotti e dell'associazione antimafia "Libera". Il romanzo si intitola "I buoni" - nel senso: i finti buoni - e il suo autore, il giornalista torinese Luca Rastello, ha davvero lavorato per Libera ("ma vent'anni fa") e Adriano Sofri ha scritto che quel sacerdote dal maglione sdrucito a capo della ong descritta nel libro è proprio don Ciotti. Per questo motivo molto probabilmente "I buoni" (Chiarelettere, pp 224) andrà a ruba nelle librerie, e diventerà la lettura sbigottita di coloro che non avrebbero mai immaginato che un'icona del mondo del volontariato, che soltanto qualche giorno fa passeggiava mano nella mano con papa Francesco, possa pagare una miseria gli operatori, truccare i bilanci e sbattere la porta in faccia a coloro che hanno ricevuto la promessa di un posto di lavoro all'interno della onlus. E sarà letto voracemente anche dagli indifferenti, da chi odia la sinistra e trova insopportabili i buoni e i caritatevoli, i pasoliniani. Eppure Rastello giura e spergiura che don Silvano, uno dei personaggi del romanzo, non è affatto il fondatore del Gruppo Abele. E lo ha ribadito anche a Gian Carlo Caselli e Nando dalla Chiesa, che nei giorni scorsi lo hanno ferocemente criticato su Il Fatto quotidiano per aver sporcato l'immagine di un uomo buono e giusto. "Se avessi voluto fare un'inchiesta giornalistica non avrei avuto problemi a fare nomi e cognomi", mi spiega Rastello, che in passato ha scritto inchieste vere e importanti sulla Tav e la guerra in Bosnia. E allora, viene da pensare, se quell'uomo di chiesa con le mani da contadino e le modalità mafiose non è don Ciotti, la faccenda è ancora più grave. Rastello decide di non collocare geograficamente l'onlus malandrina perché il marcio è presente in molti templi del volontariato nostrano. Lo aveva descritto con efficacia il libro di Valentina Furlanetto, "L'industria della carità". "I buoni" è il racconto letterario di quella disillusione: "Il male del romanzo accade quando le buone intenzioni incrociano il narcisismo, il marketing e il modello-impresa. E sono dinamiche che scattano ovunque". "Ma la mia", dice Rastello, "non è una operazione distruttiva. Non voglio dire che il volontariato sia tutto malato, ma adoriamo idoli che dobbiamo avere il coraggio di abbattere per fare posto a una azione davvero caritatevole e discreta, non autoritaria né totalitaria. Dobbiamo poter criticare il mondo solidale che funziona secondo criteri neoliberisti, devoto al marketing e al profitto, che vende un brand come fosse un'azienda". Molte onlus sono gestite senza chiarezza, dove gli operatori non hanno orario, la paga è misera e il prete amico di attori e rockstar riceve i bisognosi facendo intendere di avere un potere speciale, il potere di cambiare la loro vita. "E' anche questo paternalismo ad aver infiltrato il volontariato, la convinzione che le vittime da aiutare non hanno voce in capitolo sul proprio destino e devono soltanto ubbidire senza ribellarsi". Chi si è avvicinato al mondo del volontariato conosce bene questa dinamica di infantilizzazione delle vittime, che siano rom, donne maltrattate, rifugiati o poveri, raramente resi protagonisti delle battaglie sociali, al loro posto parlano "i buoni", gli organizzatori della carità, e le motivazioni sono implicite: i bisognosi sono e devono rimanere deboli per alimentare il potere di coloro che spendono la vita per aiutarli. Quello di Rastello è un colpo potente anche alla (falsa) buona coscienza della sinistra. Di quella sinistra che si impegna in prima linea per "un altro mondo è possibile": "Siamo stanchi della sinistra che ci dice cosa dobbiamo pensare e ci spiega quello che è giusto pensare, come se fossimo bambini senza criterio". Bambini che parlano e pensano male come se non conoscessimo la lingua, come fossimo tutti rifugiati appena sbarcati a Lampedusa, odiati dalla destra che ci vede come clandestini e coccolati dalla sinistra che ci vorrebbe tutti buoni.

Libera, da gestione beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio". Nando Dalla Chiesa: "Non è vero", scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia. Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra– Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica. Gli uomini d’oro – Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. Una holding da 5 milioni – In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca. “Non so a che titolo Maresca abbia detto queste cose: holding dell’antimafia? Non esiste. Da anni si dice che l’antimafia si spacca ma invece il movimento antimafia scoppia di salute. Anche il dato che Libera occupi militarmente uno spazio in monopolio non corrisponde al vero”, dice Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera. “Si fa un gran parlare di finanziamenti che in certi casi sono davvero ridicoli, si parla di grandi numeri ma quanti dipendenti fissi ha davvero Libera? - continua il sociologo –  La verità è che mentre il movimento antimafia continua  a crescere nelle scuole è scoppiata questa ‘moda’ di sparare sul mondo dell’antimafia, su Libera negli ultimi tempi, un copione già ampiamente visto negli anni ’80, purtroppo”. L’Antimafia indaga sull’antimafia – “Libera per la gestione dei beni confiscati non riceve contributi pubblici. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”, ha invece spiegato lo stesso Don Ciotti alla commissione Antimafia. Il nodo fondamentale, manco a dirlo, è rappresentato dai beni confiscati a Cosa nostra, quel tesoro da trenta miliardi che Libera, in effetti, non gestisce direttamente (se non in qualche caso): è un fatto, però, che una grossa fetta della ricchezza sottratta ai boss mafiosi è assegnata a cooperative e associazioni che fanno tutte parte della galassia di don Ciotti. E sono le stesse associazioni e coop che quindi vincono i bandi, presentano progetti e ricevono finanziamenti per gestire quei beni. L’ultimo esempio? Il Pon Sicurezza da 1,4 milioni di euro per migliorare la gestione dei beni vinto dal Consorzio Sviluppo e legalità, che raggruppa alcune cooperative antimafia della provincia di Palermo. È a questo che riferiva Maresca nel suo j’accuse? E non sarebbe stato a questo punto il caso di sentire anche il pm a Palazzo San Macuto? Da dicembre, infatti, i parlamentari dell’Antimafia sono impegnati in un’indagine quasi paradossale: approfondire limiti e contraddizioni del vasto insieme che negli ultimi anni si è auto posizionato in prima fila nella lotta per la legalità. Come dire che se il 2015 passerà alla storia come l’annus horribilis dell’antimafia il 2016 potrebbe essere invece l’anno zero di quello stesso mondo che negli ultimi dodici mesi è finito divorato da indagini, veleni e polemiche al vetriolo.

L'ANTIMAFIA DELLE POLTRONE.

L'Antimafia delle poltrone. I funzionari da trenta a 200. Il Viminale riorganizza l'Agenzia per i beni sequestrati alla malavita. «Bruciando» un bilancio da 2 milioni, scrive Antonella Aldrighetti, Lunedì 07/05/2018 su "Il Giornale". Il governo Gentiloni, sebbene dopo il voto del 4 marzo sia in carica esclusivamente per il disbrigo degli affari correnti e nulla più, è riuscito a fare incetta di nuove poltrone. Macché affari ordinari e consuetudine amministrativa da adempiere come vorrebbe la prassi. I ministri in scadenza si sono dati talmente da fare che il 27 aprile scorso, e senza alcun un preciso mandato del Parlamento, hanno deciso di incrementare il numero dei funzionari dell'Agenzia per i beni sequestrati alle mafie (Anbsm). E non di qualche decina soltanto. La modifica del regolamento della struttura, peraltro dipendente dal Viminale, ha portato il numero dei funzionari da 30 a 200. Volontà espressa esplicitamente sul documento del ministro dell'Interno Marco Minniti e che la prossima settimana sarà avallata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella con un apposito decreto. Il risultato porterà a atto completo per l'intera riorganizzazione dell'Anbsm. Infatti oltre ai vertici direzionali già in carica ossia direttore, consiglio direttivo e collegio dei sindaci revisori dei conti, la struttura si arricchirà di un altro organo. Insomma in cantiere ci sono altre poltrone da assegnare. Si tratta di un nuovo comitato consultivo di indirizzo formato da almeno sette personalità. Un'altra piccola schiera di nominati, non figure istituzionali o di carriera. Al contempo l'Agenzia sarà anche arricchita di quattro nuove direzioni. Altre poltrone, altri costi, altri ingaggi: ufficio per gli affari generali e del personale; beni mobili e immobili sequestrati e confiscati; aziende e beni aziendali sequestrati e confiscati; gestioni economiche, finanziarie e patrimoniali. Non ultimo il ministro Minniti ha architettato anche un percorso di allestimento per nuovi uffici dirigenziali: sorgeranno nelle diverse sedi di Palermo, Reggio Calabria e Roma. Inevitabile che da un tale provvedimento ne possa venir fuori un bel pamphlet sulla spesa pubblica. A oggi il bilancio dell'Agenzia dei beni confiscati alle mafie vanta un attivo esiguo: poco più di 2 milioni di euro che però, con questa riorganizzazione capillare tra stipendi e contribuzioni, scenderà di certo sotto l'asticella dello zero. Ma non è finita qui. Tra una settimana, e sempre per volontà del governo Gentiloni, saranno avviate inoltre le prime 11 conferenze di servizi in Sicilia e Calabria per la destinazione di alcuni dei 2.600 immobili (non oltre 300 per il momento) strappati ai clan mafiosi. Chissà se questa sarà la prima occasione utile si fa per dire in cui alcuni degli immobili sequestrati potranno essere già destinati all'accoglienza di immigrati e appartamenti per i richiedenti asilo inseriti nei servizi degli Sprar comunali come era stato già anticipato a marzo scorso. È vero che non esiste una legge che indichi che cosa un governo dimissionario possa o non possa fare però dovrebbe essere rispettata la volontà degli elettori che certo non hanno dato fiducia ai ministri di Paolo Gentiloni. E infatti questa volontà non è stata presa in considerazione tant'è che il governo in scadenza non si è dimostrato nuovo a questo tipo di scelte, tutt'altro che obbligate, perché già un mese fa ha autorizzato d'imperio l'assunzione di 250 funzionari amministrativi, da destinare alle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale ed alla commissione nazionale per il diritto di asilo stabilendo anche una piccola ipoteca sul prossimo futuro: «Entro l'anno saranno assunti nuovi funzionari, utilizzando le risorse aggiuntive attribuite, di recente, al ministero dell'Interno». Assieme a questi ultimi saranno ingaggiati 70 consiglieri per la carriera prefettizia e 10 dirigenti di II fascia. E la spesa pubblica non potrà che crescere ancora.

LA CONFISCA DI PREVENZIONE “ANTIMAFIA” ALLARGATA O PER SPROPORZIONE: PER PERICOLOSITA' SOCIALE.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie; dove non arrivano con i sequestri preventivi; l’espropriazione proletaria degli antimafiosi, nel loro particolare interesse, arriva con la confisca antimafia per pericolosità sociale del malcapitato di turno.

LA CONFISCA “ANTIMAFIA”, scrive il 26 aprile 2017 Rosaria Panariello su "Salvisjuribus.it". Il contrasto alla criminalità si è rivelato, nel tempo, molto complesso, soprattutto perchè le ramificazioni della criminalità organizzata affliggono vari settori della vita sociale ed economica. Insieme agli strumenti tradizionali previsti dal quadro giuridico ed aventi un approccio repressivo, il legislatore ha introdotto misure cautelari incentrate sul ripristino della legalità attraverso un attacco contro i benefici economici acquisiti mediante la commissione dei reati. Ad oggi, la confisca è l’unica misura di sicurezza reale e consiste nell’espropriazione delle cose attinenti al reato, perché servirono o furono destinate a commetterlo o perché ne sono il prodotto, il prezzo o il profitto o perché la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione di esse costituisce reato. L’articolo di riferimento è il 240 del Codice Penale. Il primo comma definisce la c.d. confisca facoltativa ovvero basata sulla discrezionalità del giudice e conseguente ad una sentenza di condanna; i beni confiscabili sono quelli strumentali alla commissione del reato, ossia il prodotto e il profitto dello stesso. Il secondo comma introduce i casi di confisca obbligatoria per altre categorie ed individua quali beni confiscabili il prezzo del reato e alcuni beni ritenuti intrinsecamente criminali. È poi consentita la confisca anche in assenza di condanna in sede penale per i beni strumentali alla commissione del reato (c.d. confisca di prevenzione o antimafia). Negli anni la confisca tradizionale prevista dall’ art. 240 c.p. ha dimostrato i suoi limiti per la difficile applicazione in presenza di nuove forme di criminalità. Da un lato non era agevole distinguere tra prezzo e profitto (discrimine tra facoltatività e obbligatorietà), dall’altro era arduo individuare con precisione il nesso tra commesso reato e cosa, potendosi intervenire solo nei confronti dei beni che erano conseguenza diretta dell’illecito. L’ inadeguatezza della confisca tradizionale e la necessità di ampliare l’area dell’intervento nei confronti di reati di particolare allarme sociale sono le principali ragioni che hanno portato ad introdurre nuove forme di confisca dirette a privare l’autore del reato del quantum di cui ha beneficiato.

Vengono, così, inserite nell’ordinamento numerose ipotesi di confisca obbligatoria del profitto del reato e plurime ipotesi di confisca per equivalente (o di valore) che consente, qualora non sia possibile la confisca “diretta” del profitto, quella di beni per un valore corrispondente di cui il condannato ha la disponibilità diretta o indiretta.

La confisca allargata (o per sproporzione), invece, prevede la confisca nei casi di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., per il delitto previsto dall’articolo 416 bis e per altri gravi reati, del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui «il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.». Si pone in primo piano la mera sproporzione tra reddito dichiarato e valore dei beni, ma non si richiede la provenienza illecita del bene, trattandosi di misura patrimoniale penale che segue una condanna. Tale confisca, infatti, ha come presupposto la sola condanna del soggetto. Con la condanna, la confisca va sempre ordinata quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose. Si trae, dunque, una presunzione circa l’origine illecita del patrimonio “sproporzionato” a disposizione del condannato.

Accanto a queste forme di confisca penali, che si muovono su un doppio binario, talvolta come misure di sicurezza (reali), altre volte come sanzione, l’ordinamento offre un “terzo binario” rappresentato dalla confisca di prevenzione che consente di intervenire nelle tre forme di criminalità da profitto: mafia, corruzione ed evasione fiscale.

L’applicazione della confisca di prevenzione richiede l’accertamento di presupposti soggettivi e oggettivi. Tradizionalmente si indicano tre presupposti soggettivi: la riconducibilità della persona a una delle categorie di pericolosità delineate dal legislatore; la pericolosità sociale della persona; l’attualità della pericolosità.

Accertati i presupposti soggettivi, per procedere a sequestro (prima) e a confisca (poi) devono ricorrere due presupposti oggettivi: la disponibilità, diretta o indiretta, del bene da parte del proposto e l’esistenza di sufficienti indizi, primo tra tutti la sproporzione tra il valore dei beni e i redditi dichiarati o l’attività svolta, tali da far ritenere che i beni siano frutto di attività illecita o ne costituiscano il reimpiego. Sia in dottrina che in giurisprudenza sono state espresse diverse perplessità circa la classificazione della confisca di prevenzione tra le misure di sicurezza, infatti, con le altre misure di sicurezza la confisca di prevenzione ha in comune lo scopo della prevenzione dei reati, ma, mentre le altre misure hanno come presupposto la pericolosità del soggetto, la confisca di prevenzione ha innanzitutto come presupposto la pericolosità della cosa. Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle Sezioni Unite che hanno affermato la natura preventiva della confisca stabilendo che la finalità è quella di sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati alla disponibilità di determinati soggetti che non possano dimostrarne la legittima provenienza. In tale direzione è stata emanata la Direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea che deve essere recepita entro 30 mesi dagli Stati membri.

Pericolosità sociale, serve l’attualità per le Sezioni Unite, scrive la Redazione di "Diritto.it" il 10 gennaio 2018. Corte di Cassazione - Sez. Unite penali - sentenza n. 111 del 4-01-2018.

L’attualità della pericolosità sociale. Con sentenza n. 111, depositata lo scorso 4 gennaio 2018, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute in materia di pericolosità sociale. In particolare, il caso riguardava l’applicazione di una misura di prevenzione personale a indiziati di appartenere ad un’associazione mafiosa. La Suprema Corte ha stabilito che, ai fini dell’applicazione della predetta misura, dovesse essere accertata l’attualità della pericolosità sociale. Nel caso di specie, a fronte del provvedimento di irrogazione della misura preventiva, il difensore dell’indiziato proponeva ricorso, rilevando l’assoluta illogicità dello stesso e la mancanza assoluta di motivazione, non essendo stati esaminati quelli che sarebbero i presupposti per l’applicazione della misura de qua.

La questione è stata rimessa dalla prima Sezione alle Sezioni Unite, in quanto è stato rilevato, in seno alla giurisprudenza, un contrasto circa la rilevanza dell’attualità del requisito della pericolosità sociale.

La questione controversa. La giurisprudenza si divide tra pronunce che riconoscono rilevanza all’elemento temporale dell’attualità e provvedimenti che, al contrario, ne prescindono. Precisamente, un primo orientamento ritiene che non possa in alcun modo non considerarsi l’attualità della pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione. Invero, la pericolosità di un soggetto potrebbe affievolirsi o, addirittura, venire totalmente meno nel corso del tempo; in tali casi, non si avrebbe più il presupposto fondamentale a giustificazione dell’imposizione della misura preventiva. Occorre, secondo questo orientamento, una specifica motivazione circa la sussistenza o meno di tale elemento. Altro orientamento ritiene invece che, nel caso di soggetto indiziato per appartenenza ad associazione mafiosa, viga una presunzione assoluta di pericolosità sociale, tale per cui non occorrerebbe alcuna indagine relativamente alla sussistenza di tale elemento; in altre parole, l’attualità della stessa sarebbe un carattere da non indagare nello specifico.

La soluzione proposta dalle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite ritengono che, alla luce del dato normativo, le presunzioni semplici debbano essere sempre corroborate da elementi di fatto specifici. Invero, anche un formale distacco dall’associazione mafiosa non è di per sè sufficiente ad affermare assenza di una pericolosità sociale: occorre valutare circostanze quali il cambiamento dello stile di vita in un modo tale da rendere incompatibile le abitudini del soggetto con la permanenza del vincolo. Pertanto, i supremi giudici ritengono necessario l’accertamento dell’attualità della pericolosità sociale del soggetto destinatario di misura di prevenzione.

La confisca allargata dopo la legge di riforma del Codice antimafia, scrive Vincenzo Giglio il 5 ottobre 2017 du "Diritto.it".

Premessa. Il 27 settembre 2017 è stata definitivamente approvata la legge di modifica al Codice antimafia. Il testo, come avverte il suo titolo, innova significativamente l’apparato normativo della prevenzione patrimoniale finalizzata al contrasto della criminalità organizzata di tipo mafioso. Contiene tuttavia, ed è su questo specifico aspetto che si vuole riflettere, anche importanti novità in merito all’istituto della confisca allargata o per sproporzione introdotto dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 convertito nella L. 356/1992.

Le modifiche. Il legislatore ha inciso sia sul piano procedimentale che su quello sostanziale. Sul primo versante si segnala anzitutto l’aggiunta della lettera f-bis al primo comma dell’art. 132 bis att. c.p.p. che regola la formazione dei ruoli delle udienze penali e la trattazione dei processi. Di conseguenza i processi nei quali sono stati sequestrati beni in funzione della confisca allargata sono inseriti nell’elenco dei giudizi la cui fissazione e trattazione devono essere assicurate con priorità assoluta. Si prevede inoltre che i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni sequestrati di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo siano citati in giudizio così da garantire la loro partecipazione al contraddittorio e tutelare i loro diritti difensivi. Si attribuiscono al giudice monocratico che ha emesso il provvedimento di sequestro, o al giudice designato dal collegio in caso di provvedimento collegiale, funzioni assimilabili a quelle proprie del giudice delegato nelle procedure di prevenzione patrimoniale. Si assegna al giudice dell’esecuzione il potere di confisca sia allargata che per equivalente allorchè vi si debba provvedere dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Si stabilisce, in caso di morte del destinatario di una confisca pronunciata con sentenza di condanna, che il procedimento prosegua nei confronti degli eredi o aventi causa. Sul versante sostanziale, si segnala anzitutto un ulteriore ampliamento dell’elenco delle fattispecie incriminatrici alle quali va associata la confisca, essendo adesso richiamata l’intera categoria dei reati menzionati dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p. La misura è ora disposta anche nei casi in cui il giudizio si concluda con sentenza di non doversi procedere per amnistia o prescrizione purchè in precedenza fosse intervenuta una sentenza di condanna nel merito. È esplicitamente esclusa l’efficacia della giustificazione della legittima provenienza dei beni confiscabili fondata sulla dimostrazione della disponibilità di redditi nascosti all’amministrazione finanziaria e quindi oggetto di evasione.

Gli effetti pratici. Ognuna delle modifiche indicate nel paragrafo precedente produrrà tangibili conseguenze nella gestione delle attività procedimentali e nei parametri valutativi propri dei giudizi penali che comprendono nel loro oggetto pretese ablative in applicazione del citato art. 12 sexies. La prima, scontata, è che, per diretta prescrizione legislativa, i tempi medi di definizione di quei giudizi dovranno essere ridotti e questa prospettiva sfida la capacità di risposta organizzativa non solo degli uffici giudiziari ma anche dei difensori degli imputati e dei terzi interessati. Proprio i terzi, dal canto loro, si vedono riconoscere la legittimazione ad essere citati in giudizio così da potersi difendere con pienezza in ogni fase processuale. Questa prerogativa è concessa a tutti i titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro. Restano invece esclusi i titolari di diritti di credito e di garanzia. È facile prevedere che la presenza dei terzi renderà più difficile la rapidità di trattazione cui tende la corsia privilegiata fissata nell’art. 132 bis c.p.p. Altrettanto agevole immaginare l’insorgenza di conflitti sulla latitudine effettiva del contraddittorio consentito ai terzi: da un lato si vorrà confinarlo entro gli stretti limiti della materia patrimoniale, dall’altro si vorrà invece ampliarlo all’esistenza del reato cui è collegata la pretesa ablativa, essendo peraltro arduo sostenere che il terzo non abbia un proprio interesse anche verso questo profilo dimostrativo. Cospicui cambiamenti di strategia processuale ed esigenze probatorie deriveranno certamente dall’esplicita inefficacia di giustificazioni difensive della legittima provenienza dei beni fondate sul presupposto che le risorse finanziarie impiegate per il loro acquisto siano provento o reimpiego di evasione fiscale. Inefficacia – è bene chiarirlo – riferita al condannato e non anche al terzo interessato. La precisazione normativa sconfessa un indirizzo interpretativo di segno contrario che si andava consolidando anche per effetto di pronunce delle Sezioni unite penali. Comunque sia, è chiaro che la modifica agevolerà il compito della pubblica accusa e renderà per contro assai più disagevole l’impegno difensivo che non potrà più avvalersi di tutte le possibilità desumibili dalla lettera della norma che prescrive di valutare la sproporzione del valore dei beni non solo in relazione al reddito dell’accusato ma anche all’eventuale attività economica da questi svolta. Un cambiamento di elevato rilievo è infine quello che consente la confisca anche quando il procedimento si concluda con una pronuncia estintiva, sempre che questa segua ad una precedente condanna nel merito. Si configura in tal modo un’evenienza che va in controtendenza rispetto a ciò che si è abituati a considerare normale. La prescrizione, nei casi in cui il sequestro aggredisca beni di considerevole valore, potrebbe perdere molto del suo fascino per colui che ne beneficia. Non sarebbe quindi troppo azzardato considerare accettabile, soprattutto nei giudizi in cui la difesa ha solide argomentazioni di merito o di legittimità con cui opporsi a precedenti decisioni di condanna, una strategia difensiva che rinunci alla prescrizione e punti al ribaltamento della pronuncia sfavorevole.

Le problematicità. La novella normativa è stata varata allo scopo di rendere complessivamente più efficiente la capacità statuale di far seguire ad una sempre più vasta categoria di crimini una misura che affondi nella sfera patrimoniale dei loro autori e, per così dire, la metta a nudo e la sfrondi se la sua consistenza non trovasse giustificazione nella capacità reddituale del titolare. Lo strumento che realizza questo scopo prescinde dal collegamento tra reato ed accumulazione illecita e si applica per il solo fatto che un reato presupposto sia stato accertato e una sproporzione tra redditi e beni sia stata constatata in capo al suo autore. Cosa sia la confisca allargata non è mai stato ben chiaro ma al momento è largamente prevalente, quantomeno in giurisprudenza, la sua definizione come misura di sicurezza atipica. Si potrebbe discutere a lungo – ed in effetti la dottrina continua a farlo -sull’appropriatezza di questa tesi. Basti qui ricordare il chiarissimo disposto dell’art. 199 c.p. per il quale “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”.

Il conflitto tra la legge e i suoi interpreti non potrebbe essere più marcato. Un ulteriore e primario aspetto di cui tener conto è la palese incoerenza dell’inquadramento dell’istituto ove lo si confronti con i criteri definitori messi a fuoco dalla giurisprudenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo, unico organo legittimato a trasformare in diritto vivente i principi affermati nella CEDU. Ci si riferisce ai cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: configurazione formale della sanzione prescelta dallo Stato; natura dell’infrazione; natura e gravità della sanzione.

All’affermazione di questi requisiti è poi seguita una giurisprudenza coerente. Il leading case è agevolmente individuabile nella sentenza emessa dalla Grand Chambre il 9 febbraio 1995 nel caso Welch c/o Regno Unito in cui si affermò che “the confiscation order amounted, in the circumstances of the present case, to a penalty”. L’indirizzo è stato poi consolidato con le sentenze Sud Fondi e Varvara, conclusesi con la soccombenza del nostro Paese. In entrambi i casi, la Corte di Strasburgo è stata richiesta di qualificare la speciale ipotesi di confisca prevista dall’articolo 44 comma 2 Decreto Presidente della Repubblica n. 380/2001 allorchè una sentenza definitiva del giudice penale abbia accertato l’esistenza di una lottizzazione abusiva. Un consolidato indirizzo di legittimità attribuiva a tale istituto la natura di sanzione amministrativa reale, ritenendo che il giudice penale dovesse applicarla in conseguenza del semplice accertamento della materialità dell’illecito. In questa visione, la confisca rimaneva quindi doverosa anche se il procedimento penale si fosse concluso con pronuncia di prescrizione.

La Corte EDU non ha tuttavia condiviso questo modo di vedere. Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici dei diritti umani hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, ha escluso che la sua irrogazione potesse essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto. È appena il caso, poi, di ricordare che la corretta definizione della natura dell’istituto non è una questione oziosa poiché alle misure di sicurezza si applica, per effetto dell’art. 200 c.p., il principio “tempus regit actum” che impone l’uso della norma vigente al momento dell’esecuzione della misura, anche nell’ipotesi in cui tale norma contenga disposizioni peggiorative rispetto alla regolamentazione preesistente. Per contro, l’eventuale qualificazione della confisca allargata come vera e propria sanzione penale assoggetterebbe l’istituto al principio di irretroattività sfavorevole sancito dagli artt. 25 comma 2° Cost. e 1 c.p. Non mancavano quindi le ragioni per un intervento chiarificatore e la riforma sarebbe stata l’occasione giusta ma così non è stato.

Un secondo e cospicuo fronte problematico è l’accentuazione della tendenza espansiva della platea dei reati ai quali consegue la confisca allargata. L’elenco aggiornato comprende tutti i reati menzionati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p., il peculato, il peculato mediante profitto dell’errore altrui, la malversazione a danno dello Stato, l’indebita percezione di erogazioni a carico dello Stato, la concussione, la corruzione per l’esercizio della funzione, la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, la corruzione in atti giudiziari, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, la corruzione di incaricato di pubblico servizio, l’istigazione alla corruzione, la concussione (unitamente a induzione indebita a dare o promettere, corruzione e istigazione alla corruzione) di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri, l’utilizzazione di invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d’ufficio. Nell’elenco è inclusa anche l’associazione a delinquere quando sia finalizzata a commettere i delitti di disastro ambientale, fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di prodotti agroalimentari, prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, usura (anche nella forma impropria in precedenza regolata dall’art. 644 bis ed oggi assorbita nell’art. 644 c.p.), ricettazione (fatta eccezione per i casi di particolare tenuità), riciclaggio, impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita, contrabbando aggravato di tabacchi lavorati esteri, trasferimento fraudolento di valori, produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti o, infine, per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale. Una congerie di reati, dunque, tra i quali si fatica a trovare un denominatore comune, la cui capacità di produrre arricchimenti ingiustificati è fortemente asimmetrica e, in più di un caso, addirittura dubbia e la cui capacità di generare un diffuso allarme sociale è talvolta totalmente assente. Sono perfino presi in considerazione, tra i delitti alla cui commissione è finalizzata la fattispecie associativa, reati perseguibili a querela di parte come, ad esempio, quello di fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale. Di nuovo, la legge di riforma sarebbe stata l’occasione per un riordino ragionato della materia ma il legislatore non si è curato di questa esigenza.

Un terzo aspetto problematico è l’impossibilità di giustificare la sproporzione tra redditi e beni adducendo l’evasione fiscale. Come già accennato, la precisazione legislativa segue ad una fase in cui la giurisprudenza si era attestata, dopo precedenti incertezze, nel senso esattamente contrario.

A questo risultato interpretativo ha sicuramente cooperato la sentenza n. 33451/2014 delle Sezioni unite penali. La pronuncia ha testualmente affermato che “Risulta del resto coerente con l’evidenziata diversa struttura normativa che per la confisca ex art. 12-sexies, che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il “reddito dichiarato” o con la “propria attività economica”, si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (…) una simile interpretazione è del resto confortata dal tenore letterale della disposizione, che impedisce l’ablazione del patrimonio quando, indifferentemente, esso sia giustificato dal valore dei redditi formalmente dichiarati ovvero dall’attività economica svolta, quest’ultima normalmente produttiva di reddito imponibile”. Le Sezioni unite hanno dunque valorizzato tre elementi: la differenza strutturale e finalistica degli strumenti propriamente penali rispetto a quelli preventivi, il tenore letterale dell’art. 12 sexies e la liceità dell’attività economica svolta che rende leciti i redditi e la disponibilità finanziaria che ne derivano anche se occultati al fisco. La differente soluzione adottata dal legislatore, come correttamente osservato nel parere (a sua volta fondato su una posizione dottrinaria) che l’Unione delle camere penali italiane ha formulato sulla proposta di legge quando era ancora all’esame del Senato, finisce “per allargare l’ambito di applicazione delle forme di confisca in esame a beni in realtà di origine lecita, perlomeno nel senso che non risulta dimostrato il loro valore sproporzionato, trasformando tali forme di confisca in “pene” per l’evasione fiscale, pene di origine pretoria, in contrasto con il principio di legalità, e non commisurate ai normali indici di commisurazione della pena ex art. 133 c.p., innanzitutto la colpevolezza, e quindi sproporzionate. In tali ipotesi nella misura dei redditi leciti, ma non dichiarati, i beni non dovrebbero essere confiscabili, salva l’applicazione della normativa tributaria per il recupero delle imposte evase”.

L’ultimo, ma non certo per importanza, rilievo critico alla riforma della confisca allargata riguarda la previsione che consente l’irrogazione della misura tutte le volte in cui il giudizio penale si concluda con una pronuncia estintiva del reato per amnistia o prescrizione che si però intervenuta dopo una precedente condanna nella fase di merito. Chi cerchi la spiegazione di una modifica così impegnativa in termini di principi e conseguenze applicative può agevolmente rinvenirla non solo nello “spirito dei tempi” ma anche, assai più specificamente, nella recente sentenza n. 31617/2015 delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione. L’oggetto della questione era costituito dall’istituto, regolato dall’art. 322 ter c.p., della confisca diretta o per equivalente del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza. Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem. Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”. La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”. Le Sezioni unite hanno ulteriormente precisato, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio” ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”. Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile. Le conseguenze davvero importanti e – va aggiunto – pericolosissime di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica. C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 codice penale il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna. Si è consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”. È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere. Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico. Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da giudicato formale di condanna. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori. È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto. Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva. La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale. La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorchè affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale. In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero. Sicchè, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza. Esposto questo primo e imprescindibile passaggio, già sufficiente a dimostrare l’erroneità della decisione delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui esso si incrocia con il processo e il giudizio. È nella consapevolezza pressochè unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 codice penale e consiste nell’estinzione del reato. La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato. Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa. L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una ragione assolutoria di merito. Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione. È una regolamentazione chiara che è il frutto di un altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite. In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri. Non si tratta dunque di “un’anodina formula terminativa del giudizio” e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna. La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine due rilievi da formulare. Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito. Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito. Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile. È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla. Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi, produrre effetti positivi a favore dell’appellante. Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1 Costituzione?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza? Una pronuncia largamente censurabile, dunque, e per ciò stesso inadatta a costituire l’antecedente giustificativo di una riforma legislativa così significativa.

Ma c’è di più. La riforma della confisca allargata si pone in contraddizione con precedenti fonti legislative. Il punto di partenza obbligato è la Direttiva 2014/42/UE emessa congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 3 aprile 2014. Il provvedimento europeo è stato assunto sulla base degli artt. 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità. La premessa, chiarita nel primo “considerando”, è che “le autorità competenti dovrebbero disporre dei mezzi per rintracciare, congelare, gestire e confiscare i proventi da reato. Tuttavia, la prevenzione e la lotta efficaci contro la criminalità organizzata dovrebbero essere conseguite neutralizzando i proventi da reato e dovrebbero essere estese, in alcuni casi, a qualsiasi bene derivante da attività di natura criminosa”. L’estensione cui pensa il legislatore europeo si desume con chiarezza dal considerando 11: “Occorre chiarire l’attuale concetto di proventi da reato al fine di includervi i proventi diretti delle attività criminali e tutti i vantaggi indiretti, compresi il reinvestimento o la trasformazione successivi di proventi diretti. Pertanto, i proventi possono comprendere qualsiasi bene, anche trasformato o convertito, in tutto o in parte, in un altro bene, ovvero confuso con beni acquisiti da fonte legittima, fino al valore stimato dei proventi confusi. Possono inoltre comprendere introiti o altri vantaggi derivanti dai proventi da reato o da beni nei quali i proventi da reato sono stati trasformati o convertiti o da beni con i quali i proventi da reato sono stati confusi”. La straordinaria ampiezza ed invasività della mission affidata agli Stati UE trova un contraltare e un limite nei considerando 14, 15 e 30 i quali hanno tutti cura di precisare che la confisca può avvenire solo in esito a una condanna definitiva. Il considerando 38 chiarisce a sua volta che “La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la «Carta») e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (la «CEDU»), come interpretate nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La presente direttiva dovrebbe essere attuata conformemente a tali diritti e principi”. Per ciò che qui di più interessa, il requisito della definitività della condanna è ripreso dall’art. 4 comma 1 della Direttiva laddove si afferma che “le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”. Il secondo comma dello stesso prevede per la verità eccezioni all’architettura disegnata dal primo comma ma limitate ai casi in cui la confisca non sia possibile per malattia o fuga dell’indagato o imputato. Dopo questa necessaria premessa, si ricorda che la Direttiva in esame è stata attuata nel nostro ordinamento con il D. Lgs. 29 ottobre 2016, n. 202. L’art. 1 del Decreto precisa che l’attuazione ha ad oggetto le disposizioni della Direttiva 2014/42 e non contiene nessuna esplicita esclusione di alcuna di esse. Non solo: l’art. 5 apporta modifiche all’istituto della confisca allargata, con ciò stesso riconoscendo che le previsioni normative che la riguardano rientrano nel raggio applicativo della predetta Direttiva. Sicchè, in conclusione, l’attuale riforma della confisca allargata, rendendo possibile la confisca anche in assenza di una condanna definitiva, da un lato asseconda un indirizzo giurisprudenziale quantomai criticabile e dall’altro viola norme del diritto europeo già esecutive nel nostro Paese.

Conclusioni. Non è e non può essere in discussione la condivisibilità di qualunque politica pubblica che punti a privare chi delinque dei vantaggi acquisiti attraverso la sua condotta illecita. È invece discutibile l’azione legislativa che, pur ispirata a questo scopo, sacrifichi o comprometta in misura rilevante principi di rango costituzionale e garanzie essenziali per un ordinamento democratico. La riforma che si è provato a commentare in questo scritto lascia intravedere, pur con tutte le cautele necessarie per un provvedimento appena approvato, plurimi punti critici rispetto ai quali sono auspicabili tutte le correzioni che la prassi e l’interpretazione saranno in grado di apportare e le eventuali revisioni che lo stesso legislatore dovesse in ipotesi ritenere necessarie. Ciò che appare comunque necessario, più di ogni altra cosa, è una visione complessiva che, mettendo finalmente da parte interventi estemporanei e legati a logiche di breve respiro, sappia coniugare l’efficacia dell’agire col rispetto degli elementi essenziali della nostra civiltà giuridica.

Ed ora un esempio scolastico di stortura applicata.

Questo è quanto riporta la stampa. Per esempio, un articolo tra i meno giustizialisti...

Gioco d’azzardo con le slot, nuovo sequestro per gruppo dei fratelli De Lorenzis: sotto chiave beni per 15 milioni di euro, scrive Cinzia Ferilli l'08 maggio 2018 su "Ilpaesenuovo.it". Ci sono anche una masseria di Ugento, trasformata in una struttura alberghiera di lusso, ed un castello, dimora storica di pregio situata nel centro storico di Racale, tra i beni posti sotto sequestro quest’oggi dai militari del Nucleo polizia economico finanziaria della guardia di finanza di Lecce. Fanno parte del patrimonio da 15 milioni di euro riconducibile all’associazione criminale facente capo ai fratelli De Lorenzis di Racale, dedita al gioco d’azzardo tramite l’alterazione di slot machine e apparecchiature da intrattenimento, che nel 2015 fu sgominata con l’esecuzione di 27 arresti scattati nell’ambito dell’operazione “Clean game”. Il provvedimento eseguito stamane, emesso dalla seconda sezione penale del tribunale di Lecce su richiesta del procuratore aggiunto della Dda Guglielmo Cataldi, scaturisce dall’indagine complessa e certosina realizzata dai finanzieri del drappello misure di prevenzione del Gico di Lecce che ha permesso di ricostruire la storia patrimoniale dell’associazione e dei singoli indagati, mettendo in luce il forte squilibrio tra le disponibilità economiche ed i redditi dichiarati. Un risultato che ha consentito di “aggredire” nuovamente il patrimonio a disposizione del gruppo criminale, che già tre anni fa era stato posto sotto sequestro. Quando nel 2015 l’organizzazione dedita al gioco d’azzardo guidata dai fratelli Pietro Antonio, Pasquale Gennaro, Saverio e Salvatore De Lorenzis venne sgominata con l’esecuzione di 27 arresti, i beni riconducibili agli indagati vennero blindati con l’esecuzione di un sequestro preventivo. Le indagini relative all’operazione “Clean game”, infatti, rivelarono l’esistenza di una moltitudine di società e ditte individuali intestate a prestanome con cui il gruppo criminale distribuiva videopoker, slot machine e totem per il gioco d’azzardo nei locali pubblici dislocati su tutto il territorio nazionale. Agli indagati venne contestato anche il reato di organizzazione a delinquere di tipo mafioso poiché, secondo gli investigatori, alcuni componenti avrebbero turbato la libertà d’impresa e di concorrenza con condotte intimidatorie nei confronti degli esercenti di attività commerciali dove erano stati distribuiti i macchinari. Il provvedimento di sequestro di beni per un valore di 12 milioni di euro, però, successivamente decadde per decisione del Tribunale del Riesame che non riconobbe i connotati tipici dell’organizzazione a delinquere di stampo mafioso, accusa contestata nell’ambito del procedimento penale tutt’ora in corso ed in fase di dibattimento, e i sigilli vennero rimossi. Ciò, nonostante le indagini avessero anche fatto emergere anche l’esistenza di due trust fittizi, di cui uno pare appositamente creato per nascondere il patrimonio societario ed eludere la normativa antimafia in tema di confisca dei beni. La Direzione distrettuale antimafia di Lecce successivamente ha promosso nuovi approfondimenti investigativi, dando così il via ad un’altra indagine, parallela alla precedente, finalizzata stavolta a verificare l’esistenza di presupposti legislativi per l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali ai sensi della vigente legislazione antimafia. Oltre ad attestare la pericolosità sociale degli indagati e la loro propensione a delinquere, gli investigatori hanno riscontrato l’esistenza di una forte diseguaglianza tra le disponibilità economico- patrimoniali e i redditi dichiarati da ciascuno di loro. Alla luce dei risultati investigativi, i giudici della seconda sezione penale di Lecce hanno accolto l’istanza di sequestro di beni mobili ed immobili e della disponibilità finanziarie riconducibili a cinque persone, i quattro fratelli De Lorenzis ed un prestanome intestatario di alcune società del gruppo, e ai rispettivi familiari. Nello specifico si tratta di 93 fabbricati (abitazioni, locali commerciali e garage, tra cui un albergo ed un castello), 33 terreni agricoli (situati tra Ugento, Racale, Taviano, Gallipoli e Melissano), nove società capitali, una ditta individuale, 20 automezzi, saldi attivi riferiti a 40 depositi bancari e rapporti assicurativi e quote societarie del valore di 450mila euro. L’intero patrimonio sequestrato è stato affidato ad un custode giudiziario appositamente nominato dal Tribunale di Lecce, in attesa dell’udienza di convalida fissata per il prossimo 25 maggio.

Certo non ci troviamo di fronte a dei santi…

Grande fratello, slot machines, sale bingo, e persino Patrizia d'Addario e c'entra pure la mafia? Forse.

Slot machine e belle donne la vita dorata di De Lorenzis, scrive Massimiliano Scagliarini il 20 Agosto 2010 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Dieci giorni fa ha compiuto 43 anni. Salvatore De Lorenzis è da sempre un nome molto noto nel Salento, ma la sua passione per le belle donne lo ha portato spesso anche sui rotocalchi: il matrimonio (finito) con l’ex gieffina Carolina Marconi (altra ospite di Palazzo Grazioli), un presunto flirt con Aida Yespica, le feste in località esclusive. E poi la presidenza della squadra del Racale, il piccolo comune nel basso Salento dove vive da sempre, e che grazie a lui e ai suoi investimenti continua a scalare classifiche. Ma De Lorenzis spunta fuori anche nelle carte delle inchieste giudiziarie che negli ultimi anni hanno passato al setaccio la criminalità organizzata del Salento. Il suo business - slot machines e videogame - viene ritenuto in odore di riciclaggio, tanto che nel 2002 i beni della famiglia sono stati sottoposti a sequestro e un fratello di Salvatore, Rocco De Lorenzis, ha subìto una misura di prevenzione patrimoniale definitiva per reati di mafia. Le belle donne sono il primo capitolo della storia. A novembre 2009 Salvatore De Lorenzis sposa Carolina Marconi, che aveva conosciuto durante una serata in discoteca quattro mesi prima. Matrimonio a Scorrano, nella tenuta Lucagiovanni, 200 invitati che ballano con l’orchestra di Demo Morselli, cerimonia paparazzata e pubblicata sulle riviste di gossip. Ma dura poco: meno di sei mesi dopo i due sono già separati: «Ho definitivamente lasciato mio marito nonostante mi abbia pregato in tutti i modi di restare con lui - ha spiegato la Marconi a “Diva e Donna” - perché non tollero certi atteggiamenti in privato quanto in pubblico». A luglio, sui rotocalchi erano comparse le foto di De Lorenzis che baciava la Yespica. Ma lui, al TgCom, ha detto che si trattava di un fotomontaggio: «Era una cena di lavoro - ha spiegato -. Mi ha chiamato l’amica di Aida, che si trovava nel Salento per fare una serata come testimonial, e abbiamo organizzato per la sera. Ma è stata una cena tranquilla, senza alcun bacio». Folclore. Che però contribuisce a creare il mito di questo quarantenne che, su Facebook, si fa ritrarre mentre è alle prese con una grigliata di carne e sulle piste delle più note discoteche salentine. Ma i fascicoli giudiziari raccontano una storia molto diversa. Nel 2002 De Lorenzis era stato accusato di associazione mafiosa, spaccio e traffico di sostanze stupefacenti, nell’ambito dell’operazione «Pit». Nel 2004 la corte d’appello di Lecce lo aveva condannato a 9 anni di reclusione, sentenza poi annullata con rinvio dalla Cassazione nel 2008. Nel maggio scorso è stato assolto definitivamente dalla corte d’appello di Taranto. Ma i suoi guai non sembrano finiti. L’episodio che riaccende i riflettori sulle attività dell’imprenditore di Racale è un cruento regolamento di conti in famiglia. Il 6 settembre 2008 viene ucciso a Gallipoli un ex boss della Scu, Salvatore Padovano: a ordinare l’agguato è il fratello Pompeo Rosario Padovano, che voleva riprendere il controllo del clan. Indagando sui contorni di quell’omicidio, il Gico della guardia di finanza scopre che Pompeo Padovano ha avviato iniziative per riciclare il denaro sporco. E in una telefonata parla proprio di De Lorenzis: «Salvatore è uno su cui dobbiamo contare per tutte le cose nostre, hai capito?», dice Padovano al commercialista Giancarlo Carrino. Il nome di De Lorenzis spunta anche in una informativa del Ros dei carabinieri sui rapporti tra Padovano e la politica: nelle conversazioni il boss parla di come spostare voti per le elezioni politiche del 2008. Nel 2001 la famiglia di De Lorenzis è entrata anche nel settore delle sale bingo. E per questo una società, la Minnie srl (che fa capo a Pasquale De Lorenzis, fratello di Salvatore) era finita nel mirino di diverse procure. A Palermo e Lecce hanno infatti indagato sulle infiltrazioni mafiose nel settore del gioco legale, imbattendosi in una società - la Primal - che pur facendo capo a un proprietario di supermercati, aveva stracciato le multinazionali nella gara dei Monopoli di Stato per le licenze del bingo e per i «corner» delle scommesse. Ebbene, la procura di Palermo ritiene di aver dimostrato che il proprietario della Primal, Sebastiano Scuto, è un prestanome della famiglia mafiosa dei Laudani. Tra i partner della Primal c’era proprio la Minnie dei De Lorenzis, che aveva aperto il locale «Bingoblu» sulla strada di Maglie. Per questa «contiguità», la Minniel era stata sequestrata, ma ora è nuovamente operativa. Altre due società di Salvatore De Lorenzis, la Play Master e la M. Mouse srl, dopo il sequestro da parte della magistratura, sono invece state chiuse dall’amministratore giudiziario.

Il re delle slot che ama il pallone. Scrive Il Corriere del Mezzogiorno (Puglia) il 20 agosto 2010. Quarant’anni appena compiuti, figura emergente dell’imprenditoria salentina, il nome di Salvatore De Lorenzis è già noto alle cronache locali e nazionali. Conosciuto soprattutto per il matrimonio (ormai in via di rottura) con Carolina Marconi, ex concorrente della quarta edizione del Grande fratello, sposata con rito civile lo scorso 28 ottobre in una tenuta dell’Ottocento a Racale, in provincia di Lecce, oggi De Lorenzis torna a far parlare di sé con l’affaire D’Addario. È infatti accusato (accuse che l’interessato respinge) dalla ex escort Patrizia D’Addario di violenza sessuale. Oltre che alle cronache rosa il nome dell’imprenditore del basso Salento è legato anche alla cronaca giudiziaria. Già in passato, infatti, è finito al centro di alcune inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Lecce. Nello specifico negli anni scorsi la famiglia De Lorenzis è stata accusata dalla magistratura di legami con la criminalità organizzata, in particolare con un clan salentino della Sacra corona unita, riconducibile al boss Vito Paolo Troisi. Nel 2002 Rocco De Lorenzis e i suoi gli Salvatore, Piero e Pasquale hanno subito il sequestro dei beni, incluso i titoli della società Minnie Srl, per sospetta associazione mafiosa. Salvatore è stato condannato in primo e in secondo grado per associazione mafiosa, sentenza poi annullata dalla Corte di Cassazione, che ha inviato gli atti alla Corte d’Appello di Taranto per un nuovo processo, conclusosi con una nuova assoluzione. Al di là delle inchieste giudiziarie e dei matrimoni da cronache rosa, il nome del quarantenne di Racale è legato alla sua attività imprenditoriale. Da sempre attivo nel settore della produzione e della vendita di apparecchi da intrattenimento, De Lorenzis è direttore generale di Gruppo Salento slot, una delle aziende italiane tra le più note e le più importanti tra quelle specializzate in forniture come slot machine, roulette e tavoli da poker. De Lorenzis è anche proprietario di uno dei locali più esclusivi della movida salentina, situato a Gallipoli. La sua grande passione è il calcio. Una passione vissuta in prima persona da presidente dell’Asd Racale, formazione dilettantistica che disputerà il prossimo campionato, per la prima volta nella sua storia, nell’Eccellenza pugliese. Una vita vissuta dunque tra successi professionali e aule di Tribunale, belle donne e campi di calcio. Oggi, ad offuscare la nuova ascesa del rampollo dei De Lorenzis arriva l’accusa di violenza sessuale da Patrizia D’Addario. L’uomo respinge ogni accusa definendo la D’Addario, ai microfoni della emittente locale Telerama, «una pazza scatenata, una drogata e una prostituta». Ritiene di essere, proprio come il premier Silvio Berlusconi semplicemente vittima di un ricatto. Gli amici raccontano di come De Lorenzis sia rimasto molto turbato da questa vicenda. A dimostrazione di ciò vi sarebbe un episodio avvenuto nel primo pomeriggio di ieri. Solo un pai o d’ore dopo la breve intervista telefonica rilasciata ai microfoni di Telerama, l’uomo avrebbe cacciato in malo modo, spintonandoli e allontanandoli via dal cancello della propria villa, alcuni giornalisti che si erano recati presso la sua abitazione per intervistarlo. De Lorenzis, dopo essere stato sentito in Questura a Lecce nel pomeriggio di ieri, ha fatto ritorno a Marina di Mancaversa, lontano da microfoni e curiosi. Agli uomini della Squadra Mobile avrebbe fornito una ricostruzione completamente diversa dei fatti. Nella sua villa, su disposizione del magistrato titolare del procedimento, la dottoressa Stefania Mininni, la polizia ha compiuto una perquisizione in cui sono stati sequestrati alcuni nastri che saranno ora visionati dagli inquirenti.

Picchiò la showgirl Carolina Marconi: venti mesi all'ex marito folle di gelosia, scrive Erasmo Marinazzo Giovedì 8 Gennaio 2015 su "Il Messaggero". Maltrattò la showgirl Carolina Marconi durante quegli otto mesi di matrimonio che - ha detto il processo - non furono proprio un sogno ad occhi aperti da incorniciare per tutta la vita. Salvatore De Lorenzis, 46 anni, imprenditore di successo nel settore delle slot machine, è stato condannato ad un anno ed otto mesi di reclusione, nonché al versamento di una provvisionale di 30mila euro, con l’accusa di maltrattamenti in famiglia. La sentenza è stata del giudice della prima sezione penale, Sergio Tosi, che si è discostata dalle richieste del pubblico ministero onorario, del legale della Marconi e del difensore dell’imputato. L’accusa ha infatti sostenuto che il processo avesse dimostrato la fondatezza dei tre capi di imputazione contestati a De Lorenzis: maltrattamenti in famiglia, violenza privata ed appropriazione indebita. Due anni di reclusione, la richiesta di condanna alla quale si è associata l’avvocato Alessandra Meranda depositando una richiesta di risarcimento dei danni di 120mila euro. Con l’assoluzione si è conclusa, invece, l’arringa dell’avvocato difensore Francesco Fasano. Dopo tre ore di camera di consiglio, il giudice Tosi ha sì condannato l’imprenditore ma ha ritenuto insussistenti le ipotesi di reato di appropriazione indebita e di violenza privata, per la Mercedes Classe E da 75mila euro che De Lorenzis trattenne dopo il rientro a Roma della consorte ed anche per le migliaia di euro di multe e di polizze assicurative notificate alla Marconi per infrazioni commesse dal marito. Accuse precise e dirette quelle lanciate dagli avvocati nel processo tenutosi nell’aula-mignon “Cappuccilli 2” del Tribunale di Lecce. Alessandra Merenda, che difende la show girl con la collega Elena Garavaglia, ha attribuito all’imprenditore salentino aggressioni fisiche, minacce, insulti ed un atteggiamento ossessivo scatenato da una incontenibile gelosia. Francesco Fasano, invece, ha sostenuto, che se qualche dissapore c’è stato, sarebbe inquadrabile nelle sole beghe coniugali. E che questo processo - ha detto ancora - si sarebbe dovuto tenere davanti ad un Tribunale civile invece che penale. «Il processo ha provato tutte le accuse contestate all’imputato», è stato l’incipit dell’avvocato Merenda. «I maltrattamenti in famiglia per le aggressioni fisiche, le manifestazioni di disprezzo e le certificazioni mediche prodotte in atti. L’appropriazione indebita per la Mercedes Classe E trattenuta dall’imputato. E la violenza privata per i pedaggi e le polizze assicurative non pagate. Comportamenti reiterati nel tempo, dall’ottobre del 2009 all’agosto del 2010 e narrati nelle denunce di febbraio, maggio, luglio ed agosto». Il legale della Marconi si è poi soffermato su alcuni degli episodi di cui si occupò l’inchiesta. Come l’incontro della sera del 2 febbraio del 2010 al ristorante “L’Ibiza” di Milano: «Oltre alle violenze fisiche la mia assistita subì una serie di frasi ingiuriose come “sei una troia”. E’ stata minacciata con un coltello mentre gli diceva “ti ammazzo, sei una s..., sei una t...”. A maggio, tornati a casa, gli chiese le chiavi della macchina per andare a recuperare il telefono cellulare. Al rientro lui le urlò a chi dovesse telefonare, chi dovesse sentire e poi la buttò sul letto per riempirla di pugni in testa e farle chiedere 100 volte perdono e la frase “mia madre è una t...”. Le strappò i capelli, la riempì di graffi e le strinse le mani attorno al collo causandole anche uno stato d’ansia che permane ancora oggi”. Entro 30 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza. Scontato il ricorso in appello.

Non sono dei santi, ma nemmeno mafiosi…

La Cassazione: “Salvatore De Lorenzis non è mafioso”, scrive l'1 luglio 2015 Teleramanews. Dopo la decisione del Tar che ha sospeso l’interdittiva antimafia per la M.Slot srl di Racale, un altro punto a favore per la difesa di Salvatore De Lorenzis, arrestato il 24 febbraio scorso nell’operazione Clean Games della Guardia di Finanza. La Cassazione ha infatti rigettato il ricorso della Procura contro Salvatore De Lorenzis facendo cadere l’accusa di mafia. Il cosiddetto “re delle slot” di Racale non è mafioso secondo gli ermellini. L’aggravante era già stata fatta cadere dal Tribunale del riesame ma il pm si era opposto con un ricorso in cassazione. Hanno invece accolto le tesi dell’avvocato Francesco Fasano e del professore Carlo Federico Grosso, che aveva sollecitato la nullità delle intercettazioni telefoniche.

Il Legale dei fratelli De Lorenzis ha dichiarato su “Il Corriere Salentino” del 9 maggio 2018: «Che il sequestro non trae origine da tali circostanze, ma è intervenuto a compendio di una precedente indagine del 2015, che aveva portato già al dissequestro dei beni dei De Lorenzis, con provvedimento del Tribunale del riesame di Lecce non impugnato dalla procura; che in esecuzione del provvedimento di sequestro, nessun video poker o slot-machine è stato sequestrato in odor di illegalità; che la società è amministrata da circa tre anni da commissari prefettizi, i quali si ritiene siano in grado di vigilare sulla perfetta corrispondenza delle apparecchiature ai dettami della vigente normativa».

Pasquale De Lorenzis ha pubblicato questo post sulla sua pagina Facebook il 10 maggio 2018. Per correttezza e completezza di informazione si riporta la sua versione dei fatti e di cui si fa carico della veridicità.

VI CHIEDO 5 MINUTI DEL VOSTRO TEMPO.

Non ho mai parlato molto di me e anche in questa occasione mi limiterò a poche battute. Ne avrei volentieri fatto a meno, ma la mia dignità, evidentemente, non può più affidarsi al buon senso. Perché buon senso non ne vedo. Pensavo di aver già largamente dimostrato ciò che sono, ma evidentemente, il pregiudizio è più forte della verità. Sono costretto, mio malgrado, a difendermi, per la terza volta, sempre dalle stesse accuse. Accuse infamanti per me e la mia famiglia che rimarranno come tatuaggi anche nella vita delle mie figliole. Ed è questo che mi dà la forza di scrivere. E’ noto che mi sono sempre occupato di gestione di apparecchi da gioco…E’ vero, si tratta di un’attività che non viene vista con particolare favore, perché è più facile dire che chi si occupa di gioco produce danni alla società e non parlare, invece, delle opportunità di lavoro che vengono date, in un momento di forte crisi economica, ai rischi cui ci si espone nel raccogliere e detenere denaro che va a finire nelle casse dello Stato e dei Concessionari statali, rimanendo solo in una percentuale minima nelle casse aziendali. Il mancato favore verso tale mia attività lavorativa ha portato, nel tempo, ad una pressante attenzione della magistratura inquirente …..ed è di questo che voglio parlare…….Nel 2002 , ho subito un sequestro preventivo, su istanza della Procura di Lecce, sui miei beni aziendali e personali …Dopo tre mesi , preso atto della liceità dell’attività aziendale , il Tribunale di Lecce , mi ha restituito quanto in sequestro. Credevo che tutto sarebbe finito lì, ed ho continuato ad investire tutte le mie energie lavorative , finanziarie ..ed anche affettive, nel mio bel progetto imprenditoriale che guardava oltre il settore del gioco, al fine di poter offrire quanti più posti lavorativi…e senza falsa modestia sono diventato bravo …Ed invece , circa quattro anni fa, venivo investito, dapprima da una interdittiva, da parte del Prefetto di Lecce, emanata sulla considerazione di possibili infiltrazioni mafiose nella mia azienda…e, successivamente, anche da un provvedimento giudiziario di sequestro degli stessi beni personali ed aziendali, restrittivo anche della mia persona…. Il tutto senza che io abbia mai commesso un reato, poiché la normativa italiana consente alle Autorità prefettizie e giudiziarie di procedere con misure cautelari, sulla base di semplici indizi, in nome di un non ben definito INTERESSE PUBBLICO, con sacrificio dell’interesse privato...Lo giuro, mai nella mia vita avrei pensato di finire in carcere, chi mi conosce sa il mio modus vivendi ed il rispetto che ho sempre provato, nei confronti di tutti coloro che mi hanno onorato, anche, di un semplice saluto. Dopo circa un mese di frenetica attività, per dimostrare che ciò che era stato sequestrato era il lecito frutto del mio lavoro, il Tribunale del Riesame di Lecce mi ha restituito la libertà, dissequestrandomi il tutto e la Cassazione ha statuito l’assenza nella mia vita e nella mia azienda di metodi mafiosi. Nonostante ciò, in barba alla decisione della suprema Corte, il GUP di Lecce mi ha rinviato a giudizio, per gli stessi infamanti reati. Il procedimento di merito pende innanzi al Tribunale e sarà celebrato il 4.7.p.v. Inaspettatamente, due giorni fa , la G.d.F. di Lecce, per ordine del Tribunale di Prevenzione, ha sottoposto nuovamente, a sequestro gli stessi beni, sempre, per gli stessi fatti di tre anni fa , questa volta però muovendo da presupposti diversi …non sarei più mafioso, ma socialmente pericoloso, con possibilità, quindi, di essere soggetto ad altra recente normativa e ad altro tipo sequestro …Mi hanno sequestrato tutto….ed anche la possibilità di lavorare, perché la gogna mediatica fa sì che nessuna opportunità lavorativa ti possa essere offerta. Ho perso fiducia nella giustizia …e questo mi dispiace...Eppure, nel corso della mia vita lavorativa, ho denunciato chi voleva, effettivamente, con metodi mafiosi interferire nell’attività aziendale…queste non sono chiacchiere… e sono ancora parte civile in procedimenti penali, contro esponenti della malavita locale, esponendo me e la mia famiglia a possibili ritorsioni, ma per la voglia ed il desiderio di stare dalla parte del giusto e del corretto. Ho rispettato chi, per ordine delle Autorità, è venuto ad amministrare le mie aziende, sempre convinto che la loro regolarità avrebbe determinato la magistratura giudicante a fare giustizia, orgoglioso, al contempo, che la mia creatura, per come strutturata, riusciva a resistere. Purtroppo, la normativa applicata, nonostante sommaria, e quindi più veloce, risulta più penalizzante rispetto a quella applicabile ai giudizi di merito e, sebbene in maniera cautelare, provoca danni insanabili. Stranamente ed inspiegabilmente ciò non succede quando viene coinvolto in un procedimento penale un soggetto dell’apparto burocratico… eppure ciò dovrebbe portare ad una più veloce istruttoria, tenuto conto che il soggetto dovrebbe rappresentare lo Stato. E con ciò mi riferisco a fatti recenti avvenuti, nel corso della recente amministrazione prefettizia dell’azienda M.SLOT s.r.l., le cui quote erano, precedentemente, detenute da me e da mio fratello Saverio. Esiste una audio video registrazione portata all’attenzione del PREFETTO DI LECCE- DEL PRESIDENTE DEL TAR DI LECCE- DELL’ANAC - DELLA PROCURA DI LECCE, dimenticata nel cassetto, da cui emerge:

- Che i commissari prefettizi mandati ad amministrare la mia azienda non avevano i requisiti di Legge per rivestire l’incarico;

- Che per vari motivi, specificatamente indicati, erano incompatibili (uno dei commissari è il cognato del V.Prefetto di Lecce dr. APREA, l’altro firmatario della stessa informativa a base dell’inchiesta);

- Che nell’espletamento dell’incarico avevano usato metodi intimidatori, volgari ed arroganti, tanto da determinare i destinatari dei loro comportamenti a spiegare delle denunce, che pendono, anzi sono ferme, innanzi alle rispettive Autorità destinatarie dell’invio.

- Che in più di un’occasione avevano ammesso che i DE LORENZIS non sono mafiosi, ma ottimi imprenditori e che è solo una guerra di denaro, relazionando, però, in senso contrario al Prefetto. E’ vero è una questione di soldi…sapete quanto prende un incaricato prefettizio??? Circa 10.000,00 ciascuno (AL MESE) …è questo l’interesse pubblico??’’...o questo è un interesse privato??? E allora…perché due pesi e due misure? Bisogna davvero rassegnarsi a ciò?? Sono deluso, ma incazzato…Mi reputo un cittadino onesto, rispettoso di diritti e sentimenti altrui e, sino ad ora, ho sempre confidato nella giustizia, in quella vera. Oggi ho contezza, però, che esiste anche una macchina inquirente incapace di accettare che esiste una realtà diversa da quella ipotizzata ed insensibile alle possibili conseguenze, anche psicologiche, che tale ostinazione può provocare nelle persone. Spero di conservare la forza di combattere. Non so perché ho scritto questo, forse non per me…ma per chi è più importante di me… Pasquale DE LORENZIS

Lo sfogo di De Lorenzis dopo l’ultimo sequestro: “accanimento, si sta distruggendo un’azienda sana”, scrive l'11 maggio 2018 Jamma. Dopo l’ennesimo sequestro, un membro della famiglia De Lorenzis di Racale, rompe il silenzio sfogando tutta la sua rabbia e la frustrazione per quanto sta accadendo alla sua famiglia e alla sua azienda. E’ Pasquale De Lorenzis, deciso a raccontare nel dettaglio i fatti che lo vedono coinvolto. “Ne avrei volentieri fatto a meno, ma la mia dignità, evidentemente, non può più affidarsi al buon senso. Perché buon senso non ne vedo. Pensavo di aver già largamente dimostrato ciò che sono, ma evidentemente, il pregiudizio è più forte della verità” spiega. “Sono costretto, mio malgrado, a difendermi, per la terza volta, sempre dalle stesse accuse. Accuse infamanti per me e la mia famiglia che rimarranno come tatuaggi anche nella vita delle mie figliole. Ed è questo che mi dà la forza. E’ noto che mi sono sempre occupato di gestione di apparecchi da gioco. E’ vero, si tratta di un’attività che non viene vista con particolare favore, perché è più facile dire che chi si occupa di gioco produce danni alla società e non parlare, invece, delle opportunità di lavoro che vengono date, in un momento di forte crisi economica, ai rischi cui ci si espone nel raccogliere e detenere denaro che va a finire nelle casse dello Stato e dei Concessionari statali, rimanendo solo in una percentuale minima nelle casse aziendali. Il mancato favore verso tale mia attività lavorativa ha portato, nel tempo, ad una pressante attenzione della magistratura inquirente, ed è di questo che voglio parlare”. Nell’ultima operazione della GdF sono finiti sotto chiave beni per 15 milioni di euro, ritenuti dalle Fiamme Gialle riconducibili ai 4 fratelli e a quello che è stato definito un prestanome. Un sequestro anticipatorio, parallelo a quello seguito all’operazione Clean Game in cui venne loro contestata l’associazione mafiosa. “Nel 2002, ho subito un sequestro preventivo, su istanza della Procura di Lecce, sui miei beni aziendali e personali. Dopo tre mesi, preso atto della liceità dell’attività aziendale, il Tribunale di Lecce mi ha restituito quanto in sequestro. Credevo che tutto sarebbe finito lì, ed ho continuato ad investire tutte le mie energie lavorative, finanziarie ed anche affettive, nel mio bel progetto imprenditoriale che guardava oltre il settore del gioco, al fine di poter offrire quanti più posti lavorativi. E senza falsa modestia sono diventato bravo. Ed invece, circa quattro anni fa, venivo investito, dapprima da una interdittiva, da parte del Prefetto di Lecce, emanata sulla considerazione di possibili infiltrazioni mafiose nella mia azienda, successivamente, anche da un provvedimento giudiziario di sequestro degli stessi beni personali ed aziendali, restrittivo anche della mia persona. Il tutto senza che io abbia mai commesso un reato, poiché la normativa italiana consente alle Autorità prefettizie e giudiziarie di procedere con misure cautelari, sulla base di semplici indizi, in nome di un non ben definito ‘interesse pubblico, con sacrificio dell’interesse privato” precisa De Lorenzis.”Lo giuro, mai nella mia vita avrei pensato di finire in carcere, chi mi conosce sa il mio modus vivendi ed il rispetto che ho sempre provato, nei confronti di tutti coloro che mi hanno onorato, anche, di un semplice saluto. Dopo circa un mese di frenetica attività, per dimostrare che ciò che era stato sequestrato era il lecito frutto del mio lavoro, il Tribunale del Riesame di Lecce mi ha restituito la libertà, dissequestrandomi il tutto e la Cassazione ha statuito l’assenza nella mia vita e nella mia azienda di metodi mafiosi. Nonostante ciò, in barba alla decisione della suprema Corte, il GUP di Lecce mi ha rinviato a giudizio, per gli stessi infamanti reati. Il procedimento di merito pende innanzi al Tribunale e sarà celebrato il 4 luglio prossimo”. “Inaspettatamente, due giorni fa, la G.d.F. di Lecce, per ordine del Tribunale di Prevenzione, ha sottoposto nuovamente, a sequestro gli stessi beni, sempre, per gli stessi fatti di tre anni fa, questa volta però muovendo da presupposti diversi: non sarei più mafioso, ma socialmente pericoloso, con possibilità, quindi, di essere soggetto ad altra recente normativa e ad altro tipo sequestro” precisa De Lorenzis. “Mi hanno sequestrato tutto, anche la possibilità di lavorare, perché la gogna mediatica fa sì che nessuna opportunità lavorativa ti possa essere offerta. Ho perso fiducia nella giustizia. E questo mi dispiace. Eppure, nel corso della mia vita lavorativa, ho denunciato chi voleva, effettivamente, con metodi mafiosi interferire nell’attività aziendale, queste non sono chiacchiere, e sono ancora parte civile in procedimenti penali, contro esponenti della malavita locale, esponendo me e la mia famiglia a possibili ritorsioni, ma per la voglia ed il desiderio di stare dalla parte del giusto e del corretto. Ho rispettato chi, per ordine delle Autorità, è venuto ad amministrare le mie aziende, sempre convinto che la loro regolarità avrebbe determinato la magistratura giudicante a fare giustizia, orgoglioso, al contempo, che la mia creatura, per come strutturata, riusciva a resistere. Purtroppo, la normativa applicata, nonostante sommaria, e quindi più veloce, risulta più penalizzante rispetto a quella applicabile ai giudizi di merito e, sebbene in maniera cautelare, provoca danni insanabili. Stranamente ed inspiegabilmente ciò non succede quando viene coinvolto in un procedimento penale un soggetto dell’apparto burocratico, eppure ciò dovrebbe portare ad una più veloce istruttoria, tenuto conto che il soggetto dovrebbe rappresentare lo Stato. E con ciò mi riferisco a fatti recenti avvenuti, nel corso della recente amministrazione prefettizia dell’azienda M.SLOT s.r.l., le cui quote erano, precedentemente, detenute da me e da mio fratello Saverio”. Qui lo sfogo di Pasquale De Lorenzis si concentra su fatti riguardanti proprio l’amministrazione prefettizia dell’azienda. Esisterebbero prove, portate all’attenzione del Prefetto di Lecce, dell’Anac e della Procura, ma finite in chiassà quale cassetto, sulla legittimità di quegli stessi amministratori e sulla corretta del loro operato. “E allora, perché due pesi e due misure?” si chiede De Lorenzis “Bisogna davvero rassegnarsi a questo? Sono deluso, ma incazzato. Mi reputo un cittadino onesto, rispettoso di diritti e sentimenti altrui e, sino ad ora, ho sempre confidato nella giustizia, in quella vera. Oggi ho contezza, però, che esiste anche una macchina inquirente incapace di accettare che esiste una realtà diversa da quella ipotizzata ed insensibile alle possibili conseguenze, anche psicologiche, che tale ostinazione può provocare nelle persone. Spero di conservare la forza di combattere” conclude.

Dopo il sequestro, i De Lorenzis rompono il silenzio: “accanimento, si sta distruggendo azienda sana”, scrive l'11 maggio 2018 Trnews.it (TeleRama). Dopo l’ennesimo sequestro, un esponente della famiglia De Lorenzis di Racale ha deciso di rompere il silenzio. Lo fa Pasquale, parlando a Telerama e pubblicando un lungo post su Fb, uno “sfogo” condiviso da centinaia di persone. “Parlo – dice alla nostra emittente – perché sono veramente stanco e sfiduciato; perché vedo morire i frutti di un’azienda costruita con sacrificio mio e dei miei collaboratori; perché si tratta di un’azienda che dai dati AAMS 2013 è risultata la terza a livello nazionale, stimata e considerata dai maggiori concessionari statali; perché vedersi etichettato come mafioso significa lasciare un’eredità infamante ai propri figli; perché in realtà nessuna apparecchiatura illecita sequestrata può essere ricondotta alla mia ex azienda e comunque il numero di quelle sequestrate corrisponderebbe a sole 6, pari allo 0,00142 per cento del parco macchine; perché sarei stato un idiota a compromettere i decennali rapporti con i più importanti concessionari statali mettendo in commercio macchine irregolari. Spontaneamente ho fornito alla magistratura i dati di oltre mille clienti che ben avrebbero potuto riferire sull’esistenza di eventuali metodi mafiosi; perché non vi è neanche una denuncia o dichiarazione in tal senso e tutta l’indagine si basa sull’errata interpretazione di una dichiarazione scherzosa di un barista ad un finanziere, che ha dato origine a tutta l’inchiesta, senza tenere conto che chi parlava era un mio ex compagno di scuola”. Sotto chiave sono finiti beni per 15 milioni di euro, ritenuti dalle Fiamme Gialle riconducibili ai 4 fratelli e a quello che è stato definito un prestanome. Un sequestro anticipatorio, parallelo a quello seguito all’operazione Clean Game in cui venne loro contestata l’associazione mafiosa, accusa caduta dinanzi al Tribunale del Riesame e in Cassazione, in fase cautelare, ma poi riproposta dal pm nella richiesta di rinvio a giudizio e accolta dal gip: il processo si aprirà a luglio. E Pasquale De Lorenzis parla di accanimento contro di lui e di pregiudizio verso il settore del gioco. “Si fa riferimento a vicende a me estranee – aggiunge – e questo anche nei giudizi che pendono nei miei confronti, giudizi nei quali sicuramente non vi è nessun passo in cui si possa dedurre atteggiamenti da mafioso o da socialmente pericoloso. Nel tipo di attività espletata, poi, è più facile parlare di illegalità e non di lavoro”. Le intercettazioni e le rivelazioni che testimonierebbero la presunta contiguità con clan mafiosi riguardano soprattutto Salvatore de Lorenzis. E su questo gli altri fratelli rivendicano la necessità di fare dei distinguo: “Io personalmente – spiega Pasquale De Lorenzis – con mio fratello non parlo da oltre dieci anni. La M.SLOT s.r.l. ha preferito nel tempo avere rapporti commerciali con altre aziende e non con lui e di questo la Guardia di Finanza che ha proceduto alle indagini potrebbe darne contezza. Credo di avere il diritto di essere giudicato per il mio modo di vivere. I rapporti familiari ed affettivi non possono portare ad una omogeneizzazione delle persone ancor più in ambito giudiziario dove la responsabilità è personale. Per il resto non rinnego i sentimenti ma chi mi conosce sa che ho uno stile di vita diverso da quello di mio fratello”. Qualche giorno prima del sequestro, il Trust Pasama, che attualmente detiene le quote della società M.Slot e di cui i fratelli Pasquale e Saverio sono beneficiari, ha depositato richiesta per tornare sotto la guida di commissari giudiziari, misura che dovrebbe configurarsi più stringente rispetto a quella attivata con l’interdittiva antimafia, con due commissari prefettizi, sui quali il giudizio degli imprenditori pare essere negativo. “Io posso solo dire- conclude Pasquale De Lorenzis – che dagli atti di causa depositati davanti al Tar di Lecce, da me e mio fratello quali oggi beneficiari del Trust e da una denuncia sporta all’Anac da mia sorella, versavano in situazioni di incompatibilità. In particolare, uno per aver sottoscritto l’informativa prefettizia, a base dell’inchiesta, e l’altro per essere parente di un alto funzionario della Prefettura di Lecce. Inoltre, diversi dipendenti mi risulta abbiano denunciato situazioni a dir poco raccapriccianti, come il fatto che un commissario sia venuto in azienda con una pistola e l’abbia dimenticata nel bagno in cui hanno accesso i lavoratori. Purtroppo tutto quanto denunciato anche all’Anac l’11 agosto 2017 giace nel cassetto”.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

Criminalizzazione di un territorio con normativa razzista a scopi politici. Il fallimento delle aziende del meridione d’Italia voluto dalla politica di sinistra a favore delle imprese del Nord Italia. Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi e la gestione criminale dei beni confiscati.

A proposito di interdittive prefettizie.

In premessa un esempio di come una notizia può venir data in modi diversi in base al grado di sinistrosità e di giustizialismo della penna, inserita o meno in quel sistema di antimafia interessata, al fine di influenzare il lettore profano di cose di giustizia.

La parola non deve mancare ad un credente ortodosso filo sistema…

L’interdittiva antimafia è prevenzione indispensabile. I tabù, i pregiudizi e la (dis)conoscenza, scrive Giuseppe Larosa il 6 maggio 2017 su "Approdo News". “L’interdittiva antimafia” è uno strumento importante, necessario e fondamentale ai fini della prevenzione per le infiltrazioni della criminalità mafiosa nell’economia produttiva nazionale. E al di là di tutto, è un punto fermo che dimostra che lo Stato esiste ed è vigile e sensibile per questo cancro in metastasi definito mafia. Quando si leggono interventi del genere come “Le interdittive vengono assunte d’imperio dai Prefetti e stanno letteralmente massacrando gli imprenditori e, di conseguenza, la stessa economia dei territori dove essi operano. Basta un ‘si dice’, un ‘sembra’, o avere un lontano ‘parente’ con problemi di mafia e, in men che non si dica, si diventa destinatari della scelta del Prefetto che decreta la chiusura di qualsiasi attività”, si apre uno spiraglio pericoloso e un forte dubbio sulla credibilità delle istituzioni. Diversamente invece, se si aprisse un dialogo di revisione e di miglioramento della normativa vigente (senza colpire bersagli prefettizi), forse e dico forse, si potrebbe iniziare un reale approfondimento di confronto. C’è molta ignoranza in merito alla questione, molti si sentono giuristi “di grido”, altri “portatori di verità” e poi ci sono quelli che sanno tutto e sono legittimati a sparare a zero su ogni cosa. Cerchiamo di fare un po’ di ordine. Il Dlgs n. 159/2011, ovvero, il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”, al Capo II del Libro II del decreto stabilisce alcune prescrizioni ai fini della prevenzione di condizionamenti mafiosi e consegna potere ai prefetti, dopo una serie di accertamenti mirati con diversi “accessi” a emettere una documentazione antimafia che può essere anche un’interdittiva per serie condizioni di mafiosità di alcuni soggetti stabiliti dal decreto in questione e principalmente negli ambiti dei contratti pubblici. Ora, ultimamente (e non solo perché è una questione che dura da quando è entrato in vigore questo istituto) si è aperto un dibattito su alcune interdittive antimafia perché hanno colpito un personaggio noto qual è il presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea, si è alzata in alcuni una levata di scudi e hanno criticato questo provvedimento prefettizio. Non entrando nel merito della questione perché farlo significherebbe affrontare un meccanismo cavilloso e occorrerebbe conoscere bene pure i fatti, però quello che più emerge nella condizione in essere, è la facile critica alle istituzioni e la carenza di conoscenza del fenomeno stesso. Innanzitutto non bisogna ridurla né paventarla come una situazione politica, sarebbe un gravissimo errore di metodo e di valutazione serena, ma bisognerebbe iniziare a capire, osservando il resto d’Italia che è uno strumento ampiamente adoperato anche al Nord e non solamente al Sud, come si vuol far credere. A tutto questo si aggiunge anche il controllo e le varie condizioni ispettive che riguardano la prevenzione alla corruzione che in un certo qual modo sono contigue in alcune realtà, basta vedere i rapporti Anac da quando è stata istituita con la soppressione della’Avcp (Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), la anch’essa aveva parlato di infiltrazioni, interdittive e aveva un settore ispettivo efficiente il quale procedeva al controllo territoriale e nemmeno in quel caso la piaga era solamente al Sud, tale è senza ogni dubbio un falso storico e statistico.

Ultimamente il Tar Sicilia con una sentenza (n. 1143 del 26 aprile 2017), ha sancito una “scrematura” attuando un metodo “elastico” per le interdittive asserendo che le “legittime destinatarie di interdittive negative solo quando la Prefettura indica atti idonei diretti in modo non equivoco a conseguire lo scopo di condizionarne le scelte gestionali” e inoltre, “che i legami di natura parentale non possono essere ritenuti idonei a supportare autonomamente un’informativa negativa”e che tali possono assumere un rilievo solo con una reale concretezza di controllo e condizionamento della impresa con intrecci pericolosi economici e familiari che giustificano una reale infiltrazione mafiosa nell’impresa.

Il discorso andrebbe approfondito con più spazio e condizioni di approfondimento e non in un semplice scribacchio da tastiera, ma si potrebbe ad esempio iniziare un dialogo di confronto partendo da quanto pronunciato dal Consiglio di Stato in materia di interdittiva antimafia con una minuziosa ricostruzione normativa dell’istituto. La Terza sezione con la sentenza n. 17343 del 3 maggio 2016. In particolare, nella sentenza della Terza Sezione del 3 maggio 2016 n. 17343, i Giudici di Palazzo Spada hanno individuato i principi ai quali si devono attenere le Prefetture in sede di emanazione delle informative antimafia, sia individuando gli elementi oggettivi rilevanti in materia sia evidenziando i criteri per la motivazione di tali misure. Magari leggendo, documentandosi e soprattutto studiare la reale forma legislativa associandola alla condizione sociologica del contesto, forse renderemmo un servizio in più sia alla conoscenza che alla buona fede.

Bari, infiltrazioni mafiose nell'azienda dei rifiuti Ercav: 20 comuni a rischio paralisi. La prefettura ha disposto l'interdittiva antimafia per la società della famiglia Lombardi che gestisce la raccolta di rifiuti. Nelle carte della Dia i nomi di esponenti dei clan Parisi e Zonno fra i dipendenti, scrive Antonello Cassano il 29 novembre 2017 su "La Repubblica". La prefettura di Bari ha disposto l'interdittiva antimafia per la Ercav, società della famiglia Lombardi (di Triggiano) che gestisce la raccolta di rifiuti in decine di comuni pugliesi. La notizia è riportata dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Il provvedimento cautelare pesantissimo prende spunto da un rapporto della Dia, la Direzione investigativa antimafia, in cui emerge che la società Lombardi Ecologia srl (fallita nel giugno 2016) e la Ercav Srl "hanno un oggettivo e incontrovertibile legame che le accomuna". La decisione della prefettura nasce dall'inchiesta della Procura di Milano (uno stralcio di un'altra indagine partita dalla Procura barese, ma poi archiviata) per falsità ideologica, lottizzazione abusiva e truffa aggravata. Nelle 15 pagine del provvedimento vengono elencati i procedimenti a carico di alcuni rappresentanti della famiglia Lombardi e viene ricordato che la società omonima era finita in concordato preventivo già due anni fa, con la successiva nomina dei commissari giudiziali. Non solo: il documento della prefettura cita anche un'indagine condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri di Lecce. Da questa indagine emerge che il pregiudicato Gianluigi Rosafio e Tiziana Luce Scarlino (genero e figlia di un boss della Sacra corona unita, Giuseppe Scarlino, in carcere con condanna a ergastolo) "sarebbero stati costretti a versare all'ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, la somma di 560mila euro quale parte di una tangente di un milione di euro per il tramite di Rocco Lombardi", amministratore della Lombardi ecologia, proprietaria unica delle quote della Ercav. Quella somma, secondo le indagini, era finalizzata all'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta rifiuti nell'Aro06 dell'Ato Lecce 2. Nell'interdittiva vengono elencati altri dipendenti dell'Ercav (ex dipendenti della Lombardi), pregiudicati o vicini ai clan baresi. Fra le 321 unità della società ci sono anche Gaetano Bellomo, contiguo per parentela al boss Savino Parisi, Gaetano Cassano (figlio del pregiudicato Biagio Cassano, sodale del clan Parisi) e Tommaso Parisi (figlio di Giuseppe, alias Mames, e nipote di Savino Parisi). Fra i dipendenti anche personaggi legati al clan bitontino Zonno, come Domenico Cavalieri Foschini, pluripregiudicato per spaccio di stupefacenti (condannato in primo grado a 16 anni con l'accusa di tentato omicidio) e Biagio Campanale. Non a caso nell'interdittiva si fa notare che "sussistono concreti e attuali elementi indicatori di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società Ercav e di collegamenti della medesima con la criminalità organizzata". Questo il motivo che ha spinto la prefettura a far scattare l'interdittiva. Un provvedimento che potrebbe avere conseguenze nella raccolta rifiuti soprattutto in provincia di Bari e Lecce. Sono più di 20 i Comuni che hanno affidato la raccolta rifiuti alla Ercav: il rischio è che si possa paralizzare la gestione del sistema in queste amministrazioni. 

Rifiuti, altro stop antimafia. «Nella Ercav ci sono i clan». Infiltrazioni della criminalità. Interdittiva della Prefettura per l'azienda della famiglia Lombardi Commissariati 30 appalti in tutta la Puglia, niente più nuove gare, scrive il 29 Novembre 2017 Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un procedimento penale a Milano per truffa allo Stato, falso ideologico e lottizzazione abusiva. Un’indagine a Lecce su una presunta tangente. Le solite assunzioni di pregiudicati, a dimostrare «tentativi di infiltrazione mafiosa». Non conta che Ercav, la «newco» nata dal fallimento della Lombardi Ecologia, sia oggi di fatto gestita dal Tribunale: i legami con la famiglia Lombardi sarebbero ancora molto forti. Per questo, ieri sera, la Prefettura di Bari ha emesso una interdittiva antimafia. È il terzo provvedimento del genere che riguarda un’azienda del settore rifiuti, dopo quello di gennaio su Camassambiente e quello su Avvenire. Ercav gestisce la raccolta e lo smaltimento a Mola, Toritto, Capurso, Valenzano, a Castellaneta, e in numerosissimi centri del Salento: in base alla legge gli appalti in corso verranno commissariati, e l’azienda non potrà partecipare a nuove gare. Il provvedimento parla di un «incontrovertibile legame» tra la fallita Lombardi e la Ercav e di una «evidente connessione» (Ercav è controllata al 100% dalla Lombardi, il consigliere delegato è Rocco Lombardi, classe ‘86, figlio di Vincenzo proprietario del 33% della Lombardi) ritenuta «rivelatrice della totale cointeressenza e della presenza di intrecci di interessi economici». A giugno 2016, quando Lombardi è fallita, i servizi di raccolta sono rimasti alla Ercav, la «newco» costituita nell’ambito di una proposta di concordato preventivo poi bocciata. I vertici di Ercav, che era destinata a essere venduta, sono di nomina giudiziaria: la scelta di Rocco Lombardi si spiega con la necessità di garantire il know-how tecnico della gestione dei circa 30 appalti in piedi. Nell’interdittiva la Prefettura valorizza l’indagine aperta a Milano nei confronti di alcuni membri della famiglia a seguito dello stralcio di un procedimento aperto a Bari. Ricorda poi le accuse emerse a Lecce in una indagine dei carabinieri, secondo cui la Lombardi nel 2009 sarebbe stata costretta a pagare una tangente da 560mila euro all’ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, per aggiudicarsi un appalto. Quindi elenca i carichi pendenti dei componenti della famiglia Lombardi. E riporta infine quanto già emerso in altre circostanze, ovvero che alcuni dipendenti della Ercav (transitati dalla Lombardi) o risultano pregiudicati o sono ritenuti contigui ai clan. È il caso di Tommaso Parisi, incensurato, figlio di Giuseppe alias «Mames», nipote del boss Savino Parisi. Ma anche di Domenico Cavalieri Foschini, pregiudicato, condannato in primo grado a 16 anni per un tentato omicidio del 2013.

BARI, IL CASO ERCAV. Servizio di Telenorba Online del 30/11/2017 tg delle 13,30. La legge non ammette interpretazioni, e la prefettura di Bari l'ha applicata alla lettera. Parliamo delle norme antimafia, una vera e propria trappola per aziende che operano in settori di bassa manodopera come, per esempio, la raccolta dei rifiuti. In questa trappola è finita l’Ercav. Azienda nata sulle ceneri della Lombardi ecologia, fino a qualche anno fa una delle più importanti aziende del settore in Puglia. Travolta dallo scandalo ambientale della discarica Martucci, la Lombardi è fallita, ma con una intelligente manovra di chirurgia societaria, da una sua costola nacque la Ercav. Società pulita, nuova e giovane con, nel portafoglio, una trentina di appalti da gestire in tutta la Regione e soprattutto con uno scopo sociale: salvare trecentocinquanta posti di lavoro. Purtroppo però, tra quei lavoratori che la Ercav non ha scelto, ma ha dovuto assumere, c’è qualcuno con un bagaglio penale pesante, non consentito dall’antimafia, secondo cui, evidentemente, gli ex carcerati non possono redimersi, lavorando. Così la prefettura di Bari ha interdetto la Ercav, bloccandogli ogni attività: troppi legami col passato e qualche persona sospetta al lavoro di troppo. Adesso anche Ercav rischia di fallire senza colpe, se non quella di aver ereditato qualche errore. La società dei figli dei Lombardi per il momento, però, non si arrende. Farà ricorso, ma gli appalti saranno commissariati e forse in venti comuni pugliesi la raccolta dei rifiuti entrerà nel caos.

“Non credono alla mia buona gestione degli affari. Perché sono straniera”, scrive Lidia Zitara Domenica 15/10/2017 su "La Riviera On Line". Durante l’estate scorsa la società di cui Mariorara Cenusa è amministratrice è stata accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. “Ho ragione, e voglio che sia riconosciuta”, così dice Mariorara Cenusa quando riepiloga con sgomento la vicenda che l’ha vista al centro di un episodio di cronaca reggina, la chiusura del suo locale, il “Sireneuse” proprio nella zona più accorsata del Lungomare di Reggio. Durante l’estate scorsa la società di cui è amministratrice, la “Mr. Zuppa” è stata infatti accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente il 2 agosto, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. Marioara, una sottile donna di trent’anni, si fa chiamare Mary dagli amici, e tutti in città la conoscono con questo nome. Dopo sette anni di vita in Italia, venuta via dalla Romania per trovare un lavoro e garantire sostegno alla famiglia e a sua madre malata, il suo accento si sente ancora forte, mescolato a quello forse più pervasivo e inconfondibile della Città dello Stretto. Mary parla benissimo l’italiano e non dà certo l’idea di essere una persona priva di capacità imprenditoriale e voglia di lavorare in quello che è il settore delle sue competenze. Afferma infatti di avere due titoli di laurea, conseguiti in Romania e validi a livello europeo: uno in Economia e un altro in Amministrazione. Legittimo pensare che Mary si sia costruita da sé, passando attraverso i lavori “standard” degli emigrati in Italia: badante, colf, donna delle pulizie, cameriera. Infine, perché no, amministratrice e titolare di una società che ha in gestione uno dei locali più centrali di Reggio. Ma sembra che il passaggio di una donna, straniera per giunta, dallo status di lavoratrice a quello di datrice di lavoro non sia stato digerito. Mary aveva impiegato fino a 40 persone al “Sireneuse”, durante la stagione estiva. Mary racconta del suo passato, della sua fuga da un paese sconquassato dal Regime comunista e dalla sua caduta. “I miei nonni furono rinchiusi in lager, quelli sui fiumi, che d’estate hai i piedi nell’acqua e in inverno sul ghiaccio. Questa è la stessa cosa, ma con un altro nome. Ho perso 300.000 euro e sono sicura di non riaverli più. Ma non chiedo neanche un risarcimento, quanto il riconoscimento delle mie ragioni, dei miei diritti e della mia dignità. Mi è stato detto che non è possibile che fossi io a gestire con la mia testa i miei affari poiché straniera”. Ci piacerebbe sapere se essere badante o colf sia l’unico destino possibile per una donna rumena in Italia, e l’affermazione riportata appare pesantemente razzista e sessista. Mary è certamente una vittima. Una vittima incapace di realizzare la verità degli eventi che le sono piovuti addosso. Sarebbe auspicabile una revisione da parte della Procura dei fatti che sono gravitati attorno a Mary, e quanto emerge appare visibilmente parziale, un ampio puzzle con molte parti mancanti, di cui Mary è solo una tessera. “Ho paura - dice Mary - ma non ho niente da perdere, perché in fondo ho già perso tutto. Chiedo solo che venga ascoltata la mia verità e che sia rispettata la mia dignità di persona”. Una richiesta forse troppo grande in una regione prossima allo sprofondo morale, in un paese già moralmente annegato.

Reggio Calabria: interdittiva antimafia, richiude il “Sireneuse”. La proprietaria scrive al Prefetto: “è una vergogna”. Reggio Calabria, richiude il noto “Sireneuse”. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale, scrive il 4 agosto 2017 Danilo Loria su "Stretto Web". A soli due mesi dalla riapertura richiude il noto “Sireneuse” a Reggio Calabria. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale. Chi di competenza mi deve dare delle risposte”. Di seguito la lettera al Prefetto della città dello Stretto: Signor prefetto, con la punta della sua penna pregiata mi avete appena rovinato e avrei qualcosa da dirvi. Ho solo 30 anni. E mi ritrovo un’interdittiva prefettizia antimafia adosso, giudicando in base alle affermazioni del presidente del TAR di Reggio Calabria: “l’interdittiva antimafia è come un diamante, è eterno”. Sono l’amministratore della società che ha comprato e sottolineo comprato il novembre scorso il locale che a voi da tanto fastidio, “SIRENEUSE” con tanto di contratto regolare, di perizie tecniche e pagamenti regolari e trasparenti. Dopo mesi di lavori e di combattimenti instancabili con la burocrazia e con la lentezza della macchina istituzionale, il 7 giugno abbiamo aperto. 20 dipendenti assunti, altre 10 assunzioni previste per la stagione. Appena abbiamo alzato le serrande, i vigili della polizia municipale parcheggiavano le macchine davanti all’entrata e la gente scappava lasciando il caffè sul bancone. Appena abbiamo alzato le serrande la Questura di Reggio Calabria si è fatta viva, chiedendo i documenti e identificando tutti clienti che si trovavano all’interno del locale in un modo quasi accusatorio.  Sono venuti in 6!! Poi i carabinieri, la stessa cosa.  Era chiaro che non erano controlli ordinari, ma che avevano uno scopo ben preciso. Scopo diventato palese il 25 luglio, il giorno il quale mi mandate la pec contenente l'interdittiva. Mi accusate di essere” condizionata dalla criminalità organizzata in virtù della logica del più probabile che non”, essendo che con il vostro potere discrezionale non avete bisogno di prove, vi basta il sospetto. Anche io, signor prefetto, ho dei sospetti. Posso esternarli??? Sospetto che ci sono interessi che vanno oltre la mia immaginazione, sospetto che avete studiato al tavolino ogni mossa. Ora denunciatemi per false accuse e per diffamazione, voi avete gli avvocati a vostra disposizione, io devo pagarli e non potrò difendermi.  Vi chiedo l’accesso agli atti e mi rispondete cosi: “esente da alcuna segnalazione”, “non risultano definiti o pendenti procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione” , “presso gli uffici giudiziari di Reggio Calabria non si rilevano alcune condanne o precedenti penali”. Signor prefetto, ho conseguito due lauree, sono munita di volontà propria e le decisioni presi mi appartengono. Giuste o sbagliate che siano.  Signor prefetto, costi quel che costi, io vado fino in fondo, la mia ambasciata e il mio governo chiederanno a breve delle spiegazioni. Sappiate che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere, avete rovinato una innocente e avete reso disoccupati 20 padri di famiglia. Con la vostra penna pregiata. Andrò dove sarà necessario, in qualunque grado di giudizio e alla Corte Europea dei Diritti Umani, per dimostrarvi quanta volontà propria ho. Cenusa Marioara.

Reggio Calabria, la titolare del Sireneuse scrive al prefetto dopo la decisione del TAR: uno sfogo durissimo, scrive il 14 settembre 2017 Ilaria Calabrò su "Stretto Web". Marioara Cenusa, titolare del Sireneuse, bar sito sul lungomare Falcomatà a Reggio Calabria, ha inviato una lettera a StrettoWeb per fare presente che il TAR ha rigettato la richiesta di sospensiva. Ecco la lettera integrale: Signor prefetto, Si ricorda di me? Già, come fare a ricordarsi, siamo 500 destinatari di interdittive antimafia solo nei ultimi anni, farei fatica anch’io. Sono 0089658, è questo il mio numero di protocollo, dato che per lei io non sono un essere umano, ma un semplice, piccolo numero. Che potere ha? Che potere immenso ha? Il potere di affermare e di scrivere che il mese di gennaio 2016 viene dopo luglio 2016, che dal 1988 al 2016 sono trascorsi soltanto 18 anni, avete ribaltato le leggi della matematica e della logica elementare, e il TAR vi ha dato pure ragione!! Che potere ha? Il potere di decidere in modo completamente arbitrario chi deve vivere e chi deve morire, chi deve lavorare e chi deve chiudere, chi si può salutare e chi no, chi si può sposare e chi no. Che potere ha? Di offendere e di disprezzare, in un aula di tribunale, una ragazza perché” una straniera non potrebbe mai fare impresa, se mai può fare solo la cameriera! “Che potere ha? Questo TAR non accoglie alcuna richiesta di sospensiva, (quello precedente forse accoglieva qualcuna di troppo e per la prima volta nella storia tutti 5 membri del Collegio sono stati trasferiti in blocco) e il Comune esegue ciecamente le vostre direttive. Io non ho il vostro potere, sono solo un numero di protocollo. Ma ho il potere di parlare, di scrivere, di denunciare, potere che mi è dato dall’innocenza di chi non ha niente da nascondere! Ho il potere di far conosciuto quel che fate in tutto il paese ed oltre, di pubblicare documenti che dimostrano la leggerezza impressionante delle vostre istruttorie, piene di sbagli, confusioni, omissioni. Ho il potere di non fermarmi fino a quando avrò delle risposte alle mie domande: “Perché? Perché il Sireneuse? Perché noi? Chi vuole il locale a tutti costi? Chi è indietro a tutto ciò?” Ho il potere di non fermarmi fino a quando questa legge che fa di voi un Dio Onnipotente non verrà modificata! Ricordatevi questo numero, 0089658, ricordatevi che avete rovinato un’innocente, che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere! Non sono io la mafia, signor prefetto, piuttosto i vostri metodi assomigliano molto a quelli descritti nei libri del dott Gratteri! 

Testimonianza di Marioara Cenusa del 29 novembre 2017 tratta dal suo profilo Facebook. Leggi quella PEC maledetta che inizia con "protocollo prefettizio..." e la parola "interdetta " sottolineata. Ti senti assorbito da una voragine e cerchi disperatamente di aggrapparti a qualche radice, ma il movimento tellurico da quel istante in poi diventa incessante. Segue la corsa disperata dall'avvocato, non bussi nemmeno e con quei fogli sgualcite nelle mani lo guardi, lui già sa perché...Chiedi l'accesso agli atti per capire, i pensieri più variegati ti invadono la mente e il cervello, per proteggersi, ti induce sensazioni ottimiste, ti mente che andrà tutto bene. Ed è quello che ti impedisce di impazzire! La lucidità però ti ricorda di doverti preparare alla chiusura, di avvisare i dipendenti, i fornitori, i padroni di casa, la banca, la famiglia. Arriva senza ritardare quel momento terribile, lasci tutto pulito ed ordinato, metti acqua alle piante, come se dicessi" arrivederci, a presto!" e non "addio!" In vece, per lo stato sei solo erbaccia da estirpare in virtù di un più probabile che non odore di mafia, per il TAR sei un altro sulla lista che deve solo scomparire, per la società perdi la reputazione che magari hai costruito con costanza e fatica, ricevi meno saluti e meno sorrisi, tocchi la paura che circonda il tutto, senti posti su di te sguardi pietosi, critici. É questo il post interdittive, quello che accade dopo, è il vero trauma e la vera omertà. E se tanti ne parliamo pubblicamente e denunciamo tutto, non è per mania di protagonismo o per la gloria eterna, ma bensì perché quella PEC non la legga più nessun innocente. Io l'acqua alle piante la metto ancora...

Non sono consueta a chiedere condivisioni perché ritengo che se lo si vuole, si fa e basta. Ma questa volta ve lo chiedo, con l umiltà di chi impara dai più grandi e con la forza di chi sa di dire solo la verità. Perciò chiedo a chiunque pensi che ci stiamo trovando in pieno regime dittatoriale, a chiunque non li torni questa musichetta dell'antimafia, a chiunque abbia assaggiato la dolcezza del aver a che fare con la prefettura di Reggio Calabria di condividere, affinché si rompa una buona volta il pollino, in modo netto e che non lascia spazio alle interpretazioni. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia! Della finta lotta alla mafia, sbandierata a più non posso, di chi la usa come trampolino di lancio per le carriere, di chi ne ha da guadagnare, di chi usa giornali e giornalisti come portavoce e megafoni umani per diffondere la propaganda prefettizia. Questi metodi autoritari e dittatoriali servono a tutto tranne che alla sconfitta della mafia. Usano parentele con defunti sconosciuti, incontri occasionali con compagni di banco, saluti e strette di mano con vicini di casa, collaborazioni con altre società, assunzioni alle proprie dipendenze, praticamente la qualunque. Senza tralasciare nulla! La qualunque! Hanno inginocchiato l economia, hanno indotto il terrore di salutare e di telefonare, la paranoia di vivere in una perpetua interdittiva dove tutti siamo prestanomi di... riflessi di..., dove non è più pensabile che un imprenditore riesca ad andare avanti con le proprie forze ma solo perché lo appoggia la famiglia x o y. Siamo tutti diventati criminali, mafiosi, ci spariamo ad ogni angolo di strada, Reggio Calabria è il Wild West italiano dove lo stato deve usare il pugno di ferro. Peccato che gli appalti revocati ad imprenditori interdetti vanno nelle mani di deputati e senatori, peccato che i locali che fanno gola a chi non è riuscito a creare da solo un’impresa finiscono proprio nel suo possesso, peccato che chi gestisce le aziende sequestrate lì fa fallire solo per dimostrare che prima c era la mafia ad sostenere il tutto, peccato che i commissari prefettizi inviati nei comuni sciolti abbiamo uno stipendio con 4 zero e la loro attività è tanto inutile quanto sconosciuta alla comunità. È questo che sta succedendo a Reggio Calabria, in tutta la Calabria, chiediamo aiuto, chiediamo di non essere più lasciati soli tra la mafia e l'antimafia, chiediamo di pagare solo se veramente colpevoli, chiediamo di poter lavorare onestamente, siamo meridionali (o nel mio caso, rumena adottata), non criminali!

Marioara Cenusa il 30 novembre 2017...Dicono che il frutto maturo cade da solo! Sarà anche, ma una bella ramazzata non nuocerebbe. Dobbiamo superare la paura di parlare, di reagire perché hanno costruito un impero sulle nostre timori e sulla certezza che ogni uno si farà i fatti suoi. Addirittura ci hanno indotto il terrore di salutare per non esseri visti, di frequentare quartieri o amici, di telefonare liberamente. Mi rifiorisce in mente il ricordo di un signore coi capelli bianchi arrestato perché in una intercettazione telefonica viene chiamato " maestro" e per chi ascoltava era un linguaggio in chissà quale codice contorto. Lui disse" vedete che io sono veramente un maestro, insegno ad una scuola elementare ". Dopo 2 mesi fu rilasciato. E come questo episodio ce ne sono state decine, presenti nella memoria popolare. Però la paura deve essere superata, stare in modalità struzzo non garantisce nulla, usiamo la democrazia ed i suoi metodi, la libertà di esprimere i propri pensieri, i timori, le perplessità. Perché è la democrazia il bersaglio vero! Se il semplice saluto è motivo di repressione, allora che mi facciano la seconda interdittiva, perché io il saluto non lo nego a nessuno, chicchessia! Capraio, professore universitario, malvivente, spazzino, operaio, per me hanno tutti pari dignità perché liberi. Ed a chi ha pagato gli errori e deve iniziare una nuova vita, doppia stretta di mano. L’unico riscatto è il lavoro, per chiunque!

Marioara Cenusa 25 novembre 2017.Vorrei ringraziare a tutti coloro che mi avvertono, in maniera velata o meno, che chiunque parli contro la prefettura e contro la sua perla della corona "l'antimafia", finisce o denunciato per chissà quale cosa immemore o arrestato per un’altra cosa immemore, essendo che il senso vendicativo della predetta è molto sviluppato. Io ho sempre detto la verità, niente altro che la verità, ho denunciato pubblicamente fatti che mi hanno toccato personalmente, per ogni affermazione ho le prove vere e tangibili che la sopportano, e non ho la minima intenzione di fare un solo passo indietro. Anzi, sarebbe positivo spostare tutto in un aula di tribunale, magari in sede penale, dove il " più probabile che non " non conta un broccolo. Vediamo quando devono dimostrare fatti reali e veramente accaduti, come diranno al giudice che un defunto acquisito sesto grado mi ha imposto l'acquisto della mozzarella di bufala campana? Se la prefettura di Reggio Calabria in persona del suo rappresentante pro tempore ritiene di dovermi querelare, sono qui, col coraggio di chi sa di essere innocente e con la grinta della verità. Però non me ne starò zitta, nè a braccia conserte e certo non permetterò a nessuno di togliermi il diritto allo parola. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia. Strumenti per togliere imprenditori scomodi, sindaci scomodi e per affidare appalti ed aziende a chi non è capace di costruirsi niente da solo. Non c entra niente la lotta alla mafia, quella vera!

Il “vizietto” di Marco Minniti, gravi ombre sul ministro, scrive il 2 marzo 2014 Emilio Grimaldi su "Imola Oggi". Marco Minniti, uomo ombra di D’Alema e di tutto il Centro sinistra. Prima dei Ds e poi del Pd, fino ai giorni nostri. E’ sempre uomo ombra di qualcosa. Perenne, proprio come la luce del sole. Cambiano i governi, cambiano i quadri di partito, ma lui no. Non si muove e, soprattutto, nessuno lo tocca. Matteo Renzi, l’homo novus della politica italiana non è riuscito a fare a meno di lui. Di lui e di tanti altri. In Calabria, l’homo che vorrebbe far dimenticare Berlusconi, non è riuscito a fare a meno di lui e di Tonino Gentile. Di Gentile, abbiamo già detto. Ora, accendiamo una lampadina sul nostro Domenico Minniti, detto Marco. E rispolveriamo un’interrogazione a risposta scritta, rimasta lettera morta, presentata da Amedeo Matacena il 5 aprile 1995. L’atto di controllo fu il volano della carriera di uno dei nostri calabresi maggiormente rappresentativi in Politica. La politica che conta. La vera Politica che comanda. Il 1998 é sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nel 2001 é al Ministero della Difesa. Nel 2006 viene eletto alla Camera dei deputati come capolista dell’Ulivo e poi nominato viceministro dell’Interno nel Governo Prodi II. Nel 2007 ricopre la carica di responsabile nazionale sicurezza nella Segreteria nazionale del segretario Walter Veltroni. Nel 2008 è ministro degli Interni nel Governo ombra del Partito Democratico. Nel 2009 il Segretario del PD Dario Franceschini lo investe della carica di presidente nazionale del Forum Sicurezza del Pd. Sempre nel 2009, fonda l’ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis) un centro di analisi ed elaborazione culturale dei temi della sicurezza, della difesa e dell’intelligence. Nel 2012 è responsabile nazionale del PD per la verifica dell’Attuazione del Programma del Governo Monti. Il 17 maggio 2013 viene nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel Governo Letta con delega ai Servizi segreti. L’ultima scalino è la conferma. Ieri, nel nuovo governo Renzi. Il testo dell’interrogazione: (dal sito della Camera). Al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Ministro di Grazia e Giustizia. – Per sapere – premesso: che in data 6 giugno 1990, il dottor Mollace, Sostituto presso la Procura di Reggio Calabria, Pubblico Ministero nel procedimento n. 977/90 RGIP, inoltrò al GIP, dottor Vincenzo Macrì, richiesta per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Sera Mariangela  (moglie di Minniti, ndr) + 10, imputati ciascuno per “avere in concorso tra loro, illecitamente detenuto, trasportato e ceduto a terzi quantitativi non modici di eroina“; che Sera Mariangela è moglie di Domenico Minniti, detto Marco, attuale Segretario Nazionale Organizzativo del PDS, già Segretario regionale e da sempre esponente di primo piano, anche del movimento giovanile, del PCI-PDS calabrese; che su tale procedimento all’ombra della Quercia, nel Palazzo di Giustizia si sarebbero consumati favoritismi e protezioni per non intralciare il brillante cammino del giovane Marco Minniti, che non parrebbe (stando a quanto sotto riportato) del tutto estraneo al vizio della moglie e che, per assecondare tale vizio (o vizi?), non si sarebbe fatto scrupolo di intrattenere rapporti con personaggi “strani”, organici al mondo degli spacciatori ed al mondo della malavita locale; che ciò potrebbe trovare conferma dalla lettura dell'”informativa di reato circa le indagini di P.G. relative al traffico di sostanze stupefacenti in Pellaro e Reggio Calabria” redatta dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria il 6 giugno 1990, n. 485 del 1976, di protocollo, pervenuta all’interrogante solo da qualche giorno; che in detta informativa, in ordine alle intercettazioni telefoniche su varie utenze di indagati, si riferisce, tra l’altro: “Diverse sono anche le conversazioni tra Silvana De Salvatore e Sera Mariangela entrambi tossicodipendenti, che spesso si danno appuntamenti telefonici per scambiarsi o prendere “roba” da loro conoscenti“. “Si evidenzia, inoltre, che il marito di Sera Mariangela, identificato per Minniti Domenico (…..) sarebbe al corrente che la moglie fa uso di sostanze stupefacenti e da almeno un paio di conversazioni telefoniche, si intuisce che lo stesso le somministra piccole dosi di eroina, che detiene presso la propria abitazione, custodite all’interno di libri, o addirittura dentro un sacchetto in pelle di colore grigio”; che, continua l’informativa: “Giova ricordare, inoltre, che in data 4 giugno 1990, alle ore 17 circa in località Pellaro di Reggio Calabria, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco, tale Sottile Francesco classe 1938, padre di Sottile Carmelo, personaggio inserito nel traffico di stupefacenti dei cui sopra“; ritenuto: che sembra nonostante tutto che su Domenico Minniti detto Marco, attuale responsabile nazionale organizzativo del PDS, sia stato steso un velo protettivo mentre, in un contesto così grave che registra, anche, pur se collateralmente, un omicidio, sarebbe stato, per lo meno, doveroso chiedersi quel che la gente comune si chiede: a) E’ mai possibile che un personaggio dello “spessore” di Marco Minniti abbia (o abbia avuto) contatti con la malavita locale, anche se solo al fine di procurare la droga per la moglie?; b) Con chi aveva questi contatti?; c) Chi glieli aveva procurati questi contatti?; d) Che il procedimento a carico di Sera Mariangela si è concluso con il patteggiamento della pena di un anno e 600.000 lire di multa. Pena sospesa; Che hanno patteggiato in sei imputati su undici incriminati, tutti al Tribunale e tutti in stato di libertà – : Per quali valutazioni non sia stato adottato alcun provvedimento a carico di Domenico Minniti detto Marco; Se risponda a verità che lo stesso Domenico (Marco) Minniti non sia stato nemmeno ascoltato quale persona informata dei fatti; Se sulla richiesta di patteggiamento di Mariangela Sera in Minniti vi è stato, o meno, il parere favorevole del PM; come mai non abbiano “patteggiato” anche i rimanenti cinque imputati; Nel caso in cui anche i predetti cinque imputati avessero chiesto il patteggiamento della pena, perchè non è stata accolta la loro richiesta e quale fosse stato il parere del PM; Se non si ritenga opportuno avviare un’indagine ispettiva per verificare se all’ombra della “Quercia”, nel Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria siano stati stesi veli di pietà e teli di protezione, consumati favoritismi, omissioni e reati penalmente perseguibili.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Intervista ad Andrea Cuzzocrea di Emiliano Silvestri a Reggio Calabria del 10 giugno 2017 a cura di Fabio Arena. Andrea Cuzzocrea è stato Presidente della Confindustria in Calabria e si è soffermato su una misura interdittiva per le imprese e si è chiesto a cosa serva.

«Serve così come è applicata. Questo è il punto alla domanda che noi stiamo cercando di portare nel dibattito e se la misura per come è applicata oggi, negli ultimi anni, ha ancora un significato. Perché la misura ha preso una deriva in termini numerici, soprattutto nella nostra provincia che non è più accettabile. Nel senso che basterebbe fare un confronto con le interdittive comminate dalla prefettura della nostra provincia con quelle di altre province dove il condizionamento della criminalità non è da meno dal punto di vista della percentuale per capire che c’è una discrezionalità che è diventata ormai del tutto inaccettabile. Ma al di là di questa valutazione, che potrebbe anche essere opinabile, la questione che va posta di cui quella politica ovviamente che non può che preoccuparsi e farsi degli interrogativi è questo: cioè con questo strumento si evitano effettivamente condizionamenti; serve effettivamente questo strumento così come applicato a evitare condizionamenti. A nostro parere non serve. Tra l’altro nel bilanciamento degli interessi che la politica deve garantire, che chi amministra deve garantire, che le istituzioni devono garantire, bisogna capire se è più importante garantire una certa occupabilità e quindi garantire che le persone non finiscano sulla strada e quindi garantire la manodopera e quindi la sopravvivenza delle imprese…»

Lei ha qui ricordato che alla Cassa edile erano iscritti cinque mila…

«Noi siamo passati a Reggio Calabria da cinque mila a millecinquecento dipendenti iscritti alla Cassa edile in pochi anni. Cioè c’è un crollo verticale se non un terzo degli iscritti di qualche anno fa. Quindi questo è il punto su cui bisognerebbe aprire un dibattito, una discussione accesa. La politica se non si preoccupa di aprire un interrogativo su questo punto non so di cosa si preoccupa».

La politica non si preoccupa, però lei ha detto che anche la stampa…

«Ma la stampa non parla assolutamente di questa cosa perché la stampa è allineata e coperta con la narrazione prevalente che è quella ormai molto conformistica che è tutto condizionato, che è tutto permeato, che ogni attività economica di dritto o di rovescio, volente o nolente, in qualche modo è condizionata, per cui loro utilizzano la tesi prevalente. Quindi questo si sa, ormai è così. La comunicazione funziona in questo modo, ormai. Quindi non possiamo avere ora….E’ chiaro che anche questo è un problema perché se ci fosse una stampa più consapevole che andasse ad approfondire di più le questioni; che andasse a vedere quello che succede, anche la stampa si deve porre il problema…deve fare questa domanda a chi si occupa di interpretare questi strumenti. Cioè stiamo nella strada giusta? Che non significa per evitare il rischio strumentalizzazioni che noi stiamo così, a prescindere acriticamente contestando lo strumento perché non vogliamo essere giudicati e non vogliamo che le nostre imprese…Noi addirittura come Confindustria abbiamo proposto protocolli di legalità, che erano innovativi, che prevedevano sul modello della Duecentotrentuno dei comitati di sorveglianza, con organismi nominati dalla Prefettura. Ci mettevamo i carabinieri in casa. Ed erano anche stati discussi. In Prefettura questi documenti ce l’hanno quindi questo lo dico perché non vogliamo essere controllati. Però una cosa è essere controllati, in termini concreti, una cosa è chiudere le imprese senza motivo. Questo è il punto».

Grazie. Grazie ad Andrea Cuzzocrea.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Incontro a Torre Artale sul tema “Antimafia? Stato di diritto”, scrive il 2 dicembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". ERANO PRESENTI MOLTISSIMI IMPRENDITORI CHE IN PASSATO SONO STATI OGGETTO DI MISURE DI PREVENZIONE E CHE POI SONO STATI PROSCIOLTI NEI VARI GRADI DI GIUDIZIO PENALE. SONO INTERVENUTI ANCHE SALVO VITALE E PINO MANIACI CHE HA ESPRESSO LE SUE PERPLESSITÀ RISPETTO ALLA POSSIBILITÀ DI CAMBIARE O ABOLIRE UNA LEGGE CHE DÀ UN ENORME POTERE AI MAGISTRATI. Nell’accogliente cornice di Torre Artale, una struttura alberghiera posta per 15 anni e otto mesi sotto amministrazione giudiziaria e riconsegnata al suo originario proprietario il costruttore Alfano, che sta cercando di rimediare ai guasti prodotti da amministratori come Benanti e Caniglia, si è svolto un convegno, anzi, su precisazione degli organizzatori, un’assemblea per un momento di riflessione sulla legge che si occupa delle misure di prevenzione, sui danni prodotti nell’economia siciliana, sulla divaricazione tra il sistema penale e il sistema interdittivo e sulle eventuali proposte di modifica di un sistema inquisitorio unico in Europa. L’iniziativa, organizzata dal Partito Radicale ha avuto una notevole affluenza di pubblico e un alto livello di analisi, di denuncia, di proposta, sia da parte di coloro che sono intervenuti al dibattito, sia dai relatori. Erano presenti moltissimi imprenditori che in passato sono stati oggetto di misure di prevenzione e che poi sono stati prosciolti nei vari gradi di giudizio penale, ma i cui beni erano e sono ancora oggetto di sequestro. Tra di questi i parenti ed eredi dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, i fratelli Niceta, l’ingegnere Lena, proprietario dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, prosciolto da tutto e in attesa che gli restituiscano il bene, l’ing. Rizzacasa, le sorelle Amodeo di Alcamo, il figlio del costruttore Ienna e molte altre “vittime della Saguto”. Ha aperto i lavori Sergio D’Elia, del Partito Radicale, il quale ha illustrato le motivazioni dell’incontro e l’impegno del suo gruppo politico per cambiare una legislazione che, passata in gran parte l’emergenza, si rivela solo uno strumento dato ai giudici per potere intervenire sorvolando su quelli che sono i diritti dell’individuo previsti e sanciti dalle norme costituzionali. Un saluto è stato dato dal figli di Rosario Alfano, che ha brevemente ripercorso la tragedia passata dalla sua famiglia e gli enormi danni economici, sino al momento del pieno proscioglimento da ogni accusa. Salvo Vitale ha parlato delle vicende dell’emittente Telejato, delle varie inchieste che hanno posto all’attenzione il problema dei beni sequestrati e dell’opportunità di ridare vigore all’associazione In difesa del cittadino, nata nel 2015 per dare voce alle vittime delle ingiustizie di qualsiasi tipo, sempre sapendo distinguere, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria siciliana quanto realizzato in maniera fraudolenta e quanto con l’onesto lavoro. È intervenuto anche Pino Maniaci, che ha espresso le sue perplessità rispetto alla possibilità di cambiare o abolire una legge che dà un enorme potere ai magistrati e ha lamentato la scarsa attenzione data dalle varie testate giornalistiche e televisive, assenti all’iniziativa. Sono seguiti altri interessanti interventi da parte di Rita Bernardini del Partito Radicale, di Elisabetta Zamparutti, componente del comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa, di parecchi altri imprenditori e avvocati, tra i quali Salvatore Galluzzo, Andrea Saccucci, Baldassare Lauria. Presenti anche alcuni uomini politici di varia provenienza.

TI INDAGANO PERCHÉ SARESTI COLLUSO COI BOSS. TI ASSOLVONO. POI IN BASE AGLI STESSI INDIZI RIVELATISI INFONDATI, SCATTANO LE MISURE DI PREVENZIONE, E 120 DIPENDENTI VANNO A CASA. Un sequestro basato su sospetti ha distrutto la nostra azienda, scrive Massimo Niceta, imprenditore, su "Il Dubbio, Pagina 04, Martedì 10 Aprile 2018. Anche la mia famiglia, come quella di Pietro Cavallotti e come molte altre, subisce, ingiustamente, un processo di misure di prevenzione. Purtroppo questi procedimenti, nati per un nobile fine, nel corso degli anni sono diventati, piuttosto che un’arma per combattere la criminalità organizzata, una occasione di arricchimento e di carriera per chi, protetto dalla legge, ha saputo approfittare dell’emergenza mafia. La storia della mia famiglia è anch’essa emblematica di come si possa essere distrutti socialmente, e materialmente, quando si incappa in un procedimento di questo tipo. Nel 2009 io e mio fratello Piero siamo stati raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di intestazione fittizia di beni in concorso con la famiglia Guttadauro. Il procedimento si basava su una serie di intercettazioni e su alcune audizioni di collaboratori di giustizia e, all’esito della naturale scadenza dei 18 mesi di indagini, è stato archiviato in quanto non sussistevano i presupposti per un rinvio a giudizio. Nel 2013 sulle stesse identiche basi, utilizzando le stesse identiche intercettazioni, siamo stati raggiunti da due diversi provvedimenti di prevenzione patrimoniale e personale. Uno del Tribunale di Trapani relativo a una società unipersonale a me intestata, già concluso con una sentenza passata in giudicato che ci ha dato ragione su ogni punto. L’altro provvedimento, a firma della dottoressa Saguto del Tribunale di Palermo, aveva come oggetto il sequestro del nostro intero patrimonio. L’amministratore giudiziario nominato per la gestione del patrimonio era l’avvocato Aulo Gigante, oggi a processo a Caltanissetta per fatti relativi alla gestione della nostra azienda. Nel frattempo, io e mio fratello siamo stati allontanati in maniera definitiva dall’impresa, e da quel giorno è cominciato l’inesorabile declino. Tutte le società sono state dichiarate fallite e tutti i punti vendita sono stati chiusi, i dipendenti licenziati e i loro Tfr non sono stati corrisposti. La lotta alla mafia ha un costo, ed è – dicono – “il costo della legalità”. La legalità a casa mia è costata un milione di euro in due anni; tanto hanno preso gli amministratori giudiziari, con i loro coadiutori: ben 27 persone sono state collocate a vario titolo dentro la mia azienda causando la chiusura di 15 punti vendita e il licenziamento di 120 dipendenti. Quindi il costo della legalità in realtà è questo: togliere il pane a qualcuno e darlo a qualcun altro, che se lo mangia. Quello che faceva l’imprenditore, magari non riservandosi lo stipendio o facendo dei sacrifici, loro lo fanno provvedendo alle loro spettanze in via prioritaria. Eravamo sul mercato da 120 anni. Ha cominciato il mio bisnonno, poi mio nonno, poi mio padre, poi io, mio fratello e mia sorella. Dopo quattro anni di procedimento di prevenzione la nostra azienda oggi è chiusa. Il costo della legalità non ha portato a niente, procedimenti penali non ne abbiamo, avevamo avuto solo un avviso di garanzia che è stato archiviato, non siamo neanche stati rinviati a giudizio. Però la dottoressa Saguto e il mio amministratore giudiziario sono oggi rinviati a giudizio. Hanno esteso sentenze, hanno giudicato persone e, in alcuni casi, continuano a lavorare perché non tutti gli amministratori giudiziari sono stati rimossi. Ma la cosa ancora più grave è che dopo il caso Saguto in realtà non sembrerebbe essere cambiato nulla. In un processo di prevenzione l’avvocato non svolge di fatto alcuna funzione. Si aspetta, si aspetta che cosa non si sa, si aspetta una perizia. Ma quanto ci vuole per dire se tu sei o non sei mafioso, se sei colluso o se sei contiguo? Il perito, a cui è stato affidato l’arduo compito di redigere una perizia economica sulla nostra famiglia a partire dagli anni ’ 60 fino al 2013, finalmente dopo tre anni e mezzo ha depositato il suo elaborato. Il nuovo presidente della sezione del Tribunale, uno dei tre succeduti in seguito al caso Saguto, ha rinviato al 20 giugno la data per la discussione finale. Alla fine, se avremo ragione, quando noi vinceremo nel processo di prevenzione, che abbiamo vinto? Per i miei dipendenti il lavoro non ci sarà più, perché l’azienda è stata distrutta dall’amministrazione giudiziaria. Dove sono i sindacalisti che sono venuti? Si sono interessati un giorno, due giorni, poi sono spariti nel nulla. Forse non si possono mettere contro il sistema, hanno paura, forse non si deve dire che la legge è sbagliata e che sono stati fatti disastri, è stata creata disoccupazione, licenziando i dipendenti, i terzi creditori in buona fede non sono stati pagati così come l’erario, i fornitori e i proprietari degli immobili. Intere famiglie come i Niceta, i Cavallotti, gli Alfano e tanti altri, anche assolti nei processi di merito, hanno dovuto vivere l’ingiustizia della prevenzione e assistere inerti al disfacimento dei propri patrimoni costruiti in decenni di sacrifici. Cosa possiamo fare? Chi ci aiuterà a venire fuori da questa vicenda? Bisogna fare, muovere l’opinione pubblica, perché non è possibile tenere la vita di una persona in uno stato di limbo per quattro, cinque, dieci, quindici anni sulla base di un sospetto, perché di reati non si parla. Ripeto: io, mio fratello, mia sorella, mio padre morto, non abbiamo nessun tipo di reato penale a carico, al momento. Domani magari se lo inventeranno perché dovranno distruggerci in qualche maniera. Ci aspettiamo le ritorsioni per il nostro esporci pubblicamente, ne siamo consapevoli, però non abbiamo paura di dire che noi siamo innocenti, che siamo trattati peggio dei criminali, perché neanche un criminale andrebbe trattato come stanno trattando noi, i nostri dipendenti, le nostre aziende e tutto l’indotto qui in Sicilia, in Calabria, nel Mezzogiorno, quindi in Italia. Invito ancora una volta a dare fiducia al Partito radicale, chi può e vuole si iscriva perché effettivamente in quattro anni di ricerca sono gli unici che ci hanno ascoltato, gli unici oggi a essere presenti, a fare qualche cosa, quantomeno a provarci. Bisogna intervenire su una legge fatta male e applicata peggio, che – seppure in alcuni punti è stata rivista nel nuovo Codice antimafia – è troppo lontana dal potere essere detta “giusta”. Ma la riflessione è: domani cosa faremo, chi ci riabilita, chi ci darà la possibilità di ritornare a lavorare e, soprattutto, chi metterà gli avvocati nelle condizioni di intervenire realmente e concretamente dentro le Aule di tribunale, per impedire che gli amministratori giudiziari facciano il bello e il cattivo tempo? Come potranno, i difensori, ridare ai miei dipendenti il posto di lavoro che gli è stato portato via dal sistema, contro il diritto e contro la giustizia?

C’è un giudice a Palermo: «Niente sequestri senza prove di mafia». Il pm Di Matteo aveva accusato di mafia nel 2010 Francesco Lena: smentito anche in Cassazione ma i sequestri e le misure di prevenzione erano andate avanti, scrive Errico Novi il 15 Aprile 2018, su "Il Dubbio". «Spiegai tutto. Spiegai che il mio nome era semplicemente pronunciato da altri nelle intercettazioni, e che io non parlavo mai. Dissi al pm Di Matteo: mi crede? Lui rispose: no, lei non mi convince. E mi crollò il mondo addosso». Francesco Lena racconta con la voce rotta l’interrogatorio che nel 2010 segna il culmine del suo calvario, gli costerà 40 giorni di carcere e un anno e mezzo di domiciliari. Ne parla non due giorni fa al Dubbio ma alle telecamere di Canale 5 nel 2014. Racconta di un processo penale per associazione mafiosa da cui era appena uscito definitivamente assolto, ma anche di un parallelo processo di prevenzione in quel momento ancora in piedi, che lo aveva messo in ginocchio nonostante l’innocenza pluriaccertata. Sigilli a tutto, al resort “Abbazia Sant’Anastasia”, alla “Lensa costruzioni Spa” e un’altra decina di sigle di questo straordinario costruttore siciliano. Sigilli a tutto che finalmente, lo scorso 5 marzo, dopo 8 anni di calvario, sono stati revocati con il decreto depositato dalla sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo. Respinte le richieste di trasformare i sequestri in definitiva confisca, pretese che i pm siciliani non avevano ritirato neppure dopo il robusto richiamo inflitto loro dalla Cassazione quattro, anni fa con la pronuncia definitiva del giudizio di merito: secondo la Suprema corte, Di Matteo non avrebbe neppure dovuto impugnare in appello la sentenza di primo grado, giacché nel suo ricorso non compariva un elemento ulteriore di prova che fosse uno. La pronuncia su Lena fa storia. Non solo perché restituisce l’intero patrimonio a un uomo che oggi ha 82 anni, ma anche perché afferma un principio semplice semplice: le misure di prevenzione non possono applicarsi sulla base di una mera sproprorzione tra introiti e investimenti. Il presupposto perché si possa procedere a sequestri è che i rapporti con la mafia siano provati. Non fantasticati: provati. Non bastano periti che non ci capiscono, non bastano presidenti di sezione del Tribunale che accettano le loro perizie improbabili, non basta dire che i conti non tornano. Ci vogliono le prove dei rapporti coi criminali. Con i boss. Con Cosa nostra. Senza prove, non si porta via un patrimonio di decine di milioni di euro. Ecco, il senso. Ma anche le parole testuali del Tribunale palermitano firmate dal presidente Giacomo Montalbano, dal giudice a latere Luigi Petrucci e dal relatore Giovanni Francolini sono comprensibilissime: «Solo una volta che, sulla base della “ineliminabile componente ricostruttiva”» secondo cui, come sancito dalla Cassazione, deve svolgersi il giudizio di prevenzione, «si possa annoverare la persona in una delle categorie di soggetti socialmente pericolosi, si potrà non solo vagliarsene l’effettiva pericolosità ma anche valorizzare l’eventuale sproporzione tra disponibilità e impieghi». D’ora in poi, a meno di capovolgere il principio così chiaramente enunciato nel decreto, non basterà ottenere dai periti dell’accusa pezze d’appoggio approssimative. Ci vorranno prove di collusione mafiosa. Solo dopo si passerà a valutare se c’è incongruenza contabile. Il presupposto del rapporto con le cosche, per Francesco Lena, non c’era, non c’è mai stato: lo avevano sancito già tre sentenze di assoluzione nel processo di merito. L’ultima pronunciata dalla Suprema corte l’ormai lontano 21 febbraio 2014. La Procura ha insistito nel tentare di portar via tutto a un innocente attraverso la via parallela delle misure di prevenzione. Gli avvocati palermitani Andrea Dell’Aira e Rosario Vento sono riusciti a sgombrare il campo dagli equivoci e a evitare una clamorosa ingiustizia, anche se buona parte del patrimonio è dissolto, con almeno due società già in liquidazione. In realtà, come segnala il decreto, non c’erano neppure incongruenze contabili. C’è stato solo un esame “distratto” (nella più benevola delle ipotesi) dei periti nominati dalla Procura. A quali il Tribunale, inizialmente diede retta, con l’accoglimento di tutte le richieste di sequestro avanzate dal pm Di Matteo tra il 2011 e il 2013. D’altra parte la sezione “Misure di prevenzione” è stata presieduta fino a pochi mesi fa da Silvana Saguto, che il Csm ha rimosso dalla magistratura. Potrebbe non essere un caso che la sentenza di annullamento dei sequestri sia arrivata ora che Saguto è uscita di scena. Lena era accusato di avere tra i soci della sua “Abbazia Sant’Anastasia”, azienda vinicola di Castelbuono, niente di meno che Bernardo Provenzano. Una fantasia, attraverso cui i pm provarono a bollare come frutto di riciclaggio le sue fortune, che Lena in realtà aveva realizzato con i conventi e gli ospedali oncologici costruiti per i Padri rogazionisti, opere pagate con assegni dello Ior per circa 80 miliardi. La ricchezza veniva da lì. Non dal riciclaggio mafioso. Gli assegni c’erano, i periti della Procura non li videro. O fecero finta di non vederli.

A Palermo una vera svolta dopo anni di sistema Saguto, scrive il 15 Aprile 2018 Pietro Cavallotti, imprenditore destinatario di sequestri nonostante l'assoluzione, su "Il Dubbio". Ho letto il decreto che, dopo tantissimi anni, ha disposto la restituzione dei beni all’ingegner Lena. Il decreto merita di essere studiato perché segna una rottura netta rispetto all’orientamento seguito dalla sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo fino alla caduta del “regime Saguto”. Anzi, direi proprio che il decreto afferma dei principi diametralmente opposti rispetto a quelli che hanno consentito ai giudici di quella sezione di confiscare interi patrimoni negli ultimi venti anni. Due aspetti voglio sottolineare. Ho particolarmente apprezzato il rigore dei giudici nella valutazione del racconto dei collaboratori di giustizia di cui è stata vagliata – cosa inedita rispetto al recente passato – la coerenza, la logicità, e di cui è stato richiesto il riscontro obiettivo. Si tratta di un principio mutuato dalla giurisprudenza penale che potrebbe sembrare banale, ma pensate che fino ad oggi sono state usate, contro le persone accusate, le dichiarazioni contradditorie, puramente assertive dei pentiti anche se queste venivano smentite in maniera oggettiva. Anche sotto il profilo patrimoniale, il decreto coglie nel segno. La sperequazione tra redditi e investimenti, da sola considerata, non è più indice di provenienza illecita del bene. Si richiede l’indizio che l’imprenditore si sia avvalso della mafia; serve la traccia che per avviare l’impresa siano state utilizzare risorse illecite. Insomma, la coerenza rispetto a questi princìpi dovrebbe far presagire l’esito favorevole dei più importanti procedimenti iniziati durante la reggenza Saguto che sono ancora pendenti presso il Tribunale di Palermo e di cui ho avuto la fortuna di leggere le carte nel corso dei miei studi. Mi sembra che sia stato compiuto un ulteriore passo avanti verso il riavvicinamento del processo di prevenzione a quello penale. Mi chiedo però se, piuttosto che estendere progressivamente le garanzie del processo penale a quello di prevenzione, di volta in volta a seconda del giudice, non sia il caso di abrogare il processo di prevenzione per ricondurre il contrasto – anche patrimoniale – della criminalità organizzata entro il sistema penale tradizionale che, insieme al sequestro preventivo e alla confisca in caso di condanna, prevede adeguate garanzie per il cittadino. Faccio i miei complimenti all’avvocato Dell’Aira che si conferma tra i massimi esperti in materia di misure di prevenzione e i miei più sinceri auguri alla famiglia Lena con la quale ho condiviso e continuo a condividere una importante battaglia di civiltà giuridica e di libertà.

Cavallotti: Una storia di Mafia dell'Antimafia. Scrive il 15 Aprile 2018 Germano Milite. Germano Milite. Giornalista professionista. Partendo dalla televisione, ha poi lavorato come consulente in digital managment per aziende italiane ed internazionali. E' il fondatore e direttore di YOUng. Ama l'innovazione, la psicologia e la geopolitica. Detesta i figli di papà che giocano a fare gli startupper e i confusi che dicono di occuparsi di "marketing". Immaginate di finire in carcere (per due anni) con la pesantissima accusa e relativa condanna penale per associazione mafiosa. È il 1998. Dopo “soli” 8 anni, nel 2010, quell’accusa tanto infamante e devastante cade completamente e venite dichiarati innocenti. La sentenza della Cassazione, che rinvia ad altra sezione della Corte D’Appello, ribalta infatti le pronunce di colpevolezza in primo e secondo grado e parla di assoluzione definitiva, non lasciando spazio a dubbi. Insomma: vi siete fatti due anni di galera da innocenti ed avete affrontato quasi 10 anni di processi, ovviamente a vostre spese. Già questo, converrete, potrebbe bastare per farvi impazzire di rabbia e dolore. Purtroppo, però, la mafia dell’antimafia con voi ha appena iniziato, anche perché avete la “sfortuna” di fare gli imprenditori in Sicilia, ergo di poter essere sottoposti con incredibile leggerezza e facilità anche alle consuete misure preventive che sequestrano le vostre case e ovviamente la vostra (in quel momento) florida azienda. Attenzione, da qui leggete perché iniziamo ad entrare in un mondo delirante quanto iniquo: queste misure viaggiano difatti su un binario parallelo rispetto a quello che riguarda il processo penale. Come vedremo quindi, in un autentico regime di giurisprudenza sclerotica, lo stesso organo potrà dirvi allo stesso tempo che non siete mafiosi, ma che comunque i vostri beni devono rimanere in confisca. Innocenti e colpevoli al tempo stesso, con la differenza però che non esistono prove ed indizi sulla vostra colpevolezza. Questo secondo binario legato ai vostri beni, comunque, iniziate a percorrerlo un anno dopo aver intrapreso il viaggio nel processo penale per mafia. È il 1999 e questa via crucis si protrae, in un crescendo di violenza giudiziaria indecente e disumana, fino ad oggi.

SEQUESTRATA ANCHE LA PRIMA CASA: CASSAZIONE CHE CONTRADDICE SE STESSA. Voi e la vostra famiglia perdete persino la cosiddetta “prima casa”. Però vi armate di coraggio e, visto che la sentenza prima citata vi assolve definitivamente e che voi sapete di essere innocenti, fate appello al Tribunale di Palermo e chiedete di fare due cose semplicissime: 1. Analizzare le nuove prove emerse, che dimostrano in maniera chiara la vostra innocenza. 2. Restituire i beni confiscati ingiustamente. Il PM però a quel punto cosa fa? Esclama pubblicamente e senza alcun timore che questa cosa non si può fare perché altrimenti “crollerebbe tutto il sistema di prevenzione”. Questo nuovo ricorso, vede la parte di magistratura “buona” darvi ragione, con il procuratore Generale (ovvero la pubblica accusa) che riconosce sia che non esistono neppure prove indiziarie della presunta collusione tra voi e la mafia, sia che siete addirittura voi stessi vittime della malavita organizzata. In altri termini, il PG vi pone ufficialmente dall’altro lato della barricata: vittime, non complici. Il Giudice, però, incredibilmente ignora del tutto il pronunciamento e conferma la confisca data in primo grado. A quel punto, stremati ed increduli, fate un altro ricorso alla Corte di Cassazione che, reggetevi forte: contraddice la sua precedente sentenza di assoluzione dal reato penale e ritiene inammissibile il ricorso per il dissequestro dei beni. Cioè: lo stesso organo vi dice che non siete mafiosi, ma non vi restituisce i beni ingiustamente confiscati.

DITTATURA GIUDIZIARIA. Ci sarebbe da ridere, se questa vicenda non fosse vera e non avesse fatto piangere lacrime amare a centinaia di famiglie (sì: centinaia, solo in questo caso e senza contare i fornitori non pagati dall’amministrazione giudiziaria). Insomma: numerosi innocenti sono stati ingiustamente colpiti in maniera diretta ed indiretta da misure antimafia, vedendo le proprie vite rovinate ed i propri patrimoni onestamente guadagnati andati in fumo, questa cosa è stata appurata ed ufficializzata da una sentenza della Cassazione, ma un Pubblico Ministero dice chiaramente che bisogna comunque tenere in piedi questa imperdonabile e criminale ingiustizia per preservare il “sistema”. In più, la Cassazione stessa si contraddice e vi proclama sia innocenti che colpevoli. Un capolavoro degno di un paese sotto dittatura giudiziaria. A proposito: notate differenza tra questo sistema (antimafia) ed il vero sistema mafioso che si dovrebbe combattere? A conti fatti non sembrano essercene poi tante.

COLPITE (INGIUSTAMENTE) ANCHE LE AZIENDE DEI FIGLI. Intanto, negli anni trascorsi tra la varie battaglie legali, i vostri figli e nipoti si sono rimboccati le maniche ed hanno cercato di portare avanti la tradizione di famiglia, aprendo anche loro un’azienda. Corre l’anno 2006: appena 20.000 euro di capitale sociale per iniziare, con solo 5000 effettivamente versati. Del resto, dopo i duri colpi subiti dalle operazioni antimafia che si sono poi rivelate anti-umane, da investire rimaneva ben poco. Eppure, nonostante tutto, succede quasi un miracolo: quella nuova impresa inizia ad avere le prime commesse, grazie ovviamente al buon nome che quella famiglia aveva presso fornitori e clienti. La situazione sembra quindi migliorare rapidamente ed almeno figli e nipoti iniziano a ricostruirsi una vita. Ma è a questo punto che la verità supera la più terribile fantasia e…scatta una nuova misura di prevenzione e sequestro, questa volta sull’azienda dei figli. A causarla è la segnalazione dello stesso amministratore giudiziario che aveva pessimamente gestito l’impresa precedentemente confiscata (passata come detto da florida a fallita). Lo stesso che aveva chiesto ai proprietari defraudati di “mettersi d’accordo” senza tirare in mezzo avvocati e ricorsi, per fare andare le cose “con serenità”. Incassato il rifiuto di quelle persone oneste ed innocenti e proprio per questo convinte di non dover cedere a ricatti ed accordi sottobanco, l’amministratore sembrerebbe aver deciso di utilizzare una vendetta trasversale, colpendo appunto figli e nipoti di chi aveva osato opporsi alle sue proposte indecenti (tutte confermate da registrazioni).

UN SEQUESTRO SCATTATO CON ARGOMENTAZIONI FALSE. Ma con quali argomentazioni viene richiesta questa nuova misura di “prevenzione”? Due, entrambe clamorosamente false: la prima parla di una presunta azione di “concorrenza” posta in essere dai figli nei confronti dell’azienda dei padri, ancora attiva anche se come detto in situazioni disastrose. La seconda parla addirittura di un capitale sociale di oltre 1 milione 200.000 euro interamente versati per la società neocostituita, sostenendo che una somma così importante non poteva provenire da ragazzi tanto giovani, essendo quindi per forza di origine malavitosa. Come detto, però, entrambe le affermazioni sono completamente false: lo stesso amministratore ritratterà infatti l’accusa di regime concorrenziale parlando di mera “potenzialità” che quest’ultimo si verificasse. Peccato che neppure questa potenzialità poteva sussistere, dato che il ramo d’azienda potenzialmente concorrente dei padri, era stato totalmente dismesso/ceduto nel 2001, quindi ben 5 anni prima. La visura camerale, visibile da chiunque, inoltre conferma poi ciò che abbiamo scritto inizialmente: il capitale sociale iniziale era di appena 20.000 euro, di cui solo 5.000 versati. L’aumento c’è stato, ma solo diversi anni dopo, a seguito dell’ottima amministrazione dei titolari e della loro grande esperienza familiare nel settore. Ancora: chi è colpevole, perché dovrebbe esporsi in maniera così eclatante operando un aumento di capitale con somme provenienti da fonti illecite? Tra l’altro dopo aver già subito dure misure giudiziarie in famiglia?

RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DICHIARATO AMMISSIBILE. La storia (surreale) che abbiamo raccontato fin qui è quella della famiglia Cavallotti, che di recente ha anche fatto ricorso alla Corte Europea per chiedere almeno il dissequestro dei beni ingiustamente confiscati. E, indovinate? A differenza di quanto avviene nel 90% dei casi, la Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso e lo prenderà quindi in esame. Peccato che, nel frattempo, una delle case sottoposte alle misure preventive sia già stata saccheggiata, con tutti gli immobili privati comunque già assegnati all’Agenzia del Demanio o alla Prefettura. Un dettaglio non da poco, visto che qualora tali immobili fossero indirizzati ad uso pubblico, nessuno potrebbe mai più restituirli ai legittimi proprietari, anche in presenza di un pronunciamento ufficiale della Corte Europea. Per lo Stato, in questo caso e purtroppo altri casi di mala-giustizia, non esiste dunque alcuna presunzione d’innocenza. Prima si sconta la pena e si subiscono misure da induzione al suicidio e poi, dopo una almeno decina d’anni, se va bene si viene assolti e si riceve (forse) indietro la propria impresa. Peccato che, gli amministratori giudiziari, nel frattempo abbiamo ridotto quell’azienda un tempo in crescita un ammasso di debiti e macerie.

QUANDO L’ANTIMAFIA SI MUOVE COME LA MAFIA. Di più: la longa mano di amministratori e tribunali che troppo spesso, per lottare contro la mafia, utilizzano metodi mafiosi che colpiscono gli innocenti, ghermisce e distrugge anche ciò che figli e nipoti hanno creato con sudore e sacrificio. Insomma: se tuo padre è anche solo sospettato di essere un mafioso, nonostante sia stato poi assolto, qualcuno potrà presentare prove ed argomentazioni false per sequestrare con incredibilità facilità e rapidità anche le nuove aziende che hai tirato su, con anni di duro lavoro. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che siamo al cospetto di una serie inconcepibile ed intollerabile, che sfiora il vero e proprio sadismo, di violazioni clamorose dei diritti umani. I Cavallotti sono forse il caso più eclatante, ma commetteremmo un errore se dimenticassimo di sottolineare le numerose altre aziende sane portate in liquidazione da amministratori che, come fossero superuomini, avevano in gestione decine di imprese diverse, in settori diversi e con situazioni di bilancio diverse.

UNA VICENDA CHE DOVREBBE INTERESSARE CHIUNQUE, PERCHÉ POTREBBE COLPIRE CHIUNQUE. Questa vicenda ha avuto comunque un’eco mediatica abbastanza forte, prima di tutto grazie alle IENE e poi anche grazie a realtà come “Il Dubbio” e a giornali come “Libero” che ne hanno parlato. Noi di YOUng non potevo mancare, sperando che finalmente qualcuno, in Parlamento, si decida a fare due cose che sono alla base di un paese che vuole definirsi civile: Punire severamente chi ha reiteratamente sbagliato a fare il proprio mestiere, mettendo parenti ed amici in ruoli chiave nelle aziende amministrate (sì: è successo anche questo) e portando dipendenti ed imprenditori al tentato suicidio, generando nuova disoccupazione in territori già difficili e di certo non ricchi. Cambiare le modalità di prevenzione, il “sistema” di cui parlava il PM citato in precedenza, in modo che nell’intento di combattere i mafiosi, non si possano mai più utilizzare metodi mafiosi ed in violazione di ogni principio giuridico moderno e diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Il nostro augurio è che, anche grazie al tam tam mediatico, il calvario infinito dei Cavallotti giunga presto al termine e rappresenti un punto di svolta per il futuro. Affinché questa enorme ingiustizia serva almeno ad evitare che se ne aggiungano altre. In ultimo, ci auguriamo che ogni imprenditore del sud (queste barbarie capitano proprio qui nel Meridione) si renda conto di dover prendere a cuore questa storia, perché potrebbe essere a sua volta colpito con le stesse modalità, senza potersi difendere, perdendo tutto ciò che ha costruito magari in decenni nel giro di pochi mesi e trovandosi anche a dover affrontare la galera insieme ad altre misure di grave limitazione della libertà individuali. Il tutto, da totale innocente: basta infatti una “segnalazione” e le misure scattano, esattamente come scattavano le ghigliottine che tagliavano teste, quando il concetto di presunzione d’innocenza era ancora o assente o molto poco considerato. E lo stesso dicasi per i dipendenti ed i collaboratori delle aziende del Sud: non siate indifferenti al cospetto di un simile scempio della giustizia e dell’umanità. Ieri e oggi è toccato ai Cavallotti. Se le leggi non cambiano, domani potrebbe toccare a voi o a qualcuno che amate.

Il figlio del giudice Sciacchitano e il grande affare del metano, scrive il 12 febbraio 2018 "Tele Jato". L’affare del metano nasce e prende corpo in Sicilia agli inizi degli anni ’90, allorché i sei fratelli Cavallotti cominciano ad occuparsene. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e da questa ai Comuni, che penseranno ad affidare le concessioni. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. È tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerose concessioni per metanizzare molti comuni, con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi. Sul mercato c’è già l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale, decide di potenziare la società, e chiede soldi e protezione a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica. Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini, a Cuffaro: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità che apre le porte alla Gas spa e al terzetto Ciancimino-Lapis-Brancato, perché con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi direttamente gli appalti, senza alcuna celebrazione di gara: rispetto alle proposte di concessione presentate dai Cavallotti le cifre vengono raddoppiate, in qualche caso triplicate. Addirittura, le ditte private vengono escluse, con una circolare dell’allora assessore all’industria Castiglione, dalla possibilità di accedere ai finanziamenti pubblici, mentre, con un escamotage, la cosa è consentita all’azienda GAS spa. Unico ostacolo la Comest e la Coip, cioè le aziende del gruppo Cavallotti, che già hanno ottenuto numerose concessioni nei comuni Siciliani, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira, è scritto: “Cavallotti quattro miliardi”. Non parleremo del calvario subito dai Cavallotti, che si trascina sino ad oggi e del quale si sono occupati Le Iene, con la nostra collaborazione. Tutto liscio invece, almeno sino a poco tempo fa per la società Gas spa di Ezio Brancato composta da sei imprese, con sede a Palermo, in via Libertà 78, che fornisce metano a 74 città siciliane, oltre che in Abruzzo. Ciancimino fiuta l’affare e si ci ficca dentro, sino a quando non è condannato, il 2 dicembre 1993 per associazione mafiosa. Quando i beni di Ciancimino vengono confiscati, viene anche confiscata la sua quota, ma non quella di Brancato. Il 13 gennaio 2004 è una data importante per la multinazionale spagnola Gas Natural sdg. Quel giorno la compagnia iberica acquista con ben 120 milioni di euro una società italiana del gruppo Gas spa.

Tra i magistrati chiamati in causa dall’avvocato Livreri ci sono Giuseppe Pignatone (oggi procuratore della Repubblica a Roma), Michele Prestipino Giarritta (pm a Reggio Calabria), Sergio Lari (già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta) e i pm presso il Tribunale di Palermo, Lia Sava e Roberta Buzzolani. Un altro magistrato indicato nei suoi esposti dall’avvocato Livreri è Giustino Sciacchitano, già in servizio presso il Tribunale di Palermo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 (proprio quando la mafia ammazzava l’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa) e poi magistrato presso la Dda a Roma. Per la cronaca, il figlio di Giustino Sciacchitano, Antonello, avrebbe sposato Monia Brancato e sarebbe consuocero della Maria D’Anna Brancato.

Secondo una dichiarazione di Antonello Sciacchitano, nell’ottobre 2000, al matrimonio vip di Monia Brancato, figlia del Presidente della GAS siciliana con lo stesso Antonello Sciacchitano, figlio del Procuratore Giustino Sciacchitano, c’erano tra gli amici dello sposo Giuseppe Pignatone (già procuratore aggiunto a Palermo, poi procuratore capo a Reggio Calabria, oggi procuratore capo a Roma), Pietro Grasso (già Procuratore capo a Palermo), Francesco Messineo (già procuratore capo a Palermo) e Luigi Croce (già Procuratore generale Corte Appello Palermo). Ovviamente c’era anche lo zio Gianni Lapis e la sua famiglia e lo zio Luigi Italiano con il fratello Giuseppe Italiano, i Campodonico e l’avv.to Mulè e tutti gli altri soci della GAS. Secondo una chiave di lettura tutta siciliana sembra evidente che il calvario e la fine dei Cavallotti abbia avuto come contraltare il successo della società GAS di Brancato e di tutto il codazzo di politici, con il presunto consenso di alcuni magistrati a vantaggio del figlio del giudice Sciacchitano, che poi si è separato da Monia Brancato e alla quale, solo lo scorso anno, nel 2017, sono stati messi sotto sequestro i beni. Tutto ciò, tanto per aggiungere un tassello all’allucinante vicenda dell’Hotel Elena, gestito dalla moglie di Giusto Sciacchitano, del quale abbiamo avuto notizia in un recente servizio delle Iene: un albergo esistente, ma inesistente, al quale finalmente, solo oggi sono stati messi i sigilli del sequestro.

Vittime dell’Antimafia, il servizio de Le Iene e Matteo Viviani, scrive il 5 dicembre 2017 Morgan K. Barraco su "Tutto tv". In apertura della sua puntata del 5 dicembre, Le Iene racconta la storia di una famiglia devastata dalla legge Antimafia. Si parla infatti degli anni ’80 e dei Cavallotti, che secondi i giudici sono collusi con la mafia. La loro azienda in quel momento poteva contare su 300 dipendenti e viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Occorreranno 12 anni per dimostrare che Vincenzo, Salvatore e l’altro fratello Cavallotti non sono in realtà responsabili. Matteo Viviani intervista inoltre Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. I Cavallotti infatti hanno subito due processi, di cui uno prevede il pagamento di debiti inesistenti. L’inviato de Le Iene ha fatto domande scomode a De Moach, come il vantaggio che avrebbe ottenuto la famiglia dell’interessato grazie ad alcune ditte coinvolte in questo processo. Alcuni mesi dopo il primo servizio de Le Iene, i Cavallotti vengono presi di nuovo di mira. Si tratta dei figli dei tre ex titolari, che prendono in mano la tradizione di famiglia e creano una loro società. Anche in questo caso si tratta dello stesso lavoro di impianti di pulizia di gas metano, con cui riescono ad ottenere un cospicuo capitale sociale. Fino al dicembre del 2011 in cui l’azienda dei Cavallotti arriva ad avere 150 dipendenti, ma anche in questo caso le autorità mettono sotto sequestro la società Euroimpianti. Secondo quanto riferito dai Cavallotti a Le Iene, tutto parte ancora una volta da Andrea Modica De Moach, che avrebbe segnalato alle autorità di un illecito da parte dei diretti interessati. Secondo le sue accuse, i ragazzi avrebbero infatti prestato il loro nome per permettere ai genitori di continuare ad operare. Secondo Le Iene ci sarebbe molto di più, per via di alcune intercettazioni telefoniche fra Modica De Moach e i Cavallotti padri. Questi ultimi infatti continuano a lamentarsi dello sfacelo in cui è finita l’azienda e di contro l’ex Amministratore Giudiziario parla di “bilancio a convenienza”, plusvalenze da far trasparire all’occorrenza. Dopo aver proposto e quasi imposto ai Cavallotti di unirsi in “affari”, il Modica De Moach mette in atto quanto annunciato in precedenza. Ovvero porta i libri contabili in tribunale ed è in quel preciso periodo in cui sarebbe avvenuta la segnalazione alle autorità sulla società dei Cavallotti figli. La situazione non sarebbe migliorata con l’incarico affidato all’avvocato Andrea Aiello, che afferma alle telecamere de Le Iene di aver migliorato la situazione. Il commercialista dottor Vincenzo Paturzo, intervistato dall’inviato sottolinea invece che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Clicca qui per rivedere il video con il servizio de Le Iene sulla ditta dei Cavallotti e il processo Antimafia non appena disponibile.  

Il primo servizio della serata è di Matteo Viviani: Il fallimento dell’antimafia, scrive Irene Natali, Martedì, 5 Dicembre 2017.  La famiglia Cavallotti, assolta per mafia, si è ritrovata con l’azienda sequestrata: la sede è distrutta, i camion fermi, le erbacce crescono. L’impresa è così rovinata, e la famiglia non può più lavorare. L’amministratore giudiziario che se ne sarebbe dovuto occupare, di fatto non l’ha gestita. I più giovani si sono allora riuniti per formare una nuova impresa: con l’accusa di essere prestanomi dei padri, anche l’azienda dei Cavallotti figli è stata bloccata. Sequestrata anche questa. Il servizio trasmette addirittura alcune conversazioni tra l’amministratore e gli stessi Cavallotti, a cui viene offerto un accordo per prendere in mano l’impianto. Ma lo stabile è sequestrato: la legge sta dunque abdicando al suo ruolo. La società adesso è in liquidazione, perciò in fallimento: i Cavallotti non hanno lavoro, non possono fare niente. Uno di loro, davanti all’ impossibilità di mandare i figli a scuola, ha tentato il suicidio. Viviani cerca di avere spiegazioni sia dall’ex amministratore giudiziario che da quello in carica, ma senza ottenere motivazioni soddisfacenti.

Le Iene smascherano un altro “caso Saguto” e il fallimento dell’Antimafia, scrive il 6 dicembre 2017 "Il Sicilia". Nuova puntata delle Iene ieri sera, con il Tribunale misure di prevenzione di Palermo al centro del dibattito. Dopo il celebre caso Saguto, l’inviato Matteo Viviani racconta la storia della famiglia Cavallotti, che sarebbe stata vittima della cattiva amministrazione dello Stato. I Cavallotti, che hanno un’impresa di impianti di pulizia di gas metano a Belmonte Mezzagno (PA), secondi i giudici sarebbero collusi con la mafia. La loro azienda viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Dopo 12 anni verranno scagionati. Le Iene allora intervistano l’avvocato Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. Dopo un primo servizio del 2015 i figli dei Cavallotti sarebbero stati presi di mira dall’avv. Modica De Moach, che avrebbe fatto partire una segnalazione alle autorità sostenendo che i figli avrebbero fatto da prestanome ai genitori. Ma grazie ad alcune intercettazioni audio esclusive Le Iene mostrano l’ex Amministratore Giudiziario parlare di “bilanci presentati a convenienza”, plusvalenze, e strane proposte di “affari” coi Cavallotti…«Sembra che Modica non lavori per il Tribunale, ma per le aziende sequestrate dal Tribunale stesso» – dice Viviani nel servizio. «Un inciucio, anzi un vero e proprio reato commesso da chi quei reati invece dovrebbe aiutare lo Stato a contrastare», spiega l’avv. Andrea Dell’Aira. La situazione dell’azienda precipita poi verso il fallimento. L’incarico viene affidato all’avvocato Andrea Aiello, che a Viviani risponde di aver migliorato la situazione. Un esperto commercialista, invece, sostiene che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Questo il commento che la trasmissione di Italia 1 fa al servizio: “La storia dei Cavallotti mostra come una giusta legge antimafia, quando dietro c’è una cattiva amministrazione da parte dello Stato, rischia di incoraggiare quella cultura mafiosa che dovrebbe combattere”.

Lo Stato mi ha detto: «Cavallotti, ok sei innocente, però ti rovino». La lettera dell’imprenditore Pietro Cavallotti, distrutto nonostante l’assoluzione da accuse di mafia, scrive Pietro Cavallotti il 3 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  Lo scorso 22 marzo si è tenuta presso la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo l’udienza per la revocazione della confisca disposta nei confronti dei miei familiari. Mi ci sono avvicinato con sentimenti contrastanti. Da un lato ero certo delle nostre ragioni; dall’altro non sapevo se riporre ancora la mia fiducia nella giustizia terrena. Quando la Cassazione, con nostra grande sorpresa, confermò la confisca, quando ricevemmo dai carabinieri – come al solito, in prossimità delle festività natalizie – l’atto con cui ci veniva ordinato di lasciare, senza indugio, le nostre case, provai a fare di tutto per evitare ai miei familiari l’ennesima umiliazione. Avevamo chiesto all’Agenzia nazionale dei beni confiscati la possibilità di occupare la casa, pagando un corrispettivo, in attesa del ricorso alla Corte europea. Non ricevemmo alcuna risposta. Proposi ricorso straordinario alla Corte europea, ma la Corte mi rispose che interviene d’urgenza solo nel caso in cui sia a repentaglio la vita di una persona, e si sa che togliere la casa non significa togliere la vita. Nulla valse ad evitare lo sfratto e, con l’anima in spalle, fummo costretti ad abbandonare le case costruite con il lavoro onesto dai nostri padri e nelle quali noi figli avevamo vissuto la nostra infanzia. “Sig. Cavallotti, lei le ha le prove nuove per fare l’istanza di revocazione?!”, mi rispondeva l’avvocato quando lo sollecitavo ad agire per la riapertura del processo. E la mia replica era: “Avvocato, ma se non le andiamo a cercare, come le dobbiamo avere le prove nuove?”. Anche questi discorsi capita di fare ad una persona impelagata con la giustizia. Compresi di dover impiegare gli ultimi anni della mia vita nello studio dei fascicoli della vicenda giudiziaria della mia famiglia, alla ricerca di prove nuove che permettessero la riapertura del processo. Non potevo mollare, non potevo lasciare che i sacrifici di una vita venissero per sempre cancellati. Lo dovevo a mio padre, a mia madre e a tutti i miei parenti che hanno condiviso le stesse sofferenze. All’immobilismo e alla rassegnazione che, pian piano, cominciavano a prevalere su di noi, doveva seguire una reazione. E la reazione ha comportato per me lo studio immane non solo degli atti processuali ma anche del contesto criminale a cui i miei familiari sono stati erroneamente ritenuti contigui. Se mi fossi limitato soltanto a studiare le carte processuali, difficilmente avrei potuto individuare prove nuove. La verità doveva essere ricercata là fuori. La prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto era quella di dimostrare, con prove nuove, l’innocenza di persone, miei familiari, già assolte perché il fatto non sussiste. Questo è il paradosso delle misure di prevenzione: dimostrare di non avere avuto niente a che fare con la mafia di fronte a una sentenza che ti ha assolto perché non hai avuto niente a che fare con il crimine. Le fonti aperte, come internet, si sono rivelate preziose alleate per comprendere alcune dinamiche criminali e per smentire, con fatti certi, le accuse mosse nei nostri confronti. Mi ricordo i viaggi fuori dalla Sicilia, alla ricerca di riscontri alle nuove ipotesi difensive che pian piano affioravano nella mia mente. “Di fronte a una grave ingiustizia, non ci possiamo rassegnare”, dice- vo ai miei familiari cercando di sollevare il loro morale a pezzi, riaccendendo nei loro cuori la speranza ogni qualvolta li aggiornavo sulle nuove prove che man mano emergevano. È stato un viaggio pieno di insidie e di difficoltà, alla ricerca della verità. Un viaggio che ho compiuto con la forza del figlio che non si rassegna, con la grinta di chi è vittima di una ingiustizia e non vuole soccombere, ma anche con la lucidità del giurista che si deve estraniare dall’emozione per essere lucido e selezionare ciò che può essere utile per vincere la causa. Ma è stato anche un viaggio a ritroso nel tempo che mi ha permesso di rivedere la mia vita, di constatare come essa sia stata influenzata da questa vicenda giudiziaria e di immaginare come sarebbe stata se lo Stato non avesse deciso, un giorno, di intraprendere, per i motivi che le recenti notizie di cronaca hanno contribuito a chiarire, una campagna di annientamento nei confronti di persone innocenti che avevano fatto solo il bene. Per fortuna, nonostante tutto, siamo ancora vivi e lottiamo per l’affermazione dei nostri diritti. Dalla polvere del tempo è stata riportata alla luce una sentenza che si pone in netta contraddizione con la confisca; sono state raccolte oltre ottanta dichiarazioni che smentiscono le affermazioni dei periti allora nominati dal Tribunale, nuove dichiarazioni di collaboratori di giustizia, nuove dichiarazioni di persone informati dei fatti, nuove sentenze che permettono di chiarire i fatti di causa. I nostri avvocati sono stati bravissimi a esporre al Tribunale tutte le prove raccolte. I miei studi giuridici mi convincono che le ragioni per un accoglimento dell’istanza di revoca ci sono tutte. Ma l’esperienza personale mi convince che, forse, l’accoglimento dipende solo dalla volontà dei giudici, forse dalla volontà politica, in un contesto anomalo in cui rimettere in discussione un provvedimento che ha inchiodato alla croce per venti anni centinaia di famiglie, ridotto alla fame un intero paese, distrutto patrimoni costruiti con i sacrifici, significherebbe assestare un duro colpo ad un intero sistema sul quale molti individui hanno fondato carriere e si sono arricchiti in danno della comunità e di molti padri di famiglia. Cosa che ha riconosciuto indirettamente il Pubblico Ministero nel momento in cui ha chiesto il rigetto della nostra istanza.

Non so se aspettarmi giustizia, di certo vivo questi giorni di tremenda attesa con la serenità propria di chi sa di avere fatto tutto quanto era umanamente possibile fare per far valere le proprie ragioni. In questo viaggio ho conosciuto persone straordinarie, come gli avvocati Baldassare Lauria, Aucelluzzo, Marcianò, Iacona, Chinnici, Stagno d’Alcontres e Piazza; altre che non meritano di essere ricordate. E, per fortuna, ho incontrato il Partito radicale, l’unico che ha deciso di ascoltarci e fare della mia vicenda e di quelle analoghe alla mia una campagna coraggiosa di informazione e di lotta per affermare, anche nella lotta alla mafia, principi e metodi da Stato di Diritto, come invocava Leonardo Sciascia, non la “terribilità” dello Stato e delle misure di emergenza. Pietro Cavallotti

La famiglia Cavallotti vittima del pizzo presa per amica dei boss, scrive Errico Novi il 3 Aprile 2018, su "Il Dubbio". LA STORIA GIUDIZIARIA DEI CAVALLOTTI. I nomi delle loro aziende sono ormai da anni nella saga siciliana delle misure di prevenzione: Comest, Icotel, e poi Euro impianti plus. Sono i marchi della famiglia Cavallotti, una dinastia di imprenditori radicata nel Palermitano, a Belmonte Mezzagno. Mettono in piedi un piccolo impero nel campo della metanizzazione, che negli anni Novanta porta le condotte in molti comuni della Sicilia occidentale. Patrimonio oggi ridotto in polvere, prima dai sequestri per un’accusa di mafia rivelatasi infondata e poi dalla gestione dei beni condotta dagli amministratori giudiziari. Della seconda generazione dei Cavallotti fa parte Pietro, autore della testimonianza pubblicata in questa pagina: lui e i suoi fratelli sono ancora, tenacemente alle prese con un processo di prevenzione che consentirebbe loro di riacquisire almeno una parte dell’originaria struttura aziendale. Nella prossima udienza fissata per il 15 maggio saranno finalmente ascoltati i periti, che dopo 7 anni di stallo dovrebbero attestare come le società della famiglia di Belmonte abbiano un’origine lecita. Nella storia dei Cavallotti c’è un processo con accuse di mafia che nel 1998 aveva portato all’arresto di tre esponenti della “prima generazione” di questi imprenditori. Il pizzo pagato a boss vicini a Provenzano fu scambiato per un sostegno da parte Cosa nostra. La verità, dunque l’innocenza degli imprenditori siciliani, è stata accertata dopo 12 anni, nel 2010. Non è bastato a evitare che anche le aziende appartenenti alla seconda generazione dei Cavallotti finissero sotto sequestro, in un procedimento di prevenzione dinanzi alla specifica sezione del Tribunale palermitano, presieduta fino a pochi mesi fa da Silvana Saguto, la giudice espulsa dalla magistratura con accuse legate proprio alle anomalie del suo ufficio. Pietro Cavallotti e i suoi fratelli lottano per riappropriarsi di aziende indebitate ormai per milioni, convinti di poter ricostruire quello che gli amministratori giudiziari hanno messo in ginocchio.

 Pietro Cavallotti come Peppino Impastato. "Rinnega la tua famiglia come ha fatto Impastato" ha detto una giornalista a Pietro Cavallotti. Ma la sua famiglia non è mafiosa! Scrive Debora Borgese il 6 aprile 2018 su "L’Urlo". Convinzioni dettate da pregiudizi diventano armi letali, specialmente se a riportare informazioni distorte e difformi rispetto alla realtà è chi di professione dovrebbe fare il giornalista. Ne sa qualcosa anche Pietro Cavallotti che qualche settimana fa ha incontrato per caso in Tribunale a Palermo una giornalista di una nota testata nazionale, contattata in precedenza, per raccontargli la storia della sua famiglia vittima dell’antimafia a causa dell’indegno sistema delle misure di prevenzione. “Cominciamo a parlare. Non è convinta del mio racconto. Davo per scontato che avesse visto i servizi delle Iene sulla storia della famiglia Cavallotti”, racconta Pietro in un post su facebook. “Mi informa che lei non segue le Iene perché, a suo avviso, non sarebbero dei veri giornalisti. Intuisco che non conosce la vicenda”. A questo punto due osservazioni. La prima è nell’atteggiamento verso un programma di intrattenimento che, seppure con metodi talvolta poco ortodossi, riesce a sollevare casi nazionali portandoli anche all’attenzione della magistratura e del Parlamento e, pertanto, sarebbe quanto meno educato rispettare il lavoro altrui se porta in qualsiasi modo vantaggio ai cittadini e alla giustizia. La seconda invece è una nota di demerito professionale alla giornalista perché il caso della famiglia Cavallotti è stato trattato anche da testate giornalistiche accreditate. “Dopo avere ascoltato il mio racconto, si allontana”, lasciando Pietro un po’ basito. Poco dopo però si incontrano nuovamente. “Questa volta mi sembra più sicura. Mi comunica che i suoi colleghi in passato hanno scritto sulla mia vicenda giudiziaria”, dando perciò motivo al giovane di vivacizzare i buoni propositi e le belle speranze spenti durante il primo approccio. “Ma ecco che a questo punto comincia uno strano discorso. Mi ricorda che Peppino Impastato ha preso le distanze dalla sua famiglia e mi chiede se io fossi disposto a fare lo stesso.” Quale filo conduttore dovrebbe legare Peppino Impastato a Pietro Cavallotti? “Il taglio che voleva dare all’articolo, insomma, doveva essere il seguente: il giovane rampollo che decide di rompere i legami con la propria famiglia biologica per compiere un passo verso la legalità!”, suggerisce Pietro. “A questo punto rimango perplesso ma non perdo l’eleganza e la moderazione. Potete immaginare quale è stata la mia pacata risposta”. Naturalmente Pietro ha fatto notare alla giornalista che anche lui, nei panni di Peppino Impastato avrebbe preso le distanze dalla famiglia, ma nel suo caso la famiglia Cavallotti non è mafiosa ma vittima di mafia e paradossalmente dell’antimafia. “(La giornalista, n.d.r.) Prosegue ricordando che uno dei Cavallotti sarebbe stato ucciso per fatti di mafia. Smentita tale ultima circostanza, e resasi conto di essere incappata in uno scambio di persona, sostiene che i Cavallotti sarebbero stati in affari con altri imprenditori belmontesi vittime della violenza mafiosa. Smentita anche tale ultima circostanza (per la verità mai contestata in alcun processo), incalza sostenendo che, in fondo in fondo, un pizzico di collusione con la mafia c’è perché i Cavallotti sarebbero parenti dell’On.le Romano”. Insomma, secondo la giornalista, il grado di parentela con l’on. Francesco Saverio Romano, oggi in Forza Italia e assolto da tutti i capi di imputazione che lo riguardavano, dovrebbe portare la famiglia Cavallotti a cointeressenze di stampo mafioso. Ma quale sarebbe il legame di parentela che lega l’ex Ministro con i Cavallotti? Nel pomeriggio dello stesso giorno Pietro Cavallotti scrive perciò una mail alla giornalista. “Ciao, Facendo seguito alla conversazione di oggi, Ti rinnovo, anche a mezzo della presente e-mail, la mia disponibilità a chiarire – eventualmente ed auspicabilmente alla presenza dei colleghi di *** che in passato si sono occupati della vicenda giudiziaria della mia famiglia – fatti e circostanze utili ad inquadrare correttamente la Famiglia Cavallotti e la sua lunga e complessa storia processuale. Credo che la differenza di opinioni su questa vicenda dipenda non dal pregiudizio, non dalla malafede e neppure dall’orientamento politico; dipende soltanto dalle informazioni che si hanno a disposizione per formulare giudizi di valore. Rimane, dunque, ferma la mia disponibilità a fornire documenti a supporto del mio (soltanto parziale) racconto di oggi. Dalle carte processuali (di cui Vi imploro la lettura) si evince chiaramente che la mia famiglia non ha fatto parte di alcun comitato politico-mafioso per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Le nostre intraprese imprenditoriali non hanno avuto alcun colore politico. Nei Comuni siciliani in cui abbiamo portato il metano, attraverso il sistema della finanza di progetto, ci siamo interfacciati con amministrazioni locali dal più eterogeneo colore politico e da tutte tali amministrazioni siamo stati sempre bene accolti per la semplice ragione che le nostre aziende portavano un servizio essenziale per i cittadini di quelle comunità. Oggi le persone ci manifestano la loro solidarietà indipendentemente dallo schieramento politico di appartenenza, segno che la legalità, il senso della giustizia, forse anche il buon senso, non si differenziano a seconda delle convinzioni politiche o a seconda delle contrapposizioni partitiche. È oggettivamente falso che qualcuno dei componenti della nostra famiglia è stato ucciso per fatti di mafia. È oggettivamente falso che i Cavallotti avessero rapporti di cointeressenza economica coi *** o con altri imprenditori belmontesi. Non vi è alcun legame di parentela diretto tra taluno dei cinque fratelli Cavallotti e l’On.le Romano (il cognato di quest’ultimo ha sposato una delle mie cugine) che è stato, per pochi anni nostro avvocato e che, come appreso da notizie di cronaca, è stato comunque assolto dalle accuse che gli sono state mosse. È vero, invece, che la nostra fuoriuscita dal mercato della metanizzazione per via giudiziaria ha oggettivamente favorito quei centri di interesse politico-imprenditoriale-mafioso-giudiziario a cui i miei parenti sono stati sempre estranei. Non si tratta di una convinzione personale ma di fatti dimostrabili documentalmente. Noi stiamo e siamo stati sempre dalla parte della legalità, dalla parte della giustizia. Abbiamo sempre denunciato, anche nel periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso, i furti e i danneggiamenti che le nostre imprese erano costrette a subire unitamente alle estorsioni. Per tutte queste ragioni, rispondendo anche per iscritto alla tua domanda di oggi, non solo non prendo le distanze dalla mia famiglia, ma mi impegnerò, finché avrò vita, affinché venga ripristinata in ogni sede la verità, affinché venga posto rimedio ad un grave errore giudiziario che ha distrutto intere famiglie. Se ci troviamo in queste condizioni, a differenza di ciò che a prima vista si potrebbe pensare, non è perché, in fondo in fondo, “qualcosa c’è”, come oggi ipotizzavi. Questo lo dobbiamo a due circostanze oggettive:

a) In Italia esiste una legge nata con tutte le buone intenzioni che permette tuttavia ai giudici di confiscare interi patrimoni secondo il libero arbitrio, legge che ha suscitato e che continua a suscitare le perplessità della dottrina (non filo mafiosa) e, di recente, anche di qualche giudice italiano e della Corte Europea;

b) Alla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nel periodo del nostro dramma giudiziario abbiamo avuto giudici che hanno esercitato “in maniera peculiare” (vedi caso Saguto) tale libero arbitrio.

La sentenza di assoluzione in sede penale, la richiesta di revoca della confisca avanzata dal Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, nel processo di prevenzione sono elementi che devono fare riflettere. Di tutte queste cose mi piacerebbe discutere con voi, con carte alla mano. Grazie in anticipo per l’attenzione.”

Adesso è evidente che se un giornalista non riesce ad avere le idee chiare, come può pensare di riportare fatti reali ai suoi lettori che ne vengono influenzati? E i magistrati i giornali non li leggono? “Mi piacerebbe poter dire che i giudici decidono leggendo le carte, senza farsi influenzare dall’opinione pubblica o dai media. Ma se lo dicessi mentirei perché, purtroppo, in Italia si sono create indebite sovrapposizioni tra il sistema mediatico e il sistema giudiziario, specie ove si tratta di fatti di mafia”, scrive Pietro nel suo lungo post. “L’opinione pubblica viene esasperata dagli operatori dell’informazione – rei, molto spesso, di diffondere informazioni false – e reclama a gran voce (e qualche volta ottiene) punizioni esemplari, all’esito di processi farsa, non sempre conformi al diritto e al giusto processo. In questo modo il principio costituzionale della presunzione di innocenza come lo stesso valore di una sentenza di assoluzione vengono declassati a semplici ornamenti di cui si può fare a meno. Questo è il volto del populismo giudiziario e del giustizialismo giornalistico che, insieme alla criminalità e alla corruzione e alla endemica inefficienza della pubblica amministrazione, costituiscono i cancri del nostro Paese.” E come dargli torto?

Silvana Saguto rimossa dalla magistratura, scrive il 29 marzo 2018 Salvo Palazzolo su "la Repubblica". Il Consiglio superiore della magistratura fa scattare il massimo della sanzione disciplinare per Silvana Saguto, la radiazione dall’ordine giudiziario. Nessuna attenuante per l’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo finita al centro dell’inchiesta della procura di Caltanissetta sulla gestione allegra dei beni sequestrati. L’organo di autogoverno della magistratura ha deciso sanzioni disciplinari anche per gli altri due giudici che componevano il collegio di Silvana Saguto: Fabio Licata (oggi in servizio a Patti) è stato condannato alla perdita di due mesi di anzianità, censura per Lorenzo Chiaramonte (trasferito a Marsala). Assolto invece Tommaso Virga, ex componente del Csm e oggi consigliere della corte d’appello di Roma, è il padre del giovane avvocato Walter, uno degli amministratori del cerchio magico della giudice Saguto. Assoluzione pure per Guglielmo Muntoni, presidente della sezione Misure di Prevenzione di Roma. Per Virga e Muntoni scattato il cosiddetto “articolo 3 bis”, che prevede la scarsa gravità del fatto. Per loro il pg della Cassazione aveva invece chiesto la condanna: per Virga, la perdita di anzianità per un anno e mezzo, per Muntoni la censura (da alcune intercettazioni sembrava emergere l’interessamento del giudice romano, che non è imputato nel processo di Caltanissetta, per fare ottenere un incarico al marito della Saguto). Ma il Csm ha deciso per l’assoluzione, un punto a favore per Tommaso Virga, che al tribunale di Caltanissetta ha chiesto di essere giudicato col rito abbreviato. Decisione a tempo record per il Consiglio superiore della magistratura, a due anni e mezzo dall’avviso di garanzia. Questa mattina, Silvana Saguto aveva provato in extremis a far rinviare la decisione, opponendo un “legittimo impedimento” a partecipare all’udienza in cui avrebbe dovuto rispondere alle domande dei commissari. “Legittimo impedimento per motivi di salute”. Il Csm aveva proposto la videoconferenza, ma la giudice si è opposta sostenendo che la videoconferenza non è prevista per i procedimenti disciplinari. Il collegio ha ritenuto “insussistente” il legittimo impedimento ed è entrato in camera di consiglio. “Quello di oggi è un provvedimento nullo – insorge adesso l’avvocato Ninni Reina – faremo ricorso”. Il procuratore generale Fresa aveva già incalzato prima del verdetto: “Saguto sta tentando in ogni modo di sottrarsi al procedimento, per arrivare alla pensione evitando l’onta della sanzione”. In attesa dell’appello, Silvana Saguto resta fuori dalla magistratura. E al tribunale di Caltanissetta è in corso il processo, per accuse pesantissime: associazione a delinquere, corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. L’immagine più efficace di quello che era la giudice Saguto fino a qualche anno fa l’ha data il suo agente di scorta, interrogato qualche giorno fa dai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti. Ha detto: “Eravamo convinti di stare con la Madonna, la dottoressa Saguto era considerata un’eroina”. E ancora: “Lo dicevano tutti, lei era la leader delle misure di prevenzione a livello nazionale”. Ma poi le intercettazioni del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo hanno svelato il cerchio magico che ruotava attorno alla potente giudice antimafia.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

Rinviati a giudizio la Saguto e alcuni dei suoi “complici”, scrive il 6 novembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". PER ANNI C’È STATA UNA GESTIONE SPREGIUDICATA DEI PATRIMONI SOTTRATTI ALLA MAFIA”, HANNO DETTO ALL’UDIENZA PRELIMINARE I PUBBLICI MINISTERI DI CALTANISSETTA MAURIZIO BONACCORSO E CLAUDIA PASCIUTI. In realtà si può parlare di un autentico “sistema criminale” attraverso il quale un’associazione di persone, più o meno in relazione tra di loro prima identificavano il bersaglio, ovvero il bene da sequestrare, poi, attraverso la ricerca, condotta scrupolosamente da organi inquirenti, particolarmente dalla DIA, si trovava la motivazione, ovvero l’elemento che potesse giustificare il sequestro, legato molto spesso all’ipotesi, al sospetto, alla presunta collusione, all’appartenenza attraverso la parentela, al presunto riciclaggio di denaro sporco, al pizzino, alla dichiarazione di qualche pentito, poi si emetteva il decreto di sequestro con la scelta, sempre ad arbitrio del magistrato che si occupava di portare avanti l’operazione, dell’amministratore giudiziario cui affidare la gestione del bene sequestrato. Per l’amministratore si trattava di un lavoro di cui lui stesso redigeva le parcelle, che passavano alla firma del magistrato e che venivano liquidate con i fondi dell’azienda sotto sequestro. A coronamento dell’operazione l’amministratore aveva la facoltà di nominare parenti, amici, esperti, collaboratori, a sua facoltà, di licenziare i vecchi dipendenti, di mettere in liquidazione l’azienda o alcune sue parti, molto spesso di girare anche ad altre aziende amiche i pezzi o le parti svendute. Abbiamo usato l’imperfetto, ma ancora oggi il sistema di gestione dei beni sequestrati messo in piedi dalla Saguto regge e continua, se è vero che una serie di amministratori giudiziari sono rimasti al loro posto e che i tempi per definire le cause legate alle istanze di dissequestro subiscono rinvii che durano anni, sino alla totale chiusura dell’attività dell’azienda sotto sequestro. Difficile calcolare quante siano le persone che oggi hanno perso il lavoro dopo il sequestro della loro azienda. Difficile anche calcolare i danni arrecati all’economia siciliana e al suo già fragile sistema produttivo. E comunque, che la magistratura di Caltanissetta si stia occupando di un’inchiesta che riguarda l’operato di una “collega” di Palermo e di altri “colleghi” a lei legati, è già un evento, lascia pensare che non sempre i giudici si proteggono tra di loro e che la giustizia, alla fine, può essere in grado di fare pulizia anche al suo interno. Diciamo pure che “ci sarà un giudice a Berlino”, come diceva il povero mugnaio di Postdam creato da Bertold Brecht. E così il gip Marcello Testaquadra ha deciso il rinvio a giudizio per Silvana Saguto, ex presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione di Palermo e per altri quindici imputati. La prima udienza si terrà il 22 gennaio. Secondo la procura di Caltanissetta, diretta dal dott, Amedeo Bertone “Il grosso delle entrate della famiglia Saguto derivava dagli incarichi conferiti dall’avvocato Cappellano Seminara al marito della giudice, Lorenzo Caramma”. Le indagini del nucleo di polizia tributaria di Palermo hanno scoperto che Silvana Saguto aveva creato rapporti privilegiati almeno con due amministratori di patrimoni sequestrati. Sappiamo che erano molti di più. Dopo Seminara la Saguto avrebbe spostato la sua attenzione, per una diretta collaborazione, sul professore della Kore Carmelo Provenzano. Troviamo tra gli indagati anche l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, grande amica di Silvana Saguto, che avrebbe fatto assegnare un incarico di amministratore al nipote dell’ex prefetto di Messina Stefano Scammacca. Indagati anche gli amministratori giudiziari Aulo Gabriele Gigante, Roberto Nicola Santangelo e Walter Virga, figlio di Tommaso, giudice, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni dei Rappa stimati in 800 milioni di euro. A giudizio pure il marito di Silvana Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, uno dei figli, Emanuele, e il padre Vittorio Pietro. Poi ancora Roberto Di Maria (preside della facoltà di Scienze Economiche e giuridiche della Kore di Enna), Maria Ingrao (la moglie di Provenzano), Calogera Manta (collaboratrice di Provenzano) e il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca. Sono un’ottantina le ipotesi di reato contestate: vanno dalla corruzione al falso, dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata. Il 20 dicembre, inizierà invece il giudizio abbreviato che vede imputati i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere del tribunale Elio Grimaldi. 

Va detto, cosa che è del tutto ignorata dalle agenzie di stampa, che all’apertura di questo processo e alla denuncia di questa perversa gestione dei beni sequestrati ha dato un suo contributo Telejato, dai cui servizi è partita l’indagine che poi è stata trasmessa dalla Procura di Palermo alla magistratura di Caltanissetta.

Mafia: direttore Telejato, sono stato "mascariato" perché mi dovevano fermare sul caso Saguto, scrive il 20 Novembre 2017 "Libero Quotidianjo". (AdnKronos) - Poi, parlando della sua vicenda giudiziaria, ha sottolineato: "La mia vita è cambiata radicalmente - dice ancora Pino Maniaci, in aula con i suoi legali Antonio Ingroia e Bartolo Parrino - prima di allora la mia tv riceveva le visite di tantissimi giovani provenienti da tutta Italia e anche dall'estero. E' stata un faro per tanti giovani. Ma io ho voluto continuare ugualmente. E tuttora riceviamo ancora visite di giovani che vogliono conoscere la storia di Telejato. La tv resta aperta e continuiamo la nostra lotta contro la corruzione e il malaffare, come abbiamo sempre fatto". E annuncia: "Dopo avere scoperchiato tutto il malaffare della sezione Misure di prevenzione, adesso stiamo lavorando sulla Fallimentare. E' ancora peggio lì. E vi assicuro che ne vedremo delle belle...". Maniaci sottolinea poi: "E' molto difficile riuscire a lavorare su questa inchiesta - dice ancora il direttore di Telejato - perché nessuno vuole parlare al telefono con me, in quanto intercettato sul caso Saguto. E' davvero incredibile. Si è voluto fare appositamente terra bruciata attorno a me ma nessuno riuscirà a fermarmi, questo deve essere chiaro". E annuncia: "Nonostante tutto, io continuo a ricevere numerosi inviti a presenziare, ma spesso sono io a dire no. Il 2 dicembre, invece, andrò eccome a un incontro a Torre Artala in cui si parlerà proprio di Misure di prevenzione e dei danni che ha fatto la ex Presidente delle Misure di prevenzione. Racconterò diversi retroscena su questa vicenda assurda".

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”. 

L'OBLIO MAFIOSO DEI DEPOSITI GIUDIZIARI: SPRECO E SPECULAZIONE.

Veicoli Rubati - Riconsegna. In caso di rinvenimento di un veicolo che, tramite terminale ANCITEL, risulti essere oggetto di furto, l'Ispettore della Centrale Radio Operativa prende contatto telefonicamente (numero indicato sulla denuncia) con l'avente diritto alla restituzione (proprietario o altra persona che legittimamente deteneva il veicolo) o comunque un suo familiare invitandolo, qualora possibile, a recarsi in tempi brevi sul posto per la riconsegna del veicolo munito di un documento d'identificazione delle chiavi dello stesso e della denuncia di furto, in originale o copia. Il veicolo verrà restituito all'avente diritto previa compilazione del verbale di rinvenimento da parte della pattuglia. Se l'avente diritto alla restituzione (denunciante, proprietario o delegato), sia impossibilitato a recarsi sul luogo in tempi ragionevolmente brevi, l'Ispettore della Centrale Radio Operativa avrà cura di precisare che il veicolo rimarrà incustodito sulla pubblica via ed ogni rischio resterà a suo esclusivo carico. Qualora non si riesca a prendere contatto con l'avente diritto alla restituzione, la Centrale Radio Operativa, tramite la Questura o l'organo che ha ricevuto la denuncia, accerta l'esistenza di istruzione in merito da parte del denunciante. In mancanza di istruzioni, il veicolo è fatto recuperare e depositato presso la depositeria convenzionata (Centro dell'Auto). Le spese di custodia sostenute, sono a carico dell'avente diritto. L'interessato verrà poi contattato telefonicamente dall'Ufficio Sanzioni Accessorie.

Sequestro Giudiziario. Solo nel caso in cui, durante il controllo del veicolo emergano elementi probatori utili ai fini dell'identificazione dell'autore del reato ed elementi indiziari, se ne dispone il sequestro. Il proprietario o avente diritto dovrà attendere il provvedimento di dissequestro emesso dall'Autorità Giudiziaria e ritirare il veicolo quanto prima e comunque entro 30 giorni dalla notifica del dissequestro, in tal caso tutte le spese di trasporto e custodia sono a carico dell'erario. Sarà cura dell'ufficio di Polizia Giudiziaria contattare l'avente diritto per le modalità di ritiro. Dal trentunesimo giorno in poi le spese di custodia e conservazione sono a carico del proprietario o dell'avente diritto in base ad una tabella con le tariffe relative alle indennità spettanti al custode dei beni sottoposti a sequestro.

Documentazione necessaria. L'interessato viene contattato telefonicamente dall'Ufficio Sanzioni Accessorie presso cui dovrà presentarsi con i seguenti documenti:

denuncia di furto;

valido documento di identità;

Costo e modalità di pagamento. Il proprietario o avente diritto, dovrà attendere il provvedimento di dissequestro emesso dall'Autorità Giudiziaria e ritirare il veicolo quanto prima e comunque entro 30 gg. dalla notifica del dissequestro, in tal caso tutte le spese di trasporto e custodia sono a carico dell'erario. Dal trentunesimo giorno in poi le spese di custodia e conservazione sono a carico del proprietario o dell'avente diritto in base ad una tabella con le tariffe relative alle indennità spettanti al custode dei beni sottoposti a sequestro.

Questa è la legge. La prassi è un'altra cosa.

Il Comune paga 24mila euro per un motorino abbandonato da 33 anni. I mezzi sequestrati vengono dimenticati nei depositi. E così lo Stato e i Comuni, dopo anni, devono pagare cifre folli per veicoli arrugginiti, scrive Claudio Cartaldo, lunedì 15/02/2016, su "Il Giornale". Chiamatela pure follia burocratica. Non si tratta di altro, quando un Comune o lo Stato è costretto a pagare 24 mila euro per un motorino fuori produzione (Enduro Tgm), pieno di ruggine, abbandonato da 33 anni in un deposito mezzi. Ben 24mila euro per qualcosa che vale poco più di qualche decina di euro. Una spesa folle, con soldi prelevati - manco a dirlo - dalle tasche dei contribuenti. Non è un caso isolato. Come riporta la Stampa, infatti, il “problema” dei mezzi sequestrati dalla polizia e lasciati a marcire in qualche deposito mezzi è diffuso in tutto il Paese. In un deposito lombardo è parcheggiata una Renault 5 bianca, sequestrata il 3 dicembre 1988. Il proprietario non l’ha mai reclamata, il Comune e la Prefettura non se ne sono interessati. E così ora il suo deposito costerà allo Stato 18mila euro. Quando una moto o un’auto vengono sequestrate (guida senza patente, in stato di ebrezza e altre violazioni del codice della strada), il proprietario - se rivuole il mezzo indietro - deve pagare la multa e recuperare il veicolo dal deposito. Pagando, ovviamente, il costo della custodia. Ma - come spesso accade - se il suddetto proprietario preferisce perdere l’auto piuttosto che pagare, chi ha sequestrato il mezzo dovrebbe inviare il fascicolo in prefettura, la quale prima confisca il bene, poi decide se venderlo o demolirlo. Semplice, ma non troppo. Nel senso che la macchina burocratica italiana s’inceppa il più delle volte. E quei fascicoli rimangono chiusi nei cassetti per anni. Intanto, però, il costo della custodia continua a salire. Giorno dopo giorno. Visto che il proprietario non pagherà mai, tocca allo Stato provvedere. Prelevando i soldi dalle tasche dei contribuenti. Al convegno nazionale dell’Ancsa, l’associazione nazionale dei centri di soccorso autoveicoli, inoltre, i diretti interessati si sono lamentati delle fatture emesse e mai pagate dalle autorità competenti. Le prefetture di Salerno erano esposte per 6 milioni di euro. “Ho crediti nei confronti dei Comuni per 600.000 euro e delle prefetture per 160.000”, dice alla Stampa il presidente dell’Assi, associazione soccorsi stradali italiani, Gerardo Vegetti. Somme che, prima o poi, lo Stato dovrà pagare. Rivalendosi su tutti noi. Sui contribuenti. Pagando una cifra folle un vecchio motorino arrugginito.

Verona, le auto sequestrate nei depositi costano milioni. I grillini: "Comune sprecone, via ad esposto". Per il Movimento 5 Stelle di Verona, dal 2008 al 2013, l’amministrazione Tosi avrebbe speso 2 milioni e 200mila euro, andati nelle casse delle aziende che si occupano di tenerle in custodia. A questo si aggiungono le tasse non versate, come il bollo, scrive "Verona Sera" il 23 luglio 2014.  “Comune sprecone”. Questa l’accusa mossa dai consiglieri comunali e militanti del Movimento 5 Stelle di Verona circa il deposito dei mezzi sequestrati o fermati dalla polizia municipale di Verona. Per i grillini scaligeri, dal 2008 al 2013, l’amministrazione Tosi avrebbe speso 2 milioni e 200mila euro, andati nelle casse delle aziende che si occupano di tenerle in custodia. Uno strano modo di far girare l’economia cittadina, a detta del Movimento che sospetta che i proprietari dei mezzi paghino di volta in volta la multa per la violazione al Codice della strada ma non la cifra per la custodia. E settimane, mesi o anni di fermo costano parecchio. Soprattutto a fronte dei motivi per cui sono finiti lì dentro: guida in stato di ebbrezza, rimozioni in divieto di sosta, auto abbandonate senza targhe per strada o in aree dismesse. Per questo i pentastellati, dopo aver snocciolato i dati in loro possesso, annunciano di voler ricorrere alla Corte dei Conti con un esposto per danno erariale: l’accusa è quella di inerzia sotto il profilo della riscossione e della demolizione dei mezzi non ritirati. In quest’ultimo caso dovrebbe essere il Comune a segnalare alla Prefettura l’evetuale distruzione delle auto. La polizia municipale da tempo ha accelerato sul sequestro di automezzi e motorini. Indicative di ciò sono i dati relativi alle ultime scoperte (dodici solo nell’ultimo weekend). Grazie a nuovi dispositivi tecnologici come il “Targa system”, inoltre, è più facile scoprire conducenti non in regola con documenti di circolazione e assicurazioni. Se scoperti “in flagrante” i mezzi vengono immediatamente sequestrati. Come spiega L’Arena. La spesa per la custodia dei mezzi, se questi non vengono demoliti, e se i proprietari non pagano, spettano agli organi di polizia stradale e allo Stato. Nel caso di Verona, il Comune appunto ha dovuto saldare spese di anni di custodia, visto che i proprietari non hanno pagato. Allo stesso tempo la Polizia municipale scaligera ha contestato diverse fatture con le aziende dei depositi, perché i conti non tornavano. Altre problematiche riguardano le tasse sull’auto, che spettano alla Regione. Anche fermato e “parcheggiato” in deposito giudiziario, il bollo sul mezzo deve essere pagato ogni anno. Ma chi non paga la custodia solitamente non paga nemmeno gli arretrati. Con un considerevole ammanco sulle casse dell’ente pubblico.

L'INCHIESTA. Il «parcheggio» dell'oblio. E dello spreco. Viaggio in un deposito giudiziario zeppo di auto e motorini abbandonati da decenni, scrive Roberto Longoni il 14 Aprile 2014 su "La Gazzetta di Parma".  I tempi sono quelli della polvere fossile. Della ruggine. Che ogni anno traccia una linea in più sui piani orizzontali dei rottami. Proprio come gli anelli nei tronchi degli alberi. Inutile chiedere da quanto sia bloccata qui la Lancia Thema in disarmo sul lato del deposito: sul suo cofano si contano almeno una ventina di «isobare». Le lunghe stagioni della ruggine, già. E del carbone, inteso come carta copiativa: quella che veniva infilata tra un foglio e l'altro sul rullo delle grigie Olivetti della questura e delle caserme dei carabinieri. Chi compilava le pagine martellava sui tasti, per essere certo che fosse tutto leggibile: e così i verbali di sequestro da quelle macchine per scrivere uscivano in rilievo e traforati qua e là. Un'era fa. Ma l'atmosfera la si respira ancora nei depositi giudiziari della nostra città, zeppi di auto, motorini e furgoni.  Il proprietario di uno di questi luoghi ha acconsentito ad aprirci i cancelli, a patto di mantenere l'anonimato («Che sia un rompiscatole me lo sono sentito già ripetere un bel po' di volte» sorride). Oltre l'ingresso, una sfilata di veicoli bloccati da decenni, utili solo a viaggiare nel tempo. E attraverso lo spreco. 

Auto e moto dimenticati in deposito: lo Stato paga milioni, scrive la redazione di "Blitz Quotidiano" il 16 febbraio 2016. Una moto Enduro Tgm sequestrata nel 1983. Una Renault 5ferma in deposito dal 1988. E tra inefficienze e dimenticanze lo Stato paga per rottami come questi fermi nei depositi giudiziari conti da migliaia di euro per ogni pezzo. Un articolo de La Stampa racconta che di casi così in Italia ce ne sono a migliaia. Succede quando un mezzo viene sequestrato e finisce sotto fermo amministrativo. A quel punto il proprietario può pagare la sanzione e quindi riprendere il mezzo ma se non lo fa (perché il conto può essere salato), chi ha operato il sequestro è tenuto a inviare la pratica in prefettura per la confisca, la successiva vendita o la demolizione. Ma questa è la teoria: in pratica a volte ci si dimentica, o la prefettura non dà seguito alla pratica, e così i mezzi restano in deposito a far ruggine. Peccato che il deposito abbia un costo e che sia a carico dello Stato. Ecco qualche esempio, dall’articolo di Raphael Zanotti: La vernice gialla e rossa cade in scaglie solo a guardarla. La gommapiuma della sella si sbriciola. La forcella è inchiodata e la catena è un monoblocco di ferro e polvere. Sul mercato, una moto così, non varrebbe che qualche decina di euro, il prezzo del ferro recuperato. Ma lo Stato lo pagherà 24.000 euro. Il costo della sua custodia, per 33 anni, in un deposito mezzi sequestrati della provincia di Monza. Il cartellino giallo appeso al manubrio parla chiaro: questa enduro Tgm, fabbrica che ha chiuso i battenti 30 anni fa, è stata sequestrata ad Arcore il 16 gennaio 1983. Il giorno in cui catturarono Sergio Segio di Prima Linea, c’era Fanfani al governo e di lì a qualche ora Mario Moretti, Prospero Gallinari e altri 30 brigatisti sarebbero stati condannati all’ergastolo per l’omicidio Moro. Da allora, quel mezzo, è rimasto lì, dimenticato. Il suo proprietario, multato per guida senza patente, non l’ha mai reclamato. La polizia non l’ha mai fatto demolire. La prefettura se l’è scordato. E il suo costo, oggi, è diventato astronomico. Ricostruire le esposizioni dei Comuni e dello Stato è arduo visto che pubbliche amministrazioni e Prefetture tendono a far finta di nulla nella speranza che, dopo un po’ di anni, arrivi una legge che stracci almeno parte delle fatture emesse dai custodi (ne sono già state fatte in passato). Se il ministero dell’Interno dopo giorni non fornisce i dati e anche l’Anci ha difficoltà a far smuovere i suoi, qualche calcolo però è stato fatto. A settembre, al convegno nazionale dell’Ancsa, l’associazione nazionale dei centri di soccorso autoveicoli, è venuto fuori che le prefetture di Salerno erano esposte per 6 milioni di euro. E il presidente dell’Assi, associazione soccorsi stradali italiani, Gerardo Vegetti, racconta: «Ho crediti nei confronti dei Comuni per 600.000 euro e delle prefetture per 160.000». Soldi che, in un modo o nell’altro, bisognerà tirare fuori. E allora lanciamo l’appello: vendesi Tgm non in ottimo stato, si parte da 24.000 euro.

Ruggine pagata a peso d’oro: quando i rottami dimenticati nei depositi costano milioni. A Monza la moto sotto sequestro ferma da 33 anni: ora il custode vuole migliaia di euro. Quest’auto sequestrata vale pochi euro, ma il titolare del deposito l’ha custodita per quasi trent’anni e ora vuole il saldo della fattura: oltre 18.000 euro, scrive il 15/02/2016 Raphaël Zanotti su "La Stampa". La vernice gialla e rossa cade in scaglie solo a guardarla. La gommapiuma della sella si sbriciola. La forcella è inchiodata e la catena è un monoblocco di ferro e polvere. Sul mercato, una moto così, non varrebbe che qualche decina di euro, il prezzo del ferro recuperato. Ma lo Stato lo pagherà 24.000 euro. Il costo della sua custodia, per 33 anni, in un deposito mezzi sequestrati della provincia di Monza. Il cartellino giallo appeso al manubrio parla chiaro: questa enduro Tgm, fabbrica che ha chiuso i battenti 30 anni fa, è stata sequestrata ad Arcore il 16 gennaio 1983. Il giorno in cui catturarono Sergio Segio di Prima Linea, c’era Fanfani al governo e di lì a qualche ora Mario Moretti, Prospero Gallinari e altri 30 brigatisti sarebbero stati condannati all’ergastolo per l’omicidio Moro. Da allora, quel mezzo, è rimasto lì, dimenticato. Il suo proprietario, multato per guida senza patente, non l’ha mai reclamato. La polizia non l’ha mai fatto demolire. La prefettura se l’è scordato. E il suo costo, oggi, è diventato astronomico. Come quello della Renault 5 bianca sequestrata dai carabinieri e che perde i pezzi in un altro deposito della provincia lombarda. È qui dal 3 dicembre 1988. Calcolando il costo giornaliero della custodia e moltiplicandolo per i 28 anni di sequestro, questo rottame ormai inservibile costerà allo Stato circa 18mila euro. Più di un’auto nuova. 

IL COSTO DELL’OBLIO. Fuori, il deposito, è una distesa di catorci che si perde a vista d’occhio. Tutti con il loro cartellino che indica il giorno di inizio custodia. Di casi così, in Italia, ce ne sono migliaia. E sono in aumento. Quando un mezzo viene sequestrato o finisce sotto fermo amministrativo, il proprietario può pagare la sanzione e recuperare il proprio mezzo saldando i giorni di custodia. Ma se non lo fa (e vista la crisi succede sempre più spesso) chi ha operato dovrebbe inviare il fascicolo in prefettura per la confisca, la successiva vendita o la demolizione. Questo nella teoria. Qualcosa, invece, non funziona. A volte è l’operatore a dimenticare il fascicolo in un cassetto, spesso è in prefettura il collo di bottiglia. Così i mezzi restano a fare la ruggine con la velocità con cui producono costi. Ironia della sorte, nell’era del rottamatore Renzi. 

CHI PAGA? Comuni e Prefetture giocano allo scaricabarile, mentre i titolari dei depositi rischiano la chiusura (oggi stanno recuperando fatture emesse cinque anni fa). Ma le cifre sono enormi e oggi, con il sistema della fatturazione elettronica, è difficile ciurlare nel manico. Marta Vanzetto, collaboratrice del consigliere M5S di Verona Gianni Benciolini, si è occupata dell’esposto che nel 2014 ha inoltrato alla Corte dei Conti (senza, per ora, alcun risultato). All’epoca il Comune di Verona doveva qualcosa come due milioni di euro per i depositi conclusi (alcuni dei quali iniziati dieci anni prima). Ed pendeva almeno una fattura da 350.000 euro. «L’inerzia della polizia locale di Verona e la lentezza della prefettura ha prodotto costi enormi che gravano su tutti i cittadini» dice la Vanzetto. Inoltre, spesso, le fatture risultavano emesse anni dopo la fine del deposito. Emblematico il caso di un autocarro sequestrato: inizio deposito l’8 gennaio 2004, fine deposito il 28 dicembre 2004, fattura emessa solo il 30 settembre 2013. Perché? 

DEBITI SCOMODI. Ricostruire le esposizioni dei Comuni e dello Stato è arduo visto che pubbliche amministrazioni e Prefetture tendono a far finta di nulla nella speranza che, dopo un po’ di anni, arrivi una legge che stracci almeno parte delle fatture emesse dai custodi (ne sono già state fatte in passato). Se il ministero dell’Interno dopo giorni non fornisce i dati e anche l’Anci ha difficoltà a far smuovere i suoi, qualche calcolo però è stato fatto. A settembre, al convegno nazionale dell’Ancsa, l’associazione nazionale dei centri di soccorso autoveicoli, è venuto fuori che le prefetture di Salerno erano esposte per 6 milioni di euro. E il presidente dell’Assi, associazione soccorsi stradali italiani, Gerardo Vegetti, racconta: «Ho crediti nei confronti dei Comuni per 600.000 euro e delle prefetture per 160.000». Soldi che, in un modo o nell’altro, bisognerà tirare fuori. E allora lanciamo l’appello: vendesi Tgm non in ottimo stato, si parte da 24.000 euro. 

Auto rubate, ritrovate e dimenticate. Servizio di Fabio Agnello del 18 febbraio 2018 su per "Le Iene". A Firenze 80 veicoli rubati e ritrovati aspettano un padrone anche da più di 10 anni perché nessuno si è premurato di avvisare i proprietari.

Gli rubano l’auto, “ritrovata” dopo 6 anni, scrive Luca Bianchi su varesenews.it il 27 settembre 2007. L'auto ritrovata due giorni dopo il furto dalle forze dell'ordine: per una serie di coincidenze, però, rimane chiusa in un deposito. Ora è da demolire, a spese del cittadino. Pubblichiamo la lettera/articolo dove un nostro lettore racconta la sua disavventura. "Egregi signori, mi rivolgo a voi per poter ricevere un aiuto a capire quello che mi è capitato, e che in seguito vi racconterò, non tanto per ottenere chissà quale risarcimento (mi basterebbe non dover sostenere una piccola spesa che mi ritroverò da pagare) ma davvero per capire con chi ho (e abbiamo) a che fare, chi paghiamo per tutelarci e per vedere di farmi passare il nervoso che in questi ultimi giorni mi sta torturando.

Comincio…La notte tra l’1 e il 2 di febbraio del 2002 sotto casa mi viene rubata l’auto e subito alla mattina del 2 effetto regolare denuncia presso la caserma di Carabinieri di Appiano Gentile (una Ford Fiesta del 1991 per cui già poco appetibile da professionisti…). Passa il tempo e dell’auto nessuna notizia se non che nell’ ottobre-novembre 2006 mi arriva un richiamo dall’ACI per il mancato pagamento del bollo anno 2002. Spiego che l’auto mi è stata rubata e ancora non restituita mi chiedono una copia della denuncia di furto. Mi reco dai Carabinieri di Appiano Gentile a richiederne copia, aprono il fascicolo davanti a me e in bella mostra c’è un appunto scritto a mano che dice che l’auto è stata ritrovata dalla Polizia Stradale e restituita al proprietario (che sarei io…). Chiedo legittimamente spiegazioni in quanto l’auto io non l’ho riavuta e il Carabiniere mi dice che non sa, mi fa aspettare un attimo poi ritorna sempre con il fascicolo della mia pratica senza l’appunto di ritrovamento e mi dice che sarebbe finito per sbaglio nella mia pratica. Provo a insistere e mi dicono di rivolgermi alla Questura di Como se l’auto è stata trovata dalla Stradale sapranno qualcosa loro. Vado in Questura ma essendo sabato gli uffici della Volante sono chiusi, fortunatamente l’Agente a cui mi rivolgo si dimostra molto gentile e mi dà una spiegazione che se è corretta è questa; innanzitutto non capisce perchè i Carabinieri mi abbiano indirizzato da loro e mi spiega che chiunque possa aver trovato l’auto avvisa chi ha ricevuto la denuncia (C.C.di Appiano Gentile nel mio caso)che a loro volta avvisano il proprietario(io in questo caso). Preso per buona la spiegazione ed essendomi già rassegnato da tempo di non ritrovare più la mia macchina e dopo cinque anni anche di non rivolerla più mollo la presa e finisco li.

Ed ecco che sabato 22.09.2007 il colpo di scena. Mi telefonano dalla Questura di Varese (??!) per comunicarmi che la mia auto è stata ritrovata e di passare a ritirare il verbale di ritrovamento. Mi presento dopo 1 ora e mi viene consegnato il verbale e scopro che l’auto è stata ritrovata non so dove ma so quando: il 3 febbraio 2002, esattamente il giorno dopo la mia denuncia ma soprattutto 5 anni e 8 mesi orsono!!!! Dal Maresciallo che ho davanti nonostante mi rivolgo con educazione e non nego con ironia (gli ricordo di mantenere un certo tono nei miei confronti in quanto io cittadino e lui al mio servizio) non riesce altro che continuare a minacciarmi con la frase “io la denuncio”. Poi mi presentano un foglio del Tribunale di Como che dice che la macchina è stata sequestrata senza nessun altra spiegazione e a questo punto nauseato firmo il verbale e me ne vado. Mi reco dove è depositata da quasi sei anni l’auto e il custode mi accompagna a vederla (ovviamente è da demolire) e scopro che questo signore sa molte cose di me, vale a dire che già sa il modello dell’auto e si ricorda di avermi già visto e sapeva anche dove lavoro perchè sulla macchina c’era un documento a testimoniarlo. Una bella memoria per un’auto dimenticata da sei anni in mezzo a qualche altro centinaio di auto (ma c’è qualcuno che ci guadagna?) nella stessa condizione!!! Ora mi devo occupare del trasporto pagando un carroattrezzi e un autodemolitore entro 30 giorni se no dovrò cominciare a pagare il rimessaggio. Io un aiuto vi chiedo; vorrei sapere chi non mi ha avvisato che l’auto è stata subito ritrovata, per quale motivo è stata sottoposta a sequestro (ho la fedina penale candida e sono un ex Carabiniere) chi mi risarcisce dell’auto che ho dovuto poi usare (lavoro a 50km da casa e l’auto mi è servita subito) e chi mi risarcisce delle spese per disfarmi di un’auto che 6 anni fa funzionava e che adesso è cadavere. È possibile grazie al vostro aiuto avere delle spiegazioni da queste persone che molto spesso prima di mostrare le prestigiose divise che indossano e cariche istituzionali che ricoprono preferiscono manifestare arroganza e maleducazione? Ringraziandovi fin d’ora per il vostro interessamento (purtroppo rivolgermi ad un legale non mi è possibile) porgo i miei più cordiali saluti".

Aversa, auto in depositi giudiziari: è la Prefettura responsabile della rottamazione, scrive Nicola Rosselli il 10 dicembre 2017 su Pupia tv. E’ la Prefettura a doversi preoccupare della rottamazione delle autovetture e moto sequestrate dalle forze dell’ordine e presenti nei depositi giudiziari. Per cui è lo stesso organo territoriale di governo che deve far fronte ad una situazione che vede i due titolari dei due depositi giudiziari aversani vantare un credito che, secondo alcune stime, in considerazioni anche del tempo trascorso, ammonterebbe ad una cifra astronomica molto vicino ai tre milioni di euro. La diatriba che andava avanti da oltre un decennio sembrerebbe essere stata risolta da una sentenza del giudice del lavoro del tribunale di Napoli Nord in occasione della decisione su un ricorso contro un provvedimento disciplinare comminato dal segretario generale del comune di Aversa, Anna di Ronza, contro il comandante della polizia municipale, Stefano Guarino, al quale, nel dicembre del 2013 furono decurtati trecento euro dalla busta paga. L’accusa per Guarino riguardava l’omissione nella gestione degli autoveicoli sequestrati. Guarino impugnò il provvedimento e nei giorni scorsi si è avuta la sentenza che lo annulla con la restituzione dei trecento euro oltre interessi. Il magistrato ha adottato la decisione sul presupposto che, come riportato anche da una circolare della Prefettura di Caserta, a regolare la materia è un decreto del presidente della repubblica del 2001 che, in merito alla «Inservibilità dei beni» testualmente prevede che «Le amministrazioni statali comunicano al competente Ufficio del territorio del Ministero delle finanze, nonché al Dipartimento dell’amministrazione generale, del personale e dei servizi del Ministero del tesoro, bilancio e della programmazione economica, la lista dei beni da alienare in quanto dichiarati fuori uso o non utilizzabili, ferme restando le disposizioni sulla cessione gratuita di beni alla Croce Rossa Italiana». La stessa norma prevede che «Il competente Ufficio del territorio del Ministero delle finanze avvia la procedura di vendita dei beni mobili di cui al presente regolamento entro trenta giorni dalla ricezione della dichiarazione, da parte delle amministrazioni che hanno in dotazione i beni, di fuori uso o non utilizzabilità degli stessi». Emerge dunque che la competenza di attivare le procedure per l’alienazione dei veicoli sequestrati è in capo alle amministrazioni statali. In base a questa previsione normativa «non può dunque imputarsi al comandante Guarino di non aver attivato tempestivamente le procedure di rottamazione dei veicoli sequestrati, emergendo che la suddetta attività amministrativa». A fronte di questa decisione, il debito della pubblica amministrazione nei confronti dei due depositi giudiziari continua a crescere quotidianamente di circa un migliaio di euro. Sarebbero oltre duemila le autovetture (e altrettante le moto), infatti, in custodia presso i depositi gestiti dalle famiglie Della Corte e Marino accumulatesi negli anni, sequestrate dalle forze dell’ordine per carenza di assicurazione obbligatoria, guida senza patente e così via. Chi ha avuto occasione di visitare i due siti ha tenuto ad evidenziare che ci si trova di fronte ad un vero e proprio museo della storia dell’auto, che farebbe la gioia di ogni appassionato del settore, con vetture che sono presenti sul posto da poco meno di una ventina d’anni. Ad essersi inceppato il meccanismo previsto dalla normativa in materia secondo la quale, trascorso un determinato periodo di tempo dal sequestro e dal conseguente affidamento del veicolo alla custodia del deposito giudiziario, se il proprietario non lo ritira, si dovrebbe provvedere alla rottamazione. Invece, sino ad oggi tutte le vetture sequestrate sono rimaste nei depositi.

Milano. Ottomila moto dimenticate nei depositi comunali, scrive il 13 luglio 2004 "poliziamunicipale.it". Ottomila motorini ammassati in via Gregorovius 15, dove hanno sede le Civiche Depositerie. Qui, in un casermone dimenticato della periferia nord- est della città vengono portati dai vigili motocicli, ciclomotori e biciclette sequestrati per diversi motivi. Si può trattare di mezzi incidentati, in stato di fermo e a disposizione delle autorità per i rilievi o di veicoli rubati. O, ancora, più semplicemente mezzi ritirati per violazione del codice stradale: si va dal mancato uso del casco all'assicurazione scaduta o alla guida senza patente. Le Civiche Depositerie, in questi ultimi casi, ricevono e custodiscono questi mezzi, in attesa che i legittimi proprietari vengano a ritirarli, sempre che ne abbiano l'autorizzazione. E dopo aver adempiuto alle formalità giudiziarie e al pagamento dei diritti di custodia. Questi mezzi attendono qui il loro destino: lunghe file di moto, scooter e biciclette si perdono a vista d'occhio. «Occupano due piani di un deposito coperto e non sono certo il massimo della sicurezza - spiega Pasquale Latorre, l'architetto responsabile della struttura. «In caso di incendio si corrono dei rischi, nonostante noi cerchiamo in ogni modo di rispettare le indicazioni imposte dal decreto legislativo 626 sulla sicurezza». Ogni giorno ne arrivano almeno una trentina. La loro permanenza in via Gregorovius varia a seconda del motivo del sequestro: dai pochi giorni per le infrazioni alle lunghe "degenze" se rubate. Molti mezzi vengono ritirati dai loro proprietari. Quelli non reclamati o rubati dopo un certo periodo finiscono all'asta. «Esiste un sito che si occupa della vendita di questi veicoli - spiega ancora Latorre -. Si possono fare buoni affari». Da febbraio scorso, però, non tutte le due ruote sequestrate giungono direttamente in via Gregorovius 15. Il deposito, infatti, osserva un orario lavorativo "ridotto". Con chiusura anticipata alle 17.30. A denunciarlo è Roberto Miglio, a nome del sindacato autonomo dei Vigili. «Prima era aperto 24 ore su 24. In qualunque momento noi potevamo consegnare i mezzi - spiega Miglio -. Ora non è più così: dopo le 17.30 e il sabato e la domenica scooter e motociclette requisiti sono portati al deposito in via Messina. Poi il lunedì mattina dobbiamo con un furgone trasferire i veicoli in via Gregorovius». La riduzione dell'orario di apertura dei depositi sembra sia dovuto alla necessità di risparmiare. «Invece si spende di più», continua polemico Miglio, «per trasportare tutti i mezzi gli agenti sono costretti a fare più giri visto che il furgone può contenere al massimo tre motociclette». Il sindacato della polizia municipale chiede quindi che venga ripristinato il vecchio sistema, più snello e veloce. E da via Gregorovius cosa dicono? Latorre respinge le accuse. E spiega: «Da febbraio scorso abbiamo deciso la riduzione dell'orario. Anziché 24 ore su 24, si è deciso di fare due turni: dalle 8 e 10 fino alle 14 e dalle 14 alle 20 e 10 e non alle 17.30. Il taglio è stato studiato di comune accordo con i vigili. Statistiche alla mano si era visto che la media dei veicoli ritirati la notte si aggirava intorno ai 4, nel fine settimana il numero non era così consistente da richiedere l'apertura del deposito. I ghisa si erano quindi impegnati a trovare un luogo dove tenere i mezzi sequestrati in attesa di trasferirli qui da noi». Ma il disagio dei "traslochi" del lunedì mattina sembra aver fatto ricredere i vigili che chiedono il ripristino delle 24 ore. «In realtà - continua Latorre - l'unico disguido è che magari il proprietario di un motorino sequestrato viene qua da noi con la multa pagata e il mezzo magari è ancora in via Messina. Ma i disagi finiscono qui».

Dopo il furto, la beffa: a Roma c’è anche la stangata sullo scooter rubato, scrive Luca Maurelli sabato 25 luglio 2015 su “Il Secolo D’Italia". Vi hanno rubato lo scooter? Una pessima notizia. Ma potrebbe arrivarvene anche una peggiore: ve lo hanno ritrovato. Nel primo caso ve la fate a piedi, nel secondo caso dovete procedere a passo di portafoglio. Funziona più o meno così: un vigile ti chiama a casa, con una strana voce, quasi un po’ mortificata, e ti annuncia la notizia: «Guardi, abbiamo ritrovato il motorino che le avevano rubato un anno fa…». «Ah, che bello, finalmente. Grazie!». «Sì, però». «Però?». «Lo hanno portato in deposito, sa, ci sono delle spese da pagare…». «Scusi, che spese? Io ho subìto un furto, mica l’ho lasciato io in divieto di sosta, sono stati i ladri!». «Sì, però, il carroattrezzi, sa, il deposito, venga qui e le spiego tutto». Vabbì, venti, trenta, quaranta euro? Il malcapitato, nel dubbio, chiama il deposito per informarsi e apprende la ferale notizia: «Ritirare lo scooter le verrà a costare quasi 100 euro». Possibile? Ma qual è la colpa del derubato: non aver trovato dei ladri gentiluomini che glielo hanno parcheggiato sotto casa col grattino?

Scooter ritrovati, la stangata è per i derubati. I vigili urbani di Roma, categoria tanto bistrattata, in realtà fanno il loro dovere meglio di tanti altri e sono i primi a stupirsi di come un cittadino, già penalizzato da un furto in una città sempre più in mano alla delinquenza, debba anche accollarsi delle spese così gravose, spesso insostenibili, per chi deve rimettere in funzione un mezzo rovinato, fermo da tempo e anche senza assicurazione. Ma chi fissa le tariffe? Il Comune? Le convenzioni? Le ditte che rimuovono e hanno i depositi giudiziari? Marino lo sa che per il semplice trasporto col carro attrezzi di un motorino rubato e ritrovato per strada un romano paga oltre 80 euro, più la custodia nel deposito stesso, per cinque euro al giorno? Il racconto è tratto da una storia vera, documentabile in qualsiasi momento, carte alla mano, e la dice lunga su come nessuno, in Italia, si preoccupi di tutelare chi subisce un danno, anzi, lo tartassi peggio ancora. In questo caso, non parliamo di mezzi sequestrati dai vigili, perché in divieto di sosta o per infrazioni al codice stradale, ma di scooter rubati e lasciati per strada dai ladri e poi rivenuti dalla polizia o dai vigili, nella più assoluta inconsapevolezza del proprietario, che nel frattempo aveva fatto la denuncia e la richiesta di perdita del possesso al Pra, che peraltro costa – un pezzetto di carta precompilato – oltre 80 euro. Una cosina così.

Fatti mandare dalla mamma, a prendere il motorino…Dunque, se i vigili devono liberare un’area – come l’altra sera a Trastevere, per una corsa podistica con Gianni Morandi (“Fatti mandare dalla mamma, a prendere il motorino…”) dove sono stati rimossi 35 motorino, tra rubati e non – chiamano una ditta convenzionata per la rimozione degli scooter per strada. E quel viaggetto di gruppo – quindi non un solo motorino, ma decine di mezzi su uno stesso carro – verso il deposito, all’ignaro derubato finisce per costare quasi quanto lo scooter stesso. Ovviamente c’è l’obbligo del ritiro, anzi, ogni giorno che passa in custodia al cittadino costa cinque euro e dopo tre mesi scatta l’ingiunzione. A proposito: chi vuole può fare rottamare lo scooter, pagando, può anche farlo nello stesso deposito. Ma comunque dopo aver pagato trasporto e custodia. Poi, nel caso l’assicurazione fosse scaduta, c’è il problema di rifare la polizza solo per poterlo trasportare al proprio meccanico e farci dare un’occhiata. Infine, c’è il problema delle contravvenzioni elevate dopo la denuncia di furto, che prima arriveranno e poi, magari, si potranno anche contestare. Nessun illecito, tutto trasparente, tutto alla luce del sole. Ma tutto un po’ troppo costoso, quasi surreale, un castigo divino. Possibile che al danno di un furto, in una grande città come Roma, debba aggiungersi per forza anche la beffa?

Una stangata per riprendersi la macchina rubata e ritrovata. Costa più di una rimozione per divieto: nella migliore delle ipotesi, il proprietario paga almeno cento euro, scrive di Ilaria Carra il 26 agosto 2008 su "La Repubblica. Se ti rubano l'auto o la moto, e vuoi riaverla se viene ritrovata, il conto che paghi è di almeno cento euro, ad andar bene. Se invece parcheggi in tripla fila o sul sagrato del Duomo e la polizia te la rimuove, il carro attrezzi costa 62 euro, tariffa forfait. Danno e beffa, tutto insieme. Gioie e dolori per quei milanesi che, già vittime di un furto, si vedono recapitare un conto più salato di un automobilista indisciplinato. Perché può costare anche 122 euro riappropriarsi dell´automobile se è stata recuperata nel weekend o di notte dal carro attrezzi di uno dei 12 depositi privati di città, dove vengono portati di solito i veicoli di provenienza furtiva. Oltre ai giorni di custodia, da 5,80 a 9 euro al giorno per le quattroruote, e da 3 a 8 per i cinquantini. Vero è che vigili o polizia, quando ritrovano un mezzo rubato, avrebbero l´obbligo di rintracciarne il proprietario. Ma, quando lo fanno, passa sempre qualche giorno prima che l´interessato possa andare a prenderlo. Posto sempre che si riesca a reperire per tempo. Magari è in vacanza. Chissà. E intanto il suo conto sale. E, paradossalmente, diventa più amaro di quello di un indisciplinato a cui hanno rimosso l´auto perché sostava su strisce pedonali, intralciava incroci o semafori, per non dir di peggio. A lui le cose vanno meglio. Oltre ai 62 euro, i depositi comunali - via Messina, Novara, Caldera, per esempio - hanno prezzi nettamente più bassi: 2,80 al giorno per le auto, 1,30 per i motorini in via Gregorovius. A meno che, sfortuna permettendo, la rimozione non avvenga in centro e il mezzo non finisca in via Calderon de la Barca, zona Porta Romana, dove l´alloggio è di 9,50 euro ogni 24 ore. «Stanno lì non più di undici giorni - spiegano dalla centrale operativa dei vigili di piazza Beccaria - altrimenti il conto sarebbe troppo elevato». Un salasso che invece devono sostenere i cittadini già beffati dal furto. Certo, loro non pagano la sanzione pecuniaria che spetta a chi ha violato il codice. Ma in compenso, nei depositi giudiziari - disposti dalla Prefettura - dove finiscono i mezzi rubati, si applica tariffa libera. Chi vuole segue quelle ufficiali in materia di sequestro e fermo amministrativo (dai 50 ai 70 euro per il trasporto moto, dai 70 ai 90 per le auto, con 5 euro a scalare per la custodia). Come fanno, per esempio, in via Amoretti e alla carrozzeria Terni. Prezzi già alti, comunque, per chi non ha commesso alcuna violazione. Peggio va negli altri depositi, che hanno carta bianca. E allora se il ritrovamento avviene in zona Forlanini - perché è la vicinanza geografica che determina la fortuna - viene portato all´Officina Pennestrì, dove recuperare auto e moto non costa mai sotto i cento euro e il ricovero 9. Non cambia molto se il ladro ha mollato la refurtiva in un prato del Giambellino - in via Bisceglie trasporto più dieci giorni di custodia uguale a 100 euro più Iva - o in zona Barona. Da Inga di via Chiesa Rossa, solo il trasporto in depositeria ne costa 100. Unica speranza per il popolo dei derubati con beffa è farsi rimborsare dall´assicurazione, solo per l´auto. Se c´è la clausola carro attrezzi, però. Se non lo si ritira, è il deposito a rimetterci tempo, spazio e denaro. «"Siete in combutta con le forze dell´ordine" - raccontano alcuni custodi - sono frasi che ci sentiamo dire spesso. In realtà noi siamo pieni di auto vecchissime che nessuno viene a riprendersi ma che non possiamo nemmeno demolire». I custodi potrebbero intraprendere vie legali, anche se è raro perché non conviene. La chiarezza giuridica in materia è scarsa. I più romantici di spirito, o di sani principi, invece, se rivogliono quanto sottratto si mettano l´anima in pace perché il conto, alla fine, sarà salato.

Roba Nostra. Report, servizio di Sabrina Giannini andato in onda il 5 novembre 2006. La puntata di oggi vogliamo dedicarla al Ministro della Giustizia Clemente Mastella, e al Ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa. Non c'è nessuna critica, vogliamo solo informarli di fatti di cui probabilmente non sono a conoscenza e ai quali probabilmente porranno rimedio. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). È il 6 ottobre del 1993: vengono sequestrati dalla magistratura italiana 621 milioni di lire da un conto svizzero e trasferiti sul conto corrente della BNL del tribunale di Milano. Primo Greganti, titolare di quel conto, viene accusato di aver ricevuto quei soldi per conto della segreteria nazionale del Pci. Era la tangente pagata dalla Ferruzzi per ottenere gli appalti ENEL, estesa anche alla DC e al PSI. I tre gradi di giudizio lo hanno confermato. Allora perché quei soldi, oggi tradotti in 390 mila euro, si trovano ancora sul conto della banca? Paolo Ielo era il Pubblico Ministero nel processo di primo grado.

SABRINA GIANNINI. E questi sono intoppi burocratici?

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Sono intoppi burocratici guardi, accade che tra il momento in cui si celebra un processo e il momento in cui si giunge ad una sentenza di condanna di primo grado e il momento in cui la sentenza di condanna diventa definitiva passa molto tempo. Io non credo che qui sia individuabile la colpa di tizio non è questo il problema comunque. Il problema è che casi come questo ho paura ce ne siano tanti.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). E il giudice Ielo ne elenca alcuni.

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Ad una sentenza di confisca del 2000 di immobili per ingente valore, soltanto qualche giorno fa gli organi competenti si sono attivati per acquisirla. Dentro fascicoli depositati in archivio, proprio ieri sono stati rinvenuti 3 libretti che contenevano complessivamente circa 23 mila euro scoperti così per caso.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Proprio ieri, ovvero il giorno precedente quest' intervista, sono stati trovati presso l'Archivio generale tre libretti postali giudiziari dal valore complessivo di 23 mila euro. Erano soldi che lo Stato avrebbe potuto incassare dieci anni fa invece per un errore di cancelleria erano stati archiviati. Quei soldi ovviamente sono rimasti nella disponibilità di Poste Italiane a lungo, almeno fino a pochi giorni fa, quando qualcuno se n'è accorto ed ha provveduto a riscuotere. 

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Sentiamo sempre parlare dei costi della giustizia e mai degli incassi, quando invece un sistema giudiziario efficiente potrebbe far entrare nelle casse dello Stato tanti soldi da coprire i costi forse anche di più, nessuno ha mai fatto questi calcoli. Sappiamo che sono miliardi di euro che vanno da quelli sequestrati agli spacciatori a quelli provenienti dai reati finanziari, ai patrimoni immobiliari. Nell'attesa che le sentenze diventino definitive chi gestisce questi soldi e chi li fa fruttare? E dopo, quando devono transitare nelle casse dello stato ci vanno tutti o un po' si perdono per strada? Per cominciare vediamo come funziona il sistema che porta alla scoperta dei patrimoni nascosti provenienti da operazioni illecite. Per esempio le ville del famoso banchiere di Lodi, Giampiero Fiorani. Sabrina Giannini parte dalla Costa Smeralda.

DONNA AL CITOFONO. Chi è? 

SABRINA GIANNINI. Buongiorno, senta vorrei parlare con il proprietario, sono Sabrina Giannini di Rai Tre. 

DONNA AL CITOFONO. Il proprietario? Aspetti un attimo. 

SABRINA GIANNINI. Grazie. 

UOMO AL CITOFONO. Pronto? 

SABRINA GIANNINI. Sì buongiorno, parlo con il signor Fiorani? 

UOMO AL CITOFONO. No Fiorani non c' è la villa è in affitto. 

SABRINA GIANNINI. Ah, in affitto? 

UOMO AL CITOFONO. Si, si. 

SABRINA GIANNINI. Ah mi scusi, lei è l'affittuario?

UOMO AL CITOFONO. No, sono l'autista dell'affittuario.

SABRINA GIANNINI. Senta non è che si potrebbe vedere la villa, anche fuori?

UOMO AL CITOFONO. Chiamo un attimo la signora. 

SABRINA GIANNINI. La ringrazio. 

UOMO AL CITOFONO. Un secondo solo.

SABRINA GIANNINI. Si grazie. In affitto?

SABRINA GIANNINI. Quant'è?

UOMO 1. Sui 50 mila euro, più o meno.

SABRINA GIANNINI. Al mese?

UOMO 1. Sì, un mese, agosto.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). L' anno scorso Villa Alberta non era in affitto. Vi soggiornava il Banchiere Giampiero Fiorani. La dimora si trova a Cala di Volpe, ad un passo da Porto Cervo, nel crocevia strategico tra mondanità e affari. Un mondo che vive due mesi l'anno ma nel lusso più sfrenato. Così Fiorani decise di aprire anche una sede della banca a cinque minuti dalla sua villa. Il Banchiere di Lodi e gli altri concertisti l'estate scorsa era ad un passo dalla scalata della Banca Antonveneta. Fiorani a luglio era quasi certo di diventare uno dei banchieri più potenti d'Italia, ma l'ultimo atto della fallimentare scalata si stava consumando, fra yacht, ville e discoteche. 

SABRINA GIANNINI. Carino questo particolare, ma non funziona la luce.

UOMO 1. Vede qui non funzione niente.

SABRINA GIANNINI. Cioè ma questo qua proprio non funziona? 

UOMO 1. Questa è abbandonata la casa completamente.

SABRINA GIANNINI. Cioè non hanno fatto magari manutenzione estiva?

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Villa Alberta è in stile gallurese. I locatari, avendo pagato 50 mila euro per affittarla il solo mese di agosto, si sarebbero aspettati qualcosa di meglio, ma essendo americani non sanno che il proprietario, negli ultimi mesi ha avuto altro da fare. Costa Azzurra e un'altra villa. Stella Maris è ad un passo da Montecarlo e dall'Italia. Quando nell'estate del 2005 la vicenda dell'Antonveneta è sul punto di esplodere l'inviato del Corriere della Sera, Mario Gerevini, decide di fare un sopralluogo in Francia. 

MARIO GEREVINI - Giornalista "Corriere della Sera". Il primo passo è stato cercare di verificare questa voce. La voce che Fiorani avesse una villa in Costa Azzurra. Trovando un cartello esposto fuori dalla villa che c'erano dei lavori in corso e quindi per legge, per obbligo sul cartello c'era scritto chi era la società che faceva i lavori e chi era il proprietario della villa, a quel punto da lì ho cominciato a costruire la rete di prestanome.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Ovvero chi faceva da schermo al proprietario di fatto Giampiero Fiorani. La villa appartiene all' Immobiliare Liberty. Dalla visura camerale della società i proprietari risultano essere Eraldo Galetti e Silvano Spinelli. Infatti sul contratto di compravendita trovato dal giornalista in Francia si vede la firma di Galetti che ha pagato Stella Maris tre milioni di euro.

MARIO GEREVINI - Giornalista "Corriere della Sera". Quello che si diceva era che quella villa non era stata comprata da Galetti, che era stata comprata da un banchiere di Lodi.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Ed ecco Eraldo Galetti che abbiamo incontrato appena pochi giorni fa in quella che per ora formalmente è ancora casa sua. 

SABRINA GIANNINI. Signor Galetti solo una domanda.

ERALDO GALETTI. No mi dispiace.

SABRINA GIANNINI. Ma veramente solo una domanda e non la importuno più, veramente solo una domanda.

ERALDO GALETTI. No, ho capito ma.

SABRINA GIANNINI. Può rispondere veloce, tanto è risaputo che la villa è di Fiorani e non è la sua, non mi faccia fare il maleducato a me. 

ERALDO GALETTI. Lo faccia, lo faccia pure ma...

SABRINA GIANNINI. Solo una domanda veramente, la vendete? 

ERALDO GALETTI. Scusi le ho già detto che non intendo rispondere. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il giornalista cerca la sede della Liberty, è a Lodi in via Grandi 6, presso lo studio del commercialista Aldino Quartieri che fu anche sindaco della banca e poi dimissionario. Dal commercialista Quartieri, ha sede la Giorni Sereni. La Giorni Sereni possiede Villa Alberta in Sardegna. Lo aveva scoperto un anno fa l'inviato dell'Espresso Vittorio Malagutti, anche in questo caso il Gianpiero è il proprietario occulto.

MARIO GEREVINI - Giornalista "Corriere della Sera". Come se fosse il centro di un grande reticolo di società e di affari immobiliari fatti con tanti prestanome, con i quali Fiorani si divideva gli introiti suoi, quelli leciti e quelli illeciti.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). A fine luglio i giornali pubblicano le prime intercettazioni telefoniche che mettono sotto accusa l'ex Governatore Fazio per i suoi rapporti con Fiorani e il suo ruolo nelle scalate. Durante il primo interrogatorio quello 31 agosto, Fiorani non elenca le due ville tra i suoi patrimoni, in fondo non sono intestate a lui. Se il gioco gli fosse riuscito il patrimonio occulto si sarebbe salvato. In compenso il giorno dopo l'interrogatorio, il primo settembre, davanti a un notaio blinda in un fondo patrimoniale le proprietà di famiglia, il valore del fondo è di 4 milioni di euro. 

MARIO GEREVINI - Giornalista "Corriere della Sera". Si può immaginare perché lo fa, perché ha paura che ovviamente gli sequestrino i beni, d' altra parte l'aveva fatto il genero e la figlia di Cragnotti quando è scoppiato lo scandalo e lo avevano fatto anche alcuni amministratori di Parmalat sempre casualmente subito dopo che era partita l' inchiesta Parmalat. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Dalle intercettazioni telefoniche emerge chi fosse il vero proprietario delle ville. Nell'interrogatorio del 10 ottobre Fiorani comincia ad ammettere che lui in effetti ha qualcosa a che fare con quelle proprietà. L'operazione l'abbiamo fatta insieme a Marino Ferrari dichiara...

DAL TG3 14/12/2005. Dopo l'arresto eseguito ieri dalla Guardia di Finanza di Milano la detenzione a San Vittore, per l'ex numero uno della Banca Popolare Italiana Giampiero Fiorani totale separazione dalle altre due persone finite in carcere per gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sulla scalata Antonveneta.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il 17 dicembre, nel corso dell'interrogatorio di garanzia che si svolge in carcere, Fiorani dichiara oramai senza indugio di essere il proprietario della Giorni Sereni e della Liberty, quindi delle due ville. Ammette anche di avere un serie di conti correnti all'estero, a Montecarlo, Singapore, in Svizzera. In fondo le due ville sono una piccola porzione dell'enorme patrimonio accumulato, ma permetteranno di comprendere il funzionamento dello schema di arricchimento messo in atto dalla ramificata rete. 

MARIO GEREVINI - Giornalista "Corriere della Sera". E che questo è un po' la summa di tutte le operazioni illecite che sono state fatte. Fiorani ha detto: " i tre milioni per comprare la villa li ho ottenuti facendo fare affari, facendo fare plusvalenze a Gnutti sulla compravendita di obbligazioni Kamps. Gnutti ha retrocesso, ha dato a Fiorani 3 milioni, quindi praticamente l'utile era molto più alto.

SABRINA GIANNINI. Gli ha dato la stecca!!!

GEREVINI. Si, si, gli ha dato la stecca e Fiorani si è comprato la villa.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Era lo scambio di informazioni e favori che Fiorani e i suoi amici mettevano in atto per arricchirsi. Gli interessi della banca venivano per secondi. Le indagini hanno rivelato il sistema interno alla Banca: c'era una stretta cerchia di clienti conniventi che se guadagnavano dalla vendita dei titoli di borsa davano una percentuale di quel ricavo, intorno al 60%, a Fiorani, al suo direttore finanziario Boni, e ai loro strettissimi collaboratori. Guadagni che un Amministratore Delegato avrebbe dovuto fare per conto della banca, invece non era così. Inoltre, quando dalla vendita dei titoli c' erano perdite a rimetterci non erano i correntisti privilegiati ma la banca. 

UOMO 2. Si si è finita!

SABRINA GIANNINI. Allora? 

UOMO 2. Mah, staremo a vedere un po'. Tutto da decidere.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). I dipendenti hanno appena terminato un'assemblea perché sono preoccupati che la prospettata fusione con un'altra banca minacci i loro posti di lavoro. Ma la fusione si doveva fare e si è fatta, con la Banca Popolare di Novara e Verona. La ragione per la quale la Popolare Italiana non può stare in piedi da sola sta scritta nella relazione degli ispettori della Banca d'Italia. Il giudizio complessivo sulla Banca è in prevalenza: sfavorevole. Di tutti i profili analizzati non ve n'è uno favorevole. Si legge nel rapporto che sulla capacità della banca di rimanere autonomamente sul mercato pesano una situazione nel complesso non soddisfacente e rilevanti disfunzioni organizzative". 

MILENA GABANELLI IN STUDIO. La data di inizio ispezione è giugno 2005, mentre la banca popolare di Lodi sta scalando Antonveneta gli ispettori avevano già capito che le cose non andavano proprio bene, eppure a metà Luglio Fazio dava l'ok all'operazione. Fiorani si presentava bene, La banca Popolare di Lodi aveva anche un bilancio sociale, non è obbligatorio ma lo compilano tutte le aziende virtuose almeno quelle che vogliono sembrare tali. Questo si riferisce al 2004 e nella presentazione leggiamo: "Il mercato vive di regole, senza l'osservanza delle regole si ingenera involuzione e regressione. Si pensi all'abuso di informazioni riservate e alla concorrenza sleale, ai monopoli, alla corruzione. Tutto ciò si traduce nel mancato rispetto dei diritti della persona. L'esigenza di evitare che la regola del profitto si risolva in utilità strettamente individuali induce alla riscoperta di valori nell'economia. Depreca i comportamenti scorretti e assoluta mancanza di scrupoli verso ignari risparmiatori. "La firma è di Giampiero Fiorani che mentre scriveva queste belle cose ne pensava delle altre. La banca è stata danneggiata e per vedersi riconosciute le circostanze attenuanti in sede di giudizio ha pensato di risarcire la banca, almeno un po'. Per esempio Cedendo le ville, che per questa ragione non sono state sequestrate dalla magistratura. Solo che le ville sono sempre intestate ai presunti prestanome che non stanno con le mani in mano, che le stiano vendendo? 

SABRINA GIANNINI. Era rimasta sempre con la stessa quotazione la villa Alberta, ora è un po' scesa.

AL TELEFONO UN INTERMEDIARIO IMMOBILIARE. Mah, la villa Alberta il prezzo era sulla base di 5. So che questo signore qua ha offerto qualche cosa di meno ma il proprietario non accetta una cifra inferiore. Però, come ho detto, hanno già una trattativa direttamente loro e non so come si sta sviluppando.

SABRINA GIANNINI. Il proprietario chi è, sardo?

AL TELEFONO UN INTERMEDIARIO IMMOBILIARE. No, no, no, il proprietario è un signore credo che sia di Milano. C' ha lo 02 come telefono. O di Milano o in provincia di Milano ecco. 

SABRINA GIANNINI. Ho capito. 

AL TELEFONO UN INTERMEDIARIO IMMOBILIARE. Si chiama dottor Ferrari.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Marino Ferrari, comprò villa Alberta per 3 milioni e mezzo soltanto 2 anni fa. Sarebbe un buon ricavo. Ma non si capisce perché Ferrari si danni tanto a vendere un immobile che Fiorani ha già promesso alla banca? Anche Eraldo Galetti, sorpreso pochi giorni fa nel parco di Stella Maris, è ancora affezionato alla sua proprietà in costa Azzurra, nonostante le intenzioni di Fiorani.

SABRINA GIANNINI. Solo una domanda veramente, la vendete? 

ERALDO GALETTI. Scusi le ho già detto che non intendo rispondere.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Come finirà è tutta da vedere. Si attendono ancora le conclusioni delle indagini e i rinvii a giudizio. Si sa che Fiorani è indagato per associazione a delinquere, aggiotaggio e appropriazione indebita. Dovesse scegliere per il patteggiamento rischierebbe 3 anni e mezzo di carcere, in alternativa può scontare la pena in affidamento ai servizi sociali sempre che l'indulto non gli condoni anche questo. Comunque lui avrebbe scelto anche dove, presso la cooperativa Bergognone di Lodi, scuola d' arte per disabili che, quando era banchiere, aiutò concedendo fidi agevolati. Tutto torna indietro. Nel bene e nel male.

SABRINA GIANNINI. Lei ha un'idea di come secondo Lei, visto che lo conosce, potrebbe essere impiegato, cioè al meglio secondo Lei dove potrebbe stare?

VITTORINO FROSIO - Scuola d'arte Bergognone. E' un uomo di cultura, l'aspetto amministrativo credo che sia in grado di collaborare al massimo. Se poi un domani scopre qualche altro aspetto artistico di recupero, secondo me vabbè, quello che ha fatto nell'ambito del lavoro precedente qua può dare un contributo veramente efficace. Cioè noi abbiamo bisogno anche di segreteria, non so, a livello di sistemare un po' le pratiche.

SABRINA GIANNINI. A livello dice contabile?

VITTORINO FROSIO - Scuola d'arte Bergognone. Si, anche di contabile.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Non c' è dubbio: in contabilità lui era proprio bravo, ma per adesso i conti li fa con la magistratura. Fiorani avrebbe dichiarato la disponibilità di fare rientrare 70 milioni di euro dai conti in svizzera e Singapore. L'inchiesta giudiziaria alla scalata alla banca Antonveneta ha già portato il più consistente sequestro di denaro effettuato dalla magistratura. Una volta tanto la stalla è stata chiusa prima che scappassero i buoi. 

VIRGILIO POMPONI- C. te Nucleo Polizia Tributaria Milano. Dunque al momento abbiamo sequestrato all' incirca 380 milioni di euro. In buona parte derivanti da quello che erano i guadagni che attraverso la movimentazione, attraverso l'acquisto delle cessioni delle azioni erano stati conseguiti. Abbiamo però cifre nell'ordine di altri 300 milioni di euro che sono al momento congelati in conti esteri in prevalenza, Svizzera e Montecarlo nei quali le procedure sono decisamente più lunghe e però ci sono buone speranze poi di poterli far acquisire al procedimento.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il sequestro si estende alle plusvalenze, ai guadagni che i furbetti avevano intanto accumulato manovrando le azioni. Somme notevoli 330 milioni di euro oggi messe sotto chiave dalla magistratura. Vediamo dove si trovano. I 90 milioni delle plusvalenze di Fiorani sono sotto sequestro presso la Banca Popolare Italiana di Lodi. Altri 15 conti correnti sono bloccati nelle varie banche di Brescia dove operava la cordata di Emilio Gnutti. Il resto, più di 200 milioni di euro, sono qui: dentro il palazzo di giustizia, presso la filiale della BNL. In questo elenco si leggono i conti correnti accesi per fare affluire le somme sequestrate. Ogni importo fa riferimento al procedimento penale collegato. Si possono vedere i 39 milioni di euro sequestrati alle società controllate da Emilio Gnutti. Ci sono quelli sequestrati ai fratelli bresciani, i Lonati, quelli delle società che appartengono all'immobiliarista Danilo Coppola. Infine le plusvalenze della Magiste di Stefano Ricucci. Viste le testimonianze e le confessioni, sono frutto di operazioni illecite ed è quindi probabile che resteranno allo Stato. Bisognerà però attendere la fine dei processi prima che vi sia una definitiva confisca e quindi il passaggio dalla banca allo Stato. Passeranno anni, e la Banca farà i suoi affari con tutti quei soldi. Li presterà e ci guadagnerà. 

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Si dice che quando sono stati depositati i 200 milioni di euro un cancelliere della procura sia andato dal direttore della BNL per trattare un mezzo punto in più d'interesse e che il direttore lo abbia concesso temendo la concorrenza con altre banche intanto quei soldi rimarranno per anni nella loro disponibilità visto che i processi vanno per le lunghe. Ad un certo punto però arriveranno le sentenze e con ogni probabilità dovranno passare nelle casse dello Stato. Ma allo Stato quei soldi interessano? Parlavamo beni e di denaro di provenienza illecita, che in attesa di giudizio qualcuno gestisce. Nel caso di assegni o bonifici vengono depositati in banca, nel caso di contante, in posta su un libretto giudiziario intestato al procedimento. Vediamo nella pratica il percorso di una tangente, dalle tasche del corrotto a quelle dello stato in mezzo una burocrazia senza tempo. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Gli investigatori stanno intercettando due persone sospette. C'è in corso un tentativo di corruzione. 

INTERCETTAZIONE TELEFONATA 

UOMO 4. Pronto??

UOMO 5. Ciao sono io.

UOMO 4. Allora...

UOMO 5. Allora sono uscito dalla banca, tutto a posto!

UOMO 4. Dove ci dobbiamo vedere?

UOMO 5. A Lambrate parti subito che ho i minuti contati...

UOMO 4. A Lambrate? Tra 10 minuti sono lì, dai.

UOMO 5. Va bene, ciao.

UOMO 4. Ciao.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Poco dopo i due si incontrano alla stazione di Lambrate, Milano, ignari di essere stati intercettati e pedinati dagli uomini della polizia giudiziaria. La busta passa dalle mani di un uomo a quelle di un impiegato dell'agenzia delle entrate di Milano che, in cambio di una tangente, ha promesso di cancellare la pendenza fiscale di una azienda, un debito di 100 mila euro nei confronti dell'erario.

ROSOLINO D'AGOSTINO - guardia di finanza sezione p.g.- Milano. I due se ne vanno via insieme ma la busta è passata di mano. A quel punto noi siamo intervenuti nella flagranza di reato arrestando le 2 persone e sequestrando la relativa somma di denaro, "la mazzetta" che in questo caso era di 10 mila euro. Il magistrato ha disposto che il denaro venga depositato sul libretto di deposito giudiziario in fruttifero presso le poste. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Che fine faranno questi soldi? E soprattutto: per quanti anni resteranno congelati, inutilizzabili? La tangente viene depositata nell'ufficio postale che si trova all'interno del palazzo di giustizia di Milano. In ogni città, Poste Italiane ha almeno un ufficio dedicato all' apertura dei libretti giudiziari. In caso di condanna definitiva, i soldi congelati diventano nostri dello stato, stato che avrebbe tutto l'interesse ad intascare denaro il più presto possibile piuttosto che lasciarli alle poste che ricordiamolo da tre anni sono in mano ai privati, invece. Pochi metri separano l'ufficio postale dall'ufficio depositi giudiziari. I fascicoli con la scritta confisca sono pronti per essere incassati per passare dalle tasche della posta alle nostre. Sembrerebbe tutto semplice. 

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. E abbiamo un po' di arretrato, un bel po' di arretrato da smaltire.

SABRINA GIANNINI. Per esempio di quali anni? A sua memoria qual è quello più...

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Allora i depositi giudiziari più vecchi potrebbero risalire a più di 10 anni fa.

SABRINA GIANNINI. Senta fa abbastanza impressione vedere che tutti questi soldi sono già di fatto dello Stato.

VINCENZO DE PEPPO- Capo ufficio depositi giudiziari. A dare una stima& comunque notevole

SABRINA GIANNINI. Milioni?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Qui parliamo di euro?

SABRINA GIANNINI. Milioni di euro.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Beh, penso di sì.

SABRINA GIANNINI. Lei mi diceva che se dovessimo sommare tutti i tribunali si arriverebbe a una manovra finanziaria.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Beh sì, si può anche dire così però...

SABRINA GIANNINI. Una manovrina dai...

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Una manovrina perché sicuramente nei grossi tribunali penso che la giacenza di arretrato sia uguale. Se non c'è sono contento.

SABRINA GIANNINI. Innanzitutto quanti sono i libretti giudiziari?

MATTEO DEL FANTE - Cassa depositi e prestiti. I libretti postali giudiziari sul territorio nazionale sono circa 680 mila ed hanno una giacenza media di circa 2500 euro per libretto giudiziario e quindi il totale dei libretti sul territorio è di un miliardo e 700 milioni di euro.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Abbiamo capito bene: quasi due miliardi di euro depositati su libretti giudiziari. Visti gli arretrati siamo legittimati a temere che una buona parte di quei soldi sia in realtà già pronta per essere riscossa. 

SABRINA GIANNINI. Cioè non è possibile neanche quantificare quanti soldi possono...

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Quantificare gli importi significa guardare il libretto, il deposito giudiziario uno per uno. Ho riguardato uno per uno quasi tutti i vari depositi giacenti e ho tolto quelli di importo più alto e li ho già eliminati quindi ho fatto questa prima selezione.

SABRINA GIANNINI. E dove sono?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Son già andati allo Stato!

SABRINA GIANNINI. Cioè entra e esci da questo ufficio e su e vai in posta, cioè veramente ma non si può fare al computer sta roba?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Si, si può fare al computer se noi siamo collegati con il computer centrale delle poste.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Questo ufficio non può chiudere la pratica e non può riscuotere finché non conosce l'ammontare degli interessi che si sono accumulati nel tempo quindi deve farne richiesta per iscritto alla posta, ogni volta, fascicolo per fascicolo, quando invece potrebbe visualizzare direttamente da un computer collegato alla banca dati delle poste. Invece è una girandola di bolli e richieste, firme e controfirme, tempi e eterni.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Ancora un altro sportello, prospetto che si riferisce ai reati di droga, e quindi lei può vedere nel 2005 quanto abbiamo trasferito.

SABRINA GIANNINI. 1 milione ottocento& cioè quasi due milioni di euro.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Sì, per quello che noi abbiamo potuto lavorare.

SABRINA GIANNINI. Immaginiamo siete in tre qua?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Sì, da poco in tre.

SABRINA GIANNINI. Eravate in due, era solo, dica che era solo.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. No, no era un periodo che ero da solo poi ho avuto un altro operatore a part time, perché questo è un altro problema.

SALVATORE BARONE - Dirigente capo. Dalle 14 in avanti bisognerebbe retribuire il personale con lo straordinario, con fondi che riguardano lo straordinario è da parecchi anni che questo straordinario viene ridotto.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Un ufficio come questo in un'azienda privata sarebbe il motore economico e quindi gestito con efficienza. Nell' amministrazione pubblica evidentemente non interessa incassare denaro già pronto per essere riscosso. Ovviamente Cassa depositi e prestiti per il 30% in mano alle banche private, quei soldi li usa per le proprie operazioni. Paga l'1% di interessi al Ministero delle finanze, che quando ha bisogno di soldi ovviamente, li chiede a Cassa depositi e prestiti pagando molto più di quell'1%. Ma non sarebbe molto più conveniente evitare tanti giri?

ENRICO DE NICOLA - Procuratore capo di Bologna. C'era un periodo in cui la giustizia è stata sacrificata dal punto di vista delle spese e della gestione proprio per mancanza di fondi e di possibilità di andare avanti.

SABRINA GIANNINI. Mi può fare un esempio?

ENRICO DE NICOLA - Procuratore capo di Bologna. Mah, io Le faccio l'esempio che adesso attualmente per i multipagamenti i consulenti non vengono pagati. Vengono pagati soltanto alcuni, ed in parte, i traduttori. E' gente che vive con questa attività. I VPO c'è stato il rischio che non fossero pagati.

SABRINA GIANNINI. Cosa sono i VPO?

ENRICO DE NICOLA - Procuratore capo di Bologna. I Vice Procuratori Onorari che sono i giudici onorari che esplicano funzioni di P.M e i magistrati onorari che esplicano funzioni di P.M.

MARCELLO MADDALENA - Procuratore Capo di Torino. Ma mancano pure i soldi per le fotocopiatrici, mancano i soldi per i toner, mancano i soldi non parliamone per l'acquisto di codici, mancano i soldi per la carta, mancano i soldi per le spese di benzina e manutenzione, insomma è diventata una situazione critica sotto questo profilo.

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Non avendo soldi ed essendo pieni di debiti perché in realtà il Ministero della giustizia è questo, abbiamo anche degli enormi problemi a prendere iniziative perché per far certe iniziative bisogna investire, per investire avresti bisogno di fondi che dall'atra parte oggi non ci sono. Questa è la grandissima contraddizione in cui stiamo vivendo al giorno d'oggi. 

SABRINA GIANNINI. Quindi avete debiti di quanto?

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. 250 milioni di euro. Approssimativi questi alla data di fine luglio del 2006. Sono sicuramente aumentati, ovviamente. 

SABRINA GIANNINI. Senta ma 250 milioni sono proprio quelli che sono stati sequestrati provvisoriamente adesso però qualora venissero confiscati quelli di Antonveneta vi servirebbero giusti giusti? 

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Se arrivassero sicuramente, il problema è che non arriveranno a noi!

SABRINA GIANNINI. Si ma lei è in tempo per cambiare la situazione in modo che sia il Ministero della Giustizia introiettato...

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Bisogna cambiar la legge su questo comunque...

SABRINA GIANNINI. Ah bisogna cambiar la legge, addirittura la legge!

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. E si certo!

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Non sarà così complicato cambiare la legge, ma per fare che cosa? Forse quello che propone il sostituto procuratore della repubblica di Milano Francesco Greco durante un convegno a Trento Il 3 giugno scorso, c'è in corso il festival dell'economia si parla di etica e responsabilità dell'impresa, di tutte quelle belle cose con cui si riempiono i convegni e poi restano lì, Francesco Greco esce dal seminato, ed elenca tutti gli ostacoli che rallentano gli ingranaggi della giustizia. Siccome la musica è sempre quella "non ci sono soldi", si chiede: perché lo stato esita tanto a recuperare il denaro congelato nelle procure e depositato sui conti della Bnl o delle Poste. Sono Milioni, forse miliardi di euro, nessuno sa quanti lo Stato non lo sa, perché le procure non sono collegate ad una banca dati centrale. E si spinge oltre e dice " Perché lasciare che banche e le poste continuino a fare affari quando si potrebbe pensare di istituire un'agenzia o un fondo che gestisca queste ricchezze e le utilizzi sia per far funzionare meglio la macchina della giustizia, sia per recuperare risorse per lo Stato. A chiedere questo sono i magistrati che hanno compiuto il primo sequestro che si ricordi di una banca, e oggi queste stesse persone rischiano di vedersi togliere il computer portatile in dotazione. Forse è ora di cambiare la legge, e anche le teste, perché una giustizia più' efficiente serve a tutti. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Non si riescono a recuperare soldi che da anni aspettano soltanto di essere incassati in compenso i soldi per le spese anticipate si devono tirare fuori. Ad esempio per tutte le auto sotto sequestro la Procura di Bologna quanto anticipa? 

DONNA PROCURA DI BOLOGNA. Quello che noi abbiamo speso, la Procura di Bologna ha speso in tutto l'anno 2005 per remunerare queste custodie prevalentemente di automezzi in sequestro...

SABRINA GIANNINI. 436 mila euro. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Le auto sotto sequestro in Italia sono milioni. Qui siamo nel deposito di Nichelino vicino Torino. 

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. Cosa facciamo, ruggine, senza targa, bruciate, senza numero di telaio, prendiamo posto. Ce ne sono 5000 tutte bruciate quasi che fanno schifo, da vendere quando erano buone non le hanno mai vendute. 

SABRINA GIANNINI. Perché non le hanno mai vendute?

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. Mai vendute perché non trovano proprietario, non trovano niente le potevano anche quando erano buone. Lo stato non ha mai fatto niente. Io è da sei mesi che non prendo i soldi, da sei mesi!

SABRINA GIANNINI. Ma dal datore di lavoro? 

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. Dal datore di lavoro disperato e quello che è successo è successo. Io non ho mai chiesto i soldi, non sono andato mai perché sapevo che non ce ne avevano.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). E' successo che Rocco Agostino, titolare e custode di questo deposito giudiziario, preso dalla paura di non farcela a tirare avanti, avendo crediti per 200 mila euro con le autorità giudiziarie lunedì 23 ottobre si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia di fronte al palazzo di giustizia di Torino. 

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. Qui ci sono le macchine con le ruote di scorta ancora, batterie eccetera, quando viene il proprietario cosa ci dice, glielo ritorno indietro? Casomai ci dice "tienitela", cosa ci dice che non ti dà il foglio di restituzione, questa è tutta colpa della Magistratura perché non gli era tornata prima. Questo, andiamo avanti così che andiamo bene. Una 126 segnalata per rottamazione, ma mai dato l'avvio per la rottamazione, mai. E ce l'abbiamo qua. 

SABRINA GIANNINI. Da quanto tempo sta qua?

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. E sarà 20 anni, 30 anni che è qua. Qui coi sono 500 che quando erano nuove erano buone da vendere, mai vendute. Le chiamano i rottami di Nichelino.

SABRINA GIANNINI. Che cosa?

FRANCESCO DI MASI - dipendente di Rocco Agostino. Le 500. Quando erano nuove erano una delizia, le signorine della strada. I motori della prefettura, sequestri per macchine rubate che hanno trovato in demolizione e portate a Nichelino, li teniamo qua, perché non li vendono, li vendono all'asta si prendono i soldi e a noi ci pagano. Questo è un motore del Daily, rubato ma mai restituito. Di chi sono? Le macchine senza targa non trovano il proprietario e rimangono qua, perché devono rimanere qua e non la ragniamo Devono rimanere qua? Le accatastiamo poi va e dici "C'ho una 164 me la ritrovi?" E dopo dieci anni viene a trovarti la 164? Io non tela trovo dico "Vieni te!" o viene il giudice che la ordina. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). L'operazione Virtual Trader ha smantellato l'organizzazione ramificata che, attraverso l'importazione parallela di auto, evadeva sistematicamente l'IVA utilizzando il sistema delle fatturazioni false. Viene accertato un danno all'erario di 120 milioni di euro. Il numero delle auto sequestrate è da record: 121 e di grossa cilindrata, valore complessivo di quasi 2 milioni di euro...

MAURIZIO GUARINO - C. te Nucleo Provinciale - Avellino. Sono tutte macchine nuove queste da immatricolare, acquistate sul mercato internazionale quindi è un valore consistente che purtroppo attualmente...

SABRINA GIANNINI. E' un po' marcito?

MAURIZIO GUARINO - C. te Nucleo Provinciale - Avellino. C' è il rischio che possono invecchiare e perdere di valore. Il processo potrebbe durare anche 2, 3 o 4 anni e fra 4 anni queste macchine avranno un valore commerciale minimo ovviamente.

SABRINA GIANNINI. Quindi diciamo...

MAURIZIO GUARINO - C. te Nucleo Provinciale - Avellino. Una perdita secca!

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Due milioni di euro che andranno in fumo. Da qualunque parte si veda la faccenda è proprio assurda: se la vediamo dalla parte degli imputati, in caso di assoluzione, non avranno più il bene del valore originario. Se la vediamo dalla parte dello Stato oltre al danno c'è la beffa. Il danno innanzitutto è che per arrivare al sequestro preventivo si sono sostenuti dei costi. Poi c'è la beffa: la custodia dei mezzi avrà un costo. 

SABRINA GIANNINI. Volevo sapere alla fine cosa ci costava al giorno ognuna di queste macchine.

CUSTODE AUTO DONNA. Allora, c'è un costo giornaliero che orientativamente è 1 euro al giorno più il recupero che sono intorno ai 35 euro.

SABRINA GIANNINI. Cioè il recupero quando siete andati a prenderle col carroattrezzi?

CUSTODE AUTO DONNA. Si, si, dipende, può durare tantissimo, 6, 7 anni dipende.

SABRINA GIANNINI. Ecco, vi è capitato di tenere per anni macchine che poi da nuove sono diventate vecchie e le avete rottamate, succede?

CUSTODE AUTO DONNA. Si.

SABRINA GIANNINI. E quel costo di rottamazione su chi grava?

CUSTODE AUTO DONNA. Sempre l'erario.

DONNA 2. La prima macchina che è entrata qua è del 1 Gennaio '86. Non abbiamo ancora percepito niente. Totale riscosso: niente!

SABRINA GIANNINI. Chi doveva dare i soldi qua?

DONNA 2. Procura della Repubblica S. Angelo dei Lombardi. L'unica dell'86 abbiamo avuto 1859 euro di acconto.

SABRINA GIANNINI. Questa macchina cioè vent'anni che l'avete fisicamente o l'avete rottamata?

DONNA 2. No, no, no, è ancora qui, rottamata è un altro programma di tutte le auto rottamate.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Intanto il programma è questo: un euro al giorno per vent'anni fanno 7mila e 500 euro. Alle quali vanno aggiunte le spese di rottamazione. E c'è una novità: le tariffe per la custodia giornaliera sono appena aumentate. Come mai non c'è una norma che consenta di rivendere le auto sequestrate nell'ambito dei lunghi procedimenti penali? I soldi andrebbero su un controcorrente per tornare al proprietario qualora venisse assolto oppure allo stato in caso di condanna, sarebbe troppo semplice però ogni tanto qualcuno che prende l'iniziativa c'è. 

DA TV7 DEL 15/10/2004. Per la prima volta usando il web, la procura di Milano ha messo sul proprio un avviso di vendita dei beni sequestrati a Borra, catalogando e fotografando più di 3000 pezzi. I soldi recuperati torneranno all'erario. Per acquistare basta inviare un fax agli uffici della Procura con la propria proposta, vince chi offre di più. Un passaparola che partito dalla rete, ha portato intenditori e professionisti, ma soprattutto tanti curiosi provenienti da ogni parte d'Italia qui a Montebello della Battaglia, per visionare l'unico di tre capannoni che è stato aperto al pubblico, obiettivo: la caccia all'affare. 

ROBERTO GALULLO - Responsabile Ufficio Registro Spese. Qui c'erano tutti gli aerei messi a spina di pesce.

SABRINA GIANNINI. Ma non si rovinavano così all'aperto? 

ROBERTO GALULLO - Responsabile Ufficio Registro Spese. Per questo sono stati venduti. Il decreto di vendita per la reperibilità dei beni era proprio motivato da questo.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Secondo l'accusa i fratelli Borra, fondatori e proprietari della storica radio milanese One o One, acquistavano aerei militari, auto d'epoca, missili e oggetti d'ogni sorta riciclando i 35 milioni di euro che la commercialista Carmen Gocini, fidanzata con uno dei Borra, aveva sottratto al tribunale fallimentare. 

ROBERTO GALULLO - Responsabile Ufficio Registro Spese. Se lei va sul computer e vede 5952 esce questa moto di tre anni fa. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Per la vendita dei beni è stato creato ad hoc un sito internet. I sostituti procuratori Taddei Targetti e Perrotti, con l'obiettivo di raccogliere più soldi possibili, avevano escluso la soluzione di una vendita in blocco dei beni a un unico compratore. La pratica insolita è stata gestita dal cancelliere Roberto Galullo, che per due anni ha fatto la spola dal tribunale di giustizia ai capannoni di Montebello della battaglia in provincia di Pavia, occupandosi dei contratti e di vendere tutto, anche l'impossibile.

ROBERTO GALULLO - Responsabile Ufficio Registro Spese. Una cosa del genere io l'ho venduta a 13 mila e 100 euro.

SABRINA GIANNINI. Una roba così?

ROBERTO GALULLO - Responsabile Ufficio Registro Spese. Sì

SABRINA GIANNINI. Beh, complimenti.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Tutto esaurito. La vendita on line sospesa e si tirano le somme. Ovvero 3 milioni e 300 mila euro, che sono stati depositati in banca... Angelo e Caterino Borra e la Gocini sono in carcere in regime di custodia preventiva da tre anni, e proprio questa settimana iniziano a Milano le udienze del secondo troncone del processo... resta una curiosità: come ha potuto la curatrice rubare indisturbata per anni al tribunale fallimentare senza che nessuno si accorgesse dell'irregolarità? Le cronache testimoniano il poco interesse esistente sui tanti soldi che ruotano intorno all'amministrazione giudiziaria. 

DAL TG1 DEL 10/10/2002. Gestiva tutti i fondi della Procura di Torre Annunziata, dalle spese per le indagini alle perizie degli esperti fino al materiale tecnologico, da venerdì è irreperibile. Su di lui il sospetto che nel corso di alcuni anni si sia impossessato di ben 27 miliardi delle vecchie lire, quasi 14 milioni di euro.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Le grandi aziende private hanno un ufficio per il controllo interno sul personale, si chiama "audit", nella pubblica amministrazione questo ufficio ce l'ha solamente l'agenzia delle entrate. L'arresto dell'impiegato dell'agenzia delle entrate di Milano è stato possibile grazie a una segnalazione partita da questo ufficio. 

LUIGI MAGISTRO - Direttore Audit Agenzie delle entrate. La normativa vigente imporrebbe impostare le attività di controllo interno sulla falsa riga della revisione aziendale.

SABRINA GIANNINI. Tutto anche per esempio l'amministrazione giudiziaria dovrebbe farlo?

LUIGI MAGISTRO - Direttore Audit Agenzie delle entrate. La legge parla di tutta la Pubblica Amministrazione, quindi tutto ciò che ricade nell'ambito della pubblica amministrazione.

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Dunque la legge impone alla pubblica amministrazione di dotarsi di un sistema di controllo sul personale che maneggia grandi somme, ma non viene applicata, e questo vuol dire una cosa sola: non c'è interesse per il denaro pubblico. Per garantire alla giustizia l'esercizio delle sue funzioni occorrono mezzi e investimenti. Perché un'indagine richiede tempo e costa, costano le perizie, i consulenti, le intercettazioni. Queste spese le anticipate tutte Stato e quando la sentenza è definitiva, le paga il condannato. E se non lo fa& che problema c'è.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Le intercettazioni sono fondamentali in un paese come il nostro ad alto tasso di criminalità comune, organizzata ed economica. Proviamo a fare un bilancio tra costi e ricavi dell'inchiesta Antonveneta.

VIRGILIO POMPONI - C. te Nucleo Tributario Milano. Praticamente le intercettazioni sono state fondamentali, in questo bisogna dirlo.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il grosso del lavoro di sequestro e verifica documenti è stato fatto da tre sezioni della GDF& il nucleo di polizia tributaria, valutaria, e giudiziaria. 

VIRGILIO POMPONI - C. te Nucleo Polizia Tributaria Milano. Alla fine abbiamo quantificato in quasi 14 mila telefonate, quelle che nel corso del mese erano state registrate. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). 28 giorni di intercettazioni, 15 numeri messi sotto controllo per una spesa totale che si aggira intorno ai 50 mila euro. Aggiungendo altre voci si arriva più o meno a 100 mila euro di spese. 

PAOLO IELO- Magistrato Tribunale di Milano. Gli Uffici di Procura che normalmente svolgono attività di intercettazione non possono acquistare i macchinari per le intercettazione, quelli che servono. Sono costretti ad avvalersi d'imprese esterne...

SABRINA GIANNINI. Carissime per altro! 

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Per quelle che mi è stato rappresentato, con quello che uno paga sei mesi per avvalersi di un'impresa esterna, si compra i macchinari. 

SABRINA GIANNINI. Razionalizzazione zero proprio a questo punto.

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Non sta a me dirlo, io mi limito soltanto a cogliere alcuni aspetti che sinceramente mi sembrano paradossali, ai limiti dell'autolesionismo. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Cento mila euro di spesa hanno fruttato un sequestro di 680 milioni di euro, di cui 380 già in Italia, ne valeva la pena! Purtroppo non è sempre così positivo il bilancio tar le entrate e le uscite. Le spese sono anticipate dalle Procure attraverso gli uffici ex modello 12, le fatture inserite nel fascicolo giudiziario, in caso di condanna il giudice dispone che il condannato paghi, questo in teoria... L'ufficio recupero crediti ha due missioni: recuperare dal condannato le spese anticipate dallo stato e le pene pecuniarie. 

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Io ho trovato dei dati che derivavano da valutazioni fatte all'interno di questo ministero gli scorsi anni che davano questa quota del recupero del 5/10% rispetto alle spese processuali che erano dati i presuntivi. 

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Perché bisogna tener presente che per definizione una buona fetta oserei dire il 50% dei nostri debitori erariali sono per definizione irreperibili purtroppo quindi...

SABRINA GIANNINI. Infatti è perché sono extra comunitari, è per questo?

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. In molti casi sono extra comunitari, sì, naturalmente si tratta di condanne nei confronti di cittadini extra comunitari, senza fissa dimora in Italia e quindi va da se che il recupero della pena pecuniaria e delle spese di giustizia...

SABRINA GIANNINI. Rimangono sulle nostre spalle.

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. è impossibilitato.

SABRINA GIANNINI. Gliele paghiamo noi diciamolo...

SABRINA GIANNINI (fuori campo). A dire il vero paghiamo le spese agli irreperibili, ma anche ai reperibili visto che nove condannati su dieci non pagano la loro pene in denaro e quindi gliele paghiamo tutte noi di tasca nostra e non stiamo parlando di 2 lire. 

CLAUDIO CASTELLI- Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Basta calcolare, qua stiamo parlando di milioni di euro e stiamo parlando di quella che è un'evasione, perché quella di cui stiamo parlando è un'evasione, di milioni di euro.

SABRINA GIANNINI. Cioè Lei intende, mi sta parlando delle persone che non pagano le spese di giustizia e non pagano le sanzioni.

CLAUDIO CASTELLI- Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Certo! Certo. Adesso quella è un'evasione. Un'evasione tra l'altro che deriva da regolari condanne che sono passate in giudicato.

SABRINA GIANNINI. E quindi poi crede nella situazione paradossale che paghiamo noi le spese...

CLAUDIO CASTELLI- Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Certo! No, non solo, ma un altro elemento che va sottolineato che tutto ciò è profondamente diseducativo perché il fatto che tu hai una sanzione che poi non viene espiata, anche il bene pecuniario, è totalmente diseducativo a livello generale e con ciò abbiamo un ulteriore elemento di danno per tutta l'amministrazione e per la società.

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Questi sono i vecchi registri della Pretura.

SABRINA GIANNINI. E qui cosa ci sono, proprio i nomi e i cognomi...

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Sono esattamente ogni registro, esattamente, ogni registro è una partita di credito, è una partita di credito riferita...

SABRINA GIANNINI. Senta qui: spese di giustizia e multe. Ma questa persona aveva pagato già? Oppure sai qua non aveva ancora pagato? 

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. No! Questa persona ancora non ha pagato.

SABRINA GIANNINI. Quindi doveva tirare fuori quasi 4 milioni di euro questo tra spese e multa?

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Esattamente! Esattamente. Adesso applicando l'indulto questa partita di credito che era di vecchie 3 milioni e 95 mila lire...

SABRINA GIANNINI. Quindi 2 mila euro?

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. &Con buona presunzione i 3 milioni saranno suscettibili di applicazione d'indulto e l'erario potrà recuperare 95 mila lire. 

SABRINA GIANNINI. Tutto questo dal '98. Senta, verrebbe da dire, se ci fossimo mossi prima per recuperarle, questo signore l'indulto non avrebbe...

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Verrebbe da dire se avessimo avuto risorse consistenti ed appropriate per svolgere questo compito sicuramente di non semplice esecuzione.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). L'indulto quindi ha cancellato milioni di euro di pene pecuniarie inclusi tutti gli arretrati che invece lo Stato avrebbe dovuto essere in grado di recuperare. 

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Questa è sicuramente una valutazione corretta perché se l'ufficio avesse avuto la possibilità di mettere in moto prima i suoi meccanismi di recupero delle pene pecuniarie e delle spese di giustizia molto probabilmente determinate somme potevano essere recuperate prima della legge sul condono, sicuramente. 

SABRINA GIANNINI. Viene qua per l'indulto? Viene qua per l'indulto Lei?

DONNA 1. Si però...

SABRINA GIANNINI. Quindi la signora scusi, se ha 40 mila euro gli verranno tolte solo 10 mila. E' così?

UOMO ALLO SPORTELLO. Esattamente!

SABRINA GIANNINI. Per esempio questa signora sta sicuramente cercando di sapere se deve pagare oppure...

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Sicuramente. Noi dovremo comunicarle che va applicato l'indulto e quindi non doveva pagare e aveva ricevuto il suo cadeaux.

SABRINA GIANNINI. Vedo che c'è un affollamento proprio.

RICCARDO GERINA - Capo Ufficio recupero crediti. Un affollamento è esattamente un riflesso di quello che Le dicevo circa l'impatto che l'indulto ha avuto anche sulle pene pecuniarie e naturalmente le persone hanno saputo dagli organi di informazione, hanno saputo bene, che esiste questa legge sull'indulto ed hanno subito messo a fuoco che non è una legge mirata solo sulle pene detentive ma anche sulle pene pecuniarie. Lo hanno messo a fuoco benissimo, molto efficacemente. Noi facciamo sempre una valutazione e non casualmente la statua della giustizia ci volge le spalle.

MILENA GABANELLI IN STUDIO. La legge sull'indulto prevede uno sconto di 3 anni sulle pene e uno sconto di 10.000 euro invece sulle multe. E questo vale per tutte le pratiche fino a maggio 2006. Sono belle cifre, che avrebbero dovuto essere da anni nelle casse dello stato e che invece sono andate in cavalleria. Ma anche qui nessuno sa quanti soldi sono andati perduti. Questo perché sono in 4 gatti a spulciare dentro migliaia di faldoni, senza nessun incentivo e senza un computer dove guardare chi ha pagato e chi no, come succedeva negli anni 50. E oggi sempre grazie alla legge sull'indulto questi 4 gatti anziché passare il tempo a recuperare denaro sono obbligati a mandare delle lettere nelle quali si dice "caro signore lei non ci deve più nulla oppure le facciamo uno sconto di 10.000 euro". A questo punto ci aspettiamo dal Ministro della Giustizia e dal Ministro dell'Economia una qualche iniziativa perché i soldi ci sono, basta saperli recuperare. E adesso invece vediamo i beni confiscati alla criminalità organizzata, sono 7000 fra case, aziende, terreni, alberghi e cominciamo con le ville del Tesoriere della banda della Magliana. 

DAL TG1 DEL 03/10/1995. "Stai zitta! Deve andare via, ma sta zitta, gira sta telecamera o t'ammazzo, vada via!" 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Enrico Nicoletti, il tesoriere della banda della Magliana, riciclava il denaro acquistando immobili di pregio. 

DAL TG1 DEL 03/10/1995. Le immagini che stiamo vedendo si riferiscono allo scorso trenta agosto quando la finanza fece irruzione nelle tre ville nelle quali Nicoletti si stava per trasferire.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Ecco 11 anni dopo la villa sul Viale di Porta Ardeatina, insieme a tante altre proprietà confiscate definitivamente a Nicoletti oggi appartiene al comune di Roma... e agli appassionati di jazz.

DONNA 3. E' un ottima conquista alla civiltà riprenderselo, voglio dire l'edificio, non il malavitoso che forse sarà morto o sarà detenuto.

DONNA 4. Però è una bella idea!

DONNA 3. Che queste persone possono purtroppo avere a disposizione queste bellezze, non mi meraviglia purtroppo. Sono sorpresa che siamo riusciti ottenere diciamo un recupero alla collettività. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Anche questa era la casa del jazz, prima che diventasse proprietà di un mafioso...

PIERO LI DONNI. Ora questa villa fu costruita come tante ville in questa zona nel 1730 dai nobili spagnoli, poi negli anni passò a tutta una serie di altre famiglie, l'ultima fu i Naselli che la diedero in gestioni negli anni settanta ad una scuola di jazz che si chiamava Rango Jain art. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). L'ultimo proprietario è stato Domenico Caravello. Fino a quando, nel 2001, la villa gli è stata confiscata dalla magistratura. Che da tre anni è del comune. 

PIERO LI DONNI. La villa senza catenaccio con il Comune colpevole di far rubare i suoi beni artistici cioè le maioliche del settecento e gli affreschi, dopo che è stata sollevata la questioni sui telegiornali, dopo che è scoppiata una piccola polemica sui giornali e quindi hanno assegnato in due giorni la villa...

SABRINA GIANNINI (fuori campo). In altre parole il comune si è liberato in pochi giorni dell'ingombrante villa affidandola a due fondazioni intitolate alla memoria di Gaetano Costa e Cesare Terranova, magistrati vittime della mafia. E al Centro di documentazione intitolato a un'altra vittima della mafia: Giuseppe Impastato& Associazioni che ovviamente non hanno I fondi per ristrutturarla. Brancaccio è il quartiere di Palermo dove è stato assassinato don Puglisi, due istituti superiori si trovano in un bene confiscato a Gianni Ienna, ma l'edificio era nato per ospitare una residenza per anziani. Quindi non sorprende che non ci siano gli spazi adeguati per le lezioni di educazione fisica. 

SABRINA GIANNINI. Quindi il responsabile della Provincia per quanto riguarda le scuole è mai venuto qua a vedere? Cioè sa che questa è la situazione? 

LEONARDO SAGUTO - Preside Liceo Scientifico "Basile". Sì sì, sanno e...

SABRINA GIANNINI. Sanno perché glielo avete detto voi...

LEONARDO SAGUTO - Preside Liceo Scientifico "Basile". Ma sicuramente perché ogni anno facciamo la richiesta per la messa a norma delle strutture edilizie. Quindi sanno che c'è questo problema. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Vista la situazione fuori norma, il preside due anni fa con l'aiuto di alcune associazioni stava cercando i fondi per trasformare un terreno confiscato alla mafia adiacente la scuola...c'era già il progetto realizzato a titolo gratuito da un architetto. 

LEONARDO SAGUTO - Preside Liceo Scientifico "Basile". Beh diciamo che certamente l'idea iniziale era di fare una pista di atletica ma anche un campo polivalenti di pallavolo e anche per un campo da calcetto, per cui abbiamo fatto dei progetti finalizzati appunto a trasformare questo terreno che attualmente è incolto e che spesso è anche oggetto di lamentele da parte dei ragazzi perché giustamente perché è un ricettacolo di rifiuti. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). A un certo punto è intervenuta la provincia affermando l'intenzione di occuparsene. Da allora è tutto fermo. Il terreno è ancora in mano al demanio che avrebbe il compito di destinare prima possibile quel bene. E L'assessore provinciale dal canto suo, continua a disinteressarsi della sicurezza degli studenti di Brancaccio. Le cose regalate non sempre vengono apprezzate. 

DAL TG2 DOSSIER 07/06/1981 INTERVISTA DI GIUSEPPE MARRAZZO. "Ecco lei come si definirebbe allora?" "Sono un uomo che combatte contro le ingiustizie, io e tutti gli amici miei" "Un Robin Hood diciamo" "Diciamo" "Per concessione della famiglia ci è anche permesso di riprendere il castello di don Raffaele. Il castello normanno è stato abitato fino a qualche anno fa dagli eredi dei Medici, sono 365 camere con un ampio parco, piscina, campo da tennis. 

AMILCARE TROIANO - Presidente Parco nazionale del Vesuvio. Questo lo abbiamo già recuperato. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il camorrista Raffele Tutolo la vivrà di sicuro come un'ingiustizia, ma il castello di Ottaviano non è più suo. Gli è stato confiscato esattamente venti anni fa. E' stato a lungo esposto a saccheggi e intemperie. Soltanto di recente grazie a Lega Ambiente e al precedente Ministero dell'Ambiente si sono trovati i fondi per la ristrutturazione. E' già sede del parco del Vesuvio, a prestigio di una esclusiva zona naturalistica ai piedi del vulcano su cui la camorra aveva messo le mani per fare una vasta speculazione edilizia. 

AMILCARE TROIANO - Presidente Parco nazionale del Vesuvio. Ed era in uno stato oramai non più riconoscibile. E abbiamo come primo intervento, già si è provveduto al recupero di questi affreschi. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Un monumento alla legalità importante, in una città come Ottaviano dove l'ultimo omicidio di camorra risale soltanto a tre mesi fa. 

DAL TG3 DEL 30/07/2006. "Era uno dei pochi cutoliani ancora in circolazione, Domenico Pagano, 55 anni, pluri pregiudicato è stato ucciso questa mattina ad Ottaviano, il comune vesuviano un tempo feudo di Raffaele Cutolo potente capo della Camorra degli anni ottanta. Pagano era appena entrato in un minimarket, nel centro del paese quando sono arrivati i killer che hanno fatto fuoco con pistole e fucile uccidendolo. Ora gli inquirenti sono al lavoro per risalire ai killer ma soprattutto ai loro mandanti per poter dare una risposta al perché di questo agguato, in una zona dove negli ultimi mesi si è registrata una nuova escalation criminale per il ritorno in libertà del boss Mario Fabbrocino. Bisognava ristabilire alleanze e zone di potere illegale. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Mario Fabbrocino, è un boss dell'area vesuviana. Per anni è stato uno dei latitanti più ricercati. E' accusato - tra le altre cose - di essere il mandante dell'omicidio del figlio di Raffaele Cutolo. Anche a lui sono stati confiscati degli immobili. Uno di questi si trova in una frazione di Ottaviano. 

SABRINA GIANNINI. Son giù i Fabbrocino? La signora Maria Grazia è lì. 

DONNA 4. Non lo so. Non lo so perché...

SABRINA GIANNINI. Perché non la conosce?

DONNA 4. Qui è come in Sicilia, non vedo, non sento, non parlo.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Questa è la casa intestata alla moglie di Fabbrocino, Maria Grazia. L'Immobile è stato confiscato nel 1990, eppure la signora va e viene da 16 anni come fosse ancora casa sua. 

UOMO 2. Va a sistemarla dentro però io la vedo spesso, che va, viene...

SABRINA GIANNINI. Cioè il figlio della signora Maria Grazia vive qua, ma che è...

UOMO 2. Sì, Giovanni. Somma è l'inquilino.

SABRINA GIANNINI. A Somma è l'inquilino che è in affitto? Posso parlarle un attimo?

DONNA 5. E di che cosa?

SABRINA GIANNINI. Sono una giornalista, una cosa...

DONNA 5. No, no...

SABRINA GIANNINI. A chi sta pagando l'affitto della sua casa? 

DONNA 5. Non so niente.

SABRINA GIANNINI. Ma lo sa che è confiscata, signora lo sa che è confiscata la casa? 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Se l'inquilina paga un affitto non è di certo al comune, che dal 2004 è proprietario del bene, ma non l'ha sgomberato, come invece gli veniva ordinato dal prefetto...

SABRINA GIANNINI. Queste confische hanno un valore anche chiaramente simbolico, giusto.

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Certo.

SABRINA GIANNINI. Cioè lasciare la moglie di un camorrista in una casa che è già dello stato, confiscata dallo stato è un segnale fortemente negativo. 

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Si, si, sicuramente sì. Le dicevo sicuramente è una condizione questa estrema.

SABRINA GIANNINI. Perché gli è scappata? 

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Sì mi è scappata perché nel momento in cui vengo a conoscenza ufficialmente attraverso gli uffici, di un nostro sopralluogo da parte delle forze dell'ordine e in questa situazione non riusciamo ad entrare nel bene, è chiaro che io stabilisco un'ordinanza. Se avessi voluto tergiversare non avrei dato disposizioni di ordinanza di sgombero. 

SABRINA GIANNINI. Io mi metterei nei panni suoi, non è facile liberare un bene occupato...

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Io ritengo che il bene vada consegnato al comune di Ottaviano, in termini di utilizzo, libero. 

SABRINA GIANNINI. Invece lei dice io me lo aspettavo che fosse libero, me lo aspettavo che fossero già liberi.

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Esatto io melo aspettavo libero. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il sindaco ha ragione& l'immobile gli andava consegnato libero. Competeva all'Agenzia del demanio che - invece - per 14 anni ha permesso ai proprietari di abitarci. IL demanio era a conoscenza dell'occupazione abusiva, eppure ha trasferito l'immobile al comune lasciando che fosse il sindaco a sfrattare la moglie e i figli del boss. 

SABRINA GIANNINI. Quanto può essere difficile a questo punto fare un'ordinanza di sgombero sapendo non solo che c'è questa signora ma anche i figli? 

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Un attimo di suspance sicuramente fermo restando che se scelgo di fare il sindaco oppure faccio il dirigente pubblico so devo fare queste cose. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il giorno dopo l'incontro il sindaco mi invia l'ordinanza di sfratto. L'ha firmata e fatta recapitare ai Fabbrocino. Ai quali chiede, come risarcimento, di pagare un'indennità di occupazione abusiva. I funzionari del demanio, al riparo nei loro uffici di Napoli, ora sanno che la pratica Fabbrocino è chiusa definitivamente: non per merito loro ma grazie a chi i Fabbrocino li incontrerà spesso per strada. Con i tre funzionari del comune di Napoli che si occupano degli immobili confiscati, andiamo a vedere l'ultimo appartamento acquisito al patrimonio: è il 45°. Ma altri trenta sono in arrivo. 

SABRINA GIANNINI. In linea di massima tra tutti quelli che vi hanno dato quanti di questi erano occupati, faccia una percentuale...

CORRADO DI MASO - Dir. Assegnazione alloggi comune di Napoli. L'ottanta per cento.

SABRINA GIANNINI. Quasi tutti? 

CORRADO DI MASO - Dir. Assegnazione alloggi comune di Napoli. Quasi tutti.

SABRINA GIANNINI. Addirittura in uno avete trovato il figlio del boss...

CORRADO DI MASO - Dir. Assegnazione alloggi comune di Napoli. Si, si, abbiamo trovato nel primo che abbiamo preso il figlio del prevenuto però a quel punto abbiamo adoperato una procedura ordinaria e l'abbiamo liberato insomma.

SABRINA GIANNINI. Cioè con le maniere forti. 

CORRADO DI MASO - Dir. Assegnazione alloggi comune di Napoli. Con la forza pubblica, con la forza pubblica abbiamo fatto l'operazione. Lo sgombero è stato effettuato il 30 maggio 2003, consegnato il 26 marzo 2003, il 30 maggio è stato preso il possesso dei bene. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Dunque il comune di Napoli ha fatto in due mesi quello che il demanio non era riuscito a fare in 7 anni. L'immobile in via giudecca vecchia, oggi è affidato a cooperativa che si prende cura dei giovani e degli extracomunitari di forcella. È rimasto solo un vago ricordo di Luigino giuliano: le porte trapuntate e decorate. Il boss era famoso anche per certe stravaganze: la sua vasca da bagno aveva la forma di un'immensa ostrica. Più che una stravaganza era una moda. L'ostrica da bagno c'è ancora nella villa bunker di Francesco Rea, l'imprenditore di Giugliano in Campania accusato di riciclare i soldi della camorra e di avere accumulato una fortuna con prestiti usurai. Dalla torretta della villa bunker poteva ammirare il suo immenso patrimonio immobiliare e la concessionaria d'auto. Gli sono stati confiscati beni per 250 milioni di euro, la gran parte già trasferiti al comune, ma ancora una volta, erano occupati. 

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaci di Giugliano in Campania. Una ventina di giorni fa abbiamo fatto gli sgombero degli occupanti abusivi. 

SABRINA GIANNINI. In quel parco Rea? 

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaci di Giugliano in Campania. Sì Sì. 

SABRINA GIANNINI. Credevo che il demanio vi dovesse dare...

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaci di Giugliano in Campania. Il demanio è tenuto a darli i beni liberi da cose e persone.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Mostro al sindaco la lista di immobili confiscati a Francesco Rea che ancora devono essere trasferiti al comune...

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaci di Giugliano in Campania. Ma credo che di questo noi abbiamo già in corso una procedura per il trasferimento.

SABRINA GIANNINI. Ah sì? 

FRANCESCO TAGLIALETELA - Sindaci di Giugliano in Campania. Sì. Si è ipotizzato anche di mettere il comando di Polizia Municipale. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Caro sindaco il demanio le sta passando un'altra difficile pratica da sbrigare, quella in via Dante Alighieri. L'immobile confiscato a Francesco rea è ancora sotto la gestione del demanio. Che anche stavolta non ha provveduto allo sfratto. I 6 appartamenti infatti sono occupati, il piano terra addirittura da una scuola privata. 

DONNA ANONIMA. Assolutamente non si deve permettere a parte che adesso chiamerò l'avvocato e quindi avrò modo di, lei è entrata con la telecamera? 

SABRINA GIANNINI. Sì. 

DONNA ANONIMA. Allora gentilmente mi fa vedere, a parte che lei non si deve permettere! 

SABRINA GIANNINI. Si ma qual è il problema? 

DONNA ANONIMA. Lei non si deve permettere! 

SABRINA GIANNINI. No signora, le posso dire che lei non potrebbe star qua allora...

DONNA ANONIMA. Perché?

SABRINA GIANNINI. Perché questo è un bene dello stato ormai! Forse non glielo hanno detto!

DONNA ANONIMA. Signora però io ho un contratto, pago normalmente.

SABRINA GIANNINI. E chi glielo ha fatto il contratto? 

DONNA ANONIMA. Il proprietario, io sto qua da 25 anni. Prego accomodatevi. 

SABRINA GIANNINI. Cioè il figlio del proprietario vi ha detto di andare da questo custode? 

DONNA ANONIMA. Perché noi all'inizio pagavamo al figlio del proprietario, anche se noi avemmo quella lettera.

SABRINA GIANNINI. Cioè nonostante la confisca pagavate il figlio del proprietario? 

DONNA ANONIMA. Sì pagavamo ancora loro. 

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Stando al ricordo della signora, l'affitto, se di affitto si trattava, veniva riscosso dagli stessi proprietari a cui il bene era stato confiscato. 

SABRINA GIANNINI. No perché questo è un bene confiscato...

DONNA 5. Si lo so.

SABRINA GIANNINI. Lei abita qua? 

DONNA 5. Sì. 

SABRINA GIANNINI. A lo sa allora di abitare in un bene confiscato! 

DONNA 5. E che devo fare? 

SABRINA GIANNINI. Come devo fare, in teoria dovrebbe finire al comune e il comune vi sfratterà. 

DONNA 5. Si sì ci sfratterà ma comunque dovrà trovarci un altro alloggio, perché noi non possiamo andare per strada all'improvviso, oppure parliamo ai giornalisti. 

SABRINA GIANNINI. Ah sì, ma scusi tutti se devono cercare un alloggio lo pagano, non è che uno deve averlo gratis dal comune no? 

DONNA 5. Lo so, però comunque ci devono dare tempo per trovare dell'altro...

SABRINA GIANNINI. Vi devono avvertire. 

DONNA 5. Comunque quello che è successo non è colpa nostra.

SABRINA GIANNINI. A certo perché voi siete e non sapevate di nulla.

DONNA 5. Noi siamo inquilini.

SABRINA GIANNINI. Però non vi hanno mai avvertito di andare via, non vi è mai arrivata comunicazione di andar via.

DONNA 5. No di sicuro, non sappiamo niente, sappiamo che dobbiamo andare via per sentito dire.

SABRINA GIANNINI. Ma da chi sentito dire.

DONNA 5. Sentito dire, quante cose mi vuole far dire.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). La signora sostiene di non avere ricevuto nessuna comunicazione di sfratto. Facciamo fatica a crederle. 

SABRINA GIANNINI. Conosce qualcuno che abita qui?

DONNA ANONIMA. Allora la signora, proprio la proprietaria la conosciamo sì.

SABRINA GIANNINI. Come la proprietaria?, c'è dentro ancora la signora Palladino.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Dunque al primo piano vivrebbe ancora la moglie di Francesco Rea. IL bene era intestato anche a lei. 

SABRINA GIANNINI. Lei è la signora Palladino?

SIGNORA PALLADINO. Io sono la signora Palladino.

SABRINA GIANNINI. Palladino, lei è la moglie di Francesco Rea.

SIGNORA PALLADINO. Ex-moglie sono divorziata.

SABRINA GIANNINI. Ah, ecco però è rimasta la scritta.

SIGNORA PALLADINO. È rimasta Rea perché ho i figli che si chiamano così.

SABRINA GIANNINI. Signora lei lo sa che questo è un bene confiscato? che è nelle mani dello Stato, glie lo hanno detto?

SIGNORA PALLADINO. Io non so niente.

SABRINA GIANNINI. Non le è mai arrivata comunicazione?

SIGNORA PALLADINO. No.

SABRINA GIANNINI. Tutto lo stabile era del signor Rea e lo Stato, la Magistratura glie lo ha confiscato.

SIGNORA PALLADINO. Io non so niente.

SABRINA GIANNINI. Non lo sa? non vi è mai arrivato per iscritto che voi dovete sgombrare da qua?

SIGNORA PALLADINO. No, mai.

SABRINA GIANNINI. State pagando un affitto?

SIGNORA PALLADINO. E perché devo pagare l'affitto se è cosa mia, roba mia.

SABRINA GIANNINI. Era roba sua.

SIGNORA PALLADINO. No, è roba mia, per me è roba mia.

SABRINA GIANNINI. Comunque lei non prende più gli affitti di queste persone?

SIGNORA PALLADINO. No, vivo con la pensione adesso.

SABRINA GIANNINI. Quasi nove anni che non è più suo, tutto lo stabile non è più suo.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Il Demanio, che ha avuto 9 anni di tempo per provvedere a liberare l'immobile, vanifica il senso della confisca, che è quello di togliere il bene al criminale per poi restituirlo alla collettività. Che senso hanno le battaglie processuali se poi le cose finiscono così? 

SABRINA GIANNINI. La data di confisca me la guarda lei? Quando è entrata nel possesso del patrimonio dello stato cioè demaniale. Si, non si può sbagliare perché in questa pagina c'è la stessa data per tutti i beni anche gli altri comuni. 26 gennaio del 1998.

SABRINA GIANNINI. Le sembra normale?

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaci di Giugliano in Campania. No, assolutamente no. Infatti è una delle questione che ogni volta che ci incontriamo per discutere sulla questione dei beni sequestrarti alla criminalità organizzata viene fuori insistentemente la problematica della procedura difficile con enormi ritardi.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Quando non sono occupati, gli immobili restano abbandonati per anni& e finisce che poi servono ingenti somme per le ristrutturazioni. Somme che soltanto con grandi sforzi i comuni riescono a recuperare dai fondi statali, così com'è riuscito a fare il sindaco di Giugliano per trasformare la villa bunker e tutta l'area circostante in centro sportivo e universitario. Stando alla legge, l'agenzia del demanio dovrebbe chiudere le pratiche e destinare il bene in 4 mesi. Diciamo che la media si avvicina più ai 4 anni. Ma abbiamo visto che a Ottaviano hanno atteso 14 anni, a Forcella 6, a Giugliano 8. Se in questi casi la pratica - bene o male - è stata chiusa, per altri 4 mila immobili si attende ancora una destinazione.

SABRINA GIANNINI. Hanno rubato tutti gli infissi? 

UOMO 3. Sì. Perfino hanno rubato dal water, dai lavandini tutto quello che era ottone, questa roba qui. 

SABRINA GIANNINI. E proprio quando è stato tolto definitivamente al signor Rea, non lo sa? Gennaio '98.Nel '98 in che stato era questo stabile?

UOMO 3. Meglio di questo, molto. Rea ci teneva moltissimo alla manutenzione.

SABRINA GIANNINI. Ci credo era roba sua. Lei sta dicendo li curava meglio lui che lo Stato.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). E' l'immagine di uno Stato indifferente e burocrate, sarebbe stato importante capire i meccanismi e le responsabilità ma il Direttore generale dell'Agenzia del Demanio, Elisabetta Spitz non ha concesso l'intervista. l'Agenzia del demanio ha la gestione dei beni confiscati da 5 anni e non è stata in grado in tutto questo tempo di fare un accurato monitoraggio. Basti vedere che lo stabile di Giugliano è occupato ma non risulta, e' necessario intervenire urgentemente per salvare quello che resta di un patrimonio di un valore inestimabile soprattutto simbolico. Dietro i 7000 beni confiscati c'è una legge che 24 anni fa ha segnato una svolta decisiva per colpire al cuore il patrimonio della criminalità organizzata, una legge voluta dal parlamentare Pio la Torre e che gli costo la vita.

MILENA GABANELLI IN STUDIO. La legge non prevede la vendita di questi immobili, ma il riutilizzo sociale, come forma di risarcimento per i danni che la mafia e la camorra hanno creato alla società. Chi stava facendo un monitoraggio capillare di tutti i questi beni era l'ex commissario straordinario ai beni confiscati Margherita Vallefuoco. Il governo precedente non ha più prolungato il suo mandato e quello dei suoi 30 collaboratori, rimettendo tutto nelle mani del Demanio, che evidentemente ha dei gravi problemi a gestire tutto questo patrimonio. Forse Anche a causa delle lentezze delle cancellerie dei tribunali. Al Ministero della Giustizia e dell'Economia il dovere di fare una riforma e poi di applicarla. 

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Siamo all'ultima puntata e vorremmo fare un po'il punto su alcune cose. Riceviamo tantissime lettere con le quali ci viene segnalata qualunque cosa, e ce n'è un tot che dicono più o meno così: "faccio fatica ad arrivare in fondo alle vostre puntate perché poi non dormo la notte, ecc. ecc". In questo paese ha ragione la Litizzetto. Ma cosa aveva detto Luciana la peperina?

DA "CHE TEMPO CHE FA" DEL 12/11/2006

LUCIANA LITIZZETTO. Prendi la Gabanelli, la Gabanelli di Report, che salutiamo la Milly& questa si fa un mazzo quadro tutte le settimane...

FABIO FAZIO. Si è proprio brava!

LUCIANA LITIZZETTO. Scopre delle robe da chiodi.

FABIO FAZIO. Terrificanti!

LUCIANA LITIZZETTO. Terrificanti, fanno alzare i peli sulla schiena anche ai gatti, lunedì niente, nessuno che se la caga per tutta la settimana.

FABIO FAZIO. Lucianaaaa?!?

LUCIANA LITIZZETTO. Ma niente, ma è vero o no?

FABIO FAZIO. E' abbastanza pazzesco.

LUCIANA LITIZZETTO. E' pazzesco.

FABIO FAZIO. Se ne occupano tutti quelli che poi la denunciano di solito, si perdendo regolarmente.

LUCIANA LITIZZETTO. Si, solo quelli. Ma la scorsa settimana ha scoperto sta cosa dei miliardi sequestrati che sono nelle banche, che manco lo Stato sa che ci sono, quindi non li ritira. Della villa di Fiorani che hanno affittato a 50 mila euro al mese quest'estate degli americani, delle case sequestrate alla camorra che continuano ad essere affittate alla camorra& insomma ha messo su un castrino di cifre e numeri che noi eravamo lì, davanti alla televisione, coi capelli dritti, strabuzzavamo gli occhi e dicevamo: "Minchia, domani chissà che casino succede?"

FABIO FAZIO. Così dicevate?

LUCIANA LITIZZETTO. "Crolla il governo". Dicevo: "Minchia, minchia!"

FABIO FAZIO. Si, no, bastaaaa. 

LUCIANA LITIZZETTO. Niente, non uno che l'abbia fatto. Tutti i giornali a parlare di gnocca e di gabinetti. Io per quando vedo Report, mi devo fare un clistere di valium perché dà disgusto, ho la saliva azzerata. E' vero! Milly, questo Stato non ti merita, Milly lascia perdere! Devi fare una bella intervista, una bella puntata sulla gnocca, vedi che poi il giorno dopo tutti ne parlano, pure cambia look Milly.

FABIO FAZIO. Che c'entra adesso il look?

LUCIANA LITIZZETTO. Magari, se fai vedere un po' il decolté Milly! No, parla pure di amianto e di asbestosi, però mettiti la guepiere.

FABIO FAZIO. Ma lo vedono tantissimo lo stesso, cosa dici?

LUCIANA LITIZZETTO. Sei una bella topona.

FABIO FAZIO. Ma piantala!

LUCIANA LITIZZETTO. Una bella topa Gigia, secchina, ma con tutte le cose al posto giusto!

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Tutta quella roba la farei vedere volentieri, se non temessi di provocare incubi peggiori. Comunque la storia non è così disastrosa come anche molti telespettatori sospettano. Credo che ognuno debba fare la propria parte, per quel che ci riguarda le notizie qualche volta le troviamo noi, altre volte riprendiamo quelle dei giornali e le andiamo ad approfondire per metterle a disposizione poi di un pubblico più vasto. L'elenco che vi facciamo questa sera dimostrerà che non sono poi cadute tutte nel vuoto. Cominciamo con quello che è successo un anno fa dopo la puntata che ha tanto scandalizzato la Luciana e anche noi, si chiamava Roba Nostra.

DA REPORT DEL 5/11/2006.

SABRINA GIANNINI (fuori campo) 

È il 6 ottobre del 1993: vengono sequestrati dalla magistratura italiana 621 milioni di lire da un conto svizzero e trasferiti sul conto corrente della BNL del tribunale di Milano. Primo Greganti, titolare di quel conto, viene accusato di aver ricevuto quei soldi per conto della segreteria nazionale del Pci. Era la tangente pagata dalla Ferruzzi per ottenere gli appalti ENEL, estesa anche alla DC e al PSI. I tre gradi di giudizio lo hanno confermato. Allora perché quei soldi, oggi tradotti in 390 mila euro, si trovano ancora sul conto della banca? Paolo Ielo era il Pubblico Ministero nel processo di primo grado.

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Io non credo che qui sia individuabile la colpa di tizio& non è questo il problema comunque. Il problema è che casi come questo ho paura ce ne siano tanti.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). L'inchiesta giudiziaria alla scalata alla banca Antonveneta ha già portato il più consistente sequestro di denaro effettuato dalla magistratura. Una volta tanto la stalla è stata chiusa prima che scappassero i buoi.

VIRGILIO POMPONI - C. te Nucleo Polizia Tributaria Milano. Dunque al momento abbiamo sequestrato all' incirca 380 milioni di euro.

SABRINA GIANNINI (fuori campo). Sono qui: dentro il palazzo di giustizia, presso la filiale della BNL. In questo elenco si leggono i conti correnti accesi per fare affluire le somme sequestrate. Ogni importo fa riferimento al procedimento penale collegato. Viste le testimonianze e le confessioni, sono frutto di operazioni illecite ed è quindi probabile che resteranno allo Stato. Bisognerà però attendere la fine dei processi prima che vi sia una definitiva confisca e quindi il passaggio dalla banca allo Stato. Passeranno anni, e la Banca farà i suoi affari con tutti quei soldi. Li presterà e ci guadagnerà.

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Non avendo soldi ed essendo pieni di debiti perché in realtà il Ministero della giustizia è questo, abbiamo anche degli enormi problemi a prendere iniziative perché per far certe iniziative bisogna investire, per investire avresti bisogno di fondi che dall'atra parte oggi non ci sono.

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Quello che noi avevamo raccontato era stato sollevato da alcuni magistrati della procura di Milano, che dicevano: perché lasciare tutti questi soldi in attesa di sentenza definitiva in mano alle poste o alle banche quando invece lo Stato potrebbe farne un utilizzo migliore? E C'erano i soldi confiscati, quelli sui libretti, che venivano dimenticati lì perché bisognava informatizzare il sistema ma non ci sono i soldi. Il ministero se ne è fatto carico, ha istituito una commissione affidandola a chi aveva sollevato il problema. Il lavori sono terminati in questi giorni e cosa prevede: -La creazione di un'agenzia che farà l'inventario dei beni sequestrati, in Italia e all'estero, quanti sono i corpi di reato di valore, si stima siano 200.000 fra gioielli, quadri, che giacciono negli scantinati dei palazzi di giustizia italiani. Questi beni saranno poi venduti, e quindi automaticamente si ridurranno anche i costi di gestione. Il denaro invece solo 1miliardo e 700,000 euro presso le poste ad un tasso dell'1.5 %lordo bisognerà farlo rendere applicando un tasso legale. Poi informatizzazione del processo penale, che significa non dimenticare carte negli anni e assicurare agli aventi diritto, diritti che oggi non hanno. In finanziaria è prevista la costituzione di una società che sta dentro alla stessa società che riscuote le tasse che si occuperà a sua volta di riscuotere le spese giudiziarie e pene pecuniarie. Le spese giudiziarie sono 700 milioni di euro ogni anno, e se ne incassano non oltre 40 milioni, le pene pecuniarie nessuno invece sa a quanto ammontano. La costituzione di questi due nuovi enti per la prima volta in Italia saranno a costo zero perché il primo anno si utilizzeranno i soldi che sono già lì sequestrati e poi si pagherà da sola. Una parte dell'incasso andrà al Ministero della Giustizia per far fronte a quelle spese che gli permetteranno, speriamo, di uscire dall'età della pietra. Se il parlamento approva l'anno prossimo saranno operativi.

Roba Nostra. Report, servizio di Sabrina Giannini andato in onda l'1 aprile 2007. Milena Gabanelli in Studio. Il 5 novembre scorso avevamo trasmesso una puntata sui beni sequestrati dalla magistratura. Miliardi che stanno depositati per anni in banche o posta. Il sostituto procuratore di Milano Francesco Greco si era chiesto perché lo Stato si disinteressava di una migliore gestione di queste grandi somme. L'inchiesta era di Sabrina Giannini e ne rivediamo una sintesi.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. I soldi sequestrati nel corso delle indagini condotte dalla magistratura vengono depositati soprattutto sui libretti postali. Se il proprietario viene giudicato colpevole con sentenza definitiva, quella somma, oramai confiscata, deve essere trasferita nelle casse dello Stato. Questo in teoria. La realtà è un'altra. Infatti, facendo una verifica presso l'Ufficio depositi giudiziari del tribunale di Milano avevamo trovato innumerevoli libretti postali giudiziari ingialliti dal tempo relativi a somme che da anni dovevano essere incassate. 

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. E abbiamo un po' di arretrato, un bel po' di arretrato da smaltire. Allora i depositi giudiziari più vecchi potrebbero risalire a più di 10 anni fa.

SABRINA GIANNINI. Senta fa abbastanza impressione vedere che tutti questi soldi sono già di fatto dello Stato. Milioni?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Qui parliamo di euro?

SABRINA GIANNINI. Milioni di euro.

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari. Beh, penso di sì perché sicuramente nei grossi tribunali penso che la giacenza di arretrato sia uguale. Se non c'è sono contento.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. I soldi sequestrati dalla magistratura di tutta Italia e congelati nei libretti postali giudiziari sono quasi due miliardi di euro. Visti gli arretrati possiamo legittimamente temere che la gran parte di quei soldi sia in realtà già pronta per essere incassata. Ma è impossibile saperlo perché i tribunali non hanno accesso alla banca dati delle poste, anche se la cosa faciliterebbe le procedure di incasso. Ovviamente la lentezza a smaltire l'arretrato va a vantaggio di Cassa depositi e prestiti, per intenderci Poste italiane, che li utilizza per le proprie operazioni finanziarie. Per esempio li presta agli enti locali e ai ministeri, ovviamente a un tasso di interesse ben lontano da quell'un per cento che matura sui libretti postali giudiziari. Va ricordato che da tre anni Cassa depositi e prestiti è per il 30 per cento in mano alle banche. Quindi ai privati. In alcuni casi i magistrati milanesi hanno depositato i soldi sequestrati nella banca situata all'interno del palazzo di giustizia. A ogni conto corrente corrisponde un procedimento penale. Tanta fatica, indagini costose per sequestrare il denaro provento del reato e poi&E poi i soldi restano lì. Dimenticati. Una volta entrati in possesso della lista dei conti correnti ecco la sorpresa: i primi trenta depositi risalivano ai tempi di Tangentopoli circa 20 milioni di euro. Tutti procedimenti conclusi, e soldi definitivamente confiscati. In altre parole dovevano essere da anni nelle casse dello Stato. 

SABRINA GIANNINI. E questi sono intoppi burocratici?

PAOLO IELO - Magistrato Tribunale di Milano. Sono intoppi burocratici guardi, accade che tra il momento in cui si celebra un processo e il momento in cui si giunge ad una sentenza di condanna di primo grado e il momento in cui la sentenza di condanna diventa definitiva passa molto tempo. Io non credo che qui sia individuabile la colpa di tizio, non è questo il problema comunque. Il problema è che casi come questo ho paura ce ne siano tanti.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Timore condiviso dai magistrati milanesi che nell'ambito dell'inchiesta su Antonveneta hanno sequestrato a Fiorani, Ricucci, Gnutti e compagnia una somma che non ha precedenti: 330 milioni di euro, di questi 200 sono presso la banca dentro il palazzo di giustizia. Si dovrà comunque attendere la fine dei processi prima di arrivare alla confisca ma nel frattempo quella somma resta nella disponibilità della banca che come mestiere presta denaro, ovviamente guadagnandoci. Soltanto grazie all'iniziativa di un cancelliere è stato contrattato con la banca il tasso di interesse, ma non esistono disposizioni ministeriali in merito. Tutto è lasciato al caso. L'amministrazione della giustizia si disinteressa dei soldi sequestrati.

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Non avendo soldi ed essendo pieni di debiti perché in realtà il Ministero della giustizia è questo, abbiamo anche degli enormi problemi a prendere iniziative perché per far certe iniziative bisogna investire, per investire avresti bisogno di fondi che dall'altra parte oggi non ci sono. Questa è la grandissima contraddizione in cui stiamo vivendo al giorno d'oggi. 

SABRINA GIANNINI. Quindi avete debiti di quanto? 

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. 250 milioni di euro. Approssimativi questi alla data di fine luglio del 2006. Sono sicuramente aumentati, ovviamente. 

SABRINA GIANNINI. Senta ma 250 milioni sono proprio quelli che sono stati sequestrati provvisoriamente adesso però qualora venissero confiscati quelli di Antonveneta vi servirebbero giusti giusti? 

CLAUDIO CASTELLI - Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Se arrivassero a noi sicuramente, il problema è che non arriveranno a noi! 

SABRINA GIANNINI. Si ma lei è in tempo per cambiare la situazione in modo che sia il Ministero della Giustizia introiettato...

CLAUDIO CASTELLI- Organizzazione Giudiziaria Ministero Giustizia. Bisogna cambiar la legge su questo comunque...

MILENA GABANELLI IN STUDIO. Si dice che tanto poi non succede mai niente, non è sempre vero, stavolta qualcosa si è mosso. Intanto c'è stata un'interrogazione parlamentare nella quale si chiedeva conto di quel che abbiamo appena mostrato e il 12 dicembre, il ministro della giustizia Mastella, risponde che "è allo studio un intervento normativo volto a migliorare la gestione e destinazione dei beni confiscati e un accertamento per conoscere l'entità delle somme depositate presso le banche e le poste". A che punto siamo?

SABRINA GIANNINI. Voi avete chiesto alle Procure "Diteci quanti soldi sono depositati nelle vostre banche".

CLEMENTE MASTELLA - Ministro della Giustizia. Esatto, neppure loro sono in grado di saperlo alcune volte.

SABRINA GIANNINI. E ad oggi dopo quattro mesi ancora nessuno vi ha risposto?

CLEMENTE MASTELLA - Ministro della Giustizia. Abbiamo fatto e stiamo procedendo anche nei prossimi giorni ci saranno anche alcune cose illuminanti al riguardo, nel senso che utilizzeremo anche personalità le più rappresentative sono interessate a questi aspetti. 

SABRINA GIANNINI. Chi per esempio?

CLEMENTE MASTELLA - Ministro della Giustizia. Di chi in Italia ha lavorato proprio su questa questione. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Due giorni dopo l'intervista la commissione viene istituita con un decreto. A presiederla sarà Francesco Greco, il sostituto procuratore che coordina il pool di magistrati esperti di criminalità economica e che sequestrò i 330 milioni euro nel corso dell'inchiesta su Antonveneta. I quotidiani riportano la notizia della commissione proprio il giorno in cui si torna a parlare dell'Antonveneta. Intanto i milioni di euro sequestrati sono sempre congelati presso la banca situata nel palazzo. E' normale che sia così finché non si giungerà alla sentenza definitiva. Non è normale invece che siano ancora nella disponibilità della banca quei 20 milioni sequestrati ai tempi di Tangentopoli, ma già da anni confiscati. Nulla è cambiato.  

CLEMENTE MASTELLA - Ministro della Giustizia. Si le ho spiegato però che l'inefficienza deriva da quello che abbiam trovato non da quello che ci stiamo occupando di recuperare una forma di efficienza. I soldi che noi abbiamo, stranamente cosa succede, che anche quando noi confischiamo qualcosa, recuperiamo qualcosa non vengono dall'amministrazione della giustizia ma vanno direttamente all'economia, al Ministero del tesoro. Ora noi diciamo, se noi ci applichiamo direttamente noi a recuperare tutti quanti questi bene i soldi dateceli a noi perché questo rendo più efficiente la macchina e più è efficiente la macchina e più recuperiamo soldi. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Dunque se i soldi restassero in parte alla giustizia l'amministrazione impiegherebbe più risorse. Sarà compito della commissione trovare la soluzione normativa affinché questo si possa realizzare. Nell'attesa si può seguire l'esempio di chi gestisce i soldi sequestrati pensando all'interesse dello Stato, ma senza aspettare leggi o disposizioni ministeriali. 

CUNO TARFUSSER - Procuratore della Repubblica- Bolzano. Abbiamo fatto una gavetta nell'ambito nell'ambito delle banche che hanno sede a Bolzano e abbiamo ovviamente scelto quella che ci faceva le condizioni migliori ovvero l'apertura e la chiusura del conto non costava nulla, la gestione del conto non costava nulla e che ci dava degli interessi che all'epoca erano il doppio di quello che ci dava la posta.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. In altre parole, i tre milioni di euro lasciati per un anno nella banca hanno maturato, grazie agli interessi, 50 mila euro. In posta avrebbero fruttato più o meno la metà. 

CLEMENTE MASTELLA - Ministro della Giustizia. Perché se io c'avevo la somma dei beni confiscati o delle somme che sono state depositate se arrivano tutte a livello nazionale io me le gioco alle banche, chi dà di più allora riceve di più.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Il problema è che il grosso dei sequestri si trova in posta: quasi 2 miliardi di euro. Il tasso andrebbe rivisto. Inoltre manca quel collegamento tra la banca dati delle poste e gli uffici del tribunale che velocizzerebbe il trasferimento dei soldi confiscati. A meno che, nel frattempo, sia stato già fatto...

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari - Milano. Dopo l'intervista dell'anno scorso cambiamenti non ce ne sono stati. 

SABRINA GIANNINI. Quindi nessuna banca dati della posta dove voi potete accedere?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari - Milano. No, noi continuiamo a operare manualmente con un programma non ministeriale.

SABRINA GIANNINI. E questa quindi sarebbe la cifra che sta stagnando qua, questa 6 milioni di euro, quasi 7. E voi cosa avete fatto dopo la trasmissione?

VINCENZO DE PEPPO - Capo ufficio depositi giudiziari - Milano. Noi siamo riusciti ad avere un po' di straordinario.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. E in due mesi, i tre impiegati dell'ufficio, nelle 30 ore di straordinario hanno fatto incassare 2 milioni e mezzo di euro, pari a mille libretti. Con un sistema informatizzato sarebbe bastato un solo impiegato probabilmente senza prolungamento d'orario. 

MILENA GABANELLI IN STUDIO. La commissione che ha l'incarico di razionalizzare, semplificare, armonizzare, è formata dai migliori nomi in circolazione. Fra gli altri il Giudice Ielo, Davigo, Cascini, l'avv. Mucciarelli, Righetti dell'ufficio italiano cambi. Questa commissione potrebbe forse elaborare una proposta da portare anche in sede europea visto che nessun paese dell'Unione si è mai posto il problema: per esempio a Lussemburgo, in Francia e in Belgio il denaro sequestrato è considerato corpo di reato e viene chiuso in cassaforte. Non è certamente un bell'esempio di amministrazione. Un esempio interessante proviene invece dagli Stati Uniti, dove il denaro sequestrato viene depositato nella Banca Federale al 5%. La nostra storia però, trattata a novembre scorso, non si fermava qui. C'eravamo occupati anche dei 7 mila beni confiscati alla criminalità organizzata. Ad occuparsene il demanio che li deve liberare e consegnare ai comuni. Sabrina Giannini era andata a vedere in alcune località e non li aveva trovati liberi, ma erano occupati da coloro, anzi dai parenti di coloro a cui erano stati sequestrati. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Ottaviano: area vesuviana, Questo immobile fu sequestrato 17 anni fa al boss della camorra Mario Fabbrocino. Eppure la moglie, l'autunno scorso, ancora vi abitava. Nel 2004 il demanio ha trasferito l'immobile al comune di Ottaviano...

SABRINA GIANNINI. Io mi metterei nei panni suoi non è facile liberare un bene occupati da...

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Ritengo che il bene vado consegnato al comune di Ottaviano in termini di utilizzo. Libero. 

SABRINA GIANNINI. Quindi lei dice " non me l'aspettavo che fossero già liberi".

MARIO JERVOLINO - Sindaco di Ottaviano. Esattamente, io me lo aspettavo libero!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Il sindaco aveva ragione, il demanio doveva provvedere allo sgombero. Non l'ha fatto per 14 anni e poi ha passato la non facile consegna al sindaco, che alla fine ha ordinato alla moglie del boss di liberare la casa. Il demanio ha destinato al comune di Napoli 45 immobili.  

SABRINA GIANNINI. In linea di massima tra tutti quelli che vi hanno dato quanti di questi sono occupati?

UOMO 1. Un 80%, quasi tutti.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. A Giugliano in Campania abitava Francesco Rea, era accusato di riciclare i soldi della camorra, gli sono stati confiscati immobili per 250 milioni di euro. Tra i quali la villa bunker con la vasca da bagno a forma di ostrica. 

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaco di Giuliano in Campania. Una ventina di giorni fa abbiamo fatto gli sgomberi degli occupanti abusivi.

SABRINA GIANNINI. In quel parco Rea?

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaco di Giuliano in Campania. Si.

SABRINA GIANNINI. Credevo che il demanio li dovesse dare...

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaco di Giuliano in Campania.

Il demanio è tenuto a darli i beni liberi da cose e persone.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Durante l'intervista avevo mostrato al sindaco la lista di immobili che il demanio doveva ancora trasferire al suo comune. Erano tutti immobili confiscati almeno 9 anni fa. Ancora una volta stava per arrivare un immobile occupato. Al primo piano dalla ex moglie di Francesco rea e dai suoi figli...

SABRINA GIANNINI. Non vi è mai arrivato per iscritto che voi dovete sgombrare da qua?

SIGNORA PALLADINO. No, mai.

SABRINA GIANNINI. State pagando un affitto?

SIGNORA PALLADINO. E perché devo pagare l'affitto se è cosa mia, roba mia.

SABRINA GIANNINI. Era roba sua.

SIGNORA PALLADINO. No, è roba mia, per me è roba mia.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Al piano terra c'era addirittura una scuola elementare. 

DONNA ANONIMA. Assolutamente non si deve permettere a parte che adesso chiamerò l'avvocato e quindi avrò modo di, Lei è entrata con la telecamera? 

SABRINA GIANNINI. Sì. 

DONNA ANONIMA. Allora gentilmente mi fa vedere, a parte che Lei non si deve permettere! 

SABRINA GIANNINI. Si ma qual è il problema? 

DONNA ANONIMA. Lei non si deve permettere! 

SABRINA GIANNINI. No signora, le posso dire che lei non potrebbe star qua allora perché questo è un bene dello Stato...

SABRINA GIANNINI. Nonostante la confisca pagavate il figlio del proprietario? 

DONNA ANONIMA. Sì pagavamo ancora loro.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Stando al ricordo della signora l'affitto, se di affitto si trattava, veniva riscosso dagli stessi proprietari a cui il bene veniva confiscato. Torno a Giugliano in Campania, sono passati cinque mesi. 

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaco di Giuliano in Campania. Adesso loro, quindi l'agenzia del demanio hanno, poco dopo il servizio credo, una coincidenza diciamo sorprendete, hanno inviato le note di sgombero agli occupanti, chiedendo però al comune delle determinazioni circa l'acquisizione del bene in quanto lo stesso è gravato da situazioni ipotecarie. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Lo sgombero è datato 6 novembre, il giorno dopo la trasmissione. Strana coincidenza visto che l'immobile è confiscato dal nove anni. Torniamo in via Dante Alighieri con il Sindaco. Cerchiamo la preside per chiederle se e quando provvederà a sgomberare. 

DONNA. Non c'è la signora, non so come fare, mi dispiace.

SABRINA GIANNINI. Volevo solo sapere se arrivata la comunicazione dello sgombero. Non viene la preside?

DONNA. No oggi no, se vuole ritornare?

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO. Chissà se questa volta, sotto i riflettori, il demanio provvederà allo sgombero, se il caso chiedendo l'aiuto delle forze dell'ordine. Oppure se lascerà che se ne occupi il comune, come è di prassi, qui in Campania. Infatti era stato il sindaco di Giugliano a sgomberare il parco Rea, con la maestosa villa al centro della proprietà. Se non lo avesse fatto lui oggi non ci sarebbe il cantiere. E domani il centro sportivo. 

FRANCESCO TAGLIALATELA - Sindaco di Giuliano in Campania. Ecco qua è un cantiere si vede, viva Dio!

MILENA GABANELLI IN STUDIO. La segreteria del presidente del Consiglio ci informa che a giorni sarà nominato un commissario con pieni poteri e il compito di individuare forme e metodi di gestione dei beni confiscati alle mafie.

LA MAFIA DELLE MAFIE.

LE GRANDI SCOPERTE DI REPUBBLICA E DEL SUO CRISTOFORO, scrive l'8 gennaio 2018 Mario Avena su La Voce delle Voci. Adesso Repubblica scopre che la mafia è più forte di trent’anni fa. Ci volevano le truppe speciali messe in campo da Ilvo Diamanti e un sondaggio apposito realizzato da Demos-Coop per scoprire l’acqua calda. E per accorgersi che la malavita ormai più che organizzata è sbarcata da qualche annetto al centro-nord. Roba da Pulitzer! Partiamo dal titolo, già tutto un programma: “Mafia, per un italiano su tre è ancora più forte di trent’anni fa”. E per gli altri due? Forse è più debole? Il sottotitolo: “la percezione della criminalità organizzata resta molto alta e anche nel Settentrione è aumentata la paura di infiltrazioni”. Molto alta? Infiltrazioni? Ma ecco che il temino dello scolaro Ilvo comincia: “La mafia, fino a qualche tempo fa, aveva un marchio territoriale preciso. Perchè il suo rapporto con il territorio era stretto”. Bravo, sette più. E poi: “Ma oggi la situazione è cambiata profondamente. E le mafie si sono diffuse dovunque. A Roma, dove c’è Mafia Capitale. Ma soprattutto a Nord, e oltre confine”, dove c’è il Monte Bianco e scorre il Po. Roba che neanche al cottolengo. E continuano così due paginoni 2 (la seconda e la terza, scherziamo mica!) pieni di grafici e torte da leccarsi i baffi, per tutti i gusti dell’ignoranza più crassa. Che le mafie siano sbarcate al centro nord è roba nota da quasi trent’anni. Gli affari criminali erano ormai troppo stretti nei territori di origine e per lavare e riciclare meglio era ovvio doversi trasferire un po’ più in là, dove dare meno nell’occhio e trovarsi a lavorare con tutta tranquillità. E in regioni, caso mai, dove le procure antimafia e le direzioni investigative erano lontane mille miglia. Sono di fine anni ’80 i primi segnali in arrivo, tanto per fare un esempio, dalla costiera romagnola. Come nel caso della Fiera di Rimini, dove alcuni operatori già allora indicavano in appalti e subappalti alcune strane presenze napoletane che gareggiavano nel settore delle pulizie. E sono sempre di fine anni ’80 le prime trasferte nelle verdi Umbria e Toscana, vuoi per entrare con discrezione tra i saloni del Kursaal di Montecatini (come fece ad esempio il clan Galasso) oppure per acquartierare a Lucca e dintorni le sedi legali e operative di alcune società di riferimento, come è capitato per il clan Sorrentino, troppo in vista nel vesuviano. E negli anni seguenti le nuove vie del riciclaggio, anche all’estero. Come successe per il clan La Torre di Mondragone, che pensò bene di puntare le sue fiches su alberghi e night scozzesi, con una meta prediletta, quella di Aberdeen. “I Don di Deen”, titolò un quotidiano di Edimburgo. E per la Voce, all’epoca, scrisse un’inchiesta Amato Lamberti, il fondatore dello storico Osservatorio sulla Camorra al quale collaborava Giancarlo Siani.

E oggi “la percezione della criminalità resta molto alta”. Ma fateci il piacere, scrive il 26 dicembre 2017 Furio Lo Forte su La Voce delle Voci. Il salto di qualità delle mafie: la conquista del sistema giudiziario. Nei primi anni Duemila e le organizzazioni criminali italiane, in primis ‘ndrine e clan camorristici, tenevano in pugno piccoli e medi consigli comunali, una estesa mappa di esecutivi locali ma, soprattutto, i tecnici degli uffici urbanistica, nonché il settore degli appalti e della nettezza urbana. Esisteva ancora quella che qualcuno, anche molto in alto, si ostina ancora oggi ad identificare come “corruzione”. Bei tempi. Sarebbe presto diventata una colossale associazione per delinquere (di stampo mafioso) che decide le sorti del Paese a colpi di sentenze ad hoc. Nel salto di qualità compiuto dalle mafie italiane, la globalizzazione ha fatto fino in fondo la sua parte. Durante i durissimi dieci anni di recessione mondiale – dal 2008 al 2017 – mentre eserciti di lavoratori tornavano a casa da fabbriche spazzate via per la crisi, cosche e clan lavoravano sodo intorno ad una intuizione di fondo. Perché impiegare un costante dispendio di energie e manodopera per il controllo delle amministrazioni locali, o anche di parte della politica nazionale, correndo alla fine sempre il rischio di dover fare i conti con la giustizia? Non sarebbe stato molto più sicuro, benché più ardito, arrivare al controllo diretto degli apparati giudiziari, seguendo il modello della mafia anni ’80, adeguandolo ai tempi ed estendendolo, con una fitta ragnatela di uomini e interessi, fin dentro i Palazzi di Giustizia? Inutile cercare di volta in volta l’uomo giusto, in grado di “aggiustare” ordinanze cautelari, sequestri, confische, sentenze o processi. E basta anche con affari da miliardi saltati ad opera dello zelante pm di turno. La “consegna” di Totò Riina, poi quella di Provenzano, infine quella di Zagaria, erano messaggi fin troppo chiari: tutti e tre i “super latitanti”, sono rimasti per anni in pantofole a casa loro, fino a quando qualcuno non li ha “consegnati”. La figlia di Riina lo ha dichiarato senza alcun equivoco in tv: suo padre, negli anni in cui era formalmente “ricercato”, girava libero per l’Italia con la famiglia, a volto scoperto, visitavano città, andavano a fare shopping nei centri commerciali. Chi doveva intendere, ha capito: il patto Stato-Mafia, sancito polverizzando la vita e il coraggio di Falcone e Borsellino, poteva arrivare molto, molto più in alto. Allora prima di impazzire, continuando a domandarci perché l’Italia è un Paese, l’unico del mondo occidentale, con la Giustizia deturpata, devastata da sentenze assurde, dove ogni principio del diritto viene impunemente calpestato, ogni giorno, a cielo aperto, teniamo bene a mente questo salto di qualità. E facciamocene una ragione. Finita l’epoca dei “terminali” sparsi negli enti locali e nei palazzi dell’amministrazione giudiziaria, è subentrato il ferreo controllo dell’intero sistema: che si tratti di sezioni lavoro piuttosto che esecuzioni, Corti di primo grado o di appello, giustizia contabile o amministrativa. Uomini “giusti” in posizioni chiave, quasi sempre apicali, stabiliscono fin dall’origine assegnazioni o avocazioni di fascicoli, pilotando la destinazione – e quindi l’esito – di qualunque vicenda giudiziaria che interessi al Sistema. Il resto, le miserie quotidiane dei comuni mortali, è lasciato praticamente al caso. Estremi baluardi di quei principi costituzionali che nelle altre sedi giudiziarie vengono “regolarmente” oltraggiati (a cominciare dalla beffa secondo cui “la Giustizia si amministra in nome del popolo”), sono solo alcuni uomini rimasti dentro le Supreme Corti, sempre più isolati, un pugno di esponenti delle generazioni anziane rimasti immuni dal “contagio”. Questione di tempo: presto andranno in pensione anche loro. E sull’Italia scenderà il buio definitivo. Totale. Abissale.

Il Ruolo degli "utili idioti" nelle Istituzioni, scrive il 28 dicembre 2017 la Redazione de La Voce delle Voci. Riceviamo da Vincenzo Musacchio, direttore Scientifico della Scuola di Legalità don Peppe Diana di Roma e del Molise, presidente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Molise, e pubblichiamo. Ringraziamo il professor Musacchio per questo interessante contributo. Negli anni ottanta in piena lotta alla mafia e quando il pool era in fase di costituzione, Giovanni Falcone espresse un pensiero di una straordinaria semplicità esplicativa: “Dove comanda la mafia, i posti nelle istituzioni sono tendenzialmente affidati ai cretini”. Dopo tutti questi anni, il suo pensiero è ancora attuale, anzi, nelle istituzioni si vedono spesso veri e propri deficienti, termine con cui, in questo contesto, indicherei l’uomo incompetente a gestire le istituzioni statali. Oggi questi incompetenti si ritrovano ai livelli più alti della politica e della burocrazia, poiché la loro funzione è quella di assecondare le necessità delle mafie e della politica corrotta. Il “cretino” di turno, scelto con certosina pazienza, presenta molteplici vantaggi: farà spontaneamente, in alcuni casi addirittura in buona fede, ciò di cui le mafie e la politica hanno bisogno e in alcuni casi lo farà addirittura gratuitamente. Se ci sarà da omettere, ometterà, se ci sarà da assolvere, assolverà, se occorrerà non capire, non capirà. Chiuderà gli occhi, dove dovranno esser mantenuti aperti e li aprirà laddove non occorre mantenerli aperti. Farà il gioco di mafiosi e politici corrotti con azioni od omissioni mirate. Tutto ciò dimostra come la vera forza della mafia sta fuori dalla stessa e non al suo interno. Sta nelle complicità, nelle convergenze che si realizzano su condotte concrete, nei delitti programmati, negli scambi di favori, nel clientelismo, nelle campagne politiche o di opinione che convengono con interessi criminali. Giovanni Falcone sosteneva che la lotta alla mafia avrebbe avuto bisogno di un delitto “eccellente” l’anno: per scuotere la gente, per impegnare e costringere la politica, per non fare addormentare le coscienze. Non è un caso che nella trattativa tra mafia e Stato quest’ultimo ha posto ai suoi interlocutori criminali il ferreo principio della rinuncia ai delitti “eccellenti”: condizione per arrivare in modo delicato e graduale alle agevolazioni promesse. Il giudice Falcone molto sagacemente sosteneva che per dare un colpo mortale alle mafie bastasse semplicemente “fare il proprio dovere”. Aveva ragione poiché ancor oggi la sua affermazione è il più efficace anticorpo contro il virus letale della criminalità organizzata. Il disordine, l’assenza di meritocrazia, l’ignoranza dei principi morali, la volatilizzazione del principio di responsabilità, sono la linfa vitale di cui si nutrono le mafie e i politici corrotti e collusi con la criminalità organizzata. Le mafie con la complicità della politica corrotta sono riuscite ad annullare le basi del nostro codice morale socialmente condiviso. La società ci ha evidentemente trasmesso questo anti-valore della “mafiosità”, che rema contro la meritocrazia di cui abbiamo bisogno per salvare il nostro Paese. Quando la meritocrazia non è praticata, spesso, c’è la “mafia” che opera sullo sfondo. Il caso più clamoroso è sicuramente quello delle nomine nelle istituzioni pubbliche. Mafiosi e collusi a volte lo siamo tutti. Mi piace molto la frase di Rita Atria: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”.

Vincenzo Musacchio, direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise.

Giusto Sciacchitano. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giusto Sciacchitano (Palermo, 5 dicembre 1940) è un magistrato italiano. Dopo gli studi in seminario, si laurea in Giurisprudenza alla Pontificia Università Lateranense. Nel 1980 è sostituto procuratore a Palermo, e il 9 maggio di quell'anno si dissocia dal procuratore Gaetano Costa nella convalida di decine di ordini di cattura contro il clan Gambino-Spatola-Inzerillo. Fu poi componente del pool antimafia di Palermo. Negli anni '90 è distaccato al ministero degli Esteri e nel 1997 è scelto dal CSM come sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia. Nel 2010 Massimo Ciancimino dichiara che fu Sciacchitano a dirgli di tacere sugli affari di una società denominata "Gas". L'8 novembre 2012 è nominato nuovo Procuratore nazionale antimafia aggiunto. Dal 27 dicembre, con le dimissioni di Pietro Grasso, regge la Procura nazionale antimafia fino alla nomina il 25 luglio 2013 di Franco Roberti. Nel febbraio 2018, a seguito di un servizio televisivo delle Iene, gli viene sequestrato l'albergo Elena in piazza Giulio Cesare a Palermo che aveva cessato l’attività nel 2014. L' albergo continuava ad operare abusivamente nonostante la licenza scaduta.

L'hotel abusivo del giudice Giusto. Servizio di Antonino Monteleone dell'11 febbraio 2018 de Le Iene. Chi è l’ex magistrato ed ex procuratore nazionale antimafia che non sa che la moglie gestisce un hotel completamente abusivo in piazza della stazione a Palermo?

Il Giudice Giusto colpisce ancora. Servizio di Antonino Monteleone del 18 febbraio 2018 de Le Iene. Anche a Roma l’ex procuratore nazione antimafia Giusto Schiacchitano gestirebbe un b&b abusivo dove si accettano solo contanti e senza ricevuta.

Palermo, l’albergo abusivo dell’ex procuratore nazionale antimafia, scrive il Tgcom24 il 12 Febbraio 2018. Il servizio delle Iene sull’Hotel Elena, gestito dalla moglie di Giusto Sciacchitano. A pochi passi dalla stazione centrale di Palermo, in piazza Giulio Cesare, c’è un albergo ufficialmente chiuso da anni che però continua a lavorare abusivamente. Si tratta dell’Hotel Elena la cui licenza, ormai scaduta, non è mai stata rinnovata. L'ulteriore stranezza, messa in luce da un servizio de Le Iene, è che la struttura è di proprietà di Giusto Sciacchitano, ex magistrato ed ex procuratore nazionale antimafia. Il servizio della trasmissione di Italia Uno mostra come la moglie del giudice, Maria Galasso, affitti le stanze rigorosamente in contanti, senza ricevuta e facendo firmare ai suoi ospiti un contratto non regolare. Eppure né il giudice né la moglie ammettono l’illecito e sostengono davanti alle telecamere di essere pienamente in regola. Dopo le segnalazioni e i controlli della polizia municipale la struttura non solo è stata messa sotto sequestro, ma gli sono state comminate multe per oltre duemila euro. Ma non è tutto perché gli stessi ufficiali di polizia hanno anche scoperto che i lavori di ristrutturazione in corso all'interno del palazzo erano totalmente abusivi. Di giusto, insomma, c’è solo il nome del giudice Sciacchitano.

Le Iene Show, 18 febbraio 2018. Dopo le vicende dell’Hotel Elena, Antonino Monteleone ha di nuovo beccato in flagrante Giusto Sciacchitano, ex magistrato dell’antimafia: Il giudice giusto colpisce ancora. In seguito alla messa in onda del primo servizio, alcune famiglie senza dimora hanno occupato lo stabile dell’Hotel Elena; continuando a indagare inoltre, il giornalista ha scoperto che Sciacchitano gestiva un bed&breakfast anche a Roma, in via Silla. Le modalità sono le medesime: pagamento in contanti, nessun tracciato in modo da evadere il fisco. Il bed&breakfast risulta di proprietà di Sciacchitano, ma non come attività.

Palermo, il giudice che non sapeva che la moglie gli gestiva un hotel abusivo, scrive il 12 Febbraio 2018 "Zonedombratv.it". L'Hotel in questione si chiama Elena e si trova a pochi passi dalla stazione centrale di Palermo, in piazza Giulio Cesare. E fin qui tutto bene. Il fatto strano, però, è che l'albergo, pur risultando ufficialmente chiuso da anni, continua a lavorare abusivamente con la licenza scaduta e mai rinnovata. Altra stranezza è che la struttura è di proprietà di Giusto Sciacchitano, ex magistrato ed ex procuratore nazionale antimafia. A mettere in luce la vicenda sono state Le Iene che hanno mostrato come la moglie del giudice, Maria Galasso, affitti le stanze rigorosamente in contanti, senza ricevuta e facendo firmare ai suoi ospiti un contratto non regolare. Né il giudice né la moglie ammettono l’illecito e sostengono davanti alle telecamere di essere pienamente in regola. Solo dopo le segnalazioni la polizia municipale ha effettuato i controlli e ha disposto il sequestro della struttura e multe per oltre duemila euro. Gli ufficiali di polizia hanno anche scoperto che i lavori di ristrutturazione in corso all'interno del palazzo erano totalmente abusivi. "Le dice niente Hotel Elena?" chiede il giornalista al giudice. Sciacchitano risponde di no pur risultando dal Catasto che lui è proprietario dell'intero immobile e dell'Hotel. L'attrice con la telecamera nascosta è riuscita a documentare ciò che accade, presumibilmente, ogni volta che un cliente chiede una stanza. La donna ha potuto pagare solo in contanti e all'ingresso. La donna, moglie del magistrato, alla reception ha imposto il pagamento liquido di 35 euro. E, stando alle dichiarazioni rilasciate, Giusto Sciacchitano, ex magistrato ed ex procuratore nazionale antimafia, non ne sapeva nulla. Ah, ovviamente i vigili urbani, che hanno la sede del Comando nella stessa piazza dell'Hotel, non si sono mai accorti dell'hotel abusivo. Grazie alla denuncia de Le Iene, l'hotel è stato multato ed è stato posto l'intero palazzo sotto sequestro.

Palermo, altre 10 famiglie occupano l'hotel Elena. Arrivano da Ballarò, da corso dei Mille e da Brancaccio. Vivevano in auto o in case per cui non potevano più pagare l'affitto, scrive Claudio Brunetto il 15 febbraio 2018 su La Repubblica. Altre 10 famiglie, ieri sera, hanno occupato l'hotel Elena di piazza Giulio Cesare di proprietà dell'ex magistrato Giusto Schiacchitano, sequestrato la scorsa settimana perché non in regola. Sale così a 17 il numero delle famiglie di senzatetto che hanno trasformato i mini appartamenti, riservati in nero agli avventori di passaggio, nelle loro abitazioni. Le famiglie arrivano da Ballarò, da corso dei Mille e da Brancaccio. Vivevano in auto o in case per cui non potevano più pagare l'affitto. Ci sono anche una ventina di bambini piccolissimi, donne incinte e un ragazzo disabile. "Non abbiamo alternative - dicono gli occupanti - e siamo qui per necessità. Speriamo che non ci buttino fuori". Le pattuglie della polizia sono rimaste davanti all'hotel Elena fino a tarda sera e anche stamattina erano lì. I sette mini appartamenti sono stati già occupati, ma adesso i senzatto stanno prendendo di mira lo stabile principale: i due piani dell'hotel che non erano utilizzati e dove erano in corso lavori di ristrutturazione non autorizzati che hanno fatto scattare il sequestro penale.

Il figlio del giudice Sciacchitano e il grande affare del metano, scrive il 12 febbraio 2018 "Telejato". L’affare del metano nasce e prende corpo in Sicilia agli inizi degli anni ’90, allorché i sei fratelli Cavallotti cominciano ad occuparsene. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e da questa ai Comuni, che penseranno ad affidare le concessioni. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. È tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerose concessioni per metanizzare molti comuni, con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi. Sul mercato c’è già l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale, decide di potenziare la società, e chiede soldi e protezione a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica. Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini, a Cuffaro: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità che apre le porte alla Gas spa e al terzetto Ciancimino-Lapis-Brancato, perché con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi direttamente gli appalti, senza alcuna celebrazione di gara: rispetto alle proposte di concessione presentate dai Cavallotti le cifre vengono raddoppiate, in qualche caso triplicate. Addirittura, le ditte private vengono escluse, con una circolare dell’allora assessore all’industria Castiglione, dalla possibilità di accedere ai finanziamenti pubblici, mentre, con un escamotage, la cosa è consentita all’azienda GAS spa. Unico ostacolo la Comest e la Coip, cioè le aziende del gruppo Cavallotti, che già hanno ottenuto numerose concessioni nei comuni Siciliani, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira, è scritto: “Cavallotti quattro miliardi”. Non parleremo del calvario subito dai Cavallotti, che si trascina sino ad oggi e del quale si sono occupati Le Iene, con la nostra collaborazione. Tutto liscio invece, almeno sino a poco tempo fa per la società Gas spa di Ezio Brancato composta da sei imprese, con sede a Palermo, in via Libertà 78, che fornisce metano a 74 città siciliane, oltre che in Abruzzo. Ciancimino fiuta l’affare e si ci ficca dentro, sino a quando non è condannato, il 2 dicembre 1993 per associazione mafiosa. Quando i beni di Ciancimino vengono confiscati, viene anche confiscata la sua quota, ma non quella di Brancato. Il 13 gennaio 2004 è una data importante per la multinazionale spagnola Gas Natural sdg. Quel giorno la compagnia iberica acquista con ben 120 milioni di euro una società italiana del gruppo Gas spa. Tra i magistrati chiamati in causa dall’avvocato Livreri ci sono Giuseppe Pignatone (oggi procuratore della Repubblica a Roma), Michele Prestipino Giarritta (pm a Reggio Calabria), Sergio Lari (già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta) e i pm presso il Tribunale di Palermo, Lia Sava e Roberta Buzzolani. Un altro magistrato indicato nei suoi esposti dall’avvocato Livreri è Giustino Sciacchitano, già in servizio presso il Tribunale di Palermo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 (proprio quando la mafia ammazzava l’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa) e poi magistrato presso la Dda a Roma. Per la cronaca, il figlio di Giustino Sciacchitano, Antonello, avrebbe sposato Monia Brancato e sarebbe consuocero della Maria D’Anna Brancato. Secondo una dichiarazione di Antonello Sciacchitano, nell’ottobre 2000, al matrimonio vip di Monia Brancato, figlia del Presidente della GAS siciliana con lo stesso Antonello Sciacchitano, figlio del Procuratore Giustino Sciacchitano, c’erano tra gli amici dello sposo Giuseppe Pignatone (già procuratore aggiunto a Palermo, poi procuratore capo a Reggio Calabria, oggi procuratore capo a Roma), Pietro Grasso (già Procuratore capo a Palermo), Francesco Messineo (già procuratore capo a Palermo) e Luigi Croce (già Procuratore generale Corte Appello Palermo). Ovviamente c’era anche lo zio Gianni Lapis e la sua famiglia e lo zio Luigi Italiano con il fratello Giuseppe Italiano, i Campodonico e l’avv.to Mulè e tutti gli altri soci della GAS. Secondo una chiave di lettura tutta siciliana sembra evidente che il calvario e la fine dei Cavallotti abbia avuto come contraltare il successo della società GAS di Brancato e di tutto il codazzo di politici, con il presunto consenso di alcuni magistrati a vantaggio del figlio del giudice Sciacchitano, che poi si è separato da Monia Brancato e alla quale, solo lo scorso anno, nel 2017, sono stati messi sotto sequestro i beni. Tutto ciò, tanto per aggiungere un tassello all’allucinante vicenda dell’Hotel Elena, gestito dalla moglie di Giusto Sciacchitano, del quale abbiamo avuto notizia in un recente servizio delle Iene: un albergo esistente, ma inesistente, al quale finalmente, solo oggi sono stati messi i sigilli del sequestro.

 “Ostacolò mio padre nella lotta alla mafia, adesso lo premiano”. Giusto Sciacchitano sarà procuratore aggiunto alla Direzione Nazionale Antimafia? A Michele Costa, figlio di Gaetano Costa, giudice ucciso dalla mafia, non va giù: Sciacchitano, da sottoposto, aveva contrastato i suoi procedimenti contro la mafia. Una storia oscura, che corre sui confini non chia..., scrive Giuseppe Alberto Falci il 5 Dicembre 2012 su L’Inkiesta. All’inizio di novembre Giusto Sciacchitano è stato nominato Procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia. A scegliere il suo nome è stato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. La notizia non ha trovato il giusto spazio sui giornali, ed è scivolata tra le brevi in pagina interna. Però ha fatto sbottare l’avvocato Michele Costa, figlio di Gaetano Costa, magistrato ucciso dalla mafia dopo aver firmato una sfilza di ordini di cattura in contrasto con i suoi sostituti, fra quali vi era proprio il giovane Giusto Sciacchitano. Linkiesta ha intervistato Michele Costa per farsi raccontare che persona fosse (ed è) il neo procuratore aggiunto della Dna, e anche per comprendere meglio il fenomeno Cosa Nostra.

Avvocato Costa, lei è sobbalzato dalla sedia quando è stato nominato Giusto Sciacchitano procuratore aggiunto delle Dna.

«È comprensibile. C’è una lunga storia, che riguarda suo padre e Sciacchitano».

Quando si incontrarono?

«Prima di tutto, è meglio fare una premessa. Mio padre fu nominato Procuratore Capo di Palermo nel gennaio del 1978. Però, fino a luglio 78, nonostante l'incarico gli fosse stato già conferito, di fatto le funzioni di procuratore capo sono state continuamente esercitate dal precedente, perché Giovanni Pizzillo (ex procuratore capo di Palermo di allora) si rifiuta di chiedere l’anticipato possesso».

Lei, avrà pratica, l’anticipato processo non è stato rifiutato nemmeno alla Procura di Roccacannuccia! E allora cosa succede?

«Si insedia nell’agosto del 1978. Inizialmente si guarda intorno. Ma fino alla fine di Natale viene tenuto sotto controllo. Sopra di lui, l’aggiunto Martorana guarda tutto, e filtra tutto quello che gli deve arrivare. Mio padre che fa? Inizialmente cerca di evitare il filtro di Martorana, ma alla fine, consapevole che la Procura della Repubblica non può essere bicefala ma deve essere monocefala, decide di scontrarsi, anche in modo duro, con Martorana. Gli spiega che è lui il Procuratore della Repubblica, non altri. Da quel momento gli attacchi diventano diversi. Lei consideri che lui incontrò solo una volta il poliziotto Boris Giuliano, all’epoca uno degli investigatori più efficienti e innovativi nella lotta alla mafia. Una delle tecniche di mio padre erano le cosiddette “perquisizioni domiciliari”. Ovvero si alzava dalla sedia, si faceva un giro nelle stanze dei suoi sostituti e sbirciava. Un’altra tecnica era quella di garantire una diffusione dell’informazione all’interno del pool. Tenga presente questi due aspetti. Allo stesso tempo, nonostante questa diffusione di informazioni, non si parlava di dare del “tu”. Questa è la premessa per comprendere il clima».

Andiamo al caso in questione.

«Bene. Era successo che, da Milano, il giudice Giuliano Turone, che indagava sulla morte di Ambrosoli, aveva chiesto informazioni su un certo Antonio Inzerillo, che aveva portato una lettera da Michele Sindona all’avvocato Guisi. La richiesta di informazioni era stata presentata a Bruno Contrada. Lui aveva indagato e sintetizzato così: «Passando dalle famiglie Spatola ed Inzerillo si arriva a tutto il male del mondo». Si era alla prima vera spallata contro la mafia, contro il gruppo Spatola-Inzerillo, e bisognava convalidare più di 50 arresti. I due sostituti, Luigi Croce e Giusto Sciacchitano, erano perplessi. Gli altri sostituti, ad eccezione di Vincenzo Geraci, fecero quadrato intorno a loro. Tant’è che il giorno prima della convalida degli arresti ci fu una riunione per spalleggiarli in caso di scontro. Mio padre firmò da solo. Ma quella riunione non rimase nelle segrete stanze perché Sciacchitano, parlando con Filecci, avvocato di Spatola, e con un giornalista presente, disse: «Eravamo tutti contrari, tutti tranne lui». L’indomani i giornali uscirono con i titoloni che recitavano: «Scontro in pretura». Quando io chiesi a mio padre cosa fosse successo, lui mi rispose: «Hanno voluto fare una verifica. C’era qualcuno che era garantista sul serio, qualcuno aveva paura, qualcuno era colluso». Quello fu il primo processo vero contro la Mafia, e si scopre tutto: si scopre che c’era Michele Sindona, che c’era Guido Calvi, che c’era la P2. Per la prima volta si era indagato seguendo le linee patrimoniali».

Ma sull’episodio non è intervenuto il Csm?

«Il Csm non nega che non sia un comportamento anomalo, quello di Sciacchitano, e ritenne quel comportamento “censurabile” ma non comminò nessuna sanzione. Per anni ci siamo chiesti come mai non fosse stato toccato, nemmeno con un richiamo formale. Durante il processo qualcuno tirò fuori il rapporto di Sciacchitano con Angelo Siino (definito “il ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina), ma non siamo mai riusciti a trovare elementi su questa storia. Recentemente Massimo Ciancimino raccontò dei rapporti di Sciacchitano con la Siciliana Gas, cioè con Siino. Quando poi una persona insospettabile, interrogato come teste, disse “Sì, l’ho incontrato in casa di Siino, insieme a tutta una serie di personaggi”, noi abbiamo fatto un esposto alla Procura di Catania, dove ritenevamo fosse incardinato il processo. La Procura di Catania non reagì, e io scrissi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il quale subito chiese informazioni, e immediatamente il procuratore della Repubblica di Catania si accorse del processo e lo mandò a Caltanissetta. E da lì non si ebbe più nessuna notizia. In questi anni ho subito l’oltraggio di vedere Luigi Croce Procuratore generale a Palermo. L’oltraggio di uno che il Csm definì “inadeguato”. Ma sapere al vertice dell’Antimafia Giusto Sciacchitano mi è dispiaciuto. E il mio avvocato ha scritto una lettera a Napolitano per spiegargli le cose».

Ma lei scrisse anche a Scalfaro?

«La prima volta fu nel 1992. Quando il Csm deliberò che Sciacchitano fosse «bravissimo», ma che non fosse il caso di mandarlo lì, alla “Super Procura” cioè la direzione antimafia. A quel tempo il procuratore nazionale antimafia è Vigna e io chiedo di incontrarlo. Vigna mi giura che non darà mai parere positivo per Giusto Sciacchitano, per tutto quello che rappresenta. E guardi un po’, dopo quindici giorni fa la famosa dichiarazione in cui dice che l’unico che può andare a ricoprire quel posto è Giusto Sciacchitano. Dichiarazione che tra l’altro non si comprende».

E stavolta? Il Csm ratificherà la nomina?

«Per quelle che sono le notizie che ho, non dovrebbe ratificarla. E comunque non la ratificherà in modo indolore. Alcune persone spontaneamente mi hanno dimostrato la loro solidarietà. Alcuni si sono sentiti offesi. Però...»

Però cosa?

«Sciacchitano è una potenza clericale. L’ho scoperto adesso. Infatti ho intenzione di scrivere al Cardinale Romeo. Recentemente è stato a Palermo a fare una lezione sulla legalità per una scuola di “parrina” (preti)».

Perché la stampa ha ignorato, o comunque non sottolineato la notizia della nomina di Sciacchitano?

«Lei tenga presente, ad esempio, che l’edizione palermitana di Repubblica non scrive un rigo per commemorare la morte di mio padre. La prima volta ritenevo che fosse un buco giornalistico. Tenga presente che mio padre nasce partigiano, fece parte del partito comunista clandestino. Era un uomo di sinistra. Subito dopo che morì cercarono di tirare fuori qualsiasi cosa contro di lui. Abbiamo subito i tentativi di depistaggio addirittura da Giovanni Falcone. Il quale, nel primo maxi processo, nel 1986, scrive: «È veramente triste che un galantuomo venga ucciso solo perché c’è un delinquente che vuole fare una bravata». Fa dire a Tommaso Buscetta che Costa è stato ucciso da Cosa Nostra solo per dimostrare di essere potenti. E la stessa cosa la ripete con Marino Mannoia: «Sì, è stato ucciso per la sua testardaggine». In realtà, come c’è scritto nella sentenza (anche se con molta prudenza) mio padre fu ucciso per una serie di motivi. Cui la convalida del fermo di 40 mafiosi non era quello più importante. Il problema era la concreta interferenza negli affari e nella gestione dei contratti della mafia. E qui c’è il “dubbio palermitano”».

Cos’è il “dubbio palermitano”?

«Lei si rende conto che a ogni commemorazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, esce una nuova pista investigativa? Ancora oggi c’è chi non vuole prendere atto che l’epopea dei maxi processi fu un fallimento. E che fu un fallimento lo disse anche Giovanni Falcone. Nel 1991, in un’intervista rilasciata a Maurizio Costanzo, Falcone dice: «Il rimpianto è di essere stato ad un passo di una svolta epocale e di non esserci riusciti». Le giustificazioni non sono rivelanti. Il problema vero è che sia lui stesso ad ammetterlo».

E oggi cosa sta succedendo in Sicilia?

«La cosa più terribile è la mafia dell’antimafia. Quando io scopro che c’è uno strumento che crea consenso, non è importante tutto il resto. Anche le vittime della mafia hanno seguito in gran parte questa stessa strada. Noi ci siamo costituiti in parte civile per stabilire di trovare un colpevole. Io vorrei sapere tante altre parti civili cosa hanno fatto. Continuano a processare per 15 anni, 20 anni, ma una condanna seria non c’è...»

Un’ultima domanda: in un’intervista rilasciata a Linkiesta, Pietrangelo Buttafuoco distingue fra due tipi di antimafia, quella di “chiddi ingenui”, e quella di “chiddi sperti”. Ci spieghi l’affermazione di Buttafuoco.

«L’antimafia di quelli ingenui, che è perdente, è di quelli che hanno la convinzione di cercare le prove, di cercare la verità. “Chiddi sperti” parlano di legalità, ostentano legalità, e poi quando qualcosa colpisce l’opinione pubblica e loro che fanno? Semplicemente cavalcano l’onda. Ma c’è un solo modo per garantire la legalità, imporre la trasparenza. Punto».

(Michele Costa, classe ’45, nisseno, avvocato, figlio del giudice Gaetano Costa, ucciso dalla mafia nell’agosto del 1980. È stato anche assessore al comune di Palermo, durante la sindacatura di Diego Cammarata. A fine intervista confida aLinkiesta: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano nemici da sempre, nemici sul serio. Stranamente, essendo nati nella stessa piazza da nemici non si incontrarono mai. Addirittura Paolo Borsellino, nella prima fase della carriera da magistrato, non intuì la lotta strategica della lotta alla mafia. Il magistrato antimafia era solo Giovanni Falcone) 

 ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

Chiusi per mafia, scrivono G. Baldessarro e A. Bolzoni il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Ce ne sono alcuni che sono stati "chiusi” due e anche tre volte, in altri non si presentano più neppure le liste per scegliere un sindaco. E' la democrazia sconfitta dalle mafie. Da quando si è fatta la legge per fronteggiare l'“emergenza” dei Comuni infiltrati dal crimine - era il 1991 - in Italia sono stati inviati commissari prefettizi in 289 città e paesi. Al Sud ma da qualche tempo anche in un Nord che ha dovuto fare i conti con l'infezione, in capitali di 'Ndrangheta come Reggio Calabria e in sterminati quartieri di Roma come Ostia, a Brescello in Emilia e a Sedriano in Lombardia, nei territori dell'Aspromonte, in Puglia, in Campania e naturalmente in Sicilia. Cadono giunte di tutti i colori, destra e di sinistra, circoscrizioni, aziende sanitarie. Dove c'è invasione di boss e "condizionamenti”, il governo centrale da quasi trent'anni ha questo potere: “sciogliere”. Tenere in pugno un Comune per le mafie non è solo una questione economica, ma molto di più. E' distribuire lavoro, mantenere il consenso sociale, controllare il territorio. Affermare sovranità. La legge sullo scioglimento degli enti locali ha provato - almeno sulla carta - a rimettere le cose a posto. E, per un bel po', ha svolto efficacemente il suo compito. Però sono passati tanti anni e anche questa legge mostra oggi le sue crepe, soprattutto perché quando si cacciano sindaci e consiglieri in quegli stessi Comuni resta sempre a "comandare” una burocrazia che di solito non è meno influenzabile (e intossicata) della classe politica. A volte poi, c'è stato l'odioso sospetto che la "chiusura” sia stata determinata da scelte politiche più che criminali. Serve una revisione della legge? Bisogna cambiare qualcosa? Il dibattito sulla sua incisività e sulla sua resistenza al tempo è aperto. Con la “serie” del blog che inizia questa mattina abbiamo voluto mettere sul tavolo della discussione i contributi di studiosi ed esperti come Claudio Cavaliere e Vittorio Mete, Vittorio Martone, Doris Lo Moro, Marco Magri. C'è anche la testimonianza di Maria Cacciola, Rosanna Mallemi e Giovanna Termini, le tre funzionarie nominate in quel Comune che fu reame di Totò Riina, Corleone. E poi tanti nostri amici giornalisti che ci hanno consegnato le loro cronache dai territori. Come quella che ha ricordato il primo “quasi sindaco” mandato via con decreto presidenziale - Capo dello Stato era allora Sandro Pertini - quando ancora la legge sullo scioglimento dei Comuni non esisteva. Era il 1983. E in un paesino della Calabria, Limbadi, il più votato di tutti risultò Ciccio Mancuso, il boss dei boss della zona. Ma al di là del provvedimento del Presidente Pertini, sarebbe stato molto difficile per don Ciccio amministrare Limbadi. Era una condizione molto particolare, la sua: don Ciccio era latitante.

La democrazia battuta e mortificata per 289 volte, scrive Claudio Cavaliere - Sociologo e giornalista - il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Ci sono voluti quarantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza della criminalità organizzata nella democrazia locale. Quasi mezzo secolo di sdegnoso disinteresse ha prodotto quella storia mancata che costringe oggi a sciogliere per mafia pezzi dello Stato, il cuore politico del rapporto istituzioni-cittadini: i Comuni appunto. Una statuaria indifferenza crollata di colpo. Di colpo, nel 1991 nasce il fenomeno, quasi si fosse stati colti alla sprovvista. Come se prima la mafia, nelle sue varie declinazioni regionali, non avesse già gestito direttamente istituzioni, risorse, enti pubblici e quant’altro. Questione di priorità, se è vero che la Repubblica dei primi decenni si pensò di difenderla rimuovendo Sindaci e inibendoli dall’elettorato passivo per anni con l’accusa di avere firmato appelli contro la bomba atomica, promosso dibattiti e manifestazioni di protesta contro i governi in carica o di avere solo espresso valutazioni ritenute non conformi. Massimo Severo Giannini scrisse di quei decreti come “offese all’intelligenza” e “buoni per la storia dell’umorismo prefettizio” e il sindaco di Bologna Dozza coniò nel 1951 l’espressione “il reato di essere sindaco”, per denunciare le condizioni in cui erano costretti ad operare i sindaci di sinistra. Certo il “puzzo acre di guerra civile” denunciato da De Gasperi fece orientare l’attenzione occhiuta e assillante dei prefetti esclusivamente verso le amministrazioni locali di sinistra considerate sediziose e pregiudizievoli per l’ordine pubblico mentre i Comuni siciliani sparirono dai radar dell’attenzione del ministero dell’interno protetti dal velo dell’autonomismo. Eppure già dopo le prime elezioni comunali del 1946 i casi di municipi in cui è evidente la gestione diretta della criminalità organizzata sono innumerevoli, ma solo per un paio di eclatanti episodi c’è traccia dell’intervento del ministero senza mai pronunciare la parola mafia che allora formalmente non esisteva. Quando nel 2016 viene sciolto per infiltrazioni il comune di Corleone i cognomi richiamati nella relazione del decreto sono quelli degli anni ‘50 citati dalle prime commissioni parlamentari antimafia, a conferma che l’infeudamento mafioso nei municipi non è una invenzione sociologica ma una condizione stabile che si misura nel tempo nella capacità di competere e di autorappresentarsi all’interno dei meccanismi codificati della democrazia locale. Sarà la mattanza degli anni ottanta e la circostanza che decine di consigli comunali sono zeppi di diffidati di P.S. a mettere fine a quella finzione. Ancora una volta sarà il sangue a dettare il tempo della reazione, con la politica costretta ad inseguire gli avvenimenti, a tenere il conto di oltre sessanta amministratori locali uccisi i cui nomi si fa fatica ancora oggi a ricordare. La legge del 1991, che prevede lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, non riscosse l’interesse del Parlamento. Più volte, durante le votazioni sui singoli articoli, mancherà il numero legale e alla votazione finale parteciperanno giusto i deputati necessari per farla approvare. Una delle poche verità di questa legge è la rimozione di una finzione, quella della rappresentanza politica derivante dalle elezioni come indicatore sufficiente di democraticità. In sostanza si riconosce che un organo elettivo può non essere democratico. Ma lo fa utilizzando due concetti autoassolutori, quello di “infiltrazione” e “condizionamento”, incapaci di leggere e di vedere la criminalità organizzata impadronirsi dei meccanismi della democrazia e di conseguenza legittimarsi con il consenso come forza di governo. Le organizzazioni criminali non hanno bisogno di creare istituzioni parallele, l’esistente serve benissimo allo scopo. Si può vivere ed operare all’interno delle funzioni dello Stato senza dover rinunciare alla propria storia criminale. Si tratta di una vera e propria “ibridazione” delle istituzioni che avviene con regole e leggi che rimangono apparentemente il principio organizzatore della vita delle comunità. Da allora oltre un quarto di secolo non è bastato per impedire, o semplicemente per porre un argine all’occupazione mafiosa dei Comuni. In quel lontano 1991 c’era consapevolezza nel relatore della legge che in aula affermava: “[…] stiamo raschiando il barile […] perché le altre strade per risolvere il problema richiedono un qualcosa che a me sembra più difficile, e cioè un'autoriforma del potere politico. […] Di conseguenza, si è costretti ad usare strumenti legislativi, laddove sarebbero molto più incisivi e più correttamente applicabili in una dialettica democratica gli strumenti della politica.” Continuando a negare che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, significa non trovare le vere contromisure se non i reiterati scioglimenti accompagnati da un dibattito stantìo, buono a riconoscere il radicamento della mafia ma senza essere conseguenti per procedere alla sua rimozione nelle strutture politiche, sociali e civili. Il colore politico delle amministrazioni disciolte per mafia non è mai stato una discriminante. Il 29% erano di centro-destra, il 21% di centro-sinistra, il 40% liste civiche, il resto in prevalenza monocolori di centro (9%). Neanche la demografia è una discriminante: il 32% sono piccoli comuni, dato che smentisce la tesi per cui il taglio demografico non renderebbe credibile l’interesse della mafia per comuni con bilanci minuscoli. Una teoria ingenua, che trascura l’omogeneità di funzioni tra piccoli e grandi e che ampi settori della vita locale dipendono dalla regolazione pubblica: appalti, urbanistica, licenze, usi civici, boschi, pascoli, e quant’altro sono settori a completo controllo locale. Dei 289 comuni sciolti per infiltrazioni mafiose (al netto degli annullati) 53 hanno bissato o triplicato lo scioglimento a dimostrazione che la legge, che cerca di offrire una risposta attraverso la ripetizione delle elezioni come generatrice di una dinamica di responsabilizzazione, non funziona. Come un fastidioso moscone che sbatte contro i vetri della finestra senza trovare la via d’uscita, i ripetuti scioglimenti confermano che il problema non risiede nelle norme quanto nel sistema politico in cui hanno un peso rilevante la mancanza di partecipazione partitica (specie nei piccoli comuni) e l’irrisolto problema della scelta e selezione dei candidati, in una parola la cultura politica locale, ossia il sistema di relazioni che agisce nel contesto storico-territoriale su cui non c’è ormai più alcun intervento della politica. Anche sulla burocrazia il dibattito è datato. Venticinque anni fa la legge elettorale sull’elezione diretta del sindaco fu fatta anche per questo, per battere l’irresponsabilità diffusa. Anche se vinci per un voto ti do una maggioranza netta; di più, ti do la possibilità di sceglierti la squadra di governo; di nominare i dirigenti nei settori; di scegliere il segretario comunale; di modificare a piacimento la struttura organizzativa del comune; di nominare i rappresentanti delle società partecipate; di assumere dirigenti a tempo determinato. Solo che il prezzo da pagare è uno solo, semplice, solare: la responsabilità politica ed amministrativa non il balletto irricevibile dei “non sapevo.” C’è poi il tema della risposta dello Stato, non sempre all’altezza. Il tempo medio di scioglimento di un comune infiltrato è poco più di tre anni dal momento delle elezioni. Una consiliatura ne dura cinque, con buona pace di chi definisce questa legge come preventiva. Dopo ventotto anni non esiste un ruolo ad hoc per funzionari e prefetti chiamati a guidare i comuni disciolti per infiltrazioni, come se venire da una prefettura significa “comprendere” di amministrazione locale. L’esperienza insegna che non è così. Le gestioni commissariali sono spesso deficitarie perché affidate a figure che non hanno mai avuto a che fare con i municipi, con i loro problemi, con le loro norme. Oggi sul tema dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che “elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare”, cosicché gli scioglimenti dei Comuni per mafia ci invitano a ragionare in maniera meno ortodossa intorno a un fenomeno sul quale siamo lontani da una soluzione.

Calabria, Salvini a San Luca, il comune che non vota mai: "Qui non c'è solo 'ndrangheta". Il ministro dell'Interno passa in Aspromonte la tradizionale giornata di Ferragosto che il Viminale dedica a fare il punto sulla sicurezza del Paese, in una cittadina blindata. Ma la testa è a Genova e sul caso dei fondi al suo partito glissa, scrive Alessia Candito il 15 agosto 2018 su "La Repubblica". Neanche il tragico crollo del ponte Morandi a Genova ha convinto il ministro dell'Interno Matteo Salvini a cambiare programma. Aveva deciso che la tradizionale riunione di Ferragosto, dedicata dal Viminale al punto sulla sicurezza del Paese, si tenesse a San Luca, nel cuore dell'Aspromonte. E nonostante a Genova la conta dei morti crescesse di ora in ora, così è stato. Il programma è stato sforbiciato, gli appuntamenti contingentati, ed è saltata la gita a Polsi, il santuario divenuto simbolo della 'ndrangheta, fino a qualche tempo fa affidato a don Pino Strangio, sacerdote oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma come da programma, in mattinata Salvini si è presentato in una San Luca blindata. Un luogo simbolo per la 'ndrangheta. È lì che risiede uno dei più potenti casati mafiosi di Calabria, i Nirta "La maggiore". È lì che si è consumata per anni una sanguinosa faida tracimata esattamente 11 anni fa nella strage di Duisburg, che ha fatto scoprire alla Germania il volto e la presenza dei clan calabresi nelle proprie strade. È lì che i cittadini hanno deciso di non votare più. Terminato il commissariamento per mafia, fallite per mancato raggiungimento del quorum le elezioni del 2015, a San Luca nessuno ha più presentato liste. Anche il 10 giugno scorso le elezioni sono saltate e il Comune è rimasto commissariato. Ma di tutto questo, Salvini fa a stento menzione. "San Luca dovrà avere un sindaco. Verrò personalmente a seguire le elezioni. Ringrazio il commissario che ha fatto tanto ma i cittadini meritano un sindaco come tutti gli altri cittadini" dice uscendo dal Municipio, dopo un brevissimo incontro con il commissario prefettizio Salvatore Gulli e una delegazione di sindaci della Locride. Fuori c'è chi inscena un mini sit-in per rivendicare che San Luca non sia considerato il paese dei clan esponendo cartelli con le scritte "San Luca non è 'ndrangheta". Un ex assessore rivendica la decisione di disertare le urne. "È normale che qui non si voti da dieci anni - dice - abbiamo tutti lo stesso cognome e si passano guai quando il Comune viene sciolto". Nel paese che vanta fra le maggiori densità criminali della Calabria, ha il coraggio di affermare: "Qui il problema non è la 'ndrangheta, io non so neanche cosa sia. Qui il problema è la disoccupazione". Il ministro ha poco tempo, alle 15.30 è atteso a Genova per una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, ma si concede comunque per baci, abbracci, strette di mano e selfie. Di fronte alla stazione dei carabinieri, su invito del capofamiglia, si avvicina persino alla casa di una neo sposa.  In tanti gli lasciano lettere, gli presentano richieste, lo tirano per la camicia. Lo avvicina la madre di Marco Marmo, una delle vittime della strage di Duisburg. "Voglio giustizia per mio figlio. I responsabili ci sono ma in appello sono stati assolti, uno solo di loro è stato condannato. Bisogna dirlo, qui la 'ndrangheta c'è". È la prima a dirlo in un paese in cui tutti fanno spallucce quando si parla di clan. "Non è vero - gridano in piazza -, non è qui. La vera 'ndrangheta sta a Roma, in Parlamento, fra i politici". Salvini non si sente chiamato in causa. E gli applausi che accompagnano la sua passeggiata per le vie del paese sembrano dargli ragione. Per farsi sentire meglio, sale su un parapetto, trasformato per l'occasione in balcone, e si rivolge direttamente ai sanluchesi. "Ho scelto di essere qui, a Ferragosto per ricordare che la mafia non ha diritto di esistere, lo Stato c'è e che è meglio della 'ndrangheta". Ma, dice subito, San Luca e la Calabria "non sono solo 'ndrangheta". Promette verifiche su strade, ponti e infrastrutture traballanti, giura che i sindaci potranno investire per sistemarle anche senza curarsi dei vincoli di bilancio e assicura che "La mia qui a San Luca non è toccata e fuga. Ci tornerò". Disinnesca chi chiede lavoro e investimenti con una battuta, "non sono batman ma ci proverò" e sulla 'ndrangheta si trincera dietro i risultati ottenuti da magistratura e forze dell'ordine. "Posso dire con soddisfazione che gli arresti sono triplicati". E per il futuro? "La scorsa settimana il Consiglio dei ministri ha approvato un provvedimento che triplica il personale dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Sono 15mila beni tra ville, negozi terreni, conti correnti da restituire agli italiani". Con apposita modifica legislativa, in futuro - promette - potranno anche essere messi in vendita. Nella ex casa di un boss oggi confiscata e destinata a diventare un centro giovanile, il ministro dell'Interno rivendica poi come un successo la diminuzione degli sbarchi e l'aumento delle espulsioni, bacchetta il modello di integrazione di Riace, paesino calabrese salvato dall'abbandono grazie all'accoglienza di migranti e rifugiati, il cui sindaco Mimmo Lucano è stato costretto a iniziare uno sciopero della fame perché da tempo Viminale e prefettura hanno tagliato i fondi destinati ai progetti di accoglienza. "Ci sono stato tempo fa ed è un posto bellissimo - dice Salvini - che può vivere anche al di là del fenomeno migratorio e chi si occupa di queste cose deve rendicontare bene i fondi che riceve". Un principio che non sembra valere per il suo partito. Nonostante le ripetute domande sui 49 milioni di rimborsi elettorali sottratti dalla Lega (una parte incassata e spesa anche da Salvini quando diventò segretario del Carroccio), Salvini glissa. Invocando "calma zen" afferma che "la procura di Genova sta facendo il suo lavoro e spero che questa storia finisca presto perché i soldi non ci sono. Anche se da ieri hanno cose più importanti di cui occuparsi".

Salvini, non tradire! Scrive il 22 settembre 2018 Nino Spirlì su "Il Giornale". #RegionaliCalabria2019. Che fai, ti allei? Ma se hai appena detto che questi politicanti ci fottono, noi del Sud, da cinquant’anni! Eh, no, Matteo! Capisco certe urgenze politiche figlie del patto di governo coi 5Stelle, e, i miei corregionali ed io, Te le perdoniamo pure, ma madornali e colpevoli passi indietro alla ricerca di un centrodestra calabrese ormai putrefatto, no. La Calabria, quella buona, quella che bussa gentilmente alla tua porta e non tenta di scardinarla facendo finta di lucidarla con la punta della lingua, non te lo perdonerebbe mai, il tradimento! Non li vuole più, quei ras incartapecoriti sulle poltrone tutt’uno coi loro culi. Non li vuole, la Calabria Onesta e Libera. Te lo sta dimostrando, apprezzando Te e il Tuo fare, anche senza tesserarsi al partito che, in Calabria, NON Ti somiglia. Te lo sta dimostrando, abbandonando amministratori egoreferenziali e massomafiomalapolitici fanfaroni, alle loro tristi giornate da trombati. Te lo sta dimostrando, consegnandoTi speranzosa la guida di questo paradiso arato malamente, ancora oggi, da angeli venduti all’oppositore. Quello caduto nella notte del tempo, mica un semplice Oliverio di turno. Ti aspettano, Salvini, da solo! Senza paura e senza guinzaglio. Ti aspettano per combattere al Tuo fianco, da pari a pari, non più schiavi, né kapò. Sono i Calabresi giovani, nuovi, studenti, imprenditori, speranzosi novelli politici senza mazzi di carte distribuiti in tutte le tasche, a vista e nascoste. Sono le mamme e le nonne di famiglia che NON vogliono consegnare i figli, i nipoti, né alla ndrangheta, né ai grembiulini maledetti. Sono i padri onesti, che vogliono consegnare la Calabria, ai loro discendenti, non un biglietto di sola andata. Siamo tutti noi, quelli che Ti e ci credono, e aspettano che tutto diventi trasparente, fluido, vero e sincero. Come Te. Non come i caporali dei quadrivi, non come i muli che si travestono da purosangue. Come Te: Coraggioso e Disponibile. #Nubravufigghjiolu! Li tradiresti mai, i Tuoi figli? Ecco, sii Padre, in questa Calabria. Che di fratelli Caini ne abbiamo già abbracciati fin troppi…Con stima e affetto.

Pasticcieri, speaker radio, ex missini: ecco la Lega sudista (e riciclata). Campania, Calabria, Sicilia. Viaggio nelle terre dove Salvini raccoglie sempre più consensi. Tra la fatica di trovare una classe dirigente, e l'arrembaggio di tutti i superstiti del centrodestra in disarmo, scrive Susanna Turco il 24 settembre 2018 su "L'Espresso". «Mi fa strano che ci siano leghisti a Marano di Napoli, siamo sicuri che ci sono?». Angelo, tassista, quarantenne, nato al rione Sanità, residente a Fuorigrotta, alla richiesta di dire dove si trovi la sede del Carroccio nella cittadina dell’hinterland napoletano, ha un sussulto. E risponde con la domanda delle domande. Leghisti nel sud, ma siamo sicuri? «Il signor Salvini ci ha sempre disprezzato, a noi terroni, infatti non l’abbiamo mai voluto, qui a Napoli. Mi meraviglio che abbia avuto voti», chiarisce. Eppure, la conquista del sud da parte della Lega - che ancora nei giorni delle politiche di primavera suonava come una stranezza - sembra ora sul punto di dilagare. Di farsi sistema. Persino oltre il quasi milione di elettori già raccolti a sorpresa, a marzo, dal Lazio alla Calabria, dalla Campania alla Sicilia, che hanno mandato in parlamento ben 23 eletti del Carroccio. Aggiornarsi, dunque: i leghisti del sud non sono più come i «nazisti dell’Illinois» che John Belushi cita nei Blues Brothers. Non sono più paragonabili alla suprema stranezza, al simbolo del fuoriluogo, a gente che crede in cose sbagliate nel posto sbagliato. Somigliano piuttosto a un’onda tipo quella della Forza Italia del 1994, l’exploit che si fa organismo. Sono in tanti del resto a citare gli esordi di Berlusconi, tanti elettori di Salvini a sentirsi così. Il 2019 sarà ancora un anno di mezzo, raccontano i dirigenti siciliani. Ma il taglio netto dal passato - quello che per sentenza e per politica non c’è - dal punto di vista estetico-pratico è stato operato. Anche in termini di sedi, luoghi, persone. Ci prepara anche mentalmente al necessario cambio di statuto, per un partito che il Meridione non lo contempla nemmeno nella sua carta fondante e anche su internet è plasticamente diviso in due indirizzi diversi. Si inneggia ai codici etici, come a farsi scudo dal passato dei Bossi e dei Belsito. Prevale la tecnica del commissariamento, per mostrare che si cambia aria e nomi. Anche se poi di riciclati è pieno, in realtà. Si vuole cambiare pelle: aprire sedi nuove, passando per la medietà di più innocui circoli, prima di approdare al futuro fatto di congressi sezioni e catene di comando. Non più “Noi (terroni) con Salvini”: il punto di fuoco sarà tutto su di lui, “Salvini premier”. Certo, siamo ai primi, incerti, rocamboleschi, ambigui passi. Di fatto, a dispetto di un grande fermento social e di un radicamento molto raccontato, a girare per il sud si incontrano per lo più sedi chiuse, tapparelle abbassate, numeri che squillano a vuoto, genti che rispondono dai loro uffici di professionisti – messi magari a disposizione per le riunioni. A Napoli, ad esempio, ci si vede nell’ufficio da avvocato a Riva di Chiaia, quartiere bene, della coordinatrice cittadina Simona Sapignoli (ex Fi) o, al massimo, in quello del coordinatore regionale e deputato Gianluca Cantalamessa. Allo stato, l’unica sede attiva è appunto quella di Marano di Napoli «una Secondigliano che fa meno notizia», sintetizza Angelo il tassista. Sessantamila abitanti, comune record per numero di scioglimenti per camorra - tre volte compresa l’ultima due anni fa (governava Forza Italia) - quattro per cento alla Lega nelle politiche, a fine ottobre torna a votare ed è soprattutto per questo che a fine luglio ha aperto una sede, in una ex macelleria (450 euro l’affitto) e affidato la pagina Facebook a un diciassettenne, Crescenzo, che la fa marciare. I venti che sostengono il circolo locale, autotassazione 50 euro al mese, sono tutti in lista. Raccontano volentieri il loro impegno, fatto di migranti da fermare, di Cas di cui impedire l’apertura, raccolta materiale scolastico e, insieme, la storia del loro colpo di fulmine verso Salvini. Che è poi identica ovunque, riassumibile nel trittico: lui dice basta agli immigrati, lui fa quello che promette, lui si fa ascoltare. Lui. «Nello scoramento più totale, tre anni fa mi colpì un discorso al parlamento europeo», rievoca Massimo, il portavoce del gruppo, che prima non aveva mai fatto politica eppure mostra già la morbidezza di chi sia nel ramo da sempre. «Ci siamo avvicinati per il carisma», dice Luigi mostrando il mostra il selfie scattato con Salvini, due anni fa alla Fiera d’Oltremare, momento fondante della sua iniziazione. «Che poi questo dei selfie è un marketing geniale, a costo zero, perché è chiaro che tutti corrono a postarsi la foto sui social, e lui ha pubblicità gratis», aggiunge compiaciuto, e noncurante d’essere anche lui vittima del meccanismo che descrive. Ora che il vento è girato è facile dirsi leghista in Campania, prima meno. Ciascuno ha la sua lista di insulti: in casa, in famiglia, tra gli amici, per strada. «Ne abbiamo collezionati a pacchi, il più gentile era: siete come i napoletani che tifano Juve. A dire la verità, mio padre e mio fratello mi insultano ancora», racconta Massimo. Adesso, ovviamente, è diverso. C’è la fila. Nella regione coordinata da quattro anni dall’ex missino Cantalamessa, ci si prepara a fine mese per quella che viene raccontata come la “Pontida del Sud”, organizzata a Campagna dal coordinatore di Salerno, Mariano Falcone. L’associazione presepiai ha già provveduto a fare le statuine di Salvini da vendere per beneficienza nei gazebo. In attesa che lui si manifesti in carne ed ossa, e che uno come il consigliere comunale (ex An) Vincenzo Moretto faccia il salto. Intanto però le riunioni si fanno in ufficio, mancando la sede. È così, del resto, in molti posti. Il partito di Salvini al sud funziona soprattutto sulle pagine di Facebook. I vecchi locali sono chiusi, i nuovi - spesso - non (ancora) aperti. Il segno di un partito in marcia per cambiare pelle. Non per forza in meglio. Il risultato, alla fine del guado, ha buone chance di rivelarsi gattopardiano. Indizi ce ne sono.

A Reggio Calabria, ad esempio, per entrare nella sede al primo piano - contemporaneamente cittadina e regionale, nel regno di Domenico Furgiuele - bisogna suonare un citofono su cui c’è scritto come un’invocazione: Salvini premier. Ma nessuno risponde. Il deserto. In due ore, l’unico contatto de visu è la dirimpettaia, di colore, con una neonata in braccio, che sorride. Accogliente, almeno lei. Il resto è silenzio, persiane, panieri di metallo che calano dalle finestre. «Abbia pazienza, è settembre, fa caldo, più tardi verso le sei trova qualcuno, forse». La voce al telefono, che risponde al numero segnato sulla pagina facebook di Lega Salvini- Reggio Calabria, è quella di Nuccio Recupero. Ex coordinatore cittadino, sollevato dall’incarico a giugno, dopo due minuti ritelefona sua sponte e si sfoga. «Sono stato esautorato senza un motivo, l’ho appreso dalla stampa, forse volevano fare un’operazione maquillage, inserire altri», spiega parlando come a un confessionale: «Comunque a noi adesso non danno più tessere, sto facendo iscrivere le persone online, via internet, così si vedrà la differenza tra noi e loro. E con Salvini ci ho parlato, ha detto di stare tranquilli: no, no, il problema è al livello regionale, Furgiuele, ha registrato tutto?». Comunque vada a finire, non esattamente un clima sereno: l’uomo chiamato a commissariare il coordinamento cittadino, Michele Gullace, non risponde nemmeno al telefono. Tre ore dopo, perfettamente sbarbato e pronto all’impatto, Franco Recupero, fratello minore di Nuccio e responsabile regionale della Lega per il settore sicurezza e immigrazione, è pronto a mostrare ogni angolo della sede prima deserta (quattro stanze più il bagno, 450 euro al mese d’affitto). I Fratelli Recupero stanno con Salvini dal 2015, quando la Lega era al tre per cento e tutti gli chiedevano: «Ma non ti vergogni?». Franco conosce il leader dai tempi di Radio Padania, dice che sono entrati in contatto da colleghi, perché lui è editore di una radio-tv locale (gsnews24) conduce fra l’altro un programma tutti i venerdì, “Voci nella notte”. Spiega che questa è una sede operativa, che conta 200 iscritti, mostra il modulo, sulla scrivania giace un mucchietto di tessere già pronte, con sopra nome e cognome. Quanto alle cose fatte, cita gazebo, il no al referendum, la serata in cui è venuto Salvini in campagna elettorale: «Era il giorno di San Valentino, alle dieci di sera, c’era un temporale micidiale». Non proprio il radicamento che si pensava di trovare nel leggere il vanto che si fa il senatore bresciano Raffaele Volpi per il lavoro svolto in Calabria. Volpi, stratega del primo sfondamento al Sud, al Corriere ha raccontato infatti col piglio di un Livingstone alle prese con l’Africa: «Ricordo con nostalgia quando sbarcai con la valigetta in mano per la prima volta all’aeroporto di Lamezia... ora quelle realtà territoriali sono cresciute, hanno dato vita a molte sezioni». Ecco: i voti sono arrivati, il resto zoppica. A Vibo Valentia, l’indirizzo lungo il corso che porta verso il castello normanno corrisponde a un appartamento sbarrato al primo piano, sopra a un locale di “Eurobet”. «Ogni tanto viene qualcuno che cerca la sede: vogliono magari informazioni, chiedono gli orari. Ma se dici che è chiuso non sbagli: vengono ad aprire una volta ogni due mesi, a dire tanto», spiega il commesso del vicino negozio Audiomed, aperto da cinque anni. Al bar di fronte, sono ancora più netti. Mai visto nessuno: «Giusto il giorno in cui è venuto Salvini, in campagna elettorale: c’era un sacco di gente, hanno transennato tutto, si sono fatti le foto, poi più niente» spiega Tonino, alla cassa. Ma per cercare qualcuno? «Boh». Quando si dice il radicamento sul territorio. Elettori sparsi, però, se ne trovano. Ancor meglio: potenziali elettori. Li trovi anche nelle campagne intorno a Vibo, come a Piscopio, tra sterrati, terrapieni, case a metà, giraffe di cemento, manifesti per Maria Santissima Della Catena, donne in nero con intere cassette di verdura in bilico sulla testa come pareva non ce ne fossero più. «Non ho votato Salvini, ma la prossima volta lo voto», dice Francesco che vende combustibile per i pellet all’Agricola Calabrese: «Perché ha avuto il coraggio di dire all’Europa che non vogliamo gli immigrati». Ecco, un segreto del successo. Insieme con la poetica dell’uomo forte, evidentemente in particolare voga. «Non mi stupisce che gli italiani votino Lega. Oppure pensate che abbia per caso fatto dei miracoli, Salvini?». Elias, pittore libanese che vive sei mesi in Olanda e sei mesi a Taormina, mentre mescola i colori distilla le sue osservazioni di non votante, dal belvedere di uno dei bon bon del turismo italico, dove la Lega a marzo ha totalizzato il suo record al sud, col 23 per cento di consensi. «Qui prima votavano tutti Dc, adesso votano il Carroccio. Non è mica un miracolo. Salvini ha interpretato i sentimenti delle persone, che immigrati non ne vogliono più. E quegli italiani sono la maggioranza». Su Libero, Vittorio Feltri dice la stessa cosa: «In pratica Matteo interpreta alla perfezione i sentimenti comuni e cerca di soddisfare le aspettative più diffuse», punto. Al barbiere Melo, la faccenda vira al cinematografico. Il proprietario, Carmelo, è intento a tagliare i capelli a un cingalese e alle domande sulla Lega si limita ad indicare il Che Guevara che ha appeso alla parete. Sul divano, proprio sotto al Che, siede invece Rudi, 33 anni, commerciante che a Taormina ha un locale, e che ha votato il Carroccio. Prima che si scateni tra i due un dibattito asperrimo, stile talk show (dibattito al quale il cingalese assiste tanto muto quanto disgustato - prima di pagare e uscire), Rudi fa in tempo a dire che sta con la Lega perché: «Salvini ha bloccato le navi, invece di farci fare i babbi, basta con gli italiani che calano la testa»; «nell’arco di un mese ha fermato la Merkel e Macron» e «mi auguro che adesso sistemino anche la magistratura»; «i giornali ci stanno tutti contro, e meno male che ci sono i social». La flat tax nemmeno la cita: e forse questo basta a dire la ricetta, la chimica, che muove i voti.

Molto ne sa, di certo, il responsabile di zona della Lega, Pippo Perdichizzi. Ex aennino di Destra sociale, avvocato penalista (difese il clan dei Barcellonesi), allievo di Carlo Taormina, pasticcere già finito in cronaca durante il G7 per aver battezzato la coppa Trump (ora ha fatto la torta Salvini, a base di pistacchio), esperto di chimica del gelato, bilanciamenti dei gusti, isomalto ed esoterismo (la sua pasticceria si chiama con una parola celtica, omaggio anche alla moglie polacca), spiega di essere arrivato al Carroccio via Angela Maraventano, usando la chiave dell’indipendentismo siciliano. «Quel che mi piace, e che entusiasma la gente, è il metodo del fare. Perché, alla fine, non è che a noi ci abbiano rovinato i leghisti: i peggiori nemici del sud siamo noi meridionali. Quel che bisogna evitare è il trasformismo», chiarisce senza tema della evidente contraddizione. La sede del Carroccio, manco a dirlo, coincide col suo ufficio di avvocato. Dal lato opposto di Taormina, al bar C&G quattro pensionati discutono di calcio e di Salvini che «sta in prima pagina su La Sicilia, mentre mangia, con un cannolo tanto in bocca». C’è Raffaele, ex maresciallo, Francesco, ex dirigente comunale, Salvatore, ex capo di una ditta di trasporti e Franco, che sta sempre zitto. Nessuno di loro ha votato Lega. Tutti però sono d’accordo su due punti: sull’immigrazione il ministro degli Interni ha azzeccato il messaggio («non siamo razzisti, ma persino qui girano troppi migranti»); sulla Lega i magistrati stanno sbagliando tutto, e sarà un boomerang. Quanto al perché di un successo così spiccato nella zona, la spiegazione è di una linearità assoluta: «Il Carroccio ha assorbito un deputato della nostra circoscrizione, e con lui i suoi voti». Il deputato è Carmelo Lo Monte, nato a Graniti: sindaco democristiano a metà degli anni ottanta, è passato per il Ppi, Democrazia Europea, Udc, Mpa, Centro democratico e Psi di Nencini. Ha fatto in tempo a stare nella prima giunta di Totò Cuffaro, e a farsi eleggere nella Lega già dieci anni fa, prima che nel 2018. Ecco, il riciclo del vecchio, il riposizionamento. Ossessione dei dirigenti leghisti, che con una mano ripetono di non volersi accollare il vecchio mondo del centrodestra, mentre con l’altra lo imbarcano. Necessità di tutti gli altri, gli appiedati dal crollo dei precedenti equilibri, che vedono nella Lega salviniana l’unico futuro possibile. Non solo da Forza Italia, destra, centro ex democristiano e alfaniano: adesso persino grillini, come è accaduto a Igor Gelarda a Palermo. È una specie di sbarco, una processione come quella in mare a Catania, per la festa della Madonna dell’Ognina. Decine di barchette, pescherecci, barconi: visti da lontano potrebbero portare migranti, portano fra l’altro invece Fabio Cantarella, primo assessore leghista nell’Isola. Delegato ai Rifiuti per assegnazione diretta (un accordo tra il sindaco Pogliese e Salvini), vice per la sicilia orientale di Stefano Candiani, il sottosegretario e senatore di Busto Arsizio che Salvini ha chiamato a commissariare la Sicilia. Cantarella, avvocato, ex aennino, ex militante di Azione giovani, simpatie esoteriche che arrivano per lo meno fino all’aver diretto la rivista Quinto Arcano, è si può dire un salviniano della prima ora. Nel 2013, vicesindaco dei 32 mila abitanti di Mascialucia, alle porte di Catania, trovandosi male nel Pdl scrisse una mail al nuovo leader: «Lui mi telefonò l’indomani, non ci siamo più separati. Gli organizzai la prima conferenza stampa a Palermo, lui esordì chiedendo scusa ai meridionali per i toni utilizzati: alla lunga ha funzionato». Più l’immigrazione e i genitori 1 e 2 che la Flat tax, a occhio. E adesso avanti col tesseramento: “Noi con Salvini” in Sicilia aveva mille tessere, ora sono già tremila, dice Cantarella. La sede a Catania? Quella vecchia è chiusa da un pezzo. «Dobbiamo aprire la nuova, in piazza Nettuno, pieno centro, davanti ai giardinetti. Sarà a livello strada, non più al terzo piano», là dove campeggia la scritta ritratta in queste pagine. «Stiamo valutando entro fine anno di fare una festa della Lega, non sappiamo dove». Sarà la prima in Sicilia, per festeggiare lo sbarco. 

Matteo Salvini alienato a San Luca. Il ministro dell’Interno arriva in Calabria per il vertice sulla sicurezza, promette che la criminalità organizzata sarà presto debellata, e esenzioni fiscali i per i pensionati che si trasferiranno a Sud. Ma il popolo è scettico, scrive Bruno Giurato il 16 Agosto 2018 su L’Inkiesta. Ma quale reticenza, ma quale omertà, a San Luca sono tutti gentilissimi, disponibilissimi; il problema semmai è che hanno un concetto tutto loro dello spazio. Esempio: per andare al santuario della Madonna di Polsi ci sono due strade: quella della fiumara Bonamico -ora interrotta-, e quella di Santa Maria. Con la prima te la cavi in un paio d’ore, con la seconda ce ne vogliono quattro (sono una quindicina di chilometri), rischi di cadere in vari burroni, devi fare molti tratti su strada sterrata, al ritorno se ti fermi a fare pipì nel bosco rischierai l’evirazione da parte di un branco di cinghiali; infine surriscalderai i freni dell'auto e rischierai di appiccicarti sulle prime case del paese. Ma a chiunque domandi, in paese, la risposta sarà: “andate da Santa Maria, l’altra strada è brutta”. “Ma ci vogliono quattro ore”. “Eh, ve ne andate con calma”. La geografia è una dimensione della psiche. E la psiche, qui, si muove, con calma, su coordinate antiche. E aliene. Intanto, con calma, da Locri ci muoviamo verso San Luca per l’incontro del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Vertice sulla sicurezza di Ferragosto nella villa accanto al fiume sequestrata al clan Pelle. Poco prima, per strada, ci sorpassa a 150 un’auto grigia coi vetri oscurati, circondata da volanti della polizia. Via crucis di posti di blocco. “Non si può proseguire, c’è una manifestazione”. “Quale manifestazione?” “Non posso dirglielo”. Omertà. “Sono un giornalista”. “Favorisca il tesserino”. Otto volte. Finalmente la piazza, nel caldo agostano. Chi scrive era capitato a San Luca un anno fa all’ora di pranzo. Era deserto, tranne per un bel po’ di uomini che passeggiavano lentamente, sui balconi. Avanti e indietro. Sotto al sole. C’era voluto un po’ per uscire dall’allucinazione. Persone agli arresti domiciliari. Salvini parla del disastro di Genova, dice che gli hanno segnalato diversi ponti pericolanti nella Locride e che si attiverà. Anche per non far chiudere l’ospedale di Locri. Qualcuno gli urla “vogliamo lavoro!”. “Non sono Batman!” Ora i balconi sono vuoti. E per le strade c’è più grande spiegamento di forze (e soprattutto di graduati) mai visto. Decine di Jeep della polizia, Alfa Romeo dei Carabinieri, auto civetta bianche, auto civetta grigie, diverse audi Audi coi vetri bui, Guardia di finanza, i baschi rossi dello squadrone elitrasportato “Calabria” con l’Heckler & Koch MP5 in braccio. Tre o quattro generali dai colori assorbenti, di cui uno a quattro stelle suda sotto al cappello con le greche. Un vescovo (monsignor Oliva, presule di Locri/Gerace) e un bel prelato alto e biondo in tonaca nera e stellette. Del resto, della popolazione di San Luca, al massimo 150/200 persone. Non tanti. Ma c’è un bel numero di membri dei servizi, riconoscibili per i vestiti fighetti e perché tendono un po’ tutti ad assomigliare a Marco Minniti. Salvini è in camicia, suda, è circondato da telecamere. Risponde, con calma, a tutte le domande dei giornalisti. Qualcuno gli urla di parlare alla gente. Sale sulla scalinata del Comune. Parla del disastro di Genova, dice che gli hanno segnalato diversi ponti pericolanti nella Locride e che si attiverà. Anche per non far chiudere l’ospedale di Locri. Qualcuno gli urla “vogliamo lavoro!”. “Non sono Batman!”. Dice che tornerà a San Luca, e che, finalmente ci saranno elezioni regolari con candidati regolari. Seguirà personalmente la faccenda. Aggiunge che gli organici delle forze dell’ordine sono stati potenziati, che in questi mesi gli arresti sono triplicati. “La ‘ndrangheta, la mafia, e la camorra saranno spazzate via dall’Italia”. Un po’ di applausi. Si avvicina una giornalista all’orecchio di chi scrive: “secondo me la sera lascia la Isoardi a stirare e legge Marx”. Ma il giro continua e si va verso la stazione dei Carabinieri con la coda di porpore, greche, stellette e camicie, dove è in programma il primo incontro con le autorità. La madre di Marco Marmo, una delle vittime della Strage di Duisburg, si para davanti a Salvini. Il ministro dell’Interno era stato accolto da un sit in di protesta con dei cartelli: “La ‘ndrangheta è a Roma, non qui”, ed era stato anticipato da un articolo di Roberto Saviano su Repubblica, che sottolineava la prevalenza della ‘ndrangheta al Nord, più che qui. Ma la madre di Marmo precisa: “Voglio giustizia per mio figlio. I responsabili ci sono ma in appello sono stati assolti, uno solo di loro è stato condannato. Bisogna dirlo, qui la ‘ndrangheta c’è”. La madre di Marco Marmo, una delle vittime della Strage di Duisburg, si para davanti a Salvini. Il ministro dell’Interno era stato accolto da un sit in di protesta con dei cartelli: “La ‘ndrangheta è a Roma, non qui”, ed era stato anticipato da un articolo di Roberto Saviano su Repubblica, che sottolineava la prevalenza della ‘ndrangheta al Nord, più che qui. Ma la madre di Marmo precisa: “Voglio giustizia per mio figlio. I responsabili ci sono ma in appello sono stati assolti, uno solo di loro è stato condannato. Bisogna dirlo, qui la ‘ndrangheta c’è”. Dal balcone di fronte spunta una bella ragazza, bionda, scalza, nerovestita. A fianco un ragazzino sui nove dieci anni, e, plausibilmente, il padre. Sembra la versione non pettinata dell’iconografia di Dolce & Gabbana. Salvini si chiude nella stazione dei Carabinieri dopo il presentat’arm, e chi scrive si avvia verso la costa. Non fosse che i sanluchesi hanno un concetto tutto loro dello spazio e delle strade, e come se niente fosse gli danno indicazioni per andare nella villa sequestrata ai clan in cui Salvini tiene l’ultimo incontro. Posti di blocco, macchine, forze dell’ordine, baschi rossi, porporati. In Conferenza stampa Salvini assicura che si sta pensando a una zona di esenzione fiscale per i pensionati al Sud, come in Portogallo “ma la Calabria è più bella del Portogallo”. Racconta che il parroco di San Luca gli ha dato una targa in cui gli assicura una “copiosa benedizione”. “Cosa di cui ho assolutamente bisogno” commenta. Non andrà al Santuario di Polsi causa consiglio dei Ministri e visita a Genova, ma spera di tornarci “in macchina” dopo che avranno aggiustato la strada del Buonamico. L’importante è che non prenda la strada di Santa Maria. È ora di rientrare. Chi scrive incrocia due anziane nerovestite. “Con permesso. La strada per tornare a Locri?”. “Figlio, intanto prendete questi fichi”.

La Calabria può fidarsi di Salvini? Le parole d’ordine (cambiate) della Lega. Il tentativo di erodere il consenso dei Cinquestelle. Le visite del ministro tra presenza istituzionale, impatto mediatico e calcoli politici, scrive il 14 agosto 2018 Pablo Petrasso su "Il Corriere della Calabria". Facciamo subito outing. Il titolo è una citazione (diciamo geolocalizzata) del servizio dedicato ieri a Matteo Salvini dalla Bbc, network britannico che non può essere accusato di intelligenza con il nemico (individuato dai sostenitori del ministro nella categoria dei “radical chic”). È una citazione anche l’aneddoto che segue. Fabrizia Ieluzzi, prima moglie del leader della Lega descrive il suo bizzarro matrimonio. Siamo nel 2003 e la parola d’ordine politica del(l’allora) partito antimeridionale è “secessione”. «È stato folle – racconta la donna –. Io sono di origini pugliesi, e lui è settentrionale. Tanto per cominciare, c’erano quattro suoi parenti e i miei erano 200. Poi, quando stavamo per tagliare la torta, si è tolto la camicia e ne ha indossata una verde, il colore della Lega. Lui e i suoi amici hanno cominciato a intonare cori del partito. E dai miei parenti, dall’altro lato della sala, sono partiti i “buu” e fischi. Ecco, questo è stato il mio matrimonio». Quindici anni dopo, i dirigenti della Lega (un po’ meno la “pancia” del partito) hanno messo da parte la secessione e puntano a conquistare (anche) il Sud. Soprattutto la Calabria. L’attivismo del ministro non è un caso, le sue visite neanche. Ci si muove sulla linea sottile che separa la presenza istituzionale dal calcolo politico. La Calabria è uno dei più capienti serbatoi di consenso per il Movimento 5Stelle che, in alcune aree, ha superato il 50% delle preferenze alle Politiche del 4 marzo scorso. Lo scopo del leader della Lega è quello di rosicchiare parte di quel consenso (la parte “di destra”), eroderlo e trasferirlo sotto le insegne della (sua) nuova Lega. Non è un caso che il M5S abbia “risposto” alle frequenti visite del vicepremier con l’arrivo di qualche “big”. Nelle ultime settimane sono arrivati sia il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia che la ministra per la coesione territoriale Barbara Lezzi (che, tra l’altro, ha scontentato i “suoi” elogiando la gestione dei fondi Ue da parte del governo Oliverio). Sul piano mediatico, però, la visita di Salvini nel cuore dell’Aspromonte segna un (altro) punto a favore della Lega e aumenta le speranze di mettere (politicamente) le mani sul tesoretto a cinquestelle. Meno fortunate (sempre sul piano mediatico) le uscite di una parte della deputazione leghista calabrese. Non c’è stato neppure il tempo di registrare l’esultanza per l’esito positivo dell’operazione “Spiagge sicure” che, proprio su una spiaggia, un killer a volto scoperto ha ucciso, a Nicotera, Francesco Timpano. I fatti si preoccupano spesso di smentire le parole d’ordine, specie quando sono inadeguate alle vere emergenze del territorio. E, sempre a proposito di parole d’ordine, martedì dalle colonne di Repubblica, Roberto Saviano commenta la visita di Salvini a San Luca. Con una prece: «Per favore, questa volta non faccia come a Rosarno, dove su quasi 27 minuti di comizio ha dedicato solo 40 secondi alla ‘ndrangheta (di cui alcuni impiegati a urlare il solito – cito testualmente – “a me la ‘ndrangheta fa schifo”) e ha invece dichiarato pubblicamente che il vero problema del paese è la baraccopoli». Questione di lenti. Potrebbero essere «deformanti» quelle offerte a Salvini per leggere la criminalità organizzata calabrese (ve lo abbiamo raccontato qui). A San Luca ci si aspetta qualcosa in più di quel “la ‘ndrangheta fa schifo” che non fa poi troppa paura ai capiclan. Servirà anche per capire quale sia la distanza tra il Salvini di oggi e quello che Furio Colombo, già parlamentare e direttore de L’Unità, descriveva con piglio quasi antropologico in “Contro la Lega”, volume del 2012 che oggi i salviniani non faticherebbero a definire “radical chic”: la «smorfia di caratterista cattivo del vecchio cinema», l’«intento di essere maleducato con chiarezza, ma evitando con una certa bravura l’insulto finale». È il breve resoconto di un “Linea notte” del 4 giugno 2010. A quei tempi Salvini era perfettamente inserito nel sistema politico della Lega Nord: deputato europeo, consigliere comunale di Milano, direttore di Radio Padania. Quasi dieci anni dopo – tra i superstiti della generazione bossiana – si propone come homo novus della politica, vuole rappresentare (anche) gli interessi del Sud e (forse) cannibalizzare i propri alleati. Quasi dieci anni dopo motti e cori sono cambiati. Il «personaggio» (definizione del suo biografo Matteo Pucciarelli, giornalista di Repubblica) non canterebbe più gli inni antimeridionali mentre taglia la torta di nozze, perché ha cambiato il bersaglio delle proprie invettive. Il libro di Furio Colombo si apriva con una citazione dagli atti del processo intentato dall’Alta Corte di Strasburgo per i diritti umani, che condannò l’Italia il 23 febbraio 2012 per crimini contro l’umanità: «Avete fatto del Mediterraneo una Guantanamo in alto mare». Si moriva già allora, nel deserto e in mare, lungo le rotte dei disperati. E la Lega, ieri come oggi, chiedeva di respingere i migranti, di consegnarli alla Libia. Mentre, a qualche chilometro da Polsi, un sindaco da anni li accoglieva per “rifondare” Riace. Ai viaggi di Salvini in Calabria forse manca una tappa. Manca alla Lega (non più) nord. Manca al ministro che dovrebbe distinguere tra presenza istituzionale e calcolo politico. E che forse quella tappa “deve” saltarla per cannibalizzare più in fretta i propri alleati. È quello che chiede il «personaggio» sul palcoscenico dei social. Ma ci si può fidare di un personaggio?

Il Paese dei Comuni sciolti per mafia. Da quasi un quarto di secolo ogni mese un municipio viene commissariato per infiltrazioni della criminalità organizzata: è questo il bilancio della speciale legge introdotta nel 1991. Una norma che oggi, sulla scia dello scandalo per il caso di Mafia Capitale, si sente l'urgenza di rivedere. Ma il problema, rivela la storia di questi anni, non è tanto nel testo del provvedimento, quanto nel fatto che troppo spesso è stato usato come strumento di lotta politica tra gli opposti schieramenti, scrivono il 25 agosto 2015 Giuseppe Baldessarro ed Alberto Custodero su “La Repubblica”.

Una norma preventiva snaturata dai governi, di Alberto Custodero. Una legge tutta da rifare? A quasi un quarto di secolo dall'entrata in vigore della norma sullo scioglimento dei comuni infiltrati dalla mafia, politica, società civile, associazioni antimafia si interrogano oggi se lo strumento dello scioglimento sia ancora attuale ed efficace. O se non sia meglio cambiarlo o modificarlo. A proposito del caso Roma, su cui il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha promesso un pronunciamento del Viminale per il 27 agosto, è lo stesso presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, del resto, a invocare addirittura un decreto legge che introduca strumenti ad hoc per affrontare le difficoltà di Comuni molto grandi. "Bisogna individuare una terza via - dice Bindi - fra scioglimento o non scioglimento, e potrebbe essere un tutoraggio dello Stato, un'assistenza verso l'ente "parzialmente infiltrato", senza che questo debba essere commissariato o debba perdere la guida politica". "È importante dunque anzitutto intervenire sulle norme in materia di scioglimento - sottolinea il presidente dell'Antimafia - alla luce di un'esigenza che ha avvertito lo stesso governo presentando un disegno di legge che è attualmente pendente al Senato in attesa di approvazione". Per capire cosa stia accadendo, è necessario fare un po' di storia. La legge 221 nacque nel 1991 da una situazione di emergenza, come risposta alla decapitazione avvenuta a Taurianova di un affiliato alla 'ndrangheta la cui testa fu lanciata in aria e fatta oggetto di un macabro tiro al bersaglio a pistolettate. La norma doveva avere valore preventivo, affidando al ministero dell'Interno il potere di sciogliere i Comuni in modo autonomo e svincolato dalle indagini della magistratura, lunghe e complesse. Da allora i governi hanno utilizzato questo strumento antimafia in modo altalenante, con una forte discrezionalità politica. Quasi mai sono intervenuti in via preventiva, quasi sempre hanno applicato la legge in seguito a indagini penali, snaturandone così il marchio di fabbrica. Hanno sciolto 258 amministrazioni locali e cinque Aziende sanitarie. Otto comuni hanno il record dei tre scioglimenti: Casal di Principe, Casapesenna, Grazzanise, Melito di Porto Salvo, Misilmeri, Roccaforte del Greco, San Cipriano d'Aversa e Taurianova. Trentotto sono stati commissariati invece due volte. Nel 2012 per la prima volta è stato sciolto invece un capoluogo di provincia importante come Reggio Calabria. Al Centro Nord gli scioglimenti sono più rari: pochissimi in Piemonte, uno, a Sedriano, in Lombardia, anche se secondo alcuni esperti non era quello più "infiltrato" dalla 'ndrangheta. Quest'anno, poi, il prefetto di Reggio Emilia ha nominato la commissione per effettuare l’accesso nel comune di Brescello, il primo passo di una lunga procedura che deve valutare l'eventuale presenza di infiltrazioni mafiose nell'amministrazione comunale, un'anteprima assoluta in Emilia Romagna, quella che dal Dopoguerra in poi è sempre stata considerata la patria del buongoverno. E sempre quest'anno, per la prima volta "un accesso", come viene detto in gergo burocratico, ha riguardato Roma, la Capitale. Sotto le scure della legge non è mai caduto invece un Consiglio provinciale e allo stesso modo sono passati indenni anche i cosiddetti "enti terzi", come le società partecipate che, invece, sono sempre più strumenti di effettivo governo del territorio e, dunque, oggetto degli appetiti mafiosi. Ma i criteri di scioglimento non sono sempre stati gli stessi. I governi tecnici degli anni Novanta, così come quelli del Duemila, non avendo interessi e finalità elettorali da tutelare, hanno fatto il massimo ricorso alla legge senza guardare al colore politico delle amministrazioni infiltrate: nel triennio 1991-94 gli scioglimenti sono stati in media 30 l'anno, 36 in 17 mesi con il solo governo Monti. Ma quando al potere vanno i politici, le cose cambiano e lo scioglimento passa, se così si può dire, da strumento, a strumentale. Strumentale per "tutelare" i Comuni del proprio colore e per prendere di mira quelli di colore opposto. È il sociologo Vittorio Mete (autore del volume "Fuori dal Comune. Lo scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose", Bonanno, 2009), a scoprire nei suoi studi questo singolare aspetto. "I governi di centrodestra e di centrosinistra - ricostruisce - sembrano comportarsi in maniera non troppo dissimile: essi tendono a sciogliere più frequentemente (quelli di centro-destra ancor più di quelli di centro-sinistra) le amministrazioni locali di opposto colore politico". Gli scioglimenti, dunque (quanti, quali, dove) ci parlano certamente della mafia, ma ci parlano, anche, di come funzionano lo Stato e l'apparato dell'antimafia. E di come lo strumento sia al contempo strumento di contrasto alla mafia e strumento di lotta politica. Gli scioglimenti, infatti, dovrebbero rispondere a una sola logica: "Se le mafie condizionano o minacciano di condizionare un comune - spiega Mete - l'amministrazione comunale va sciolta. In caso contrario, no". Purtroppo, questi 25 anni di applicazione della legge ci raccontano una storia diversa fatta, per dirla con le parole di Raffaele Cantone, il magistrato a capo dell'Autorità nazionale anticorruzione, "di estenuanti 'mediazioni' politiche sugli scioglimenti". Il riferimento, esplicito, è al caso del comune di Fondi, nel basso Lazio. Il municipio, amministrato dal Pdl e infiltrato da camorra, 'ndrangheta e mafia, il cui scioglimento fu chiesto per due volte nel 2009 dall'allora responsabile del Viminale Roberto Maroni (Lega) con la seguente motivazione: "Il Comune di Fondi presenta forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata tali da compromettere il buon andamento dell'amministrazione, con grave e perdurante pregiudizio per lo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica. Emergono significative circostanze di vicinanza e contiguità al sodalizio in relazione al sindaco, a diversi esponenti della giunta. La presenza e l'estensione dell'influenza criminale rende necessario il commissariamento per 18 mesi". Nonostante ciò, Fondi fu salvato per due volte dal Consiglio dei ministri del governo Berlusconi. La maggioranza del consiglio comunale, approfittando del mancato intervento del governo, si dimise in massa, evitando i 18 mesi di commissariamento. Il ministro dell'Interno leghista avallò l'escamotage senza batter ciglio. Il comune andò subito al voto e il Pdl, con quasi tutti gli stessi amministratori oggetto dello scioglimento (alcuni dei quali riconfermati assessori), tornò al governo del comune con il 65 per cento dei voti. Il sindaco che guidava l'amministrazione collusa, Luigi Parisella, fu poi eletto in consiglio provinciale. Bruno Frattasi, il prefetto di Latina che aveva chiesto lo scioglimento, fu oggetto di pesanti intimidazioni da parte dei vertici locali del Pdl: fu definito "pezzo deviato dello Stato" dall'ex presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani. E il senatore Claudio Fazzone (ex Pdl, ora Fi), plenipotenziario di Berlusconi nel Pontino, minacciò di querelarlo, difese a spada tratta l'amministrazione infiltrata e invocò contro il prefetto addirittura l'apertura di una commissione parlamentare d'inchiesta. Fazzone, più volte citato nella relazione di Frattasi (in quanto socio del sindaco Parisella e di tal Luigi Peppe, "il cui fratello risultava in rapporti certi con una famiglia"), è attualmente componente della Commissione Antimafia che si sta occupando proprio di scioglimenti di consigli comunali. L'allora segretario Pd di Fondi, Bruno Fiore, infine, che si oppose con tutte le sue forze al mancato commissariamento, fu oggetto di un attentato intimidatorio fortunatamente fallito. Insomma, il caso Fondi ha segnato uno spartiacque, un precedente assoluto e gravissimo, ha profondamente segnato, e minato la credibilità della legge, perché in quel caso lo Stato s'è arreso di fronte alla criminalità. "E ora è a rischio - commenta l'avvocato Francesco Fusco, del comitato antimafia di Fondi - l'intero funzionamento degli anticorpi normativi ed esecutivi contro la mafia. Qualunque comune colluso con la mafia ricorrerà alle dimissioni per potersi ripresentare, ripulito, e più in forze di prima". Il dibattito sulla bontà della legge resta dunque aperto, ma, secondo Mete, il quadro va allargato ulteriormente. "L'analisi di alcune vicende - spiega il sociologo - fa emergere un altro aspetto, solitamente poco discusso: in molti casi di scioglimento per mafia il principale problema che pregiudica il buon andamento dell'attività amministrativa dell'ente locale non è quello mafioso". "Lo dichiara apertamente - aggiunge Mete - l'attuale Capo della Polizia che, in qualità di prefetto di Napoli, e riferendosi alla situazione campana, scrisse: 'Anche nei Comuni sciolti per infiltrazione camorrista, il tasso di condizionamento camorrista è sempre inferiore rispetto a quello dell'illegalità non connessa al crimine organizzato. Insomma, sembra prevalere un bieco clientelismo finalizzato in via esclusiva ad alimentare un sistema affaristico imprenditoriale di natura parassitaria, rispetto al condizionamento o alla collusione con le cosche che operano sul territorio'". Siamo sicuri, allora, che per risolvere i problemi delle collusioni mafiose nei Comuni basti una ennesima modifica della legge? Inseguire una nuova riforma normativa non è forse un alibi della politica per non affrontare il vero problema, che è il funzionamento della democrazia a livello locale in ampi territori del Paese? "L'argomento principale dei critici è che l'attuale legge 'non risolve' il problema e il suo fallimento sarebbe attestato dai doppi e tripli scioglimenti dello stesso ente locale. In verità, è sempre difficile stabilire se una legge 'funziona' o meno. Quel che è certo è che non si può far discendere il giudizio sulla bontà di una norma dalla sua capacità di risolvere definitivamente un problema, specie se così ampio". Vittorio Mete, ricercatore in Sociologia Politica presso l'università di Catanzaro, è scettico rispetto alla necessità di cambiare la normativa.

Perché la legge è così tanto criticata?

"Da punto di forza, la celerità, la discrezionalità e la 'leggerezza' probatoria della legge (la cui natura ha una matrice emergenziale) sono diventati, con il tempo, il tallone d'Achille della normativa".

Che cosa è stato fatto per porre rimedio a questo punto debole?

"Per tentare di rispondere all'onda montante di critiche, il legislatore ha più volte provato a modificare la legge del 1991. La riforma del 2009 e le proposte di modifica attualmente in discussione - come le raccomandazioni formulate nel luglio 2015 dall'Antimafia - cercano di far affannosamente convergere questo strumento di contrasto verso forme di intervento antimafia più usuali, allontanandolo ulteriormente dalla sua impostazione iniziale. Dalla originaria finalità preventiva e responsabilità collegiale si va, infatti, verso una 'personalizzazione' delle responsabilità e delle sanzioni".

Secondo lei, questa è la strada giusta?

"Com'è facile intuire, questa deriva è fonte di non pochi problemi, visto che con un procedimento di fatto tutto interno alle prefetture e al ministero dell'Interno si va ad intaccare dei diritti costituzionali. Quest'ultimo punto è di particolare interesse perché aggiunge un tassello a quella che sembra essere una tendenza di fondo delle politiche antimafia: le misure che funzionano e portano frutti sono le stesse che fanno arretrare le garanzie e i diritti. Si pensi al vasto quanto problematico tema della confisca dei beni, alle interdittive antimafia, al regime detentivo speciale del 41-bis".

Come rendere la procedura di scioglimento meno discrezionale e aleatoria e più in grado di "giustificarsi", anche durante la gestione commissariale, agli occhi dei cittadini?

"Purtroppo, non solo in tema di Comuni sciolti, l'esperienza insegna che non basta ritoccare l'impianto normativo per avere un impatto, men che meno quello auspicato, sulla realtà. Al contrario, quel che spesso conta è la prassi applicativa che in questo caso è modellata dall'impulso politico del Governo e del Ministro dell'Interno, da inerzie organizzative, dal clima di opinione, dagli incentivi offerti ai diversi attori in gioco, perfino dalla propensione dei singoli prefetti a usare (o evitare) lo strumento dello scioglimento".

Cosa pensa del dibattito sorto attorno al caso Roma sulla necessità di cambiare la normativa sullo scioglimento?

"La storia degli scioglimenti (quanti, quali, dove) ci parlano certamente della mafia, ma ci parlano anche di come funzionano lo Stato e l'apparato dell'antimafia. Ben vengano, dunque, interventi migliorativi sul piano legislativo, a patto che essi non costituiscano una trappola che potremmo chiamare 'alibi delle riforme' che da tempo caratterizza il dibattito politico nel nostro paese, non solo a proposito di mafie. È un alibi delle riforme pensare che la soluzione normativa adeguata e risolutiva esista e che se non la si adotta è solo per incapacità tecnica o per mancanza di volontà politica. Allora, prima di riporre (nuovamente) tutte le speranze in qualche salvifico articolo di legge, sarebbe opportuno soffermarsi sulla pratica applicativa e tentare di incidere su di essa. Solo così si eviterà che si generi (ulteriore) sfiducia nei confronti delle istituzioni. Quella stessa sfiducia che è uno dei presupposti stessi dell'esistenza delle mafie".

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

«I comuni? Vanno sciolti». Ecco il piano di Gratteri, scrive Errico Novi il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". All’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tar Calabria il pm promette: «Più interdittive antimafia e più comuni sciolti per infiltrazioni». Arriva lui. Nicola Gratteri. Il superprocuratore. E ministro mancato. «C’è una giustizia amministrativa efficiente, in questo territorio», cioè a Catanzaro, dove ha sede il Tar Calabria. Sembrerebbe un complimento per Vincenzo Salamone, che presiede appunto il locale Tribunale amministrativo e che ieri vi ha tenuto l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma l’omaggio di Gratteri, intervenuto all’evento, è solo la premessa di un proclama autocelebrativo: «L’efficienza del Tar è un dato che si abbina alla maggiore efficienza che abbiamo impresso alla nostra Procura». I tempi cambiano, per la giustizia nel capoluogo calabrese. Grazie al capo dell’ufficio inquirente, innanzitutto. Ma cambiano i tempi per tutti, anche per gli amministratori locali. Il procuratore fa quasi il gesto di indicare il quadrante dell’orologio, quello degli allenatori di calcio quando intimano all’arbitro di recuperare le perdite di tempo degli avversari: «La nostra è una rivoluzione, peccato però che altrettanta rivoluzione non abbiamo visto in chi amministra, non abbiamo visto in costoro una presa di coscienza, nei vari enti ancora non si sono resi conto che la ricreazione è finita». In classe, forza. È suonata la campanella. Basta ricreazione. È ora di fare pulizia. E come? Con una rivoluzione, appunto. Che a seguire il ragionamento di Nicola Gratteri assomiglia tanto a una sospensione degli istituti democratici. Premessa: poco prima del suo intervento all’inaugurazione, il presidente Salamone aveva sciorinato i primati del Tribunale amministrativo calabrese: «Abbiamo definito 62 ricorsi in materia di interdittive antimafia, con 39 ricorsi sopravvenuti e una media di 40 l’anno: numeri superiori a quelli di ogni altro Tar». Primato che meriterebbe una sottolineatura amara, non stentoreo compiacimento. E in effetti Salamone, che deve avere di sé un’idea un po’ più fatalista rispetto al procuratore capo, osserva: «Le interdittive antimafia certamente hanno un impatto negativo sulla vita economica della Regione, ma se non si fa pulizia l’economia legale cede il passo a quella illegale». Senz’altro. Certo meriterebbero approfondimenti – e non se ne scorgono, nella cerimonia catanzarese – storie come quella dell’ex presidente della Confindustria reggina, Andrea Cuzzocrea, che per via di un’interdittiva antimafia scaturita da vicende paradossali si è visto revocare un appalto da 16 milioni poi assegnato a una ditta gestita dai figli di un deputato della commissione Antimafia. Ma nel bilancio trionfalistico presentato ieri non c’è spazio per riflessioni sui conflitti d’interesse. C’è appunto il luminoso futuro, la rotta rivoluzionaria indicata da Gratteri. Eccola: «Ha detto il presidente Salamone che sono aumentate le interdittive antimafia con relativi ricorsi al Tar: ebbene, le interdittive antimafia aumenteranno ancora, così come aumenterà il numero degli scioglimenti di Comuni per infiltrazioni mafiose». Pare un comizio elettorale alla rovescia: invece di promettere più lavoro per tutti, si giura che arriveranno più manette per tutti. Certo che l’attivismo della magistratura, in una terra economicamente desertificata, resta un dato commendevole. Ma è l’enfasi con cui Gratteri celebra la repressione che lascia spiazzati. Anche, forse soprattutto per quella gioiosa rassicurazione sul fatto che «ci saranno ancora più comuni sciolti per mafia». Come se un uomo delle istituzioni se ne potesse rallegrare. Come se l’auspicio per il nuovo anno, l’anno giudiziario, non dovesse invocare il ritorno della legalità, il ridursi della presenza mafiosa nei comuni. Come se esistesse solo il male, con uno sparuto ma glorioso esercito in toga incaricato di estirparlo. E una Repubblica fondata sui prefetti pronta a soppiantare la banalità dei sindaci eletti dai cittadini. D’altronde l’attuale procuratore di Catanzaro è noto per i modi risoluti. Non a caso è stato lui a mettere a punto una delle norme più contestate, per l’impatto sulle garanzie, introdotte con la riforma penale: il cosiddetto processo a distanza. Si spende troppo per le “traduzioni”, ovvero i trasferimenti dei detenuti dai penitenziari ai tribunali in cui sono attesi come testi o imputati? Benissimo, mettiamoli davanti a una telecamera (che peraltro nella maggior parte delle carceri non esiste), senza avvocato, senza la possibilità di “respirare” il clima del processo, senza che il giudice possa farsi un’idea dalle espressioni del volto oltre che dalle parole, e il gioco è fatto. E poi Gratteri non è tranchant solo nel suo campo. Anche quando si occupa di altri dicasteri (lui, appunto, guardasigilli mancato) divide il mondo a colpi d’accetta. Due giorni fa era intervenuto a un’iniziativa sulla legalità in un Istituto tecnico di Catanzaro, e davanti a una platea di ragazzini si era espresso nei seguenti termini: «Oggi vedo che c’è una scuola sempre più blanda, più leggera, oppure assistiamo a tanti caproni che si laureano in Legge, anche perché c’è un sistema che assegna i contributi alle università in base al numero degli iscritti». Segue altro concetto proposto con tono evocativo: «C’è stato in generale negli ultimi decenni un abbattimento della morale e dell’etica, una scostumatezza che porta ad avere anche genitori animali che vanno negli istituti scolastici e aggrediscono gli insegnanti». Tutto vero, ma da un magistrato severissimo nel perseguire qualsiasi condotta ci si aspetterebbe un linguaggio più contenuto. Si esprimesse così un parlamentare, o diventerebbe segretario della Lega o sarebbe messo all’indice. Ma nelle pieghe delle norme sulle guarentigie dei magistrati deve nascondersi anche la licenza di parlare come in un film di Quentin Tarantino.

Il comune fu sciolto per una partita di calcio “sbagliata”, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un ex assessore di un paesino calabrese è accusato di aver partecipato al “Memorial” in onore del figlio di un boss morto a soli 26 anni. L’assessore ai lavori pubblici al sesto memorial in onore del figlio del boss, morto a 26 anni per una malattia. È questo l’elemento che rende «incompatibile» Francesco Lupis, amministratore marchiato dalla relazione con la quale il prefetto di Reggio Calabria nelle settimane scorse ha proposto (e ottenuto) al ministro dell’Interno Marco Minniti lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Marina di Gioiosa. Lo stesso amministratore che però ha vestito la maglia di “Avviso pubblico”, l’osservatorio antimafia parlamentare al quale il Comune ha aderito sin dall’insediamento di Domenico Vestito, avvocato ed ormai ex sindaco sul piede di guerra. Perché quella relazione, dice al Dubbio, «non parla di giustizia o di ricerca di verità, ma di processi sommari». Il prefetto parla delle elezioni 2013, che videro schierarsi due liste civiche, che secondo «sommarie verifiche» sui sottoscrittori delle liste, sarebbero risultate pulite. «Sul conto dei citati amministratori pubblici – scrive il prefetto – nulla risulta». Nessun rapporto, dunque, con la criminalità. Parole contraddette dalla relazione di Minniti, che parla di legami di parentela tra mafiosi e sottoscrittori delle liste e tra un consigliere, poi dimessosi nel 2015, e un capo clan, nonché della presenza di affiliati ai clan ai comizi delle due liste contrapposte. La relazione, tra decine di omissis, descrive poi la gestione degli appalti e dei servizi. Pochi gli affidamenti diretti, con gli incarichi a rotazione. Ma sono alcuni lavori a costare la poltrona a Vestito. Tra questi, la messa in sicurezza del muro del lungomare, affidato ad una ditta poi colpita da interdittiva. Per il prefetto, doveva essere l’ente ad effettuare gli accertamenti di rito. «La prefettura protesta Vestito – non conosce però la convenzione che regola i rapporti tra Stazione unica appaltante provinciale, della quale l’ufficio territoriale del governo è ispiratore e parte, con i Comuni. I controlli li deve fare la Suap, alla quale l’appaltatore è tenuto a fare le comunicazioni. Nel caso specifico la Suap ha fatto le verifiche, all’esito delle quali la prefettura ha risposto con un’interdittiva a lavori praticamente conclusi». Il Comune ha proceduto comunque alla rescissione del contratto, avviando l’iter per la riscossione delle penali. Nel mirino anche l’abuso edilizio di un bene riconducibile ai clan, che occupava abusivamente 439 metri quadrati di terreno demaniale. La demolizione, lamenta il prefetto, è avvenuta solo dopo l’intervento della guardia costiera. Ma sulla vicenda, protesta l’ex sindaco, «chi fa la relazione fa riferimento a presunti poteri di ordinanza del sindaco in materia, rintracciabili nel regolamento edilizio comunale, risalente al 1998 e redatto sulla base della normativa del 1942. Peccato, però, che nel 2001 – spiega viene approvato il nuovo testo unico che spoglia il sindaco e gli organi politici di qualsiasi potere. Detto questo, l’amministrazione ha emesso gli atti e le ordinanze di demolizione. Sostiene il prefetto che se non si fosse mossa la capitaneria il Comune non avrebbe fatto nulla. Se questa è la logica e siccome quei manufatti si trovano lì dal 1967, vanno sciolte tutte le amministrazioni comunali di Marina di Gioiosa Ionica, comprese quelle a guida di commissari prefettizi. Noi stavamo però recuperando le somme, presso la Cassa depositi e prestiti, per potere effettuare le demolizioni, che sono onerosissime». Nella relazione ci finiscono anche i lidi, quattro dei quali destinatari di interdittive antimafia e la cui autorizzazione sarebbe stata ritirata con ritardo dall’ente. «Peccato però – aggiunge – che ci sono interdittive che la prefettura ha sfornato dopo due anni e almeno tre richieste del Comune». Secondo il prefetto, poi, l’ente avrebbe lasciato nella disponibilità dei clan i beni confiscati. «Nulla di più errato – protesta -. L’attività a cui si fa riferimento non sorge su bene confiscato e abbiamo emesso anche ordinanza di demolizione e di chiusura dell’attività commerciale». Riguardo al terreno confiscato e una cui parte – non confiscata sarebbe stata coltivata dal suo ex proprietario, invece, «si tratta di una minuscola corte non coltivata da alcuno, monitorata, come gli altri beni confiscati, dalla po- lizia municipale e dall’ufficio tecnico. Ma su questa vicenda si tocca l’apice della follia: viene sentito anche il proprietario originario di un bene confiscato alla mafia e si nega il diritto di parola e difesa al sindaco eletto». Ma vengono anche contestate la riduzione delle tariffe idriche e la scarsa riscossione. Cose false, obietta Vestito, che avrebbe mantenuto la linea della commissione straordinaria. «La Società delle risorse idriche ogni anno aumenta il costo di vendita dell’acqua ai Comuni, che non possono toccare le tariffe, regolate dal 2013 dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, che demanda a quella d’ambito la determinazione del canone. La Regione Calabria da anni è inadempiente, tant’è che la scorsa estate ha ricevuto una diffida formale dall’authority. Malgrado questo ci siamo mossi per cercare di adeguare le tariffe, intralciati però dai ritardi regionali».

Sciolta Lamezia, perché? «Il sindaco fa l’avvocato», scrive Simona Musco il 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. È questo uno degli elementi che per il ministro dell’Interno Marco Minniti giustificherebbe lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Lamezia Terme (Cz), guidata, fino al 24 novembre, dall’avvocato Paolo Mascaro. La cui colpa principale, stando alla relazione firmata da Minniti, sarebbe proprio quella di aver esercitato la professione di avvocato, così come il suo vice, Massimiliano Carnovale, in processi delicati contro i principali clan del lametino. I due, scrive il ministro, sino ai primi mesi del 2016 hanno difeso di fiducia «esponenti di massima rilevanza delle cosche e di loro sodali», rimanendo «organi di vertice dell’amministrazione comunale». La rinuncia all’incarico sarebbe arrivata «solo a marzo e maggio 2016, a seguito della costituzione di parte civile del Comune nei processi», mentre il mandato difensivo sarebbe finito in mano ad un altro avvocato «in stretti rapporti di affinità» con Mascaro. Parole che per l’ex sindaco non rappresentano soltanto un clamoroso errore, spiega al Dubbio, ma un vero e proprio «falso ideologico», inserito in una relazione che rappresenta «un campionario di falsità, inesattezza e ignoranza». Nelle maglie della commissione d’accesso finiscono importanti operazioni antimafia per la città, come “Perseo”, nel quale Mascaro assume la difesa di tre imputati in abbreviato, prima della sua elezione a sindaco. Due di questi, l’8 giugno 2015, vengono assolti, il terzo assolto dall’accusa di associazione mafiosa e condannato per un altro capo d’accusa. «Accade poi che la procura fa appello contro le assoluzioni e il codifensore del terzo imputato contro la condanna. Per me il mandato era terminato alla fine del primo grado. Con la notifica della fissazione dell’udienza d’appello per la primavera del 2016 – racconta Mascaro -, mi sono limitato a notificare la rinuncia al mandato, che era già avvenuta nel 2015». Ma c’è anche il processo “Columbus”, un’operazione dell’Fbi pochi giorni prima del voto, che fa finire in carcere anche Franco Fazio, candidato a sostegno di Mascaro e presunto faccendiere dei clan, recentemente condannato a 17 anni e 10 mesi. Al momento del blitz, Mascaro viene nominato difensore di uno degli indagati, Alfonso Santino Papaleo, poi assolto su richiesta del pm. «Ma il giorno dopo l’arresto ho depositato la rinuncia al mandato, quindi prima della mia elezione», sottolinea. E poi rimarca: «non si tratta di un errore. Nella relazione viene detto che a seguito della mia rinuncia il mandato sarebbe stato assunto dal fratello di mia moglie, che è anche un magistrato. Ma non è vero». Il vicesindaco Carnovale, invece, ha rinunciato alla difesa di Vincenzino Iannazzo, capofamiglia dell’omonimo clan, il 5 maggio 2016, dimettendosi poi il 30 maggio 2017, in seguito alle accese polemiche scaturite dall’operazione antimafia “Crisalide”. Proprio da “Crisalide” la commissione deduce l’ingerenza della criminalità nell’amministrazione, eletta il 31 maggio 2015. L’operazione fa finire in carcere 52 persone, tra le quali due consiglieri, accusati di concorso esterno, per aver «chiesto e fruito dell’appoggio elettorale della locale cosca mafiosa». E proprio per tale motivo il prefetto, il 6 giugno scorso, ha spedito al Comune la commissione d’accesso. «Da qui si ricava la certezza che le cosche non hanno appoggiato il sindaco – aggiunge Mascaro, perché vi sono intercettazioni del reggente della cosca, tale Miceli, che parlando con la moglie, pochi giorni prima del ballottaggio, dice chiaramente che non avrebbero votato, perché con me e il mio avversario non c’era nulla da fare». In quell’indagine ci sono finiti uno degli sfidanti di Mascaro, Pasqualino Ruberto, e un altro consigliere di minoranza, Giuseppe Paladino. Assieme a loro, con l’accusa di spaccio di marijuana, anche il fidanzato di una consigliera di maggioranza. Elementi che per Minniti rappresentano una prova dell’inquinamento della campagna elettorale, «caratterizzata da un’illecita acquisizione dei voti che ha riguardato, direttamente o indirettamente, esponenti della maggioranza e della minoranza consiliare». Non si tratta del primo scioglimento per Lamezia. Il Consiglio è già stato sciolto, infatti, nel 1991 e nel 2002. Due commissoriamenti che, secondo quanto testimoniato dalla stessa relazione, non avrebbero prodotto alcun risultato: il prefetto parla infatti di «assoluta continuità» e della persistenza «delle medesime dinamiche collusive e dell’operatività degli stessi personaggi di spicco delle organizzazioni criminali dominanti in quel territorio», tra le più feroci in Calabria. «Diffuso quadro di illegalità». Secondo Minniti, l’ente sarebbe caratterizzato da un generale disordine amministrativo, funzionale «al mantenimento di assetti predeterminati» coi membri delle cosche. Una considerazione che nasce dall’analisi degli appalti e dell’utilizzo dei beni confiscati, ulteriori elementi contestati da Mascaro. L’amministrazione, scrive il ministro, ha concesso per 15 anni e gratuitamente un immobile ad una cooperativa, l’unica ad aver partecipato alla gara e con soci «gravati di pregiudizi penali». Un assurdo per l’ex sindaco. «Sono stato io il primo ad assegnare i beni confiscati con un bando di gara, mentre prima venivano assegnati in via diretta – spiega. A questi bandi, per legge, possono partecipare le cooperative di tipo b, che nascono proprio con l’intento di favorire il recupero di ex detenuti. Dove sta il delitto?». Ma vengono contestati anche gli appalti, che finivano, secondo Minniti, sempre in mano alle stesse ditte, da danni e anni, senza alcun controllo. Tra questi il servizio mensa, aggiudicato alla stessa ditta di sempre, interdetta ad aprile scorso e quindi revocata. «Sin dal momento della costituzione del servizio mensa, nel 1988, anche quando sindaco era un magistrato come Doris Lo Moro, questo appalto è stato sempre vinto da quella che oggi è la Cardamone group srl, che aveva appalti ovunque, anche nelle Asp – commenta l’avvocato -. Quando si può partecipare alle gare, si partecipa e magari si vince. Io però ho mandato via la società il giorno seguente l’interdittiva, cosa che altrove non è avvenuta». Mascaro ha già presentato in prefettura una richiesta d’accesso agli atti per avere la relazione completa, 240 pagine lette e approvate dal comitato provinciale per la sicurezza «in tempo record», ironizza. Dopodiché presenterà ricorso contro lo scioglimento. «È inquietante la scarsa conoscenza che hanno della pubblica amministrazione – conclude -. In queste relazioni non viene contestata una delibera di giunta comunale, una delibera di consiglio, un’assunzione, nulla. C’è il vuoto assoluto. Avevano deciso che dovevano far fuori me e hanno ammantato tutto con insieme di parole vuote. Lo Stato dovrà interrogarsi di fronte a questo abuso colossale».

ANTIMAFIA: UNTI DAL SIGNORE O GIOCO DELLE PARTI ???

Mantovano ci ricasca. Egli, come già a Gallipoli si è prodigato ad accusare le comunità locali di collusione mafiosa. Senza citare nè testate, nè nomi, il sottosegretario Alfredo Mantovano il 14 luglio 2010 ha riproposto le accuse di “consenso sociale” alla criminalità, che egli avrebbe colto negli ultimi tempi nel Brindisino. Lo ha già fatto alcuni giorni prima a San Pietro Vernotico sventolando un quotidiano locale (uno solo), che si era occupato dei funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso il 19 giugno 2010 a Cellino S.Marco. Lo ha rifatto il 14 luglio 2010 a Roma in occasione della presentazione di una ricerca del Cnel sul tema sicurezza.

“C’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”, ha detto Mantovano parlando di alcuni casi che egli ha colto in Puglia, ma soprattutto a Brindisi. A Cellino San Marco infatti, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c’era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. Sempre nell’inserto locale di un giornale, ma questa volta di Foggia, ha accusato Mantovano, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia presieduta dal ministro dell’Interno, Maroni”.

Poi il sottosegretario ha citato il caso di una recente seduta dell’assemblea consiliare di Brindisi dove – secondo lui -  “un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”. Ma dovrebbe trattarsi dei proprietari di ville del villaggio di Acque Chiare nei confronti dei quali non vi sono ordinanze di demolizione, nè tanto meno sentenze già pronunciate.

“Non voglio – ha precisato il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”. Le polemiche non mancheranno. Il sindaco di Cellino ha già risposto recentemente, spiegando che non intende anteporre la politica alla sua missione di avvocato penalista e al diritto-dovere di difesa sancito dalla Costituzione.

''C'e' un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”. Lo ha detto il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, il 14 luglio 2010, nel corso della presentazione di una ricerca del Cnel sulla sicurezza.

Mantovano ha quindi citato alcuni casi concreti registrati in Puglia. A Cellino San Marco (Brindisi), ha spiegato, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c'era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. 

Sempre nell’inserto locale di un giornale, ha proseguito, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante, che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia (Foggia) presieduta dal ministro dell’Interno Maroni”. Infine, ha rilevato, “recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”.

“Non voglio – ha concluso il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”.

Pur non citando la Gazzetta del Mezzogiorno nel riferimento all'articolo sulla lettera del latitante (Libergolis) il sottosegretario alludeva proprio alla Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che il 12 luglio 2010, nell'edizione di Foggia, ha pubblicato (dopo averla ricevuta via posta) la lettera con la quale il boss del Gargano supericercato esponeva la sua posizione ovviamente innocentista. Probabilmente al sottosegretario non è stato mostrato il resto delle pagine nelle quali la Gazzetta - dopo aver assolto al suo dovere di informare sulle posizioni espresse da Libergolis - ribadiva tutte le accuse contro il latitante, le documentava con atti giudiziari e ne sollecitava la cattura.

Il sottosegretario Alfredo Mantovano spara di nuovo a zero sul presunto consenso sociale alle realtà criminali nel Brindisino, e qualcuno si arrabbierà, come i proprietari delle ville di Acque Chiare di fronte alla frase «recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive, che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi». La stampa locale è tutt’altro che entusiasta del passaggio in cui si afferma che «c’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media». E il sindaco richiamato in causa, Francesco Cascione di Cellino San Marco, non può che ripetere al «Corriere del Mezzogiorno» che lui «non difende il reato ma la persona», e che «in base all’articolo 24 della Costituzione sul diritto alla difesa, deve garantire ai propri assistiti il massimo sino al terzo grado». La nuova esternazione del viceministro all’Interno - l’occasione è la presentazione a Roma di una ricerca del Cnel sulla sicurezza - segue quella a San Pietro Vernotico, quando agitò appunto un quotidiano locale (l’unico) che, descrivendo i funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso in un agguato il 19 giugno 2010, avrebbe messo in risalto la personalità positiva della vittima.

E per l’avvocato «e poi sindaco» Cascione non si tratta altro che di un appendice ad una querelle che lo aveva già coinvolto - erano stati i media a sollevare la questione - a proposito della scelta di accettare la difesa di alcuni degli imputati del processo per le intimidazioni e gli attentati agli amministratori comunali della vicina San Pietro Vernotico, tra i quali l’ex collega (di carica) Giampiero Rollo. In quella circostanza Cascione disse «questa è soprattutto la storia degli avvocati che intendono il loro mestiere come i libri insegnano che si debba intenderlo: e cioè come si intende il mestiere del chirurgo, che presta la propria opera senza guardare alle qualità morali del malato». E oggi ribadisce tutto, ma sottolineando che «se ci saranno casi in cui le due missioni, quella di penalista e quella di primo cittadino, saranno incompatibili, farò un passo indietro». E la faccenda della partecipazione ai funerali di Saponaro? «Non esiste. Mi trovavo da un tabaccaio nei pressi della chiesa per acquistare marche da bollo. Sono sempre stato il legale di quella famiglia, e quando mi hanno visto mi sono avvicinato per porgere le condoglianze. Tutto qui».

I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari. «Il marcio sta nella burocrazia». I sindaci dei centri infiltrati dalle cosche scrivono al governo. «Così state uccidendo la democrazia!» Scrive Goffredo Buccini il 6 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Qualcuno cita addirittura la buonanima del Che, giurando di «sentire sulla propria pelle l’ingiustizia...». Qualcun altro denuncia immancabili complotti dei «poteri forti». Molti stiracchiano il sacrosanto «primato della politica» fino a coprire consigliere comunali fidanzate di presunti padrini, membri di maggioranza in manette, impiegati municipali asserviti alle cosche, atti amministrativi triturati dalle inchieste dei Ros. E tutti insieme, minacciando di riconsegnare a Roma le fasce tricolori, tuonano: «Così state uccidendo la democrazia!». In questa Italia che non tiene più insieme i suoi pezzi, i sindaci dei Comuni calabresi sciolti per mafia (o in odore di scioglimento) non si rivoltano contro la ‘ndrangheta ma contro lo Stato. Su 290 consigli comunali rimandati a casa dall’entrata in vigore della legge 221 del 22 luglio 1991 poi variamente modificata (nel primo blocco c’era Casal di Principe, patria della camorra), quelli calabresi sono stati 98, tre meno della Campania.

Nuovi interesse dei clan. Ma negli ultimi cinque anni la Calabria ha subìto 43 scioglimenti sugli 81 totali contro i 18 della Campania: un segno chiaro di dove si siano orientati ora gli interessi delle cosche. L’ultimo decreto s’è abbattuto un paio di settimane fa su una città importante come Lamezia Terme e su altri quattro centri calabresi minori tra cui Isola di Capo Rizzuto, nota per un’inchiesta antimafia che ha mostrato come persino il Centro d’accoglienza degli immigrati fosse finito sotto il tallone del clan Arena. Un altro colpo pare in arrivo, dato che le commissioni d’accesso agli atti sono in questo momento al lavoro a Siderno, Limbadi, Villa San Giovanni e Scilla. Questa raffica di provvedimenti è stata la scintilla della ribellione. Cinquantuno Comuni reggini hanno scritto e chiesto un incontro a Minniti, invocando una riforma «garantista» della legge. L’altro ieri sono stati ricevuti dal prefetto Michele di Bari, che ha invitato anche il presidente dell’Anci calabrese, Giuseppe Callipo, e non solo per ragioni di galateo istituzionale. Callipo, dal 2012 sindaco pd di Pizzo, è un moderato dal notevole buonsenso: «Rivolta? Metta la parola molto tra virgolette, la prego. Questa legge era e resta uno strumento fondamentale per la lotta alla ‘ndrangheta e noi su questo terreno non dobbiamo fare passi indietro ma passi avanti». Dunque? «Dunque stiamo mettendo in piedi una commissione di studio e chiediamo di rivedere la normativa in due punti: la possibilità che i sindaci abbiano garanzia di contraddittorio prima dello scioglimento e un intervento più forte sulla burocrazia; molte volte è lì che s’annida il problema e non negli organi politici che vengono sciolti». E questo è vero. Come hanno potuto sperimentare le sindache calabresi della tristemente archiviata stagione antimafia (Carmela Lanzetta in testa), la quinta colonna dei clan può stare negli uffici comunali così da assicurare il rapporto con i mafiosi chiunque vinca le elezioni. «I sindaci si sentono soli un po’ ovunque», sostiene Callipo. Vero anche questo. Federico Cafiero de Raho, per anni procuratore di Reggio e da poco capo della Procura nazionale antimafia, ha spiegato tempo fa da Lucia Annunziata le ragioni di una riforma, anche se in senso forse diverso da quello desiderato dai “ribelli”: «Bisogna andare oltre lo scioglimento, non possono bastare due anni col commissario ma nemmeno si può sospendere la democrazia. Dobbiamo pensare a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Il nuovo sindaco dovrebbe trovarsi accanto, da alleato, un inviato di Roma.

Nessuna lista per anni. Prospettiva non semplice in posti dove, contro lo Stato, per anni non si sono più presentate liste e i cittadini hanno smesso di votare. Nel 2007 Pietro Grasso, da procuratore antimafia, lo sintetizzò in una battuta amara: «In certi paesi come Africo, San Luca o Platì, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi». A Platì, dove infine si è tornati alle urne, si sono sfidati un parente del clan Barbaro e la figlia dell’ultimo sindaco «sciolto per mafia», la quale rivendicava a sua volta il diritto a non controllare parentele imbarazzanti in lista: «Discendo da un brigante, io!». Callipo sa bene che certe ventate «garantiste» possono gonfiare vele sbagliate: «Ma sbatteranno contro un muro. L’Anci Calabria e la maggioranza dei suoi sindaci sono contro la ‘ndrangheta». La Calabria è il luogo dove nulla è come appare, si sa. Infligge sorprese amare: come lo scioglimento di Marina di Gioiosa Ionica, retta da un sindaco vicino a “Libera”. E regala consolazioni perfino ingenue, come i reggini in fila in prefettura a firmare il «registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ndrangheta»: proprio mentre la rivolta dei sindaci montava al piano di sopra.

Anci Calabria si unisce al coro di critiche contro lo strumento dello scioglimento dei comuni per mafia. Callipo annuncia l’istituzione di una commissione che elabori proposte di modifica della normativa e sottolinea la necessità di intervenire anche sul livello burocratico, scrive lunedì 4 dicembre 2017 "Lacnews24". Assume proporzioni sempre maggiori la sollevazione contro lo strumento dello scioglimento dei Comuni a causa di presunte infiltrazioni mafiose. Dopo la lettera inviata da 51 sindaci della Città metropolitana di Reggio Calabria al ministro Marco Minniti, per sollecitare un incontro sul tema, al coro di critiche si aggiunge ora il presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo, che annuncia l’istituzione di una commissione di studio, presieduta dal sindaco di Rende Marcello Manna, che possa elaborare e proporre modifiche alla normativa in vigore.

«La normativa che regola lo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose continua a mostrare enormi limiti – scrive Callipo in una nota -, con conseguenze così dirompenti sull’autonomia dei territori, che non possono essere più accettate come inevitabili effetti collaterali di uno strumento che oggi appare spesso incapace di perseguire gli scopi per i quali è stato pensato». 

Il numero uno dell’associazione dei Comuni calabresi si riferisce soprattutto a quelle amministrazioni sciolte più volte nel corso degli anni.

«Governo e Legislatore devono prendere atto che il meccanismo non funziona - continua -. Non si spiegherebbero altrimenti i ripetuti scioglimenti che in alcuni casi colpiscono lo stesso Comune due o tre volte consecutivamente, vanificando la partecipazione democratica dei cittadini alla vita delle proprie comunità. La semplice decisione di istituire una commissione di accesso agli atti diventa automaticamente una sentenza di condanna che porta immancabilmente allo scioglimento, come se tra le due cose ci fosse esclusivamente un nesso temporale, per il quale l’una segue l’altra sempre e comunque. A che serve, dunque, accedere agli atti, leggere le carte, indagare i meccanismi amministrativi, se poi l’esito è scontato sin dall’inizio?».

Callipo, inoltre, dice esplicitamente che puntare esclusivamente sulla politica non serva a molto: «Probabilmente eventuali infiltrazioni non si annidano esclusivamente nel livello politico, ma anche e soprattutto in quello burocratico. Ecco perché la normativa va cambiata, affinché diventi davvero efficace e costruttiva».

Per il presidente dell’Anci regionale, un altro elemento che deve indurre a un profondo ripensamento dell’impianto normativo è il fatto che spesso vegano colpiti dai decreti di scioglimento anche quei Comuni che si sono contraddistinti nella lotta alla mafia, con sindaci che si sono esposti in prima persona in questa difficile battaglia. «Sindaci che il giorno prima vengono elevati ad esempio da seguire - afferma Callipo -, il giorno dopo possono essere mandati a casa con infamanti sospetti alieni alla loro storia personale e politica. Ovvio che il buon nome di qualcuno non possa essere garanzia assoluta di legalità, ma non può nemmeno essere calpestato alla prima occasione senza la cautela che alcune situazioni imporrebbero, quantomeno per non generare nei cittadini la falsa convinzione che della politica, tutta la politica, non ci si possa mai fidare».

Infine, il presidente di Anci Calabria richiama proprio la lettera inviata dalla maggioranza dei sindaci reggini al ministro Minniti.

«Condivido l’iniziativa – conclude Callipo -. L’Anci è al loro fianco nel sostenere una revisione della normativa che fughi tutti i dubbi e gli equivoci che oggi dominano questa delicatissima materia».

Bindi ha un’idea: le liste elettorali le fanno i pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un appello al parlamento affinché «rafforzi» la tanto discussa legge Severino prima delle prossime elezioni politiche. A farsene portavoce è stata mercoledì scorso, in Aula, la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Anche se la legislatura è agli sgoccioli, il testo di riforma della legge Severino «può essere portato alla discussione delle Camere, per l’esame da parte di tutti i gruppi parlamentari, affinché si giunga ad un indirizzo politico univoco su una materia tanto delicata», ha dichiarato Bindi. La modifica dovrebbe prevedere «la pubblicità dell’autocertificazione del candidato, con tutte le condanne e i processi in corso». Una sorta di casellario giudiziario alla mercè di chiunque che riguardi «non solo i procedimenti previsti attualmente dalla legge Severino ma qualunque altro processo che riguarda il profilo morale del candidato. Oggi, infatti, anche per condanne in primo grado per stupro, bancarotta o falso in bilancio, ma con meno di due anni di pena, una persona non è tecnicamente incandidabile». Togliendo la soglia dei due anni di pena ed includendo non solo i reati contro la pubblica amministrazione ma anche quelli riguardanti l’aspetto “morale”, la platea dei soggetti incandidabili si allargherebbe a dismisura. È sufficiente pensare al reato di diffamazione che, già ora spesso usato come una clava, verrebbe utilizzato ancora di più per estromettere dalla competizione elettorale avversari scomodi. «Come commissione Antimafia, noi potremmo avanzare anche le nostre proposte» per il rafforzamento della normativa vigente, ha aggiunto Bindi. Oltre alla citata «pubblicità», le altre novità che dovrebbero essere introdotte sono: l’obbligo dell’acquisizione tempestiva dei certificati penali e dei carichi pendenti, almeno nella provincia in cui si candida la persona; l’obbligo a carico del candidato di autocertificare tutte le condanne; la sospensione e la decadenza dalla carica nel caso in cui il candidato abbia mentito sull’autocertificazione; la riforma del casellario giudiziario e il rafforzamento dell’incandidabilità nei comuni sciolti per mafia. Ma oltre ad una stretta sulla legge Severino, Bindi ha avanzato una proposta ai partiti e movimenti politici affinché effettuino quelle scelte che «non possono essere imposte per legge ma proprio per questo più impegnative e responsabilizzanti davanti al Paese e al suo sfiduciato corpo elettorale». «Un nuovo ‘ codice di autoregolamentazione’ – ha proseguito Bindi – che traduca l’esigenza di contrastare il trasformismo politico e il rischio del voto di scambio politico mafioso, assicurando la selezione trasparente di una classe politica onesta e competente». Per la presidente dell’Antimafia «occorre un impegno affinché sia riposto il più elevato livello di attenzione da parte delle forze politiche nei confronti di propri candidati che risultino avere rapporti di contiguità o parentela con appartenenti alla criminalità organizzata anche di tipo mafioso o con altri soggetti che comunque risulterebbero ineleggibili, incandidabili o non rispondenti al codice di autoregolamentazione, ed, in particolar modo, se i candidati risultano privi di un autonomo consolidato percorso politico all’interno della formazione politica tale da ritenere che la candidatura possa essere un mezzo per aggirare le vigenti disposizioni di legge o per vanificare gli impegni del codice di autoregolamentazione».

Stato-mafia. 21 comuni commissariati in undici mesi, scrive il 24 novembre 2017 "Articolo tre". Nel 2017 sono 21 i Comuni sciolti per mafia in tutta Italia gli ultimi 5 sono stati sciolti il 22 novembre dal Consiglio dei Ministri, ed erano tutti in Calabria.  Gli ultimi cinque sono Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Si tratta di Comuni in cui sono state ravvisate interferenze da parte delle associazioni criminali: interferenze intese come infiltrazioni di presunti affiliati negli enti pubblici o di condizionamenti sull’attività degli enti stessi. In pratica come se un ipotetico “Stato della mafia” si sostituisse allo Stato vero e proprio (o si intrecciasse con esso, in quella sottile linea che a volte purtroppo li divide). Come dimenticare poi il caso di Ostia, che comune non è ma è più popolosa di molti di questi comuni. Gli altri che hanno fatto la stessa fine nel 2017 sono elencati sul sito Avviso Pubblico, che mette insieme le amministrazioni locali e pubblica documenti ufficiali del Ministero dell’Interno. Si tratta dei comuni di Scafati (Salerno, già sciolto nel 1993), Casavatore e Crispano (entrambi della provincia di Napoli, il secondo già sciolto nel 2005), Parabita (Lecce), Lavagna (Genova), Borgetto (Palermo, che al momento era affidato ad un commissario straordinario a causa delle dimissioni rassegnate dalla quasi totalità dei consiglieri), San Felice a Cancello (Caserta), Gioia Tauro (già sciolto nel 2003 e 2008), Canolo, Bova Marina (già sciolto nel 2012) e Laureana di Borrello (questi ultimi tre in provincia di Reggio Calabria), Castelvetrano (Trapani), Sorbo San Basile (Catanzaro), Cropani (Catanzaro), Brancaleone (Reggio Calabria) e Valenzano (Bari). Gravi condizionamenti da parte della criminalità organizzata, con pesanti riflessi sull’attività degli enti: questa la motivazione alla base del provvedimento col quale il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha sciolto ben cinque Comuni calabresi: Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Una “ecatombe” che conferma la pesante influenza che la ‘ndrangheta esercita in molti Comuni calabresi per condizionarne l’attività ed accaparrarsi appalti e commesse. La proposta del ministro Minniti é stata fatta sulla base delle relazioni redatte delle Commissioni d’accesso nominate dai Prefetti delle tre province in cui ricadono i Comuni sciolti, Catanzaro (Lamezia e Petronà), Cosenza (Cassano allo Jonio), Crotone (Isola Capo Rizzuto) e Reggio Calabria (Marina di Gioiosa Jonica). Il lavoro delle Commissioni si era concluso nelle settimane scorse con la proposta di scioglimento rivolta ai Prefetti, che l’avevano poi trasmessa al Ministro dell’Interno. Il Comune più importante tra quelli sciolti é quello di Lamezia Terme, che con i suoi oltre 70 mila abitanti é la terza città per popolazione della Calabria dopo Reggio e Catanzaro. Per Lamezia, tra l’altro, é il terzo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose dopo quelli del 1991 e del 2002. L’accesso antimafia nel Comune di Lamezia che ha portato allo scioglimento deciso stasera era stato disposto dal prefetto di Catanzaro, Luisa Latella, su delega del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, il 9 giugno scorso. La decisione seguì solo di pochi giorni un’operazione contro la ‘ndrangheta, denominata “Crisalide”, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri, che portò a decine di arresti. Nell’inchiesta vennero indagati in stato di libertà, tra gli altri, il vicepresidente del Consiglio comunale, Giuseppe Paladino, poi dimessosi dalla carica, e Pasqualino Ruberto. Quest’ultimo, che fu candidato a sindaco in occasione delle amministrative del 2015, era stato sospeso dalla carica di consigliere comunale dal Prefetto di Catanzaro dopo essere stato arrestato nel febbraio scorso in un’altra operazione della Dda, denominata “Robin Hood”, riguardante il presunto utilizzo illecito dei fondi comunitari destinati alle famiglie bisognose. Fondi che, in realtà, sarebbero stati utilizzati, secondo l’accusa, per altri scopi, anche col contributo di presunti affiliati a cosche di ‘ndrangheta lametine. La Giunta comunale che é decaduta in seguito allo scioglimento deciso oggi era guidata da Paolo Mascaro, alla guida di una coalizione di centrodestra. Anche per il Comune di Isola Capo Rizzuto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose non rappresenta un fatto nuovo. Un analogo provvedimento, infatti, era stato adottato nel 2003. A Cassano allo Jonio, appena lunedì scorso, era stata consegnata al sindaco, Gianni Papasso, del centrosinistra, una villa confiscata nel 2010 ad un presunto boss della ‘ndrangheta, Vincenzo Forastefano. L’intenzione del sindaco era di realizzare nella villa un centro "Dopo di noi", una struttura cioé in cui accogliere i ragazzi portatori di handicap che restano soli dopo la morte dei genitori.

Così i commissari devastano i comuni italiani, scrive Simona Musco il 24 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La denuncia dei sindaci “licenziati” dal ministro dell’Interno Minniti: «Sono incompetenti, non sanno amministrare e hanno svuotato le casse». Cinque comuni sciolti per mafia e commissariati in un giorno solo. Tutti e cinque in Calabria. Si tratta di Lamezia, Cassano allo Ionio, Petronà, Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa. E proprio da qui, dal paesino della Locride, si leva la voce di Domenico Vestito, il sindaco “licenziato” da Minniti e sostituito dai prefetti: «Quando sono stato eletto il lavoro dei commissari prefettizi era appena finito ed ho trovato un comune devastato, desertificato: le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari». E ancora: «Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», racconta il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». «I commissari hanno rovinato il Comune. Perché sarebbero migliori di noi?». Domenico Vestito era alla guida di Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, da quattro anni quando l’altro ieri la scure del ministro dell’Interno Marco Minniti lo ha “licenziato”. Marina di Gioiosa è l’ennesima amministrazione calabrese sciolta per infiltrazioni mafiose, un editto che non lascia scampo a nessuno. Nemmeno al sindaco Vestito, il giovane avvocato che ha preso in mano l’ente dopo due anni e mezzo di commissariamento. Allora i funzionari erano arrivati dopo l’arresto di sindaco e giunta, tutti arrestati e poi assolti.

E quando Vestito prese il posto dei funzionari, racconta oggi al Dubbio, quello che trovò dopo la gestione commissariale, era un deserto. Beni confiscati non utilizzati, immobili abusivi mai abbattuti, tasse non riscosse. E, soprattutto, tante spese, che hanno lasciato le casse vuote. «Un disastro», certifica Vestito, che denuncia l’inerzia dei commissari. «La macchina amministrativa, elemento cardine degli enti locali – spiega -, era identica a quella dell’amministrazione sciolta, quindi la commissione non riteneva di dover fare nessun cambiamento. Al mio arrivo, dunque, ho utilizzato gli stessi funzionari». Gli uffici non sono mai cambiati, le regole però sì, dice il sindaco. Che si era ritrovato in mano un Comune pronto a crollare. «Le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari», dice. Ma l’episodio chiave è la vicenda della caserma dei carabinieri, rilegata in due stanzette nei locali della ferrovia ma alla quale era destinato un palazzo confiscato al clan Aquino, che, all’arrivo della giunta Vestito, «era lì, abbandonato – racconta -. Mi sono mosso assieme al viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, recuperando un milione e 200mila euro». A disposizione ci sono ora tre milioni in totale ma tutto è fermo. Non c’è un appalto, c’è solo il progetto esecutivo e un nodo burocratico che nessuno scioglie. «Tocca al provveditorato alle opere pubbliche fare il prossimo passo ma è tutto fermo. Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», dice il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». Vestito non ha paura di parlare anche delle spese compiute dai tre commissari, verificabili attraverso i bilanci del periodo di gestione dell’ente. «Al mio arrivo ho trovato 30 utenze cellulari attive. Noi ne abbiamo lasciate quattro ai vigili urbani – racconta Vestito -. C’erano rimborsi per qualsiasi cosa: alloggiavano in hotel a Siderno ( a meno di 7 chilometri da Marina di Gioiosa, ndr) e veniva rimborsato anche il viaggio da lì. Ogni spostamento, le cene: tutto pagato dai contribuenti. Noi, invece, abbiamo tagliato le indennità e non abbiamo mai percepito un euro per missioni o rimborsi». A guidare la triade, inoltre, un ex prefetto, Fausto Gianni, condannato dalla Corte dei conti a pagare quasi un milione e mezzo di euro, racconta il sindaco. «Quando era vice capo del Sisde – nel 1992 – per l’acquisto di un fabbricato da destinare a sede del servizio segreto, che sarebbe avvenuto con fondi in nero. Perché loro erano adatti ad amministrare un Comune e noi no?», si chiede allora l’avvocato. Che emette una sentenza negativa sui commissariamenti, un sistema assolutamente sfilacciato. «Ho trovato incarichi assegnati a caso, aree vuote e l’ente senza avvocato e senza segretario», aggiunge. Il primo cittadino ha già annunciato ricorso con ogni mezzo contro il commissariamento. L’impressione è quella di un accanimento, mentre i sindaci intimiditi nella Locride rimangono soli, senza alcun colpevole per i troppi atti intimidatori che nei mesi scorsi hanno messo a ferro e fuoco la zona. «Se ci sono infiltrazioni mi devono dire chi si è infiltrato. Non abbiamo parentele scomode, né frequentazioni, nessun personaggio border line, solo gente che si spacca la schiena. Abbiamo avvertito pressioni, sì, ma in termini di calunnie – aggiunge -. Abbiamo detto dei no molto fermi, non abbiamo avuto paura di fare nomi e stavamo progettando l’utilizzo dei beni confiscati». La delusione è tanta. Soprattutto, dice Vestito, per il tradimento consumato nei confronti dei cittadini. «Oggi è stata uccisa la fiducia dei cittadini verso le istituzioni e la gente non crederà più a nulla – commenta -, tanto che nessuno sarà più disposto a candidarsi per rischiare di essere vilipeso in questo modo». E cita Corrado Alvaro: «I cittadini – conclude si stanno rendendo conto che essere onesti è perfettamente inutile».

La solidarietà di Ammendolia a Vestito e alle amministrazioni sciolte per mafia, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: L’associazione “22 ottobre” guarda con estrema preoccupazione al devastante attacco contro la democrazia e le garanzie costituzionali in atto in Calabria. Si colloca “senza se e senza ma” a fianco dei sindaci e delle Paesi colpiti da una legge illiberale e liberticida che ha procurato tanti danni nei luoghi in cui ha trovato applicazione. Sostituire 5 consigli comunali democraticamente eletti con funzionari di prefettura costituisce oggettivamente -ed aldilà delle competenze dei singoli commissari- un atto grave. Il fatto poi che gli scioglimenti avvengano soprattutto in Calabria, ed in particolare nella Locride dipende dal fatto che- col passare degli anni, s’è introdotto il concetto di “territori pericolosi” riferito alle zone particolarmente oppresse dalla ndrangheta e da uno “Stato” ingiusto e “separato” dai comuni cittadini. La storia di questi anni dimostra che non è questa la strada per sconfiggere la ndrangheta perché dopo ogni scioglimento si creano le condizioni per quello successivo. Inoltre, dopo ogni gestione commissariale i paesi risultano più scoraggiati e rassegnati che in precedenza. Si punta ad una repressione irrazionale per nascondere l’assenza di una qualsiasi strategia tesa a dare risposte ai problemi della Calabria. Iniziando dalla lotta all’esclusione sociale e all’emarginazione, alla tutela della pari dignità della persona umana. Non è sufficiente esprimere la solidarietà ai sindaci ed ai paesi colpiti. Il problema è politico ed è su questo terreno che bisogna dare una risposta adeguata. Occorre che tutti i cittadini di in particolare ciò che resta del tessuto democratico, e di quanti si sentono legati alla Costituzione siano consapevoli della partita che si sta giocando. Occorre mettere da parte ogni viltà. In gioco ci sono i destini della Calabria, della democrazia e della libertà dei singoli cittadini. La repressione irrazionale scoraggia i cittadini più motivati, disinteressati e consapevoli dalla partecipazione alla vita politica, aprendo la strada ad avventurieri e collusi di ogni risma. Nella Locride si svolge la partita più delicata. Non è normale che nel comune più grande del comprensorio- Siderno- operi, per la seconda volta in pochi anni, una commissione di accesso ed ancora meno il fatto che si sciolga il consiglio comunale di Marina di Gioiosa da poco uscito da un precedente commissariamento. Solidarietà al sindaco Vestito ed all’intera comunità di Marina. Lo abbiamo già fatto durante il precedente scioglimento nonostante fossero in carcere (da innocenti) gli amministratori di allora. Lo ribadiamo oggi. Non siamo canne al vento, ma in tutti questi anni, aldilà delle persone coinvolte, siamo stati sempre sul terreno della difesa della democrazia e per la difesa dello Stato di diritto. Convinti in questo modo di essere coerenti con quanti si sono battuti, hanno subito carcere e sono morti per dare all’Italia la Repubblica democratica fondata sulla Costituzione. Ci troviamo dinanzi al completo fallimento della teatrale strategia “antindrangheta” e per questo non si possono escludere pericolosi colpi di coda tesi a creare confusione ed allarmismo sociale. Una prima e forte risposta, può e deve essere data il primo dicembre alla nostra iniziativa che ha come tema “Meridionali e non criminali “. Iniziativa che si svolgerà presso l’Hotel President di Siderno alle ore 17 sarà presieduta dal giudice Mario Filocamo con la partecipazione di Giampaolo Catanzariti, Mimmo Gangemi, Ciccio Riccio ed altri mentre le conclusioni saranno tratte da Pino Aprile. La partecipazione in massa, molto più delle parole, sarà la nostra migliore risposta. Il coordinamento Ilario Ammnedolia.

Cinque brutte notizie per la democrazia, scrive il 23 novembre 2017 Paolo Pollichieni su "L’Altro Corriere". Il Consiglio dei ministri, facendo proprie le conclusioni del ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha decretato lo scioglimento di cinque consigli comunali per sospette infiltrazioni da parte della criminalità mafiosa. Tutti e cinque appartengono al territorio calabrese e tre di questi hanno già conosciuto l’onta di uno scioglimento per infiltrazioni mafiose. Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa Ionica, infatti, sono al secondo scioglimento nel giro di un decennio. Lamezia Terme vanta il triste primato di vedere sciolta la sua assemblea civica per la terza volta. Desta sorpresa, rispetto ai rumors della vigilia, la decisione riguardante Marina di Gioiosa Ionica, retta da un giovane sindaco componente il direttivo di “Avviso pubblico” (si dimise all’indomani dell’arrivo della commissione d’accesso) e composta, per la sua quasi totalità da giovani e da professionisti che non avevano mai ricoperto in precedenza alcun incarico pubblico. In precedenza lo scioglimento si era retto su una base quanto meno più consistente: l’arresto del sindaco (poi assolto con formula piena) e di alcuni assessori dell’epoca per concorso esterno in associazione mafiosa. Scaturì da quella vicenda giudiziaria la scelta di molti cittadini di mettere insieme una lista civica che risollevasse le sorti, e il morale, di una cittadina che si ritrovava a subire i colpi di due casati mafiosi e nel contempo anche la bocciatura sul piano della democrazia partecipata. Difficile ipotizzare adesso chi avrà voglia più di impegnarsi nella gestione della cosa pubblica comunale. Sorprende anche la decisione di sciogliere Cassano Allo Jonio, anche se in quella realtà le cosche il tentativo di condizionare le scelte dell’amministrazione comunale lo dispiegarono mettendo in atto una serie di intimidazioni contro il sindaco e i suoi più stretti collaboratori. Ultimo in ordine di tempo quello in danno del segretario comunale, consumato mentre era in corso la seduta del Consiglio comunale, il 22 ottobre scorso. A Cassano dello Jonio, per quel che se ne sa in attesa di leggere le motivazioni del provvedimento, più che gli amministratori sono finiti nel mirino della commissione d’accesso importanti pezzi della burocrazia comunale. E questo introduce una riflessione che riprenderemo in seguito, posto che l’attuale norma colpisce la gestione politica ma non intacca minimamente la struttura degli uffici comunali, anche laddove emergono segni evidenti di collegamento tra impiegati e uomini della ’ndrangheta. Nessuna sorpresa, invece, per Isola Capo Rizzuto, il cui scioglimento trae origine dagli arresti seguiti all’operazione “Jonny”, condotta dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Arena e che aveva tra gli indagati un consigliere comunale, Pasquale Poerio, finito in carcere, e anche il sindaco Gianluca Bruno eletto nel maggio 2013. Del resto quella indagine spinse il ministro degli Interni ad assumere direttamente la decisione di inviare una commissione d’accesso, posto che la stessa Prefettura di Crotone appariva coinvolta nell’inchiesta giudiziaria, ragione per la quale gli ispettori ministeriali sono stati spediti anche presso quella Prefettura per controllarne l’operato negli ultimi anni. Anche su Petronà a far pendere la bilancia dalla parte dello scioglimento saranno i rapporti di parentela che legano alcuni amministratori ad esponenti locali della ‘ndrangheta. Infine, Lamezia Terme. È il caso più lacerante, perché quella che resta la terza città calabrese per abitanti e il baricentro geo-politico della Calabria appare come una realtà quasi irredimibile, in presenza di un terzo scioglimento per mafia. Vale anche il contrario: Lamezia rischia di rappresentare la plastica dimostrazione di come sciogliere un Comune non produce la bonifica della pubblica amministrazione né una prospettiva di globale risanamento di quella realtà. Va anche detto, tuttavia, che a questo terzo scioglimento Lamezia ci arriva dopo un periodo di grande instabilità politica, come dimostra il forsennato turnover di una giunta comunale che in due anni ha visto uscire di scena ben otto assessori e ha registrato le dimissioni di tre vicesindaco. Un dato che molti, a iniziare dal focoso sindaco Paolo Mascaro, omettono di spiegare se non addirittura di ricordare. Sul punto rubiamo la riflessione che un profondo conoscitore della realtà lametina (l’ex parlamentare Italo Reale) ha scritto nei giorni scorsi, dopo avere sottolineato che l’ennesimo scioglimento sarebbe stata una iattura proprio perché condannava a una sorta di irredimibilità l’intero tessuto civico lametino. «Detto questo – scrive Reale – devo aggiungere che il sindaco sta lavorando, con grande passione, per arrivare allo scioglimento visto che non ha controllato le sue liste, permettendo le infiltrazioni che oggi paghiamo, ha tenuto alla presidenza del Consiglio un eletto il cui risultato potrebbe essere stato condizionato dall’acquisto di voti, un vicepresidente coinvolto in un processo di mafia, non ha spinto alle dimissioni chi poteva essere sospettato di collusioni, non ha accolto la richiesta del centrosinistra di una giunta autorevole al di sopra di ogni sospetto (facendoci assistere alle dimissioni periodiche dei suoi assessori) e con le modifiche che intendeva portare al Piano strutturale ha riaperto la polemica e i sospetti di favoritismi (se non di più) – che si accompagnano a decisioni con cui si trasformano decine di ettari da agricolo a edificabile. Ma soprattutto, ripetendo un errore già visto, il sindaco – conclude Reale – litiga con le istituzioni quotidianamente e non sfugge alla tentazione di buttarla in politica peggiorando una situazione delicatissima». Ciò detto, resta sul tavolo l’emergenza più grave, riguarda il restringimento progressivo di ogni spazio di agibilità democratica, in una regione che già è piagata da un crescente abbandono dell’esercizio di voto e da un altrettanto crescente rifiuto di impegnarsi nell’elettorato attivo da parte di professionisti, giovani, esponenti dell’imprenditoria e quanti sarebbero portatori di un sano interesse per il bene comune. Fenomeni, questi di fuga dall’impegno civico, giunti a un tale livello di guardia da spingere la Chiesa calabrese a riprendere l’iniziativa di un richiamo dei cattolici alla vita politica, ipotizzando, come ha fatto monsignor Bertolone che guida la Conferenza episcopale calabra, il “peccato di omissione” per quanti decidono di non prendere parte alla vita politica della comunità. In questo contesto molti hanno colpe che cominciano a diventare imperdonabili. I partiti, certamente, visto che ormai sono settari e dediti alla cooptazione. E i baronetti locali, pronti a chiudere gli occhi e tappare il naso davanti alle piccole convenienze proprie, salvo poi ammantarsi di un “mandato popolare” che nella maggior parte dei casi è frutto di clientela e che resta, in ogni caso, espressione di una piccola parte del corpo elettorale, visto che i voti espressi non superano il 46% e quelli validi scendo di altri undici punti in percentuale e vanno suddivisi anche tra quanti partecipano alla competizione elettorale senza vincerla. Le associazioni di categoria, incapaci di sedere al tavolo con chi governa mantenendo la schiena diritta ed evitando accordi clandestini quando non inconfessabili. Il mondo dell’informazione, che ormai scorrazza in una giungla selvaggia e senza regole: non sarà un caso se la Regione Calabria resta l’unica senza una legge per l’editoria e questo nel silenzio complice di tutti, a cominciare dai diretti interessati. Ma se queste sono le “colpe” in loco, non meno gravi residuano quelle più generali dovute a una legislazione superata e poco coerente con gli obiettivi che erano stati posti, in uno con un sistema di gestione da parte delle Prefetture sia delle procedure di accesso ai comuni, sia di gestione di quelli sciolti per supposte gravi infiltrazioni mafiose. Un tavolo tecnico su questo andrebbe aperto e con urgenza. Troppi “incidenti” stanno caratterizzando l’operato delle prefetture e troppi svarioni amministrativi restano a inquinare il campo dopo che i commissari lasciano i comuni commissariati. Probabilmente sarebbe utile a tutti se le associazioni dei comuni, invece di strumentalizzare, nel bene e nel male, singoli episodi, si impegnassero a realizzare un “libro bianco” da consegnare al primo ministro e al ministro dell’Interno. In questo potrebbero confluire i casi di comuni che nelle identiche condizioni vengono trattati con metro di giudizio diametralmente opposto. Quelli, numerosissimi, di assunzione o promozione sul campo di dipendenti comunali che, una volta ereditati dai nuovi amministratori si “scopre” essere parenti di mafiosi o mafiosi essi stessi. Il ricorso, per appalti e servizi, di ditte e imprese che si aggiudicano i lavori durante la gestione commissariale e poi vengono raggiunti da interdittiva mentre li eseguono in presenza dei nuovi amministratori eletti. Pietro Fuda, sindaco di Siderno, dopo un primo scioglimento per mafia di quel Comune, oggi anch’esso alle prese con l’arrivo di una commissione d’accesso, in conferenza stampa, rendendo omaggio alla sua proverbiale minuziosità, ha tirato fuori il provvedimento con il quale una società di riscossione era stata allontanata dal Comune su sua iniziativa, seguiva un ricorso al Tar, vinto dal Comune di Siderno, ma seguiva anche una inchiesta giudiziaria che faceva luce sull’opera truffaldina consumata da quella società di riscossione anche in danno di moltissimi comuni precipitati, conseguentemente, nel baratro del dissesto finanziario. Ad aprire le porte del Comune di Siderno a tale società, era stata proprio la triade commissariale insediata dopo lo scioglimento. La stessa società otteneva altrettante convenzioni in diversi Comuni, tutte firmate dai commissari prefettizi che, in molti casi, erano gli stessi che operarono a Siderno. Banali coincidenze? Sicuramente è così ma, visto che una ispezione non si nega a nessuno, forse sarebbe il caso che il ministero dell’Interno approfondisse la questione sollevata. Anche perché per sciogliere un’amministrazione comunale in molti casi basta pochissimo, visto che c’è una parolina, nel corpo della legge, che spalanca le porte a ogni interpretazione soggettiva. Il riferimento è al passaggio che indica come possibile causa di scioglimento il condizionamento degli amministratori «in maniera diretta o indiretta». Hanno insegnato che è proprio nelle pieghe dei dettagli che si annida il demonio, ecco: quella parolina, «indiretta», consente di estendere a qualsivoglia soggetto locale il rigore dello scioglimento. Laddove, poi, anche il reiterare atti intimidatori può rappresentare un modo “indiretto” di condizionare le scelte di un amministratore pubblico.

Scioglimento consigli comunali: possiamo continuare così? Scrive il 23 novembre 2017 Antonio Larosa su "Ciavula". Una premessa introduttiva, che s’impone in modo perentorio: non abbiamo nè le informazioni nè le competenze per contestare – nel merito e non per partito preso – un provvedimento così delicato come lo scioglimento di un consiglio comunale per accertate infiltrazioni di tipo mafioso. Lo vogliamo dire in modo forte e trasparente: bisogna rispettare il lavoro delle autorità preposte, e la prima forma di rispetto è evitare di ciarlare inutilmente senza nemmeno aver letto le effettive motivazioni di un atto di legge. Ciò detto e premesso, rivendichiamo comunque la libertà di muovere qualche dubbio e qualche perplessità sullo scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa Ionica. Più in generale, in ogni caso, è proprio lo scioglimento per mafia come mezzo operativo a convincere sempre meno. Vi è innanzitutto, da parte nostra e di tanti pezzi di opinione pubblica locale, l’incredulità connessa alla figura del Sindaco Domenico Vestito e della sua compagine amministrativa: in questi anni di governo di Marina di Gioiosa Ionica, abbiamo avuto modo di conoscere una squadra di amministratori vogliosa, sinceramente impegnata nel riscatto della propria cittadina, lungimirante nell’immaginare una pratica di governo incentrata su promozione culturale, tutela dei beni comuni e partecipazione democratica. Ci è personalmente difficile immaginare che l’amministrazione comunale possa essere collusa – direttamente o indirettamente – con le forze criminali che ammorbano il territorio. Domenico Vestito Vi è, successivamente, una valutazione di più ampio respiro sullo strumento dello scioglimento per mafia dei consigli comunali: l’utilizzo del quale strumento, continuiamo a scrivere in schiettezza e a voce alta, è diventato così assiduo e così puntuale da rischiare di svilirne quasi il senso. Proviamo a spiegarci meglio, maneggiando le parole con grandissima cautela. Il primo problema da indagare è quello della legittimità democratica. Un consiglio comunale è eletto in libere elezioni, è espressione del consenso dei cittadini: prima di intervenire con atti di polizia che ne decretino forzatamente la cessazione di legge, bisogna misurare accuratamente fatti e situazioni e verificare con la massima certezza che quelle infiltrazioni effettivamente vi siano e rappresentino impedimento al fisiologico divenire di un’amministrazione comunale. Non sempre, francamente, questa “delicatezza” di valutazione è stata messa in campo dalle autorità prefettizie e governative. E vi è anche il rischio dell’abuso di uno strumento che rimane di valutazione quasi poliziesca, il rischio di un governo democratico che può sempre conoscere fasi e situazioni di degenerazione derivanti anche dall’eccesso di potere riconosciutogli per legge. Il secondo problema è quello della “consistenza”, se così ci è lecito dire, della legge attualmente in vigore. In territori dalla forte presenza mafiosa (e i nostri lo sono indiscutibilmente), la pervasività ossessiva della criminalità organizzata spesso è di difficile contrasto frontale, necessitando di tempi e strumenti che vadano oltre un mero schema divisivo fra buoni e cattivi. Più prosaicamente, potremmo dire che un’amministrazione democratica necessita anche del giusto spazio fisico e temporale per individuare le pratiche di infiltrazione, i funzionari collusi, le scelte operative da compiere: il conclamato radicamento criminale, che si camuffa e si sovrappone anche con le parti sane della società, non deve essere motivo ulteriore di scioglimento (come pure la prassi degli ultimi anni lascia intravedere, con un’interpretazione di determinismo geografico-mafioso che ci sentiamo di respingere), al contrario si impongono modalità meno manichee e più persistenti di un atto d’imperio governativo (come lo scioglimento decretato da Roma). Il terzo problema che ci interessa sottolineare è invece connesso all’efficacia degli scioglimenti e dei commissariamenti conseguenti. Qui, ci soccorre direttamente la scelta compiuta dal Ministro Minniti nella riunione di consiglio dei ministri di ieri pomeriggio: Lamezia Terme sciolta per la terza volta in pochi anni, Marina di Gioiosa Ionica invece per la seconda volta. Ergo: i precedenti commissariamenti non hanno prodotto alcun risultato tangibile, mancando clamorosamente l’obiettivo di “ripulire” la macchina burocratica dei comuni interessati o di ripristinare un normale gioco democratico all’interno dello scenario politico-amministrativo locale. Torna, per altra via, la questione sopra riportata della “consistenza” della legge: davvero, un commissariamento forzato è in grado di garantire un contrasto più lungimirante alla presenza mafiosa eventualmente appurata? davvero, qualche commissario, calato dall’alto e senza legame alcuno con la società locale, può ricostruire le condizioni politiche e amministrative per restituire una comunità alla sua piena funzionalità democratica? Il Palazzo Municipale di Marina di Gioiosa Ionica Il rischio che stiamo correndo – ed è un rischio molto grave – è di triplice natura: da una parte, garantire alla criminalità organizzata una possibilità sempre più concreta di dissimularsi e di inabissarsi (se tutto è mafia, se tutto è colluso, in realtà va a finire che non lo è nulla); dall’altra, distruggere ogni fiducia nella partecipazione politica e nel gioco democratico (a cosa serve candidarsi alle elezioni comunali se poi basta un rapporto prefettizio perchè le elezioni vengano cancellate con un tratto di penna?); dall’altra ancora, produrre un pesantissimo danno di patrimonio simbolico e materiale (i continui scioglimenti infiacchiscono ulteriormente un’economia cittadina di per sè già flebilissima, oscurando qualsiasi ipotesi di attrattività turistica o di investimenti produttivi e accrescendo il risentimento popolare verso le forze istituzionali). Qualunque sia l’angolo di visuale prescelto per affrontare la questione, diventa sempre più impellente discuterne pubblicamente, magari provando a mettere in cantiere un doveroso aggiornamento delle misure normative attualmente in vigore.  

Lamezia Terme, comune sciolto per la terza volta. Cittadini: “Non ce lo meritiamo, non mafia ma atto politico”, scrive Lucio Musolino il 24 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Noi abbiamo massacrato il prestigio delle cosche con fatti veri e concreti che devono essere considerati quando si massacra il diritto costituzionale di una comunità di essere rappresentata da chi ha scelto quale sua guida. Questo è inaccettabile per una Nazione che asserisce di essere democratica”. Sulle note de “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano e della canzone “Un senso” di Vasco Rossi, ieri è stato il giorno di Paolo Mascaro, il sindaco di Lamezia Terme, uno dei cinque comuni calabresi sciolto per mafia. Per la cittadina, in provincia di Catanzaro, è la terza volta in 26 anni che subisce l’onta dello scioglimento per i condizionamenti della ‘ndrangheta. Al centro del provvedimento, disposto dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, c’è l’operazione “Crisalide” nell’ambito della quale nei mesi scorsi sono emersi i contatti tra alcuni affiliati alle cosche e qualche politici locali. “Avevo chiesto di essere dai ascoltato commissari – spiega il sindaco di centrodestra, durante il suo comizio – Questa richiesta è rimasta disattesa. Questa è l’antitesi dello stato di diritto e della democrazia. L’ho chiesto anche al ministro per difendere la mia terra. Si capisce che quando non si vuole ascoltare è perché la decisione deve essere presa in un certo modo. Quando avremo le motivazioni, dimostrerò in un giorno che non esiste un atto che si possa dire condizionato dalla criminalità. Per Lamezia siamo pronti a dare anche la nostra vita”. A margine dell’incontro, molti cittadini hanno difeso il sindaco Mascaro. “Non ha gruppi di potere alle spalle e si divertono”. “È uno schifo perché Mascaro stava dando l’anima per la nostra città”. “I figli dei lametini non meritano tutto questo”. “È tutta una cosa politica”. Qualche ora prima, sullo scioglimento del Comune di Lamezia Terme era intervenuto anche il presidente della Regione Mario Oliverio secondo cui “la ‘ndrangheta non ha mai smesso di tendere a condizionare e ad infiltrarsi nelle istituzioni. Lavorare in Calabria è molto più difficile che in Veneto o in Piemonte”. Chi è stato sindaco per due mandati a Lamezia Terme è Giannetto Speranza. Appena eletto, le cosche hanno incendiato il portone del Comune e lui è finito per tre anni sotto scorta: “Provo un sentimento di tristezza perché ho investito dieci anni della mia vita perché volevo riscattare Lamezia, il suo nome e la sua comunità. È molto difficile fare il sindaco in una città come questo”. Ripartire? “Me lo auguro con tutto il cuore che ci siano energie, coesione, concordia e rispetto ognuno dell’altro”.

Cassano allo Jonio tra i Comuni sciolti per mafia, il sindaco: "Per cacciarmi hanno utilizzato lo Stato", scrive Giovedì, 23 Novembre 2017, "Il Dispaccio". "Ci sono riusciti: dopo i dossier, le infamie, le trappole, dopo la persecuzione e la crocifissione, i miei avversari ed oppositori esultano: sono stato 'cacciato' nuovamente dal Comune. E questa volta per farlo hanno utilizzato lo Stato". Lo scrive in un post su facebook Gianni Papasso, sindaco di Cassano allo Jonio, uno dei cinque Comuni calabresi sciolti ieri dal Consiglio dei Ministri per condizionamenti della criminalità organizzata. "Pur di eliminarmi - aggiunge Papasso - hanno fatto in modo di far sciogliere il Consiglio comunale per mafia. Una gravissima offesa e umiliazione per la città. Sono prevalsi interessi palesi e occulti. E' stata commessa una gravissima ingiustizia non solo nei miei confronti ma, soprattutto, nei confronti dell'intera popolazione di Cassano/Sibari. Siamo stati sempre dalla parte della giustizia, della trasparenza e della legalità. La mafia l'abbiamo combattuta con determinazione e con azioni concrete. Siamo stati vittima dei delinquenti e di quelli che non vogliono il progresso della città. La nostra coscienza è pulita e trasparente. Continueremo a camminare a testa alta". "Non è finita qui, comunque. Ci difenderemo - aggiunge il sindaco di Cassano - in tutte le sedi, con la forza, l'abnegazione e la passione con cui abbiamo amministrato il Comune. Ci difenderemo fino alla morte!".

Comune sciolto per mafia non significa che tutti i suoi cittadini sono mafiosi, scrive il 23 novembre 2017 On. Enza Bruno Bossio su "Dire". Appena sono entrata nella Commissione parlamentare antimafia mi sono posta il problema di conoscere la procedura sugli scioglimenti dei Comuni (ieri sono stati sciolti Lamezia, Cassano allo Ionio, Marina di Gioiosa Jonica, Isola Capo Rizzuto e Petronà) che è collegato al Tuel (testo unico enti locali, ndr). Volevo capire come avvenisse. La prima questione da chiarire è che lo scioglimento di un Comune per mafia non è un atto penale, ma amministrativo. Viene sciolto alla luce di atti amministrativi scorretti. Tant’è che quando si fa ricorso a questo atto ci si rivolge al Tar. Ci sono stati alcuni casi di ricorsi al Tar andati a buon fine, penso a quello di Amantea (CS), sul quale il Ministero dell’Interno ha dovuto pagare non pochi soldi per questo episodio. Per cui fare il collegamento: comune sciolto per mafia e quindi tutti gli amministratori sono mafiosi, tutti i cittadini sono mafiosi, non va bene. Ci sono degli atti amministrativi che, prima la Commissione d’accesso, il Comitato per la sicurezza, il Prefetto e poi il Ministro decidono di portare a compimento per questa decisione. In questo senso mi è sembrata un po’ irrituale la dichiarazione della presidente della Commissione antimafia Bindi perché la documentazione sulla proposta di scioglimento non può arrivare in Commissione, prima che il Consiglio dei ministri prenda la decisione sullo scioglimento. E quindi nessuno di noi ha la possibilità di accedere a nessun documento ufficiale. Ora dobbiamo capire bene e leggere le carte, cosa che farò per ciascun Comune interessato. L’unica cosa che voglio dire con certezza ancor prima di aver letto le carte, poiché conosco Papasso personalmente, che il sindaco di Cassano allo Ionio è una persona perbene. On. Enza Bruno Bossio.

SCIOGLIMENTO COMUNI, L’OPINIONE DI PIETRO SERGI DI SINISTRA ITALIANA, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: Il dovere dello Stato di promuovere, tutelare ed incoraggiare chi vuole amministrare onestamente. Altri consigli comunali sciolti, altri presidi di Democrazia che spariscono! Non entro nelle vicende giudiziarie, non mi competono e dico solo: quelle facciano il loro corso. Io punto il dito su un altro aspetto: le Istituzioni sono assenti. Si sta verificando un vuoto di potere istituzionale, si avverte la mancanza del cuscinetto dello Stato tra un potere legittimo che va avanti per la sua strada, quello della magistratura, e i cittadini. Questo significa un duello diretto tra popolazione e Istituzione giudiziaria, mentre lo Stato latita. Il rischio è che la comunità accetti lo scontro con la magistratura e si vada verso un ulteriore inasprimento dei reati di ogni genere, mentre lo Stato latita o si nasconde dietro un altro potere, lavandosene le mani della questione Meridionale. La legge sugli scioglimenti va rivista, perché è una legge che NON tutela gli amministratori onesti, che fa di tutta l’erba un fascio e rinuncia a fare selezione di classe Dirigente locale, con ripercussioni verso l’alto, visto che spesso le carriere politiche cominciano – o sarebbe opportuno cominciassero – dal basso. Sono molto sensibile a questo problema, e provo a spiegarvi perché, partendo dalla convinzione che il sistema regionale e nazionale sia troppo permeabile alla corruzione e spesso alla cattiva amministrazione della cosa pubblica. Ma non si può generalizzare. Mi voglio soffermare soprattutto sulle piccole realtà, piccoli Comuni dove le elezioni amministrative rappresentano spesso un fatto folkloristico, oltre che politico, viste le loro dinamiche fatte da liste civiche spesso mischiate da sensibilità politiche tra le più distanti e disparate tra di loro. In questi piccoli comuni dove tutti si conoscono, spesso è difficile trovare persone disponibili a spendersi per un impegno amministrativo, e quando si riesce a trovarli sono ormai considerati degli incoscienti da tutti quanti. Non a torto, visto come vanno le cose. Parlavo della rinuncia dello Stato a fare selezione di classe Dirigente attraverso questa legge che butta sempre via il bambino con l’acqua sporca. Provo a spiegare con una metafora che prende in prestito il principio della mela marcia nella cassetta di mele sane. Ecco, se io ho due cassette di mele e in una mi accorgo che ce ne sia una marcia, non è che posso buttare via le mele buone con quella marcia, cassetta compresa. Perché poi: 1) Anche nell’altra cassetta ce ne potrebbero essere, se devo rifare tutto daccapo e 2) Non e’ detto che le mele buone della seconda cassetta, vista la fine che hanno fatto le mele buone della prima cassetta, abbiano ancora voglia di impegnarsi ad amministrare. Se invece si instaurasse un meccanismo dove non solo venisse buttata via la mela marcia ma si tutelassero maggiormente le mele buone, un meccanismo che fosse studiato per integrare le mele buone, avremmo incentivato l’impegno delle mele buone e consentito ad un’amministrazione di andare avanti senza essere costretta a ricominciare tutto daccapo. In caso contrario, quelle mele buone buttate via sarebbero marchiate vita natural durante dall’onta di uno scioglimenti per infiltrazioni mafiose, farebbero scattare anche un meccanismo di autodifesa non certo in coloro che “ci provano”, ma in quei cittadini onesti che non si vogliono più impegnare perché tanto vanno a casa onesti e disonesti, in una equiparazione ingiusta tra buoni e cattivi, mele marce e mele sane. Così, e torniamo al punto, si abbandona il DOVERE di selezionare le classi dirigenti. Questo senza nulla togliere alle capacità amministrative, e spesso umane, dei Commissari chiamati ad amministrare i comuni sciolti per infiltrazioni. Ma non rappresentano la normale prassi amministrativa di uno Stato Democratico. Insisto molto sulla necessità di rivedere la questione Meridionale inserendo la necessità di rimediare ad un Gap di Democrazia sempre più clamoroso ed evidente e ad interrogarsi sulla volontà di avere ancora dei presidi democratici intermedi e più prossimi al cittadino che li sceglie attraverso le elezioni locali. Credo sia importante che uno Stato, dunque, tuteli gli Amministratori onesti e persegua i meno onesti. Purtroppo, i tempi della Giustizia italiana sono più lunghi di intere legislature compiute, con il rischio di scoprire che si siano fatti degli errori giudiziari che avranno già compromesso l’azione di una amministrazione per ¾ fatta da amministratori che ben stavano amministrando. E insomma, molliamo lo sfasciacarrozze e muniamoci di cacciavite per aggiustare il motore. Altrimenti saremo costretti ad eleggere sceriffi e non Sindaci. Pietro Sergi, Direzione Nazionale di Sinistra Italiana.

Leggi speciali e ordinaria malagiustizia. Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, l'Orlando minore, non innamorato né furioso. E come se non ne bastassero le insensatezze che propone, va anche ricordato che era sostenitore del peggior sindaco d'Italia, tale Federici, promotore della famigerata piazza Verdi di La Spezia. Adesso si è attrezzato per il propagandistico obiettivo di promuovere una «legge contro la mafia in politica», oltre alle violente misure di prevenzione, le interdittive dei prefetti, gli scioglimenti dei Comuni per motivi moralistici o precauzionali. Leggi speciali in contrasto con l'attività della magistratura ordinaria. Non c'è più Falcone, non c'è più Borsellino, né si può contare sui loro fanatici ed esaltati eredi, colmi di pregiudizi e ansiosi di fare carriera. Ed è saltata la regola aurea secondo la quale un buon magistrato con una cattiva legge può emettere una sentenza giusta e rispettosa dei diritti costituzionali. Mentre un cattivo magistrato con una buona legge può fare disastri. Ancora l'invocazione di «strumenti nuovi per contrastare la mafia» Orlando, non pago dell'insensato processo Andreotti et similia, incrimina la politica a priori, affermando che «per essere impermeabili servono regole su partiti ed eloqui». Ce ne sono fin troppe, a partire dal grottesco «traffico di influenze». Qui, nonostante il referendum, a essere continuamente violata è la Costituzione. Ma Orlando non l'ha letta.

Sgarbi risponde in video a Cancelleri e attacca M5s. «In aula sarò leone senza gabbia e vi mangerò vivi», scrive Salvo Catalano il 13 novembre 2017 su Meridionews. L'assessore di Musumeci replica all'intervista del leader del M5s a MeridioNews, in cui aveva annunciato di voler querelare il critico perché lo aveva avvicinato alla mafia. «Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare», rincara la dose prima di difendere il suo operato a Salemi, sciolto per infiltrazioni. Vittorio Sgarbi risponde con un video sul suo canale Youtube all'intervista di Giancarlo Cancelleri a MeridioNews. Il leader del Movimento 5 stelle siciliano aveva annunciato l'intenzione di querelare il critico d'arte - assessore in pectore, ai Beni culturali, della giunta di Nello Musumeci - per averlo accostato alla mafia. «Non posso pensare che sei mafioso o che la mafia si preoccupi di te - attacca Sgarbi, dopo aver letto in video l'articolo - dico che il progetto che hai messo nel tuo ridicolo programma per i Beni culturali coincide con quello della mafia: distruggere il paesaggio e disseminare la Sicilia di pale eoliche. Energie rinnovabili questo vuol dire. Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare a fare». Al centro del botta e risposta tra i due c'è il programma del candidato pentastellato. Che, nel paragrafo destinato all'energia, parla di come usare gli impianti eolici esistenti e in particolare della volontà di «ricavare 5 milioni 900mila MWh di energia elettrica prodotta con impianti eolici sia con il revamping degli impianti esistenti che con una eventuale dismissione e ricollocazione di alcuni impianti in siti ritenuti più idonei per ragioni di tutela paesaggistica e/o di distribuzione degli stessi in tutto il territorio regionale al fine di evitare la concentrazione in alcune aree». Sgarbi quindi continua a passare in rassegna le parole di Cancelleri a rispondere punto per punto. A cominciare dalla vicenda di Cateno De Luca. «De Luca risulterà innocente, non rientra tra le figure dei criminali ma dei comici, delle figure grottesche o anche patetiche, ma non si infierisce su una persona che non ha fatto nulla». Subito dopo torna a parlare di mafia, in riferimento di Salemi, Comune di cui il critico è stato sindaco tra il 2008 e il 2012 e che è stato sciolto per rischio infiltrazioni subito dopo. Vicende ricordate da Cancelleri nella nostra intervista a cui Sgarbi replica: «Se fosse giusto sciogliere i Comuni per mafia dopo 20 anni 30 anni da quando la mafia c'era e tutti sono al cimitero - afferma - ci sarebbe un avviso di garanzia per mafia, che invece non c'è. Salemi è stato sciolto ingiustamente per mafia, come Corleone, come tutti quei luoghi che hanno un nome che serve a riempirvi la bocca di mafia dove la mafia non c'è». Il comune trapanese fu sciolto per mafia anche per la presenza ingombrante, a detta degli inquirenti, di Pino Giammarinaro, ex uomo forte della Dc, sull'amministrazione di Sgarbi, al punto da essere definito «un prosindaco». Giammarinaro è stato assolto nel processo in cui era accusato di concorso esterno alla mafia, ma continua a essere ritenuto socialmente pericoloso e lo scorso aprile il Tribunale di Trapani ha disposto la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per cinque anni e la confisca dei beni per un totale di 15 milioni di euro. In quel provvedimento ampio spazio è dato ai suoi rapporti con Sgarbi. Nella videoreplica, infine, Sgarbi risponde a quella che definisce «una profezia» di Cancelleri. «Durerà meno di Battiato», aveva detto il grillino in riferimento al cantautore catanese che fu, per brevissimo tempo, assessore nella prima giunta Crocetta. «Sarebbe stata una buona cosa che Battiato ci fosse, lo rimpiangerete, forse rimpiangerete anche me, questa specie di profezia è la prova della tua mente vuota e piccola. Non vi divertirete perché vi mangerò vivi - attacca ancora - con me in aula sarà come avere un leone, una tigre senza catene, senza gabbia». Da parte di Cancelleri solo una battuta: «Se io avessi usato lo stesso vergognoso e intollerabile linguaggio violento, sarei su tutte le pagine dei giornali nazionali. Da Sgarbi violenza verbale inaccettabile, Musumeci dovrebbe prenderne le distanze».

Cateno De Luca: «Io, perseguitato dalla giustizia», scrive Simona Musco il 22 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Parla il neodeputato dell’Assemblea regionale siciliana. «Le regole non valgono per i magistrati: possono tenerti anche 10 anni sotto pressione e guai se qualcuno dice qualcosa». È un rapporto tutt’altro che sereno quello di Cateno De Luca con la magistratura. Un rapporto iniziato nel 2011, con il primo arresto, e non ancora chiuso. Il neo eletto deputato dell’assemblea regionale siciliana, fresco di scarcerazione ma ancora accusato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, racconta al Dubbio la sua battaglia contro quella che chiama «persecuzione» e che lo ha portato a depositare già due esposti contro la magistratura, mentre il terzo è pronto per essere presentato.

Onorevole, perché parla di persecuzione?

«Per la consistenza delle accuse. A Messina ci sono alcuni magistrati che fanno il bello e il cattivo tempo. E sulla scorta di questo agiscono per condizionare le dinamiche politiche. Il 4 marzo 2012 ho fatto un comizio di quasi quattro ore, denunciando tutto e nel giro di 15 giorni sono stati aperti dieci procedimenti penali contro di me. Ad ogni mia azione corrisponde una reazione della procura. L’arresto di quale giorno fa si basa sulle stesse carte sulle quali il gup aveva già deciso il non luogo a procedere nel 2014. Sono anni che i fatti per cui mi processano sono sempre gli stessi e per aggirare la scadenza dei termini fanno partire dal troncone principale d’indagine dei sub procedimenti. Ecco come funziona la giustizia, i tempi li decidono loro, le regole non valgono per loro. La mia colpa è essermi ribellato sin da subito: sono andato allo scontro e hanno chiesto la mia testa».

Ma perché dovrebbero avercela con lei?

«Dobbiamo partire da chi era De Luca prima di essere arrestato. Il 2 aprile 2011 ho organizzato un manifestazione per lanciare il progetto antisistemico “Sicilia Vera”. Abbiamo raggiunto subito il 3 per cento. Davo fastidio. Mi sono scontrato con tutti, da Cuffaro a Lombardo. La battaglia più forte è stata quando si sono svenduti gli immobili creando un buco da 900 milioni. E siccome c’era contiguità tra la giunta Lombardo e la procura eccomi qua. Ovviamente non dico che il mandante è Lombardo, non me ne frega niente, ma mi attengo a quello che ho subito. Al di là di quelle che possono essere le mie motivazioni, chiunque guardi la mia storia giudiziaria lo vede che non è lineare. Se ancora oggi non ho avuto una condanna penale qualcosa vorrà dire».

Dopo l’arresto lei ha accusato magistrati e guardia di finanza di aver falsificato gli atti. Come avrebbero fatto?

«L’ultima indagine è legata al ruolo della Fenapi e alle società ad essa collegate. Ma per accusarmi i pm perché hanno applicato norme generali e non norme di settore e lo hanno fatto in malafede. Il pm aveva chiesto l’arresto a giugno 2014, tre anni fa. In mezzo ci sono state dichiarazioni false, che non sono state riscontrate. La legge allora prevedeva che scattasse il penale dopo la contestazione di una certa cifra. Nel frattempo, nel settembre del 2015, il legislatore ha stabilito che tutti i reati scaturiti da spese non inerenti venissero depenalizzati, perché frutto di interpretazioni formali. Ma il pm ha riqualificato il reato e così le spese non inerenti sono diventate “artifizi e raggiri”. Ora voglio sapere perché la guardia di finanza ha dichiarato il falso, perché un avvocato ha dichiarato il falso e che mi si spieghino le perizie false».

In che senso false?

«Il pm, che dovrebbe essere terzo, non può imporre al consulente tecnico di trovare il reato. Tutta l’impostazione della ctu è viziata da questa forzatura. Cosa che abbiano chiesto al tribunale di Reggio Calabria di accertare. Quella perizia non tiene conto della nostra produzione documentale, dunque molte cose sono state ignorate. È successo perché non sono stati consegnati o perchè valutandoli non avrebbe retto l’accusa?»

L’avvocato di cui parla è quello che ha ricondotto a lei le società coinvolte nell’indagine?

«Quello che ha tentato l’estorsione nei nostri confronti. Noi lo abbiamo mandato a quel paese e ce l’ha fatta pagare. Ci aveva chiesto una percentuale sulla verifica fiscale, ma quando abbiamo chiesto ai luminari del settore se fosse normale ci hanno detto che era una follia. Così questo avvocato ha fatto un esposto alla guardia di finanza, guarda caso, querelando il presidente della Fenapi, Carmelo Satta, che con una nota molto pesante gli aveva revocato il mandato. A febbraio 2017 la querela è stata rimessa, ma la finanza l’ha portata al pm, che ci ha accusati di associazione a delinquere, pur senza riscontro. Ora siamo fuori ma non siamo contenti del provvedimento. Ha lasciato delle zone d’ombra che non ci soddisfano e quindi impugneremo l’ordinanza».

Lei è stato definito “impresentabile”. Querelerà anche Rosy Bindi?

«Impresentabile in base a cosa? Sono incensurato. Rosy Bindi mi deve dire quali in base a quale norma non avrei potuto candidarmi, quali sono queste informative di procura e prefettura. Io voglio essere tutelato dallo Stato! Chiederò un risarcimento a tutti, perché è come fare le liste di proscrizione».

Ha sentito il presidente Musumeci?

«No, ma l’ho rimproverato pubblicamente: la deve smettere di inseguire il campo della demagogia perché non è un pm, è il presidente della Regione e deve governare. E il fatto di continuare ad inseguire la Bindi sul codice deontologico è sbagliato. La politica sbaglia quando invade il campo della magistratura facendo processi in continuazione, mentre la magistratura fa quello che non fa la politica: governa indirettamente».

SCATENATI CONTRO CATENO...

"Scateno", antenato degli impresentabili fra strip e processi, scrive il 09/11/2017 Mario Barresi su "La Sicilia". Dai domiciliari si difende su Facebook «Vittima dei massoni, il caso fa ridere» Poi ai fan sotto casa cita Luther King e giura: «Avanti senza se e senza ma». Un «delinquente». Ma anche «un benefattore». E poi «il miglior sindaco della storia», anche perché ha portato a mille anime «200 milioni di opere pubbliche» compreso «un centro benessere». Ma anche uno «che se noi sei con lui ti mette nella lista dei nemici e sei finito per sempre». Mentre i messinesi, nel 1674, si rivoltavano contro i dominatori spagnoli, Fiumedinisi fu uno dei pochi comuni a restare fedele alla Corona ispanica. E così, corsi e ricorsi, è oggi per «u’ sinnucu». Criticato sottovoce e difeso a testa alta. Cateno Roberto De Luca, qui in carica dal 2003 al 2011, ma anche sindaco di Santa Teresa di Riva (dove ha lasciato il suo delfino Danilo Lo Giudice) e aspirante primo cittadino di Messina con campagna elettorale già avviata con pecora al seguito. Quarantacinque anni, in politica da quand’era quindicenne, candidato a tutto. Anche a presidente della Regione, nel 2012, quando lanciò la sua corsa solitaria con una kermesse scintillante e uno slogan chiarissimo: «Io rivoluziono la Sicilia. Scateno De Luca». Prese l’1,2%, ma da lì in poi diventò “Scateno”. Per tutti. Impresentabile prima che esistessero gli impresentabili, De Luca ha un curriculum pieno di guai giudiziari, proteste clamorose e citazioni indelebili. Cinque anni fa, dopo essere stato deputato regionale del Mpa, si ribella al suo mentore: «Lombardo agisce con metodi politico-mafiosi. Se ne vada affanculo una volta per tutte, lui e i suoi compagni di merende». All’Ars i commessi lo ricordano atterriti quando, per protestare per la mancata nomina in commissione Bilancio, restò in mutande, con una bibbia, un Pinocchio e la bandiera della Trinacria ad avvolgere le nudità. Rieletto all’Ars nel 2008, dopo un fugace ritorno con Lombardo, inizia un breve flirt politico con Gianfranco Micciché. Dura poco. Perché lui, “Scateno”, è un individualista. Da leader di Sicilia Vera chiede e ottiene ospitalità nella lista dell’Udc per le ultime Regionali: è il più votato, eletto con 5.418 preferenze. Alle quali bisogna aggiungere i 4.298 del suo seguace, Lo Giudice. Rieletto nonostante la lettera scarlatta di “impresentabile” cucitagli addosso dai grillini. «Pupi nelle mani del puparo di Genova», secondo De Luca, condannato dalla corte dei conti a 13mila euro per le “spese pazze” dei gruppi all’Ars. Ma soprattutto sotto processo per il “sacco di Fiumedinisi”, il quindicesimo dei «14 procedimenti penali chiusi a mio favore». Arrestato per abuso d’ufficio e concussione, il pm ha chiesto per lui 5 anni di pena. Ma “Scateno” si difende sempre contrattaccando. In tarda mattinata si diffonde la notizia dei suoi domiciliari. E sotto casa sua c’è chi è già certo: «Anche stavolta ne combinerà una delle sue». Infatti, violando le restrizioni degli arresti domiciliari, imposta la sua autodifesa su Facebook. Prima con un post, corredato dalla foto del «caffè del galeotto», in cui chiede: «Pregate per me e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia». Molto più esplicito, poco dopo, in un video-selfie in pigiama. «La vicenda fa ridere», esordisce. Quindi racconta: «Io sono sereno perché già venerdì sera a piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana e anche ritengo della massoneria nonché un parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: “Lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto”. Questo stesso personaggio lunedì - prosegue - ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore dicendogli che era inutile l’elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti, Danilo Lo Giudice. Sapevo di scontrarmi definitivamente con i poteri forti di Messina, massoneria e altri ambienti che non vogliono che io faccia il sindaco». E chissà cosa avrebbe detto ancora, se il suo avvocato Tommaso Micalizzi non l’avesse bloccato: «Basta social, sei ai domiciliari». E se a mezzogiorno sceglie una frase del Vangelo, la sera vira su Martin Luther King. «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Lui, Cateno, di porta ha aperto quella del suo balcone e ha trovato un centinaio di fan capeggiati da Lo Giudice, amministratori e “fenapini”, che si sono radunati sotto casa sua. Alle nove della sera. Doveva essere una fiaccolata, diventa un semplice tributo di De Luca. Legge compiaciuto lo striscione (“Cateno siamo con te senza se e senza ma”) e appare come un pontefice dopo la fumata bianca. Un breve saluto. Poi l’irrinunciabile post su Facebook. «Grazie di cuore per la splendida manifestazione di solidarietà, mi avete veramente commosso. Si va avanti senza se e senza ma». Silenzio surreale, si riflette. «Non ci sono i presupposti perché stia agli arresti» mormora qualcuno all’avvocato Micalizzi. Che studierà come tirarlo fuori dai guai. Per la sedicesima volta.

Sicilia, dall’allevamento di conigli all’arresto: chi è Cateno De Luca, il Masaniello che si spogliava all’Ars. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Prima, invece, aveva fatto parlare di sé perché si era denudato a Palazzo dei Normanni. O perché era riuscito a controllare il sindaco, la maggioranza ma anche l'opposizione nel suo piccolo comune, scrive Giuseppe Pipitone l'8 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Quando lo esclusero dalla commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana ci rimase davvero male. Talmente tanto che mise in scena la più ridicola delle proteste: si presentò in mutande nella sala stampa del Parlamento regionale. Per poi coprirsi soltanto con la Trinacria. Un chiodo fisso quello di Cateno De Luca per la bandiera della Sicilia, ricamata persino sulla cravatta d’ordinanza fornita agli esponenti di Sicilia Vera, il movimento da lui fondato dopo un incessante pellegrinare da partito in partito. “Il colore che ho scelto è rosso-aranciato, quello della bandiera della Sicilia. Il rosso mi piace molti sostengono che io sia uno di sinistra che fa politiche di destra, forse un po’ è vero”, si autoincensava il deputato regionale, che con quel movimento si è pure candidato a governatore nel 2012. Sissignore: in Sicilia succede anche questo. Che un consigliere regionale noto per essersi denudato in pubblico, dopo aver conosciuto persino la galera, decida non di ritirarsi a vita privata ma di rilanciare: “Il presidente lo faccio io”. Prese l’1,2%, ma non si diede per vinto. E cinque anni dopo ci ha riprovato. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Caf e sacchi edilizi – Per i giudici De Luca è “il dominus di una serie di società ed enti”, utilizzati per sottrarre al fisco 1,7 milioni di euro. Sono i vari Caf di un ente che si chiama Fenapi, acronimo di Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, di cui risulta essere il “direttore generale nazionale”. Il presidente, invece, è tale Carmelo Satta, arrestato con lui stamattina. E con lui coinvolto nell’inchiesta sul “sacco di Fiumedinisi”, il minuscolo paesino in provincia di Messina di cui De Luca era sindaco. E in cui, per i pm, avrebbe voluto realizzare una gigantesca speculazione edilizia con l’immancabile mega albergo dotato di centro benessere. Purtroppo lo arrestarono prima con l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio, insieme al fratello Tindaro: in famiglia evidentemente non piacciono i soliti Giuseppe e Francesco. La Cassazione definì “ingiusta” la sua detenzione, ma il processo è andato avanti: e sul capo del politico messinese pende ancora una richiesta di condanna a 5 anni di carcere. Il caffè del galeotto del Masaniello di provincia – Nel frattempo si è ricandidato: a questo giro ha scelto l’Udc e Nello Musumeci. Ha preso 5mila voti ed è stato rieletto nonostante i problemi giudiziari, che in campagna elettorale lo avevano fatto finire di diritto tra i candidati impresentabili. “Ho avuto 15 procedimenti, 14 si sono conclusi con l’archiviazione”, sosteneva lui, promettendo querele e chiedendo un immotivato confronto pubblico col direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Lo stesso stile con cui ha commentato l’ultimo arresto. Ristretto ai domiciliari, ha accesso il computer senza neanche togliersi il pigiama: “Vi offro il caffè del galeotto”, ha scritto su facebook. Poi, non contento, ha pubblicato un video per spiegare di avere saputo in anteprima dell’arresto. “Me l’ha detto un parente di magistrati e di massoni”, è la sua versione. “Dedico questa ulteriore battaglia ai perseguitati dell’ingiustizia”, è invece il modo in cui dipinge la sua situazione giudiziaria. Sì perché questo piccolo ras delle preferenze di provincia crede davvero di essere un Masaniello del duemila. O almeno è quello che vuole fare credere ai suoi elettori.

Dai conigli all’Ars – Sul suo personalissimo sito racconta gli albori della sua carriera. “Da adolescente ho allevato conigli e raccoglievo origano, noci e castagne che poi vendevo alle putie (letterale, cioè negozi ndr) di Fiumedinisi sotto la severa vigilanza della mia mamma; quando frequentavo la scuola media durante le estati facevo il muratore con mio padre; mentre frequentavo il liceo passavo le mie estati a lavorare nei bar ed in inverno frequentavo uno studio legale messinese che si occupava di diritto previdenziale e sindacale”, scrive nella sua biografia. Chissà dove trovava il tempo per studiare, verrebbe da chiedersi. Di sicuro è col diritto previdenziale amministrato nei Caf della Fenapo che De Luca comincia a coltivare quel reticolo di rapporti sociali, poi trasformati in voti ad ogni tornata elettorale. Esordisce adolescente come attacchino della Dc, poi comincia la scalata: consigliere comunale, presidente del consiglio, sindaco della sua piccola città. Incarico che lascia dopo l’arresto nel 2011. E che non può più ottenere l’anno dopo, perché nel frattempo si è fatto eleggere sindaco nel vicino comune di Santa Teresa Riva. Sindaco e opposizione sono roba sua – È a quel punto che il Masaniello peloritano si trasforma in Archimede Pitagorico della politica locale: candida due aspiranti primi cittadini, entrambi sostenuti dalle sue liste. Poi manda una lettera agli elettori, chiedendo di votare uno dei due candidati sindaco, ma optando per i consiglieri comunali del suo avversario: in pratica istituzionalizza il voto disgiunto. “È un chiaro e forte gesto di ribellione”, dice, ma non si capisce verso che cosa si dovrebbero ribellare i cittadini visto che nei precedenti due mandati il sindaco era sempre lui. Gli elettori, però, non ci fanno caso e votano in massa come dice De Luca: che quindi è riuscito nell’impresa di controllare il sindaco, la maggioranza, ma anche l’opposizione. “Con questi metodi da Repubblica delle banane si vuole fare del comune, invece che una casa di vetro, il cortile della propria abitazione”, si lamentava all’epoca il deputato Pd Filippo Panarello. Opinione minoritaria, evidentemente, visto che nella zona De Luca lo hanno sempre votato in massa: il vassallo delle preferenze, inscalfibile neanche dopo indagini e arresti. “Demoliamo la Regione” – All’Ars entra per la prima volta con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Poi passa con Grande Sud, la formazione autonomista di Gianfranco Micciché. Quindi opta per la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, fino al 2011, anno in cui cambia per sei volte gruppo parlamentare: in quello del Pdl arriva a “sostare” per tre ore e mezza, giusto il tempo di far saltare gli equilibri in una delicata conferenza dei capigruppo. Qualche anno prima, invece, riesce a riunire 12 deputati di destra, sinistra e centro e crea un bellicoso gruppo bipartisan che chiede di indire un referendum: la carica di parlamentare con quella di sindaco- sostengono – devono essere incompatibili. E peccato che in quel momento De Luca fosse nello stesso momento sindaco di Fiumedinisi e deputato regionale. “Sono un battitore libero”, ripete spesso di se stesso. Durante una delle lussuose kermesse del suo movimento, invece, si è presentato sotto il simbolo di un enorme piccone e lo slogan: “Demoliamo la Regione siciliana”. Non si capiva se fosse una promessa o una minaccia. In ogni caso, per il momento, dovrà posticiparla.

Cateno De Luca annuncia querela contro Il Fatto Quotidiano. In un articolo del giornale diretto da Marco Travaglio, il candidato alle regionali è indicato come condannato a 5 anni per concussione ed abuso d'ufficio: "ciò è ovviamente falso, ennesimo attacco alla mia onorabilità", spiega l'ex sindaco di Santa Teresa, scrive "Letteraemme" l'8 ottobre, 2017. “Ho appreso con stupore dall’articolo apparso sul giornale Il Fatto Quotidiano che io sarei stato condannato a 5 anni per concussione ed abuso d’ufficio unitamente a mio fratello Tindaro, e ciò è ovviamente falso, e rappresenta l’ennesimo attacco alla mia onorabilità ed al mio modo di fare politica radicalmente contro il vecchio sistema e le solite logiche politiche parassitarie e farabutte”. Lo afferma Cateno De Luca, leader di Sicilia Vera e capolista nel collegio di Messina della lista Udc- Sicilia Vera. “Preciso – aggiunge De Luca – che ho avuto 15 procedimenti penali di cui 14 già chiusi a mio favore con assoluzioni perché il fatto non sussiste ed archiviazioni per al’ inconsistenza delle accuse. Per quanto riguarda l’ultimo processo ancora pendente, è stata richiesta dal pubblico ministero la condanna a cinque anni per tentata concussione (e non concussione) ed abuso d’ufficio, ed ancora questo processo è pendente perché la procura generale della Suprema Corte di Cassazione ha aperto un procedimento nei confronti di un componente del collegio giudicante per presunta violazione dell’obbligo di astensione causando, con molta probabilità, l’annullamento di tutte le attività dibattimentali (in essere da oltre 6 anni) e l’avvio di un nuovo processo con un collegio diverso”. “Solo per onore di verità – aggiunge De Luca – è corretta la notizia in merito ad una condanna di circa 13 mila euro che ho avuto dalla corte dei conti per le spese effettuate nella qualità di capogruppo al parlamento siciliano ma sono stato assolto in sede penale a differenza della stragrande maggioranza dei parlamentari siciliani ed ho già pagato queste 13 mila euro (altri parlamentari non lo hanno ancora fatto) pur avendo fatto ricorso alla suprema corte di cassazione per violazione di legge perché non è logica l’assoluzione in sede penale e la condanna in sede contabile per la medesima fattispecie di reato”.

Sicilia, De Luca posta un video dai domiciliari: “Parente di magistrati sapeva dell’arresto e mi aveva avvisato”, scrive "Il Fatto Quotidiano". Un video sulla sua pagina Facebook, girato in pigiama davanti a una libreria con i simboli di Sicilia vera.  Lo ha pubblicato il neodeputato Cateno De Luca, finito agli arresti domiciliari due giorni dopo l’elezione per evasione fiscale. Nel video il politico racconta quelli che, a suo parere, sono i retroscena della vicenda. De Luca ribadisce in parte quanto scritto sempre su Facebook poche ore fa, ossia che già nei giorni scorsi era a conoscenza del suo possibile arresto. “Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: ‘lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto’. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l’elezione di Cateno (parla di sé in terza persona ndr) perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice“. E poi prosegue, soffermandosi sull’accusa di evasione fiscale. Per gli inquirenti, De Luca insieme agli altri indagati aveva organizzato un sistema di false fatture. “La vicenda che riguarda il mio arresto fa ridere vengo accusato di essere il regista di un’evasione fiscale di un ente collettivo, il Caf Fenav, che non è mio. Originariamente questo era uno dei 15 procedimenti penali aperti a mio carico: per 14 sono stato assolto o archiviato. Questo prevedeva peculato, appropriazione indebita e evasione fiscale”.

Messina, il Grande Oriente d’Italia contro Accorinti e De Luca. Il gran maestro dell'obbedienza massonica si scaglia contro le dichiarazioni del sindaco ("estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia solo per darsi un tono") e del deputato regionale finito ieri ai domiciliari. E avverte: "Attenti alla pericolosità sociale delle dichiarazioni", scrive il 9 novembre, 2017 "Letteraemme". Nuova puntata dell’ormai quinquennale battaglia tra il sindaco di Messina Renato Accorinti ed il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica dello stivale. Oggetto delle rimostranze del gran maestro Stefano Bisi, un’altra volta, sono le dichiarazioni di Accorinti dopo le regionali, in cui paventava scenari di influenza massonica. “A Messina a quanto pare va sempre più di moda attaccare la massoneria per deresponsabilizzarsi da politiche fallimentari e da gravi situazioni giudiziarie personali – attacca Bisi –  Il sindaco di Messina, non nuovo a dichiarazioni generiche e stucchevoli sulla Libera Muratoria, la vede ad ogni angolo della città – che non è più il gioiello di un tempo e mostra evidenti crepe che  tutti i cittadini possono constatare – anzi probabilmente la sogna pure di notte e la utilizza forse per allontanare da se’ tutte le problematiche non risolte dalla sua amministrazione. Le recenti sue comparse post elezioni regionali – continua il gran maestro del Goi – sono, a nostro avviso, solo il segno di estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia di Massoneria solo per darsi un tono e sparare nel mucchio. Non è sparandola grossa e addossando le colpe a un’Istituzione antica e ricca di valori e principi per l’elevazione dell’Uomo e dell’Umanità che si fa il bene della collettività.  Il primo cittadino dovrebbe stare anche molto attento alla pericolosità sociale di certe sue dichiarazioni che possono scatenare gesti inconsulti – avverte ancora Bisi – Appena qualche giorno fa a Roma, a Palazzo Giustiniani, abbiamo ricordato la figura di Achille Ballori, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico Ed Accettato e futuro Gran Maestro, il quale venne ucciso a colpi di pistola nel 1917 da un folle che credeva che tutti i suoi mali provenissero dalla massoneria. Credo che ciò dovrebbe fare riflettere il sindaco sulla pesantezza di certe parole”. Non è solo Renato Accorinti il destinatario degli strali del numero uno dei grembiulini italiani: c’è anche Cateno De Luca, che dopo l’arresto di ieri, dai domiciliari di Fiumedinisi ha diffuso un video in cui sosteneva di aver ricevuto “avvertimento” sull’arresto imminente da un importante esponente della politica e della massoneria isolana. “Ci hanno lasciati esterrefatti le dichiarazioni affidate a un videomessaggio del deputato messinese neoeletto all’Ars e finito a urne chiuse al centro di un’inchiesta  giudiziaria che ha fatto scattare nei suoi confronti la detenzione ai domiciliari – dichiara Bisi – Anche quest’ultimo, genericamente, ha utilizzato il termine “massoneria” e fatto riferimento a un “noto personaggio della politica siciliana, probabilmente facente parte della massoneria” che lo avrebbe preavvertito di quanto gli sarebbe accaduto dopo l’elezione. Affermazioni proseguite con il solito ritornello dei poteri forti – massoneria ovviamente in testa – che non avrebbero gradito la sua eventuale candidatura a sindaco di Messina. Dichiarazioni roboanti da indirizzare all’opinione pubblica e rese da un soggetto privato della libertà – affonda il gran maestro – Noi auguriamo a questo politico di dimostrare la sua estraneità ai fatti contestatigli ma lo Invitiamo a non lasciarsi andare a manifestazioni di pensiero arbitrarie se non supportate da fatti che andrebbero comunque denunciati agli organi competenti. Voglio rivolgermi ai cittadini messinesi – conclude Stefano Bisi – per ribadire che la libera muratoria del Grande Oriente d’Italia non si occupa di politica e non vuole essere strumentalizzata in vicende che non la riguardano. Siamo tolleranti per principio ma adesso basta col parlare a sproposito di massoneria”.

Potere, affari, massoneria. Viaggio nell'immutabile Messina, scrive Salvo Toscano Mercoledì 4 Ottobre 2017 su "Live Sicilia”. Raccontano che quando l'ingegnere palermitano Antonio Zanca realizzò il celebre Palazzo che porta il suo nome e ospita il municipio di Messina, incontrò grosse difficoltà a farsi pagare. E questo malgrado le ripetute rassicurazioni. Fu così che l'estroso progettista decise di abbellire la facciata con i pesci dalla bocca larga, che sullo Stretto si chiamano “buddaci”, raccontando con quella trovata una caratteristica della città dove non sempre i fatti seguono alle parole. Basti pensare, per farsene un'idea, alla chimera del Ponte. Il nostro giro della Sicilia sulle tracce del potere comincia lì dove comincia l'Isola. A Messina, città archetipo di quell'immutabilità siciliana che resiste come una condanna senza appello. Un luogo in cui, almeno apparentemente, ogni cosa resta o cerca di restare com'è. Malgrado tutto. Uno scossone agli assetti parve assestarla quattro anni fa la sorprendente elezione di Renato Accorinti. Il sindaco in t-shirt e sandali scardinò alle urne i blocchi di potere che saldamente tenevano in mano la città, proponendosi come antagonista dei poteri forti. Da allora, tra gli alti e i bassi della sua sindacatura, i poteri forti però sembrano rimasti ben saldi. Le cronache di questi giorni, con la sfida delle Regionali dietro l'angolo, hanno riportato la città dello Stretto all'attenzione dei giornali. Merito, se di merito si tratta, della candidatura di Luigi Genovese, giovanissimo figlio di Francantonio, già sindaco, già parlamentare, già segretario del Pd, socio della famiglia Franza nel grande business dei traghetti, ma anche colosso della formazione professionale, dettaglio quest'ultimo che gli è costato in primo grado una condanna a undici anni per una serie di reati legati proprio ai “corsi d'oro”. Un processo che ha riservato dispiaceri anche alla consorte di Genovese, alla sorella di lei e al marito di quest'ultima, il deputato regionale uscente Franco Rinaldi. Tutti condannati, condanna non definitiva è bene ricordare, a vario titolo. Ora tocca al giovane Luigi, la cui segreteria politica in centro città in questi giorni è sempre affollatissima, come affollata è stata la convention per il lancio della sua candidatura in Forza Italia benedetta dal commissario Gianfranco Miccichè. Una prova di forza per riaffermare un'esistenza in vita, dicono da queste parti.Dove ci si attende un grande risultato dal rampollo della potente famiglia che già prima del Luigi ventunenne ebbe un altro Luigi, il padre di Francantonio, parlamentare e una punta di diamante come lo zio di Francantonio, Nino Gullotti, sei volte ministro e signore delle tessere Dc. La famiglia è una cosa importante, da queste parti più che altrove. In una città che non ha più industrie da un pezzo, il potere si concentra in pochi, pochissimi luoghi, ed è per l'appunto spesso un affare di famiglia. O di fratellanza, ma questa è un'altra storia. Sì, perché oltre ai grandi centri di potere, che poi sono quelli del business dei traghetti, dell'editoria e della sanità, e infine dell'università, c'è poi sempre lo stesso fantasma, che si agita in tutti i racconti, con un alone di leggenda. E cioè la massoneria, che qui a Messina ha una lunghissima tradizione. Quanto contano ancora le logge? Nessuno sa dirlo con certezza, ma tutti ne parlano. Di massoni illustri la storia di Messina è ricca. Anche oggi qualcuno ha avuto i suoi momenti di gloria. Come Carlo Vermiglio, avvocato e assessore regionale uscente ai Beni culturali, massone in sonno. In giunta lo piazzarono gli alfaniani, per la precisione Nino Germanà, che in zona Cesarini è tornato in Forza Italia a sostegno di Nello Musumeci, insieme a una ricca compagnia di convertiti dell'ultima ora. Il suo comitato elettorale è giusto di fronte a quello di Beppe Picciolo, uscente di Sicilia Futura. Tentano di restare all'Ars come gli altri uscenti, da Giovanni Ardizzone, presidente dell'Ars, a Santi Formica. Ma i riflettori in questa campagna sono tutti per Genovese jr. Il figlio di “Franzantonio”, come da queste parti chiamano ancora il padre, gode del sostegno di ben undici consiglieri comunali di Forza Italia. Tra loro Emilia Barrile, presidente del consiglio comunale: “C'è un grande consenso di persone che gli vogliono bene. Stiamo chiedendo il consenso per Luigi, non per il figlio di Francantonio”, dice lei. I traghetti del socio Pietro Franza, oggi meno forte di ieri dopo il salasso del Messina calcio, i corsi di formazione e la politica di famiglia sono stati gli ingredienti del potere di Genovese. Un forziere elettorale per la famiglia. Che adesso vuole dimostrare che quel forziere non si è svuotato. La sfida è aperta con tutti i candidati in corsa nelle diverse liste all'opera per contendersi i voti nei quartieri popolari (e popolosi), come Giostra e Mangialupi. Le stanze del potere stanno altrove. Un bel pezzo si concentra da sempre all'Università, luogo dalla storia tormentata. Nelle stanze dei baroni si è tornato ad annusare l'odore dello scandalo con l'inchiesta fiorentina che ha coinvolto i docenti di diritto tributario e che ha lambito anche Messina. Poca cosa, certo, rispetto ai tempi andati. L'ateneo messinese ha una lunga “tradizione” di scandali alle spalle, dalla clamorosa parentopoli alle inchieste sugli esami truccati, con tanto dell'ombra della 'ndrangheta, i cui rampolli hanno spesso frequentato le aule dell'università messinese. Quella stessa università che diciannove anni fa fu sconvolta dall'omicidio di Matteo Bottari, professore e genero dell'ex rettore ucciso in un agguato rimasto impunito. Erano gli anni rimasti alla storia come quelli del “verminaio” Messina. Oggi l'ateneo messinese è retto da Pietro Navarra, che non era ancora nato quando lo zio Michele, boss di Corleone, fu assassinato. La sua è tutt'altra storia, che lo ha portato a diventare il più giovane Magnifico d'Italia con un brillante curriculum accademico. Navarra è ritenuto vicino a Matteo Renzi e in queste elezioni l'ateneo è mobilitato a sostegno della candidatura di Franco De Domenico, direttore generale dell'Università, candidato del Pd. L'ateneo, in una città dall'economia asfittica, rimane un baluardo di potere. Per il resto a Messina, al netto di traghetti (dove accanto al gruppo Caronte dei Matacena e a Tourist della famiglia Franza, ormai uniti, da qualche tempo si sono inseriti anche gli aliscafi del gruppo Morace), editoria e sanità, resta poco o nulla. “La provincia è ancora vivace, ci sono importanti realtà di manifatturiero soprattutto sui Nebrodi, c'è Milazzo con le sue industrie. La città no – racconta Ivo Blandina, presidente della Camera di commercio -. Una quarantina di anni fa in città ci fu lo spostamento del capitale dall'investimento alla rendita”. Ne è seguita una decadenza che ha visto col tempo privare Messina anche di altri fiori all'occhiello, dal Comando marittimo della Sicilia all'Autorità portuale, con la città dello Stretto che finirà ora sotto l'orbita di Gioia Tauro. Cosa resta in città? C'è la sanità, che qui come altrove rappresenta anche un importante bacino elettorale. L'Asp è commissariata (come la ex Provincia, oggi Città metropolitana), con al timone Gaetano Sirna. Accanto a gruppi privati di un certo peso, spicca il Centro Neurolesi Bonino Pulejo, struttura ad alta specializzazione che ha visto approdare ai vertici Angelo Aliquò, già direttore della Seus. Ma il centro, che lega la sua storia già nel nome a quello della famiglia della Gazzetta del Sud, ha come faro indiscusso il professor Placido Bramanti, direttore scientifico con due pagine di cariche nel curriculum, una delle figure di maggior rilievo della città. Di poche settimane fa è la notizia di uno stanziamento ministeriale da 91 milioni di euro in favore del centro messinese, una cifra che già da sola basta a inquadrarne il peso negli equilibri di potere cittadini. E poi c'è appunto la Gazzetta del Sud. Edita dalla Ses, in mano alla Fondazione Bonino Pulejo. Il giornale-ponte, che ha unito la Sicilia e la Calabria conquistando lettori soprattutto al di là dello Stretto. Ma anche il “giornale del Ponte” ai tempi di Nino Calarco, quando in città c'era persino un centro informazioni sull'infrastruttura che non vide mai la luce. Oggi al timone c'è il manager Lino Morgante, protagonista dell'operazione che ha portato nell'orbita messinese il Giornale di Sicilia, rilevato dalla famiglia Ardizzone. Un'operazione che rafforza ulteriormente il peso della testata messinese, tradizionalmente filo-governativa, che ha un altro punto di forza nella sua rotativa. Altra voce dell'editoria cittadina è quella piccola ma agguerrita di Centonove, settimanale lontano dal Palazzo, diretto da Enzo Basso. Che di recente ha fatto le pulci all'affare Giornale di Sicilia con una succulenta inchiesta ricca di retroscena. Qualcosa si muove, insomma, sullo Stretto. Ma gli attori restano sempre gli stessi. Anche nell'era dell'anti-sistema Accorinti. La pensano così dalle parti di Rifondazione comunista, che prima sostenne l'ascesa del sindaco pacifista, salvo poi prenderne le distanze. “Per me non c'è stata assolutamente rottura col passato – commenta Antonio Mazzeo, giornalista e attivista comunista -. Prova ne sono il piano di riequilibrio del bilancio, che ha giovato ai grandi creditori del Comune, o le operazioni immobiliari sempre con gli stessi personaggi. La borghesia imprenditrice esce impunita dagli errori del passato”. Non sono piaciute a sinistra ad esempio le sponsorizzazioni del gruppo Franza a eventi organizzati dall'amministrazione, ma soprattutto il piano che nel nome dell'ambientalismo si propone di spostare le cubature dalle colline alla zona Sud, un'operazione che, secondo l'inchiesta “Beta” della Dda messinese avrebbe solleticato gli appetiti anche di organizzazioni criminali interessate a speculazioni edilizie. Già, la mafia. Che a Messina non ha una storia militare ma piuttosto di infiltrazione negli affari. Con incroci pericolosi di Cosa nostra palermitana, mafia catanese, il clan Santapaola in particolare, e 'ndranghetisti. Ma il tema in questi giorni di campagna elettorale latita, proprio come quei latitanti eccellenti che da queste parti trovarono rifugio negli anni d'oro di Cosa nostra. In una città dove il Palazzo di Giustizia è stato per lunghi anni un luogo di ombre e veleni, in quella che veniva chiamata “provincia babba”. Oggi la procura, che negli ultimi anni ha dato segnali di vitalità, è passata nelle mani di un magistrato esperto come Maurizio De Lucia, grande conoscitore del fenomeno mafioso con trascorsi alla Dna. Il suo biglietto da visita la settimana scorsa con l'indagine che ha portato a un maxi-sequestro ai Cuzzocrea, imprenditori della sanità, fratelli dell'ex rettore dell'università messinese sulla base di accuse che la difesa degli indagati respinge con forza. Questo il quadro di una città che si prepara a una raffica di elezioni. Le Regionali alle porte, con un buon vento nelle vele di Nello Musumeci, poi le Politiche e infine le amministrative. Dove Accorinti secondo diversi osservatori potrebbe strappare un secondo mandato perché a pochi mesi dal voto non si profila ancora un'alternativa. Sarà la volta buona per tentare la strada del cambiamento o alla fine la maledizione dei “buddaci” di Zanca avrà la meglio sull'immutabile città?

De Luca: "L'arresto? Lo sapevo. Vi offro il caffè del galeotto", scrive Accursio Sabella l'8 novembre 2017 su "Live Sicilia". "Non mi vogliono come sindaco di Messina, un parente di un magistrato sapeva del mio arresto". "Sapevo che mi avrebbero arrestato, perché già certi ambienti mi avevano avvertito". Cateno De Luca parla attraverso il suo profilo di Facebook e lo fa in calce a una foto che lo immortala mentre sorseggia un caffè: "Il caffè del galeotto", scherza rivolgendosi ai suoi elettori. "Oggi più di ieri - continua De Luca - vi dico che anche questo procedimento finirà come gli altri quattordici: archiviati o con sentenza di assoluzione. Nei prossimi giorni saprete il perché non vogliono che io faccia il sindaco di Messina. Ringrazio i militari che stamattina alle ore 7:25 hanno suonato alla mia porta per arrestarmi in quanto sono stati un esempio di professionalità, gentilezza e riservatezza". E De Luca fa intendere che l'arresto era ampiamente previsto: "Io - dice infatti - li aspettavo da qualche giorno. Io sto bene, ora sono agli arresti domiciliari a Fiumedinisi e penso solo a preservare mia moglie, i miei figli, la mia famiglia dall'ulteriore calvario giudiziario che li attende". Poi un pensiero a chi ha votato per lui il 5 novembre, consentendogli di conquistare l'elezione a Sala d'Ercole: "Chiedo scusa ai miei sostenitori ed elettori per ciò che subiranno nei prossimi giorni - dice De Luca -  Posso solo dirvi - prosegue - che i fatti contestati risalgono al periodo 2007 - 2012 per i quali risulta pendente presso la commissione tributaria regionale un procedimento: mi contestano che io avrei agevolato il Caf Fenapi ad evadere il fisco e quindi non sarei io l'evasione ma il Caf Fenapi di proprietà della Fenapi che ha oltre 300 mila soci". Insomma, De Luca non fa fatica a definirsi un perseguitato: "Dedico questa ulteriore battaglia - scrive infatti - ai perseguitati dell'ingiustizia che non hanno avuto la forza ed i mezzi per ottenere giustizia. State sereni io non mollo. Preservate il nostro meritatissimo ed onestissimo successo elettorale dagli attacchi dei medesimi ambienti che già sapevano del mio arresto. Tale richiesta - prosegue - risale al 10 gennaio 2017 ed il Gip per motivi a noi non troppo ignoti ha firmato l'ordinanza di arresto il 3 novembre 2017". E il motivo, fa intendere De Luca, sarebbe legato a questioni di natura politica. "Io - prosegue infatti - avevo annunciato la mia candidatura a sindaco di Messina nel comizio del primo gennaio 2017 in Piazza Municipio a Santa Teresa di Riva. A dicembre 2016 avevamo depositato l'ennesima denunzia nei confronti di una parte della magistratura di Messina ed alcuni organi inquirenti che avevano commesso troppi "errori" nei procedimenti penali aperti a carico di Cateno De Luca: ben 15 procedimenti penali di cui già chiusi 14 con sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste e varie archiviazioni per l'inconsistenza delle accuse. Pregate per me - conclude - e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia". C'è spazio anche per una citazione evangelica: "'Beati i perseguitati a causa della giustizia - dice - perché di essi è il regno dei cieli'". Conclude poi con un appello agli elettori: "Condividete se potete il presente post. Vi saluto offrendovi virtualmente il caffè del galeotto". "Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: 'lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l'elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice". Così in un video su Fb, il deputato regionale appena eletto Cateno De Luca, da stamani ai domiciliari con l'accusa di evasione fiscale.

“Riabilitiamo Messina” torna dopo l’assoluzione di De Luca. Il fondatore, Antonio Briguglio, aveva chiuso il gruppo Facebook mercoledi, dopo l'arresto del deputato regionale, e lo ha riaperto oggi, dopo la sua assoluzione nel processo per i fatti di Fiumedinisi. De Luca lo ha indicato come assessore designato qualora diventasse sindaco, scrive il 10 novembre 2017 "Letteraemme". Da “Il gruppo è stato archiviato” a “Antonio Briguglio ha annullato l’archiviazione del gruppo”. Il suo creatore ha chiuso il gruppo Facebook Riabilitiamo Messina mercoledì e lo ha riaperto venerdì: quarantotto ore di oblio, coincise con la carcerazione ai domiciliari di Cateno De Luca come misura cautelare nell’inchiesta per evasione fiscale nella galassia Fenapi di due giorni fa, e l’assoluzione per due reati su tre (in uno è intervenuta la prescrizione) nel processo su opere di urbanizzazione realizzate a Fiumedinisi. Il motivo del ritorno lo ha spiegato lo stesso Briguglio, in un post in cui annuncia la riapertura del gruppo che conta diecimila iscritti e si presenta come “un’ottica apolitica per sensibilizzare le amministrazioni e i cittadini tutti alla cura ed al senso civico nei confronti della nostra città, Messina!”. “Ho chiuso il gruppo per qualche giorno per evitare che gente ignobile, gretta e meschina potesse macellare una persona e una famiglia”. Non lo nomina direttamente, ma il riferimento è a Cateno De Luca. Perchè Antonio Briguglio da De Luca è stato indicato come assessore designato della sua giunta qualora riuscisse a diventare sindaco di Messina, il prossimo giugno. Briguglio è stato presentato alla platea lo scorso 21 ottobre quando, sul palco con lui De Luca c’era anche Carlo Taormina, il legale che ha difeso l’ex sindaco di Fiumedinisi dalle accuse nel processo, facendolo assolvere. “Da buon cristiano penso che solo Dio può giudicare sulle nostre scelte, dispiace che molta gente aspetta gli errori di altri per distruggerne la dignità – continua Briguglio nel post in cui annuncia la riapertura – Facebook, come alcuni giornali e giornalisti politicizzati sono il cancro della nostra società. Riapro Riabilitiamo Messina con l’augurio che non diventi più una macelleria social, che nessuno si permetta più di inveire contro le disgrazie altrui in questo gruppo”, ha concluso Briguglio.

Felice Cavallaro per il Corriere della Sera del 10 novembre 2017. Ribalta l'accusa Cateno De Luca, il deputato regionale di Messina eletto a arrestato a tempo di record. Ma lo fa nel primo processo sul quale pende la richiesta di condanna a 5 anni. Non nell' ultima inchiesta per evasione fiscale. Ribalta il sospetto di avere pilotato appalti nel suo paesino, Fiumedinisi. Sostenendo di essere vittima di una estorsione. Questa la verità del vulcanico leader del partitino fatto in casa, «Sicilia Vera». Tesi declamata ai giudici che emetteranno il verdetto oggi e ai quali si è presentato da detenuto perché ai «domiciliari» per l'altro procedimento, il quattordicesimo, legato ai pasticci della Fenami, una federazione di imprenditori costruita a sua misura, seppur benedetta lo scorso aprile dal «cappellano di Sua Santità e direttore Ufficio per la Pastorale universitaria», monsignor Lorenzo Leuzzi, chiamato a parlare di «etica del lavoro». È loquace su Facebook, certo di non commettere reato, nonostante la detenzione e i consigli dei legali. E lascia trapelare cosa accadrà domani, quando il gip che lo ha fatto arrestare lo interrogherà, come ha fatto sapere ai fedelissimi: «Sapevo della cattura e rivelerò il nome di chi me l'ha detto, il parente di un magistrato». L' attesa del possibile annuncio già inquieta Messina dove De Luca indossa i panni della vittima di un presunto complotto descritto come una faida interna al centrodestra. Un riferimento emerso fra le pieghe del processo di ieri quando i carabinieri l'hanno scortato da casa al tribunale. Il «sacco» di Fiumedinisi apparirebbe così legato al clamoroso spogliarello inscenato a Palazzo dei Normanni contro l'allora governatore Raffaele Lombardo e contro Gianfranco Miccichè quando lui era alla guida di un consorzio per la metanizzazione dei paesini della costa ionica. «Volevano un altro». Per scalzarlo i suoi avversari avrebbero fatto scattare «una manovra politica e giudiziaria». Cauto il suo avvocato, Carlo Taormina, su una tesi che oggi potrebbe essere negata dal verdetto. Ma è difficoltoso placare l'esuberanza di questo imputato eccellente che deborda via Internet, sorprendendo il procuratore della Repubblica Maurizio De Lucia, convinto che «non dovrebbe essere possibile», ma che forse occorrono prescrizioni esplicite per una materia nuova. E, incurante, l'imputato irrompe sui social piazzando video e foto di un centinaio di simpatizzanti che lo incoraggiano a non mollare e cita Martin Luther King: «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». C' è anche la foto dei genitori caricata lunedì con didascalia: «Mamma e papà mi hanno detto di stare sereno». E le foto in chiesa, lui di spalle, la Madonna in primo piano: «Maria Santissima Annunziata proteggici Tu». Ma è sua madre che lo accarezza: «Mi ha visto sciupato e mi ha sbucciato le castagne». Diverso il tono di domenica mattina con gli avversari che cercavano di fare votare altri: «A calci in culo i lacchè davanti ai seggi! Abbiamo fatto intervenire la polizia». Ignaro degli sviluppi. Ancorato ad un accostamento per tanti sacrilego perché il giorno prima delle elezioni «postava» una foto di Falcone e Borsellino con una citazione di quest' ultimo: «Il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale...».

Cateno De Luca assolto 15 volte, ma resta dentro, scrive il 10 novembre 2017 l'Adnkronos e il Dubbio. Il neo deputato Udc arrestato per una presunta evasione fiscale da 1,7 milioni di euro. Ora aspetta il 16esimo processo: «Anche stavolta dimostrerò la mia innocenza». Cateno De Luca, il neo deputato Udc arrestato due giorni fa per una evasione fiscale da 1,7 milioni di euro è stato assolto poco fa dal Tribunale di Messina dall’accusa di tentata concussione e falso in atto pubblico. I reati contestati, per cui il parlamentare finì anche in cella, sono relativi a un periodo compreso tra il 2004 e il 2010, quando De Luca era sindaco di Fiumedinisi. Secondo l’inchiesta della Procura messinese, l’ex sindaco avrebbe stravolto il programma per favorire imprese edilizie della sua famiglia. Cateno De Luca è stato assolto perché il fatto non sussiste. Alla lettura della sentenza hanno assistito decine di persone, alcune delle quali al momento dell’assoluzione hanno a lungo applaudito. Il procedimento per cui era sotto processo De Luca cominciò per presunti reati commessi tra il 2004 e il 2010 all’interno di un programma di opere di riqualificazione urbanistica e incentivazione dell’occupazione a Fiumedinisi (Me), Comune di cui era sindaco. De Luca venne arrestato nel giugno 2011. Intanto si terrà domani mattina l’interrogatorio di De Luca per l’arresto per evasione fiscale. Sospiro di sollievo per De Luca: “Ringrazio il collegio che ha avuto il coraggio, nonostante le pressioni, di assolvermi sulla maggior parte dei casi. Su alcuni è stata sollevata la prescrizione e questo mi dispiace molto. Devo decidere cosa fare perché non escludo di rinunciare alla prescrizione di alcuni capi d’imputazione e di andare avanti fino in fondo facendo appello”. “In questi sette anni – aggiunge – ho subito 15 procedimenti penali e sono stato assolto sempre. Tante accuse sono state archiviate per l’inconsistenza delle stesse e io voglio giustizia ed essere assolto”.

Cateno De Luca: "Ferite che rimarranno, non cerco vendetta ma giustizia". Visibilmente provato, Cateno De Luca dopo la sentenza che lo ha visto assolto ha affidato il suo sfogo ancora una volta a un video messaggio su Facebook, scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo stretto". "In questi sette anni ho subito quindici procedimenti penali, sono stato assolto sempre. Molte accuse sono state archiviate per l'inconsistenza, per altre è stata chiesta la prescrizione ma adesso voglio valutare se rinunciare. Io desidero la giustizia giusta e voglio essere assolto. Non accetto di essere indicato dagli improvvisati grillini come impresentabile, di essere tacciato da quell'ignorante di Salvini che è venuto anche ai nostri convegni della Fenapi e voleva lui che io entrassi nella Lega. Sfido tutti al confronto sulla buona politica, se sono all'altezza. Io non sono un politico, sono un amministratore, voglio che ci sia giustizia. Oggi è un giorno importante per me, per la mia famiglia e per chi ha creduto in me. Andiamo avanti, sono ancora in uno stato di detenzione ma mi difenderò anche da questa ignobile accusa. Mi auguro che la politica prevalga sull'infamia della calunnia e soprattutto che chi fa politica si misuri e si confronti sui temi politici e la smetta di appioppare patenti di moralità soltanto per nascondere la propria imbecillità politica".

Cateno De Luca dopo l’assoluzione: «Sono più forte, le lobby non mi fermeranno», scrive "Normanno" l'11 novembre 2017. Dopo essere stato assolto da tutti i capiti di imputazione di cui era accusato per il processo conosciuto come “Sacco Fiumedinisi”, il collegio di difesa di Cateno De Luca composto dal prof. Carlo Taormina e dall’avvocato Tommaso Micalizzi, scrive una lettera in cui parla di una vera e propria persecuzione ai danni del neo deputato all’ARS. “La sentenza di oggi mette fine ad un’odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica l’on. Cateno De Luca. Chi pensava di raggiungere tale scopo, gettando discredito sull’operato di De Luca e avanzando pseudo ipotesi delittuose – spiega il collegio di difesa – si dovrà ora ricredere. Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un’assoluzione o un’archiviazione ed è ormai chiaro a tutti che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile, e che non scende a compromessi.  Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per alimentare voci in modo tendenzioso e per fomentare odio nei confronti dell’ex sindaco di Fiumedinisi, descritto come un mostro senza cuore e senza valori. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l’on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma queste accuse infondate, non sono riuscite ad intaccare la dignità, la serietà e la forza di De Luca che ha lottato in prima linea per far emergere la verità. Riteniamo che anche quest’ultima vicenda relativa all’arresto di qualche giorno fa per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale, abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità di De Luca ai fatti contestati. Sembrerebbe, da una prima analisi dei fatti, che ci siano regie occulte e sempre pronte ad agire anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l’uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione”. Cateno De Luca, che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: «I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune, non ho mai pensato di sopraffare nessuno, e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c’è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali sono stato assolto, siano un esempio per tutti i perseguitati dell’ingiustizia. Bisogna sempre credere che la verità trionferà. E’ stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per tutti i miei familiari e sostenitori, ma è stata una prova che mi ha ritemprato rendendomi più forte e determinato nella mia lotta contro la cattiva politica, i ladroni autorizzati, gli scansafatiche senza meriti e gli improvvisati da strapazzo. Le lobby e le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora. Sono ottimista anche relativamente a quest’ultima azione giudiziaria avvenuta nei miei confronti, e sono certo che presto tornerò libero e dimostrerò la mia innocenza. Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell’attenzione nazionale, ho sentito delle incredibili dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità e ho dato già mandato ai miei legali di agire di conseguenza querelando chi le ha proferite. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me, solo per mere opportunità politiche. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord che si sono sempre dimenticati del Mezzogiorno, ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell’etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell’ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stato un fallimento. Sono pronto a sfidare tutti in dibattiti pubblici dove dimostrerò la pochezza delle loro idee e l’assenza della loro moralità che vanno sbandierando ai quattro venti. Tornerò in parlamento portando sempre avanti le mie battaglie contro gli sprechi, contro la corruzione e contro chi ha ridotto la Sicilia in un letamaio. La gente è con me e mi chiede di andare avanti e io non mi fermerò».

Carlo Taormina (legale di De Luca) ai giornalisti: «Poi non vi lamentate delle testate», scrive l'11/11/2017 "La Sicilia”. La frase del difensore del deputato regionale arrestato per evasione fiscale. L'Ordine dei giornalisti di Sicilia: «Frase infelice e fuori luogo». E’ polemica a Messina per alcune frasi dette ai cronisti dall’avvocato Carlo Taormina dopo l'interrogatorio di garanzia di Cateno De Luca oggi al tribunale di Messina. Taormina prima di andarsene, rispondendo alle domande dei cronisti sull'operato della Procura nei confronti di De Luca, ha infatti detto: «Giudicate voi se è normale il comportamento della Procura nei confronti di De Luca, valutate voi se è da paese civile. Poi vi lamentate se vi danno le testate. Cercate di operare nell’interesse dei cittadini». «Una frase infelice e fuori luogo quella dell’avvocato Taormina, - replica il presidente dell’ordine dei giornalisti di Sicilia Giulio Francese - che non si capisce perché tiri in ballo l’episodio della testata inferta a un giornalista a Ostia. Bisognerebbe avere più rispetto per i cronisti e non alimentare con certe dichiarazioni un clima d’odio che poi rischia di degenerare in episodi violenti come è successo a Ostia. Per tornare a un clima più sereno ognuno deve fare il proprio lavoro nel rispetto di tutti. Basta allusioni e accuse gratuite».

Morta l'antimafia se ne fa un'altra. Arrivano i santissimi sputtanatori, scrive Giuseppe Sottile Giovedì 9 Novembre 2017 su "Live Sicilia". Il mascariamento non finisce mai. Lo dimostra la campagna d'odio sugli "impresentabili", targata M5S. (Dal Foglio). Diciamolo pure con un certo sconforto, ma diciamolo: l'antimafia, quella che un tempo spaccava le ossa e garantiva trionfi e carriere, non tira più. E per averne conferma basta guardare tra le pieghe delle elezioni siciliane. Rosario Crocetta, che cinque anni fa era diventato governatore grazie alle sue furbesche intemerate contro gli invisibili spettri di criminalità e malaffare, è finito nella polvere con tutto l'armamentario delle imposture spacciate come verità nel teatrino di Massimo Giletti. Leoluca Orlando, altro campione dell'antimafia chiodata, ha tentano il salto dal comune di Palermo alla Regione, ma le sue liste non hanno superato la soglia di sbarramento e sono miseramente naufragate, come quelle di Angelino Alfano, nel grande mare dell'irrilevanza. Stesso destino per Claudio Fava, che pure è testimone di un impegno serio e rispettabile: la sua fatica con quel che resta della sinistra non è andata oltre il 6 per cento dei voti e ha conquistato appena un seggio a Sala d'Ercole. La disfatta, com'era prevedibile, ha travolto anche le comparse del vecchio cinema antimafia, con tutti i loro attrezzi di scena. Valeria Grasso – un'improbabile eroina del cerchio magico di Crocetta, elevata dal ministero dell'Interno al ruolo di testimone di giustizia – ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento di salire sul palcoscenico elettorale per riscuotere gli applausi. E per meglio commuovere gli spettatori ha raccontato la storiellina, ovviamente “misteriosa e inquietante”, di un furto in casa. Un furto “strano”, va da sé. Un'esperienza “traumatica e brutale”, naturalmente, proprio perchè i ladri si sarebbero limitati, guarda un po', a rubare la foto di Valeria ritratta con i figli. E nulla più. La storiellina, finita sui giornali a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto quantomeno suscitare consensi e solidarietà, trepidi abbracci e infiocchettati attestati di stima. Ma le masse, chiamiamole ancora così, non hanno risposto all'appello e Valeria Grasso ha raccolto nelle urne appena 501 voti. Gli elettori hanno mostrato verso la sua antimafia la più assoluta e sincera indifferenza. Si è schiantato contro un muro di gomma anche la sublime architettura messa in piedi per condizionare il voto dalla cosiddetta Confraternita della Trattativa, una sorta di setta conventicolare secondo la quale nessun magistrato, tranne Nino Di Matteo, riuscirà mai a scoprire le trame oscure e i mandanti occulti che lo Stato-mafia (col trattino piccolo piccolo) puntualmente nasconde tra le pieghe di ogni processo. La Confraternita, alla quale aderiscono santoni e tromboni con tutte le stimmate delle loro immacolate esistenze, ha tentato il colpo grosso. Da cinque mesi vagavano – tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta – i mille e mille discorsi fatti durante l'ora d'aria da Giuseppe Graviano, un boss stragista rinchiuso da 23 anni nel carcere duro di Ascoli Piceno. Graviano, che pure aveva sgamato di avere tutto intorno le cimici sistemate dagli agenti lungo il cortile per intercettare le sue parole, parla a ruota libera e, con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, lascia andare alcune frasi smozzicate che comunque tirano in ballo il bersaglio di sempre: Silvio Berlusconi. Una manna dal cielo per la Confraternita della Trattativa, e per i pochi cronisti che ancora si ostinano a seguire il processo in Corte d'Assise che si celebra nell'aula bunker dell'Ucciardone. E anche se il boss, chiamato dalla Corte a testimoniare, spegne subito gli entusiasmi, avvalendosi della facoltà di non rispondere, la Confraternita che affianca dall'esterno Di Matteo (candidato da Grillo a diventare il ministro di legge e ordine in un futuro governo a cinque stelle) non si arrende e spara il colpo di riserva: l'annuncio che Berlusconi, con Graviano, è stato iscritto a Firenze nel registro degli indagati. La notizia, anche se vecchia e usurata, doveva restare segreta. Ma la Confraternita ha i suoi incappucciati sparsi un po' in tutti i sottoscala delle procure. E la notizia è stata opportunamente veicolata, si dice così, sui due principali quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. Teoricamente, avrebbe dovuto fare sfracelli. Ma le elezioni siciliane hanno ratificato anche il fallimento di quella particolare specie di antimafia che, giocando di sponda con i magistrati politicamente più sensibili e più disponibili, si è trasformata da tempo in una autonoma forza sbirresca. L'elettorato, messo di fronte all'ennesima scempiaggine, non ha abboccato. La criminalizzazione di Berlusconi non ha funzionato. Anzi, a giudicare di come sono andate le cose, c'è da pensare che la manovra degli incappucciati abbia portato al centrodestra più consensi che dissensi, più simpatie che antipatie. Ciò non significa tuttavia che il tracollo dei professionisti dell'antimafia abbia restituito alla politica, soprattutto a quella siciliana, la cultura della libertà e dello stato di diritto. No. Perché morta un'antimafia se ne fa un'altra. E per rendersene conto basta guardare alla scomposta – forsennata, si stava per dire – campagna condotta dal Movimento cinque stelle contro i cosiddetti “impresentabili”: una categoria molto vaga di impuri sui quali si sono scatenati in quest'ultimo mese i puri e duri di Beppe Grillo. Giancarlo Cancelleri, che nella corsa alla presidenza della Regione ha raccolto oltre il 34 per cento dei voti, non ha accettato la vittoria di Nello Musumeci e ha platealmente respinto l'invito a stringergli la mano: “La sua elezione si deve agli impresentabili di cui erano piene le liste di centrodestra”, ha sentenziato. E mascariando e sputtanando, ha cominciato a criminalizzare non solo il figlio di Francantonio Genovese, che fu ras a Messina prima del Pd e poi di Forza Italia e che ha sulle spalle un condanna in primo grado a 11 anni di carcere per avere abbondantemente lucrato sui corsi di formazione della Regione; ma anche i candidati che malauguratamente si ritrovano un indagato tra gli ascendenti o i discendenti, tra i nonni o gli zii, tra i parenti vicini o i parenti lontani. Certo, uno scheletro negli armadi può capitare a chiunque: ieri, a ventiquattr'ore dall'elezione, è finito agli arresti domiciliari per evasione fiscale Cateno De Luca, un guitto della politica reclutato dall'Udc di Lorenzo Cesa ma la scuola grillina pretende che l'impresentabile appartenga sempre e comunque alla sponda opposta. Perché se finisce sotto indagine un esponente del Movimento, come è successo al sindaco di Bagheria o ai deputati rinviati a giudizio per le firme false, la macchia giudiziaria diventa un semplice incidente di percorso al quale ovviare, se proprio se ne avverte il bisogno, con una semplice autosospensione. La questione degli impresentabili è diventata dunque non solo la nuova bandiera di moralisti e moralizzatori. Ma anche e soprattutto il nuovo strumento di lotta politica che il M5s impugna o per delegittimare l'avversario, esattamente come avveniva con l'antimafia, o per sfuggire al dibattito in particolar modo quando il dibattito pone la necessità di approntare risposte concrete a domande che non si possono più eludere o rinviare. Sarà pure un caso, ma la scatola con dentro il giochino dell'impresentabilità è stata regalata ai grillini proprio dalla Commissione parlamentare antimafia che, non avendo più alte indagini da fare per mantenersi a galla, promette a ogni vigilia elettorale di rivelare urbi et orbi chi sono gli impresentabili veri o presunti nascosti dentro le liste. Poi puntualmente non ci riesce e l'operetta immorale diventa automaticamente patrimonio esclusivo di chiunque voglia fare politica con gli insulti, di chiunque pensi di annientare il nemico con uno sfregio e con una diffamazione, di chiunque voglia tenere ancora viva in questo paese la devastante cultura del sospetto. “Il sospetto è l'anticamera della verità”, teorizzava trenta e passa anni fa Leoluca Orlando, ancora sindaco di Palermo, quando spadroneggiava tra i circoli antimafia con una arroganza che lo spingeva a insultare un giudice come Giovanni Falcone o uno scrittore come Leonardo Sciascia. Oggi la sua stella si è appannata e la sua antimafia non brilla più. S'avanzano i nuovi odiatori: da Cancelleri a Gigino Di Maio, da Alessandro Di Battista al poco conosciuto Angelo Parisi che, appena designato da Cancelleri tra gli assessori dell'immaginario governo grillino, si è guadagnato gli onori, si fa per dire, della cronaca lanciando la nobile proposta di mandare al rogo Ettore Rosato, il capogruppo del Pd colpevole di avere proposto la legge elettorale poi approvata dai due rami del Parlamento. Ebbene, diciamolo pure con un pizzico di cinismo, ma diciamolo: meglio che la Sicilia sia finita nelle mani dell'onesto Nello Musumeci, anche se eletto con i voti di Cateno De Luca e di altri tre o quattro candidati impresentabili, che non in quelle di Cancelleri e dei suoi professionisti del rancore. Abbiamo visto i guai e le nefandezze dell'antimafia forcaiola, che Dio ci liberi dai guai e dalle nefandezze dei santissimi sputtanatori.

Il caso De Luca e la categoria pre-giuridica dell'“impresentabilità”. Appena eletto all’Assemblea Regionale Siciliana il deputato dell'Udc è stato arrestato e posto ai domiciliari. Ma la novità risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona, scrive Fabio Cammalleri l'8 Novembre 2017 su "Il Foglio". Cateno De Luca, appena eletto per il centro-destra, con l’UDC, all’Assemblea Regionale Siciliana, è stato sottoposto a custodia cautelare nel domicilio, su richiesta della Procura della Repubblica di Messina. A suo modo, è vicenda di perfetta esemplarità. Chiarisce il nuovo statuto delle libertà politiche e civili in Italia; e il valore fondativo della categoria che ne è alla base: “impresentabilità”. Eletto con poco più di cinquemila voti, era stato incluso nell’omonima “lista degli impresentabili”, sciorinata, nel corso della campagna elettorale, dal candidato del M5S, Cancelleri. Ma il nuovo conio integra ormai la “grammatica politica” comune. Poche le eccezioni. Lo stesso Musumeci, a chi gli contestava, mediante le liste di coalizione, il sostegno di “impresentabili” (come De Luca), ha risposto, semplicemente, che “gli impresentabili” non hanno votato per lui. Ma il lessico obliquo non è stato discusso. Si procede anche nei confronti di altre otto persone, per associazione per delinquere ed evasione fiscale. De Luca avrebbe conseguito, attraverso la sua società CAF ENAPI S.r.l., illegittimi “risparmi d’imposta per circa 1.750.00 Euro”. Dove si discuta di flussi finanziari, il sostrato probatorio è, per definizione, documentale, ed è stato già acquisito. Anche per questa ragione, le misure cautelari personali non sono molto frequenti per titoli di questa specie. Nel giugno del 2011, lo stesso De Luca era stato ristretto per la prima volta: allora finendo addirittura in carcere, accusato di tentata concussione e abuso d’ufficio. La corte di Cassazione aveva ritenuto illegittima la misura cautelare, perchè non c’erano esigenze cautelari. Per quella prima vicenda, alla fine del dibattimento in primo grado, il PM ha chiesto al Tribunale una condanna a cinque anni di reclusione. Per novembre è attesa la sentenza. De Luca, di recente, aveva precisato di essere già stato sottoposto ad indagine o a processo quindici volte. A parte il processo che si deciderà a novembre (e il sedicesimo, di oggi), ricevendo finora quattordici, fra assoluzioni o archiviazioni. La Procura ha osservato di non voler commentare in alcun modo: se non per far rilevare che non si può parlare di arresto ad orologeria. Vediamo. Il punto è la selezione delle classi dirigenti elettive, e il suo intersecarsi con una valutazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria: che tende a determinare l’esautoramento, quasi formale, dell’elezione stessa. Come? Con l’introduzione di quella nuova categoria: “impresentabili”; indefinita, nebulosa e, soprattutto pre-giuridica: tratta dal discorso comune e dalla sua allusività morale. Il caso della “impresentabilità”, però, è diverso dalla ormai “classica” anticipazione impropria del giudizio; quella, per intenderci, che, con “l’avviso di garanzia”, “bruciava” l’accertamento definitivo di non-colpevolezza/colpevolezza: ma il “contenuto giudiziario” non agiva sulle libertà politiche (chi vota e chi è votato), se non indirettamente. Per trarre “le conseguenze politiche”, come le potrebbe qualificare un Borrelli d’Antàn, erano necessari atti ulteriori, di varia specie (dimissioni o rinunce, più o meno spontanee, e, a rincalzo, connesse “sollecitazioni” del Servizio Propaganda). Né si tratta di “incandidabilità” o di “decadenza”: che, rispettivamente, incidono sull’elettorato passivo, prima del suo concretarsi o dopo, ma derivando da una valutazione formale. No. Qui lo scopo (e la novità) risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona che, secondo le leggi vigenti, gode ancora della sua libertà politica. Ma venendo, al contempo, “istituzionalmente indotta”, per effetto di quella aleggiante qualificazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria, alla “opportunità” di rinunciarvi. Per questo, la faccenda della tempestività di un provvedimento giudiziario, rispetto al piano politico-elettivo, oggi si pone in termini inediti. Ad un’osservazione smagata, sembrerebbe che il “dispositivo”, essendo abbastanza nuovo, debba ancora affermarsi: la mera “opportunità”, rischiava perciò di essere inefficace. Occorreva provvederla di una più vivida credibilità. Mutando “l’opportunità” in temibilità. Riguardato in questo modo l’insieme, da un arresto maturato a 48 ore dalle elezioni, scocca allora una tempestività, magari “riflessa”, ma certo di rimarchevole incisività. Non si interviene sulla formazione del voto, durante la sua espressione; ma, “prima” che si esprima, viene “indotto” nella comunità una sorta di orientamento autorevole, e non ancora autoritario: vale a dire, che il voto possa esprimersi solo su destinatari selezionati secondo certi criteri. Criteri, la cui posizione dipende, esclusivamente, da due Autorità: ciascuna, in astratto, indipendente dall’altra: Autorità Giudiziaria e Commissione Antimafia. Ma dal loro agire combinato, che si compone di, rispettive, “mezze competenze” (l’autorità giudiziaria non pronuncia dichiarazioni di voto, la commissione d’inchiesta non si occupa di reati), finisce col prendere corpo una sorta di terza entità: “la Commissione commissaria”. Se, rispetto al processo penale strettamente inteso, nell’Anno XXV dell’Era Mani Pulite, si era già conclamato il “non esistono presunti innocenti”, da oggi, per “trarre le conseguenze politiche”, direttamente dai materiali giudiziari ancora in formazione, si è costruita questa categoria nuova, “l’impresentabilità”: la “terra promessa” paranormativa dei primi, timidi, auspici del dottor Borrelli. L’onorevole Bindi ha dichiarato: “è un fatto gravissimo”. Ma non si riferiva all’accusa penale in sè: “così si droga il risultato elettorale”, ha proseguito, (De Luca) era “segnalato dalla Procura e dalla Prefettura”. Si riferiva alla concatenazione: l’avevamo detto, è mancata l’obbedienza; e si deve sapere che “gravissimo” è il disobbedire al “si induce”, non meno che al “si comanda”. Sicilia, insula feracissima.

Ardizzone: "Arresto De Luca non mi sorprende. La mafia è tornata all'Ars". Per il presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, che non è stato rieletto, i partiti avevano il dovere di dire no agli impresentabili e Musumeci deve avere il coraggio di tenere la mafia fuori dal palazzo, scrive Mercoledì 8 Novembre 2017 "Tempo Stretto". "La notizia dell'arresto del primo deputato eletto non mi meraviglia, purtroppo avevo chiesto, inutilmente, che i partiti verificassero gli impresentabili, gente nota all'opinione pubblica che non risparmia nessun partito. I partiti avevano questo dovere, ma i candidati presidenti dovevano avere la forza e il coraggio di imporre ciò nella formazione delle liste". E' quanto denuncia all'Adnkronos Giovanni Ardizzone, Presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, commentando l'arresto di Cateno De Luca. "In questi anni, ho tenuto lontana dal palazzo la mafia, che c'è e resiste e, purtroppo, è tornata. Perchè la corruzione è mafia. Mi auguro che Musumeci, che ne ha le qualità, sappia resistere alle sollecitazioni che gli impresentabili sicuramente gli faranno. Se, per necessità, Musumeci si è fatto carico in queste elezioni del loro voto, una volta eletto, dovrà avere il coraggio, che non gli manca, di tenerli fuori", ha aggiunto.

Sicilia, impresentabili e liste specchiate: arrestato anche un grillino, scacco matto al giustizialismo a cinque stelle. Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans, scrive il 14 novembre 2017 Serena Guzzone su "Stetto Web". “Il M5s mi chiede di scusarmi per la vicenda che ha coinvolto il neo deputato Cateno De Luca? Loro farebbero bene a guardare all’interno delle loro liste”. Così giorni fa Musumeci replicava alle accuse mosse dai Cinquestelle dopo l’arresto del neo deputato De Luca e mai parole furono più vere, dal momento che con oggi viene a galla che anche le liste del M5s in Sicilia non erano poi così specchiate. Sale a tre il numero degli arresti “eccellenti” della compagine politica siciliana e stavolta nel mirino ci è finito un grillino. La macchina della giustizia non fa sconti, neanche nei confronti di chi, come i pentastellati, hanno giocato tutta la campagna elettorale a colpi bassi, ergendosi a paladini della legalità, additando gli impresentabili delle altre liste. Stamane La Squadra mobile di Agrigento ha infatti tratto in arresto con l’accusa di estorsione Fabrizio La Gaipa, imprenditore di 42 anni, primo dei non eletti della lista M5s nella provincia di Agrigento alle elezioni regionali siciliane.  Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans. Con La Gaipa sono quindi tre ad oggi gli impresentabili eletti o solo candidati all’Ars tratti in arresto, ecco di chi si tratta: 

Cateno De Luca, il leader di Sicilia Vera, ha sostenuto la campagna elettorale del neo presidente della Regione Nello Musumeci ed è stato arrestato a 48 ore dallo spoglio con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale, per un totale di circa un milione e 750mila euro di tasse evase. De Luca è stato rieletto dopo cinque anni con 5.400 voti.

Grane con la giustizia anche per Edy Tamajo, neo deputato di Sicilia futura indagato dai pm di Palermo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il “mister preferenze” di Trapani è stato eletto nella coalizione di centro/sinistra e supportava la candidatura a governatore di Micari: è accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il 41enne eletto all’Ars è il candidato che appoggiava Fabrizio Micari, all’interno della lista dell’ex ministro Cardinale. Ha totalizzato esattamente 13.984 preferenze, 8.038 delle quali a Palermo. Secondo l’accusa avrebbe comprato i voti del 5 novembre in Sicilia al prezzo di 25 euro a preferenza.

Il grillino La Gaipa sarebbe accusato da dipendenti dello stesso imprenditore che gestisce un albergo ad Agrigento. Con oltre quattromila voti il 5 novembre è stato il primo dei non eletti subito dopo Matteo Mangiacavallo (14 mila voti) e Giovanni Di Caro (5.900 voti).

“Musumeci stamattina in un’intervista ha detto che gli impresentabili sono un problema di tutti. Mente nuovamente!” diceva Cancelleri qualche giorno fa, aggiungendo che “sono un suo problema, visto che non solo li ha portati in Parlamento, ma uno glielo hanno pure già arrestato. I condannati ce li ha lui nella sua maggioranza. Uno glielo hanno arrestato e per gli altri è conto alla rovescia. A Musumeci dico che per porre fine agli impresentabili non servono codicicchi etici che puntualmente poi non rispettano, come quello scritto proprio da Musumeci quando era presidente della commissione antimafia e che neanche lui ha rispettato. Sia serio, se riesce a esserlo, e la finisca di mentire ai siciliani”.

Parlano gli avvocati Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi: "L'obiettivo era metterlo fuori dalla politica". Cateno De Luca: "Contro di me le lobby, ma non mi arrendo", scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo Stretto". “La sentenza di oggi mette fine ad un'odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica un uomo di talento e di grande spessore umano come l'on. Cateno De Luca". A dirlo il collegio di difesa del neo deputato regionale dell'Udc-Sicilia Vera composto dal professor Carlo Taormina e dall'avvocato Tommaso Micalizzi, dopo la sentenza del tribunale di Messina che ha assolto De Luca nel processo nato su una presunta speculazione edilizia a Fiumedinisi. "Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un'assoluzione o un'archiviazione, ed è chiaro che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile. Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per fomentare odio nei confronti dell'ex sindaco di Fiumedinisi. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l'on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma non sarà più permesso a nessuno di creare ad hoc altre infamie contro un amministratore capace, onesto e sempre al servizio della comunità. Anche l’ultima vicenda relativa all'arresto per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità ai fatti contestati di De Luca. Sembrerebbe che ci siano regie occulte anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l'uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione". Il neo deputato dell'Udc che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: "I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore in cinque anni. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c'è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali stato assolto, rappresenti un esempio per tutti i perseguitati dell'ingiustizia. E' stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per i miei sostenitori ma le lobby, le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora”. De Luca si è detto ottimista anche relativamente alla nuova vicenda giudiziaria che domani lo vedrà interrogato dal giudice e che definisce “arresto ad orologeria”. Annuncia inoltre di aver dato mandato ai legali per agire nei confronti di quanti “Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell'attenzione nazionale, hanno fatto dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell'etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell'ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stata un fallimento”. Cateno De Luca conclude dicendosi pronto a “sfidare” chiunque in un dibattito pubblico sui temi dell’isola e si dichiara pronto a tornare all’Ars per continuare le sue battaglie contro gli sprechi avviate in questi anni.

Cateno De Luca dilaga su Facebook: e il gip lo censura, scrive il 14/11/2017 "Il Giornale D’Italia". Il deputato agli arresti domiciliari ha esultato “troppo” sul social network per l’assoluzione da un precedente provvedimento. Troppo smodato nei commenti. E la tagliola della magistratura si abbatte sul profilo Facebook dell’imputato eccellente. Con la variante del social network, quindi, un nuovo caso per far dividere gli italiani tra chi ritiene censurabile l’arroganza dei politici, chi lo strapotere dei magistrati e chi, forse la maggioranza, entrambi. Fatto sta che Cateno De Luca, ha esultato per l'assoluzione dal processo per concussione, abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, per il cosiddetto "sacco di Fiumedinisi" (il Comune di cui era stato sindaco anni fa), non è passata inosservata. La procura non ha gradito e il gip, accogliendo l’istanza dei pm, ha inasprito la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei suoi confronti vietandogli ogni rapporto (anche telematico) con l’esterno. ll gip deve ancora pronunciarsi sulla richiesta di revoca della misura cautelare dei domiciliari, che sabato scorso i legali di De Luca hanno presentato. Intanto, però, un'altra tegola si è abbattuta sul deputato siciliano. Pare che i suoi avvocati gli avessero consigliato cautela, evitando di esporsi troppo. Ma De Luca non ha sentito ragioni e si è scatenato sui social, rivolgendosi pure direttamente al presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci: "La smetta di inseguire l’antimafia di facciata - afferma, non digerendo la presa di distanza del neo governatore - non invada anche lei il campo della magistratura con codici etici. Non sono diventato improvvisamente rognoso. Se lei oggi è presidente, lo deve anche al presentabile De Luca che a luglio scorso, mentre nel centrodestra la stavano scaricando, io l’ho pubblicamente sostenuta. Aspetto di confrontarmi con lei in parlamento sulle questioni vere". De Luca ha già fatto il nome del suo assessore per la giunta Musumeci: "Ho chiesto a Lorenzo Cesa di avanzare il nome del messinese Giuseppe Lombardo". De Luca, come si ricorderà, si trova agli arresti domiciliari per associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale: il provvedimento è scattato poche ore dopo le elezioni regionali.

Accusato di evasione fiscale Sicilia, revocati domiciliari per neo eletto Cateno De Luca, scrive Rai news il 20 novembre 2017. Lui su Facebook: "Ora denuncio tutti" Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari Tweet Cateno De Luca assolto da falso e abuso d'ufficio. Prescritta la tentata concussione Sicilia, bufera politica dopo l'arresto di De Luca Evasione fiscale, arrestato neo deputato regione Sicilia De Luca. Lui: verrò assolto o archivieranno 20 novembre 2017 Il gip di Messina ha disposto la revoca degli arresti domiciliari per il neo deputato regionale Cateno de Luca, accusato di evasione fiscale sostituendo la misura con quella interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta.  Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza di De Luca ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. La settimana scorsa, dopo le continue esternazioni sui social del deputato il gip aveva disposto il divieto di comunicazione con l'esterno. De luca su Facebook: e ora denuncio tutti" "Libero !". Così sbotta su Facebook il neo deputato regionale Udc Cateno De Luca, dopo la decisione del Gip di Messina di revocare gli arresti domiciliari cui era sottoposto dal 7 novembre. Peraltro gli era stato interdetto l'uso dei social dopo il suo massiccio utilizzo sin dall'applicazione della misura cautelare. "E vaff...  a tutte le forme di mafia compresa quella giudiziaria. Stiamo - avverte - denunziano tutti!".

Cateno De Luca libero: “Adesso denuncio tutti”, scrive il 20 novembre 2017 "Articolo tre". "Sono un uomo libero. State tranquilli. Il gip ha revocato l'arresto, il sequestro, ha sconfessato tutte le porcherie che noi abbiamo subito in questi giorni". Così il neo deputato regionale Cateno De Luca, con un video pubblicato sul suo profilo Facebook, annuncia la decisione di revoca degli arresti domiciliari. Il Gip del Tribunale di Messina ha revocato i domiciliari per il deputato Udc e Carmelo Satta, arrestati due settimane fa per associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale. Il gip ha applicato nei loro confronti la misura interdittiva del divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. In merito al sequestro, sono stati liberati dal vincolo i beni personali degli indagati. In sostanza, il Giudice ritiene che non sussistano ragioni cautelari tali da far permanere i due in vinculis, poiché entrambi - allo stato - non ricoprono cariche sociali negli enti Fenapi e i reati fine sono cristallizzati in atto, non vi è dunque pericolo d'inquinamento probatorio. L'esigenza di applicare il divieto di esercizio degli uffici direttivi nasce per "limitare la probabilità che possano ricostituire una nuova associazione". "Ho bisogno di due tre giorni per completare le denunce che stiamo presentando perché - afferma De Luca su FB - stiamo depositando tutto, per falso in atti giudiziari, per infedele patrocinio, per calunnia. Ce n'è per tutti. Ho bisogno di stare concentrato con i miei avvocati per un paio di giorni, poi faremo una bella conferenza stampa e ricominciamo la nostra attività politica". "Abbiamo un conto aperto - sottolinea - con alcuni personaggi nel tribunale di Messina e noi non stiamo assolutamente col capo chino: denunciamo qualunque tipo di mafia, anche quella giudiziaria. Andrò avanti con forza. Vi ringrazio, siete stati grandiosi, non mi è mancato il vostro calore".

Messina: revocati i domiciliari a Cateno De Luca, lui attacca i giudici su Fb. Per il deputato resta il divieto a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale, scrive Manuela Modica il 20 novembre 2017 su "La Repubblica". "Guardate che sono un uomo libero", annuncia così la revoca dei domiciliari, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato Udc arrestato lo scorso 8 novembre per evasione fiscale. Il gip Carmine De Rose ha accolto la richiesta di revoca avanzata dal difensore di De Luca, Carlo Taormina, durante l’interrogatorio di garanzia. Il gip ha però riconosciuto la fondatezza delle accuse disponendo la misura interdittiva a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale. Le esigenze cautelari erano venute meno da quando Carmelo Satta, arrestato anche lui nell'inchiesta, si era dimesso dalla Fenapi, l'ente principale dell'inchiesta. E De Luca torna a sfogarsi sul social network dopo che martedì, 14 novembre, il gip aveva ristretto i limiti della misura cautelare dell’ex sindaco di Fiumedinisi impedendo la comunicazione con l’esterno e l’utilizzo dei social network. "Due giorni, datemi due giorni", chiede De Luca nel video sul suo profilo, per raccogliere documenti e preparare denunce, avverte, mentre non risparmia ancora una volta la magistratura di Messina, che definisce addirittura "mafiosa": "Un conto aperto con alcuni personaggi della magistratura di Messina - ha detto esattamente De Luca -, noi denunceremo qualunque tipo di mafia anche quella giudiziaria". Anche dopo l’arresto De Luca aveva lanciato messaggi di fuoco contro massoneria e giudici tramite il suo profilo Facebook, aveva postato video e immagini, alcuni ritraevano anche la manifestazione in suo supporto dei fedelissimi sotto la sua abitazione a Fiumedinisi. A proposito delle dichiarazioni del neodeputato dell’Ars si è espressa in una nota Magistratura indipendente: «Esprimiamo solidarietà e vicinanza a tutti i magistrati del distretto di Corte d’Appello di Messina di recente destinatari di attacchi violenti volti a mettere in discussione l’onestà di tutta la categoria tacciata come corrotta», così esordisce la nota. «In particolare - prosegue la nota del gruppo di magistrati guidato da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano - è inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane, in costanza di detenzione domiciliare, ponga in essere, sia a mezzo social network sia all’interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita "verminaio" e massonica». «Chiediamo che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm intervenga e prenda posizione a tutela della magistratura messinese in luogo della Giunta esecutiva sezionale, il cui intervento potrebbe prestare il fianco a strumentalizzazioni e soprattutto potrebbe pregiudicare l’immagine di terzietà di coloro che sono e potrebbero essere chiamati a pronunziarsi sulla condotta contestata al deputato», conclude la nota di Mi.

De Luca torna in libertà e si scatena: "Ora denuncio la mafia giudiziaria". L'attacco del deputato Udc: «Certi magistrati infangano la toga», scrive Mariateresa Conti, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale".  «Scateno De Luca», diceva un suo manifesto elettorale di qualche anno fa, giocando sul suo nome. E si è scatenato davvero, ieri, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato regionale siciliano arrestato per evasione fiscale appena chiuse le urne che il 5 novembre scorso lo avevano rieletto, nelle file dell'Udc, con una valanga di preferenze. Eh sì, perché ieri il Gip di Messina, accogliendo le richieste della difesa, ha revocato il suo arresto rimettendolo immediatamente in libertà al termine dell'interrogatorio di garanzia. Una vittoria che arriva a pochi giorni da un'altra importante sentenza, quella che ha assolto lo stesso De Luca in primo grado dall'accusa di abuso d'ufficio per il sacco edilizio di Fiumedinisi, il comune del Messinese di cui è stato sindaco. Di qui il suo grido liberatorio, su Facebook: «Libero!... E aff... tutte le forme di mafia compreso quella giudiziaria!». Un post accompagnato da un video in cui annuncia che nel giro di pochi giorni denuncerà investigatori e magistrati messinesi, gli artefici, a suo dire, della persecuzione giudiziaria nei suoi confronti: «Giudicate voi, in 7 anni 15 procedimenti penali tutto archiviato, assoluzioni, per le prescrizioni faremo appello». Un attacco durissimo, quello di De Luca, che sin dall'inizio, sino a quando i giudici non gliene hanno inibito l'uso durante la detenzione, si è difeso sui social protestando la sua assoluta innocenza. «Le mafie dei palazzi - si è sfogato uscendo dal Palazzo di giustizia - non si possono accettare supinamente. Io presenterò il terzo esposto nei confronti di determinati personaggi che continuano a sporcare questo palazzo. Faremo nomi e cognomi, si tratta di magistrati, qualche pubblico ministero, organi inquirenti che hanno infangato, falsificato in atti giudiziari tante cose. Stiamo completando le denunce». Sulle accuse ai magistrati è intervenuta con una nota Magistratura indipendente, che ha espresso solidarietà ai colleghi chiedendo l'intervento della giunta esecutiva centrale del sindacato delle toghe: «È inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane ponga in essere, sia a mezzo social network sia all'interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita verminaio e massonica». In attesa delle ulteriori denunce, caduti gli arresti domiciliari, De Luca potrà insediarsi all'Assemblea regionale siciliana alla prima seduta utile. E intanto va anche oltre, visto che ha manifestato l'intenzione di candidarsi a sindaco di Messina, dove si voterà nel 2018. A De Luca era stato contestato di avere sottratto al fisco circa 1 milione e 750mila euro. Il difensore del deputato, l'avvocato Carlo Taormina, ha chiesto l'incidente probatorio.

Sicilia, scarcerato Cateno De Luca: «Ora denuncio la mafia giudiziaria». Il gip del tribunale di Messina ha deciso di revocare gli arresti domiciliari al deputato siciliano che fuori dal palazzo di giustizia attacca al magistratura: «Noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria», scrive il 20 novembre 2017 "Lettera 43". Cateno De Luca si è scatenato, dopo che il gip gli ha revocato i domiciliari a 12 giorni dall'arresto per evasione fiscale e a 10 giorni dall'assoluzione in primo grado per il sacco di Fiumedinisi, davanti alle colonne del tribunale messinese ha accusato «un sistema in cui ai magistrati non si può dire che hanno fatto una minchiata» e quei pm che «infangano e falsificano la giustizia». «Abbiamo un conto aperto con alcuni personaggi del tribunale di Messina», ha detto ancora il deputato regionale del Centrodestra, «Noi non stiamo col capo chino, noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria. Il Gip ha sconfessato porcherie che abbiamo subito».

PER IL GIP GLI INDIZZI DI COLPEVOLEZZA RESTANO GRAVI. Il giudice Carmine De Rose ha annullato i domiciliari e imposto la misura interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta sull'evasione fiscale, di cui De Luca è direttore generale. Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. De Luca si è poi scagliato contro «i geometri improvvisati che non hanno mai versato un contributo Inps e stilano liste di impresentabili». «Faccio la politica del 'fare', non mi piacciono i fannulloni che prendono lo stipendio e si ricandidano». Il deputato siciliano ha annunciato l'intenzione di andare avanti nel progetto per la sindacatura a Messina: «Se la città mi vuole io ci sono. È il simbolo della battaglia politica». «Ho fatto due esposti e il 21 ne farò un terzo: falso in atti giudiziari, calunnia, infedele patrocinio», ha spiegato, «Denuncio chi sporca il Palazzo di giustizia, chi si vendica perchè gli si dice che ha sbagliato. Chiedetelo al pm Vincenzo Barbaro, l'abbiamo denunciato. Domani mi arrestano di nuovo? Ci siamo abituati, la valigia per la cella è già pronta». «È possibile», ha continuato, «che mi hanno abbiano fatto sei indagini e quattro verifiche in sette anni sulle carte finanziarie?» si è chiesto il deputato regionale che ora potrà sedere all'Assemblea regionale siciliana non appena verrà convocata dal presidente della Regione Nello Musumeci.

DOMICILIARI REVOCATI ANCHE A SATTA. De Luca dopo la notizia della revoca dei domiciliari, disposta anche per Carmelo Satta, ex presidente della Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, su cui ruota l'inchiesta per evasione fiscale, ha partecipato all'udienza del tribunale della libertà cui è stato chiesto di togliere anche la misura interdittiva e di dissequestrare i beni immobili della Fenapi: il gip ha già dissequestrato i conti correnti della federazione e di De Luca. L'avvocato Carlo Taormina, uno dei legali del politico ha detto: «Noi non siamo ancora soddisfatti perché l'ordinanza del giudice è un pochino confusa ed evidentemente preoccupata di raggiungere quello che era il suo obiettivo cioè scagionare totalmente De Luca e quindi ci sono incertezze che vogliamo fare eliminare». Rivolgendosi ai giornalisti Taormina ha anche detto: «Sono sorpreso che una stampa attenta non capisca cosa è accaduto. Se sei anni fa De Luca è stato arrestato riciclando un processo nel quale era stato tutto archiviato e ora dopo sei anni viene fatta la stessa operazione rispetto a processi di carattere fiscale nei quale c'era già stata la sentenza di non doversi procedere del gup di Messina, tutto ciò non vi lascia perplessi?».

TAORMINA: «OPERAZIONE GUIDATA DA QUALCUNO». «Se poi l'arresto dopo le elezioni non vi dice ancora nulla», ha concluso, «dubito del vostro equilibro. È chiaro che nei confronti di De Luca c'è un'operazione guidata da qualcuno che abbiamo già individuato. Vi rendete conto che rispetto al sacco di Fiumedinisi è stato deciso che il fatto non sussiste e un gip dopo un interrogatorio di garanzia giunge alla conclusione di revocare i domiciliari? Contro di lui c'e' killeraggio».

De Luca libero attacca i Pm. Il parlamentare finito ai domiciliari per «evasione fi scale» è stato scarcerato dal Gip. «Se la città mi vuole mi candido a sindaco, andrò all’Ars per insediarmi», scrive Nuccio Anselmo il 21/11/2017 su "Gazzetta del Sud". Niente più arresti domiciliari nella sua casa di Fiumedinisi per l’on. Cateno De Luca, che da ieri mattina è tornato libero perché «... il quadro indiziario pur non risultando del tutto caducato nella sua complessiva gravità e consistenza... appare meno schiacciante e più sfumato». A tredici giorni dal suo clamoroso arresto per evasione scale della “galassia Fenapi”, il 7 novembre scorso, appena due giorni dopo essere stato eletto all’Ars, il parlamentare regionale è tornato in libertà su decisione del gip Carmine De Rose, che ieri mattina ha depositato su questa vicenda un lungo provvedimento di tredici pagine per spiegare i motivi delle sue decisione. Il gip ha sostituito i domiciliari con una misura meno afflittiva, il “divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese”, ovvero una misura interdittiva. Identica sorte giudiziaria il gip ha deciso per l’altro indagato dell’inchiesta che era finito ai domiciliari il 7 novembre scorso come presidente della Fenapi nazionale ed ex sindaco di Alì, Carmelo Satta, che nel frattempo si è dimesso dalla carica. Anche per lui quindi, fine dei domiciliari e misura interdittiva. Un altro aspetto importante del provvedimento è legato al cosiddetto “sequestro per equivalente” disposto contestualmente all’arresto dei due, per oltre un milione e 700 mila euro, la somma cioè che si presume sia stata evasa al fisco dalla “galassia Fenapi”. Il gip De Rose ha accolto le richieste dei legali di De Luca e Satta, formulate in sede di interrogatorio di garanzia, ed ha in pratica “spostato” il sequestro, indirizzandolo non più sui beni personali e sui conti correnti dei due indagati e sui beni economici del “Caf  Fenapi srl”, come era stato deciso in un primo momento, ma sugli strumenti finanziari in attivo e soprattutto sul patrimonio immobiliare dello stesso “Caf Fenapi srl”, «... già stimato per un valore di oltre due milioni di euro...». Nelle sue tredici pagine il gip De Rose passa in rassegna tutta la vicenda, a cominciare dalle ipotesi d’accusa formulate dal sostituto procuratore Antonio Carchietti, e le struttura in cinque punti: l’illecito risparmio d’imposta; l’associazione a delinquere; le tre società di servizi come “complici” dell’evasione scale (Dioniso srl, Sviluppo Sociale srl, Delnisi srl); l’emissione “a supporto” dell’evasione di fatture per operazioni inesistenti; il presunto “ostacolo” alle indagini con atti «... inconferenti e avulsi». Rispetto all’associazione a delinquere ipotizzata, premettendo che De Luca è innegabile che «... abbia sempre rappresentato il referente apicale...», spiega poi che a suo avviso «... l’apporto degli ipotizzati singoli associati ai fini perseguiti ed ancor prima alle dinamiche illecite associative, deve considerarsi blando e sfumato... ai limiti del concorso»; in relazione poi alla «attualità del vincolo associativo» afferma che «... è ad oggi poco apprezzabile». Il “nocciolo” del provvedimento è legato poi ai reati fiscali contestati. Il gip scrive infatti che «... anche in termini di esiti di vaglio tecnico ad opera di terzi Organi Giudiziari Tributari... ci si trova di fronte ad un compendio indiziario che si reputa non del tutto granitico, dirimente ed indiscutibile». Il riferimento è alla produzione difensiva «... segnatamente da parte della difesa del Satta», sul ricorso che pende alla Commissione tributaria su questi fatti, organo che ha emesso «... un provvedimento di sospensione dell’esecutività degli avvisi di accertamento». Un fatto che «... è indubbio» produca un effetto «... se non altro, riconducibile ad una plausibilità di fondatezza del ricorso».

"98zero" intervista l’Avvocato Taormina: “De Luca deve fare il presidente della Commissione Antimafia Regionale”, scrive Enzo Cartaregia il 22 novembre 2017. Le rabbiose urla di Cateno De Luca squarciano le prime pagine della stampa nazionale. Sulla soglia del tribunale di Messina, il deputato regionale eletto ed arrestato nel giro di poche ore non perde tempo ad aprire una nuova fase del proprio conflitto con le toghe. Ed appena rimesso in libertà, De Luca rompe le attese: parla en tranchant di “mafia giudiziaria”, incassato in appena dodici giorni il dietrofront sugli arresti domiciliari legati all’inchiesta Fenapi. E’ tutto un record, nella storia di De Luca: assolto quattordici volte in altrettanti processi, l’onorevole eletto nelle liste dell’UDC riverserà oggi negli uffici della procura di Reggio Calabria una valanga di documenti e denunce all’indirizzo di alcuni magistrati messinesi. E la sua vicenda è già un caso nazionale, se a confermarlo corrono anche le parole del capo del suo collegio difensivo, il prof. Carlo Taormina. Il celebre penalista, ai microfoni di 98zero.com, ha delineato i tratti del braccio di ferro tra la magistratura ed il proprio assistito, soffermandosi sul rilievo dell’inchiesta anche a livello nazionale e sul futuro in politica di Cateno De Luca.

Professor Taormina, ha definiti quelli di De Luca degli “arresti da Uganda”. Il GIP fa retromarcia perché si configura un abuso della custodia cautelare?

“E’ la dinamica dei fatti a dimostrare che ciò è stato. Abbiamo subito stigmatizzato il comportamento dell’autorità giudiziaria. Meno male che ci sono dei meccanismi correttivi all’interno della sua stessa struttura. Nello stesso interrogatorio di garanzia non potevamo dire molto di nuovo: sta però di fatto che un giudice ha ritenuto che il suo collega avesse commesso un errore. Aldilà di questo, suscitano forti perplessità le circostanze in cui l’arresto è stato fatto”.

Cosa non la convince, aldilà del merito dell’inchiesta?

“Credo sia la prima volta nella storia della Repubblica che un cittadino che viene eletto deputato, seppure regionale, venga arrestato dopo due giorni. Anzi, fossi nell’autorità giudiziaria io lo arresterei prima. Non sarebbe molto più logico, per impedire che venga eletto?”.

La legislatura non è ancora cominciata. E se non fosse stata disposta la scarcerazione?

“Così facendo è stata messa a rischio la costituzione della stessa Assemblea Regionale. La legge dice che sono settanta, i deputati e che entrano in Sala d’Ercole tutti insieme. L’arresto di De Luca non avrebbe comportato lo scorrimento al primo dei non eletti, ma la semplice impossibilità del parlamento di insediarsi. E’ gravissimo”.

Quattordici processi, nessuna condanna. Eppure nell’ordinanza di custodia cautelare è scritto che De Luca possiede “spregiudicatezza e pervicacia criminale”. Motivazioni e casellario giudiziario collidono?

“Queste parole dimostrano la pervicacia dell’autorità giudiziaria. Il suo operato è stato chiaramente smentito ed è questo l’unico punto fermo di questa vicenda. Per di più inserire nelle carte delle valutazioni di questo genere dimostra come ci sia una sorta di risentimento, fino all’iniziativa persecutoria nei confronti di una persona della quale nulla era possibile dire, come i fatti hanno dimostrato”.

De Luca ha urlato che smonterete l’impianto accusatorio pezzo per pezzo. In altri processi valutate la rinuncia alla prescrizione.

“La precedente inchiesta ha visto – salvo alcuni particolari su cui lavoreremo in appello – la totale assoluzione dell’on. De Luca. Per i fatti contestati in questi giorni è evidente che la scarcerazione disposta dal GIP passa addirittura dall’esclusione dell’esistenza degli indizi di colpevolezza. Se non è questo fumus persecutionis, non ci sarebbe possibilità di trovarne altro esempio…”

L’ennesimo capitolo del conflitto tra eletti e procure. Ma teme che la rilevanza mediatica assunta dal caso possa forzare gli equilibri nelle aule del palazzo di giustizia?

“Mi auguro che De Luca sia fermo nell’iniziativa che ha intrapreso e nella volontà che ha manifestato. L’onorevole vuole partire dalla sua vicenda per dimostrare il marciume della giustizia italiana. Come dal punto di vista politico la Sicilia vorrebbe essere, dopo queste elezioni, la fonte della rinascita per il nostro paese, così tutto quello che sta accadendo attorno alla persona di Cateno De Luca si vorrebbe che fosse l’inizio di un percorso che abbatta questa giustizia politicizzata, fatta di rancori, di iniziative personali, di magistrati che si sovrappongono ad altri magistrati e li obbligano ad assumere certi azioni”.

Le regionali in Sicilia hanno inaugurato, nel linguaggio politico, la stagione degli “impresentabili”. Da insigne espero del diritto non crede che, nei termini di legge, sia un dibattito sgrammaticato? 

“Giuridicamente l’unico impresentabile è quello che, per legge, non può essere nemmeno candidato. Servono sentenze passate in giudicato per definire un cittadino così, o al massimo situazioni come quelle previste dalla legge Severino. Una legge, tra l’altro, che è certamente incostituzionale. Si è quindi trattato di un linguaggio inaugurato dalla Commissione Antimafia, che naturalmente ha preso il sopravvento in un mondo politico vuoto di potere, vuoto di autorevolezza. Quest’organismo parlamentare è diventato uno strumento di battaglia politica per escludere chi non è gradito, o comunque è un pericoloso avversario”.

E De Luca lo è?

“E’ certamente un uomo pericoloso. Non dimentichiamo che il 5 novembre ha portato circa 10.000 voti alla coalizione di quel presidente Musumeci che oggi lo schiaffeggia. Quegli stessi voti che probabilmente sono stati determinanti per la sua vittoria. Ha dimostrato nella sua storia di saper mettere in crisi la regione siciliana, avendo tallonato prima Cuffaro e poi Lombardo, riducendoli alla necessità di abbandonare il terreno”.

Più che la regione, però, al suo assistito interessa la città di Messina.

“Ed è infatti quella stessa persona che ha fatto battaglie antimafia a non finire nella città di Messina ed oltre, schierandosi contro i poteri forti ad iniziare la massoneria. Pare naturale che nel momento in cui ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco della città dello Stretto ha scatenato il caos all’interno di questi corpi”.

Come spiega la ripresa della vicenda giudiziaria riguardante la Fenapi?

“Dobbiamo essere consapevoli che proprio la magistratura si è fatta braccio esecutivo, nell’attacco dei poteri forti. Credo non a caso che quel Palazzo di Giustizia abbia bisogno di essere ben visitato, perché i tanti magistrati onesti e competenti che lo abitano vengono sporcati da alcuni che perseguono invece obiettivi diversi”.

Cateno De Luca continua quindi la corsa a Palazzo Zanca?

“La carriera politica di De Luca ha ormai bisogno un respiro ben più ampio. Personalmente gli ho sempre consigliato di iniziare a pensare ad una collocazione nel parlamento nazionale, invece che di passare da Messina. Lui fa dell’amministrazione la politica, seppure si faccia sempre l’inverso. E’ questo il suo tratto distintivo e naturalmente i territori sono il luogo privilegiato della sua azione. Credo allora che non riuscirò a sottrarlo all’iniziativa di correre per la poltrona di sindaco di Messina. Mi auguro che ci riesca”.

Con dicembre parte la nuova legislatura in regione. E Musumeci lavora alla giunta. De Luca si insedia, ma come gli ha consigliato di muoversi?

“Intanto gli ho raccomandato di rifuggire dall’assunzione di responsabilità di governo. Seppure queste gli spettano, per il consenso popolare che ha totalizzato, l’ho consigliato di non farlo né di indicare persone di fiducia al suo posto. Ciò che deve fare Cateno De Luca è un’altra cosa”.

Ovvero?

“L’onorevole De Luca deve andare a fare il presidente della Commissione Antimafia di Palazzo dei Normanni. E’ quello il suo posto. Da lì potrà dimostrare come si comporta un cittadino onesto che ha deciso di dare le sue forze alla politica”.

Cateno De Luca si difende: "La sentenza mi dà ragione". Scrive "Live Sicilia" martedì 21 novembre 2017. "Mi è arrivata in questo momento la sentenza della commissione tributaria provinciale che attendevamo da tempo: ha stabilito che non c'è evasione né raggiri né “tracchigi” come aveva ipotizzato il pubblico ministero che mi ha fatto arrestare. L'altra cosa importante è che oltre il 50% dei costi la commissione provinciale tributaria provinciale li ha riconosciuti inerenti cioè legittimi". Lo dice in un video su Facebook il deputato regionale dell'Udc Cateno De Luca, indagato con l'accusa di evasione fiscale. Ieri il Gip di Messina ha disposto la revoca dei domiciliari sostituendoli col divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta. "Aspettiamo un'altra sentenza - prosegue-, però ci tenevo a dirvi che l'organo tecnico, deputato a fare queste valutazioni, è la commissione tributaria e ieri ha depositato questa sentenza; il che significa che più di qualcuno dovrebbe essere ricoverato in qualche manicomio psichiatrico". (ANSA). Con una sentenza depositata lo scorso 16 novembre, la Commissione tributaria di Messina ha accolto parzialmente il ricorso presentato dalla Fenapi il 15 gennaio 2016, contro l'Agenzia delle entrate e riguardante alcuni avvisi di accertamento per l'attività dell'ente di formazione Fenapi (di cui il deputato regionale Cateno De Luca, uscito ieri dagli arresti domiciliari, era presidente) negli anni che vanno dal 2007 al 2010. Secondo gli accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza, la Fenapi non avrebbe potuto operare la deducibilità fiscale di alcuni costi. Gli imponibili, nei quattro anni, ammontano a oltre 1,7 milioni di euro. La Commissione, nell'accogliere in parte il ricorso, ha stabilito il ricalcolo degli importi soggetti a tassazione. (ANSA).

Giustizia a orologeria “ma non mi farò macinare dal fango”, scrive mercoledì 15 novembre 2017 Adriano Todaro su "Giro di vite". Cateno? Ma che nome è Cateno? Come si fa uno a chiamarsi Cateno? Non era meglio Alfio o Filippo? Oppure Giovanni, oppure Ignazio? Eh no, troppo semplice. Così ho fatto delle ricerche e ho appreso che Cateno è un bel nome, di sapore antico, che ha una storia che risale, nientemeno, al terzo secolo prima di Cristo. Erano definiti così gli schiavi che stavano in cima e in fondo alla fila degli incatenati. E così i siciliani, che sono esperti, ogni tanto, come buon auspicio, chiamano così il figlio nato alla fine o all’inizio dell’anno. Allora ricapitoliamo: Cateno De Luca, detto confidenzialmente Scateno, è nato il 18 marzo del 1972. Mese sbarazzino e ventoso, terzo mese dell’anno e ha, quindi, tutto il diritto di chiamarsi Cateno. Fin qua ci siamo. Bisogna poi dire che tutti noi quando nasciamo, abbiamo già una strada tracciata e un carattere che si forma già dopo i primi mesi di vita. Cateno, così ha deciso il fato, in tutta la vita dovrà sempre svolgere il ruolo di cireneo, quello che ha aiutato Cristo a portare la croce. Fin dalle elementari che frequentava in via Roma, a Fiumedinisi in provincia di Messina, si era fatto notare per la precoce intelligenza e per la bontà insita nel suo animo. I compagni, però, ne approfittavano di questa sua mitezza e si facevano fare da lui i compiti. Cateno assolveva questa incombenza con spirito di missione, di sacrificio così come ha fatto, anni dopo, come sindaco proprio di Fiumedinisi e consigliere regionale. Diventato adulto, dopo essersi laureato in Giurisprudenza, ha cominciato a interessarsi di politica. Quando però sei cireneo, cireneo rimani e così ha portato al fascista gentile, Musumeci, ben 93 mila e 232 voti. Invece di essere ringraziato, Cateno si è trovato con le catene ai polsi. E questo non è giusto. Altro che giustizia a orologeria; in questo caso l’orologio si è fermato al 1992 quando si arrestavano i politici. Un secolo fa. Ora siamo in una fase nuova, siamo moderni e ottimisti anche nel rubare. E poi, dai, arrestare un politico all’indomani di una vittoria elettorale non è neppure fine. E perché l’hanno arrestato? E’ accusato, figuriamoci, di essere tra i promotori di un’associazione per delinquere finalizzata a una rilevante evasione fiscale, quantificata in circa 1.750.000 euro. Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere. Chi non evade in Italia? Lo faccio anch’io quando posso e do anche un aiutino. Ad esempio quando non chiedo lo scontrino al mio panettiere. Cateno ha anche un’altra particolarità: è uomo di pensieri profondi, di elaborazione scientifica, una vera testa in lega leggera. E così ha capito perché è stato mazzolato. In un video se la prende con i Pm, i poteri forti e la massoneria, e avverte parlando in terza persona: "Cateno De Luca non si farà macinare dal fango. Fino a quando avrà l’ultimo respiro, si difenderà in tutti i luoghi". Fa bene anche perché lui parla chiaro. Il suo slogan, infatti, era: “Su di me parlano i fatti”. Appunto. Uomo di profonde letture, nella sua pagina Facebook ci sono alcune massime cui lui ama. Una così recita: “Senza soddi non si canta a missa”. E così ha chiarito a tutti del perché dell’evasione. L’ha fatto per poter cantare "a missa". Lui, che proviene dalla Dc, sa bene che la messa importante è quella cantata e per questo ci voglio i “soddi”. Uno dei film più amati di Cateno è “Uccelli di rovo”. Padre Ralph è un ribelle ambizioso prete irlandese. Ribelle e ambizioso come Cateno perché, oltre a tutti gli incarichi che ha, voleva diventare anche sindaco di Messina, dopo aver costruito cinque piani di un Centro benessere, 16 villette e la realizzazione di un muro di contenimento del torrente Fiumedinisi, tutte opere che, secondo l’accusa, avrebbero favorito la società dell’allora sindaco Cateno. Tutto questo lo aveva fatto a fin di bene. Come padre Ralph. E, poi, pochi giorni fa, per questa speculazione, è stato assolto dall’abuso d’ufficio e prescritto per falso in atto pubblico e tentata concussione. Per fortuna il suo partito, l’Udc (che non è l’acronimo di Unione dei carcerati) lo difende dall’ultima accusa di evasione fiscale perché “convinti che De Luca sarà in grado di chiarire i fatti e di dimostrare la sua innocenza…”. Ne siamo convinti anche noi perché sarebbe un peccato non avere più nel Parlamento siciliano uno come Cateno che un giorno ha slegato non la catena ma la cravatta, si è tolta la giacca, la camicia, i pantaloni, per protestare contro l’allora presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, rimanendo in mutande, per poi coprirsi con la bandiera della Sicilia, la Trinacria. Mizzeca che ciriveddru! (Sarebbe il cervello siciliano-Ndr). Uno così non lo trovate più, cari siciliani. Non fatevelo scappare. Manifestate per la sua libertà. Un màsculu unico nella sua specie. A proposito: il suo movimento si chiama “Sicilia Vera”. Pensate un po’. Se questa è la Sicilia vera, figuriamoci quella falsa.

Fascismi giudiziari e aggravanti televisive, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Assistiamo da anni a una aggressione giudiziaria, di stampo fascista. Penso agli insensati scioglimenti di Comuni per mafia, all'arresto plateale (seguito dall'incongrua liberazione) di Cateno De Luca, ai processi illegittimi come quello a Contrada, alle condanne arbitrarie di Dell'Utri e di Cuffaro, alle indagini su Berlusconi, e alla farsa degli alimenti a Veronica, conclusa con un risarcimento di lei a lui (in un impressionante squilibrio dei collegi giudicanti), al processo infondato per Mafia capitale, all'arbitrario arresto, fino a farlo morire, dell'innocente sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, all'inverosimile metodo Woodcock, all'abuso di Cantone su Carla Raineri. Una lunga serie di veri e propri errori, per ignoranza o malafede. Fino all'arresto di Spada, per «testata» con l'aggravante di mafia, in un carcere di massima sicurezza. «Ha sbagliato, ma non ci scordiamo che Sgarbi schiaffeggiò la Mussolini in diretta televisiva», ricorda il cugino di Spada. Ricorda male. Fu lei a farmi cadere gli occhiali, e io le dissi semplicemente: «Fascista». Vero invece, e più pertinente al caso Spada, che io spaccai il tapiro in testa a Staffelli. Certo un cattivo esempio. Il cugino osserva: «Ma dove sta questa mafia? La mafia ve la state inventando voi». Ha evidentemente ragione. Roberto Spada, nella sua aggressione era solo, e la mafia prevede una associazione. La sola aggravante è quella televisiva.

Lo scandalo senza “peccato”, scrive Piero Sansonetti il 22 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Neanche gli scandali sono più quelli di una volta! Una volta per fare uno scandalo era necessario che girassero dei quattrini. Ora si possono fare anche gratis. Ieri provavo a richiamare alla memoria gli scandali politici che ricordo, quelli grandi, che fecero scalpore, e che per conseguenze politiche e mediatiche – per potenziale di fuoco della stampa e dei partiti politici – possono ricordare questo scandalo di banca Etruria. Mi è tornato alla mente lo “scandalo delle banane”, anno 1963. Una volta gli scandali erano una cosa seria… Andavo alle medie, ero ragazzino, ma me lo ricordo bene perché ne parlavano tutti. E poi pare che quell’avvocato che fu arrestato, un certo Bartoli Avveduti, fosse il marito di una cugina di mio padre. Lo scandalo coinvolse un ministro, un certo Trabucchi, che poi se la cavò perché allora l’immunità parlamentare era una cosa seria e poi c’era anche una super immunità per i ministri (l’avevano voluta i padri costituenti, quelli che avevano guidato la lotta al fascismo e che scrissero la Costituzione). Lo scandalo delle banane consisteva in un giro di bustarelle con le quali venivano truccate le aste e veniva destabilizzato il mercato delle banane che, all’epoca, era sottoposto al monopolio. Girarono molti soldi. Due miliardi di lire di quel tempo, che non saprei convertire con precisione in euro attuali, tenendo conto dell’inflazione, ma a occhio erano circa 20 milioni di euro. Poi mi ricordo gli anni 70, con la Lockheed, che fu uno scandalo colossale, lambì l’onorabilità di Moro, fece tremare i governi e la Dc e mandò a gambe all’aria persino il Quirinale, dove c’era l’incolpevole Giovanni Leone che fu costretto a dimettersi. Era una storia di tangenti pagate dall’industria americana per vendere alcuni aerei militari alla nostra aviazione. Non si è mai saputo bene quanto fossero grandi queste tangenti e chi le abbia intascate. Erano una cosetta da venti o trenta milioni di dollari che, sempre calcolando l’inflazione, credo che corrispondessero più o meno a due o trecento milioni di euro di oggi. Un ministro finì in prigione, si chiamava Mario Tanassi ed era stato segretario del partito socialdemocratico e del partito socialista unificato. Un altro ministro, Luigi Gui, democristiano, fu assolto. Negli anni ottanta arrivò lo scandalo petroli. Lì per la prima volta tremò il Psi che controllava l’Eni. Era una roba davvero grossa, perché erano stati fatti, pare, un gran numero di imbrogli che avevano spinto in alto il prezzo della benzina e permesso gigantesche evasioni fiscali. Non si seppe mai chi aveva preso le tangenti, ma la sentenza disse che erano finite ai partiti di governo. Quante tangenti? Circa 2000 miliardi di lire, una montagna incredibile di soldi. Dopodiché si arriva a Tangentopoli, frazionata in tanti scandali, il più grande dei quali fu quello Enimont (l’azienda nata dalla fusione di Eni e Montedison) con tangenti miliardarie pagate a tutti i partiti, sia di governo sia di opposizione. Ci fu il famoso processo nel quale Di Pietro mise alla sbarra in diretta Tv i capi della politica italiana: Craxi e Forlani, soprattutto. Ecco, ora c’è lo scandalo Boschi. I plotoni di esecuzione sono molto folti e ben attrezzati. Sparano, sparano, sparano ogni giorno. Nei plotoni ci sono i rappresentanti dei partiti, ma soprattutto ci sono i giornali e le Tv. A capo di tutti i plotoni c’è il personaggio emergente della politica italiana: Marco Travaglio. Che è ubiquo. E ormai guida giornali e partiti in contemporanea. Quel che manca in questo scandalo è solo un dettaglio: l’oggetto dello scandalo. Quello non c’è. Ci sono gli imputati, gli accusatori e la condanna. Manca l’accusa. Boschi sarebbe colpevole di conflitto di interessi, pur non avendo sicuramente incassato un solo euro bucato e non aver commesso nessunissima violazione della legge e neppure nessun atto censurabile, e non avere mai favorito ma anzi aver danneggiato suo padre. Non ha colpe specifiche – dicono gli accusatori ma è colpevole. E’ vero che non ha favorito suo padre, ex vicepresidente della fallita banca Etruria, però – dice Travaglio, spesso sorridendo – in pratica lo ha favorito. Come? Salvando la banca? No, questo no. Salvando la sua vicepresidenza? No, questo no. Permettendogli di portar via un bottino? No, ma per carità, non è questo! E allora? Cosa ha fatto il governo Renzi-Boschi con Etruria? L’ha commissariata, sì, però lo ha fatto malvolentieri. Forse. Ecco, l’accusa è questa: malvolentieri. E poi, comunque, avrebbe potuto non farlo e in quel caso ci sarebbe stato, se non proprio un reato, sicuramente un peccato. Giusto – ribatte l’accusa – ma il fatto stesso che avrebbe potuto non farlo, e dunque compiere una scorrettezza, configura di per se la scorrettezza. L’altra sera ho seguito per un’oretta una trasmissione televisiva della Sette, “di martedì”. Era sul caso Boschi, ma la Boschi non c’era. Non c’era neanche nessun altro che sostenesse posizioni o idee a lei vagamente favorevoli. La tesi dell’accusa era quella che abbiamo spiegato poche righe qui sopra. “Non l’ha fatto ma avrebbe potuto…”. La trasmissione era organizzata così: prima ha parlato Di Battista, quello dei 5 Stelle. Senza nessun contraddittorio, come si usa con i 5 Stelle. Solo, assiso su una bella sedia, ha potuto indisturbato svolgere il comizio e spiegare come e perché la Boschi è massimamente colpevole e il fatto che però non abbia colpe è del tutto secondario. Poi Di Battista se ne è andato e sono arrivati tre giornalisti. Per discutere in modo più oggettivo, meno politicizzato. Volete sapere chi? Beh, Marco Travaglio e Maurizio Belpietro, cioè i direttori dei due giornali che stanno guidando la campagna contro la Boschi, e Massimo Giannini, giornalista di Repubblica che notoriamente – per ragioni anche comprensibili – tutti può sopportare nel mondo politico italiano, tranne Matteo Renzi (che lo ha in pratica cacciato dalla Rai). Ne è nata una discussione surreale fra i tre, perché ciascuno voleva dimostrare di essere più inflessibile degli altri due. Non avevo mai visto niente di simile in una televisione. Neanche al tempo della Rai democristiana- democristiana (almeno un oppositore, magari un oppositore di sua maestà, uno spazietto ce l’aveva sempre). A un certo punto Travaglio se ne è andato, dicendo che doveva tornare al suo giornale, per lavorare un po’. Belpietro e Giannini hanno continuato a picchiare sulla Boschi. Poi è arrivato Bersani. Ha iniziato a picchiare anche lui. Passano cinque minuti d’orologio e ricompare Travaglio. Stupore: ma come, non se n’era andato? Floris, tutto soddisfatto, annuncia che Travaglio è arrivato al suo giornale ma non ha trovato molto da fare e dunque si è ricollegato. E allora Floris gli chiede cosa pensa del caso Boschi. Travaglio dice che è peggio di Berlusconi. Poi ridanno la parola Belpietro e Giannini. Poi di nuovo a Travaglio. Mistero su come abbia fatto Travaglio a coprire la distanza tra il quartiere Prati e il quartiere San Giovanni, con tanta rapidità. Mistero, che si aggiunge al mistero di come possa esistere uno scandalo senza scandalo e un colpevole senza colpe. E’ la nuova politica, che funziona così. E la nuova televisione libera, libera veramente, che però fa venire una gran nostalgia della Tv di Ettore Bernabei.

Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017, su "Il Dubbio". Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattrodicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate. Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa. Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

Gli abitanti di Corleone ora attaccano Saviano: "Diffama il nostro paese". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia", scrive Luca Romano, Giovedì 09/11/2017, su "Il Giornale". "Per l'ennesima volta, vergognosamente, l'immagine di Corleone e dei suoi cittadini onesti viene diffamata e additata". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia". "Il risveglio di stamattina ci lascia un po' l'amaro in bocca. Ci dispiace constatare che la nomea di Corleone città della mafia non riguarda solo persone andate avanti a pane e Padrino ma anche Roberto Saviano che da anni "combatte" contro la camorra e incontra quotidianamente persone che a causa della camorra hanno perso parenti, sorrisi e speranza - dicono i ragazzi del Museo sulla mafia di Corleone - L' avevamo invitato a venire: se solo avesse accolto l'invito, si sarebbe reso conto che Corleone sì, ha da raccontare storie di lupare e dolore, ma oggi può raccontare storie di grandi lotte e di riscatto". "Grazie Roberto Saviano per l'ennesima spinta indietro che ci costringi a fare - dicono - Noi barcolliamo un po', ma non perdiamo l'equilibrio e andiamo avanti camminando sulle idee dei giudici Falcone e Borsellino. La legalità ci ha insegnato e ci insegna ancora a splendere di luce propria...non riflessa "caro Saviano". Buona giornata da chi ogni giorno lotta per sentire il fresco profumo di libertà che non ha colore politico". Anche sui social c'è stata una rivolta contro le parole di Saviano. "Che delusione - scrive Patrizia Gariffo su Facebook - Dare un giudizio così netto e senza appelli, senza neanche essere venuto a Corleone. Prima di parlare, è bene pensare un po’, mentre lo storico Pasquale Hamel bolla Saviano come "un presuntuoso che ha speculato per creare il proprio personaggio". Dino Paternostro, storico attivista per i diritti di Corleone invita lo scrittore in città: "Roberto Saviano, vieni a visitare Corleone. Sarai mio ospite. Poi, solo poi, potrai dare un giudizio fondato sulla nostra città".

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:

Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.

Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.

Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.

Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica. 

L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.

«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.

Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».

Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.

DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."

La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché ­ Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).

Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».

La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.

La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.

Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra». 

La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».

Ilaria Alpi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ilaria Alpi (Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994) è stata una giornalista e fotoreporter italiana del TG3, assassinata a Mogadiscio insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Si diplomò al Liceo Tito Lucrezio Caro di Roma. Grazie anche all'ottima conoscenza delle lingue (arabo, francese e inglese) ottenne le prime collaborazioni giornalistiche dal Cairo per conto di Paese Sera e de l'Unità. Successivamente vinse una borsa di studio per essere assunta alla Rai.

L'inchiesta sul traffico di rifiuti in Somalia e la morte. Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta. Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali. Nel novembre precedente l'assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia ed in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis. La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, dinanzi al quale avvenne il duplice delitto. Sulla scena del crimine arrivarono subito dopo gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un freelance che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall'auto in cui erano stati uccisi a quella di un imprenditore italiano con cui successivamente vennero portati al Porto vecchio. Una troupe della Svizzera italiana si trovava invece all'Hotel Sahafi (dall'altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti. Ilaria Alpi venne sepolta nel Cimitero Flaminio di Roma.

Il procedimento penale. Il 18 luglio 1998 il sostituto procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato: secondo l'accusa, egli sarebbe stato alla guida della Land Rover con a bordo i componenti del commando che uccise i due giornalisti italiani. Hassan era giunto in Italia l'11 gennaio per essere ascoltato dalla Commissione Gallo in merito alle violenze asseritamente inferte da parte di alcuni militari italiani a diversi civili somali nel corso della Missione Ibis coordinata dall'ONU (UNOSOM I e II); arrivato in Italia, un altro cittadino somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch'egli convocato dalla procura di Roma per rendere dichiarazioni, riconobbe lo stesso Hassan come uno degli autori dell'omicidio. A seguito delle successive indagini Hassan fu rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare Alberto Macchia. La prima udienza dibattimentale si tenne il 18 gennaio 1999 presso la Corte d'Assise di Roma; il collegio era presieduto da Gianvittore Fabbri. Nel corso del processo, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l'assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il 10 maggio, il presidente del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Franco Frattini, intervenendo ad una trasmissione televisiva, rilevò come la questione dei traffici illeciti come possibile movente del duplice omicidio fosse "un elemento importante che sta emergendo". Ad accusare Hassan comparve tuttavia un altro testimone chiave: Ali Abdi, l'autista che aveva accompagnato Alpi e Hrovatin dall'aeroporto di Mogadiscio all'hotel Hamana, in prossimità del quale avvenne il brutale delitto. La difesa, da parte sua, chiamò a testimoniare due cittadini somali, i quali asserirono che il giorno dell'agguato l'imputato si trovava presso Haji Ali, a duecento chilometri da Mogadiscio, per visitare un familiare gravemente malato. La perizia della Polizia Scientifica, nel ricostruire la dinamica dell'azione criminale, stabilì che i colpi sparati dai Kalašnikov erano indirizzati alle vittime, poiché sparati a bruciapelo, a distanza ravvicinata; secondo una successiva perizia balistica, invece, i colpi sarebbero stati sparati da lontano, senza che l'omicida potesse avere consapevolezza dell'identità delle vittime. Il 20 luglio 1999 Hassan fu assolto per non aver commesso il fatto: secondo il collegio, Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi "come capro espiatorio" per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Hassan, tuttavia, non vene immediatamente scarcerato poiché, nel frattempo, si era aperto a suo carico un processo per violenza carnale, reato asseritamente commesso a danno di una sua connazionale in Somalia. Da tale capo d'accusa sarà assolto il 26 luglio 1999. Rispetto al duplice omicidio, invece, il processo d'appello ebbe inizio il 24 ottobre 2000, presso la Corte d'assise d'appello di Roma; il collegio era presieduto da Franco Plotino. Il secondo grado di giudizio ribaltò le conclusioni del collegio di prime cure: secondo i giudici dell'impugnazione, infatti, sia Gelle che Ali Abdi "sono da considerare attendibili ed entrambi hanno visto l'imputato a bordo della Land Rover prima della sparatoria"; Hassan, ritenuto responsabile del duplice omicidio volontario, con l'aggravante della premeditazione, fu condannato all'ergastolo. Venne inoltre disposta la misura della custodia cautelare in carcere, motivata sulla base del pericolo di fuga. Nel frattempo, tuttavia, Gelle, testimone chiave del processo, si era reso irreperibile, cosicché le sue dichiarazioni furono ritenute irripetibili e fu in tal modo precluso l'esame incrociato. Ali Abdi, da parte sua, tornò in Somalia e fu ucciso nel giro di un breve periodo di tempo. La sentenza fu confermata dalla Corte di cassazione, salvo nella parte in cui riconosceva l'aggravante della premeditazione; la Cassazione dispone dunque il rinvio al giudice di merito per la nuova commisurazione della pena. Il processo d'appello bis si aprì il 10 maggio 2002 davanti alla corte d'Assise d'Appello di Roma, presieduta da Enzo Rivellese: il collegio concluse per la pena di 26 anni di reclusione, senza la premeditazione e riconoscendo le attenuanti generiche come equivalenti all'aggravante del numero dei partecipanti all'agguato (essendo 7 i componenti dell'agguato). Il 19 ottobre del 2016 la svolta. Secondo il sostituto procuratore generale analizzando le prove emerse nei confronti di Omar Hassan "ne deriva un quadro bianco senza immagini, senza niente". "E quindi - ha detto Razzi - la mia conclusione non può che essere una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto". Il magistrato ha parlato di "inattendibilità" del teste Gelle. "Non esiste" ha sottolineato. Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. Il 3 Luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l'inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l'identità dei killer e il movente del duplice omicidio.

I lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Il 23 febbraio 2006 un'apposita Commissione parlamentare d'inchiesta, dopo due anni, concluse i suoi lavori con tre relazioni contrapposte, una approvata a maggioranza e due di minoranza. Durante le audizioni vennero sentiti numerosi testi a vario titolo coinvolti o a conoscenza delle dinamiche e dei fatti. Tra essi Mario Scialoja, ex ambasciatore italiano, che escluse o ritenne minima la possibilità di matrice fondamentalista islamica, e vari appartenenti ai servizi informativi SISMI e SISDE che invece contemplarono una forte possibilità di questa matrice. La commissione, tuttavia, non avrebbe condotto i necessari approfondimenti per escludere che l'omicidio potesse essere stato commesso per le informazioni raccolte dalla Alpi sui traffici di armi e di rifiuti tossici. La commissione, sempre nella relazione di maggioranza, cercò di riscontrare l'ipotesi che l'omicidio fosse avvenuto "nell'ambito di un tentativo di rapina o di sequestro di persona conclusosi solo fortuitamente con la morte delle vittime, e questa tesi veniva accreditata anche in base ad un rapporto riservato di UNOSOM del 3 aprile 1994, da cui citava "è probabile che i banditi intendessero non appropriarsi del veicolo, ma rapinare due cittadini occidentali...". Contestualmente veniva citato come fonte il somalo Ahmed Ali Rage, detto "Gelle", che accusava un altro somalo, Hashi Omar Hassan, di avergli raccontato che l'intenzione iniziale fosse di rapire i due giornalisti e che la situazione fosse poi degenerata nella sparatoria; Hassan venne arrestato anche sulla base di queste dichiarazioni quando arrivò in Italia per testimoniare ad un altro processo, quello sulle presunte violenze a carico di soldati del contingente italiano appartenenti alla brigata paracadutisti "Folgore". Altro movente che venne preso in considerazione fu il rancore verso gli italiani a causa di un arresto subito dallo stesso Hassan da parte proprio di un contingente della Folgore intervenuto a separare una rissa, durante il cui intervento Hassan colpì un ufficiale italiano. Ancora ad avvalorare questa ipotesi, nella relazione lunga 687 pagine, Valentino Casamenti dichiara che "i banditi liberati (dopo l'arresto da parte italiana) versavano in gravi condizioni economiche. Dovevano ripagare i loro avvocati ed avevano comunque urgente bisogno di soldi. Avevano deciso allora di sequestrare degli italiani per vendicarsi del trattamento subito dalla Folgore...", anche se la giornalista Giuliana Sgrena, amica della Alpi ed arrivata a Mogadiscio subito dopo l'uccisione, nella sua audizione il 20 luglio 2005 dichiarò che "si è detto che potesse essere un sequestro, ma allora sembrava abbastanza inverosimile. La stessa Sgrena fu ascoltata in merito all'ipotesi di una "ritorsione di natura economica, ovvero vendetta anti italiana o anti occidentale" insieme al giornalista di Repubblica Vladimiro Odinzoff, che intervistò un suo contatto somalo, che aveva a suo dire partecipato alla battaglia del Pastificio e che raccontò di una banda di quindici criminali somali arrestati da un gruppo misto del Col Moschin e della polizia somala, brutalmente picchiati all'arresto e dalla polizia somala anche in carcere tanto che uno avrebbe perso l'uso delle gambe, da cui la ragione della vendetta; questa fonte, sebbene ritenuta credibile da Odinzoff e dalla Sgrena, tanto che il primo ne ricavò un articolo pubblicato su La Repubblica il 5 aprile 1994 con titolo Ilaria e Miran uccisi dalla malavita somala, sebbene nessun riscontro fosse stato trovato a supporto. Nell'opposizione parlamentare ci si soffermò, invece, su alcune anomalie del modo di procedere della Commissione d'inchiesta, che potrebbero averne falsato le risultanze. Quella che nella XIV legislatura da uno dei suoi componenti (l'onorevole Enzo Fragalà) fu definita “l'unica Commissione parlamentare della storia della Repubblica che svolge sul serio l'attività di inchiesta (le altre hanno sempre fatto salotto)”, nel suo regolamento interno, il 3 marzo 2005 introdusse un articolo 10-bis riguardante le deliberazioni incidenti sulle libertà costituzionalmente garantite. Ciò fu presentato dal Presidente, Taormina, come la risposta ad un quesito posto da tempo in importanti scritti di costituzionalisti: quello di assicurare che la ricerca di un'azione investigativa fosse condivisa da tutte le forze politiche. In realtà, la ricchissima disamina della materia dell'articolo 82 della Costituzione riscontra un'esigenza di utilizzazione dello strumento numerico essenzialmente ad altro fine (quello dei maggiori o minori quorum da raggiungere per istituire una Commissione di inchiesta). Poco o nulla si rinviene, invece, sulla questione delle deliberazioni della Commissione d'inchiesta, che in tempi di consensualismo antico decidevano all'unanimità le modalità di esercizio dei loro poteri istruttori. Nella relazione conclusiva della Commissione di cui era presidente, Taormina sostenne che la norma regolamentare in questione opera “da un punto di vista dei rapporti con i terzi, il rafforzamento delle garanzie del cittadino attinto da un provvedimento, il quale sarà posto in essere solo in quanto risultato positivo al giudizio di legittimità, di merito nonché di opportunità politica effettuato da tutti i membri dell'organismo parlamentare presenti in seduta”. Ma l'unica, vera garanzia è l'esistenza di un organo terzo cui affidare il controllo, in ordine alla riconducibilità della fattispecie al parametro di riferimento offerto dalla Costituzione. Nella successiva legislatura una norma che seguiva la medesima struttura e finalità - anche se prevedeva non l'unanimità dei presenti ma la maggioranza dei due terzi dei componenti - fu proposta all'interno della legge istitutiva di una Commissione di inchiesta, quella antimafia. Infine, il presidente Taormina sosteneva che “la brutalità dei numeri è certamente qualcosa che cozza con l'esigenza dell'accertamento dei fatti”. In data 11 febbraio 2008 la Corte Costituzionale, adita in sede di conflitto di attribuzione, stabilì che: « [...]non spettava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin adottare la nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV), con la quale è stato opposto il rifiuto alla richiesta, avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sull'autovettura corpo di reato, ed annulla, per l'effetto, tale atto.» Nel gennaio 2011 la Commissione parlamentare annuncia la riapertura delle indagini sul caso. Il 5 settembre 2012, come già su un articolo de l'Unità del 7 febbraio 2006, Carlo Taormina ha dichiarato: «Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un'altra storia».

Ilaria Alpi, cronaca di 23 anni senza verità. 20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Un colpevole di comodo, depistaggi e tante bugie: dopo due decenni ancora non sappiamo chi ha voluto la morte dei due giornalisti. Ma conosciamo il movente: le loro ricerche sui traffici di armi e rifiuti, scrive Federico Marconi il 7 luglio 2017 su "L'Espresso". “Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità”. Luciana Alpi non vede la fine della lunga battaglia iniziata 23 anni fa. Vuole sapere chi sono i mandanti dell’omicidio della figlia Ilaria, inviata del Tg3 in Somalia, che il 20 marzo 1994 venne freddata da una scarica di Kalashnikov insieme all’operatore Miran Hrovatin a pochi passi dall’ambasciata italiana di Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riuscite a fare definitiva chiarezza sulla vicenda. Non si sa chi faceva parte del commando di sette uomini che sparò sull’auto che trasportava i due giornalisti, né chi sia il mandante del duplice omicidio. A pagare è stato un innocente: Omar Hassan Hashi, condannato nel 2003 a 26 anni di carcere. Giustizia è stata fatta, almeno per lui. Nel 2015, il programma televisivo “Chi l’ha visto?” aveva rintracciato il suo principale accusatore, Ahmed Ali Rage detto “Gelle”. Alle telecamere dichiarò di essere stato pagato per mentire. Così nel gennaio di quest’anno il tribunale di Perugia ha ridato la libertà ad Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici perugini parlano chiaramente di “attività di depistaggio” che hanno portato alla condanna di un innocente. La procura di Roma ha aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne ha chiesta l’archiviazione: “Dopo 23 anni è impossibile accertare killer e movente - scrive nella richiesta il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola - e non c’è nessuna prova di depistaggi”. “Non sarà un’archiviazione a mettere fine alla ricerca della verità”, dichiara Domenico D’Amato, avvocato della famiglia Alpi. Una ricerca durata 23 anni, che ha scavato le radici nel lavoro di inchiesta di Ilaria, che cercava le prove di un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia.

L'inchiesta e l'agguato. 20 marzo 1994. Mogadiscio, un commando di sette uomini ferma la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a pochi metri dall’ambasciata italiana. Una raffica di kalashnikov toglie la vita ai due giornalisti del Tg3, in Somalia per seguire il ritorno in Italia del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. Ma Ilaria stava seguendo anche un’altra pista, un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva sia i signori della guerra locali sia delle navi provenienti dall’Italia. Per questo la settimana prima Ilaria e Miran erano andati a Bosaso, una città portuale nel nord del Paese, per intervistarne il “sultano” Abdullahi Moussa Bogor, riguardo una nave sequestrata dai pirati, forse utilizzata per i traffici illeciti. “Non è stata una rapina” dirà subito Giancarlo Marocchino, imprenditore italiano con affari in Somalia, “si vede che erano andati in posti in cui non dovevano andare”. E forse avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. I corpi dei due giornalisti vengono riportati in Italia. Ma nel viaggio di ritorno succede qualcosa: i sigilli dei bagagli vengono aperti, spariscono gli appunti di Ilaria e i nastri di Miran.

Un colpevole di comodo. Gennaio 1998. Dopo tre anni di indagini, la svolta. L’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini, incaricato dal Governo Prodi di cercare i responsabili dell’omicidio Alpi, torna in Italia con tre somali. Con lui sull’aereo c’è Omar Hassan Hashi, fatto venire in Italia per testimoniare alla Commissione d’inchiesta “Gallo” sulle violenze perpetrate in Somalia dal contingente italiano durante la missione di pace. Ci sono anche Sid Abdi, l’autista di Ilaria e Miran; e Ali Ahmed Ragi, detto “Gelle”, testimone oculare dell’agguato. Abdi e Gelle dichiarano alla magistratura che Hashi era uno dei sette uomini del commando che ha fatto fuoco su Ilaria: viene subito arrestato.

Assoluzione e condanna. Luglio 1999. Omar Hassan Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma. I giudici considerano poco attendibili le testimonianze dell’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e quella di Gelle. Nelle motivazioni, i giudici scrivono che Gelle ha cambiato versione più volte ed è sparito prima di poter testimoniare al processo. Inoltre l’altro testimone chiave, Sid Abdi, dichiara di non aver visto Gelle tra le persone presenti il giorno dell’assassinio. Più credibili i tre somali che si sono presentati davanti ai giudici confermando l’alibi di Hashi: il 20 marzo 1994 non si trovava a Mogadiscio, ma ad Adale, a 200km dalla capitale. Il pubblico ministero, che aveva chiesto l’ergastolo per Hashi, fa ricorso. Nel novembre del 2000, i giudici della Corte di Appello di Roma ribaltano la prima sentenza, condannando Hashi al fine pena mai. Tre anni dopo, la Corte di Cassazione rende definitiva la condanna: la pena per il somalo è di 26 anni di carcere.

La Commissione: "Ma quale inchiesta, erano in vacanza". Gennaio 2004. Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È presieduta dall’avvocato e deputato di Forza Italia Carlo Taormina. Il suo compito è quello di approfondire le indagini sull’omicidio e le ricerche sui traffici che Ilaria Alpi stava conducendo. La Commissione desta molte critiche. Taormina si scaglia contro i giornalisti Rai che continuano a lavorare sul Caso Alpi: accusati di essere “depistatori”, subiscono la perquisizione delle proprie abitazioni e delle redazioni in cui lavorano. Dopo due anni di lavori, la Commissione fece emergere forti dubbi sulla veridicità delle testimonianze che indicavano Hashi come membro del commando che uccise Ilaria. Ma non fece luce sui mandanti, né sui traffici illeciti. Il presidente Taormina dichiarò che i due giornalisti uccisi “erano in vacanza in Somalia, non stavano conducendo nessuna inchiesta: la Commissione lo ha accertato”. La procura acquisisce gli atti della Commissione e riapre le indagini sul Caso.

Il giudice: "Omicidio su commissione". Dicembre 2007. La procura di Roma chiede l’archiviazione del nuovo fascicolo sul Caso Alpi. Viene respinta dal Gip Emanuele Cersosimo che dispone nuovi accertamenti. “Fu un omicidio su commissione” viene scritto nel testo con cui si respinge l’archiviazione “con l’intento di far tacere i due reporter ed evitare che le loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti venissero resi noti”.

Il Sismi: "Uccisi per il loro lavoro sui traffici". Dicembre 2013. La presidente della Camera Laura Bordini avvia la procedura di desecretazione degli atti della Commissione d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le note del Sismi del 1994 confermano i risultati delle tante inchieste giornalistiche svolte negli anni: “Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione”. In un’informativa riservata dei giorni successivi all’omicidio il Servizio segreto militare fa quattro nomi: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. In un’altra nota del 1994 il Sismi indica come “mandanti o mediatori” due imprenditori italiani: Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’agguato. In una nota del 1996 viene infine indicato come possibile mandante il generale Aidid, signore della guerra somalo, utilizzatore finale del traffico d’armi che Ilaria avrebbe scoperto.

Il testimone ritratta. Marzo 2015. Una nuova svolta. ll programma ‘Chi l’ha visto?’ manda in onda l’intervista di Chiara Cazzaniga a Ali Ahmed Ragi “Gelle”, il testimone chiave nel processo contro Omar Hashi. Rintracciato a Birmingham dopo un’inchiesta lunga un anno, il somalo racconta dell’accordo propostogli dall’ambasciatore Cassini: una falsa testimonianza in cambio di un visto per lasciare la Somalia. “Non ero presente sul luogo dell’omicidio, il nome di Hashi mi è stato fatto dall’ambasciatore” ha dichiarato Gelle che, per evitare che con le sue false accuse venisse condannato un innocente, decise di scomparire dopo la testimonianza resa agli inquirenti. Gli avvocati di Hashi chiedono subito la revisione del processo.

"Fu depistaggio". Gennaio 2017. La Corte d’Assise di Perugia rimette in libertà Omar Hassan Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Perugia parlano di “attività di depistaggio che possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”. Non bastasse la facilità con cui la giornalista di Chi l’ha visto? ha rintracciato Gelle, a sostegno di tale tesi vi è anche l’attività di sorveglianza della Polizia sull’ex “testimone chiave”: negli spostamenti durante la sua permanenza nella Capitale, Gelle era sempre accompagnato dalla Polizia. Poi da un giorno all’altro sparì. La Procura di Roma apre nuovamente le indagini ma con scarsi risultati: il 4 luglio il Pm Ceniccola chiede l’archiviazione del procedimento. “Ero ottimista e certa che avrei avuto giustizia dalla Procura di Roma sul duplice omicidio di Mogadiscio” ha dichiarato Luciana Alpi il 6 luglio nel corso di una conferenza alla Federazione Nazionale della Stampa. “Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi” afferma Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi “ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere”. La famiglia ha dichiarato che si opporrà alla richiesta di archiviazione della Procura. Dopo 23 anni di indagini, processi, inchieste e depistaggi, non può essere solo un giudice a decidere se si possono accertare fatti e responsabilità: la verità storica non può essere ostaggio della verità giudiziaria.

Caso Ilaria Alpi e quel dossier segreto consegnato a Gianni De Gennaro. Un rapporto riservato sulla fuga del testimone chiave Gelle finì nelle mani dell'ex capo della polizia, violando il regolamento della Commissione parlamentare d'inchiesta, scrive Andrea Palladino il 9 aprile 2015 su "L'Espresso". Sono i documenti meglio custoditi del Parlamento. Blindati, conservati con cura quasi maniacale. Ogni occhio che si posa sulle pagine con il timbro “segreto” viene annotato: data, ora d’inizio e di fine della lettura. C’è di più. “Non è consentito ad alcuno estrarre copia”, recitava l’articolo 18 del regolamento interno della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per i documenti classificati. Relazioni, atti d’indagine o informative dei servizi. Niente fotocopie. Una regola che, però, ha avuto le sue curiose eccezioni, con un rapporto riservatissimo su un testimone gestito dalla Digos che finisce nella mani dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Siamo tra la fine del 2004 e il novembre del 2005, quando i lavori della commissione guidata da Carlo Taormina entrano in un fase delicatissima. Testimoni somali ascoltati secretando tutto, nome compreso, ufficiali di collegamento alle prese con intercettazioni telefoniche e incontri riservati, e una pista rilevante apparsa quasi per caso. Un capitano della Guardia di finanza, Gianluca Trezza, inizia ad approfondire quello che appariva come un clamoroso depistaggio, il caso del testimone chiave Ahmed Ali Rage, detto Gelle. Un somalo portato in Italia dall’ambasciatore Giuseppe Cassini nell’ottobre del 1997, che accuserà - prima di sparire - il connazionale Hashi Omar Assan, il capro espiatorio condannato poi a 26 anni carcere con l’accusa di aver fatto parte del gruppo di fuoco entrato in azione il 20 marzo 1994. Gelle, tre mesi dopo aver deposto davanti al funzionario della Digos romana Lamberto Giannini e al pm Franco Ionta, era sparito. Il 13 ottobre 2004 il capitano Trezza ascolta insieme al presidente Carlo Taormina - unico parlamentare presente - il racconto del giornalista somalo Mohamed Sabrie Aden: “Gelle mi ha raccontato nel 2002 per telefono di aver mentito, perché pagato”, spiegò in un verbale subito secretato. Dopo quindici anni lo stesso Gelle ripeterà il suo racconto - questa volta in video - alla redazione di Chi l’ha visto. Chi lo aveva convinto a dire il falso? E, soprattutto, chi aveva aiutato Gelle a sparire, evitando così di deporre in aula? Il capitano Trezza si mette all’opera. Ricostruisce con attenzione quello che avviene prima del Natale 1997, data della scomparsa del testimone chiave. Il suo rapporto finale arriva nelle mani di Carlo Taormina il 25 ottobre del 2005. “Segreto”, utilizzabile solo all’interno della commissione. Riporta la testimonianza di Giuseppe Scomparin, titolare di un’officina meccanica dove il Ministero dell’Interno aveva piazzato Gelle nei tre mesi della sua permanenza in Italia. “Ricordo che (i funzionari del ministero dell’interno) mi dissero che il ragazzo non sarebbe venuto per tre, quattro giorni. Alla scadenza di tale lasso di tempo una nuova conversazione telefonica mi preannunciò che il ragazzo non sarebbe più venuto al lavoro”. Parole pesanti, tanto che il capitano Trezza annota: “Se ne trarrebbe che l’allontanamento dall’Italia di Gelle fosse avvenuto quantomeno con la consapevolezza degli uomini delle istituzioni”. Meno di due settimane dopo inizia la curiosa movimentazione di quel rapporto segreto, che esce dalle stanze della commissione: “Consegnata fotocopia senza omissis a capo della Polizia dott. De Gennaro”, è l’annotazione sul fascicolo, desecretato solo nel 2006, dopo la chiusura dell'inchiesta parlamentare. Un salto a piè pari del regolamento della stessa commissione. “Io non ricordo assolutamente di aver dato quel documento all’allora capo della Polizia - spiega oggi l’avvocato Carlo Taormina - e sicuramente non diedi nessuna delega d’indagine a Gianni De Gennaro”. Dunque, il tutto sarebbe avvenuto all'insaputa della stessa presidenza della commissione. Che accadrà dopo? Giuseppe Scomparin, ascoltato in audizione il 23 novembre 2005, cercherà goffamente di rivedere la sua testimonianza, mentre Gelle - nonostante la Digos abbia sempre assicurato di cercarlo attivamente - rimarrà a Birmingham, lontano dai tribunali italiani. E il povero Hashi Omar Assan continuerà a scontare 26 anni di galera. Grazie ad un testimone falso.

Caso Alpi, il supertestimone ha mentito. Vent'anni dopo l'omicidio la verità è più vicina. Il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan è stato scovato da “Chi l’ha visto”: gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza, si legge in una nota del programma.  Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti, scrive Andrea Palladino il 16 febbraio 2015 su "L'Espresso". Era uccel di bosco dal dicembre del 1997, quando lasciò l’Italia diretto verso il Regno Unito. Il supertestimone del caso Alpi, il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan- unico condannato per l’agguato costato la vita alla giovane giornalista del Tg 3 il 20 marzo 1994, a Mogadiscio - si era reso irreperibile dopo aver deposto davanti alla Digos e alla Procura di Roma. Mai apparso in Tribunale, lasciando dietro di sé il sospetto di una testimonianza in qualche maniera pilotata. Alla fine sono stati i colleghi di Ilaria Alpi a scovarlo. Ai giornalisti del programma di Rai 3 “Chi l’ha visto” Ahmed Ali Rage, detto Gelle, il supertestimone sparito nel nulla, ha confermato di aver mentito: “Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso - riferisce una nota del programma - e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza al processo: doveva accusare un somalo del duplice omicidio”. Un capro espiatorio, dunque, un nome da dare in pasto all’opinione pubblica e alla famiglia, cercando di chiudere un caso complesso e politicamente delicato. La lunga fuga di Ahmed Ali Rage è la chiave di volta del caso Alpi. Già nel 2006 le autorità italiane conoscevano tutto sul testimone sparito. Una nota dell’Interpol diretta alla commissione d’inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai indicava con precisione molti elementi per trovare e ascoltare Gelle: l’indirizzo della sua casa a Birmingham, dove andava a ritirare il sussidio da rifugiato politico, i suoi contatti nel Regno Unito. E il nome della moglie, Kadro Arale. Nel frattempo il Tribunale di Roma aveva aperto un processo contro il supertestimone per calunnia, dopo la rivelazione di una telefonata tra il testimone e un giornalista collaboratore di Rai International, dove Gelle, sosteneva di essere stato pagato per raccontare il falso. Nulla, però, è accaduto. Ahmed Ali Rage non è stato mai trovato dalle autorità italiane e il processo si è concluso con un’assoluzione, basata sulla impossibilità di verificare l’autenticità della telefonata e della voce di Gelle. Per trovare il testimone somalo in fondo bastava poco. La moglie Kadro Arale lo scorso anno era regolarmente registrata sulle liste degli elettori di Birmingham. Documenti pubblici, consultabili facilmente sul web. All’indirizzo indicato abitava la famiglia di Gelle, strettamente protetta dalla comunità somala. “Cosa volete da lui?”, aveva risposto un anno fa la moglie, mentre vicini e altre famiglie somale creavano un muro invalicabile. Gelle in quei giorni era assente, ma bastava insistere con le domande per avere la conferma di essere nel posto giusto. Se il vecchio indirizzo indicato dall’Interpol nel 2006 era ormai “bruciato”, le tracce lasciate dalla moglie e dai figli erano chiari e inequivocabili. Ora le sue parole registrate da Rai 3 riaprono con forza il caso. La Procura di Roma - che ha ancora aperto il fascicolo sull’agguato del 1994 - dovrà capire chi ha pagato Gelle per mentire. Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti. Vent’anni dopo l’agguato di Mogadiscio forse la verità è più vicina.

Caso Ilaria Alpi, la Camera mette online i documenti. Sono passati vent'anni dall'omicidio della giornalista e dell'operatore Miran Hrovatin in Somalia. Tra misteri e depistaggi ancora tanti punti da chiarire, scrive Giovanni Tizian il 17 marzo 2016 su "L'Espresso". 20 marzo del 1994. Un agguato mette fine alla vita di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A pochi giorni dall'anniversario, la Camera dei deputati mette online l’Archivio digitale che contiene tutta la documentazione raccolta dal Parlamento sul caso. Un fascicolo denso di misteri, personaggi torbidi, affaristi e presenza inquietanti degli apparati di sicurezza. Il governo e la presidente di Montecitorio l'hanno definito un nuovo capitolo dell’operazione-trasparenza. Dopo la rimozione del segreto su materiali riguardanti la Terra dei Fuochi, le navi dei veleni e il cosiddetto “armadio della vergogna” sulle stragi nazifasciste, ecco la parte riguardante i l'uccisione dei due giornalisti. All'indirizzo archivioalpihrovatin.camera.it si troveranno i documenti depositati presso l’Archivio storico della Camera: sia quelli già “liberi”, finora consultabili solo andando di persona alla sede di Roma (2009 documenti, per 104.943 pagine), sia quelli declassificati per iniziativa della Presidenza della Camera nel corso di questa legislatura (208 documenti, per un totale di 13.614 pagine; una prima tranche di 17 documenti era stata declassificata alcuni mesi fa). I materiali però non sono consultabili direttamente. Possono essere consultati solo dopo aver compilato una domanda online. E grazie alla collaborazione della Rai sono pubblicati materiali video, anche non montati, realizzati fra il 1992 e il 1994 da Ilaria Alpi, Miran Hrovatin ed altri telecineoperatori Rai in Somalia, a Belgrado e in Marocco. «Questi documenti ci fanno entrare nel mondo di Ilaria - ha dichiarato la Presidente Boldrini - ci fanno scoprire com’era e come lavorava; fanno emergere il profilo di una donna appassionata e insieme di una giornalista di talento. La sua voce era diventata, nei primi anni ‘90, la voce della Somalia, così come le immagini di Miran Hrovatin ci avevano fatto conoscere un Paese messo in ginocchio dalla guerra fratricida, dalla fame e dalla povertà. Possa questa azione di trasparenza contribuire alla ricerca della verità e alla conservazione della memoria». Verità che è ancora tarda ad arrivare. E che speriamo, con il venire meno di alcuni segreti di Stato, possa avvicinarsi. Così da chiudere uno dei capitoli più neri della nostra storia e rendere giustizia a due colleghi, morti per dovere.

Strage di Ustica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La strage di Ustica fu un disastro aereo, avvenuto nella sera di venerdì 27 giugno 1980, quando un aereo di linea Douglas DC-9-15 della compagnia aerea italiana Itavia, decollato dall'Aeroporto di Bologna e diretto all'Aeroporto di Palermo, si squarciò in volo all'improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamata posizione Condor. Nell'evento persero la vita tutti gli 81 occupanti dell'aereo. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono ancora stati chiariti. Nel corso degli anni, sulla strage di Ustica si sono dibattute principalmente le ipotesi di un coinvolgimento internazionale (in particolare francese, libico e statunitense, con una delle aviazioni militari dei tre Paesi, che avrebbe colpito per errore il DC-9 con un missile diretto al nemico), di un cedimento strutturale o di un attentato terroristico (un ordigno esplosivo nella toilette del velivolo. Nel 2007 l'ex-presidente della Repubblica Cossiga, all'epoca della strage presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto», destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Corte di Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime, inflitta in sede civile ai Ministeri dei Trasporti e della Difesa dal Tribunale di Palermo. I procedimenti penali per alto tradimento, a carico di quattro esponenti dei vertici militari italiani, si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati. Altri procedimenti a carico di militari (circa 80) del personale AM si sono conclusi con condanne per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. La compagnia Itavia, già pesantemente indebitata, cessò le operazioni il 10 dicembre; il 12 dicembre le fu revocata la licenza di operatore aereo (su rinuncia della stessa compagnia) e, nel giro di un anno, si aprì la procedura di fallimento. Ricostruzione cronologica dell'avvenimento.

Alle 20:08 del 27 giugno 1980 il DC-9 immatricolato I-TIGI decolla per il volo IH870 da Bologna diretto a Palermo con 113 minuti di ritardo accumulati nei servizi precedenti; una volta partito, si svolge regolarmente nei tempi e sulla rotta assegnata (lungo l'aerovia "Ambra 13") fino all'ultimo contatto radio, tra velivolo e controllore procedurale di Roma Controllo, che avviene alle 20:59.

Alle 21:04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, il volo IH870 non risponde. L'operatore di Roma reitera invano le chiamate; lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell'Air Malta, KM153, che segue sulla stessa rotta, e KM758, oltre che dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l'orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21:13.

Alle 21:25 il Comando del soccorso aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri Sikorsky HH-3F del soccorso aereo.

Alle 21:55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente. L'aereo viene dato per disperso.

Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell'alba, un elicottero di soccorso individua alcune decine di miglia a nord di Ustica alcuni detriti in affioramento. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell'Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Ciò conferma che il velivolo è precipitato nel mar Tirreno, in una zona in cui la profondità dell'acqua supera i tremila metri.

Le vittime del disastro furono ottantuno, di cui tredici bambini, ma furono ritrovate e recuperate solo trentotto salme. La Procura di Palermo dispose l'ispezione esterna di tutti i cadaveri rinvenuti e l'autopsia completa di 7 cadaveri, richiedendo ai periti di indicare:

causa, mezzi ed epoca dei decessi;

le lesioni presentate dai cadaveri;

se su di essi si ravvisassero presenze di sostanze tossiche e di corpi estranei;

se vi fossero tracce evidenti di ustioni o di annegamento.

Sulle sette salme di cui fu disposta l'autopsia furono riscontrati sia grandi traumi da caduta (a livello scheletrico e viscerale), sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione (tipiche di sinistri in cui l'aereo si apre in volo e perde repentinamente la pressione interna). Nelle perizie gli esperti affermarono che l'instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione precedette cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, ma non causò direttamente il decesso dei passeggeri facendo loro soltanto perdere conoscenza. La morte, secondo i medesimi esperti, sopravvenne soltanto in seguito, a causa di traumi fatali, riconducibili (così come la presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi) a reiterati urti con la struttura dell'aereo in caduta e, in ultima analisi, all'impatto del DC9 con l'acqua. La ricerca tossicologica dell'ossido di carbonio e dell'acido cianidrico (residui da combustione) fu negativa nel sangue e nei polmoni. Nessuna delle salme presentava segni di ustione o di annegamento. Il controllo radiografico, alla ricerca di residui metallici, risultò positivo su cinque cadaveri. Più precisamente:

nel cadavere 20 due piccole schegge nell'indice e nel medio sinistri;

nel cadavere 34 piccoli frammenti in proiezione della testa dell'omero destra e della quinta vertebra lombare;

nel cadavere 36 minuti frammenti nella coscia sinistra;

nel cadavere 37 un bullone con relativo dado nelle parti molli dell'emibacino;

nel cadavere 38 un frammento delle dimensioni di un seme di zucca e di forma irregolare nella mano destra.

La perizia ritenne di escludere, per le caratteristiche morfologiche e dimensionali, la provenienza dei minuscoli corpi estranei dall'eventuale frammentazione di involucro di un qualsiasi ordigno esplosivo.

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:26:06Z. (ora in GMT):

Roma: «870 identifichi.»

IH870: «Arriva.»

Roma: «Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha?»

IH870: «La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze.»

Roma: «Sì, in effetti non è che vada molto bene.»

IH870: «Allora ha ragione il collega.»

Roma: «Sì, sì pienamente.»

IH870: «Ci dica cosa dobbiamo fare.»

Roma: «Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua.»

IH870: «Noi non ci siamo mossi, eh?!.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:08Z.

IH870: «Roma, la 870.»

Roma: «IH870 per Ponza, 127,35.»

IH870: «127,35. Grazie, buonasera.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:44Z.

IH870: «È la 870, buonasera Roma.»

Roma: «Buonasera 870. Mantenga 290 e richiamerà 13 Alfa.»

IH870: «Sì, senta: neanche Ponza funziona?»

Roma: «Prego?»

IH870: «Abbiamo trovato un cimitero stasera venendo... da Firenze in poi praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante.»

Roma: «Eh sì, in effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?»

IH870: «Manteniamo 195.»

Roma: «195. Sì, va bene. Mantenga 195, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio.»

IH870: «Bene, grazie.»

Roma: «E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più perché c'è molto vento da ovest. Al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l'intensità.»

IH870: «Eh sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere.»

Roma: «Ecco, non lo so, se vuole continuare con questa prua altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi.»

IH870: «Ok. Mettiamo per 210.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:46:31Z.

IH870: «È la 870, è possibile avere un 250 di livello?»

Roma: «Sì, affermativo. Può scendere anche adesso.»

IH870: «Grazie, lasciamo 290.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:50:45Z.

Roma: «L'Itavia 870 diciamo ha lasciato Ponza 3 miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, va bene per Palermo così.»

IH870: «Molto gentile, grazie. Siamo prossimi a 250.»

Roma: «Perfetto. In ogni caso ci avverta appena riceve Palermo.»

IH870: «Sì, Papa-Alfa-Lima lo abbiamo già inserito, va bene e abbiamo il DME di Ponza.»

Roma: «Perfetto. Allora normale navigazione per Palermo, mantenga 250, richiamerà sull'Alfa.»

IH870: «Benissimo, grazie.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:00Z.

IH870: «È sull'Alfa la 870.»

Roma: «Eh sì, affermativo. Leggermente spostato sulla destra, diciamo 4 miglia e comunque il radartermina. 28,8 per ulteriori.»

IH870: «Grazie di tutto, buonasera.»

Roma: «Buonasera a lei.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:54Z.

IH870: «Roma, buonasera. È l'IH870.»

Roma: «Buonasera IH870, avanti.»

IH870: «115 miglia per Papa-Alfa... per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»

Roma: «Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»

IH870: «Sì: Raisi lo stimiamo per gli uno-tre.»

Roma: «870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»

IH870: «A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»

Roma: «È corretto.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:59:45Z - ultimo segnale del transponder.

Il flight data recorder (FDR) dell'aereo aveva registrato dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota circa 7 630 m (25 000 piedi) con prua a 178°, l'accelerazione verticale oscillava, senza oltrepassare 1,15 g. La registrazione del tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota, che si raccontavano barzellette, restituito dal cockpit voice recorder (CVR), si era interrotta improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che precedesse la troncatura.

Gli ultimi secondi dal CVR: «Allora siamo a discorsi da fare... [...] Va bene i capelli sono bianchi... È logico... Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no... Sporca eh! Allora sentite questa... Gua...». La registrazione si era interrotta tagliando l'ultima parola («Guarda!»). Questo particolare potrebbe indicare un'improvvisa interruzione dell'alimentazione elettrica.

Le principali ipotesi sulle quali gli inquirenti hanno indagato sono:

il DC-9 sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare;

il DC-9 sarebbe precipitato dopo essere entrato in collisione (o in semicollisione) con un aereo militare;

sarebbe avvenuto un cedimento strutturale;

sarebbe esplosa una bomba a bordo.

A partire dalla succitata prima ipotesi, negli anni si è affermata la tesi che in zona vi fosse un'intensa attività aerea internazionale: sebbene dagli enti militari, nazionali e alleati, sino ai primi anni novanta non fosse mai giunta alcuna conferma di tali attività (che pure è stato ipotizzato possano essere state occultate), né sul relitto sia mai stato trovato alcun frammento di missile, ma soltanto tracce di esplosivo, si sarebbe determinato uno scenario di guerra aerea, nel quale il DC-9 Itavia si sarebbe trovato per puro caso mentre era in volo livellato sulla rotta Bologna-Palermo. Testimonianze emerse nel 2013 confermerebbero la presenza di aerei da guerra e navi portaerei. L'occultamento e la distruzione, di alcuni registri (Marsala, Licola e Grosseto) e di alcuni nastri radar (Marsala e Grosseto) che registrarono il tracciato del volo DC-9 IH870, a fronte delle prove prodotte da altri analoghi registri e nastri non occultabili e non distrutti (Fiumicino, Satellite russo), vengono portati a sostegno di tale ipotesi. Da testimonianze risulta che se il disastro avesse avuto cause chiare (difetto strutturale o bomba) non sarebbe stato necessario occultare e distruggere prove di primaria importanza sul volo, come è stato stabilito dalle conclusioni della sentenza nel Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I.. I dati di volo distrutti e recuperati da altre fonti nazionali e internazionali e l'allarme generale della difesa aerea lanciato da due piloti dell'aeronautica militare italiana potrebbero confermare la tesi accusatoria, secondo la quale l'aereo DC-9 Itavia del volo IH870, attorno al quale volavano almeno tre aerei dei quali uno a velocità supersonica, sia stato abbattuto da un aereo che volava a velocità supersonica, tesi proposta per la prima volta dall'esperto del National Transportation Safety Board, John Macidull.

Nel libro pubblicato nel 1994 The other side of deception - ISBN 0-06-017635-0 - scritto dall'ex-agente del Mossad Victor Ostrovsky, a pagina 248 si cita una conversazione tra l'autore ed un collega inglese avvenuta a fine gennaio 1990 in un albergo ad Ottawa (Canada):

"Do you believe or think or know if the Mossad may have had any involvement in what happened to Flight 103 over Lockerbie?"

I was dumbfounded. It took me several seconds to realize what the man had asked me. I responded almost automatically.

"No way".

"Why?"

"No reason. Just no way, that's all. Up to this point, every time Israel or the Mossad has been responsible for the downing of a plane, it's been an accident, and related directly to the so-called security of the state, like the shooting down of the Libyan plane over the Sinai and the Italian plane (thought to carry uranium) in 1980, killing eighty-one people. There is no way that they'd do this".

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"Credi o pensi o sai se il Mossad può essere implicato in quanto è successo al volo 103 su Lockerbie?"

Ero perplesso. Ci misi diversi secondi a realizzare quanto mi era stato chiesto. Risposi quasi automaticamente.

"In nessun modo".

"Perché?"

"Nessun motivo. Semplicemente in nessun modo, è tutto. Sino ad oggi, ogni volta che Israele o il Mossad è stato responsabile dell'abbattimento di un aereo, si è trattato di un incidente, ed in diretta relazione con la cosiddetta sicurezza di Stato, come l'abbattimento dell'aereo libico sul Sinai e l'aereo italiano (che si pensava trasportasse uranio) nel 1980, nel quale furono uccise ottantuno persone. In nessun modo avrebbero fatto una cosa simile".

Victor Ostrovsky non è mai stato interrogato dai giudici italiani in relazione ai fatti della Strage di Ustica ed alle informazioni contenute nel suo libro.

Sul caso Ustica la magistratura italiana ha condotto un'attività di indagine durata per decenni, con cospicue cartelle di atti: al processo di primo grado si giunse con due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 115 perizie, un'ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali. Le indagini vennero avviate immediatamente sia dalla magistratura sia dal Ministero dei Trasporti, all'epoca ministro Formica. Aprirono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna, mentre il ministro dei trasporti nominò una commissione d'inchiesta tecnico-formale diretta dal dottor Carlo Luzzatti, che però non concluse mai i suoi compiti, visto che, dopo aver presentato due relazioni preliminari, decise per l'autoscioglimento nel 1982 a causa di insanabili contrasti di attribuzioni con la magistratura. Formica finì con l'adeguarsi alla tesi prevalente, che l'aereo era precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione. Il 10 dicembre 1980 Itavia interruppe l'attività, mentre ai dipendenti non veniva più corrisposto lo stipendio. Il Ministero dei Trasporti il 12 dicembre 1980 revocò all'Itavia le concessioni per l'esercizio dell'attività, su rinuncia della stessa compagnia aerea. Dal 1982 l'indagine divenne, di fatto, di esclusiva competenza della magistratura, nella persona del giudice istruttore di Roma Vittorio Bucarelli. La ricerca delle cause dell'incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non permise di raggiungere dati sufficientemente attendibili. Sui pochi resti disponibili, i periti rinvennero tracce di esplosivi. Nel 1982, una perizia eseguita da parte di esperti dell'aeronautica militare italiana, trovò solo C4, esplosivo plastico presente nelle bombe, come quella fatta esplodere nel successivo 1987 da agenti della Corea del Nord sul volo Korean Air 858. Nella relazione della Direzione laboratori dell'A.M. - IV Divisione Esplosivi e Propellenti (Torri) del 5 ottobre 1982 (parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, capitolo III della sentenza ordinanza del giudice istruttore) la causa dell'incidente viene individuata nella detonazione di una massa di esplosivo presente a bordo del velivolo, in ragione della rilevata presenza su alcuni reperti di tracce di T4, e dell'assenza di tracce di TNT. La perizia dell'Aeronautica Militare venne seguita da una controperizia dell'accusa. La seconda repertazione, nel 1987, trovò T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso: la perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 (disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi: Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore) rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 che di TNT (sempre nel frammento dello schienale nº 2 rosso), miscela la cui presenza è tipica degli ordigni esplosivi. Queste componenti di esplosivi, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, hanno indebolito l'ipotesi di un cedimento strutturale, come era stato ipotizzato il 28 gennaio 1981 da una commissione nominata dal ministro dei trasporti Formica. L'acclarata presenza di esplosivi indeboliva l'ipotesi di cedimento strutturale, tanto più per cattiva manutenzione. Ciò aprì, in epoche successive, spiragli per richieste di risarcimenti a favore dell'Itavia (cui tuttavia il ministro dei Trasporti Formica aveva revocato la concessione dei servizi aerei di linea per il pesante passivo dei conti aziendali, non per il disastro). Secondo le rivelazioni di due cablogrammi (cable) (03ROME2887 e 03ROME3199) pubblicati sul sito WikiLeaks, l'allora ministro per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, difese in Parlamento la versione della bomba, paragonandola a quella della strage di Lockerbie. Tuttavia, in un'intervista concessa ad AgoraVox Italia, Giovanardi smentì la versione dell'ambasciata statunitense, in cui si legge che lo stesso avrebbe espresso la sua volontà di "mettere a tacere" le ipotesi sulla strage di Ustica. Le parole di Carlo Giovanardi furono poi contestate dalla senatrice Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.

Il recupero del relitto. Nel 1987 l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, che giaceva in fondo al mar Tirreno. La profondità di 3 700 metri alla quale si trovava il relitto rendeva complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Pochissime erano le imprese specializzate che disponevano delle attrezzature e dell'esperienza necessarie: la scelta ricadde sulla ditta francese Ifremer (Institut français de recherche pour l'exploitation de la mer, Istituto di ricerca francese per lo sfruttamento del mare), che il giudice Rosario Priore avrebbe poi ritenuto collegata ai servizi segreti francesi. Sulla conduzione dell'operazione di recupero effettuata dai DSRV della Ifremer, che portò in superficie la maggior parte della cellula dell'aeromobile, scaturirono molti dubbi, principalmente sui filmati consegnati in copia e sul fatto che l'ispezione al relitto documentata dalla ditta francese fosse davvero stata la prima. Le difficoltà tecniche, i problemi di finanziamento e le resistenze esercitate da varie delle parti interessate contribuirono a rimandare il recupero per molti anni. Alla fine due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto del DC-9; si specifica che è stato recuperato l'85% della superficie bagnata dell'aereo. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell'aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna. Molto interesse destò nell'opinione pubblica il rinvenimento il 10 maggio 1992, durante la seconda campagna di recupero al limite orientale della zona di ricerca (zona D), di un serbatoio esterno sganciabile di un aereo militare, schiacciato e frammentato, ma completo di tutti i pezzi; tali serbatoi esterni generalmente vengono sganciati in caso di pericolo o più semplicemente in caso di necessità (come ad esempio in fase di atterraggio) per aumentare la manovrabilità dell'apparecchio. Il serbatoio fu recuperato il 18 maggio e fu sistemato a Pratica di Mare con gli altri reperti. Lungo 3 metri, per una capienza di 300 U.S. gal (1 135 litri) di combustibile, presentava i dati identificativi: Pastushin Industries inc. pressurized 300 gal fuel tank installation diagram plate 225-48008 plate 2662835 che lo indicavano quindi prodotto dalla Pastushin Aviation Company di Huntington Beach, Los Angeles, California (divenuta poi Pavco)[68] negli Stati Uniti oppure all'estero su licenza. Tale tipo di serbatoio era installabile su almeno quattro modelli di aerei: MD F-4 Phantom (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Israele, Germania, Grecia e Regno Unito), Northrop F-5 (in servizio nel 1980 nelle flotte di Arabia Saudita, Austria, Bahrein, Botswana, Brasile, Canada, Cile, Corea del Sud, Etiopia, Filippine, Giordania, Grecia, Honduras, India, Iran, Iran, Kenya, Libia, Malesia, Norvegia, Pakistan, Paesi Bassi, Singapore, Spagna, Sudan, Svizzera, Thailandia, Taiwan, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, Venezuela, Vietnam del Sud e Yemen), F-15 Eagle (in servizio nelle flotte di Arabia Saudita, Giappone, Israele e Stati Uniti), Vought A-7 Corsair II (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Grecia, Portogallo e Thailandia). Nessuno degli aerei listati è stato impiegato nelle flotta di Francia, nazione responsabile dell'abbattimento secondo le ipotesi di Francesco Cossiga e Canal+. Gli Stati Uniti, interpellati dagli inquirenti, risposero che dopo tanti anni non era loro possibile risalire a date e matricole per stabilire se e quando il serbatoio fosse stato usato in servizio dall'Aviazione o dalla Marina degli Stati Uniti. Furono interpellate anche le autorità francesi, che risposero di non aver mai acquistato o costruito su licenza serbatoi di quel tipo; fornirono inoltre copie dei libri di bordo di quel periodo delle portaerei della Marine nationale Clemenceau e Foch.

Buona parte degli oblò del DC-9, malgrado l'esplosione, sono rimasti integri; secondo i periti, questo fatto escluderebbe che l'esplosione sia avvenuta a causa di una bomba collocata all'interno dell'aereo.

Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita l'anno precedente e presieduta dal senatore Libero Gualtieri, deliberò di inserire tra le proprie competenze anche le indagini relative all'incidente di Ustica, che da quel momento divenne pertanto, a tutti gli effetti, la Strage di Ustica. L'attività istruttoria della Commissione determinò la contestazione di reati a numerosi militari in servizio presso i centri radar di Marsala e Licola. Per undici anni i lavori si susseguirono, interessando i vari governi del tempo e le autorità militari. Come riportato esplicitamente nelle considerazioni preliminari dell'inchiesta del giudice Priore, sin dalle prime fasi gli inquirenti mossero accuse di scarsa collaborazione e trasparenza da parte di, come definito: «soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni». Venne coniato il termine muro di gomma, divenuto poi il termine utilizzato per descrivere il comportamento delle istituzioni nei confronti delle ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un'azione militare. Dopo cinque mesi, infatti, venne presentata una secca ed essenziale ricostruzione da parte dei due esperti Rana e Macidull, che affermavano con certezza che si era di fronte ad un abbattimento causato da un missile. La ricostruzione non venne presa in seria considerazione dal governo presieduto dall'onorevole Francesco Cossiga, che assunse un orientamento diverso e non fu disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia, Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del missile, fu indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l'ordine pubblico, su iniziativa del giudice romano Santacroce a cui era affidata l'inchiesta sul disastro. L'ex ministro Rino Formica, ascoltato dalla Commissione, dichiarò di ritenere verosimile l'ipotesi di un missile, già da lui sostenuta in un'intervista all'Espresso del 1988: a suo dire, a convincerlo tempestivamente che il DC-9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, il quale all'indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, avrebbe detto al ministro dei Trasporti che l'aereo dell'Itavia era stato attaccato da un caccia ed abbattuto con un missile. Per Formica, il generale Rana - nel frattempo morto per tumore - era «un compagno, un amico» nel quale aveva piena fiducia. In seguito all'intervista all'Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, Formica disse di aver parlato dopo l'incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana, anche se non era andato oltre, trattandosi non di certezze ma di opinioni ed intuizioni; ma Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione, nel confermare che Formica gli parlò del missile, commentò: «Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Il 27 maggio 1990 i periti hanno concluso che si tratta di un missile e non di una bomba a bordo. Malgrado ciò, gli esperti dell'aeronautica militare italiana che hanno partecipato alla superperizia, in qualità di consulenti di parte, continuano a sostenere la tesi della bomba.

Anche gli inquirenti denunciarono esplicitamente che il sostanziale fallimento delle indagini fosse dovuto a estesi depistaggi ed inquinamenti delle prove, operati da soggetti ed entità molteplici, come riportano i passi introduttivi del Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I. «Il disastro di Ustica ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini. Gli interessi dietro l'evento e di contrasto di ogni ricerca sono stati tali e tanti e non solo all'interno del Paese, ma specie presso istituzioni di altri Stati, da ostacolare specialmente attraverso l'occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l'inchiesta – il raggiungimento della comprensione dei fatti [...] Non può perciò che affermarsi che l'opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull'ovvia sua finalità: impedire l'accertamento della verità. E che, va pure osservato, non può esserci alcun dubbio sull'esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura ed i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni.» (CAPO 3° Gli inquinamenti. Capitolo I Considerazioni preliminari. pag. 3.) Per questa ipotesi investigativa, assieme alle indagini per la ricerca delle cause si sovrapposero le indagini per provare quegli inquinamenti e quei depistaggi.

Tracciati radar. L'aereo DC-9 era sotto il controllo del Centro regionale di controllo del traffico aereo di Ciampino e sotto la sorveglianza dei radar militari di Licola (vicino Napoli) e di Marsala (in Sicilia). Tra le tracce radar oggetto di visione, è stata accertata la presenza di tracciati radar di numerose stazioni, civili e militari, nazionali ed internazionali.

Il registro del radar di Marsala. Animazione a velocità raddoppiata del tracciato radar, registrato dall'impianto di Ciampino, degli ultimi minuti del volo. Il DC-9 è diretto a sud e vi è un vento a circa 200 km/h verso sud-est. Si notino i due echi senza identificazione sulla sinistra: secondo alcuni periti si tratta della traccia di un aereo, secondo altri di falsi plot, errori del radar. La scritta "IH870" scompare con l'ultima risposta del transponder. Altri contatti su cui si sono concentrate le indagini sono i plot doppi dopo il disastro, sospettati di essere tracce di altri aerei in volo. Tali plot potrebbero anche essere stati determinati, si è ipotizzato, dalla struttura principale dell'aereo in caduta e da fenomeni di chaffing causati da frammenti, anche se restano i dubbi per i plot ad ovest del punto di caduta in quanto sopravvento e quindi difficilmente attribuibili a rottami che cadono nel letto del forte vento di maestrale (che proviene appunto da Nord-Ovest e spinge verso Sud-Est). Durante le indagini si appurò che il registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti del sito radar di Marsala, aveva una pagina strappata nel giorno della perdita del DC-9. Il pubblico ministero giunse quindi alla conclusione che fosse stata sottratta la pagina originale del 27 giugno e se ne fosse riscritta poi, nel foglio successivo, una diversa versione. Durante il processo, la difesa contestò questa conclusione e affermò che la pagina mancante non sarebbe stata riferita al giorno della tragedia, ma alla notte tra il 25 e il 26 giugno. L'analisi diretta della Corte concluse che la pagina tra il 25 e il 26 era stata tagliata, come osservato dalla difesa, ma quella che riguarda la sera del 27 giugno era recisa in modo estremamente accurato, così che fosse difficile accorgersene (il particolare era infatti stato omesso all'avvocato difensore). La numerazione delle pagine non aveva invece interruzioni ed era quindi posteriore al taglio. Interrogato a questo proposito, il sergente Muti, l'IC in servizio quella sera a Marsala non fornì alcuna spiegazione («Non so cosa dirle»). La difesa riconobbe in seguito che la pagina del registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti in servizio il 27 giugno, era stata effettivamente rimossa dal registro.

Il registro del radar di Licola. Il centro radar di Licola è il più vicino al punto del disastro. All'epoca era di tipo fonetico-manuale: nella sala operativa del sito, le coordinate delle tracce venivano comunicate a voce dagli operatori seduti alle console radar ad altri operatori, che le disegnavano stando in piedi dietro un pannello trasparente. Parallelamente tali dati venivano scritti da altri incaricati sul modello "DA 1". Il "DA 1" del 27 giugno 1980 non fu mai ritrovato.

Aeroporto di Grosseto e centro radar di Poggio Ballone. Il giudice istruttore e la Commissione stragi sono in possesso dei tracciati del radar di Grosseto: nelle registrazioni del radar dell'aeroporto di Grosseto si vedono due aerei in volo in direzione nord, sulla rotta del DC-9 Itavia. Mentre due altre tracce di velivoli, provenienti dalla Corsica, giungono sul posto alcuni minuti dopo l'orario stimato di caduta del DC-9 stesso. I nastri con le registrazioni radar del centro della Difesa aerea di Poggio Ballone sarebbero invece spariti: ne rimangono soltanto alcune trasposizioni su carta di poche tracce.

Aeroporto di Ciampino. Il radar di Ciampino quella sera registrò delle tracce che, secondo i periti interpellati dall'associazione dei parenti delle vittime, potevano essere identificate come una manovra d'attacco aereo condotta nei pressi della rotta del DC-9.

Aeroporto di Fiumicino. Il radar dell'Aeroporto di Roma-Fiumicino registrò il volo del DC-9 Itavia del 27 giugno 1980 nel lasso di tempo intercorso tra le ore 20:58 e le 21:02.

AWACS. In quelle ore, un aereo radar AWACS, un quadrireattore Boeing E-3A Sentry, dell'USAF, uno degli unici due presenti in Europa nel 1980, basati a Ramstein (Germania) dall'ottobre del 1979, risulta orbitante con rotta circolare nell'area a nord di Grosseto. Dotato dell'avanzatissimo radar 3D Westinghouse AN/APY-1 con capacità "Look down", in grado di distinguere i velivoli dagli echi del terreno, era in condizione di monitorare tutto il traffico, anche di bassa quota, per un raggio di 500 km.

Portaerei Saratoga. L'ammiraglio James Flatley al comando della portaerei USS Saratoga della US Navy, ancorata il 27 giugno 1980 nel golfo di Napoli, dopo aver inizialmente dichiarato che «dalla Saratoga non fu possibile vedere nulla perché tutti i radar erano in manutenzione», successivamente cambiò versione: disse che nonostante fossero in corso lavori di manutenzione dei radar, uno di essi era comunque in funzione ed aveva registrato «un traffico aereo molto sostenuto nell'area di Napoli, soprattutto in quella meridionale». A detta dell'ammiraglio, si videro passare «moltissimi aerei». I registri radar della Saratoga sono andati persi. Secondo altre fonti, la Saratoga non si trovava affatto in rada a Napoli il 27 giugno 1980.

Civilavia e Centro bolognese. Le stazioni radar di Civilavia e di Centro bolognese si occupavano di registrare tutti i voli nazionali ed internazionali civili, commerciali e militari, per poi procedere alla stampa e alla fatturazione dei costi di ogni passaggio aereo a ciascuna compagnia, società o autorità competente. I nastri con le registrazioni dei voli, decrittati e stampati, furono acquisiti dal giudice istruttore.

Radar russo. Nell'aprile del 1993 il generale Yuri Salimov, in forza ai servizi segreti russi, affermò di aver seguito i fatti di Ustica attraverso un radar russo basato in Libia che, con l'ausilio di un satellite, era in grado di monitorare il mar Tirreno meridionale.

Il traffico aereo. Diversi elementi portarono gli inquirenti ad indagare sull'eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Si determinarono con certezza alcuni punti:

In generale la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni NATO.

Furono inoltre accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.

Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (non si dimentichi che dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO, tollerava tali attraversamenti e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso gli aerei libici si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese NATO.

Diverse testimonianze, inoltre, avevano descritto l'area come soggetta a improvvisa comparsa di traffico militare statunitense. Un traffico di tale intensità da far preoccupare piloti, civili e controllori: poche settimane prima della tragedia di Ustica, un volo Roma-Cagliari aveva deciso per sicurezza di tornare all'aeroporto di partenza; in altre occasioni i controllori di volo avevano contattato l'addetto aeronautico dell'ambasciata USA per segnalare la presenza di aerei pericolosamente vicini alle rotte civili. Più specificamente, durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l'esercitazione aerea USA "Patricia", ed era poi in corso un'esercitazione italiana h. 24 (cioè della durata di ventiquattro ore) a Capo Teulada, segnalata nei NOTAM.

Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00 locali, erano testimoniati diversi voli nell'area da parte di aerei militari non appartenenti all'aeronautica militare italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (aereo AWACS o aereo radar), che volava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet executive militare e vari Lockheed P-3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa tirrenica, diretto a sud.

Inoltre, sembra che in quei giorni (ed anche quella sera) alcuni cacciabombardieri F-111 dell'USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna), si stessero trasferendo verso l'Egitto all'aeroporto di Cairo West, lungo una rotta che attraversava la penisola italiana in prossimità della costa tirrenica, con l'appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l'Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli.

Intensa e insolita attività di volo fino a tarda sera era testimoniata anche dal generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell'Armée de l'air francesi: ciò smentiva i vertici militari francesi, i quali avevano affermato ai magistrati italiani di non aver svolto con la loro aeronautica militare alcuna attività di volo nel pomeriggio del 27 giugno 1980.

La sera della strage di Ustica, quattro aerei volavano con lo stesso codice di transponder. Il DC-9 Itavia aveva come codice il n. 1136 e altri tre velivoli, di cui uno sicuramente militare, erano dotati dello stesso numero di riconoscimento.

Dalla perizia tecnico-radaristica risulta che trenta aerei supersonici militari, difensori e attaccanti, sorvolarono la zona di Ustica nel pomeriggio e alla sera del 27 giugno 1980, dalle 17:30 alle 21:15, per 3 ore e 45 minuti. Gli aerei militari avevano tutti il transponder spento per evitare di essere identificati dai radar. Un'esercitazione d'aviazione di marina, come ha detto l'ammiraglio James H. Flatley, nella sua prima versione e che conferma la presenza di una portaerei che raccolse i propri aerei.

Intensa attività militare. Successivamente, all'inizio dell'agosto 1980, oltre a vari relitti furono ritrovati in mare anche due salvagenti e un casco di volo della marina americana; a settembre, presso Messina, si rinvennero frammenti di aerei bersaglio italiani, che sembrano però risalenti a esercitazioni terminate nel gennaio dello stesso anno. Questi dati evidenziano che nell'area tirrenica, in quel periodo del 1980, si svolgeva un'intensa attività militare. Inoltre, benché molti di questi fatti, se presi singolarmente, appaiano in relazione diretta con la caduta del DC-9, si è notata da alcuni la coincidenza temporale dell'allarme degli F-104 italiani su Firenze, al momento del passaggio del DC-9, dell'esistenza di tracce radar non programmate che transitano ad oltre 600 nodi in prossimità dell'aereo civile, della pluritestimonianza dell'inseguimento tra aerei da caccia sulla costa calabra e, infine, delle attività di ricerca, in una zona a 20 miglia ad est del punto di caduta, effettuate da velivoli non appartenenti al Soccorso aereo Italiano.

Due aerei militari italiani danno l'allarme. Due F-104 del 4º Stormo dell'aeronautica militare italiana, di ritorno da una missione di addestramento sull'aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l'avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con un allievo ai comandi; l'altro, un TF 104 Gbiposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20:24, all'altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell'aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo) e nella registrazione radar di Poggio Ballone «il SOS-SIF è [...] settato a 2, ovvero emergenza confermata, ed il blink è settato ad 1, ovvero accensione della spia di Alert sulle consolles degli operatori» – in linguaggio corrente: «il segnale di allarme-SIF (Selective Identification Feature, caratteristica di identificazione selezionabile) è posizionato su 2, ossia emergenza confermata, ed il lampeggìo è posizionato su 1, ossia accensione della spia di allarme sulla strumentazione degli operatori» – quindi risulta che Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. I significati di tali codici, smentiti o sminuiti di importanza da esperti dell'aeronautica militare italiana ascoltati in qualità di testi, furono invece confermati in sede della Commissione ad hoc della NATO, da esperti dell'NPC (NATO Programming Centre), i quali difatti hanno affermato nel loro rapporto del 10 marzo 1997: « Varie volte è stato dichiarato lo stato di emergenza confermata relativa alla traccia LL464/LG403 sulla base del codice SIF1 73, che all'epoca del disastro veniva usato come indicazione di emergenza. La traccia ha attraversato la traiettoria del volo del DC-9 alle 18:26, ed è stata registrata per l'ultima volta nei pressi della base aerea di Grosseto alle 18:39». L'aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell'emergenza. Né l'aeronautica militare italiana né la NATO hanno mai chiarito le ragioni di quell'allarme.

Il MiG-23 precipitato in Calabria. Il 18 luglio 1980 la carcassa di un MiG-23MS dell'Aeronautica militare libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano, crotonese (allora in provincia di Catanzaro), in Calabria, dalla popolazione locale. Il Giudice Istruttore ipotizzò una correlazione del fatto con la caduta del DC-9 Itavia, in quanto furono depositate agli atti delle testimonianze di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", che affermavano di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, il periodo cioè della caduta del DC-9 Itavia. Si teorizzò quindi che il caccia libico non fosse caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (cioè 18 luglio), ma molto prima, probabilmente la stessa sera della strage, e che quindi il velivolo fosse stato coinvolto, attivamente o passivamente, nelle circostanze che condussero alla caduta dell'aereo Itavia. I sottufficiali Nicola De Giosa e Giulio Linguanti dissero altresì che la fusoliera del MiG era sforacchiata «come se fosse stata mitragliata» da «sette od otto fori da 20 mm» simili a quelli causati da un cannoncino. La perizia eseguita nel corso dell'istruttoria del giudice Vittorio Bucarelli fece bensì emergere elementi che vennero interpretati come coerenti con la tesi che l'aereo fosse precipitato proprio il 18 luglio: dalle testimonianze dei Vigili del Fuoco e dai Carabinieri accorsi sul luogo dello schianto e dal primo esame del medico legale si evinse che il pilota era morto da poco; il paracadute nel quale era parzialmente avvolto era sporco di sangue e il cadavere (non ancora in rigor mortis) riportava ferite in cui era visibile del sangue che iniziava a coagularsi. In aggiunta fu riportato che dai rottami del MiG usciva il fumo di un principio di incendio (subito domato dai Vigili del Fuoco). Per contro tali affermazioni vennero confutate dal professor Zurlo, che in una lettera scritta con il dottor Rondanelli e inviata nel 1981 alla sede dell'Itavia affermò che il cadavere pilota del MiG era in avanzato stato di decomposizione, tale da suggerire una morte avvenuta almeno 20 giorni prima del 23 luglio. A gennaio 2016 un’inchiesta del canale televisivo francese Canal+ addebitò la responsabilità dell'abbattimento dell'aereo Itavia ad alcuni caccia francesi impegnati in un'operazione militare sul mar Tirreno: secondo la ricostruzione proposta, un velivolo estraneo si sarebbe nascosto ai radar volando sotto il DC-9, non riuscendo però ad evitare l'intercettazione da parte dei suddetti caccia francesi, che nel tentativo di attaccarlo avrebbero inizialmente colpito per errore l'I-TIGI. Il velivolo nascosto sarebbe poi comunque stato colpito e infine sarebbe precipitato in Calabria, venendo quindi identificato col MiG caduto a Timpa delle Magare. Le ipotesi del documentario vennero però presto confutate dai documenti di anni di indagini e perizie, come dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore. Tra le testimonianze che datano la caduta del MiG al giorno stesso della strage di Ustica, il 27 giugno, si annovera quella dell'ex caporale Filippo Di Benedetto e alcuni suoi ex commilitoni; la tesi è sostenuta dal maresciallo Giulio Linguanti e dal giudice istruttore Rosario Priore, che a sua volta trovò una serie di testimoni che riferirono di aver visto il 27 giugno 1980 due caccia che ne inseguivano un terzo, sparando con il cannoncino, lungo una rotta che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano.

La tesi della bomba. Il giorno dopo il disastro, alle 12:10, una telefonata al Corriere della Sera annunciò a nome dei Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terrorista neofascista, che l'aereo era stato fatto esplodere con una bomba da loro posta nella toilette, da uno dei passeggeri: tal Marco Affatigato (imbarcato sotto falso nome), membro dei NAR che - invece - era in quei mesi al servizio dell'intelligence francese e che, nel settembre dello stesso anno, rientrato in Italia, venne recluso nel carcere di Ferrara. Affatigato, però, sconfessò rapidamente la telefonata: per rassicurare la madre chiese alle Digos di Palermo e di Lucca di smentire la notizia della sua presenza a bordo dell'aereo precipitato. Circa un mese dopo ci fu la strage di Bologna. In entrambi i casi, Bologna era la città in cui avrebbero colpito i NAR ma per tutti e due i casi Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ai vertici del gruppo terrorista, smentirono un coinvolgimento dell'organizzazione negli eventi, come la smentì il colonnello Amos Spiazzi dopo aver conosciuto in carcere Marco Affatigato. Vi è quindi chi ipotizza un depistaggio nel depistaggio, ovvero che la strage di Bologna sia servita ad avvalorare la tesi della bomba dei NAR collocata all'interno dell'aereo.

La tesi della bomba avrebbe diviso anche i periti incaricati dal giudice Vittorio Bucarelli di analizzare i resti ripescati dal fondale marino: un primo momento li vide concordi all'unisono circa il missile; successivamente, due dei cinque tecnici avrebbero cambiato versione propendendo per la bomba. La bomba sarebbe stata collocata durante la sosta nell'aeroporto di Bologna, nella toilette posteriore dell'aereo. La perizia sulle suppellettili del gabinetto ritrovate ha confermato che erano intatte la tavoletta del water e il lavandino: inoltre secondo gli specialisti britannici del Dra di Halstead, nessuno dei pezzi della toilette, water e lavandino è scheggiato da residui di esplosivo. Inoltre il giudice osservò come fosse possibile collocare una bomba su un aereo partito con due ore di ritardo, avendo la certezza che sarebbe esplosa in volo, invece che a terra.

I dialoghi registrati.

Alle 20:58 di quella sera, nella registrazione di un dialogo tra due operatori radar a Marsala, seduti di fronte allo schermo radar, si sentì uno dei due esclamare: «[...] Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!» e poco dopo anche «Quello ha fatto un salto da canguro!»

Alle 22:04 a Grosseto gli operatori radar non si accorsero che il contatto radio con Ciampino era rimasto aperto e che le loro voci venivano registrate. Nella registrazione si sente: «[...] Qui, poi... il governo, quando sono americani...»

e quindi: «Tu, poi... che cascasse...» e la risposta: «È esploso in volo!»

Alle 22:05, a Ciampino, gli operatori, parlando del radar di Siracusa, dissero: «[...] Stavano razzolando degli aerei americani... Io stavo pure ipotizzando una collisione in volo.» ed anche: «Sì, o...di un'esplosione in volo!»

I nastri telefonici e le testimonianze in aula. «Allora io chiamo l'ambasciata, chiedo dell'attaché... eh, senti, guarda: una delle cose più probabili è la collisione in volo con uno dei loro aerei, secondo me, quindi...» (27 giugno 1980, ore 22:39 locali. Dalla telefonata tra Ciampino e l'ambasciata USA). Nel 1991 gli inquirenti entrarono in possesso solo di una piccola parte dei nastri delle comunicazioni telefoniche fatte quella notte e la mattina seguente. La maggior parte di tali nastri è andata perduta, in quanto erano stati riutilizzati sovraincidendo le registrazioni. Dall'analisi dei dialoghi emerse che la prima ipotesi fatta dagli ufficiali dell'aeronautica militare italiana era stata la collisione e che in tal senso avevano intrapreso azioni di ricerca di informazioni, sia presso vari siti dell'aeronautica sia presso l'ambasciata USA a Roma. Più volte si parlava di aerei americani che "razzolano", di esercitazioni, di collisione ed esplosione, di come ottenere notizie certe al riguardo. Tutto il personale che partecipava alle telefonate venne identificato tramite riconoscimenti e incrocio di informazioni. Solo dopo il rinvenimento di quei nastri, si ammise per la prima volta di aver contattato l'ambasciata USA o di aver parlato di "traffico americano"; prima era sempre stato negato. Le spiegazioni fornite dagli interessati durante deposizioni e interrogatori contrastano comunque con il contenuto delle registrazioni o con precedenti deposizioni.

Udienza del 21 febbraio 2001: PM - «Furono fatte delle ipotesi sulla perdita del DC-9 in relazione alle quali era necessario contattare l'ambasciata americana?» Chiarotti - «Assolutamente no, per quello che mi riguardi [...] La telefonata fu fatta per chiedere se avessero qualche notizia di qualsiasi genere che interessasse il volo dell'Itavia, [...]».

Udienza del 7 febbraio 2001: capitano Grasselli - «Normalmente chiamavamo l'ambasciata americana per conoscere che fine avevano fatto dei loro aerei di cui perdevamo il contatto. Non penso però che quella sera la telefonata all'ambasciata americana fu fatta per sapere se si erano persi un aereo. Ho ritenuto la telefonata un'iniziativa goliardica in quanto tra i compiti del supervisore non c'è quello di chiamare l'ambasciata [...]».

Deposizione del 31 gennaio 1992 del colonnello Guidi: - «Ho un ricordo labilissimo anzi inesistente di quella serata. Nessuno in sala operativa parlava di traffico americano, che io ricordi. [...] pensando che l'aeromobile avesse tentato un ammaraggio di fortuna, cercavamo l'aiuto degli americani per ricercare e salvare i superstiti». Una volta fatta ascoltare in aula la telefonata all'ambasciata, Guidi affermò di non riconoscere la propria voce nella registrazione e ribadì che non ricordava la telefonata. Nel 1991 affermava: «Quella sera non si fece l'ipotesi della collisione» e ancora «Non mi risulta che qualcuno mi abbia parlato d'intenso traffico militare [...]. Se fossi stato informato di una circostanza come quella dell'intenso traffico militare, avrei dovuto informare nella linea operativa l'ITAV, nella persona del capo del II Reparto, ovvero: Fiorito De Falco». Nel nastro di una telefonata delle 22:23 Guidi informò espressamente il suo diretto superiore, colonnello Fiorito De Falco, sia del traffico americano, sia di un'ipotesi di collisione, sia del contatto che si cercava di stabilire con le forze USA. Ma nella deposizione dell'ottobre 1991, anche il generale Fiorito De Falco affermava: «[...] Guidi non mi riferì di un intenso traffico militare».

Le morti sospette secondo l'inchiesta Priore. «La maggior parte dei decessi che molti hanno definito sospetti, di sospetto non hanno alcunché. Nei casi che restano si dovrà approfondire [...] giacché appare sufficientemente certo che coloro che sono morti erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato e da questo peso sono rimasti schiacciati.» (Ordinanza-sentenza Priore, capo 4, pag. 4674).

Per due dei 12 casi di decessi sospetti permangono indizi di relazione al caso Ustica:

maresciallo Mario Alberto Dettori: trovato impiccato il 31 marzo 1987, in un modo definito dalla Polizia Scientifica innaturale, presso Grosseto. Mesi prima, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. Vi sono indizi che fosse in servizio la sera del disastro presso il radar di Poggio Ballone (GR) e che avesse in seguito sofferto di «manie di persecuzione» relativamente a tali eventi. Confidò alla moglie: «Sono molto scosso... Qui è successo un casino... Qui vanno tutti in galera!». Dettori confidò con tono concitato alla cognata che «eravamo stati a un passo dalla guerra». Tre giorni dopo telefonò al capitano Mario Ciancarella e disse: «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi [...]. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle». Il giudice Priore conclude: «Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova».

maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995, era di turno la mattina del 18 luglio 1980, data del ritrovamento del MiG libico sulla Sila. Proprio riguardo alla vicenda del MiG erano emerse durante il suo primo esame testimoniale palesi contraddizioni; citato a ricomparire in tribunale, muore pochi giorni dopo aver ricevuto la convocazione. Non si riesce a stabilire se si tratti di omicidio.

Gli altri casi presi in esame dall'inchiesta, sono:

colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito assunto il comando dell'aeroporto di Grosseto.

capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM (Centro Radar Aeronautica Militare Italiana) di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo «di grande utilità all'inchiesta», visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era molto probabilmente in servizio il maresciallo Dettori. La morte appare naturale, nonostante la giovane età.

Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale; 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell'incidente del DC-9 all'aeroporto di Grosseto. L'incidente in cui perde la vita, peraltro, appare casuale.

maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale; 12 agosto 1988. Era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, tuttavia non si sa se fosse a conoscenza d'informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del MiG libico.

colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli: incidente di Ramstein, 28 agosto 1988. In servizio presso l'aeroporto di Grosseto all'epoca dei fatti, la sera del 27 giugno, come già accennato, erano in volo su uno degli F-104 e lanciarono l'allarme di emergenza generale. La loro testimonianza sarebbe stata utile anche in relazione agli interrogatori del loro allievo, in volo quella sera sull'altro F-104, durante i quali, secondo l'istruttoria, è «apparso sempre terrorizzato». Sempre secondo l'istruttoria, appare sproporzionato - tuttavia non inverosimile - organizzare un simile incidente, con esito incerto, per eliminare quei due importanti testimoni.

maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell'aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il MiG libico, ma non ci sono certezze.

tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo; 2 febbraio 1992. Marcucci era un ex pilota dell'Aeronautica militare coinvolto come testimone nell'inchiesta per la strage di Ustica. L'incidente fu archiviato motivando l'errore del pilota. Tuttavia, nel 2013 il pm di Massa Carrara, Vito Bertoni, riaprì l'inchiesta contro ignoti per l'accusa di omicidio. L'associazione antimafia “Rita Atria” denunciò che l'incidente non fu causato da una condotta di volo azzardata, come sostennero i tecnici della commissione di inchiesta, ma probabilmente da una bomba al fosforo piazzata nel cruscotto dell'aereo.

maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale; 2 febbraio 1992. In servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sull'abbattimento del MiG. Le indagini propendono per la casualità dell'incidente.

generale Roberto Boemio: omicidio; 12 gennaio 1993 a Bruxelles. Da sue precedenti dichiarazioni durante l'inchiesta, appare chiaro che «la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità», sia per determinare gli eventi inerenti al DC-9, sia per quelli del MiG libico. La magistratura belga non ha risolto il caso.

maggiore medico Gian Paolo Totaro: trovato impiccato alla porta del bagno, il 2 novembre 1994. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali Nutarelli e Naldini.

Il rinvio a giudizio. Alla luce di queste anomalie inspiegate e delle risposte, da parte del personale dei due siti radar di Marsala e Licola, ritenute insoddisfacenti, il 28 giugno 1989il giudice Bucarelli accolse la richiesta del procuratore Santacroce e rinviò a giudizio per falsa testimonianza aggravata e concorso in favoreggiamento personale aggravato, ventitré tra ufficiali e avieri in servizio il giorno del disastro. L'ipotesi accusatoria fu che i militari, con una vasta operazione di occultamento delle prove e di depistaggio, avrebbero tentato di nascondere una battaglia tra aerei militari, nel corso della quale il DC-9 sarebbe precipitato.

Telefonata anonima a Telefono Giallo. Nel 1988, l'anno prima, durante la trasmissione Telefono giallo di Corrado Augias, con una telefonata anonima qualcuno aveva dichiarato di essere stato «un aviere in servizio a Marsala la sera dell'evento della sciagura del DC-9». L'anonimo aveva riferito che i presenti come lui, avrebbero esaminato le tracce, i dieci minuti di trasmissione di cui parlavano nella puntata, dichiarando: «noi li abbiamo visti perfettamente. Soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse praticamente di farci gli affari nostri e di non avere più seguito in quella vicenda. [...] la verità è questa: ci fu ordinato di starci zitti».

Scontro aereo tra caccia. In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'Ora il 12 febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta affermò che l'autore della telefonata sarebbe stato in effetti in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, e che avrebbe detto in trasmissione di essere a Marsala per non farsi riconoscere. Avrebbe rivelato la sua identità rilasciando l'intervista anni dopo essere andato in pensione in quanto, come aveva affermato, non si sentiva più vincolato dall'obbligo di mantenere il segreto militare. L'articolo parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un MiG-23 libico. Secondo questa versione, il SISMI all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI, l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.

Testimonianze americane. Ventiquattr'ore dopo il disastro del DC-9, l'addetto militare aeronautico americano Joe Bianckino, dell'ambasciata americana a Roma, organizzò una squadra di esperti, formata da William McBride, Dick Coe, William McDonald, dal direttore della CIA a Roma, Duane Clarridge, dal colonnello Zeno Tascio, responsabile del SIOS (servizio segreto aeronautica militare italiana) insieme a due ufficiali italiani. Il giorno successivo alla strage Joe Bianckino era già in possesso dei tabulati radar e i suoi esperti li avevano sottoposti ad analisi. John Tresue, esperto missilistico del Pentagono, affermò, durante il suo interrogatorio come testimone, che gli furono consegnate dopo la sciagura, diverse cartelle con i tabulati dei radar militari; John Tresue informò il Pentagono, che ad abbattere il DC-9 era stato un missile. Il 25 novembre 1980, John Macidull, un esperto americano del National Transportation Safety Board, analizzò il tracciato radar dell'aeroporto di Fiumicino e si convinse che, al momento del disastro, accanto al DC-9 volava un altro aereo. Macidull disse che il DC-9 era stato colpito da un missile lanciato dal velivolo che era stato rilevato nelle vicinanze, velivolo non identificato in quanto aveva volontariamente spento il dispositivo di riconoscimento (transponder). Tale aereo, secondo Macidull, attraversava la zona dell'incidente da Ovest verso Est ad alta velocità, tra 300 e 550 nodi, nello stesso momento in cui si verificava l'incidente al DC-9, ma senza entrare in collisione.

Testimonianze libiche. Nel 1989 l'agenzia di stampa libica Jana preannunciò la costituzione di un comitato supremo d'inchiesta sulla strage di Ustica: «Tale decisione è stata presa dopo che si è intuito che si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l'aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione.

La firma falsa del presidente della Repubblica. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sull'incidente aereo, venne cacciato dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Tuttavia il decreto non era stato firmato veramente dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma da un soggetto esterno che ha falsificato la sua firma. In seguito a questa scoperta, è stato richiesto il reintegro del capitano Mario Ciancarella al ministro della difesa Roberta Pinotti.

Il processo della strage di Ustica. Il processo sulle cause e sugli autori della strage in realtà non si è mai tenuto in quanto l'istruttoria relativa definì "ignoti gli autori della strage" e concluse con un non luogo a procedere nel 1999. (ref. "L'istruttoria Priore") Il reato di strage non cade comunque in prescrizione per cui, se dovessero emergere nuovi elementi relativi, un eventuale processo potrebbe essere ancora condotto. Il processo complementare sui fatti di Ustica, per la parte riguardante i reati di depistaggio, imputati a carico di alti ufficiali dell'aeronautica militare italiana, è stato invece definitivamente concluso in Cassazione nel gennaio del 2007, con una sentenza che ha negato si siano verificati depistaggi.

L'istruttoria Priore. Le indagini si conclusero il 31 agosto 1999, con l'ordinanza di rinvio a giudizio-sentenza istruttoria di proscioglimento, rispettivamente, nei procedimenti penali nº 527/84 e nº 266/90, un documento di dimensioni notevoli che, dopo anni di indagini, la quasi totale ricostruzione del relitto, notevole impiego di fondi, uomini e mezzi, escluse le ipotesi di una bomba a bordo e di un cedimento strutturale, circoscrivendo di conseguenza le cause della sciagura ad un evento esterno al DC-9. Non si giunse però a determinare un quadro certo ed univoco di tale evento esterno. Mancano tuttora, del resto, elementi per individuare i responsabili. «L'inchiesta», si legge nel documento, «è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell'ambito dell'aeronautica militare italiana che della NATO, le quali hanno avuto l'effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto». L'ordinanza-sentenza concludeva: «L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.»

Il processo in Corte di Assise sui presunti depistaggi. Il 28 settembre 2000, nell'aula-bunker di Rebibbia appositamente attrezzata, iniziò il processo sui presunti depistaggi, davanti alla terza sezione della Corte di Assise di Roma. Dopo 272 udienze e dopo aver ascoltato migliaia tra testimoni, consulenti e periti, il 30 aprile 2004, la corte assolse dall'imputazione di alto tradimento - per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo - i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio "per non aver commesso il fatto". I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri furono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato era già caduto in prescrizione. Anche per molte imputazioni relative ad altri militari dell'Aeronautica Militare Italiana (falsa testimonianza, favoreggiamento, e così via) fu accertata l'intervenuta prescrizione. Il reato di abuso d'ufficio, invece, non sussisteva più per successive modifiche alla legge. La sentenza non risultò soddisfacente né per gli imputati Bartolucci e Ferri, né per la Procura, né infine per le parti civili. Tutti, infatti, presentarono ricorso in appello.

Il processo in Corte di Assise d'Appello, sui depistaggi. Anche il processo davanti alla Corte di Assise d'Appello di Roma, aperto il 3 novembre 2005, si è chiuso il successivo 15 dicembre con l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta perché il fatto non sussiste. La Corte rilevava infatti che non vi erano prove a sostegno dell'accusa di alto tradimento. Le analisi condotte nella perizia radaristica Dalle Mese, sono state eseguite con «sistemi del tutto nuovi e sconosciuti nel periodo giugno-dicembre 1980» e pertanto non possono essere prese in considerazione per giudicare di quali informazioni disponessero, all'epoca dei fatti, gli imputati. In ogni caso la presenza di altri aerei deducibile dai tracciati radar non raggiunge in alcuna analisi il valore di certezza e quindi di prova. Non vi è poi prova che gli imputati abbiano ricevuto notizia della presenza di aerei sconosciuti o USA collegabili alla caduta del DC-9.

Il ricorso in Cassazione (procedimento penale). La Procura generale di Roma propose ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello del 15 dicembre 2005, e come effetto dichiarare che «il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato» anziché «perché il fatto non sussiste». La legge inerente all'alto tradimento venne infatti modificata con decreto riguardante i reati d'opinione l'anno successivo. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale e rigettando anche il ricorso presentato dal governo italiano.

Le dichiarazioni di Cossiga: ipotesi francese e nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, la procura di Roma ha deciso di riaprire una nuova inchiesta a seguito delle dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, presidente del Consiglio all'epoca della strage, ha dichiarato che ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau, e che furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. In relazione a ciò, il giudice Priore dichiarò in un'intervista all'emittente francese France 2 che l'ipotesi più accreditata era che ci fosse un elemento militare francese.

Perizie d'ufficio e consulenze tecniche di parte. Volendo fare una breve sintesi dell'enorme numero di perizie d'ufficio e consulenze di parte, oltre un centinaio al termine del 31 dicembre 1997, possiamo ricordare: perizie tecnico-scientifiche: necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico-frattografiche, esplosivistiche, che non sono mai state contestate da alcuna parte.

Sono state essenzialmente quattro:

Stassi, Albano, Magazzù, La Franca, Cantoro, riguardanti le autopsie dei cadaveri ritrovati, durata anni, non s'è mai pienamente conclusa;

Blasi, riguardante il missile militare che ha colpito l'aereo civile, durata molti anni, è sfociata in spaccature profondissime e mai risolte;

Misiti, riguardante l'ipotesi bomba, durata più anni, è stata rigettata dal magistrato perché affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile ai fini della ricostruzione della verità;

Casarosa, Dalle Mese, Held, concernente la caduta del MiG-23.

Perizie d'ordine generale ovvero quelle con quesiti sulla ricostruzione dei fatti e sulle loro cause, che sono state sottoposte a critiche, contestazioni ed accuse:

radaristiche che hanno determinato documenti di parte critici e contrastati, in particolare l'interpretazione dei dati radar ovvero l'assenza o la presenza di altri velivoli all'intorno temporale e spaziale del disastro;

esplosivistica, dalle cui sperimentazioni sono state tratte deduzioni di parte a volte non coincidenti.

Le dichiarazioni di Giorgio Napolitano. L'8 maggio 2010, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, ha chiesto la verità sulla strage di Ustica. Poco prima Fortuna Piricò, vedova di una delle vittime della strage, aveva chiesto di «completare la verità giudiziaria che ha parlato di una guerra non dichiarata, di completarla definendo le responsabilità». Una richiesta che Napolitano ha appoggiato: «Comprendo il tenace invocare di ogni sforzo possibile per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne quella notte». Intorno a quella strage, Napolitano ha visto «anche forse intrighi internazionali, [...] opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato». Poco tempo dopo, il 26 giugno 2010, in occasione del trentennale del disastro, il Presidente ha inviato un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime: «Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili... Occorre il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni.». Anche in occasione del trentunesimo anniversario della strage, il 27 giugno 2011, il presidente Napolitano ha lanciato un appello perché si compia ogni sforzo, anche internazionale, per dare risposte risolutive.

Il Memorandum e le intercettazioni di Massimo Carminati. Il 2 settembre 2014, sono stati rivelati gli appunti segreti, le informative e i carteggi segreti del Ministero degli Affari Esteri, contenuti nel Memorandum che ha per oggetto la strage di Ustica in relazione alle questioni informative aperte con gli Stati Uniti. Sempre nel 2014, stando ad alcune intercettazioni emerse durante le indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale uno dei boss della cupola mafiosa, Massimo Carminati, conversando con un suo collaboratore avrebbe affermato che «la responsabilità di Ustica era degli Stati Uniti».

Condanna in sede civile dei ministeri dell'interno e dei trasporti. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 (quarantadue) familiari delle vittime della Strage di Ustica. Alla luce delle informazioni raccolte durante il processo, i due ministeri sono stati condannati per non aver agito correttamente al fine di prevenire il disastro, non garantendo che il cielo di Ustica fosse controllato a sufficienza dai radar italiani, militari e civili (alché non fu garantita la sicurezza del volo e dei suoi occupanti), e per aver successivamente ostacolato l'accertamento dei fatti. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra, dipanatasi senza che nessuno degli enti controllori preposti intervenisse. La sentenza individuò inoltre responsabilità e complicità di soggetti dell'Aeronautica Militare Italiana nel perpetrare atti illegali finalizzati a impedire l'accertamento della corretta dinamica dei fatti che condussero alla strage. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. La sentenza fu accolta favorevolmente dall'associazione dei familiari delle vittime. Il 30 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero.

Risarcimento danni all'Itavia e ai suoi dipendenti. Aldo Davanzali, anche se formalmente non per motivi direttamente correlati alla sciagura, perse la compagnia aerea Itavia, che cessò di volare e fu posta in amministrazione controllata nel 1980, con i conti in rosso, previa revoca della licenza di operatore aereo: un migliaio di dipendenti restarono senza lavoro. Probabilmente anche l'errata conclusione peritale in merito ai motivi del disastro influì sulla decisione di chiudere la società. Lo stesso Davanzali chiese allo Stato un risarcimento di 1 700 miliardi di lire per i danni morali e patrimoniali subìti a seguito della strage di Ustica, nell'aprile 2001. All'Itavia saranno infine corrisposti 108 milioni di euro, a risarcimento delle deficienze dello Stato nel garantire la sicurezza dell'aerovia su cui volava il DC-9.

Risarcimento recupero carcassa del DC-9. La Corte dei Conti richiese un risarcimento di 27 miliardi di lire a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.

Risarcimento vittime. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha riconosciuto un risarcimento di 1,2 milioni di euro ai familiari di quattro vittime della strage di Ustica. Il giudice di Palermo, il 9 ottobre 2014, ha condannato il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti, a rimborsare le spese di giudizio e a risarcire con 5 637 199 euro, 14 familiari o eredi, di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi morti nella tragedia aerea di Ustica.

Ustica, sul Dc9 abbattuto la summa dei depistaggi, simbolo delle stragi italiane. Si sa tutta la verità sull'abbattimento dell'aereo Itavia in quel giugno 1980? Scrive Beppe Crespolini l'1 luglio 2017 su "Bergamo news". Le stragi ed alcuni fatti gravissimi accaduti in Italia, alludo, ad esempio, all’omicidio Moro, alle stragi di Bologna e di Brescia, sono soggetti a depistaggi e a inquinamenti di prove che allontanano la verità e lasciano in testa il dubbio che non tutto sia stato detto per coprire personaggi, istituzioni e azioni di paesi ai quali in quei giorni ed ancora oggi, non si vogliono attribuire, per convenienze politiche e strategiche, responsabilità. Connivenze di servizi segreti, di politici e interessi che volano molto al di sopra delle teste dei cittadini comuni rappresentano quella ragion di stato che piange davanti alle telecamere dopo aver condiviso la responsabilità dei morti con altre realtà e aver architettato sordide coperture agli autori dei misfatti. Vien da chiedersi se l’etica abbia mai sfiorato coloro che siedono nelle famigerate “stanze dei bottoni” o se la ragione di stato autorizzi il sacrificio di molte persone o di un solo cittadino per compiacere alleati ritenuti utili in un’ottica che a noi non è dato di comprendere. In questi giorni ricorre un nuovo triste anniversario il cui racconto sintetizzo per ragioni di cronaca, perché non venga dimenticato il dolore inflitto alle famiglie delle 81 persone che hanno perso la vita in quel lontano 27 giugno del 1980. Sono le ore 20,08 del 27 giugno 1980. Il DC9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia scompare dall’aerovia Ambra 13. Dopo l’ultimo contatto radio, avvenuto alle 20,59 con Roma e la successiva autorizzazione ad iniziare la discesa verso Palermo, l’aereomobile non dà più segnali. I tentativi di comunicare con il comandante sono vani. Anche due aerei di Air Malta, il KM 153 e il KM 758 che seguono la stessa rotta, tentano di mettersi in contatto con il volo Itavia I-TIGI. Nessuna risposta. Alle 21,56 si alza in volo il primo elicottero Sikorski per cercare il velivolo scomparso. Nessuna traccia viene trovata. L’aeromobile è dato per disperso e solo alle prime luci dell’alba si individua l’area di mare nel quale l’aereo, o quello che resta di lui, si è inabissato. Degli 83 passeggeri, dei quali 13 bambini, ne vengono ripescati solo 38. E qui inizia la ridda delle ipotesi e delle certezze alle quali seguono regolari smentite che indicano nel cedimento strutturale del velivolo prima, e nello scoppio di un ordigno a bordo successivamente, le cause del disastro. Una figura di spicco, anche in questo caso, così come nel caso Moro, sostiene tesi che poi verranno tutte cancellate mano a mano che le indagini proseguono: Francesco Cossiga. Anche Giovanardi fu sospettato di voler mettere a tacere “l’incidente” obbedendo, probabilmente, a qualche ordine impartito da ambienti ai quali non si può che dire sì. Furono investiti più di 300 miliardi di lire in indagini e ricuperi dal mare delle parti dell’aereo e continuarono per molto tempo a sovrapporsi tesi diverse, fino a che non si arrivò ad una prima ammissione di responsabilità che attribuiva la causa del disastro ad un missile sganciato da aerei francesi di stanza in Corsica. Ma anche questa ipotesi perse di credibilità fino a che si arrivò, con estrema difficoltà, ad ammettere che l’aereo di Itavia fu abbattuto da un caccia americano durante la battaglia con un Mig libico che viaggiava sotto la pancia del DC9, nel tentativo di far rientro alla base senza che nessuno lo individuasse. Il MIG libico fu abbattuto lo stesso giorno della scomparsa dai radar del DC9 Itavia, ma non fu il MIG a causarne la distruzione, bensì uno dei due caccia americani che ingaggiò il combattimento con l’aereo libico che stava rientrando alla base dopo la manutenzione effettuata in Iugoslavia. La tesi che ormai si dà per certa è che nell’inseguimento del MIG, il caccia predator americano sia entrato in collisione con il DC9 Itavia. Pare che i nostri servizi segreti fossero tacitamente consenzienti al passaggio sul nostro territorio del MIG nel viaggio di rientro alla base. Ma anche la data dell’abbattimento del Mig, in un primo momento, fu spostata, in modo tale da non mettere in relazione i due avvenimenti. Come sempre accade in presenza di fatti di gravità assoluta, si verificarono alcuni suicidi e morti “casuali” in incidenti stradali e per infarto tra i testimoni più vicini alla verità, durante lo svolgimento delle indagini. Negli scorsi mesi è uscita una pellicola che, personalmente, ritengo molto ben realizzata e rispettosa dello svolgimento dei fatti, per quanto sia consentito ad un film. Il titolo è Ustica, per la regia di Sergio Martinelli, regista lombardo specializzato proprio nella ricerca della verità sulle cause e sulle responsabilità di persone o “entità” che hanno provocato eventi tristissimi nella nostra Repubblica. Si può ancora parlare di Repubblica quando il destino di una nazione come la nostra è talmente condizionato da parentele con realtà extra-nazionali delle quali si tutelano gli interessi? Il prezzo da pagare è il depistaggio dei fatti e la creazione di barriere che devono impedire, nella mente di chi le crea, di arrivare a capo delle responsabilità se non in tempi biblici, con difficoltà enormi e con ulteriori sacrifici di vite umane. Così, ai morti di Ustica vanno aggiunte altre vittime, vale a dire, quelle persone che, per loro sfortuna, erano in possesso della verità, ragion per cui sono state “suicidate”, nel timore che riferissero i fatti così come si erano svolti. Le logiche politiche, talora, prescindono dalla vita e dalla morte della gente. Ci sono ancora tanti casi di disastri e di stragi aperti nella nostra nazione ma temo, ahimé, che difficilmente la verità, questa grande premessa etica della vita di tutti noi, potrà venire a galla nella sua cruda e nuda essenza. L’ affermazione della verità, dovere morale di qualsiasi essere umano degno di tale nome, porterebbe a galla responsabilità di persone e di istituzioni che negandola, si sono qualificati come schiavi al servizio della menzogna, per favorire stati amici o istituzioni indegne. Quando si compiono azioni criminali, immorali e irrispettose della dignità dei cittadini e della loro sicurezza, sarebbe auspicabile che le prove venissero immediatamente prodotte. Questo eviterebbe annosi processi e dispendio di milioni di euro o di lire, moneta di quel tempo, che avrebbero potuto essere destinati al benessere della gente. Ma da noi, le verità sono tante e si confondono, perché ognuno di coloro che le professa, per amore del proprio tornaconto o per imposizione di qualche entità più forte, si rende disponibile ad assecondare con servilismo le coperture depistanti. I modi per essere ringraziati sono molti e non sempre fatti di denaro. La garanzia della conquista del potere o del suo mantenimento è più gratificante di valige di denari, colorati di rosso, quel rosso sangue che campeggia anche nella nostra bandiera.

SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?

Ustica, la contro indagine: "il testimone fu eliminato con un sabotaggio". L'incidente delle Frecce tricolore dove perse la vita un testimone della vicenda di Ustica secondo i familiari non sarebbe stato un incidente, scrive Alessandro Raffa Esperto di Cronaca su "it.blastingnews.com" e curato da Pierluigi Crivelli il 4 luglio 2017. Sono trascorsi più di 37 anni dal quel tragico 27 Giugno 1980 in cui avvenne la strage di Ustica, tuttavia diversi aspetti della vicenda non sono stati ancora chiariti, e negli anni si sono moltiplicate le voci di quanti pensano ad un coinvolgimento dei servizi segreti. Diversi casi di suicidio accaduti a personaggi legati alla vicenda a vario titolo hanno fatto ipotizzare negli anni che in alcuni casi si potesse trattare di omicidi mascherati da suicidio, e secondo quanto sostengono i familiari di un pilota morto in seguito all'incidente di Ramstein, persino la strage in oggetto non sarebbe frutto del caso, ma della necessità di eliminare un testimone scomodo.

L'incidente di Ramstein. Con questo nome viene ricordato l'incidente aereo accaduto nell'Agosto 1988 durante un'esibizione delle "frecce tricolore" presso la base Nato di Ramstein, in Germania. Secondo la versione ufficiale un errore del pilota Ivo Nutarelli provocò un incidente che coinvolse tre aerei, due dei quali precipitarono in fiamme sulla pista, mentre un terzo cadde sulla folla, provocando 67 morti e oltre 300 feriti. A distanza di 29 anni una contro indagine della famiglia di Nutarelli sostiene però che non si sia trattato di un normale incidente, ma che questo sia stato frutto di un sabotaggio. E mediante un avvocato chiedono di riaprire il caso, almeno per riabilitare la posizione del pilota incolpato di essere il responsabile dell'errore umano che portò alla tragedia.

Nutarelli era un testimone di Ustica. La sera della strage di #ustica il pilota Nutarelli insieme al collega Naldini si erano alzati in volo dalla base di Grosseto e avevano volato sulla scia del Dc 9 Itavia della strage, fino a 10 minuti prima che questo cadesse nelle acque di Ustica. Durante il volo dagli aerei dei due piloti partirono due segnali di allarme, che avrebbero dato secondo quanto ricostruito in seguito dopo aver visto altri aerei da combattimento volare negli spazi destinati ai voli civili. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un velivolo libico, mentre secondo altri sarebbero stati aerei da guerra statunitensi o francesi. Quanto i due piloti avevano visto nei cieli lo riferirono al Colonnello Tedoldi, che alcune settimane dopo però perse la vita mentre viaggiava in automobile con la moglie ed i figli.

La contro inchiesta. Secondo l'avvocato Osnato, che segue la vicenda di Ustica per conto dei familiari delle vittime, Nutarelli ed il collega Naldini erano certamente al corrente di molteplici fatti riguardanti la strage di Ustica, cosa che trova riscontro anche nelle carte dei titolari dell'inchiesta, tuttavia il loro nome e la volontà di sentirli arrivano nell'aula del tribunale solo ad otto anni di distanza dai fatti, quando i due sono morti. Di quel volo purtroppo mancano le conversazioni radio tra i due velivoli e la base, in quanto trattandosi di un'esercitazione non erano previste conversazioni. La morte per i due piloti è arrivata due settimane dopo che i Carabinieri si erano recati alla base radar di Poggio Ballone per sequestrare i tracciati relativi al volo di Nutarelli e Naldini. E secondo l'avvocato non sarebbe un caso. "A Ramstein si è trattato di omicidio e non di un fortuito incidente", afferma senza mezzi termini.

Ustica, la Corte d'appello conferma il risarcimento da 17 milioni, scrive il 29/06/2017 “La Sicilia”. I giudici di secondo grado: "Ci fu depistaggio e il DC) fu abbattuto da un missile". Ma il depistaggio è prescritto, mentre resta in piedi l'indennizzo per "fatto illecito". Lo Stato dovrà risarcire oltre 17 milioni di euro a 29 familiari delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, che registrò 81 morti. E’ quanto ha stabilito, con una sentenza depositata ieri, la prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo rigettando l’appello che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato contro la sentenza di condanna emessa dal Tribunale civile di Palermo nel 2011. Secondo la Corte del capoluogo siciliano, resta accertato il depistaggio delle indagini svolte all’indomani del disastro aereo del Dc9 Itavia. Il velivolo, che da Bologna era diretto a Palermo, con ogni probabilità fu abbattuto da un missile e a parere dei giudici civili di Palermo i Ministeri della Difesa e dei Trasporti non assicurarono al volo adeguate condizioni di sicurezza. Per i giudici palermitani è esclusa l’ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo dell’aereo o di un cedimento strutturale, in linea, quindi, con lo scenario già tracciato dall’istruttoria conclusa nel '99 dal giudice Rosario Priore. (ANSA). La Corte d’Appello ha dichiarato la prescrizione del risarcimento per depistaggio, ma ha confermato il risarcimento da fatto illecito liquidando, complessivamente, in favore dei 29 familiari oltre 17 milioni e 400 mila euro di risarcimento. Alla somma dovranno essere detratti gli indennizzi già ricevuti dallo Stato.

Strage di Ustica: per la Corte d'Appello di Palermo l'aereo fu abbattuto da un missile, per il senatore Giovanardi la verità è un'altra, scrive "AvioNews" il 30 giugno 2017. E' stata depositata mercoledì 28 giugno 2017 la sentenza che conferma il risarcimento per i familiari delle vittime del DC-9 precipitato il 27 giugno 1980. (WAPA) - La prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo ha depositato mercoledì la sentenza con cui obbliga lo Stato a risarcire con oltre diciassette milioni di Euro i familiari delle 81 vittime della strage di Ustica. Secondo i giudici l'aereo DC-9 di Itavia decollato il 27 giugno 1980 da Bologna alla volta di Palermo e precipitato nel Mar Tirreno nel tratto compreso tra le isole di Ponza ed Ustica fu abbattuto probabilmente da un missile, ed i ministeri della Difesa e dei Trasporti non garantirono la sicurezza del volo. E' stato quindi rigettato l'appello dell'Avvocatura dello Stato contro la precedente condanna emessa dal Tribunale Civile di Palermo. Anche se il segreto di Stato non permette di ricostruire l'esatta dinamica dei fatti, soddisfazione è stata espressa dagli avvocati dei familiari delle vittime. Il senatore Carlo Giovanardi ha definito invece in una nota il sistema giuridico italiano "schizofrenico" con una verità processuale in ambito penale "nella quale si afferma, dopo anni di processo e centinaia di udienze, che su Ustica non c'è mai stata nessuna battaglia aerea e meno che mai è stato lanciato un missile" diversa da quella accertata dal Tribunale civile. Per Giovanardi è necessario stabilire la verità ed identificare i mandanti e gli esecutori che avrebbero collocato una bomba a bordo del velivolo. Per questa ragione il senatore chiede che sia tolto il segreto di Stato al carteggio tra il Governo e l'ambasciata italiana a Beirut nei mesi precedenti la strage che conterrebbe rivelazioni importanti per fare luce sulle ragioni dell'accaduto. 

Ustica, altre tre condanne in appello per lo Stato: 55 milioni per risarcire i familiari delle vittime. Decisione della prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, che segue la prima sentenza, sempre di condanna, riguardante i ministeri di Difesa e Trasporti, scrive il 10 luglio 2017. A distanza di 37 anni esatti dalla strage di Ustica arrivano nuove sentenze secondo cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire 45 familiari delle 81 vittime per complessivi 55 milioni di euro. È quanto ha deciso, depositando tre nuove decisioni, la Prima Sezione civile della Corte di Appello di Palermo. La strage, ricordiamolo, avvenne il 27 giugno 1980: lo scoppio in volo del Dc9 Itavia diretto da Bologna a Palermo provocò la morte di 81 persone. Lo scorso 28 giugno la stessa Corte aveva già condannato i due ministeri a risarcire altri 39 familiari dei passeggeri del Dc9 per ulteriori 17 milioni di euro. Nelle tre sentenze la Corte di Appello del capoluogo siciliano, rigettando altrettanti ricorsi dell’Avvocatura dello Stato, quantifica il danno rimandando ai motivi della sentenza emessa il 28 giugno scorso. In primo grado, nel settembre 2011, il tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a risarcire oltre 100 milioni di euro a 81 familiari. Secondo la Corte d’Appello palermitana i ministeri della Difesa e dei Trasporti, innanzitutto, «avrebbero dovuto attivarsi per le opportune reazioni, per consentire ad esempio l’intercettazione del velivolo ostile al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità di passeggeri ed equipaggio». Il tribunale, sposando le conclusioni raggiunte in primo grado - concluso nel 2011 con la condanna degli stessi ministeri - ribadisce che sulla base dei rilevamenti radar l’incidente del Dc9 Itavia si verificò «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9».

Incidente aereo di Ustica: la compensatio lucri cum damno, scrive Pasquale Fornaro il 6 luglio 2017. Qui la sentenza: Corte di Cassazione - sez. III civile - ord. interlocutoria n. 15534 del 22-6-2017. La società Aerolinee Itavia S.p.A. conveniva in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone. L’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003 accoglieva la pretesa risarcitoria e condannava i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonché alle spese di lite. Successivamente, l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi. Con la sentenza n. 10285 del 2009, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno e ne accoglieva i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti. A seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali dei gradi di merito e pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno.

Con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., della somma di euro 265.154.431,44 (di cui euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4.

La Corte territoriale però negava il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo. Ricorrevano per cassazione, pertanto, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, mentre la Aerolinee Itavia S.p.A., proponeva altresì ricorso incidentale.

La Terza Sezione Civile cui il ricorso era assegnato con ordinanza interlocutoria n. 15534/17 depositata il 22 giugno, è stato posto il quesito alle Sezioni Unite “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nel caso di specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.

Quesito, dunque, che in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. Compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile oppure in relazione a determinate fattispecie.

I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla. Tale locuzione allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione del risarcimento del danno dovuto dall’autore, deve tenere conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. E’ ben possibile, quindi, che un comportamento di per sé illecito o dannoso possa produrre effetti positivi nella sfera giuridica del danneggiato. Si pensi, ad esempio ad un sinistro stradale che abbia provocato la distruzione integrale di un autoveicolo di modesto valore. La corresponsione in toto del costo del ripristino della cosa danneggiata provocherebbe al danneggiato un vantaggio patrimoniale ulteriore rispetto al valore effettivo del bene. Pertanto, assodato che il risarcimento del danno soddisfa l’esigenza di tenere indenne il danneggiato dalle perdite subite, cioè l’esigenza di ripristinare il suo patrimonio come se l’illecito non fosse mai stato commesso, e se è inoltre vero che, per quantificare l’ammontare del risarcimento dovuto, si fa il conteggio differenziale tra la consistenza patrimoniale prima e dopo il fatto è, per forza, altrettanto vero che gli eventuali vantaggi recati alla vittima debbano al pari essere tenuti in considerazione. Ciò significa che il giudice deve “compensare” le perdite con i benefici che il fatto illecito o l’inadempimento contrattuale, abbiano determinato nella sfera giuridica della parte danneggiata, detraendo i secondi dalle prime. Di fronte, comunque, ad vuoto legislativo dottrina e giurisprudenza si sono interrogati, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.

In dottrina si ravvisano ben tre orientamenti diversi. Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.

Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo all’ “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Chi aderisce al secondo orientamento, invece, condivide l’affermazione secondo cui nel nostro ordinamento alcuna norma generale sancisce tale istituto ma soggiunge che il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.

Infine chi aderisce al terzo orientamento sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cc là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito, e che inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali: tra queste l’art. 1, comma 1 bis della legge 14 gennaio 1994 n. 20, o l’art. 33 comma 2 del D.P.R. 8 giugno 2011 n.327.

I contrasti, inoltre, non mancano nella stessa giurisprudenza. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno.

Secondo un primo orientamento la compensatio opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito. In applicazione di tale principio è stata, pertanto, esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, o i congiunti di una persona deceduta a seguito di un illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, come pure gli indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto dell’illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge.

Un diverso orientamento, opposto, ammette l’operatività della compensatio lucri cum damno. Se, infatti, taluni affermano che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, si giungerebbe al risultato di detrarlo dal risarcimento.

In attesa della decisione della Suprema Corte, si può concludere affermando che la “compensatio lucri cum damno”, seppur non codificata, è istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale che trova la sua origine e ragion d’essere direttamente negli artt. 1223 c.c., risarcimento del danno contrattuale, e 2056 c.c. ,valutazione dei danni extracontrattuali, e costituisce il corollario necessario del principio base per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano rimasti danni non risarciti o, in senso opposto, provocati ingiusti profitti.

Pasquale Fornaro. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico 2. Specializzato nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi.

Mostro di Firenze, fenomenologia di un'inchiesta mostruosa. Quel che resta della questione, giuridicamente ferma al 2000 con due condanne definitive, gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni, scrive il 28 luglio 2017 Maurizio Tortorella su Panorama. Ci mancava soltanto il legionario ottantasettenne e presunto mitomane. L’inchiesta senza fine sul Mostro di Firenze, ormai, è irrimediabilmente diventata un mostro d’inchiesta. L’indagine sui 16 omicidi che dal 1968 al 1985 hanno terrorizzato le campagne fiorentine e sconvolto l’Italia non finisce mai di stupire. Adesso la procura di Firenze ha ri-messo sotto la lente un vecchio personaggio, che aveva già sfiorato due volte: Giampiero Vigilanti, pratese, un passato nella Legione straniera di cui gli sono rimasti i classici virili tatuaggi sul braccio destro. Nel settembre 1985, proprio all’epoca dell’ultimo duplice omicidio, gli perquisirono la casa grazie a un’accusa anonima. Poi, nel 1994, la polizia tornò da lui e gli trovò 176 proiettili calibro 22, compatibili con quelli usati dal Mostro. Ne uscì pulito tutte e due le volte. Oggi il punto pare riguardare la scomparsa di quattro pistole, tra le quali una Beretta calibro 22, il cui furto Vigilanti giura di avere regolarmente denunziato nel 2013: "Ci andavo a sparare al poligono e i magistrati le avevano anche viste" sostiene. Le cronache degli ultimi giorni, ingenerosamente, si sono tutte concentrate su una sua comparsata in tv, nel 2005, quando aveva raccontato di un’evanescente eredità americana e della sua dura prigionia in Viet-Nam, alla Rambo. Si legge addirittura di una pista che legherebbe i 16 poveri morti alla "strategia della tensione" neofascista. Sembra un po’ tanto. Si vedrà. Certo è che quel che resta dell’inchiesta sui delitti del Mostro, giuridicamente ferma al 2000 con le due condanne definitive di Mario Vanni e di Giancarlo Lotti (rispettivamente all’ergastolo e a 26 anni di reclusione), gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni. Tra una perquisizione e l’altra, era emerso il nome di Jean-Claude Falbriard, un pittore francese ospite della villa fino al 1997: vi avrebbe lasciato quadri inquietanti, con donne mutilate, e una pistola. A quel punto, Falbriaid era stato ricercato per mari e per monti, e i mass media l’avevano indicato come "il tassello mancante". Invece sarebbe bastato poco per evitargli la gogna: nei 17 anni degli omicidi non era mai entrato in Italia. Rintracciato, interrogato, era stato indagato per… porto abusivo d’arma. Poi era stato prosciolto, ma i giornali l’avevano trasformato in “supertestimone". Infine era sparito nel nulla. Nell’ottobre 2001, nel bosco fiorentino di San Casciano, la procura aveva annunciato di avere individuato la "stanza segreta", un capanno dove sarebbero stati consumati i riti satanici del Mostro. Nella «cripta", in realtà, gli agenti avevano trovano più che altro uno spettacolo da Halloween: pipistrelli di plastica, scheletri di cartone, candeline. Gli inquirenti, però, non s’erano arresi: le scritte sui muri della cripta (era stato disposto addirittura di staccare l’intero blocco d’intonaco) erano state confrontate con una frase apparsa sopra un muro del centro di Firenze: "Pacciani è innocente, arrestate…". Purtroppo il resto della scritta era stato cancellato. Insomma, un altro buco nell’acqua. A lanciare l’improbabile "pista satanica", in quel lontano 2001, era stata Gabriella Pasquali Carlizzi, assistente sociale nelle carceri, scrittrice e autrice di siti internet. Carlizzi aveva rivelato di essere stata presa molto sul serio dagli inquirenti, tanto da essere stata interrogata "una novantina di volte". Va detto che in rete restano tracce di suoi dialoghi anche con la Madonna di Fatima, e delle sue suggestive soluzioni per ogni mistero che abbia avvelenato la storia d’Italia. Va aggiunto che nel 2000 Carlizzi ha anche subito una condanna (in primo grado) a due anni di reclusione per calunnia nei confronti dello scrittore Alberto Bevilacqua, un’altra vittima di questa storiaccia infinita: nel 1995 la donna aveva più volte, caparbiamente accusato l’autore della Califfa di essere il vero Mostro. Altri inquirenti si sono invece affezionati alla tesi del "secondo livello" e sospettano l’esistenza di mandanti: medici maniaci, che avrebbero pagato gli assassini per procurarsi macabri feticci sessuali da usare per il loro piacere o per messe nere. Un’indagine era decollata nel gennaio 2004, contro Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano Val di Pesa. S’ipotizzava un suo legame con il medico perugino Francesco Narducci, il cui cadavere nel 1985 era stato trovato nel lago Trasimeno ed era finito al centro di un altro mistero. Narducci era stato coinvolto nella storia del Mostro come presunto «conservatore» dei feticci, mentre s’ipotizzava che Calamandrei fosse tra i mandanti dei delitti. Il processo, durante il quale il figlio del farmacista era morto per un’overdose, è finito con un’assoluzione piena nel maggio 2008. Anche Calamandrei è morto, di crepacuore, nel 2012. Nel 2004, infine, era finito nei guai Mario Spezi, il migliore dei giornalisti “mostrologhi” fiorentini, e collaboratore anche di Panorama. Buffo, era stato proprio Spezi a fare i primi collegamenti tra i delitti del Mostro: senza di lui, forse, l’inchiesta sarebbe arrivata molto dopo, o forse mai. Il giornalista s’era trasformato nel più duro critico dell’inchiesta. Era convinto che le piste sataniche e sui medici mandanti fossero folklore: credeva nell’omicida seriale e solitario. Spezi era stato intercettato, perquisito e indagato per favoreggiamento. A casa sua gli agenti avevano sequestrato di tutto, perfino una "piramide tronca in pietra a base esagonale, occultata dietro la porta della sala da pranzo". Dicevano fosse simile a un oggetto rinvenuto anni prima, sulla scena di un delitto del Mostro, e che rimandasse a un rito satanico. "Ma stava dietro la porta perché è un comune fermaporta", rideva Spezi. Nel 2006 la procura di Perugia l’aveva arrestato per depistaggio e per concorso nell’omicidio del medico Narducci. Era rimasto in prigione 23 giorni, prima che la Cassazione lo liberasse e lo assolvesse in pieno. È morto anche lui, un anno fa, di cancro.

Morto Ciro Cirillo, il Dc sequestrato dalle Br e rilasciato dopo una oscura trattativa con la camorra. Aveva novantasei anni: Domani i funerali, scrive il 30 luglio 2017 "La Repubblica". Se ne sono andati un uomo e un pezzo di storia che sconvolse l'Italia. È morto all'età di 96 anni l'ex presidente della Regione Campania Ciro Cirillo. L'esponente di punta della Dc fu sequestrato a Torre del Greco (Napoli) dalle Brigate Rosse il 21 aprile1981 (quando era assessore ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980) per poi essere rilasciato dopo diversi giorni di prigionia in circostanze ancora oggi avvolte da molti misteri. Un rapimento che ha segnato la memoria del nostro Paese con il primo serio sospetto di trattativa tra lo Stato, le Br e la camorra di Cutolo, a tre anni dal rapimento Moro. Durante il rapimento ci fu anche un conflitto a fuoco: furono uccisi l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, e venne gambizzato il segretario dell’allora assessore campano all'Urbanistica, Ciro Fiorillo. L'ultima uscita pubblica di Ciro Cirillo, l'ex presidente della Regione Campania è dell'anno scorso, quando decise di festeggiare insieme a figli, nipoti e gli altri parenti i suoi 95 anni. Era il febbraio del 2016 quando convocò i suoi cari al Circolo Nautico di Torre del Greco per un pranzo al quale presero parte diversi amici politici della vecchia Democrazia Cristiana, in particolare della città vesuviana dove risiedeva. Per l'occasione fu presente anche il sindaco Ciro Borriello. I funerali di Ciro Cirillo si svolgeranno domani, lunedì 31 luglio, a Torre del Greco, alle ore 16.30 nella chiesa dei Carmelitani Scalzi a corso Vittorio Emanuele. Il rapimento Cirillo per anni è stato avvolto dal mistero. Una vicenda scomoda su cui i riflettori sono rimasti sempre bassi, fino al febbraio dell'anno scorso quando lo stesso Cirillo rilascia un'intervista alla tv svizzera italiana, per negare con decisione ogni trattativa finalizzata al suo rilascio da parte del boss ("Lo escludo, assolutamente") e allo stesso tempo per rimestare antiche accuse: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno".  Accuse  che il giudice ha prontamente ricusato, con un 'intervista all'Espresso: “Mi sembra incredibile che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Intrecci mai chiariti e che ora con la morte di Cirillo tornano a infittirsi. Infatti in un'intervista a Repubblica, a firma di Giuseppe D'Avanzo, nel 2001 Cirillo disse di aver affidato la verità sul suo rapimento a un memoriale di una quarantina di pagine consegnato a un notaio con l'impegno di renderlo pubblico solo dopo la sua morte. Ma in una successiva intervista al Mattino ritrattò: "Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell'invenzione ebbe effetto, per un po' sono stato lasciato in pace dai giornalisti".

Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985, di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".

E Cirillo disse a D'Avanzo: "La verità? E' dal notaio". L'assessore regionale Dc, sequestrato nel 1981 dalle Br e rilasciato dopo una trattativa che vide intermediario il boss camorrista Raffaele Cutolo, vent'anni dopo incontrò il giornalista. "Glielo dico subito, non le racconterò quello che so: non voglio farmi sparare. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine. Dopo la mia morte si vedrà", di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il 12 aprile 2001. Ciro Cirillo, scatarrando come una locomotiva ("Mi sono raffreddato, maledizione"), viene giù con passo svelto dal piano superiore della villa bianca nel sole. Prende posto nell'angolo del divano bianco, oltre la tenda e la grande finestra c'è il mare di Napoli e, alle spalle, il Vesuvio. Ciro Cirillo, 80 anni, è vispo come un grillo. Ride, sorride, ammicca, allude, insinua, ricorda, omette, dissimula. Se il più crudo cinismo può essere bonario, Ciro Cirillo è un cinico bonario. Bonario soprattutto con se stesso. Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni. "Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me 'i piani'. Dove tieni 'i piani'? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...". Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a fare i conti di quel che possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione. Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: a chi devi ringraziare, Ciro? Sa come rispondo? Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari". I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorismo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessuna incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi. Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo. "Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: “Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...”. Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici". Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale" (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: “E' stato impossibile accertare la verità”. Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili?"

Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi- Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…

I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro-cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava?

L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.

Le voci della strage. Stazione di Bologna. Due giovanissimi cameramen arrivano sul luogo dell'attentato e documentano l'inferno: polvere, sangue, disperazione, rabbia e stupore. Quaranta minuti choccanti nel documentario di History Channel. Online su L'Espresso i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e il sonoro originale dei soccorritori, scrive Gianluca De Feo il 30 luglio 2007 su "L'Espresso". Erano passati pochi minuti e nessuno riusciva a capire. Perché sembrava incredibile. Il boato era stato sentito in ogni angolo della la città. Poi per pochi secondi il silenzio. Ma le voci che lo avevano seguito parlavano di tanti morti: una decina, forse trenta. Una cifra impensabile: trenta morti alla stazione, nel cuore di Bologna, nei giorni dell'esodo d'agosto. Tutti correvano verso la piazza dilaniata: baristi con il grembiule addosso, cameriere con la divisa di una volta, operai in tuta blu, carabinieri con la cravatta da cerimonia. Per coprire i corpi travolti nel parcheggio dei taxi usavano le tovaglie. E subito l'incredibile diventava vero: i cadaveri erano decine. Alla fine saranno 85. Quella mattina del 2 agosto 1980, pochi minuti dopo le 10.25 nella piazza della Stazione arrivarono anche Enzo Cicco e Giorgio Lolli, meno di quarant'anni in due. Arrivarono di corsa, prima delle ambulanze. Da poche settimane i due ragazzi avevano cominciato a collaborare come cameramen per Punto Radio Tv, storica emittente nata da un'idea di Vasco Rossi e poi acquistata dal Pci. Le loro immagini documentano l'incredibile: la polvere, il sangue, la disperazione, la rabbia. Ma soprattutto lo stupore per quell'attentato così mostruoso che aveva sepolto turisti, pendolari, ferrovieri, baristi, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile.

Adesso, 27 anni dopo, History Channel trasmette integralmente i quaranta minuti girati da Cicco e Lolli. "L'Espresso" anticipa i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e poi il sonoro originale dei soccorritori. Un filmato choccante, che costringe lo spettatore a immergersi tra le rovine e i suoni di quel dramma; tutto sembra uscire da un'atmosfera irreale. Pochi urlano e lo fanno solo per cercare di dare un ordine a quei soccorsi fatti solo di buona volontà; i più sembrano parlare a bassa voce, quasi sussurrare, come se l'enormità della tragedia gli avesse tolto il respiro. C'è chi piange, senza riuscire a fermarsi. E una folla crescente di persone che sente il bisogno di fare qualcosa, affrontando a mani nude quella montagna che ha preso il posto della sala di aspetto inghiottendo 85 vite. Da quella di Angela Fresu, che a ottobre sarebbe andata all'asilo, a quella di Luca Mauri, che forse aveva già comprato la cartella per la prima elementare; da Marina Trolese, di sedici anni che lotterà invano per dieci giorni, a quella di Antonio Montanari, che di anni ne aveva 86 e aveva già visto due guerre prima di venire massacrato da una guerra mai dichiarata.

History Channel ha mandato in onda questo documento alle 10.25, nell'orario esatto dell'esplosione. È un filmato che costringe a entrare nella polvere, obbligando ogni spettatore a fare i conti con la ferita più profonda nella storia della Repubblica: oggi come allora, le immagini tolgono il fiato. E spingono solo a chiedere: perché?

Strage di Bologna, la memoria divisa. I familiari (anche) contro i magistrati. La contestazione annunciata. Gelo con la Procura dopo lo stop all’inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione che causò 85 morti e duecento feriti, scrive Marco Imarisio il 1 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’autobus della linea 37, matricola 4030, tornerà per la prima volta in piazza Medaglie d’oro. Quella mattina divenne un simbolo, della tragedia, dei soccorsi, di una città che cerca di reagire fin da subito. Gli autisti tolsero i montanti e i corrimano per consentire l’ingresso delle barelle, e fissarono delle lenzuola ai finestrini, per impedire la vista dei corpi feriti, mutilati, oltraggiati. Non tornò più in servizio, per rispetto delle vittime. Non è mai stato formalmente dismesso, per rispetto della propria storia. Oggi, 37 anni dopo la strage, uscirà dal capannone di via Bigari, dove è stato conservato e curato come una reliquia laica, e verrà portato davanti alla stazione.

Lo strappo del 2005. Ci sarà il 37, memoria della Bologna che seppe resistere e rimase in piedi, per quanto colpita. Mancherà il resto, la concordia istituzionale, la condivisione del ricordo. Quest’anno come non mai. Succede spesso, il 2 agosto ha talvolta fatto più notizia per la contestazioni che per l’esercizio delle memoria. Nulla, neppure una apparenza di quiete, è stato più come prima dopo il 2005, quando gli abituali fischi contro gli esponenti del governo divennero bordate, lunghe quanto il discorso dell’allora vice primo ministro Giulio Tremonti e capaci di oscurarlo. Da allora non parla più nessuno, o quasi. È stato inventato lo spazio mattutino tra le mura del Comune, per ridare la voce alla politica nazionale, che nel momento più importante, l’unico che davvero conta, il corteo da piazza Nettuno alla stazione, il comizio alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari delle vittime seguito dal minuto di silenzio e dal discorso del sindaco, è sempre stata costretta all’anonimato e al silenzio, accompagnato dal rumore di fondo dei fischi.

L’attacco al governo. Ma questa volta si è passati alle parole. Che spesso sono pietre, per definizione e contenuto. «Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime. I suoi rappresentanti in piazza e sul palco non sono graditi. Non li vogliamo accanto a noi». Paolo Bolognesi, il deputato Pd che dal 1996 è il volto dell’Associazione familiari, ci è andato pesante. Il suo canone prevede da sempre dichiarazioni roboanti. Ma per questo 2 agosto ha scelto lo scontro frontale, in polemica con il suo segretario Matteo Renzi, che da presidente del Consiglio promulgò la direttiva per rendere pubbliche le carte sugli anni della strategia della tensione, con il sottosegretario Claudio De Vincenti che lo scorso anno, alla cerimonia «privata» in Comune promise che tutto sarebbe stato risolto entro l’anniversario del 2017. «Invece continuano a fare il gioco delle tre carte. Ancora lo scorso maggio ho chiesto alla presidenza del Consiglio la lista degli iscritti alla Gladio nera. Mi è stato risposto che c’è un problema di privacy. Sembra che la verità interessi solo a noi».

I dubbi sui mandanti. Il bersaglio inedito degli strali di Bolognesi e dell’Associazione è la magistratura. Fino a oggi l’asse tra i familiari e i magistrati aveva retto seppur con difficoltà alle scosse del tempo e al paradosso di un processo per strage chiuso a differenza di molti altri con colpevoli accertati, i terroristi neri Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, ma che ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi e illazioni su chi davvero avesse progettato quella atrocità. La ferita non si rimargina mai, come le feroci discussioni, eufemismo, tra chi inneggia a quella sentenza contro gli allora giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Il gelo con la procura è sceso a marzo, dopo la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sui mandanti e l’invio per competenza a Roma del filone che riguarda l’eventuale partecipazione all’attentato dell’ex Nar Gilberto Cavallini. Non si è mai sciolto, anzi.

Il testo del discorso. E qui di parole ne sono bastate poche, tante quante lo slogan scelto per il manifesto della commemorazione di quest’anno: La storia non si archivia, la forza della verità non si può fermare, la giustizia faccia la sua parte. Il messaggio è arrivato forte e chiaro al procuratore capo Giuseppe Amato, che ne ha preso atto. «Non credo che la nostra presenza possa riscuotere un apprezzamento», ha detto, seguito a ruota dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, che rappresenta la memoria storica della procura bolognese. «Sono d’accordo con la non partecipazione alla commemorazione in stazione». La mediazione del sindaco Virginio Merola, che invece appoggia le ragioni della protesta contro il governo, ha strappato ai magistrati la promessa di una presenza in Comune, in quella che si presenta come una vera e propria riserva indiana degli ospiti sgraditi. Bolognesi ha fatto un altro strappo non inviando il testo del suo discorso a sindaco e prefetto, come invece accade ogni anno da 37 anni. Si annunciano sorprese. Era quasi meglio quando c’erano i fischi.

Strage di Bologna, l’articolo di Enzo Biagi: «Quante trame di vita su quei binari». Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, nel più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel dopoguerra. I morti furono 85. Questo è il pezzo che Enzo Biagi scrisse sul «Corriere della Sera». Ripubblichiamo il testo che Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna. "Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono. Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare. Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra. Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte. Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante. «Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici. «Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso? Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati. «Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte? Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle. «Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra. Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri. «Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno".

L'Associazione delle vittime: «Lo Stato non vuole la verità sulla strage di Bologna». «Se si sapessero come sono andate veramente le cose si innescherebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura» afferma il presidente Paolo Bolognesi. Sulle polemiche dopo l'archiviazione dell'indagine sui mandanti: «Anche noi abbiamo il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2017. «L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato. È una costante: è stato così per il fascismo, lo è oggi per la strategia della tensione. Ci sono ancora dei grumi, delle situazioni e degli apparati che non si possono assolutamente svelare. Se così fosse ci sarebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna e deputato Pd, non si nasconde dietro frasi di circostanza quando si parla dell’attentato che il 2 agosto 1980 sconvolse Bologna e l’Italia. La bomba che scoppiò quel giorno alla stazione fece 85 morti e oltre 200 feriti: la più grande strage che l’Italia abbia conosciuto in tempo di pace. Nonostante lacune nelle indagini e depistaggi di cui furono responsabili dirigenti del Sismi, dopo un tormentato iter giudiziario sono stati individuati i responsabili dell'eccidio: nel 1995 la Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, membri del gruppo di estrema destra Nuclei Armati Rivoluzionari.

Presidente Bolognesi, dopo 37 anni si continuano ancora a cercare i mandanti della strage.

«Ancora non sappiamo tutta la verità e ci impegneremo fino a che non verrà fatta. Abbiamo cercato una sponda negli ultimi governi, e in un primo momento sembrava che l’avessimo trovata: nel 2015 è stato stipulato un accordo per la digitalizzazione degli archivi con il Ministero della Giustizia e quello dei Beni Culturali. Questa è una metodologia di indagine e di analisi che permetterebbe di fare chiarezza sui mandanti della strage. La digitalizzazione viene però osteggiata, boicottata, con tutte le motivazioni più incredibili. Nei tre anni successivi all’accordo non è stata digitalizzata una pagina. Dopo i miei reclami è stato fatto un comunicato congiunto in cui si diceva che gli archivi non possono essere divulgati per ricerche di natura giudiziaria, una cosa totalmente assurda. Ma questi sono messaggi che vogliono rassicurare qualcuno che è un po' preoccupato, sicuramente non i familiari delle vittime. Poi c'è la direttiva Renzi (con cui nel 2014 è stato deciso di declassificare i documenti riguardanti le stragi, ndr), che tante speranze aveva dato alle associazioni: ma gli unici che vogliono che funzioni sono i familiari delle vittime, non certo gli apparati dello Stato».

Quali difficoltà ci sono in questa partita che si gioca negli archivi?

«Innanzitutto abbiamo un blocco costante e metodico da parte degli apparati dello Stato. Sembrerà incredibile, ma sia dal Ministero della Difesa che dal vecchio Ministero dei Trasporti sono spariti gli archivi. Incredibile ma vero, il Ministero della Difesa dal 1980 al 1986 non ha nulla che riguardi i voli e le navi che attraversavano l'Italia e il Tirreno. Ma se non si trovano questi archivi fai qualcosa, fai un'inchiesta per capire dove sono andati a finire. Nessuno però fa una piega: questo dei documenti è l’ultimissimo dei loro problemi».

Per quale motivo ci sono ancora tutte queste resistenze da parte dello Stato?

«Perché evidentemente ci sono situazioni e apparati che non possono essere svelati. Nell'ambito della direttiva Renzi ultimamente ho chiesto i nomi degli appartenenti ai Nuclei Armati di Difesa dello Stato, la cosiddetta Gladio Nera, che molto probabilmente è implicata in questi attentati e non solo. Mi è stato risposto che non me li potevano dare per ragioni di privacy».

A marzo la Procura di Bologna ha archiviato l’indagine su Licio Gelli come mandante e finanziatore della strage. Non avete risparmiato critiche ai procuratori bolognesi.

«La procura deve ricordarsi che anche le vittime hanno il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale. L'archiviazione è stata fatta su una serie di “non indagini” che lasciano perplessi. Sul finanziamento di Gelli agli stragisti si sono basati su una relazione del 1984, non su elementi più recenti o sulle acquisizioni che noi abbiamo presentato, che non sono stati neanche guardate. C'è anche una perla nella richiesta di archiviazione: i pm scrivono che Mambro e Fioravanti erano degli “spontaneisti”. Questo vuol dire non tenere nemmeno conto della sentenza del 1995 con cui i due membri dei Nar sono stati condannati. Questa cosa ci lascia molto perplessi. Noi abbiamo presentato un dossier di mille pagine, la procura ha chiesto l'archiviazione a cui ci siamo opposti e a ottobre vedremo cosa deciderà il Gip. Poi se il fascicolo verrà archiviato vedremo quali parti si potranno sviluppare per far riaprire il processo».

Dopo tutte questi attacchi a governo e procura, in che clima si svolgeranno le manifestazioni per l’anniversario della strage?

«Bologna è una città estremamente democratica, i cittadini hanno avuto sempre un comportamento esemplare nei confronti di chiunque abbia partecipato alla commemorazione. Non c'è stato nessun ministro, neanche nei momenti più delicati, che sia stato contestato durante il corteo o le manifestazioni. Può darsi che qualche volta, mentre parlavano dal palco, siano stati fischiati. Ma questo per altre ragioni, come per le promesse non mantenute».

Nonostante si siano individuati i responsabili della strage, periodicamente si torna a parlare della “pista palestinese” (secondo cui la bomba è stata una ritorsione dell’Olp per la rottura del Lodo Moro, ndr). Per quale motivo?

«La “pista palestinese” non porta da nessuna parte. Riportarla agli onore della cronaca fa parte di operazioni per confondere le idee alla gente, per fargli uscire dalla testa personaggi come Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. I due responsabili della strage, condannati a 8 ergastoli per i loro 98 omicidi, hanno già finito di scontare la pena. Sembra una grande barzelletta, ma è quello che ha fatto lo Stato italiano. È una sorta di do ut des».

Può spiegarsi meglio?

«C’è un silenzio eccezionale da parte dello Stato nei confronti di questi personaggi. Non dico che dovrebbero essere in galera, ma almeno non dovrebbero aver finito di scontare la pena dopo tutto il sangue che hanno versato. Inoltre è appurato come abbiano continuato ad avere frequentazioni poco limpide. Mambro e Fioravanti, durante il periodo di liberà condizionale, avevano contatti con Gennaro Mokbel, uomo della Banda della Magliana e grande riciclatore di soldi sporchi. Addirittura c'è un’intercettazione telefonica di Mokbel in cui dice che “liberare quei due dalla galera” gli è costato un milione e duecentomila euro. È incredibile che nessuno abbia indagato su queste situazioni. Mambro e Fioravanti erano in libertà condizionale e doveva essere sospesa immediatamente: per evitare, come poi è successo, che avessero contatti con malavitosi. Per Mambro e Fioravanti si è mosso il mondo della Banda della Magliana, non so che si vuole di più: probabilmente avrebbero dovuto fare un’altra strage affinché lo Stato li rispedisse in galera».

Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.

Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.

Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968). 

L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.

Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.

Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).

Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.

Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».

Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.

Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.

Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»

Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.

Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.

Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.

7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).

I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.

L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.

Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.

La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.

Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".

A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.

Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.

D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".

Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.

Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.

Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.

Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:

- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;

- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.

Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.

Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.

La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.

Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.

La provocazione di Giovanni Lindo Ferretti: "La strage di Bologna? Non furono i fascisti". Le parole del musicista sull'attentato del 2 agosto in stazione, che provocò 85 morti e 200 feriti: "Mi spiace ma la penso diversamente dai bolognesi, credo alla pista palestinese", scrive Emanuela Giampaoli l'1 agosto 2017 su “La Repubblica”. "Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani". Lo dice Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP ed ex CSI, da anni ormai ritiratosi sull’Appennino tosco emiliano, sceso sotto le Torri per inaugurare al Museo della Musica la mostra della fotografa Federica Troisi "Illumina le tenebre", dedicata agli abitanti dell'enclave serba di Velika Hoca in Kosovo, alla quale il musicista partecipa con una serie di testi e di brani musicali. Parole che suonano come una provocazione alla vigilia dell’anniversario della strage, quando la città è pronta a ricordare ancora una volta la sua ferita più profonda e a raccogliersi intorno ai suoi morti. "Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto". A convincere il cantante e scrittore è il cosiddetto lodo palestinese, una pista archiviata che in ambito giudiziario contrasta con le sentenze, la matrice neofascista e le condanne definitive di Mambro e Fioravanti. "In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…". Confessa che sono anni che ha smesso di parlare di queste cose. "Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa".

C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.  

Gero Grassi e la verità sul Caso Moro. Aldo Moro, intervista del Tg Norba del 2 agosto 2017 a Gero Grassi sulle novità dell’inchiesta. La Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro sospende i lavori per la pausa estiva. Ecco le novità emerse nel corso di questo anno fitto di audizioni. A parlarcene l’onorevole Gero Grassi, membro della commissione. In Via Fani a Roma il 16 marzo di 38 anni fa, quando Aldo Moro fu Rapito, erano presenti le Brigate Rosse, oltre ai Servizi stranieri ed italiani ed alcuni membri della banda della Magliana. Al momento della sua uccisione, a maggio dello stesso anno, i brigatisti, quasi certamente, non c’erano.  Queste alcune novità sul caso Moro emerse dal lavoro svolto negli ultimi mesi dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta che si sta occupando da circa tre anni per chiarire il rapimento e la morte dello statista pugliese della democrazia cristiana. Oltre 120 audizioni ed interrogatori dai quali sono emersi interrogazioni importanti come spiegato da Gero Grassi, membro della Commissione. “Tra questi quella del capo dell’OPA Abusharif è stata determinante, ma altrettanto determinante è stata quella di Alberto Franceschini, che è stato uno dei capi delle Brigate Rosse. Ma anche alcuni Magistrati e Funzionari di polizia hanno rotto il velo di omertà ed omissione che c’era intorno al caso Moro”. Ma chi ha sparato? Moro fu ucciso con 12 colpi intorno al cuore che non colpirono il cuore. “C’è un’indagine in corso, credo che per fine anno questo quadro si possa definire con un nome ed un cognome preciso. Sono emerse anche altre valutazioni preoccupanti, quali? La permanenza in case di insospettabili di alcuni brigatisti dopo l’omicidio Moro: insospettabili particolari”.

Segue l’intervista di Selene Di Giovine su Studio9tv del 13 febbraio 2017. Lucera, grazie al Rotary Club, ha ospitato l’On. Gero Grassi, promotore della legge istitutiva della Commissione d'inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'Omicidio di Aldo Moro. Grassi è' anche membro della suddetta commissione e, da circa due anni, gira l'Italia per parlare di Aldo Moro e svelare la verità sul rapimento e l'omicidio. Sono passati quasi quarant’anni da quel 16 Marzo '78 – giorno del rapimento di Moro – e dal 9 Maggio '78 – giorno dell'omicidio e ritrovamento del cadavere del Presidente DC -. E se, per l'opinione pubblica non sono ancora chiari mandanti e mandatari, per l’Onorevole è doveroso rendere giustizia ad un Uomo e consegnare ai cittadini un'Italia più civile, più democratica, più libera, più sicura. Il caso Moro è contenuto in due milioni di pagine che derivano da: otto processi, quattro Commissioni Terrorismo e Stragi, due Commissioni Moro e una Commissione P2. Volere fortemente l'istituzionalizzazione di una nuova Commissione, dopo aver letto tutti i documenti sopracitati, è propedeutico alla verità giacché, sino ad oggi, la verità non è stata raccontata. Molto, oggi, lo stiamo scoprendo. Quello che racconto non è il pensiero di Gero Grassi ma tutte le parole, citate, sono testuali della magistratura e delle commissioni.

Una storia cupa, che ha visto protagonisti più parti e più interessi e con più vicende.

Gero Grassi e la verità sul Caso Moro. Lucera, grazie al Rotary Club, ha ospitato l’On. Gero Grassi, promotore della legge istitutiva della Commissione d'inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'Omicidio di Aldo Moro. Grassi è' anche membro della suddetta commissione e, da circa due anni, gira l'Italia per parlare di Aldo Moro e svelare la verità sul rapimento e l'omicidio. Sono passati quasi quarant’anni da quel 16 Marzo '78 – giorno del rapimento di Moro – e dal 9 Maggio '78 – giorno dell'omicidio e ritrovamento del cadavere del Presidente DC -. E se, per l'opinione pubblica non sono ancora chiari mandanti e mandatari, per l’Onorevole è doveroso rendere giustizia ad un Uomo e consegnare ai cittadini un'Italia più civile, più democratica, più libera, più sicura. Il caso Moro è contenuto in due milioni di pagine che derivano da: otto processi, quattro Commissioni Terrorismo e Stragi, due Commissioni Moro e una Commissione P2. Volere fortemente l'istituzionalizzazione di una nuova Commissione, dopo aver letto tutti i documenti sopracitati, è propedeutico alla verità giacché, sino ad oggi, la verità non è stata raccontata. Molto, oggi, lo stiamo scoprendo. Quello che racconto non è il pensiero di Gero Grassi ma tutte le parole, citate, sono testuali della magistratura e delle commissioni. Una storia cupa, che ha visto protagonisti più parti e più interessi e con più vicende.

“L’opinione pubblica deve andarla a cercare la verità. L’opinione pubblica accanto a San Remo deve studiare la Storia, come stanno facendo le scuole. Cosa c’è di esaltante in tutto questo: cancelliamo tutta la verità che conoscevamo e riprendiamo daccapo. Anche le Brigate rosse hanno fatto il rapimento di Aldi Moro, che significa: che insieme alle Brigate Rosse c’era la Mafia, la Camorra, la ‘Ndrangheta, la Banda della Magliana. C’erano servizi segreti stranieri, CIA e KGB, e pezzi di servizi segreti italiani. C’era anche un pezzo di Vaticano, lo Ior. Hanno fatto una riunione ed hanno deciso di rapire Moro? No! Ma ci sono state le convergenze parallele dell’Ovest, Usa; e dell’Est, Urss, fermi a Jalta per bloccare l’idea di Moro che era la democrazia compiuta in Italia e l’Europa dei popoli”.

Perché 55 giorni di rapimento per poi uccidere Aldo Moro?

“Innanzi tutto perchè le Brigate Rosse erano divise sull’opportunità di ucciderlo o di rilasciarlo. E poi, come lei può immaginare, se lo avessero ucciso in via Fani tutto il clamore che c’è stato non ci sarebbe stato. I 55 giorni sono serviti anche per farsi pubblicità. Usiamo un termine improprio. E per tenere in scacco l’Italia. Lei è giovane, ma in quei 55 giorni il paese fu bloccato in tutti i sensi”.

Sicuramente, appunto, dietro il caso Moro c’è l’interesse internazionale di, come diceva lei di Usa-Urss, ma qual era l’importanza di questo Compromesso Storico?

“Guardi, Moro non voleva questo Compromesso Storico. Il termine Compromesso Storico è di Berlinguer. Moro voleva il confronto con i comunisti e la democratizzazione del Partito Comunista. A tutto questo si opponevano sia gli Stati Uniti che non volevano i comunisti al Governo, sia l’Unione Sovietica, che non voleva i comunisti al Governo, se no, come avrebbe fatto a giustificare i carri armati di Budapest, di Praga e di Varsavia. Quel mondo era cristallizzato ed era fermo a Jalta. Tutto quello che andava oltre Jalta era sgradito e malvisto. Ecco perché Moro è stato rapito ed ucciso.

1974, Washington DC. Kissinger - Segretario di Stato Americano – riferendosi a moro dice: “Onorevole Lei deve smetterla di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo paese a collaborare. O la smette di fare queste cose o la pagherà cara. Veda Lei come vuole intenderla”.

1976, Roma Termini. Alle 19,58 Aldo Moro sale sul treno Roma-Monaco. E' diretto a Predazzo per ricongiungersi con la famiglia per trascorrere le ferie con la famiglia. Il treno parte alle 20.05. Alle 20.03, due agenti dei nostri servizi segreti fanno scendere Moro da quel treno adducendo la scusa che deve, ancora, firmare documentazione importante. Quel treno, per chi non avesse compreso, è l'Italicus che salta in aria nella galleria San Benedetto Val di Sambro. La magistratura su quel treno accerta tre cose: non ci sono colpevoli fisici ma la strage ha una matrice neo-fascista; la polvere pirica utilizzata per la strage dell'Italicus è la stessa di Piazza Fontana, Banca Nazionale dell'Agricoltura, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna; la polvere pirica non è a disposizioni degli italiani ma di una struttura internazionale che si chiama Gladio.

1975/76/77 – OP, giornale diretto da Mino Pecorelli, in prima pagina intotola “Moro...bondo”, “E' solo Moro il ministro che deve morire?”, “Con l'omicidio di Aldo Moro scomparirà la presunzione berlingueriana di portare i comunisti al governo.”

Novembre 1977 – Moro scrive al collega parlamentare Rosati “Berlinguer ha i suoi peggiori nemici in Unione Sovietica. Io, in gran parte della Germania e negli Stati Uniti d'America. Sempre nello stesso mese ed anno, nella totale assenza della popolazione Italia e di chi avrebbe dovuto intervenire, a Roma, dopo la gambizzazione di Publio Fiori, sui muri italiani appare una scritta impietosa “Oggi Fiori, domani Moro ”. Nessuno interviene.

Febbraio 1978 – I servizi segreti francesi avvisano i nostri servizi che nel mese di Marzo l'onorevole Moro sarebbe stato rapito. Nei nostri archivi, questo fatto, non risulta. Lo scopriranno Imposimato e Priore solo nel 1982.

2 Marzo 1978 – Il ministero della Difesa a Roma. Partono cinque passaporti falsi insieme con un documento. Chi trasporta questo materiale è G-71, un gladiatore che s'imbarca sulla motonave Jumbo M a La Spezia. La direzione è Beirut. Cosa dice il documento? Prendere contatti immediati con i gruppi del terrorismo mediorientale per la liberazione di Aldo Moro. Carta intestata del Ministero della Difesa. Firma Ammiraglio Remo Malusardi, capo della X Divisione Gladio. Il destinatario? Colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri servizi a Beirut. Il documento viene ricevuto da G 243, capitano dei carabinieri Mario Ferrario. Questi dovrebbe leggere il documento e distruggerlo. Il documento viene letto ma non distrutto. Dopo qualche giorno, Ferrario, viene suicidato nella propria casa. Il capitano, infatti, si impicca al porta asciugamani del bagno, posizionato a 1,20 di altezza e la perizia dimostra, tuttavia, che il porta asciugamani non avrebbe retto il peso. I primi ad arrivare a casa sua sono agenti dei servizi che puliscono la casa di ogni prova. Questa vicenda si interseca con altre due vicende drammatiche che, sino ad oggi, erano coperte dal segreto di stato: nell'Agosto del 1980 due venticinquenni, giornalisti italiani, scompaiono a Beirut. I due giornalisti avevano scoperto che in un campo di addestramento dell'OLP si addestrano i Brigatisti e che gli addestratori, di OLP e Brigatisti, sono uomini italiani di Gladio; i vertici dei nostri servizi, tra cui i generali P2, vengono arrestati per aver favorito commercio di armi ed intascato ingenti guadagni tra le BR e l'OLP.

16 Marzo 1978 – L'operazione dei brigatisti, per rapire Moro, è chiamata Operazione Fritz, parola tedesca per indicare il ciuffo bianco. Moro si dirige in Chiesa per pregare. Quando esce, Moro sale sulla Fiat 132 diretta alla Camera dei Deputati, ma la scorta per raggiungere il luogo arriva in via Fani percorrendo quindi un giro molto più lungo. Perché questa decisone? Il Ministero degli Interni non ha mai dato, in 36 anni, la striscia delle telefonate che la macchina della polizia ha ricevuto in quella mezz’ora. L’operazione di via Fani dura 3 minuti. Rita Algranati, giovane brigatista alza un mazzo di fiori per segnalare agli altri brigatisti l’arrivo dell’auto del Presidente DC. Alberto Franceschini, membro delle BR, ha sostenuto che senza la copertura della CIA, del KGB, del Mossad, loro non avrebbero potuto né rapire né tenere nascosto Moro a Roma per 55 giorni. Chi ha ucciso la scorta era persona conosciuta da quest'ultimi. L'uccisione è stata una esecuzione.

Il caso Moro presenta una moltitudine di attori, principali e non. Vi sono presenti attori che agiscono con atti omissivi, altri con atti attivi. Alcuni interessati alla morte di Moro per destabilizzare il paese, altri interessati alle carte di Moro. Materialmente l'operazione è stata portata a compimento dai brigatisti ma questi sono stati accompagnati da soggetti terzi, statali e non. E' difficile individuare una persona ma è senz'altro vero che possiamo ricercare, trovare, impugnare una corresponsabilità.

Perché Moro? Gli Stati Uniti, come si evince, non volevano che si attuasse la teoria del confronto con il PCI. La Russia non voleva che il PCI si avvicinasse all'area di Governo altrimenti il PCI avrebbe dimostrato che si poteva andare al governo senza l'ausilio dei carri armati. Giacché i comunisti sovietici, nel resto del mondo, erano andati al potere solo con l'ausilio di forze militari, questa anomalia berlingueriana/italiana avrebbe anticipato la caduta del Muro di Berlino.

Perché sequestrarlo per 55 giorni se poi l'hanno ucciso? L'uccisione è ancora un mistero. I brigatisti, nel raccontare la loro verità, commettono una serie di errori ed omissioni che non combaciano. Le BR sostengono di aver ucciso Moro nel cofano della Renault ma è materialmente impossibile che l'abbiano ucciso là. Dove l'hanno ucciso? I brigatisti dicono in Via Montalcini. Non è vero. E' stato ucciso nei pressi di Via Caetani. Quanti colpi sparati? I brigatisti non sanno dirlo. In realtà sono 11, 2 silenziati e 9 normali. Loro sostengono che Moro sia morto sul colpo e questo non è vero. L'autopsia ha dimostrato che l'agonia è durata minimo un quarto d'ora. Perché mentono? Perché anche nell'omicidio i brigatisti coprono soggetti terzi non ancora individuati. D'altronde Curcio e Franceschini sostengono che Mario Moretti sia una spia dei servizi segreti. Non dimentichiamoci che alcuni brigatisti, oggi, sostengono che alcuni dei brigatisti erano infiltrati dei servizi e si fanno i nomi di Moretti, Senzani e Maccari. I dati di oggi ci dicono che anche nell'omicidio i brigatisti non erano soli. Tante zone d'ombra e d'abisso, ancora, ci sono su un fatto nel quale dentro ci sono i servizi segreti, nazionali ed internazionali, la Mafia, la Camorra, la 'Ndrangheta, la Magliana, pezzi delle istituzioni. Selene Di Giovine

Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.

Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.

Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione».  Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.

Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino?  Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.

IL PAESE DELLA MAFIA SECONDO ME O DELLA MAFIA FAI DA TE.

I nuovi giustizialisti. Pretendono giustizia, ma quando la giustizia arriva bastonano i giudici che la pensano diversamente, scrive Giuseppe Sottile il 27 Luglio 2017 su "Il Foglio". Saltellano da un convegno all’altro, non perdono né un dibattito né un confronto, girano senza sosta per le redazioni dei giornali e non c’è intervista o talk-show in cui non affermino che questa malandata Italia ha solo bisogno di verità e giustizia. Ma poi, quando la giustizia finalmente arriva, eccoli lì a sputacchiare sulle sentenze, a denigrare giudici e collegi giudicanti, a mettere in dubbio la legittimità di ogni verdetto che sia maledettamente difforme dalle loro aspettative. Sono i giustizialisti...

Le testate dei pm ai giornalisti. Intimidazioni, come a Ostia, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". Tutta Italia si è indignata per la testata inferta a Ostia da Roberto Spada a Daniele Piervincenzi, giornalista inviato della trasmissione di Raidue Nemo. Alla violenza fisica, inaccettabile contro chiunque, in quel caso si sommava l'intimidazione, la minaccia ai giornalisti che si ostinano a non occuparsi «dei fatti loro» e vanno a curiosare dove non è gradito. Ma contro la nostra categoria non arrivano solo le testate dei presunti mafiosi, come nel caso di Spada, ma anche quelle, non meno gravi, di alcuni magistrati. Nei giorni scorsi a Pavia un bravo ed esperto collega della Provincia pavese, Giovanni Scarpa, è stato indagato addirittura per favoreggiamento dalla Procura locale. La sua colpa? Avere svelato che il capannone zeppo di rifiuti mandato a fuoco da ignoti la notte del 3 gennaio a Corteolona (creando paura e allarme in tutta la zona) da tempo era sotto indagine e controllo video della procura, la quale evidentemente si è fatta beffare dai malavitosi. Indagare per favoreggiamento il giornalista che scrive una notizia vera è un'intimidazione bella e buona, una metaforica testata del potente di turno contro chi - come diceva Spada al malcapitato Pervincenzi - «non si fa gli affari suoi». Ne prendiamo tante, noi giornalisti, di testate tese a zittirci. Marco Travaglio nei giorni scorsi è stato condannato a risarcire con la cifra record di 150mila euro tre magistrati siciliani che aveva criticato in un articolo. Una cifra pazzesca, a mio avviso un'estorsione, che a memoria non ho mai visto concedere a favore di nessun querelante che non vestisse la toga. Io stesso, che ne ho subite tante, mi ritrovo di nuovo a processo per un caso surreale. Un solerte pm di Cagliari tempo fa mi rinviò a giudizio scambiandomi per un'altra persona. Scoperto e preso atto dell'equivoco, il giudice ovviamente mi assolse. Tutto finito? Macché. Nonostante la figuraccia rimediata, il pm ha fatto appello. Così, solo per non darmela vinta (tanto i costi dei processi non sono a suo carico). A casa mia questo si chiama stalking, reato punibile penalmente, soprattutto se reiterato. Una storia più o meno simile è successa anche a Vittorio Feltri, e il collega direttore del Tempo Gianmarco Chiocci sarà a giudizio per avere fatto il suo lavoro nell'inchiesta di Roma Mafia capitale. Intimidazioni, estorsioni, stalkeraggio, vendette: in Italia non si rischiano testate solo a disturbare il clan degli Spada. È sufficiente incappare in uno dei tanti buchi neri del clan della giustizia.

Restituire alla Storia i cognomi infangati dalle mafie, scrive Valentina Tatti Tonni il 3 gennaio 2018 su "Articolo 21" e 20 Gennaio 2018 su "Antimafia duemila". Un corto circuito. Parliamo di mafia come se fosse un soggetto e un linguaggio. Riprendendo il libro Io non taccio scritto a più mani da giornalisti di inchiesta, ho notato che la presenza dei nomi che associamo alle famiglie dei clan hanno nel tempo disonorato e macchiato quei nomi stessi. L’etimologia di mafia come di ‘ndrangheta, ha connotati regionali e si riferisce a balordi presuntuosi travestiti da uomini che, usando metodi illeciti, interferiscono nelle attività economiche, commerciali e sociali del luogo in cui transitano, mettendo a repentaglio senza scrupolo la vita di chiunque si metta tra loro e gli affari. E’ il caso di innocenti, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine e loro stessi a causa di guerre per il territorio, come cani che marcano il suolo oltre ad abbaiare sparano. Il quadro italiano, secondo la mappa interattiva consultabile grazie a “Il Fatto Quotidiano” e al Parlamento Europeo, vede quattro principali organizzazioni criminali muoversi sullo stivale: abbiamo la mafia, intesa come Cosa nostra in Sicilia, la camorra prevalente nelle zone campane di Napoli e Caserta, l’ndrangheta che dalla Calabria si è spostata anche al Nord in Lombardia, la pugliese Sacra Corona Unita. Tutte queste si occupano principalmente di spaccio di droga, riciclaggio, estorsione e infiltrazioni nell’economia, soprattutto tramite appalti pubblici e nel campo dell’edilizia privata. Inoltre ad operare con i clan principali abbiamo anche criminalità nigeriana, cinese e albanese. Il fatto che siano nate in certe regioni non li esenta dal trafficare anche in altri luoghi, grazie anche al sostegno con alcuni membri della politica. Non sembra essere un caso allora se il Bel Paese sia l’unico in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc contro l’associazione di stampo mafioso, l’articolo 416 bis.

Rendere silenti le famiglie dei clan. Torniamo al linguaggio della mafia per riabilitare quei nomi. Dal libro di cui sopra, inizio dai Barbaro, facente parte all’ndrangheta calabrese molto presente in Lombardia, Piemonte, Germania e Australia. I Barbaro ben più importanti furono però quelli dell’alta aristocrazia veneziana che dal 1390 vantavano nel loro entourage vescovi, commercianti ed esploratori, come quel Nicolò che scrisse una cronaca sull’assedio di Costantinopoli nel 1453 al pari di Giosafat che ne scrisse sull’Asia. Che dire dei Papalia, ai Barbaro collegati per ‘ndrangheta, ma ben lontani nella Storia essendo stati estratti dalla nobiltà calabrese in principio legata, sembrerebbe, al marchesato di Saluzzo in Piemonte. Andando avanti troviamo i Brandimarte di Gioia Tauro e la faida aperta con i Priolo in quel di Vittoria in Sicilia, famiglie nella storia remota ben conosciute: i primi di origine medievale furono resi famosi dalle battaglie epiche francesi della Chanson de Roland e dal nostrano Ariosto nonché più di recente simbolo dell’artigianato e dell’argento a Firenze, la seconda dei Priolo invece abitante del Rinascimento veneto trovandosi un capo, un Doge, della Repubblica. In Sicilia, nel presente, vi è anche il clan mafioso dei Carbonaro-Dominante, appartenente alla Stidda una quinta organizzazione criminale operante soprattutto nelle province di Ragusa, Caltanissetta, Enna e Agrigento. Sì, ma i Carbonaro, come suggerisce il nome potrebbero derivare sia dalla Carboneria, quale società rivoluzionaria e liberale ottocentesca nata nel Regno di Napoli, sia dal carbonaio come mestiere di trasformazione della legna in carbone vegetale, Carbonaro-Dominante legato a Ventura, come il suo boss, cognome risalente al medioevo cristiano. Li conosciamo con questi cognomi che sembrano fare la Storia, ma la nostra Storia è un’altra. Grazie a "la Spia" sappiamo che: “Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la Camorra (sarebbe più giusto parlare dei Casalesi) gestiscono i trasporti”. Casalesi, un altro nome balzato alle cronache a causa dei fatti e dei misfatti ad essi collegati e a Schiavone anche, il boss, derivante dagli slavi che seguita la rotta dei longobardi arrivarono dal fiume Natisone nel Friuli Venezia Giulia. Un’altra famiglia che ha infranto i valori della società civile è senz’altro la Bottaro-Attanasio, forte della sua prima origine di “fabbricante di botti” e della seconda dell’immortale che si è illuso di dare il nome a tutta la Sicilia greca che conta - tolte le persone perbene -, quella di Siracusa. Nonché i Corleonesi, sui quali ha avuto interesse persino l’industria del cinema producendo pellicole narranti di padrini più eroi che padroni. Una cosca formata all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta e appoggiata dalle famiglie Liggio, Riina e Provenzano, il superficiale per origine, la mancata Regina e un Provenzano Salvani di Siena che un giorno rinvenne in una casa della Contrada della Giraffa e lì, meta di pellegrinaggio, una Madonna ancora porta il suo nome. Poi ci sono gli imprenditori Cavallotti che cercano invano di minare il radicalismo del primo Felice. Ai Corleonesi alleati i Cuntrera-Caruana, di Siculiana nella provincia di Agrigento e in principio campieri, ovvero guardie private al controllo di una tenuta agricola, nel 2013 seguendo le orme della Banda della Magliana si impadronirono, insieme ai fratelli Triassi, del litorale di Ostia. Triassi, d’origine una nobile famiglia spagnola che avrebbe guidato la conquista di Mallora, secondo le ultime cronache, avrebbe una certa comunanza (di complicità e rivalità) con i Fasciani e gli Spada. E a loro volta gli Spada e i Casalesi con i Casamonica, una famiglia dall’Abruzzo da tempo operante nella zona dei Castelli Romani, castelli senza più neanche un cavaliere. Dall’ndrangheta di Morabito, Logiudice e Musitano alla Sacra Corona Unita dei Giannelli-Scarlino: sconsolata la prima e più antica famiglia latina, la seconda di magistrati, la terza di predicatori e l’ultima non piena di virtù, ormai negate da famiglie con più facile collusione alla realtà. Infine, sempre in riferimento al libro di cui sopra, da Napoli i Mazzarella e i Giuliano, i primi una casata nobile del Cilento all’interno di cui si ricordano le gesta di valorosi uomini come quel Michele che difese Malta dai Turchi nel 1565, i secondi invece dalla Spagna trapiantati in Sicilia dal Re Federico III da Baldassarre, tale la potenza che lo stemma della famiglia ritraeva un leone con due rose a dimostrar forza e delicatezza, oggi anch’essa ormai sopita. Appare mitigata la bellezza in cambio dell’omertà, ma forse no, il faro è ora acceso.

Un pamphlet per la legalità: vivere o morire di mafia? Scrive Valentina Tatti Tonni il 20 gennaio 2018 su "Articolo 21". Dalle minacce ricevute a MeridioNews, al processo sulla trattativa Stato-Mafia ancora in corso e alle dichiarazioni infelici del nuovo assessore regionale ai Beni Culturali della Sicilia Vittorio Sgarbi che adduce nel suddetto processo, i magistrati non conoscano la storia: “Il Tribunale di Palermo non può processare lo Stato, processi pure la mafia. Nel comportamento della Procura ci sono profili eversivi”. Fino all’Ansa che il 18 gennaio scorso, con la firma di Lorenzo Attianese, ha pubblicato poche righe su quello che definisce “nuovo ordine” della mala: la pentacamorra, ovvero cinque organizzazioni criminali che si stanno prendendo le strade, laddove le ormai mature mafia, ‘ndrangheta e camorra sono migrate ai piani alti. L’Ansa riconosce: le gang dei latinos, la mafia cinese, la Società Foggiana, i Cultisti Nigeriani e l’Organizacija georgiana. Questa la storia recente, dall’altra parte della medaglia invece c’è una pseudo-democrazia, cittadini spaventati o alle volte consenzienti, giornalisti, imprenditori e magistrati minacciati o sotto scorta. Questo pamphlet è a loro dedicato. Nel 1938 si diceva che la mafia fosse estinta, ma la verità era che Mussolini aveva censurato la stampa. Nel 1943 dopo la liberazione il New York Times riconosceva alla mafia un ruolo di primo piano. Lo storico britannico John Dickie, autore di molti libri sul tema, scrive che già a quel tempo [la mafia] “era una fratellanza criminale segreta, in cui si entrava pronunciando un giuramento e che era strutturata secondo la massoneria”. A renderla forte era il coinvolgimento istituzionale e l’omertà di cittadini spaventati o troppo affamati per reagire, perché la mafia offriva loro protezione sulla gestione dei terreni agricoli che a quel tempo costituiva un bisogno primario per la sopravvivenza e, dall’altra parte, si occupava di rendere più forte il brigantaggio e la borsa nera. Dopo la guerra, erano spesso i proprietari terrieri ad affidare ai boss i loro appezzamenti, a nomi come Giuseppe Geuco Russo di Mussomeli e Luciano Liggio. A rispondere alle rimostranze e al malcontento dei cittadini non era lo Stato ma la mafia che, in quanto a organizzazione, si prese in carico le loro problematiche offrendo una soluzione di intervento, un favore che al momento giusto sapevano gli avrebbero reso. D’altronde chiunque si fosse ribellato, sarebbe stato ucciso, un’esecuzione in piena regola per ristabilire l’ordine con armi impari. Tutti coloro che non sono contenti di come vanno le cose, aspettano. C’è sempre qualcuno tra la folla che, stanco di ascoltare le masse, alza la testa. E’ quello il momento, riconoscere tra la folla il salvatore, il guerriero, più spesso il martire che tirerà fuori il coraggio per dire “basta, non è giusto”. Tutti coloro che non sono contenti e che finiscono più spesso a lamentarsi, aspettano obbedienti che questo uomo, questa donna, puro di cuore, arrivi: braccia al collo, solidarietà, si fa festa. Mentre a palazzo qualcuno brinda alle spalle della folla che si illude di cambiare. Tra gli ossequi di giubilo qualche perbenista, moralista, fautore della legalità, difensore della giustizia. Tutti insieme si sentono impotenti, ma chissà come affidano a quell’unico sognatore la chiave di volta, legati a un’antica speranza di rinascita che dal 1948, anno della nostra Costituzione, lasciò il passo a delegati avulsi e collusi a un potere estraneo alla cittadinanza. Troppe poche autorità competenti e troppi pochi cittadini tentano di farsi strada nella lotta e nella (re)azione, rendendo di fatto le loro cause mulini a vento e gli altri, nel generale consenso, complici. Talmente radicato è il malaffare che tutti gli interventi di modifica sembrano solo lodevoli, ma non reali. La convinzione di saper sradicare il male è insista qui in qualunque persona che, se ha deciso di combattere la mafia ha di fatto smesso di vivere, è morto senza morire perché in questo Paese combattere la mafia e le ingiustizie in genere presuppone doversi difendere con l’aiuto di una scorta che è come una prigione in movimento senza sbarre. Ecco allora che tutti coloro che non sono contenti di come vanno le cose, ci pensano due volte prima di fare qualunque cosa, prima di denunciare, prima di mettersi dalla parte della giustizia. Non è possibile, per quanto non sia d’accordo dar loro assolute colpe. Soprattutto chi ha una famiglia o chi semplicemente crede di non appartenere al Tutto che ci circonda, ha altri progetti in mente che non vuole abbandonare o non ha quella forza d’animo necessaria a fronteggiare con una discreta dose di ottimismo e solitudine la malavita e le sue ritorsioni. Aspettano dunque con innata ipocrisia il coraggioso di turno e in buona fede lo investono delle loro premure e speranze, gli chiedono senza averne pieno diritto di sottrarre il presente, il proprio ovviamente, che sia lui o lei a rinunciare alla vita e alle relazioni in cambio della possibilità di garantire in futuro una vita più equa e democratica per tutti. Son colpevoli in tal senso questi tutti che hanno un ruolo istituzionale e dovrebbero farsi da garante contro la criminalità e sostenere (non solo all’occorrenza di un corteo) chiunque voglia sentirsi libero dalle imposizioni malavitose, ma che invece sono diventati patrioti cospiratori, le cui doti sono caratterizzate da viltà e indifferenza verso il bene comune. Colpevoli sono tutti coloro che restano silenti di fronte alle ingiustizie e che trovano nel sognatore di cui sopra il capro espiatorio ideale per tentare una strada in cui, evidentemente, non credono abbastanza. Quale incentivo per un cittadino perbene nella mancanza di una riforma della giustizia adeguata e dei tempi processuali limitati, senza una rivoluzione del pensiero e una cultura che elimini la mafia e le azioni illecite in genere dalla sensazione di normalità su cui si è fondata la società? Una verità amara e aspra che si aggiusta nel tempo sulle troppe vite spezzate. Non cambierà nulla se a questa lotta che riguarda tutti la moltitudine di persone che compone il Paese non si impegnerà all’unanimità per combattere la mafia (che sia ‘ndrangheta, camorra, Sacra Corona Unita, pentacamorra, gang di strada, etc.) e pretendere giustizia, in modo che chiunque decida di denunciare o di scrivere articoli e inchieste non si senta mai in pericolo.

Ma l'emergenza resta. Altri 160 anziani e malati vittime degli irregolari. La denuncia di Angelo Sala, presidente Aler «Occupazioni in crescita, bisogna intervenire», scrive Michelangelo Bonessa, Sabato 20/01/2018, su "Il Giornale".  Il caso di Rosa non era il solo sul taccuino della Prefettura. Sono più di 160 i casi critici segnalati alle autorità dall'azienda lombarda edilizia residenziale (Aler). Non si tratta di persone che hanno occupato l'abitazione di un'anziana mentre era in ospedale, come per la storia di Rosa raccontata dal Giornale in questi ultimi giorni, ma di delinquenti che non si sono limitati a entrare illegalmente in un alloggio: hanno proseguito con un atteggiamento da criminali che ha reso impossibile la vita nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. A confermare il dato è Angelo Sala, presidente di Aler, dopo la giornata del ripristino della legalità al civico 36 di via Salomone. «Ci sono 160 situazioni che meritano di essere controllate», precisa. Un numero alto, anche se confrontato con i 3300 abusivi presenti nei 72mila alloggi erp regionali. Oggi è il giorno in cui si festeggia lo sgombero dell'alloggio di Rosa alla Trecca, fortino da 477 appartamenti della periferia milanese. E in cui Sala replica piccato all'assessore comunale alla Sicurezza Carmela Rozza che ha affermato che Aler non segnala i casi critici: «Se qualcuno vuole fare campagna elettorale sulle spalle della povera gente forse dovrebbe cambiare settore - ha dichiarato Aler comunica sempre i dati alla Prefettura e sono lettere protocollate che chiunque può verificare». Il problema è che il fenomeno delle occupazioni tende a salire in questi ultimi anni: «I dati sono in crescita ha proseguito Sala quindi l'unica soluzione è mettere un freno immediato ai nuovi casi: non possiamo perdere la partita della delinquenza». Intanto le forze dell'ordine hanno accolto l'appello del Giornale e gli occupanti del monolocale sono stati allontanati. Un caso che aveva scosso le coscienze di molti perché nelle Case Bianche visitate da Papa Francesco l'anno scorso già si evita di andare in vacanza proprio per paura delle occupazioni. L'ansia di non potersi ammalare era troppo, persino per una periferia dove alla piccola criminalità si è abituati. E l'appello a salvare la «razza Rosa» è arrivato alle orecchie giuste. «Sono soddisfatto del lavoro svolto oggi dalle Forze dell'Ordine e dai tutor di Aler Milano che hanno eseguito lo sfratto dei 6 senegalesi e restituito l'appartamento alla legittima assegnataria. Tutto il mio apprezzamento va al Prefetto, al Questore e a tutte le forze dell'ordine - ha commentato Sala -. Il tema delle occupazioni abusive deve essere affrontato con grande impegno e sinergia tra tutte le istituzioni, nessuno escluso. Se qualcuno vuole fare melina rispetto a questo fenomeno, non trova questa Presidenza assolutamente disponibile. Lo sfratto di oggi deve essere il modus operandi per il futuro. Tutti i nuovi occupanti abusivi vanno assolutamente allontanati. Quella odierna è la dimostrazione che, quando le Istituzioni collaborano, Aler Milano c'è». Una collaborazione che potrebbe continuare anche sugli altri casi, sempre che prevalga l'idea di puntare a risolvere il problema e non le logiche di scontro politico.

Insulti, rabbia e desolazione. La guerra fra disperati nel fortino della malavita. L'arrivo della polizia alla Trecca è salutato con grida e offese Alta tensione fra residenti regolari e abusivi E un senso di abbandono: qui lo Stato è assente, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/01/2018, su "Il Giornale".  «Pezzidimmerda!». L'insulto piove dalle finestre di chissà quale piano delle torri scrostate alle dodici e un quarto, appena il primo blindato della Celere si affaccia davanti alla Trecca: e vai a sapere se quello che urla ce l'ha con i poliziotti, con le telecamere dei giornalisti, o con gli inquilini che li hanno chiamati. O forse l'insulto abbraccia in una parola sola tutti quelli che si ostinano a pensare che un assaggio di legalità possa toccare anche a questo quartiere (Trecca da tri caà, tre case: prima che gli sciagurati palazzoni sorgessero) dove da troppo tempo lo Stato è assente: e dove neanche le parole di Papa Francesco, arrivato in visita dieci mesi fa, hanno fatto breccia davvero. Il Papa se n'è andato, in via Salomone il degrado è rimasto. Qui la nettezza urbana non svuota i cassonetti, l'istituto delle case popolari non aggiusta i citofoni, il commissariato non arresta i balordi. E l'incredibile storia di Rosa, l'anziana cui una famiglia di senegalesi ha occupato la casa appena è finita in ospedale, è figlia in qualche modo dell'abbandono in cui il quartiere è stato lasciato per anni, fino a raggiungere il punto di non ritorno. Il rapporto base tra le persone sembra essere l'insulto. C'è quello dalla finestra che insulta poliziotti e giornalisti; ma c'è anche il signore che porta giù il cane, e che appena vede un malconcio rom in bici avvicinarsi ai cassonetti lo copre di male parole, «animali, siete voi che li svuotate per cercare la roba che vi serve, e lasciate tutto in giro, fate schifo»: e dentro c'è l'esasperazione, la rabbia senza sbocchi accumulata ogni giorno che gonfia i capillari. Tutti insultano tutti: gli inquilini regolari insultano gli abusivi, gli abusivi insultano i regolari che fanno la spia, tutti insieme insultano l'Aler, il Comune, la polizia, il mondo. Il sistema di vendere al miglior offerente l'accesso alle case sfitte, ovvero il racket, esiste da tempo immemorabile: «Anni, decenni», dicono le donne dalla faccia stanca che ieri assistono all'irruzione della Celere nella casa di nonna Rosa: «Con ottanta euro al mese ti fanno dormire in cantina, che è sempre meglio che dormire per strada». Cliente e anche vittima del racket, in fondo, si proclama anche il signore che molti indicano come «l'immobiliarista», il dominus della tratta degli alloggi. Lo chiamano lo Zingaro, e ieri è arrabbiato perché un suo nipote è stato arrestato per avere stuprato con due amici una ragazza dopo averla drogata in un locale, e i filmati sono finiti su tutti i giornali: «Ma lui è un bravo ragazzo, sono gli altri due che l'hanno violentata! E poi oggi sono le donne che vanno a violentare gli uomini». In via Salomone, lo Zingaro c'è arrivato da un campo nomadi: «Ho comprato la casa per cinquemila euro», ovviamente dal racket. «Io non sono il capo di niente, io di mestiere compro e vendo automobili e chi mi accusa è un infame». Nel palazzo, lo temono e lo odiano. Un po' detestano anche il parroco che allo Zingaro porta ogni settimana il pacco con i viveri: «Ma come, quello gira in Mercedes e il prete gli porta da mangiare. Quando abbiamo protestato ha detto: gli porto il pacco viveri perché ha un Ise pari a zero». Mentre la Celere libera la casa di nonna Rosa, lo Zingaro (che in realtà si chiama Giulio Guarnieri) se ne sta assiso come in trono al centro del cortile, circondato dalla sua corte dei miracoli, e racconta tutto fiero ai cronisti dei suoi quindici anni in carcere per tentato omicidio. Della casa scippata a Rosa dice «io non so niente, saranno stati gli albanesi», e magari è anche vero. Bisbigliano le donnine del cortile: «Si dice che a vendere la casa ai senegalesi è stata la badante. Lo Zingaro per vendere le case almeno aspetta che siano vuote». Ma se a smerciare il diritto d'accesso alle case popolari ci si mettono anche le badanti, allora davvero per via Salomone non c'è più speranza. «Il citofono non funziona», «il siciliano Biagio = mafia»: ma anche «I lov you». I graffiti negli androni di via Salomone raccontano una quotidianità dove, inesorabile, fa capolino la voglia di vivere una vita normale. Ma come si fa, con cento appartamenti su 470 in mano al racket, con le facciate che cadono a pezzi, con il messaggio a tutto campo che qui non valgono le leggi dello Stato e neppure quelle della convivenza civile, si può orinare in ascensore, buttare i rifiuti dalle finestre, e nello spelacchiato verde centrale i cani fanno i comodi loro, e nessuno raccoglie niente? Non nasce ieri questo dramma, e chi è cresciuto qua dentro si adatta o almeno si rassegna. Ieri nessuno applaude l'arrivo della polizia. «Quando c'erano gli albanesi in piazza Ovidio, a cacciarli via siamo stati noi», dice uno: giustizia fai da te, legge del più forte. Ed è un inquilino regolare, uno che in un altro posto magari starebbe dalla parte dello Stato: ma non alla Trecca. 

 [L’inchiesta] Il comandante dei carabinieri arrestato per mafia, il parroco che aiutava i killer. 27 ‘ndrine e 10 logge massoniche. Benvenuti nella città più mafiosa d’Italia. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai, scrive Guido Ruotolo, editorialista e giornalista d’inchiesta, il 31 dicembre 2017 su "Tiscali News". Per favore accendete i riflettori su Vibo Valentia, una città a una decina di chilometri da Lamezia Terme, nel centro della Calabria. Una perla la sua Capo Vaticano, con il mare mozzafiato. E poi Pizzo e Tropea, le spiagge, i fondali, le cipolle e i “fruttini”. E l’amaro del Capo e il tonno dei Callipo. Dimenticate tutto questo. Non capireste nulla di Vibo, della Ndrangheta e della terra dei senza speranza. Quello che da fuori appare sotto una certa luce in realtà è un’altra cosa. È contaminata, collusa. A qualcuno, questa terra ricorda la Palermo degli anni Ottanta. Può essere. A me il vibonese sembra terra di nessuno, anzi una Repubblica indipendente della Ndrangheta. Sapete che nella storia della Calabria e della Ndrangheta vi è stata nel dopoguerra una Repubblica indipendente della Ndrangheta a Caulonia, nella Locride, durata pochi giorni, con il sindaco comunista e ndranghetista?. E dunque siate forti e non stupitevi (semmai indignatevi) per quello che succede in questa terra. Non meravigliatevi se all’inizio del nuovo millennio, con la scoperta della Ndrangheta che si è infiltrata persino nella corona dei comuni che circondano la grande Milano, torniamo nella terra dove è nata e vive la Ndrangheta. Per la verità fino agli anni Ottanta era consolidata l’idea che la Ndrangheta fosse radicata solo nella provincia di Reggio, nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio città. Fu solo dopo che si è scoperto che la Ndrangheta c’era sempre stata anche nella Calabria del Nord, Crotone, Vibo, Lamezia, persino Cosenza. Ebbene qui a Vibo è accaduto qualcosa che se fosse successo a Palermo anche nel 1990 sarebbe caduto il governo. Ci sarebbe stata la sollevazione popolare. Del resto non fu il procuratore di Milano Borrelli a gridare “resistere, resistere, resistere”, all’apertura dell’anno giudiziario si tempi di Mani Pulite? Questo per dire che il protagonismo di una società civile forte si sarebbe mobilitata, non avrebbe permesso che il pool di Mani pulite fosse neutralizzato. Oggi, quella magistratura che ha fatto la storia nel bene e nel male è solo un ricordo del passato. Ed è un bene che chi teorizzava un ruolo salvifico dei magistrati impegnati a farsi carico del rispetto della legalità e della eticità della nazione, oggi sia stato sconfitto. Però dal fare politica dei magistrati al nulla ce ne passa. Solo alcuni numeri per avere elementi su cui ragionare. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai. Come se non bastasse, la Ndrangheta dal 2015 gestiva centri di accoglienza per 650 richiedenti asilo fino a quando non è arrivato un prefetto, un eccellente ex “sbirro”, Guido Longo, che ha deciso che non è possibile che nella provincia di Vibo Valentia lo Stato italiano sia un ospite. Insomma, ha deciso di ripristinare il funzionamento delle istituzioni italiane. Mettiamo dunque il caso che a Palermo un tribunale decida di assolvere Totò Riina imputato di associazione mafiosa. Secondo voi quali saranno le conseguenze? Un terremoto politico e un moto di indignazione? Addirittura il governo potrebbe essere costretto alle dimissioni? L’ondata di stupore si potrebbe propagare anche all’estero? Domande legittime, e se questo pericolo paventato in realtà è accaduto a Vibo Valentia? Qualcuno se ne è accorto? I giornali e i canali televisivi ne hanno parlato? Nessuno. Nessuno si è indignato perché Giovanni, Antonio, Pantalone e Giuseppe Mancuso sono stati assolti dall’accusa di associazione mafiosa. Ora che i Mancuso siano mafiosi, che la ’ndrina di Limbadi sia tra le più potenti della Ndrangheta è cosa notissima. Davvero è come parlare di Lo Piccolo o Riina per Cosa Nostra. Eppure questa assoluzione è passata vergognosamente sotto silenzio. Il collegio giudicante era composto da tre giovanissime magistrate arrivate a Vibo nel 2014, prima sede assegnata. E il processo «Black money» era atteso, importante. Ma il presidente del Tribunale, Filardo, ha deciso di affidare il giudizio alle tre giovani magistrate e tenersi invece per sé una costola dello stesso processo che vedeva imputati per concorso esterno alla Ndrangheta due funzionari della questura di Vibo, tra cui l’ex capo della Mobile, e un avvocato. Perché fosse vissuto dai vibonesi come un “non processo”, il presidente del Tribunale ha deciso di far svolgere le udienze nell’aula bunker (e l’esame di uno degli imputati si è tenuto inspiegabilmente a porte chiuse) provocando non pochi problemi nella gestione dei calendari delle udienze dei processi. Ora il Csm è stato costretto ad accendere i riflettori sul funzionamento del Tribunale di Vibo Valentia. Era ora.

«Il Crotone è calabrese: cacciatelo!» La crociata di Gratteri& Ruotolo, scrive Piero Sansonetti il 3 gennaio 2018 su "Il Dubbio". C’è un Procuratore della Repubblica che ha chiesto misure di prevenzione sia personali che patrimoniali nei confronti del Crotone - calcio e dei suoi proprietari. Il motivo è che lui ha sempre avuto il sospetto che i due proprietari potrebbero essere, se non proprio mafiosi, almeno amici di qualche mafioso. Il Procuratore ha chiesto al tribunale di Crotone e poi alla Corte d’Appello di Catanzaro di intervenire. Cacciate il Crotone, è mafioso! La crociata di Gratteri& Ruotolo. Il tribunale e la Corte, però, gli hanno spiegato – anche gentilmente – che in questi casi occorrono degli indizi o forse persino delle prove. Non basta l’impressione di un Procuratore per chiudere una società di calcio di serie A (e nemmeno, forse, di serie B…). Nicola Gratteri – è lui il Procuratore del quale stiamo parlando – è andato su tutte le furie e nell’impossibilità di mandare avanti la battaglia sul piano giudiziario, ha passato la mano a un suo amico giornalista. Il giornalista in questione è una delle penne di punta del giornalismo giudiziario italiano: Guido Ruotolo. Un passato al ‘ manifesto”, poi molti anni alla “Stampa” di Torino, un periodo all’ufficio stampa del ministero della Giustizia, e ora scrive per Tiscali. Sulla base dell’iniziativa di Gratteri ha scritto l’altro giorno un articolo su Notizie- Tiscali dal titolo roboante: «Una squadra di serie A in mano alla ‘ Ndrangheta. Ecco le carte dell’accusa choc». Vedete bene che il titolo non lascia spazio a dubbi: il Crotone è la squadra della Ndrangheta. Nel sommario le cose un po’ si ridimensionano. Lo ricopio, perché è suggestivo: «la Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri sospetta che il Crotone calcio sia inquinato dalla presenza della Ndrangheta. Uno dei suoi proprietari fu condannato in primo grado e poi assolto per concorso esterno in associazione mafiosa». Ci sarebbe da fare qualche riflessione sul modo nel quale si usano i titoli e i sommari, nel nostri giornalismo. E anche su come si usano i processi finiti in assoluzione, dove – in pura teoria e presumendo l’esistenza di uno stato di diritto – ci dovrebbe essere un eroe, e cioè l’imputato ingiustamente perseguitato, e un personaggio negativo, e cioè il Pm che ha processato un innocente accusandolo di un reato così infame. E invece, grazie all’irresponsabilità del nostro giornalismo, tutto si rovescia: il Pm sconfitto diventa un giustiziere buono, tenuto a freno dai burocrati dei tribunali, e l’innocente diventa un colpevole morale, salvato ingiustamente dai potenti. Detto ciò, il lungo articolo di Ruotolo si limita a raccontare tutte le volte che questo Raffaele Vrenna (uno dei due proprietari del Crotone) è stato sospettato, per le sue frequentazioni, e il nulla assoluto che è emerso da questi sospetti, tanto che la assoluzione in appello è diventata definitiva perché nessuno ha trovato appigli per ricorrere. E tuttavia l’articolo non si conclude, come si potrebbe supporre, con qualche parola di critica verso l’avventurosità dell’iniziativa di Gratteri, ma invece con un appello ad un non ben definito “governo del calcio”, affinché, “sebbene probabilmente non ci siano elementi per giungere a una condanna penale”, comunque intervenga con una interdittiva e sospenda il Crotone in attesa di un giudizio definitivo (che in realtà già c’è stato). Voi dite che tutto questo è solo folclore? Che non bisogna badarci? No, non è affatto folclore. E’ la realtà delle cose nella quale stiamo vivendo. Un pezzo di giornalismo e un pezzo di magistratura – entrambi di notevole peso – pensano esattamente quello che Ruotolo ha scritto. Cioè che la macchina della giustizia debba funzionare alimentata dal carburante del sospetto. E che il sospetto, seppure, purtroppo, non sufficiente – stando alle leggi attuali a giungere a misure penali, debba quantomeno essere considerato sufficiente per misure civili. Sequestri, confische, interdittive. Le quali misure possono restare fuori dalle pastoie dello Stato di diritto, e dare comunque un assetto etico migliore alla nostra società. Guido Ruotolo, che conosco bene da molti anni, e mi sta anche simpatico, è una firma prestigiosa del giornalismo giudiziario. Se scrive queste cose sa di poterle scrivere. Nicola Gratteri è stato a un passo dal diventare ministro della Giustizia (solo l’intervento di San Giorgio Napolitano ha evitato per ora che ciò accadesse), e ha presieduto una commissione incaricata dal governo di proporre una profonda riforma del sistema giudiziario. E lo stesso Gratteri, con ogni probabilità, ha ampie possibilità di arrivare finalmente al ministero di via Arenula se i 5 Stelle e la Lega vinceranno le elezioni (evenienza non impossibile). Stiamo parlando di cose molto serie. Concrete. La possibilità che in Italia si interrompa la tradizione liberale che tra alti e bassi ha governato il paese dopo il 1945, e si torni a un’idea autoritaria, arbitraria e persecutoria della giustizia, non è frutto di fantasie malate.

51 sindaci calabresi contro il CorSera: «Mai sciolti per mafia», scrive Simona Musco il 24 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Da qui la decisione di querela, non prima, però, di aver formalizzato una richiesta alla redazione del Corriere della Sera di rettifica o replica. Goffredo Buccini ci era andato giù pesante, usando frasi che poco lasciavano all’immaginazione. «I sindaci dei comuni calabresi sciolti per mafia non si rivoltano contro la ‘ ndrangheta ma contro lo Stato», scriveva il 7 dicembre scorso sul Corriere della Sera, raccontando la decisione di 51 sindaci della città metropolitana di Reggio Calabria di scrivere al ministro dell’Interno, Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose. Parole così pesanti da indurre, oggi, a presentare una querela per diffamazione nei confronti del giornalista del Corriere, dopo aver chiesto, invano, una rettifica. I 51 «sindaci ribelli» lo hanno annunciato lunedì, nel corso di una conferenza stampa che è servita per contestare punto su punto «le affermazioni diffamatorie» di Buccini. Perché loro, hanno spiegato i primi cittadini, altro scopo non avevano se non discutere «civilmente ed in modo costruttivo di principi democratici e di leale collaborazione, sia pure in posizione vigile, fra i diversi pezzi dello Stato». Una richiesta accolta sia dal Ministro dell’Interno sia dal Prefetto, che hanno concordato un incontro per il 5 dicembre scorso (al quale, però, Minniti non ha poi partecipato). L’idea era quella di partecipare ad un processo di revisione di quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», aveva spiegato il sindaco di Roghudi, Pierpaolo Zavettieri. La legge, aveva evidenziato dopo aver incontrato il Prefetto di Reggio Calabria, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibilità che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese». Assieme a ciò, i sindaci chiedevano anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiungeva Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia». Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un concetto fondamentale, anche alla luce della sentenza con la quale il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di annullamento dello scioglimento dell’amministrazione di Marina di Gioiosa Ionica, caduta, nel 2011 a seguito dell’arresto del sindaco e di tre assessori in un blitz antimafia. Questi ultimi, oggi, sono stati assolti definitivamente, mentre la posizione dell’ex sindaco deve essere rivalutata da un nuovo processo d’appello. Ma nonostante non ci siano prove dell’eventuale «sussistenza di uno stabile inserimento nell’associazione mafiosa dei soggetti coinvolti», il Consiglio di Stato valorizza proprio ciò che per la Cassazione non era risultato prova di una contaminazione mafiosa: la «rete di rapporti stabili tra questi (gli amministratori, ndr) e gli appartenenti alla criminalità locale». Perché, si legge ancora nella sentenza, ciò che conta «non sono gli aspetti di rilevanza penale», bensì «la tendenza dell’attività degli organi politici a non porre in essere ciò che era loro compito nel dare luogo ad un’opera di vigilanza e controllo dell’apparato burocratico, al fine di evitare ingerenze da parte della criminalità organizzata». I sindaci, dunque, sono indignati. In primis per il titolo in prima pagina: “I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari” e “Quei 51 Comuni calabresi divisi tra Stato e Mafia”, nonostante nessuno dei firmatari della lettera indirizzata a Minniti sia mai finito in una relazione di scioglimento per mafia. Ci sono, poi, quei riferimenti a “consigliere comunali fidanzate di presunti padrini e membri della maggioranza in manette”, accusa, dicono i sindaci querelanti, «destituita da ogni fondamento». Offensiva, scrivono nell’atto di querela affidato all’avvocato Gianpaolo Catanzariti, è poi la presunta rivolta allo Stato e non contro la ‘ ndrangheta. «Gli eletti dei comuni replicano che non solo non sono stati sciolti per mafia – si legge – ma soprattutto non hanno praticato o favorito nessuna azione di rivolta, ma sono stati semmai convocati dal Prefetto di Reggio Calabria dal quale garbatamente si sono prontamente recati. Appare superflua aggiungono – la precisazione che tutti i firmatari aborrono la ‘ ndrangheta e ogni forma di violenza e prevaricazione che va contrastata». Ma la parte peggiore, per i primi cittadini, è quella in cui viene effettuato un parallelismo tra i reggini in fila in prefettura a firmare il registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ ndrangheta e la «rivolta» dei sindaci al piano di sopra. «Non poteva esserci nessuna rivolta – spiegano – in quanto convocati ufficialmente dal Prefetto, testimone al di sopra di ogni sospetto e per di più anche al piano terra e non a quello “di sopra”». Da qui la decisione di querela, non prima, però, di aver formalizzato una richiesta alla redazione del Corriere della Sera di rettifica o replica. Richiesta rimasta, però, «senza risposta».

Processi, testi, udienze tra Palermo e Caltanissetta: un turbinio di eventi con uno spruzzo di legalità e tanto veleno, scrive il 22 gennaio 2018 Telejato. OGGI SI È TENUTA A PALERMO L’UDIENZA PER IL PROCESSO A CARICO DI PINO MANIACI, MENTRE A CALTANISSETTA È INIZIATO QUELLO NEI CONFRONTI DI SILVANA SAGUTO.

Continua lo stillicidio di udienze che interessano Pino Maniaci. Come sappiamo la Procura, rappresentata dal PM Amelia Luise, ha tirato fuori carpettoni di registrazioni chiedendone l’inserimento agli atti. La difesa di Maniaci, composta da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino ha deciso di accettare tale richiesta. Secondo gli avvocati difensori è proprio in quel voluminoso dossier di intercettazioni che si può facilmente dimostrare come non esistono importanti estremi penali, ma che si tratta di un morboso gossip quotidianamente attivato dai carabinieri di Partinico, con frasi di normale uso, in una chiave di lettura che aveva il solo obiettivo di demolire l’immagine del giornalista e di esibirne pubblicamente la mancanza di moralità. Ove fosse chiara tale finalità il resto diventa una conseguenza logica che prevarica gli aspetti penali o tende ad utilizzarli per portare avanti altre nascoste intenzioni che ci si augura possano venir fuori nelle varie fasi processuali. Intanto l’udienza proseguirà il 5 febbraio e nel corso di essa presterà giuramento il perito nominato dal tribunale per decrittare, entro 90 giorni, naturalmente suscettibili di rinvio, quanto intercettato dagli investigatori partinicesi. Nel frattempo il pubblico ministero ha deciso di tirar fuori uno dei vari capi d’imputazione dei quali Maniaci dovrà rispondere: si tratta della denuncia per diffamazione fatta dall’allora Presidente del Consiglio Comunale di Borgetto Elisabetta Liparoto. Maniaci ha accusato tutta la delegazione del Consiglio Comunale di Borgetto di essere andata negli Stati Uniti e di avere avuto contatti con alcuni mafiosi. A sostenere il presunto reato dall’accusa sono stati chiamati come testi i signori Pirrera, Grippi, Simeone, Badalamenti e Morello, questi ultimi due come esponenti di Teleoccidente, chiamati a documentare l’evento. Nel frattempo è in corso un’altra udienza che riguarda la Saguto e il 31 si aprirà l’altro processo contro Cappellano Seminara, che ha chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato e che ha già presentato una corposa lista di testi a carico. Sembra che, a partire dai prossimi giorni, la Procura di Caltanissetta sarà invasa dai 100 testi dell’accusa, dai 280 testi indicati dalla Saguto e da quelli di Cappellano, oltre quelli dei vari imputati, ognuno dei quali ne ha indicato a bizzeffe. Insomma, mezza Palermo si sposterà a Caltanissetta. L’altra mezza rimarrà in sede.

In mezzo, così, tanto per mettere la torta sulla ciliegina, il 24 gennaio ci sarà un’altra udienza del processo intentato da Lo Voi nei confronti di Riccardo Orioles e di Salvo Vitale. Ce n’è abbastanza per intorbidare le acque e rendere sempre più difficile l’accertamento di un reato penale rispetto all’offensiva che la Procura di Palermo ha scatenato nei confronti di Telejato.

Salvo Vitale denunciato dal procuratore Lo Voi, offeso dalla sua satira, scrive il 7 dicembre 2017 TeleJato. SECONDA UDIENZA IERI A CALTANISSETTA, PRESIEDUTA DAL GIUDICE PALMERI, NEL PROCESSO CHE VEDE IMPUTATI SALVO VITALE E RICCARDO ORIOLES, DENUNCIATI DAL DOTTOR LO VOI, CAPO DELLA PROCURA DI PALERMO, IN MERITO A UN ARTICOLO A FIRMA DI SALVO VITALE, TRASMESSO A TELEJATO IL 21 GIUGNO 2016 E PUBBLICATO, NELLA STESSA DATA, SUL SITO DELL’EMITTENTE. L’articolo, dal titolo “Metti una sera a cena”, è una ricostruzione satirica di una ipotetica e immaginaria cena che si sarebbe svolta nella casa di tale Vania in occasione del suo sessantesimo compleanno, alla quale avrebbero partecipato, come commensali Tano Seminato, Fabio Narice, Francesco Verga, Richard Armato, Ciccia Cannozzo, Melo Provenza, Franco Lo Bue, Alessandro Scimia e Mario Crusca. Ci sono poi i familiari di Vania, ovvero il marito Lorenzo, i suoi due figli, Elio e Francesco e la nuora Wanda. Si cita persino un “Brunello”, esperto carabiniere di Pars iniqua. Il procuratore ha creduto di identificare i personaggi come partecipanti ad una reale cena, avvenuta a Villa Paino in occasione del sessantesimo compleanno di Silvana Saguto, e, nella fattispecie Cappellano Seminara, Fabrizio Nasca, Tommaso Verga, Riccardo Amato, Francesca Cannizzo, Carmelo Provenzano, Francesco Lo Voi. Non sono stati identificati gli ultimi due che, volendo fare uno sforzo di fantasia potrebbero essere Alessandro Scimeca e Mario Caniglia. Nel brano si cita anche Filippo Arrappato, identificato in Filippo Rappa, destinatario del sequestro dei suoi beni affidati dalla Saguto a Walter Virga, figlio di Tommaso. Chi sono o chi sarebbero i personaggi che il procuratore ha creduto di identificare? Silvana Saguto e Cappellano Seminara non hanno bisogno di presentazioni, Fabrizio Nasca è un colonnello, o forse no, della Finanza in forza alla DIA, Tommaso Virga è un alto magistrato, Riccardo Amato è il comandante dei carabinieri interregionale di Sicilia e Calabria, Francesca Cannizzo è il prefetto di Palermo, Carmelo Provenzano è un professore della Kore di Enna, Francesco Lo Voi, la parte lesa, è il capo della procura di Palermo, Scimeca e Caniglia sono amministratori giudiziari. Ognuno degli intervenuti porta un regalo a Vania, Tano Seminato una collana d’oro, Fabio Narice il decreto di sequestro dei beni di Filippo Arrappato, Francesco Verga (alto magistrato del Consiglio Senza Minga, nel quale Lo Voi crede di intravedere il CSM) parla della “sistemazione” di una vicenda che riguarda la festeggiata e dell’opportunità di pensare ai ragazzi, cioè a Walter e a Wanda, cosa che Vania ha “già fatto”, Richard Amato porta una torta e un anello, Ciccia Cannozzo un profumo Chanel n.5, Melo Provenza la tesi di laurea di Caramia Francesco, Alessandro Scimia una cassetta di vini dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono e Mario Crusca sei chili di ventresca, che il figlio della Vania, Elio, esperto cuoco presso l’hotel Brunellacci di proprietà dello zio Tano, si appresta a cucinare. È descritta anche la ricetta sia degli spaghetti al tonno, sia della ghiotta di tonno. Ma la cosa che il procuratore Lo Voi ha ritenuto offensiva è che uno degli agenti della scorta di Ciccio Lo Bue, procuratore di Salerno, porta in dono alla Vania una grossa anguria di venti chili proveniente da un mercato ortofrutticolo sotto sequestro. Lo Voi sostiene che era il prof. Carmelo Provenzano a portare frutta fresca alla Saguto, compresi i melloni, e non lui. Finita la cena gli intervenuti tra una chiacchera e l’altra parlano della possibilità di una nomina al Cara di Mineo di Melo Provenza, attraverso la raccomandazione del dottor Montone di Roma, il quale ha già dato un incarico giuidiziario a Tano Seminato, e Vania esprime il suo desiderio, sia a Ciccia, che a Ciccio, che a Richard, di voler tolto dai piedi lo Scassaminchia, nel quale Lo Voi crede di riconoscere il direttore di Telejato Pino Maniaci. I quattro decidono di preparare una “polpetta avvelenata” per sbarazzarsi dello Scassaminchia attraverso la preparazione di un filmato “da gettare in pasto alla stampa” ed alcuni provvedimenti da adottare nei suoi confronti. E qua è l’altra frase incriminata, quella in cui Ciccio Lo Bue dice: “Basterà una misura cautelare di divieto di soggiorno e lo spediremo lontano da Pars Iniqua, dove con il suo giocattolo televisivo può continuare a rompere le scatole. Ma non è ancora il momento. Mi sono arrivate strane voci da parte della Procura di Caltanissetta e bisogna andare cauti: non possiamo far credere a una vendetta di Vania e di Tano nei confronti di chi l’ha attaccato ogni giorno. Dobbiamo fotterlo quando meno se l’aspetta”. 

Vania: “E allora a rivederci tutti, tra qualche settimana, al mio resort, all’Abbazia Sant’Anastasia, per il nostro annuale incontro annuale sui beni sequestrati. Melo, mi raccomando, prepara tutto tu”.

Tano: “È stata una bellissima serata. Rendiamo lode al Grande Architetto che tutto ordina e regge. In questo momento la mafia ce la può suc….scusami Vania. Siamo noi i padroni di Palermo”. 

In fase di controinterrogatorio l’avvocato difensore di Salvo Vitale ha chiesto a Lo Voi se fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, cosa che Lo Voi ha confermato, dal 1981, se di questa corrente fanno parte Tommaso Virga e Silvana Saguto, cosa anche qui confermata, con l’affermazione che Silvana Saguto non era un’assidua frequentatrice delle riunioni e non si sa nemmeno se era tesserata. Parrino ha anche chiesto quali fossero i suoi rapporti con la Saguto e Lo Voi ha detto che erano buoni sino a un certo periodo e che si sono poi raffreddati. Ultima domanda di Parrino a Lo Voi, se c’è qualche grado di parentela con Cappellano Seminara. Lo Voi ha risposto negativamente, ma Parrino ha riproposto la domanda chiedendo se il rapporto di parentela è con sua moglie. Lo Voi, in questo caso ha ammesso una “lontana” parentela. Parrino ha anche fatto osservare che l’articolo è stato rimosso dal sito all’indomani della denuncia, che il prof. Salvo Vitale, in prima udienza, con dichiarazione spontanea, ha detto: “Se il procuratore si è sentito offeso per la mia satira gli chiedo scusa, perché non era mia intenzione offenderlo, ma rilevare che egli non poteva, nel suo ruolo, non essere al corrente del procedimento contro Maniaci”. Il procuratore ha affermato di non sapere di queste dichiarazioni. Per riparare all’offesa subita il procuratore ha chiesto un risarcimento di centomila euro sia a Salvo Vitale che a Riccardo Orioles. La prossima udienza è stata fissata il 24 gennaio.

Processo per diffamazione di Lo Voi contro Salvo Vitale e Riccardo Orioles, scrive il 25 Gennaio 2018 Telejato e Antimafia duemila. Il prossimo 5 marzo le arringhe finali. Lo scorso 24 gennaio 2017 al tribunale di Caltanissetta si è svolta una nuova udienza del processo per diffamazione intentato dal procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Lo Voi, contro Salvo Vitale e Riccardo Orioles, nella qualità, il primo di autore dell’articolo “Metti una sera a cena”, l’altro di direttore responsabile della redazione giornalistica di Telejato. E’ stato ascoltato, come teste unico il prof. Salvo Vitale, il quale ha risposto alle varie domande che gli sono state poste dall’avvocato difensore Bartolo Parrino, dall’avvocato dell’accusa e dal P.M, oltre che dal Giudice Palmeri, che presiedeva l’udienza. Salvo Vitale ha brevemente ripercorso la sua lunga carriera di giornalista, a partire dal 1964, quando scriveva per il giornale L’Ora di Palermo, le battaglie condotte con Peppino Impastato attraverso l’emittente radiofonica Radio Aut, per arrivare alla sua collaborazione con Telejato. Ha detto che a muovere la sua azione c’è sempre stata l’intenzione di fare un’informazione diversa legata a problemi reali del territorio e alle testimonianze delle persone vittime di ingiustizie. Su richiesta del Giudice Palmeri ha rivendicato la paternità sia dell’articolo in questione, sia di tutti gli altri articoli scritti negli ultimi cinque anni per Telejato, nei quali si è occupato di misure di Prevenzione e della gestione dei beni sequestrati a mafiosi o presunti tali. Per quanto riguarda il rapporto con Orioles ha detto che “era ed è basato sulla fiducia reciproca, e pertanto raramente egli ha preso visione di quanto pubblicato”. Nella sua ricostruzione della cena immaginaria, alla quale avrebbe partecipato il procuratore Lo Voi, egli ha detto che “bisogna distinguere il dato reale da quello immaginario e che, se nel dato reale c’è una cena alla quale partecipa il prefetto di Palermo e Cappellano Seminara, che porta in omaggio alla Saguto una collana d’oro, nella cena immaginaria partecipano una serie di figure, magistrati, militari, investigatori, amministratori, che rappresentano le espressioni più alte del potere in Sicilia. Se In questa cena si discute su quali misure prendere nei confronti di Pino Maniaci e della sua emittente, è perché esistono pregresse intercettazioni che preannunciano come era in atto un’operazione nei confronti del Maniaci”. Secondo Vitale “la frase ‘se quelli lì si spicciassero’ detta dalla Saguto al Prefetto Cannizzo, allorché le due donne parlano di Maniaci, conferma che ‘quelli lì’ erano i magistrati che si stavano occupando su come procedere nei confronti di Maniaci e che la Procura di Palermo, nella persona del suo massimo esponente, Lo Voi, non poteva non sapere.” “Questo - ha aggiunto il teste-imputato - motiva l’immaginaria presenza di Francesco Lo Voi alla cena”. Su domanda dell’accusa Salvo Vitale ha detto di “non potere escludere una motivazione personale di rivalsa del Procuratore nei confronti di chi ha condotto le inchieste di Telejato su un settore del Tribunale la cui presidente era legata a una serie di magistrati, collaboratori, compagni di corrente, per non parlare della parentela che lega la moglie di Lo Voi, Pasqua Seminara a Cappellano Seminara, al punto che costei è stata chiamata a testimoniare dalla Saguto a suo favore”. Sempre evitando di identificare l’immaginario con la realtà, Salvo Vitale ha chiarito che “l’obiettivo del suo articolo era quello di stimolare, attraverso l’uso della satira, una riflessione su come il potere, nelle sue varie articolazioni e attraverso chi detiene importanti cariche, può spesso decidere di procedere contro una piccola emittente e soffocare le voci libere che non si allineano al conformismo generale”. Pertanto ha invitato a riflettere su “come, attraverso questo processo si corre il rischio non di dare soddisfazione a una persona che si ritiene offesa, ma di soffocare l’intero diritto di satira e d’informazione”. Su proposta dell’avvocato Bartolo Parrino, che ha chiesto di produrre agli atti altro materiale, l’udienza è stata aggiornata al 5 marzo, ore 10 per le arringhe finali.

Misure di Prevenzione: tutto a posto e niente in ordine, scrive il 5 gennaio 2018 "Telejato". IN QUESTO ARTICOLO FACCIAMO IL PUNTO DELLA SITUAZIONE SULLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO E CI OCCUPIAMO DI QUANTO STA SUCCEDENDO NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI AI VIRGA DI MARINEO, QUELLI CHE ABBIAMO DEFINITO I PAPERONI DI SICILIA. Come al solito e come ai bei tempi della Saguto, troviamo sul Giornale di Sicilia l’articolo che traccia ed esalta l’immagine del magistrato, ne declama le attività, confronta i tempi interminabili per i vari procedimenti, usati durante la gestione Saguto, con quelli pur notevolmente lunghi, di due anni e mezzo, entro i quali si dovrebbe muovere, per chiudere i vari casi di sequestro o di confische, il nuovo presidente dell’Ufficio Misure di Prevenzione Raffaele Malizia, in carica da sei mesi. Sappiamo così che, con la nuova gestione sono stati emessi, ad oggi, 400 nuovi provvedimenti “con un saldo positivo di 100 nuove decisioni adottate” e che, con la nuova legge, sul tribunale di Palermo graverà anche il carico dei provvedimenti emessi da Agrigento, valutato il 30% in più, ma che vedrà la nomina di un altro magistrato in aggiunta ai cinque oggi in organico Luigi Petrucci, Giovanni Francolini, Ettorina Contino e Vincenzo Liotta, più il Presidente Malizia. Quindi sembra di capire che si sia aperta qualche nuova pagina, malgrado le scadenze e l’aumento del carico di lavoro. Per contro, a giudicare da quanto abbiamo potuto apprendere e sentire da numerosi “preposti”, cioè sottoposti alle misure di prevenzione, tutto sembra ancora fermo, o comunque si muove con lentezza esasperante tra un rinvio e l’altro. Oggi ci occupiamo di quanto sta succedendo nella gestione dei beni sequestrati ai Virga di Marineo, quelli che abbiamo definito I Paperoni di Sicilia, poiché secondo le stime della DIA il loro patrimonio ammontava a un miliardo e seicentomila euro. Dopo l’esplosione dello “Scandalo Saguto” si scoprì che l’amministratore giudiziario nominato, un certo Giuseppe Rizzo, raccomandato caldamente alla Saguto dal colonnello della DIA Fabrizio Nasca, era inesperto, addirittura, inidoneo e al suo posto, il giudice Montalbano, provvisorio supplente della Saguto, nominò un amministratore di Catania, un certo Privitera. Sarebbe normale chiedersi: ma non ce n’erano amministratori a Palermo, invece di nominare un catanese, che poi ha nominato altri catanesi come coadiutori? Con la conseguenza che, quando arrivano a Marineo è necessario pagar loro la trasferta. Naturalmente non è la prima volta che succede: basta pensare alla nomina fatta dal giudice Tona di Caltanissetta a Cappellano Seminara per l’amministrazione dei beni del sequestro Padovani, in gran parte ubicati a Catania. Questo Privitera, a detta dei pochi lavoratori rimasti al loro posto, non si fa mai vedere, ma ha nominato come coadiutore un altro catanese, il geometra Giuseppe Geraci, già coadiutore nell’amministrazione dei beni di Michelangelo Aiello, in particolare Villa Santa Teresa di Bagheria. Costui agisce come fosse il padrone, si è appropriato di un’Audi A3, confiscata al proprietario e se ne serve per i suoi spostamenti, in pratica è una sorta di factotum padreterno. Le attività della cava, prima gestite dai Virga e dal loro personale, sono state “affittate”, per quanto riguarda il calcestruzzo e il bitume all’impresa Tomasino, mentre le attività per il recupero e il trattamento degli sfabbricidi sono state affittate alla Palermo Recuperi. Rimane ancora discretamente attiva l’azienda agricola, anch’essa in affitto a un’azienda di Marineo. Allo studio Tumminello e Frisina di Marsala è stata affidata la gestione legale delle attività, mentre la vecchia società ACRI è stata dichiarata fallita lasciando senza il pagamento di sette mesi di stipendio e senza liquidazione gli operai che vi lavoravano e senza rimborso i numerosi creditori. In conclusione ormai il lavoro di quella che era una delle più grandi aziende siciliane nel campo del calcestruzzo è ormai ridotto a ben poca cosa, mentre il perito che avrebbe dovuto consegnare in tribunale i risultati delle sue stime, dopo un anno e mezzo ha chiesto un’altra proroga. A conti fatti, rispetto a quel miliardo e mezzo di euro gettato in pasto alla stampa, è rimasto un patrimonio reale che non supera i 20 milioni di euro, ma che il povero perito, oberato da pesantissimi lavori, ancora non è riuscito a quantificare, in attesa della nuova udienza fissata il 21 febbraio e in attesa di un temuto provvedimento di sfratto poiché i Virga sono proprietari delle case sequestrate, ne abitano alcune, mentre altre sono date in affitto, ma l’amministratore giudiziario da sei o sette mesi non ha chiesto a questi inquilini il pagamento dell’affitto, mentre molto probabilmente lo chiederà ai Virga. Insomma, siamo alle solite “Storie di ordinaria follia”.

La farsa di Palermo, scrive Piero Sansonetti il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La grande stampa nazionale ha deciso di risolvere il problema tacendo, o scrivendo solo qualche riga. Un po’ per pudore, un po’ probabilmente per imbarazzo. Come si fa a riferire delle fantasiosissime requisitorie che in questi giorni vengono pronunciate al processo di Palermo – quello sulla trattativa stato mafia – senza riderne un po’ o senza chiedersi come sia possibile che nella solennità di un aula di tribunale vengano lanciate accuse folli, e senza il briciolo di un briciolo di un briciolo di prova, verso personaggi che hanno avuto una grande rilievo nella storia recente dell’Italia? Non sembra più neanche un processo, sembra la ribalta di uno spettacolo trash, dove tutti tirano palle di fango. Perciò la maggior parte dei direttori ha deciso di glissare. Perché le possibilità sono solo due: o fai finta di niente, vista la assoluta inattendibilità delle cose che vengono dette; oppure t’indigni e chiedi che qualcuno intervenga. Purtroppo, a occhio e croce, nessuno è in grado di intervenire. E così ieri abbiamo sentito un Pm dire che Riina è stato venduto da Provenzano agli inquirenti. In particolare al generale Mori e probabilmente al capitano Ultimo, che lo catturò. Il Pm ha detto che la cattura di Riina è stata una vergogna per l’Italia. E ha finito per mettere sul banco degli imputati i giudici, che hanno già ampiamente assolto Mori da questa accusa, e anche l’ex procuratore di Palermo Caselli, che ancora recentemente ha sostenuto che la cattura di Riina è stata la salvezza per il paese. Poi i Pm hanno indicato l’ex presidente della Repubblica Scalfaro come responsabile, a occhio e croce, del reato di alto tradimento. E con lui il ministro Conso, il ministro Mancino e qualcun altro. Indizi? Prove? No: «Fidatevi di noi». Davvero non c’è nessuna possibilità che qualche autorità intervenga, interrompa questo scempio della storia e del diritto, e disponga, se serve, anche un po’ di aiuto psicologico per i Pm?

Il processo Stato-mafia finisce in farsa, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il pm Di Matteo chiede sei anni di galera per Mancino, 12 per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e zero per il boss Brusca. Se volete leggere questo articolo dovete mettervi nello stato d’animo di chi non si stupisce di niente. Altrimenti lasciate stare. I Pm del processo di Palermo (il famoso processo sulla presunta trattativa Statomafia) hanno chiesto una novantina d’anni di galera per alcuni degli imputati. Tra i quali un paio di mafiosi e una decina tra esponenti della politica e dell’arma dei carabinieri. Cinque anni li hanno chiesti per il giovane Ciancimino, Massimo, figlio di Vito (ex famigerato sindaco di Palermo), accusato di calunnia contro gli altri imputati. La sua testimonianza, giudicata calunniosa, è in realtà l’unico puntello alle tesi dell’accusa (ma questa cosa naturalmente fa un po’ sorridere, o sobbalzare, l’osservatore poco informato – non è l’unico non sense prodotto dal processo). Poi hanno chiesto 15 anni per il generale Mori, 12 per Marcello Dell’Utri e 6 per l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Non hanno potuto chiedere anni di galera per l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, perché nel frattempo è morto, ma nelle loro requisitorie lo hanno più volte indicato come il capintesta di tutta la congiura. Naturalmente è molto complicato qui dirvi di quale congiura si tratti. Perché i Pm ne hanno delineate almeno un paio e tra loro in netta contraddizione. Basta dire che al vertice del gruppo criminale, secondo le requisitorie, ci sarebbero stati lo stesso Scalfaro e Berlusconi. Capite? Scalfaro e Berlusconi, cioè i due personaggi più lontani tra loro di tutto lo scenario politico degli anni novanta. Del resto i Pm hanno mostrato una conoscenza molto superficiale di quello scenario politico, e dunque non c’è molto da stupirsi che possano confondere la sinistra Dc con Forza Italia e cose del genere. Tuttavia l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non sta neanche nelle richieste cervellotiche, o nell’osservazione che non c’è uno straccio di prova a carico degli imputati, e neppure nel fatto che si chiedano pene per delitti che altri processi (a Mori stesso, all’on Calogero Mannino e ad altri) hanno già accertato non esistere. L’aspetto più preoccupante è l’impostazione dell’accusa. Leggete qui con quali parole il Pm Di Matteo (che ora è diventato uno dei procuratori nazionali antimafia) ha spiegato il senso del processo: «Questo è un processo che punta a scoprire livelli più alti e causali più complesse. Legati non a un fatto criminoso ma a una strategia più ampia».

Che vuol dire? Vuol dire che i Pm di Palermo (o quantomeno Di Matteo, non sappiamo se gli altri si dissociano da questa idea) ritiene che il suo compito non sia quello di perseguire i reati ma di stabilire, con la sua autorità, la verità storica, e poi di sanzionare questa verità con delle esemplari punizioni. In questo modo Di Matteo aggira l’ostacolo principale di questo processo, e cioè il fatto che non c’è uno straccio di prova dei reati contestati agli imputati. Dice Di Matteo, in sostanza: «E che io devo stare lì col misurino a vedere se c’è qualche reato? Io sto più in alto: a me interessano le grandi strategie». Per dirla con parole ancora più semplici, il Pm dichiara in modo esplicito che quello di Palermo non è un processo penale ma un processo politico. Veniamo al merito della vicenda. Dunque, questo è un processo che è stato avviato dieci anni fa, il dibattimento va avanti da cinque anni, si riferisce ad avvenimenti di 26 anni fa, nessuno è in grado di stabilire quanto sia costato ai contribuenti. La tesi dell’accusa è che quando la mafia, all’inizio degli anni novanta, alzò il tiro sullo Stato, compiendo stragi, uccidendo magistrati, leader politici e comuni cittadini, ci fu un pezzo dello Stato (pezzo di governo, pezzo dei carabinieri e pezzo dei servizi segreti) che si adoperò per cercare di frenare queste stragi, ed evitare nuovi morti, trattando con i vertici mafiosi. Scambiò la fine delle stragi con alcuni benefici carcerari, compresa l’abolizione del 41 bis. Il punto però è che non esiste nessun indizio che questa trattativa ci fu. Anche perché nei processi paralleli a questo di Di Matteo e degli altri Pm palermitani, sono piovute assoluzioni. Il generale Mori, ad esempio, è stato già di- chiarato innocente. E così Calogero Mannino, ex ministro, che fin qui è l’unico rappresentante del governo che è stato accusato di aver trattato.

Ora uno si chiede: ma se noi sappiamo che non trattò il governo, non trattarono i servizi segreti, non trattarono i carabinieri, ma che diavolo di trattativa fu? E poi sappiamo anche che nessuno dei benefici indicati dagli accusatori fu concesso. Mancano i protagonisti del reato e manca il bottino. Voi capite che sembra una commedia surreale. Ma è più surreale ancora perché assieme all’accusa verso lo Stato (e fondamentalmente verso la sinistra Dc) di avere trattato con la mafia, c’è anche l’accusa a Dell’Utri ( e quindi a Berlusconi) di avere fatto la stessa cosa, ma, sembrerebbe, con un intento opposto. Perché l’accusa immagina i berlusconiani che trattano con la mafia per destabilizzare la Dc, la quale intanto tratta con la mafia per stabilizzare. C’è da diventare pazzi. Sembra una farsa. Una farsa, però, fino a un certo punto. Oltre il quale diventa davvero un dramma. E un po’ indigna. Indigna per esempio il modo nel quale è stato trattato l’ex presidente del Senato. Nessuno al mondo riesce a capire di cosa sia accusato Nicola Mancino, 86 anni, prestigiosissimo leader democristiano, più volte ministro, ex presidente del Senato. Dicono che non si ricordi di un incontro che forse ha avuto con il magistrato Borsellino, prima che Borsellino fosse ucciso dalla mafia, e che non si ricordi nemmeno di una telefonata di Claudio Martelli, che l’avrebbe messo in guardia su alcuni comportamenti dei Ros che non lo convincevano. Embé?

Si tratta di cose avvenute un quarto di secolo fa. E nessuno sa se l’incontro e la telefonata ci furono oppure no. E comunque, anche se ci furono, furono episodi normalissimi che non c’è nessun bisogno di nascondere. Eppure i magistrati chiedono che Mancino trascorra sei anni in carcere. Qui c’è poco da scherzare. C’è da avere seriamente paura. Qualche Pm una mattina si sveglia e ha il potere, sulla base di nulla, di riempire di fango un padre della democrazia italiana, e di chiedere, con arroganza, che sia sbattuto in carcere. E per di più questo Pm confessa bellamente che lui non cerca reati, ma “strategie più complessive”. Siamo sicuri che non esistano le condizioni per intervenire, da parte delle istituzioni? Sicuri che sia giusto che un magistrato rivendichi che la sua funzione non è quella di accertare i reati ma quella di processare la politica seguendo sue idee e teorie? Diceva Piero Calamandrei: «Non spetta alle toghe giudicare la storia di un paese». Già, Calamandrei. Chissà se i Pm di Palermo conoscono il nome di Calamandrei. Certo che se Calamandrei avesse conosciuto i Pm di Palermo, sarebbe inorridito…

Trattativa Stato-mafia, i pm: "Provenzano vendette Riina ai carabinieri". A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è Vittorio Teresi, scrive il 19 gennaio 2018 "La Repubblica". "L'arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e de Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell'azione dello Stato contro Cosa nostra". La cattura del boss corleonese Totò Riina come snodo della seconda fase della trattativa tra parte delle istituzioni e la mafia è al centro dell'udienza odierna del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, dedicata alla prosecuzione della requisitoria dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è il pm Teresi certo, secondo quanto prospetta l'ipotesi accusatoria, che Riina venne "consegnato" ai carabinieri dall'ala di Cosa nostra vicina a Bernardo Provenzano. Riina, con cui i militari del Ros imputati al processo avevano intavolato un dialogo finalizzato a far cessare le stragi, era ritenuto un "interlocutore" troppo intransigente. Perciò gli si sarebbe preferito Provenzano, fautore della linea della sommersione, e lontano dall'idea del "papello", l'ultimatum che Riina avrebbe presentato allo Stato tramite i carabinieri. Provenzano dunque, dopo le stragi del '92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura del compaesano con la complicità del Ros pretendendo, tra l'altro, che il covo del capomafia "venduto" non fosse perquisito. "Era chiaro che tutto questo doveva essere tenuto segreto - ha spiegato Teresi - E dopo la cattura di Riina e l'uscita di scena anche di Ciancimino le linee dell'accordo sono chiare e si passa ai fatti". "Così come per i carabinieri è fondamentale mantenere il segreto sulla cattura di Riina - ha aggiunto il magistrato - altrettanto è importante, per la mafia, che nulla trapeli sul fatto". La Procura descrive uno Stato diviso in due: da una parte pezzi delle istituzioni pronti a trattare dopo gli attentati a Falcone e Borsellino per "paura e incompetenza", dall'altra un "manipolo" di uomini come l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e l'ex capo del Dap Nicolò Amato, convinti che si dovesse mantenere la linea dura contro Cosa nostra. I timori e l'incapacità di far fronte all'emergenza dunque avrebbero portato alcuni rappresentanti delle istituzioni a piegarsi al ricatto nell'illusione che alcuni cedimenti, come ad esempio, una attenuazione all'odiato 41 bis, potesse far cessare le bombe mafiose. "Non si comprese, ha detto il pm, che la mafia avrebbe letto tutto questo come il segno che si poteva rilanciare come avvenne con gli attentati nel Continente e trattare ancora per ricevere altri benefici". Teresi ha ricostruito tutta la parte dell'impianto accusatorio relativa alle concessioni fatte dallo Stato a Cosa nostra, nel 1993, sulla politica carceraria: dalla sostituzione dei vertici del Dap, come Amato, ritenuto troppo duro e allontanato senza preavviso dal suo incarico, alla revoca del 41 bis nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano a febbraio del 1993, alla nomina al ministero della Giustizia di Giovanni Conso che prese il posto di Claudio Martelli, il politico che, dopo le stragi del '92, aveva istituito il regime carcerario duro per i mafiosi. E ha fatto nomi e cognomi di chi "per paura o incompetenza" avrebbe avallato la politica della distensione: l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l'ex Guardasigilli Giovanni Conso, Aldalberto Capriotti, subentrato ad Amato al Dap e il suo vice Francesco Di Maggio. Sullo sfondo, nella ipotesi dell'accusa, restano entità non precisate che avrebbero consigliato a Cosa nostra la strategia da seguire. "Centri occulti che hanno suggerito alla mafia cosa fare per indurre lo Stato a cedere. Ci fu un'intelligenza esterna che ha orientato i comportamenti di Cosa nostra e si è fatta comprimario occulto dell'azione mafiosa riuscendo ad agire indisturbata perché poteva confidare nella linea della distensione scelta da pezzi delle istituzioni". "Se avesse prevalso la durezza - ha aggiunto il magistrato - nessuno spazio ci sarebbe stato per un dialogo che ha invece rafforzato la mafia e la sua azione terroristica. Se avesse prevalso la durezza, i consiglieri dei mafiosi sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia, ma nel clima di compromesso che ci fu, tutto si è confuso".

Perché usare Falcone per giustificare le proprie idee estreme? Scrive Piero Sansonetti il 30 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La decisione della Procura di Caltanissetta di chiedere la scarcerazione di Marcello Dell’Utri, in attesa che la Corte europea si pronunci sul suo caso, ha scatenato una campagna di “opposizione molto aggressiva guidata dal “Fatto Quotidiano”. Ieri Giancarlo Caselli, giorni fa Marco Travaglio, sono intervenuti con molta foga per contestare la competenza giuridica della Corte europea (e anche della Procura generale di Caltanissetta). Perché usare a sproposito Falcone per giustificare le proprie idee? Eper sostenere che i dubbi sulla colpevolezza di Dell’Utri e la fondatezza della sentenza Contrada sono improponibili. Travaglio ha intitolato il suo articolo “È rimorto Falcone”, riprendendo un vecchio titolo strepitoso dedicato, nel 1978, da “Lotta Continua” alla morte di papa Luciani (avvenuta un paio di mesi appena dopo la morte di Paolo VI). La tesi di Travaglio è che la definizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa (quello per il quale sono finiti in carcere prima Contrada e poi Caselli) spetta a Falcone, che immaginò questo reato negli anni 80. E dunque negare che quel reato esistesse prima del 1994 è un’offesa al magistrato ucciso da Cosa Nostra. Caselli a sua volta sostiene che il reato di concorso esterno esiste da quando esiste il codice Rocco (1932) perché è in quel codice che viene previsto il reato di concorso esterno (che oggi è stabilito dall’articolo numero 110), e dal 1982 (quando nel codice viene inserito il 416 bis che punisce l’associazione mafiosa) esiste il concorso esterno in associazione mafiosa.

Hanno ragione Travaglio e Caselli? No. vediamo perché.

Prima un brevissimo riassunto dei capitoli precedenti. Contrada fu condannato per questo famoso concorso esterno per fatti risalenti agli anni 80. E così pure Dell’Utri. Contrada fece ricorso alla Corte europea, la quale sostenne che il reato di concorso esterno, in Italia, fu definito dalla giurisprudenza solo a partire dal 1994, e perciò non era prevedibile prima, e perciò non era punibile. L’Italia ora dovrà risarcire Contrada per ingiusta detenzione. Dell’Utri aspetta la sentenza.

Perché ha torto Caselli e ha ragione la Corte europea? Vediamo innanzitutto cosa dice l’articolo 110 del codice penale: «Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita». Benissimo: c’è scritto “concorrono”, non “concorrono dall’esterno”. L’introduzione del concorso esterno non è stata decisa dal legislatore ma dall’interpretazione della legge da parte della magistratura. Del resto basterebbe chiedere questo a Caselli: come mai il reato di concorso esterno in banda armata non è stato mai né invocato né applicato? Eppure negli anni della lotta armata c’era una grande parte della magistratura, impegnata nella lotta al terrorismo, la quale sosteneva che intorno alle formazioni terroristiche ci fosse una retroguardia “esterna” di intellettuali e politici e giornalisti, che sostenevano le formazioni sovversive, pur senza farne parte, e erano a loro indispensabili. Lui stesso, mi pare, aveva questa idea. Mi ricordo bene persino l’espressione che si usava: «bisogna togliere l’acqua ai pesci». Eppure nessuno pensò al concorso esterno. Anche perché la logica ha una sua autonomia: il reato associativo già di per se prevede il concorso; come si fa a concorrere a un concorso, e per di più da fuori?

Perché ha torto Travaglio a farsi scudo con Falcone per difendere la sua convinzione che il concorso esterno sia sacrosanto? Perché Falcone ipotizzò il concorso esterno prima del 1989. Poi, in quell’anno, ci fu la riforma del codice penale. E nel 1991, poco prima di morire, Falcone scrisse: «Col nuovo Codice di procedura, non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici. Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata in dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa». Addirittura Falcone metteva in discussione il reato associativo. Altro che concorso esterno! Povero Falcone, usato, a sproposito, come un santino!

Se l’attentato è a un avvocato, zero tituli, scrive Piero Sansonetti il 4 gennaio 2018 "Il Dubbio". Il caso dell’avvocata Adriana Quattropani, alla quale hanno messo una bomba sotto l’automobile, è passato sotto silenzio sui media. Qualche giorno fa in Sicilia, a Pachino, hanno messo una bomba, che è esplosa, sotto l’automobile dell’avvocata Adriana Quattropani. Probabilmente è stata la mafia. La notizia è stata riportata dai giornali locali e dal Dubbio. Punto. Mettiamo l’avvocato in Costituzione. Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se avessero fatto saltare l’automobile di un magistrato. O addirittura di un giornalista. Penso che la notizia avrebbe conquistato la prima pagina di tutti i giornali. Alcuni giornali le avrebbero dedicato il titolo principale della prima pagina e svariati commenti. Sarebbe intervenuto il governo. Qualcuno avrebbe chiesto al Parlamento di varare una nuova legge ad hoc. Forse ci sarebbe stato uno sciopero di qualche ora. Il ministero avrebbe dato ordine alla questura di Caltanissetta di mettere sotto scorta la magistrata o la giornalista (ci sono molti giornalisti che sono sotto scorta anche se non hanno mai subito nessun attentato). Nel caso dell’avvocata invece non è successo niente di tutto questo. E immagino che a parte qualche migliaio di siciliani della provincia di Caltanissetta, e i lettori del Dubbio, nessun altro sia a conoscenza del fatto. Del resto negli ultimi mesi, sebbene non si abbiano notizie, per fortuna, di attentati a magistrati e giornalisti (i primi, giustamente, sono abbastanza protetti, i secondi, saggiamente, non sono considerati affatto pericolosi, come era una volta) si hanno invece diverse notizie di attentati agli avvocati. Un avvocato, addirittura è stato ucciso, a Lamezia Terme. Un’altra avvocata è stata ridotta in fin di vita a Milano. Il sistema informazione è pochissimo interessato a questi fatti, perché molto raramente il sistema informazione trova “complicità”, (o offre complicità) nel mondo forense, mentre invece, molto spesso, le trova e le offre nel mondo della magistratura. Negli ultimi anni l’alleanza di ferro tra magistrati e giornalisti ha messo gli avvocati in una condizione difficile. Esiste una parte della magistratura che considera l’avvocato come il nemico da battere. E il lungo anno che ha visto Piercamillo Davigo alla testa della associazione nazionale magistrati ha aggravato questa condizione. Ora le cose sono un pochino cambiate, con l’elezione di Eugenio Albamonte al vertice della Anm e la definizione della sua linea che vede nella collaborazione tra avvocati e magistrati la via giusta per migliorare il funzionamento della giustizia. Ma la linea di Albamonte, sebbene sia la linea ufficiale dell’associazione (e anche del Csm), non è certo maggioritaria in quel pezzo di magistratura che costituisce il nocciolo duro dell’alleanza coi giornalisti. Cioè quella più potente e più vistosa mediaticamente. E’ chiaro che il problema della tutela degli avvocati, sia dal punto di vista pratico – e persino fisico sia dal punto di vista “ideale”, si pone con urgenza. Quello che si è appena chiuso è un anno di grandi conquiste per la categoria (che ha ottenuto l’equo compenso, la modifica dei parametri forensi, il legittimo impedimento per le avvocate in gravidanza, e ha sventato la minaccia di alcune controriforme della giustizia che avrebbero indebolito lo stato di diritto). Resta però aperto il problema di chiarire, a livello di massa, il ruolo dell’avvocato nella società. Non è facile far passare l’idea che l’avvocato non è una appendice dell’imputato, e dunque, forse, del colpevole. Ma è una figura autonoma e decisiva per il funzionamento di una giustizia libera e fondata sulla prevalenza del diritto. L’idea che si va diffondendo sempre di più, grazie alla deriva giustizialista che sta travolgendo giornalismo e intellettualità, è che il valore della legalità sia tanto più forte quanto più sono numerose le condanne penali e quanto più sono severe le pene. E dunque è bene indebolire il ruolo e il potere dell’avvocato. E’ difficilissimo spiegare che non è così. La legalità è esattamente l’opposto dell’idea autoritaria e repressiva che sta dietro il giustizialismo, e che è la linfa di tutte le ideologie totalitarie. Il valore della legalità sta nella certezza del diritto, nella difesa dei diritti civili, nella limpidezza e lealtà delle regole di funzionamento del processo. Non esiste nessuna idea di legalità che possa prescindere dal concetto che la giustizia si afferma nei processi (e non nei sospetti o nei linciaggi mediatici) e che il processo deve svolgersi in una condizione di assoluta parità tra accusa e difesa. Proprio per questa ragione la figura dell’avvocato, cioè del rappresentante e del protagonista della difesa, ha una rilevanza assoluta nella affermazione di una società fondata sulla legalità. Tanto più è debole la figura dell’avvocato, tanto meno è forte il valore della legalità. Per questo gli avvocati, e in particolare il Cnf, si sono posti l’obiettivo di “costituzionalizzare” la figura del difensore. In modo da riequilibrare il rapporto con l’accusa e soprattutto in modo da chiarire il ruolo e l’importanza assoluta dell’” istituzione- avvocato”. La proposta è quella di riformare l’articolo 111 della Costituzione, quello che regola il giusto processo, con una piccola modifica dopo il secondo comma, introducendo un paio di frasette, brevi ma molto importanti: “Nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati (…) L’avvocato esercita la propria attività professionale in posizione di libertà e di indipendenza, nel rispetto delle norme di deontologia forense”. Non è una necessità burocratica. Non è un dettaglio. È una affermazione di principio e l’inizio di una battaglia. L’inizio? Sì, perché poi si dovrà ottenere un altro risultato: che l’articolo 111 della Costituzione sia applicato davvero e diventi senso comune. Oggi l’articolo 111 è una bellissima affermazione di principio, che sta lì, abbastanza lontano dalla pratica, dal senso comune e anche dalla conoscenza dell’intellighenzia, che in genere non ne sospetta nemmeno l’esistenza.

«Io, avvocata minacciata, dico: tutelano solo i magistrati e a noi ci lasciano soli», scrive Simona Musco il 3 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Adriana Quattropani, avvocata di Siracusa che il 29 dicembre scorso è stata oggetto di una intimidazione a Pachino: una bomba carta sotto la sua auto. «Ormai siamo sempre più lasciati allo sbaraglio. Siamo soli. I magistrati sono tutelati, noi invece, per non perdere il lavoro, siamo esposti a situazioni del genere». A parlare è Adriana Quattropani, avvocata di Siracusa che il 29 dicembre scorso è stata oggetto di una pesante intimidazione a Pachino: una bomba carta piazzata sotto la sua automobile, subito dopo aver “consegnato” al proprietario una stazione di servizio, un distributore Esso fallito e gestito da una famiglia coinvolta in indagini per mafia e finito al centro di una procedura fallimentare. Una tragedia sfiorata, considerando che la professionista si trovava poco distante, in un bar. Si tratta dell’ennesimo gesto intimidatorio ai danni di un avvocato, gesti che nell’ultimo anno si sono moltiplicati, fino a diventare quasi giornalieri. Una situazione, spiega al Dubbio Quattropani, che impone una riflessione da parte della politica sul ruolo della categoria e un intervento legislativo che consenta agli avvocati di poter svolgere con tranquillità il proprio lavoro. «Questa volta – spiega – credo che le cose cambieranno».

Avvocata, com’è andata?

«Io sono curatore fallimentare e quel giorno mi stavo occupando del fallimento di un distributore di benzina che si trova su una delle vie principali di Pachino. Avevo un appuntamento con il proprietario del distributore, che aveva avviato le procedure per la rivendita del bene e così, alle 9, dovevo incontrarlo assieme al suo avvocato per riconsegnare la struttura. La prima stranezza l’ho notata al mio arrivo: i sigilli, che erano stati messi a febbraio, erano stati violati. Ho chiamato subito la polizia, che non ha potuto fare altro che constatare la violazione. Però ho notato anche la presenza di un gruppo di persone che osservava i nostri movimenti. Una volta redatto il verbale di riconsegna, il proprietario del bene ha voluto offrirmi un caffè. Ci siamo spostati così su Piazza Indipendenza, parcheggiando le nostre auto l’una vicina all’altra. Appena ci siamo avvicinati al bancone abbiamo sentito un boato allucinante. Mi sono avvicinata alla vetrata e ho visto le persone scappare verso una viuzza».

Si è resa subito conto che si trattava della sua auto?

«No, inizialmente mi sono tranquillizzata, osservando la direzione delle persone in fuga. Ho pensato che potesse essere un petardo di capodanno, anche se il boato mi sembrava eccessivo. Appena siamo usciti dal bar, però, sono stata avvicinata da una persona che mi ha chiesto se la macchina fosse mia. Pensavo ostruisse il passaggio, invece quella persona mi ha spiegato che ci avevano messo una bomba sotto. Mi sono avvicinata e ho visto pezzi di plastica sul marciapiede e l’auto gravemente danneggiata».

Il distributore era gestito da persone coinvolte in indagini per mafia. C’entra qualcosa questo con l’intimidazione?

«Credo che quanto accaduto c’entri con il distributore. Non posso dire molto, perché le indagini sono in corso. Ma i soggetti coinvolti sono particolari, molto conosciuti».

Le intimidazioni e le aggressioni ai danni degli avvocati sono ormai all’ordine del giorno. Che momento sta vivendo la vostra categoria?

«Il momento è molto brutto. Veniamo utilizzati come baionette e non abbiamo protezione da parte di nessuno. Un rischio che è diventato ancora più grande alla luce della riforma che ormai è passata. Sono anche professionista delegata, quindi svolgo un lavoro che prima veniva fatto dai pubblici ufficiali. Adesso siamo noi avvocati, da soli e senza l’intervento di nessuno, a prendere possesso dell’immobile da mettere all’asta. È facile immaginare quali possano essere i rischi: possiamo trovarci davanti a persone normali oppure di fronte a soggetti come questi».

Vi sentite poco tutelati, dunque?

«Siamo lasciati completamente allo sbaraglio. Il magistrato – e non lo dico per mancanza di rispetto, perché è giusto che lo sia – è tutelato. Noi invece no. E non abbiamo scelta: se per paura delle ripercussioni non accettassimo l’incarico che ci viene affidato dal giudice si può star certi che la volta successiva non ce ne affiderà un altro. Se vogliamo lavorare, dunque, dobbiamo accettare l’incarico con tutti i rischi che ne conseguono».

C’è stata una reazione di fronte a quanto le è accaduto?

«Ho ricevuto solidarietà a 360 gradi, anche da parte dell’associazione nazionale magistrati. Mi stanno dimostrando molta vicinanza per quello che è accaduto, dal Consiglio dell’ordine, che ha subito diramato un comunicato, ai colleghi di associazione che operano nel siracusano. Molti avvocati, giorno per giorno, mi stanno contattando, anche molti che non conoscevo prima. So che c’è stata un’assemblea della camera civile per chiedere subito una riunione al Consiglio dell’ordine degli avvocati per le opportune future azioni a tutela della categoria».

Quali sono le vostre richieste alla politica?

«Credo sia necessario intervenire a livello legislativo. Devono esserci più tutele per la per la nostra categoria, specie in una zona come la nostra, che non è Aosta».

Crede che cambierà qualcosa?

«Ho sentito molta vicinanza. Questa volta penso che le cose si smuoveranno».

Il paese della mafia fai da te. Dopo la sentenza su Mafia Capitale, siamo davanti a un uso disinvolto e fin troppo esteso del termine, esposto al soggettivismo più incontrollato, scrive Giovanni Fiandaca il 30 Luglio 2017 su "Il Foglio". L’art. 416 bis del codice penale (che, com’è noto, definisce l’associazione di tipo mafioso) deve rimanere immutato o va riformato? Questo interrogativo – invero non inedito – torna a riproporsi dopo la recente sentenza del tribunale di Roma che, smentendo la procura, ha negato il carattere mafioso dell’associazione criminale di Buzzi e Carminati. Hanno avuto ragione o torto i giudici romani? Tra le voci contrarie alla decisione del tribunale, è stato il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, a prospettare esplicitamente la necessità che il futuro Parlamento rimodelli l’art. 416 bis, e ciò appunto allo scopo di eliminare ogni incertezza sulla possibilità di qualificare mafioso anche un gruppo criminale del tipo di quello di “Mondo di mezzo”. In una intervista al Messaggero del 25 luglio scorso, Gabrielli ha infatti sostenuto che la procura di Roma avrebbe correttamente proposto una lettura avanzata dei rapporti tra mafia e corruzione, essendo la corruzione l’incubatrice delle mafie; in considerazione dello stretto nesso tra mafia e corruzione, sarebbe opportuna una modifica legislativa dell’attuale reato di associazione mafiosa diretta a inserire il ricorso alla corruzione tra gli elementi caratterizzanti il metodo mafioso. In effetti, questa sollecitazione del capo della polizia, lungi dal rispecchiare una opinione isolata, poggia su di una analoga convinzione precedentemente manifestata sia dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, sia da altri magistrati esperti di criminalità organizzata. Per verificare se sia davvero necessaria od opportuna la suggerita riforma legislativa occorrerebbe, preventivamente, procedere a una non superficiale rivisitazione del fenomeno mafioso nella realtà attuale, considerato sia in se stesso sia nei suoi possibili punti di contatto col fenomeno della corruzione. Non potendo essere questa la sede per una analisi approfondita, ci si limita a offrire al dibattito alcuni spunti di riflessione. “Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini onnicomprensivi”, diceva Giovanni Falcone nel 1990.

La prima considerazione da cui muovere è che non è affatto una novità la tendenza delle associazioni definibili mafiose ad avvalersi dell’arma della corruzione. Chi conosce il dibattito che a livello internazionale si è sviluppato sul concetto di criminalità organizzata di stampo mafioso, sa bene infatti che già da parecchi decenni sociologi e criminologi includono tra i connotati dell’agire mafioso – oltre all’uso della violenza – il ricorso alla corruzione anche del potere politico-amministrativo. E nella stessa realtà italiana non è certo soltanto da oggi che si assiste al fenomeno – via via estesosi dal meridione al nord – delle cosiddette cordate politico-affaristico-mafiose caratterizzate da una interazione tra metodo mafioso e logica corruttiva. Solo che, sul versante della riflessione scientifica, la specificità delle organizzazioni mafiose non è mai stata identificata nella possibilità di ricorrere a metodi corruttivi o nella mera capacità di esercitare pressioni ai fini del controllo di settori di attività economica. Così, ad esempio, un accreditato storico della mafia come Salvatore Lupo ha, dal canto suo, negato il carattere autenticamente mafioso di Mafia Capitale per queste due ragioni di fondo: la mancanza di continuità sotto il profilo del radicamento temporale e l’assenza di uno specifico sistema sub-culturale di riferimento. Il problema dei legittimi limiti di estensione del concetto di mafia non era, peraltro, sfuggito allo stesso Giovanni Falcone, il quale in una intervista alla rivista Segno rilasciata nel 1990 aveva – significativamente – affermato: “Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini onnicomprensivi, perché si affastellano fenomeni che sono di criminalità organizzata ma che con la mafia hanno poco o nulla da spartire”. Nonostante queste avvertenze di Falcone, da allora a oggi è andato prendendo sempre più piede – nel linguaggio quotidiano come anche nella comunicazione mediatica – un uso disinvoltamente estensivo del termine “mafia”, per cui ci troviamo ormai in presenza di una sorta di concetto “fai da te” esposto al soggettivismo più incontrollato. In sede giudiziaria – almeno in teoria – dovrebbero invece valere criteri definitori rigorosi, in omaggio al principio di legalità penale. Com’è noto, il concetto legale di mafia ha fatto il suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano con la legge Rognoni-La Torre del 1982, che – introducendo nel codice penale l’art. 416 bis – ha imperniato la definizione normativa del metodo mafioso sull’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e sulla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.

Il dibattito non inedito sull’articolo 416 bis del codice penale. Va riformato o deve restare così com’è?

A prescindere dai problemi interpretativi sollevati da tale definizione, è indubbio che il legislatore dell’82 ha, per un verso, individuato connotati dell’agire mafioso rispecchianti una matrice sociologico-ambientale che, come tale, è specificamente riferibile alle mafie classiche operanti nelle regioni meridionali (mafia siciliana, camorra campana, ’ndrangheta calabrese, ecc…). Ma, per altro verso, lo stesso articolo 416 bis sembra contraddirsi perché, al suo ultimo comma, esso precisa che è qualificabile di tipo mafioso qualsiasi associazione criminale che si avvalga comunque di forza intimidatrice per perseguire i suoi scopi, a prescindere dal luogo in cui operi e perfino se agisca all’estero. Questo carattere per dir così ossimorico dell’art. 416 bis, il suo essere cioè ritagliato su tipologie specifiche di associazione mafiosa e al tempo stesso il suo pretendere di descrivere un modello generale di mafia, ha finito col dar luogo a problemi interpretativo-applicativi al momento di verificare in sede giudiziaria il carattere mafioso o meno di gruppi criminali costituiti per la prima volta al nord (ad esempio in Piemonte, Liguria e Lombardia), come articolazioni di preesistenti associazioni meridionali o come entità nuove aspiranti a una vita autonoma. In sintesi, la questione problematica postasi ricorrentemente si riferisce alla individuazione dei presupposti, in presenza dei quali possa sostenersi che un’associazione di nuova emersione abbia già maturato una capacità intimidatrice sufficiente a raggiungere la soglia della mafiosità. In proposito, si è assistito all’affiorare di soluzioni giurisprudenziali contrastanti, per cui sono sorti dubbi sull’idoneità dell’attuale articolo 416 bis a reprimere i sodalizi criminali di nuovo insediamento.

Mutatis mutandis, problemi sostanzialmente analoghi sono emersi nell’ambito del procedimento romano nel valutare se il gruppo criminale “Mondo di mezzo” fosse davvero in grado di sprigionare una forza intimidatrice di tipo mafioso. Pronunciandosi sulla legittimità di misure cautelari disposte sempre nell’ambito del medesimo procedimento, la stessa Cassazione ha invero avallato una interpretazione estensiva della forza di intimidazione: nel senso che ai fini della configurabilità del reato di associazione mafiosa, non sarebbe indispensabile che la capacità intimidatrice si diriga – secondo l’interpretazione tradizionale – contro la vita o l’incolumità delle persone assoggettate al potere mafioso, perché – argomenta la Corte – tale capacità potrebbe anche essere acquisita da “una struttura organizzativa che, con l’uso di prevaricazione e sistematica attività corruttiva, eserciti condizionamenti diffusi sull’assegnazione degli appalti e nel controllo dell’attività degli enti pubblici”. Ecco che, così argomentando, la Cassazione sembra avere sposato quell’interpretazione evolutiva del metodo mafioso propugnata da una parte della magistratura antimafia. Si incappa sempre più in una petizione di principio, un circolo vizioso che dà per dimostrata la tesi che si dovrebbe dimostrare.

Una tale interpretazione evolutiva sfocia in una ammissibile interpretazione estensiva dell’art. 416 bis, ovvero in una vera e propria applicazione “analogica”, in linea di principio vietata in diritto penale? In effetti, non è possibile dare una risposta netta e categorica in un senso o nell’altro a un simile interrogativo, e ciò proprio in considerazione del generico e vago tenore sociologico di termini quali “forza di intimidazione”, “assoggettamento” e “omertà”, i quali non consentono precise e univoche delimitazioni della loro portata semantica. Comunque sia, sarà la lettura delle motivazioni a farci comprendere se il tribunale di Roma abbia escluso l’applicabilità dell’art. 416 bis perché contrario all’interpretazione estensiva della forza intimidatrice o, piuttosto, per ragioni di ordine probatorio. In attesa di questo chiarimento, vale la pena tornare a richiamare le motivazioni di fondo grazie alle quali alcuni commentatori – in piena consonanza con l’impostazione della procura di Roma – continuano a ritenere che “Mondo di mezzo” avrebbe meritato il marchio di associazione mafiosa. Si tratta di motivazioni legate alla tesi, accennata all’inizio di quest’articolo, secondo la quale i gruppi mafiosi ormai preferirebbero evitare di compiere atti violenti e privilegerebbero invece il ricorso a metodi corruttivi, i quali, pur non essendo sintomatici di sicura mafiosità, favorirebbero quella interazione tra criminalità mafiosa e sfera politico-economica che è alla base della forza delle mafie. A ben vedere, è assai dubbio che una tesi di questo tipo basti a concludere che la cosiddetta Mafia Capitale fosse davvero mafiosa nel senso di cui all’art. 416 bis. Ad argomentare come i sostenitori della tesi suddetta, infatti, mentre si svaluta aprioristicamente la forza di intimidazione quale potenziale di violenza contro le persone, si enfatizza il ricorso alla corruzione pur riconoscendosi però, nel contempo, che quest’ultima non è esaustivo o univoco criterio di mafiosità. Si finisce così con l’incappare, in definitiva, in una petizione di principio, in un circolo vizioso che dà per dimostrata la tesi che si dovrebbe dimostrare. Così stando le cose, non sembra dunque che allo stato siano stati addotti argomenti veramente convincenti a sostegno della proposta di riscrivere l’art. 416 bis nel senso suggerito – tra gli altri – dal capo della polizia Gabrielli.

Siamo sicuri che il riconoscimento dell’etichetta mafiosa avrebbe fatto risaltare la gravità della corruzione romana?

Siamo, poi, sicuri che il riconoscimento dell’etichetta mafiosa da parte del tribunale di Roma sarebbe davvero valso a far maggiormente risaltare la gravità della corruzione politico-ammnistrativa romana e la pericolosità del gruppo criminale di Buzzi e Carminati? Quanti lo pensano, verosimilmente, risentono di un pregiudizio culturale tipico del nostro tempo, e che è andato diffondendosi perfino tra alcuni magistrati: il pregiudizio cioè che la mafia rappresenti sempre e comunque il peggiore dei mali sociali e che, di conseguenza, per stigmatizzare anche simbolicamente l’eccezionale gravità di determinati eventi o fenomeni, non si possa fare a meno di bollarli come mafiosi. Fuori da questa sorta di onnivora ossessione mafiologica, le cose non stanno così. Purtroppo, nella realtà contemporanea non pochi sono i mali altrettanto gravi o, addirittura, più gravi della mafia. A chiusura di questi spunti di riflessione, resta da accennare a una ulteriore possibile ipotesi esplicativa adombrata non senza malizia da qualche osservatore (e ripresa, ad esempio, in un convegno svoltosi di recente a Salerno), la quale tenderebbe a ricondurre l’enfasi posta sul connubio mafia-corruzione alla preoccupazione – incidente a livello anche soltanto subliminale – di rinnovare la legittimazione, e altresì di rinvigorire il ruolo delle strutture giudiziarie antimafia, allargandone l’ambito di competenza anche al contrasto della corruzione, quale fenomeno criminale – per dir così – all’ultima moda e, forse, oggi di maggiore allarme rispetto alle stesse mafie. Ora, per fugare del tutto ipotesi maliziose come questa, sarebbe necessario riuscire a dimostrare sulla base di dati empirici rigorosi, assai più di quanto non si sia fatto, quella correlazione necessaria e in presunto aumento tra mafia e corruzione che continua – a tutt’oggi – ad apparire più un assunto impressionistico, che una verità ormai inoppugnabile.

Chi consiglia di rileggere Sciascia sulla mafia si rilegga Sciascia sull'antimafia. Tommaso Cerno sull'Espresso e un apocrifo che non lo era, scrive Guido Vitiello il 31 Luglio 2017 su "Il Foglio". Appunti per un manuale di sopravvivenza alle insidie del dibattito pubblico: quando qualcuno vi invita a rileggere un autore, di solito è perché non lo ha letto o ne ha vaghe reminiscenze scolastiche. Dopo la sentenza del processo Mafia Capitale è arrivata la raccomandazione di rileggere Sciascia, rivolta sull’Espresso dal direttore Tommaso Cerno ai giudici del tribunale di Roma, rei di non aver capito che la palma va a nord e che la mafia non veste più la coppola – nozioni per le quali, a dirla tutta, si poteva tranquillamente prescindere da Sciascia. E anche un’altra cosa è arrivata, dopo il verdetto dei giudici romani: la sentenza informale di quello strano organo di giurisdizione parallela che è la Commissione antimafia, per bocca della presidente Rosy Bindi. Dice che a suo parere – proprio così, “a mio parere” – quella di Buzzi e Carminati è proprio mafia, e che purtroppo la magistratura giudicante non ne sa di mafia quanto la magistratura inquirente; dal che si deduce, per la proprietà transitiva, che ne sa anche meno di lei, che si occupa del fenomeno da ben quattro anni (a ottobre). Ecco, forse bisognerebbe leggere Sciascia non solo sulla mafia ma anche sulla Commissione antimafia. “La Commissione, dico: chi sa come si regola, chi sa quello che domanda…”, si legge in “Filologia”, uno scherzo in forma di dialogo scritto all’inizio degli anni Sessanta – quando la prima Commissione stava per essere istituita – dove un mafioso colto istruisce un mafioso ignorante che dev’essere ascoltato e che ha a malapena i mezzi per rispondere ai carabinieri. “Ma la Commissione, a quanto capisco, può domandare quello che vuole”, come in un esame scolastico. La lezione del mafioso dotto riguarda l’etimologia della parola mafia, e le conseguenze che discendono dall’adottare l’una o l’altra definizione. Sciascia considerava profetico quel racconto, e vent’anni dopo, da deputato, lo ricordò in aula per dire che la Commissione antimafia gli pareva ancora incagliata tra filologia e sociologia. La filologia, a guardar bene, è tuttora una chiave imprescindibile; e forse questi anni saranno ricordati non tanto come quelli in cui la linea della palma è salita su su per l’Italia, quanto come gli anni in cui la mafia è finita al centro di una contesa di definizioni che sottintende una lotta di potere; perché, a chiamar mafia quello che mafia non è, guadagnano gli inquirenti in mani libere e strumenti coercitivi (il doppio binario va a nord) e guadagna la commissione in ragion d’essere e in legittimazione, potendo allargare le già vaste aree di competenza, che spaziano dalla composizione delle liste elettorali al parterre degli ospiti di Bruno Vespa. Ora l’organo della giurisdizione parallela dovrebbe accogliere Nino Di Matteo, che ha chiesto di essere ascoltato. Non parlerà della trattativa, ma risponderà a Fiammetta Borsellino sulle indagini per via D’Amelio. Già che la commissione “può domandare ciò che vuole”, suggerisco che a margine dell’audizione qualcuno sollevi una questione, appunto, filologica. Da dove viene la frase attribuita a Sciascia, “lo Stato non può processare sé stesso”, di cui pm del processo trattativa e giornalisti fiancheggiatori hanno fatto quasi uno slogan, nonché uno scudo para-fallimenti? Ho sempre creduto che si trattasse di un apocrifo, ma la verità è perfino più interessante. Quella frase (devo la scoperta a Francesco Izzo, direttore della rivista “Todomodo”) Sciascia non l’ha mai detta, ma ha detto qualcosa di simile a Enzo Biagi in un’intervista del 10 giugno 1973: “In effetti, una classe dirigente non può giudicare sé stessa, e tanto meno condannarsi”. Sciascia però non stava parlando della magistratura giudicante. Stava parlando della commissione antimafia, e della sua dubbia utilità.

Sciascia e i consiglieri di sinistra del Csm contro Borsellino. Nel 1986 il Consiglio votò per la nomina del magistrato a procuratore di Marsala. Solo in tre, su nove, furono favorevoli. Ma lo scrittore siciliano “pagò” per tutti, scrive Massimo Bordin il 27 Luglio 2017 su "Il Foglio". Fra le carte pubblicate dal Csm in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, una delle più interessanti è tutt’altro che inedita. Si tratta di un verbale di votazione sulla promozione di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala nel 1986. Il dibattito che precedette il voto fu incentrato sul superamento o meno del criterio di anzianità, fino ad allora seguito dal Csm per le promozioni. Chi propose Borsellino sostenne che in quel caso andava fatta una eccezione per l’esperienza antimafia del membro del pool palermitano rispetto all’altro concorrente con più anzianità. Quella decisione fu criticata in un articolo sul Corriere della Sera da Leonardo Sciascia che per questo venne trattato come un fiancheggiatore, quanto meno oggettivo, della mafia. Molte voci di sinistra si levarono contro di lui. È interessante andare a vedere 30 anni dopo, mentre alla memoria di Sciascia si rimprovera ancora quell’articolo, come votarono i consiglieri riconducibili alla sinistra. È presto detto, si divisero. Votarono sì a Borsellino Massimo Brutti, Gian Carlo Caselli e Carlo Smuraglia. Votarono no Nino Abbate, Pietro Calogero, Fernanda Contri, Vito D’Ambrosio. Si astennero Elena Paciotti e Giuseppe Borrè. Su nove consiglieri riconducibili all’area di sinistra solo tre votarono a favore di Borsellino, uno solo di loro era un magistrato, Caselli. Gli altri membri togati di Magistratura democratica si divisero fra chi si astenne e chi votò contro Borsellino. Uno di loro, Vito D’Ambrosio, è stato intervistato cinque giorni fa da Repubblica come sostenitore del pool di Palermo, come effettivamente fu, ma due anni dopo quel voto cancellato dalla stessa memoria che continua a dannare Leonardo Sciascia.

L'antimafia con la memoria corta. Ricordare Falcone e Borsellino come se l’Italia oggi fosse ancora attanagliata dalla presenza di Cosa nostra vuol dire offendere la loro memoria. E negare che da 24 anni non ci sono più stragi di mafia, scrive Massimo Bordin il 25 Maggio 2017 su "Il Foglio". Spesso le celebrazioni non si rivelano la sede migliore per una analisi razionale degli eventi celebrati, talvolta possono perfino smarrire e addirittura contraddire il senso di quello che si vuole ricordare, “retorica aiutando e spirito critico mancando” come scrisse Leonardo Sciascia proprio a proposito della battaglia culturale contro la mafia. Ricordare dopo un quarto di secolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino osservando la realtà del nostro paese come ancora attanagliata dalla presenza pervasiva della organizzazione mafiosa che i due eroici magistrati hanno combattuto con efficacia a prezzo della loro vita non rende certo loro quello che meritano. Piuttosto, equivale a trattarli come personaggi generosi ma velleitari, cosa quest’ultima che sicuramente non furono. Il velleitarismo appartiene piuttosto a una stagione successiva e per quanti danni possa aver causato non ha potuto inficiare i risultati concreti ottenuti con un prezzo così elevato. Non si tratta solo di un problema di buona creanza nei confronti dei celebrati ma di analisi razionale dei fatti attraverso una lettura empiricamente verificabile. Potrebbe bastare la cronologia. Ricordare che sono passati venticinque anni dalla stagione delle stragi di mafia e dei “delitti eccellenti” comporta automaticamente la considerazione che ne sono trascorsi ventiquattro, non un battito di ciglia, senza che il fenomeno si sia ripresentato. Certo la mafia esiste ancora e proprio in questi giorni ha dato un truce segno di sé a Palermo, uccidendo un affiliato evidentemente caduto in disgrazia, una vittima tutt’altro che eccellente, ma anche in questo caso la statistica dice che da tre anni non si verificava a Palermo un delitto di mafia. Trent’anni fa, nella stessa città, avrebbe suscitato stupore un intervallo di tre giorni fra una sparatoria e l’altra. Questo però è un argomento razionale, dunque poco affascinante, mentre dire in un talk, con aria saputa da iniziato alla verità, che “quando la mafia non spara, vuol dire che è più forte”, fa molto più effetto. Eppure è una fesseria, una minchiata solenne, come si dice da quelle parti. Intanto perché la mafia dei primi anni Ottanta, che faceva un morto al giorno, era fortissima e ricchissima e poi perché chi propone una tesi del genere non si rende nemmeno conto di offrire ai mafiosi una classica alternativa win-win. Diamo rumorosi segnali della nostra presenza? Siamo i padroni della piazza e voi non ci potete fare nulla. Siamo ridotti a delle ombre? E’ che non abbiamo più bisogno di farci notare, siamo inabissati, più forti che mai e voi continuate a non poterci fare nulla. Perfetto. Un bravo press-agent non saprebbe fare meglio. Così se da un quarto di secolo non ci sono più delitti eclatanti deve essere per forza dovuto a una trattativa oscura e indicibile con lo stato. L’ipotesi, razionalmente dimostrabile, che la cupola stragista e sanguinaria sia stata sgominata proprio dall’iniziativa dello stato non viene nemmeno presa in considerazione, se non per dileggiarla. Eppure anche qui basta la cronologia. Alla cattura di Riina segue lo stesso anno quella di Nitto Santapaola, l’anno dopo quella dei fratelli Graviano, nel 1995 è la volta di Leoluca Bagarella e l’anno dopo di Giovanni Brusca. In tre anni il vertice stragista finisce all’ergastolo in regime di 41 bis. E’ una vittoria strepitosa ma non si può dire perché certi pm hanno già cominciato a cercare le tracce della famosa “Trattativa”. Nel frattempo altri pm continuano la caccia ai mafiosi per impedirgli di riorganizzarsi sotto le bandiere del più prudente Provenzano. Ci vuole tempo ma alla fine, nel 2006, lo prendono e una parte della procura di Palermo continua a impedire ogni tentativo di riorganizzazione, pur in tono minore, di Cosa nostra. Nel frattempo un’altra parte della procura vede gente e scrive libri, qualcuno si presenta pure alle elezioni. Un anno dopo Provenzano, viene arrestato Salvatore Lo Piccolo, capo emergente a Palermo. Due anni dopo tocca al suo rivale Gianni Nicchi, un ‘enfant prodige’ ammanicato con Cosa nostra americana. Ci sono operazioni che stroncano ogni tentativo di ricostruire strutture territoriali. Nel 2005 l’operazione “Grande mandamento” porta in carcere 49 mafiosi. A dicembre 2008 l’operazione Perseo ne coinvolge altri 79, fra cui il vecchio Gerlando Alberti che voleva, prima di morire, ricostruire la “commissione”. Infine un anno fa una operazione a Villagrazia, borgata ad altissima densità mafiosa, comporta altri 62 arresti. Questo è il quadro oggi della mafia nel suo epicentro. Certo non è stata cancellata, anche perché, per ottenere un risultato simile giudici e carabinieri non bastano, ma è evidente che dal maxi processo in poi, Cosa nostra ha inanellato una lunga serie di sconfitte. Questo va ricordato non solo per omaggio e gratitudine a Falcone e Borsellino ma sopratutto perché è vero. Naturalmente la mafia resta un grave problema ma se si finisce per essere tacciati di “negazionismo” quando se ne segnalano le sconfitte, vuol dire che anche certa antimafia ha cominciato a diventarlo.

Nuove indagini, vecchi difetti. “Sistemi criminali integrati” è la definizione su AntimafiaDuemila dell’alleanza fra cosa nostra e ’ndrangheta nella indagine dei pm di Reggio Calabria e della Dna. Il copione è già scritto, scrive Massimo Bordin il 29 Luglio 2017 su "Il Foglio".  “Sistemi criminali integrati” è la definizione su AntimafiaDuemila dell’alleanza fra cosa nostra e ’ndrangheta nella indagine dei pm di Reggio Calabria e della Dna. Echeggia una vecchia inchiesta negli anni Novanta degli allora pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato. L’inchiesta sosteneva che gli attentati del 1993 erano finalizzati alla nascita della seconda repubblica con l’ascesa a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Fu archiviata per assoluta mancanza di prove, con il consenso dei due pm, ma fu poi recuperata da Ingroia che ottenne l’inserimento di quelle carte nel fascicolo del processo sulla cosiddetta “trattativa”. Le nuove acquisizioni, deposizioni di pentiti che modificano il movente dell’eccidio di due carabinieri in Calabria all’inizio del 1994, saranno, come già si vede sul Fatto quotidiano di ieri con l’intervista a Ingroia, valorizzate per riproporre la tesi di un qualche beneficio ricavato da Berlusconi grazie agli attentati, se non addirittura di un qualche ruolo del suo partito. Sarà il finale, il copione è già scritto, di un processo che probabilmente finirà nel nulla ma con roboanti requisitorie che saranno poi trasfuse in libri.

Il grande falso della trattativa. Cosa nostra, lo stato e la politica. La trama del “processo del secolo” è diventata una formidabile comica. Come e perché i nuovi professionisti dell’antimafia hanno tenuto in ostaggio un paese, scrive Massimo Bordin il 31 Luglio 2017 su "Il Foglio". In una delle ultime udienze del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, l’avvocato Giuseppe Di Peri, difensore di Marcello Dell’Utri, ha fatto garbatamente notare alla Corte d’assise come siano ormai passati più di quattro anni dal rinvio a giudizio e ancora l’istruttoria dibattimentale non solo non si sia conclusa ma venga continuamente alimentata da sempre nuove richieste di acquisizione di nuovi atti da parte della pubblica accusa. L’avvocato Di Peri ha perfettamente ragione nel segnalare la questione come una anomalia ma...

Quel precedente "speculare" del processo trattativa. Raffaele Cutolo, entrato in galera giovane per un omicidio, non è mai uscito se non per circa un anno quando evase da un manicomio giudiziario, scrive Massimo Bordin l'1 Agosto 2017 su "Il Foglio". Raffaele Cutolo, entrato in galera giovane per un omicidio, non è mai uscito se non per circa un anno quando evase da un manicomio giudiziario. Una perizia psichiatrica gli aveva diagnosticato uno stato di infermità mentale. “Vedete, presidente, io sono pazzo. Ma non sono un pazzo scemo, sono un pazzo intelligente”. Nel singolare ragionamento, fatto nell’aula di giustizia dopo che lo ripresero, c’era qualcosa di vero. Cutolo, in parole povere, ogni tanto, e secondo una logica, faceva il pazzo. Al processo sulle trattative dopo il rapimento di Ciro Cirillo, il giorno del suo interrogatorio, decise di fare il pazzo. Il pm era molto giovane e alle prime armi, dietro di lui vigilava sempre un navigatissimo procuratore aggiunto che non interveniva, piuttosto incombeva alle sue spalle, come per controllarlo. Questo non aiutava la sicurezza del giovane accusatore. Aveva enormi orecchie che si arrossavano alla minima contrarietà. Con Cutolo davanti pensò di rifarsi di una gestione del processo non proprio brillante. Cominciò a incalzarlo con le domande ma sbagliò, perché don Raffaele si girò verso di lui e urlò: “Ma come ti permetti, buffone? Innanzi a te sono passati fior di pezzi grossi e li hai trattato in guanti bianchi e mo’ te la prendi con me? Ma vai piuttosto a…”, eccetera. Le orecchie del pm erano diventate color porpora, il procuratore aggiunto non aveva mosso un muscolo, il presidente espulse Cutolo dall’aula, i presenti pensarono che il pazzo, a parte gli insulti, aveva detto la verità. Un precedente opposto, ma forse è più giusto dire speculare, del processo che si svolge da quattro anni a Palermo.

L'astuta “audizione riparatrice” di Di Matteo. Il magistrato chiede di essere ascoltato dall'Antimafia. In questo modo sceglie la commissione come sede pubblica e parallela per la costruzione delle “ulteriori indagini” su via D'Amelio, scrive Massimo Bordin il 28 Luglio 2017 su "Il Foglio". Non è priva di astuzia la richiesta di audizione davanti alla commissione antimafia avanzata ieri dal pm Antonino Di Matteo e subito rilanciata dalle agenzie di stampa. Di Matteo intende rendere dichiarazioni che ritiene “possano finalmente contribuire a ristabilire la verità dei fatti e porre fine a strumentalizzazioni dannose per l’efficacia degli accertamenti e per il possibile sviluppo di ulteriori indagini sulla strage”. Il riferimento, quando il pm scrive di “notizie stampa sulle audizioni in commissione sui processi celebrati sulla strage di via D’Amelio”, è evidentemente alle parole pronunciate da Fiammetta Borsellino sui magistrati che non seppero sventare il rozzo depistaggio messo in atto con il falso pentito Scarantino. Fra essi la figlia del giudice ucciso ha citato anche Di Matteo. Da qui la necessità di una “audizione riparatrice” per i danni creati all’indagine ancor più che la richiesta di una sorta di diritto di replica. Il dottore Di Matteo si ritiene turbato, non gli si può dare torto, dalle parole della figlia del giudice Borsellino e il suo turbamento danneggia “il possibile sviluppo” di “ulteriori indagini” altrettanto possibili. Fin qui non c’è astuzia ma solo un alto concetto del proprio operato, passato e futuro. L’astuzia, nella irrituale richiesta, sta nello scegliere di fatto la commissione antimafia come sede pubblica e parallela per la costruzione delle “ulteriori indagini”. È lo stesso schema, mediaticamente efficace, seguito per l’indagine sulla cosiddetta trattativa. Difficile che la presidente Bindi, che al momento non risulta ricandidabile nel suo partito, si lasci sfuggire l’occasione.

Ingroia e la verità capovolta. Quando la propaganda esagera, scrive Piero Sansonetti il 2 agosto 2017 su "Il Dubbio", pag.15. È legittimo, quando si parla di problemi legati alla giustizia, fare ricorso a tutti gli strumenti della propaganda infischiandosene delle verità accertate? Ed è legittimo che a trasformare la discussione in propaganda sia un ex Pm molto famoso? Probabilmente è legittimo, nel senso che nessuna legge lo vieta e che un ex Pm, in realtà, è esattamente un cittadino come tutti gli altri ed è autorizzato a dire o a scrivere su un giornale qualunque cosa gli passi per la testa, anche così, solo per il gusto di sfogarsi un po’. Il problema è che in questo modo è molto difficile che una discussione seria proceda e produca dei frutti. Credo che sia questa – e cioè la trasformazione del dibattito in propaganda pura e semplice – la ragione per la quale fin qui, negli ultimi decenni, è stato molto difficile procedere a robuste e ragionate riforme della giustizia. Stavolta mi riferisco a un articolo pubblicato dall’ex Pm Antonio Ingroia, quello del processo sula presunta trattativa Stato- Mafia del ’ 93. Il processo, come sapete, è andato un po’ in malora e pare proprio che questa trattativa non ci fu. Si capisce che questo fatto possa dispiacere a Ingroia, che nel frattempo ha gettato la toga per candidarsi alle elezioni politiche nel 2013, con scarso successo. Non è una colpa perdere un processo né perdere le elezioni. I processi sono fatti perché qualcuno li vinca e qualcuno li perda e l’unica cosa davvero importante è che non siano condannati degli innocenti (cosa che, purtroppo, accade talvolta). Anche le elezioni prevedono vincitori e vinti, a pari dignità. Quello che lascia un po’ sbalorditi sono il tono e gli argomenti della polemica di Ingroia, che peraltro parte da una citazione (e da una benedizione) di Piercamillo Davigo, che invece non è un ex ma è un giudice di Cassazione nella pienezza dei suoi notevoli poteri.

Dice Ingroia: «Una classe dirigente criminale tiene in pugno da decenni la cosa pubblica nel nostro paese... e non si è fatta scrupoli di ricorrere a omicidi, depistaggi e stragi per mantenere lo status quo, servendosi all’occorrenza di mafia e apparati istituzionali deviati per attuare svariate forme di neutralizzazione dei disobbedienti. Chi non si piega e non si allinea, una volta eliminato fisicamente, oggi viene isolato e denigrato. È successo in passato a Palermo ai magistrati che osarono processare e far dichiarare colpevoli personaggi del calibro di Dell’Utri, Andreotti e Contrada...» Pensate un po’ se un osservatore straniero dovesse leggere queste accuse, senza conoscere l’Italia, cosa potrebbe pensare. Qual è la verità? Semplice: un Pm che ha visto le sue ipotesi accusatorie crollare in processo, invece di prenderne atto, ripete tutte le sue accuse, esagerandole, e addirittura giunge ad accusare l’intera classe politica non più di essere truffaldina (come di solito dice Davigo) ma di essere criminale assassina e stragista. Per di più sostenendo che i magistrati che hanno messo sotto accusa Andreotti e Contrada (i quali, detto per inciso, sono stati assolti) son finiti uccisi o isolati e puniti. Quando mai? Falcone fu ucciso, ma Falcone si era rifiutato di processare Andreotti, anzi incriminò i pentiti che lo accusavano perché li ritenne inattendibili. I magistrati che hanno processato Andreotti invece hanno fatto un’ottima carriera. Mi pare che nessuno di loro sia finito a fare le fotocopie in Molise... E i depistaggi in Sicilia effettivamente ci furono, ma non li realizzarono i politici, bensì pezzi di polizia e di magistratura (qui mi riferisco al caso Scarantino). Che Ingroia – e anche Davigo, e altri magistrati o tifosi – vogliano fare propaganda politica, probabilmente anche in vista delle future elezioni e della formazione delle liste elettorali, va benissimo ed è inevitabile. Ma è necessario ribaltare la verità? E dare dell’assassino e dello stragista a tante persone per bene? Su questo ho qualche dubbio. P. S. C’è un magistrato calabrese, che è stato anche candidato al ministero della Giustizia, Nicola Gratteri, il quale – come riferiamo in prima pagina - ha chiesto di riempire il mondo intero di telecamere, perché dice che in questo modo diventa molto più facile scoprire gli autori dei delitti. È vero. Dice Gratteri, che ci rimette un po’ la privacy, ma se uno non ha niente da nascondere non ha bisogno di privacy. Sì, dice proprio così. Naturalmente il ragionamento di Gratteri è ineccepibile ( a differenza da quello di Ingroia, si fonda su fatti indiscutibili: se tutto ciò che avviene è registrato da una telecamera, effettivamente è difficile restare impuniti). Il problema è un altro. C’è una domanda alla quale bisogna rispondere: in quale società vogliamo vivere? In una società che tende ad essere sempre più libera o in una società che tende ad essere sempre più controllata e prigioniera? La società alla quale aspira Gratteri è una società prigioniera e con un tasso di criminalità bassissimo. Ordinata ma non libera. Molti di noi, francamente, non sono entusiasti di questa prospettiva. Vivere in un Truman show non era il massimo delle aspettative della nostra gioventù. Intere generazioni di intellettuali hanno dedicato forze, idee, pensieri, anime, alla lotta per immaginare una società più libera. Inutilmente? Dobbiamo abituarci all’idea che il profeta della modernità non è Luther King, o Kennedy, o Jan Palach, ma il dottor Gratteri Nicola? Speriamo di no...

MAFIOSI? NOI NO!!!

Foto del G7 a Taormina: no, la coppola non è da mafiosi. L’immagine che promuove il summit scatena la polemica: trasmette l’idea di una Sicilia – e di un’Italia – mafiosa e maschilista. È così o siamo noi troppo maliziosi? Scrive Silvia Vecchini l'11 aprile 2017 su "Wired". Lavora in teatro e sui social per RezzaMastrella. Scrive su Marie Claire e Abbiamo le prove. La notizia è questa: il 26 e 27 maggio Taormina ospiterà il G7, per pubblicizzare il summit è stata diffusa a livello internazionale l’immagine di un uomo con la coppola. Risultato: Internet esplode per 6/8 ore. Un part time dell’indignazione. Previsioni: domani tutto risolto e solo poche nubi sparse. “La prima opera, la più importante che rimarrà a Taormina dopo il G7 e che avrete un’immagine mediatica di questa città in tutto il mondo spaventosa. Non c’è opera più impattante per l’economia di un territorio che la foto di gruppo del G7”, parole di Renzi per il rilancio dell’immagine globale della Sicilia. E invece. “L’immagine diffusa a livello mondiale è un cliché: un uomo con la coppola che segue con lo sguardo una donna con l’ombrellino”. In effetti sembra una brutta pubblicità di Dolce & Gabbana. E secondo taluni agili commentatori è uno stereotipo infamante, ci imbruttisce, non ci riconosciamo, cattivi, l’avete fatto male, chi è il copy? Licenziatelo. “Ma davvero vogliamo rilanciare la Sicilia e l’Italia a livello mondiale con questi stereotipi?” si chiedono gli indignati part-time. Sembrano le domande retoriche che faceva Bat-Roberto di Bim Bum Bam ai bambini di pomeriggio: ma certo che no. Ovvio che no. Noi siamo intelligentissimi e ci indignammo un sacco. Cos’è quella coppola? Non ci rappresenta. Non mi rappresenta in quanto italiana. Cos’è quell’immagine femminicidiale della donna con l’ombrellino guardata da un maschio con le bretelle? È di cattivo gusto. Ma cos’è? Un film di Petro Germi? E poi cosa? La Sandrelli che passeggia in paese vestita di nero? Ma in che anno siete rimasti? Ma io non lo so. Toglietela subito, metteteci una brioche con la granita. (In un universo parallelo e bellissimo Maria Antonietta ai suoi indignati avrebbe detto: “dategli brioche e granita alla mandorla”.) Insomma, questa è la polemica del giorno. Domani per fortuna ce la saremo già dimenticata, ma oggi, se non trovate niente di meglio, potete indignarvi per questa foto e seguire le argomentazioni contro la diffusione di un’immagine stereotipata folkloristica e danneggiante della Sicilia. Contro la valenza negativa della coppola. (Basta andare nella stringa di ricerca su Twitter e digitare “coppola, Taormina, G7”: boom). In un film di Woody Allen una scemissima Diane Keaton descriveva un’opera d’arte sottolineandone la sua “forte valenza negativa”. Da allora ogni volta che sento e leggo “valenza negativa” su qualcosa mi viene da ridere pensando a quel personaggio e a quella scena. No, per me la coppola non ha una valenza negativa, è un bell’oggetto, è come il mandolino, la pizza, è come ‘nu babà. No, non mi sento indignata e ferita nei sentimenti in quanto donna. Ci presentiamo per quelli che siamo e per come possono riconoscerci più facilmente, con i topoi della nostra tradizione. Pure quelli scemi. Soprattutto quelli scemi. Mi sembra solo una trovata come un’altra. Non mi sono arrabbiata. La coppola poi i siciliani la portano ancora? L’hanno mai portata? Non lo so, ma nella trilogia di Francis Ford Coppola, Il padrino, oltre al riferimento implicito nel nome del regista, c’erano diverse coppole. Siamo rimasti fermi a quell’immaginario? A questa Sicilia e a questa sicilianità posticcia? Al folklore, al machismo forzato, alle bretelle? No, noi no. Io no! Pensiamo che gli altri siano rimasti fermi a quell’immaginario, forse, e adattiamo di conseguenza le immagini. Per farci capire meglio. Per farci riconoscere. Le immagini sono forti, le immagini sono tutto, specie in era di condivisioni sui social.

Ne aveva scritto benissimo Mario Fillioley, siciliano, su "IL": “La Sicilia è così, è un posto iper presente nella rappresentazione che l’Italia dà a se stessa e agli altri del proprio territorio. Molta letteratura, alta e bassa, molti film di consumo, molti commissari di polizia, molti comici di grande successo che ti spiegano l’isola, e poi cronache di tutti i tipi, cronaca nera, cronaca politica, della Sicilia si parla tanto, in continuazione, i forestali, gli sprechi; Palazzo d’Orléans ci costa il doppio di quanto costa la Casa Bianca. La Valle d’Aosta, invece: come si chiama il palazzo della Regione Valle D’Aosta? Boh, della Sicilia siamo convinti di sapere una sacco di cose, conosciamo i toponimi, suonano subito evocativi, sentiamo Sicilia e chiudiamo gli occhi, ci abbandoniamo, colpa dei creativi che sono bravi a fare le foto dentro ai teatri dismessi. Lo sappiamo, siamo consapevoli che si tratta di finzione letteraria, cinematografica, poetica, folcloristica, però per uscire dalla finzione ci serve uno sforzo che non facciamo quasi mai, l’isola è controintuitiva e noi preferiamo intuire, misurare è noioso, a intuire ci si sente più intelligenti”. E allora ecco un’immagine scema. La Sicilia “nella sua versione posticcia, letteraria, artefatta, predisposta per essere riconoscibile come siciliana.” La Sicilia con la sua valenza negativa. La coppola.

Siamo tutti un po’ mafiosi, che ci piaccia o meno. Nel suo libro “La mafia siamo noi”, Sandro De Riccardis realizza una mappa precisa delle mafie di oggi, raccontando una società connivente e spesso ignara della criminalità, scrive Memorie di una Vagina il 24 Febbraio 2017 su "L’Inkiesta". 30 anni. Tarantina di nascita, milanese di adozione. Lavoro nel campo della comunicazione, disciplina in cui ho conseguito una laurea senza honorem a Bologna. Autrice del blog “Memorie di una Vagina”, da qualche mese curo una rubrica su Cosmopolitan. Amo il mare d’inverno (e anche d’estate), i carboidrati, il David Bowie del 1972 e i vibratori modello rabbit. È uscito da poche settimane, pubblicato da Add Editore e si chiama La Mafia Siamo Noi. È il primo libro di Sandro De Riccardis, cronista giudiziario di Repubblica, che dopo 10 anni di inchieste sui principali scandali di corruzione politica e criminalità organizzata, decide di realizzare una mappa precisa della mafia - anzi, delle mafie - oggi. Cos'è oggi la mafia? Com'è cambiata? Chi sono i mafiosi? E, soprattutto, perché saremmo mafiosi anche noi? De Riccardis risponde tracciando linee, unendo punti solo apparentemente distanti del nostro paese, raccontando storie di una società connivente e spesso ignara, ma anche testimonianze di coraggio e di impegno civile, e fa tutto questo con la lucidità del giornalista, con il mestiere di chi privilegia i fatti alle interpretazioni, di chi rifugge le ramanzine retoriche e ci presenta i nomi, le date, gli eventi. Insomma, la storia (anche recentissima) e non la fiction. L'ho intervistato a Milano, bevendo una birra sui Navigli, parlando di mafia, di cultura, di educazione, di cosa potremmo o dovremmo fare noi, cittadini "normali", per non diventare complici inconsapevoli di dinamiche mafiose.

Quando è nata l'idea del libro?

«Non c'è stato un momento preciso. Il libro racconta vicende che vanno dagli anni Ottanta ad oggi. Da quando ero studente, in Puglia, negli anni del maxi-processo alla Sacra Corona Unita, fino alle inchieste più recenti, qui, in Lombardia, che ci dimostrano come esista un fil rouge che attraversa il Paese, da nord a sud; come la mafia sia profondamente radicata nella nostra società e, nonostante ciò, sia vissuta come un fatto a sé stante, diverso da noi, come se ci fosse una parte criminale, malata se vogliamo, distinta dal corpo sano della società civile, che saremmo noi».

E non è così?

«No, perché la mafia non è solo quella dei boss e dei picciotti. La mafia sono gli ingegneri, i geometri, gli architetti, i lobbisti, i medici, i cancellieri dei tribunali, i piccoli e i grandi imprenditori. La mafia è la rete di funzionari e burocrati della pubblica amministrazione che consente alla malavita di sopravvivere ai cambiamenti politici. È il network che resta sempre lì, dove una firma può valere milioni di euro e negarla può costare la vita».

Ma la mafia è anche un fatto culturale...

«Senza dubbio. La mafia è anche la signora che chiama il potente del quartiere per riavere la macchina rubata, è il funzionario comunale che chiude un occhio, è il ragazzo che compra un po' d'erba per far serata con gli amici, è il prete che non guarda al di là della propria parrocchia. Di certo la mafia non è quella che ci hanno raccontato le fiction televisive generaliste. Fiction che hanno anzi incontrato il favore dei clan, proprio perché contribuivano ad alimentare un'immagine posticcia ed estremamente parziale della criminalità. La mafia è profondamente radicata nella nostra società, e nonostante ciò, è vissuta come un fatto a sé stante, diverso da noi. L'indifferenza è un grande alleato della criminalità. Forse il più grande».

Possiamo quindi dire che esiste una retorica anti-mafia che piace anche alla mafia stessa?

«Assolutamente sì. Esiste l'anti-mafia di maniera, che vive di commemorazioni, di anniversari, di cortei e fiaccolate ed è un'antimafia spesso corrotta dalle stesse logiche che dovrebbe sconfiggere, fatta di associazioni che ricevono fondi per la promozione della cultura antimafiosa, che non vengono neppure destinati - se non in minima parte - alle attività preposte. L'anti-mafia che piace alla gente e non serve a niente. L'anti-mafia che non agisce mai, concretamente, sul territorio, nella battaglia quotidiana per rosicchiare potere alla criminalità, per offrire un'alternativa sociale a chi vive in contesti fortemente mafiosi. Alla mafia piace l'antimafia degli slogan, dei proclami, delle targhe e delle belle parole, che nulla fa - realmente - per cambiare la situazione; l'anti-mafia sostanzialmente innocua, intenta ad alimentare la narrazione epica di chi alla mafia ha avuto il coraggio di opporsi, riducendo la questione allo schema classico dell'Eroe che lotta contro il male».

Non sono forse eroi, quelli che la mafia l'hanno combattuta?

«Sono uomini, sono cittadini, sono modelli di umanità e di civiltà che hanno avuto la forza di opporsi - nel loro luogo e nel loro tempo - alla criminalità. Hanno pagato con la vita per questo. Ricordarli è sacrosanto ma consacrarli al ruolo di "eroi" ci espone al rischio di pensarli come "super-uomini", di nuovo un qualcosa di altro rispetto a noi, e di non sentirci - di conseguenza - chiamati a fare la nostra parte. Perché non tutti siamo eroi, no? Perché l'eroismo è un fatto eccezionale, non può essere la norma. Purtroppo però non si può pensare che essere anti-mafiosi significhi conoscere e interpellare le icone dell'antimafia. Non basta mettere un like su Facebook, per sentirsi dalla parte dei giusti. Non basta pubblicare la fotografia di Falcone e Borsellino, o ricordare Peppino Impastato. Non solo non è sufficiente, è per l'appunto comodo e riduttivo. Ecco, per essere anti-mafiosi bisogna fare un po' di più».

Per esempio?

«Per esempio impegnarsi materialmente, nel proprio contesto storico e culturale, per risolvere i problemi che sono sotto gli occhi di tutti. Creare, a nostra volta, una rete di cittadini che dedichino il proprio tempo a far funzionare meglio il sistema; che credano in una possibilità di riscatto, al di là delle intimidazioni. C'è chi lo fa, e lo fa senza cercare i riflettori, come Don Pino Puglisi, al quartiere Brancaccio di Palermo, che lavorava per la sua gente, che non si limitava alle omelie dall'altare ma cercava risposte ai problemi della cittadinanza, aiutando i parenti dei carcerati, i bambini senza istruzione, le famiglie senza lavoro, sottraendo così potere ai clan che, si sa, attecchiscono tanto meglio quanto più latitano opportunità e alternative».

Serve l'impegno attivo, dunque.

«Quello sempre, ma sarebbe utile anche, semplicemente, rendersi conto di quanto - come cittadini - diventiamo strumenti inconsapevoli di riciclaggio del denaro sporco, quando pranziamo nei ristoranti, balliamo nei locali, facciamo shopping nei negozi comprati dai colletti bianchi dei clan».

Non è semplicissimo però capire quando mangiamo una pizza sporca...

«Esistono delle associazioni, come l'Associazione Cortocircuito di Reggio Emilia, fondata da studenti che si sono fatti delle domande, che sono andati oltre la superficie delle cose e hanno collegato tra loro alcuni documenti (visure catastali, delibere comunali, interdittive antimafia, atti giudiziari) e dal 2009 monitorano il livello di infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso nel Nord Italia, evitando locali legati alla malavita».

Quindi conoscere, approfondire, non essere indifferenti.

«L'indifferenza è un grande alleato della criminalità. Forse il più grande. Nel libro racconto molte storie, tra cui quella di Libero Grassi, imprenditore siciliano che negli anni novanta si rifiutò di pagare il racket. Rilasciò un'intervista a Samarcanda, il programma di Santoro, e lo fece nella convinzione che il suo gesto sarebbe stato d'incoraggiamento per gli altri. Fu lasciato solo, completamente, anche dagli altri imprenditori che avrebbero dovuto appoggiarlo. Il suo gesto fu definito una "tamurriata" e pochi mesi dopo fu assassinato. Sono trascorsi quasi 30 anni da allora e dalle cronache recenti, non possiamo dire che le vittime della criminalità ottengano più attenzione e solidarietà dalla società e dalle istituzioni. Combattere la mafia non è semplice. Farlo da soli, spesso, è impossibile».

Conclude così, l'autore. E io concludo dicendovi che La Mafia Siamo Noi ci accompagna alla scoperta di una mafia vecchia che s'è rinnovata. Ci spiega, senza paternalismo. Ci interpella. Ci richiama, indirettamente ma inevitabilmente, alle nostre responsabilità di cittadini. La Mafia Siamo Noi ci racconta una criminalità diversa da quella che ricordiamo attingendo alle memorie della nostra infanzia o della nostra adolescenza, una mafia assai lontana dalle stragi di Capaci e di Via D'Amelio, lontana dall'immagine di Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani, che in chiesa, con voce rotta, chiedeva ai mafiosi di pentirsi, di inginocchiarsi, di avere il coraggio di cambiare per poi concludere che "tanto loro non cambiano". La Mafia Siamo Noi ci porta lontano dalla Piovra, dalle fiction Mediaset e pure da Gomorra. Questo libro va oltre, entra nel nostro vissuto e nel nostro quotidiano. E per questo vale la pena leggerlo anche nelle scuole (non a caso, Add Editore in collaborazione con la Libreria Bodoni organizza un'iniziativa rivolta ai licei sul tema della cittadinanza attiva, proprio a partire dalla lettura di questo volume). La Mafia Siamo Noi è un libro di 240 pagine, ciascuna delle quali capace di suscitare interesse, rabbia, frustrazione, fiducia, disprezzo e stima. Stima per chi fa. E pure per chi - come De Riccardis - racconta storie che altrimenti ignoreremmo.

Negare, negare, sempre negare, scrive Alessia Pacini su “La Repubblica” il 12 giugno 2017. Alessia Pacini - Blogger e co-direttrice dell'associazione Cosa Vostra. L’esistenza della mafia in Veneto è negata dal momento stesso in cui l’organizzazione criminale vi mette piede. Succede a Venezia, a Verona, a Padova ma anche e soprattutto in provincia, dove la longa manus del crimine organizzato trova terreno fertile. È il caso di Caorle, città del litorale veneziano, che nel 2014 è al centro delle cronache per la denuncia nei confronti del sindaco Striuli, indagato dall’antimafia per falsa testimonianza con l’accusa di non voler rivelare di aver ricevuto minacce di morte, che causa la sospensione del comune dall’associazione antimafia Avviso Pubblico. Le intimidazioni arrivano in seguito alla decisione della giunta di modificare un intervento urbanistico contestato, frutto dell’accordo tra il sindaco precedente e Claudio Casella, imprenditore e immobiliarista. (La Nuova Venezia - 12 Novembre 2016). Nell’attesa che i polveroni si acquietino, fare spallucce sembra essere il modo migliore per negare che qualcosa stia succedendo sotto il cielo delle terre dei dogi. Eppure in Veneto le mafie agiscono. A parlare sono i fatti: a partire dagli Anni Ottanta sono molti gli arresti di boss mafiosi e altrettanti i collaboratori di giustizia che permettono di iniziare a sciogliere i nodi della rete di rapporti e malaffari tra imprenditori, politici e mafiosi, richiamati dal turismo e dal settore terziario in cui investire denaro riciclato. Una situazione ben nota alla Commissione parlamentare antimafia, la quale nel 1994 afferma che il turismo veneziano è parte di uno dei principali sistemi di riciclaggio. Eppure Giancarlo Galan, governatore del Veneto per 10 anni, dopo il blitz antimafia di Chioggia nel 2008 per la costruzione di uno scalo crocieristico, sostiene che la mafia in Veneto non esiste e accusa i giornalisti veneti di aver scritto articoli eccessivamente enfatizzanti. Pochi chilometri più distante, la situazione non cambia: siamo a Verona e Flavio Tosi, sindaco e candidato governatore della regione, accusa la commissione Antimafia di voler indirizzare il voto verso Zaia in seguito alla richiesta di Rosy Bindi, presidente dell'Antimafia, di poter accedere agli atti del Comune (Il Fatto Quotidiano, 1 Aprile 2015). Tosi che, un anno prima, è protagonista di un’inchiesta di Report che sottolinea i rapporti tra il sindaco e alcuni calabresi indagati per ‘ndrangheta. Tosi è accusato di gestione indebita di appalti, il vice-sindaco Casali è arrestato e le parole di Borghesi, presidente della Provincia di Verona, non potrebbero essere più chiare: «Invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali e il potere amministrativo». Da anni, sottolinea Borghesi. Negli Anni Novanta il sindaco di San Pietro di Rosà rivela che molto tempo prima i camorristi Agizza agirono negli appalti pubblici. Erano già latitanti, ma lui non lo sapeva ancora: a segnalarglieli fu l’ex ministro degli interni Enzo Scotti (Narcomafie n.03/2006). Una mafia che si muove silenziosa, quella del Nord-Est, grazie ad istituzioni spesso acquiescenti e disposte a negare. «Pensando alla nostra realtà, a Padova e nel Veneto, il problema della corruzione non è una priorità», afferma Massimo Pavin, presidente di Confindustria Padova fino al 2015 (Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2011). «Siamo sicuri che i nostri controlli funzionano e non c’è nessun sentore di mafia nella nostra città”, parola di Ivo Rossi, già sindaco reggente e candidato sindaco del centrosinistra nel 2014 (Il Mattino di Padova, 5 dicembre 2012). La mafia in Veneto non esiste.

Primati mafiosi e silenzi liguri, scrive Michele Di Lecce il 6 luglio 2017 su “La Repubblica”. Michele Di Lecce - Ex procuratore capo della Procura della Repubblica di Genova. Le mafie in Liguria non esistono. Questa drastica quanto falsa affermazione è stata largamente ed immotivatamente ripetuta da molti, anche al di fuori dei confini regionali, almeno fino ad una decina di anni fa. La sua condivisione si fondava in qualche modo su generiche considerazioni di natura sociale, economica, politica, ma soprattutto traeva forza dall'effetto tranquillizzante che aveva nei confronti di una popolazione tradizionalmente riservata come quella ligure, e di istituzioni locali nel loro complesso troppo spesso se non altro assenti o distaccate. Solo da pochi anni qualcosa è cominciato a cambiare, in particolare con riferimento alla presenza della 'Ndrangheta in questo territorio che, per la sua posizione geografica e per la sua struttura economico - sociale, era e resta certamente appetibile per i traffici e gli altri affari illeciti gestiti da organizzazioni criminali. Infatti, solo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose delle amministrazioni comunali di Bordighera e Ventimiglia, insieme alla conclusione delle complesse indagini relative alla esistenza nella stessa area di associazioni criminali di stampo mafioso prevalentemente volte ad acquisire il controllo economico del territorio, sembrarono scuotere l'opinione pubblica facendo nascere qualche dubbio sulla credibilità di una affermazione in passato da molti ripetuta del tutto acriticamente. Per di più in quel medesimo periodo, vennero resi noti i risultati di una ricerca universitaria, volta a misurare l'indice di presenza mafiosa nelle regioni italiane, dalla quale emergeva che la Liguria nel suo insieme si collocava al sesto posto (cioè dopo Campania, Calabria, Sicilia, Puglia e Lazio) in tale specifica graduatoria. Il risveglio della attenzione dura però poco, tanto che di recente sembra essere tornata a diffondersi se non l'indifferenza di un tempo, almeno una sostanziale sottovalutazione della operatività effettiva della 'Ndrangheta in Liguria, nonostante il concreto rischio di una sua ancora maggiore espansione evidenziata da attendibili ricerche. Ciò è dovuto almeno, ma non soltanto, a due ordini di ragioni. Il primo è costituito dal fatto che ci si trova qui in presenza di una mafia silente, che fa ricorso quasi esclusivamente al metodo collusivo - corruttivo (per altro partendo dalle realtà locali ed interessandosi di affari ed imprese di medio-piccola entità) evitando quindi atti o comportamenti esteriori che potrebbero suscitare un qualche clamore o sollecitare l'attenzione degli organi di informazione. E che si avvale, in genere per la copertura, dei ruoli più influenti all'interno della organizzazione locale di soggetti che hanno nel contesto sociale nel quale vivono profili assolutamente bassi come artigiani, commercianti, piccoli imprenditori. Il secondo è dato dall'esito, in misura prevalentemente favorevole agli imputati, dei due più rilevanti procedimenti penali (Maglio 3 e La Svolta) celebratisi negli ultimi anni. Forte, non solo sotto il profilo mediatico, è stato infatti l'impatto di tali decisioni che, al di là di qualche possibile problematica giuridica, sono risultate in buona parte frutto di una incapacità a comprendere un fenomeno criminale complesso erroneamente e per troppo tempo ritenuto circoscritto ad altre aree geografiche. Sembra quasi che si sia creato un circolo vizioso; infatti, una qualche consapevolezza da parte dei cittadini e degli amministratori della presenza della 'Ndrangheta è nata quasi esclusivamente a seguito dei risultati delle indagini, per cui una sia pur non definitiva assoluzione finisce con l'avere l'effetto di far venire meno tale consapevolezza, e ciò rafforza di fatto la più comoda convinzione (frutto di un ritardo culturale, di una pigrizia mentale, di un approccio egoisticamente distaccato a singoli fatti-reato, per altro già di per sé preoccupanti) che in questa area la 'Ndrangheta non c'è, o comunque non si vede.

Torino, dove convivono tante mafie, scrive Paolo Palazzo il 30 giugno 2017 su "La Repubblica". Paolo Palazzo - Maggiore dei Carabinieri della sezione di polizia giudiziaria Procura di Torino. 1995, uno dei tanti lunghi viaggi in macchina in giro per l’Italia. Seduto sul sedile posteriore con un uomo che aveva passato la sua vita in una organizzazione mafiosa e che ora stava collaborando con la giustizia, raccontando di importazioni di container pieni di cocaina che dalla Colombia arrivavano in Italia e di un considerevole numero di omicidi al quale lui stesso aveva partecipato. In quel viaggio mi raccontava che la sua organizzazione si era accorta che a Torino, città dove lui viveva, vi era una numerosissima presenza di prostitute nigeriane e, con tutta probabilità, vi era un gruppo criminale che le gestiva e ne traeva i profitti. Quest’altra presenza era per loro intollerabile e lui e i suoi compagni avevano pensato, fortunatamente era rimasta solo una intenzione, di ferire a colpi di pistola una di queste sfortunate, scelta a caso, per ottenere che “qualcuno si presentasse da noi per parlare” perché non era pensabile che altre strutture criminali potessero agire sul territorio, crescere e costituire per loro un potenziale futuro pericolo. La sua analisi prevedeva la probabile scomparsa nel futuro, o almeno un forte ridimensionamento, delle organizzazioni mafiose italiane che in una decina d’anni non sarebbero state più in grado di contrastare le organizzazioni straniere che si affacciavano al nostro Paese con una forza e una spietatezza tale da impressionarlo: “Questi ti ammazzano per niente, scompaiono e non sai dove trovarli” mi disse. Torino, la città che ha vissuto gli attentati delle Brigate Rosse, i sacchetti di sabbia che proteggevano i soldati a guardia delle aule dove si svolgevano le udienze, aveva visto negli anni ’80 il processo alla mafia siciliana, il “clan dei catanesi”, che in quegli anni dividevano gli affari criminali con la 'ndrangheta calabrese che ucciderà il procuratore della Repubblica Bruno Caccia, uomo e magistrato intransigente che conviveva con alcuni colleghi di ufficio non altrettanto virtuosi e altri che con i mafiosi ci andavano a cena. Nella metà degli anni Novanta, Torino vivrà invece un processo contro decine di appartenenti alla 'ndrangheta calabrese che in quella stagione si stavano arricchendo con i traffici di droga dal Sud America e conquistando il controllo della città a colpi di pistola e morti ammazzati. Quindici anni dopo altre 150 persone saranno arrestate in un solo giorno per una indagine sulla 'ndrangheta che porterà allo scioglimento per infiltrazioni mafiose di due comuni della provincia torinese. Nel frattempo le forze di polizia e la magistratura hanno visto crescere organizzazioni criminali balcaniche, magrebine, africane, dell’Est Europa che si impongono e trovano spazio negli affari criminali. Oggi la criminalità mafiosa italiana e quella straniera convivono, di tanto in tanto sinergicamente. A volte, ricordo le parole di quel compagno di viaggio così particolare, a quella macchina in giro per l’Italia. Penso che la sua analisi fosse sbagliata. E che oggi è ancora più complesso di ieri.

La scoperta della 'Ndrangheta piemontese, scrive Roberto Sparagna il 28 giugno 2017 su "La Repubblica". Roberto Sparagna - Sostituto procuratore della Repubblica di Torino. Minotauro ha, ormai, più di dieci anni di vita. Non il personaggio mitologico ovviamente, ma l’indagine e poi il processo che vengono convenzionalmente chiamati con quel nome. Se torniamo indietro nel tempo, ai primi anni Duemila, non scopriamo in Piemonte rilevanti operazioni contro la criminalità organizzata di stampo mafioso. Occorre arrivare alla data dell'8 giugno 2011 giorno in cui venne data esecuzione alla misura cautelare che portò in carcere circa 130 persone gravemente indiziate di appartenenza alla ‘ndrangheta piemontese. Quel giorno venne alla luce “Minotauro” dopo una preparazione di quasi 6 anni. Tutto iniziò, infatti, nel 2006 quando nelle indagini collegate all’omicidio di Giuseppe Donà, una delle persone coinvolte nella vicenda, decise di collaborare con la giustizia e rivelò autori e causali del delitto. Ma non solo. Riferì della sua appartenenza alla ‘ndrangheta. Disse di essere stato affiliato in Calabria, in un piccolo paese della Locride e poi di essere stato “operativo” in Piemonte e di aver prestato servizio in una filiale della ‘ndrangheta (denominata “locale”) aperta in Torino. Per il Piemonte iniziava così una pagina interessantissima di storia giudiziaria poiché le dichiarazioni di quel collaboratore consentirono di svelare una realtà criminale che sembrava da tempo scomparsa nelle sue manifestazioni piemontesi. Quel collaboratore di giustizia si chiamava Varacalli Rocco, nato nel 1970. Le sue dichiarazioni rilevarono l’esistenza di una struttura organizzativa criminale diffusa su gran parte del territorio piemontese e ripartita in numerosi “locali”, ognuno dei quali composto da una cinquantina di affiliati. Le successive sentenze accertarono l’esistenza di 12 locali di ‘ndrangheta piemontese e portarono alla condanna di più di centoventi persone per associazione mafiosa con più di 1000 anni di reclusione irrogati. Negli anni successivi altri collaboratori di giustizia fornirono elementi utili alla ricostruzione dell’organizzazione criminale (così Rocco Marando, Cristian Talluto, Nicodemo Ciccia) permettendo agli inquirenti di acquisire un bagaglio di conoscenze ulteriori e di perfezionare la comprensione e l’analisi di un’associazione che fa della segretezza e dei rapporti di parentela la sua forza di coesione e di impermeabilità. Le informazioni raccolte vennero confermate dai risultati delle intercettazioni delle comunicazioni e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria. Emersero così le fortissime relazioni della ‘ndrangheta con esponenti politici e con amministratori locali (alcuni di questi condannati per concorso esterno), seguirono gli scioglimenti di alcuni consigli comunali per infiltrazioni mafiose ed emersero con evidenza le relazioni strutturali, organizzative e operative tra gli ‘ndranghetisti piemontesi e quelli residenti in altre regioni (principalmente la Calabria, ma anche la Lombardia, la Liguria, l’Emilia Romagna) e in altre nazioni (così in particolare il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia). Il percorso investigativo non è ancora terminato, anzi può affermarsi che con Minotauro è rinato: i risultati conseguiti nel processo Minotauro (e nei procedimenti connessi) costituiscono le fondamenta di un nuovo modo di affrontare le manifestazioni nordiche della ‘ndrangheta. Un nuovo modo che trova pur sempre ispirazione nei più datati procedimenti che sul territorio piemontese videro negli anni passati estrinsecarsi i metodi mafiosi (si pensi, tra gli altri, al processo Cartagine, all’omicidio di Bruno Caccia e alle vicende concernenti i locali di ‘ndrangheta insediati nella Val Susa e nell’Ossolano).

Le sorelle d'omertà “lombarde”, scrive il 23 giugno 2017 Ombretta Ingrascì su “La Repubblica”. Ombretta Ingrascì - Docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano. Il grande merito dei maxiprocessi istruiti dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano nei primi anni novanta fu di mettere in luce non solo la presenza delle mafie in Lombardia, ma anche il ruolo delle donne al loro interno. A svelare la componente femminile delle famiglie mafiose fu soprattutto Rita Di Giovine, prima collaboratrice di giustizia della ‘drangheta, la cui testimonianza permise al dottore Maurizio Romanelli di colpire il feudo criminale che la madre di Rita, Maria Serraino, aveva instaurato negli anni ottanta intorno a Piazza Prealpi nella zona Nord-Ovest di Milano. Nipote di Ciccio Serraino della montagna, esponente di primo piano della 'drangheta di Reggio Calabria, Maria gestiva assieme al figlio Emilio un imponente traffico internazionale di stupefacenti (eroina, hashish e cocaina) e di armi, e operava nelle piazze milanesi in accordo con le altre famiglie della 'drangheta presenti nel territorio. Come l’operazione investigativa “Belgio” contro il clan Serraino-Di Giovine, anche l’indagine “Fiori della notte di San Vito”, condotta nel 1994 contro il gruppo 'dranghetista dei Mazzaferro attivi nella zona del Comasco, contribuì a sfatare lo stereotipo dell’assenza delle donne nella mafia. Nel banco degli imputati compariva Maria Morello, alla quale il collaboratore di giustizia Marcianò nelle sue deposizioni attribuì la qualifica di “sorella d’omertà” e il collaboratore Foti quella di “sorella d’umiltà”, carica che prevedeva, come scritto nella sentenza, servizi di “fiancheggiamento in ruoli non prettamente militari”. Nel 1976 il suo ristorante a Laglio, sul lago di Como, ospitò un summit di 'dranghetisti, finalizzato a creare su iniziativa di Mazzaferro una “camera di controllo” per l’attribuzione delle doti della 'drangheta in Lombardia. Anche dai processi celebrati in Lombardia negli anni 2000 emergono figure di donne pronte ad assumere ruoli attivi nelle mafie.  Più istruite e libere di muoversi rispetto al passato e al contempo ancora insospettabili per la loro appartenenza al genere femminile, le donne vengono usate per custodire le armi, riscuotere il denaro presso le vittime di estorsioni e usura, e per condurre operazioni di reinvestimento del denaro illecito nell’economia legale (si pensi per esempio ai casi di Luana Paparo e delle donne del clan Valle). Nonostante il crescente e sostanziale coinvolgimento delle donne nelle mafie, al di là del tradizionale ruolo di trasmissione del sistema culturale mafioso, permane la loro esclusione formale. Alle donne infatti non è concessa l’affiliazione tramite il rito di iniziazione e pertanto nemmeno la possibilità di ricoprire ruoli apicali (se non in modo temporaneo durante l’assenza degli uomini della famiglia). Non è un caso che l’indagine Crimine-Infinito del 2010 non abbia individuato nessuna donna in posizione di vertice. Infine, la penetrazione della 'drangheta in Lombardia non si è limitata al trasferimento delle strutture di base dell’organizzazione, i cosiddetti “Locali”, ma anche di pratiche di genere basate sul codice dell’onore. In altre parole la riproduzione del fenomeno non è avvenuta solo sul piano criminale, ma anche su quello culturale. Non sono rare storie di giovani donne cresciute nell’hinterland milanese costrette a fidanzarsi e a sposare uomini più anziani per motivi di alleanze tra clan; oppure di donne ossessivamente controllate per ragioni di reputazione onorifica; o anche di donne picchiate, come nel caso di Maria Serraino che, nonostante fosse temuta dagli uomini del suo gruppo e dagli avversari in veste di capo dell’organizzazione, subiva le violenze del marito. È a partire da questa condizione di subordinazione che alcune donne hanno trovato il coraggio di ribellarsi collaborando con la giustizia, come la già citata Rita Di Giovine nel 1993, oppure testimoniando contro i propri famigliari, come Lea Garofalo nel 2006, che venne uccisa nel 2009 per aver infranto la regola dell’omertà. La sua storia e quella della figlia Denise, che ha testimoniato durante il processo contro il padre, assassino della madre, non ha lasciato indifferenti un gruppo di studentesse delle scuole medie superiori e dell’università, che con la loro costante presenza in aula l’hanno supportata durante l’intero processo, lasciando un’importante testimonianza di senso civico di cui la città di Milano ha da cogliere l’eredità.

Dottor Borrelli, come risponde al giudice Salvini? Chiede Piero Sansonetti il 24 giugno 2017 su "Il Dubbio". Ieri abbiamo pubblicato su questo giornale un’intervista al magistrato Guido Salvini, il quale ci ha svelato una storia veramente inquietante. Ci ha raccontato di come fu ostacolato in tutti i modi dalla Procura di Milano, quando stava lavorando alacremente all’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. All’epoca guidata da Francesco Saverio Borrelli, il magistrato celeberrimo per avere governato il pool di “mani pulite”, quello di Di Pietro e Davigo, che nei primi anni novanta rase al suolo la Prima Repubblica, la democrazia cristiana e il partito socialista. Dottor Borrelli, cosa ci dice di quelle inchieste sulle stragi? Salvini ricostruisce una delle vicende più oscure della storia italiana del dopoguerra: la stagione delle stragi. Che precedette, e certamente in qualche modo influenzò, la lotta armata e gli anni di piombo. Precisamente parliamo della prima fase delle stragi, e cioè del quinquennio che va dal 1969 al 1974 (poi ci fu una seconda fase, sanguinosissima, negli anni 80). La ricostruzione di Salvini avviene non sulla base di uno studio storico, o di una sua opinione di intellettuale, ma sulla base delle indagini che lui stesso ha svolto, con un certo successo, negli anni ottanta e novanta. Queste indagini riguardarono, in momenti diversi, due degli episodi chiave dello stragismo, e cioè il devastante attentato alla Banca dell’Agricoltura di di piazza Fontana, che avvenne e Milano nel dicembre del 1969 e che diede il via alla strategia della tensione, e poi la strage di Brescia, fine maggio 1974. Per la strage di Brescia si è arrivati martedì scorso alla conclusione giudiziaria con la condanna all’ergastolo, 43 anni dopo, di due degli autori. Per la strage di piazza Fontana, che cambiò faccia alla lotta politica in Italia – dando la parola alla violenza e alle armi e provocando la morte di quasi 2000 persone, tra le quali molti leder politici, compreso Aldo Moro, e molti poliziotti, magistrati, giornalisti – nessuno è in prigione, anche se, soprattutto grazie alle indagini di Salvini, si è ormai scoperto quasi tutto. Gli autori e i mandati della strage di piazza Fontana e quelli della strage di Brescia erano gli stessi: militanti neonazisti collegati a settori dei servizi segreti. E l’obiettivo – sostiene Salvini – era quello di destabilizzare il paese e rendere possibile una svolta reazionaria, o addirittura un colpo di stato simile a quello avvenuto nel 1967 in Grecia. Questa strategia si interruppe intorno al 1974 con la fine del regime dei colonnelli greci e poi con la caduta degli ultimi due governi totalitari di destra in Europa, e cioè quello della Spagna e quello del Portogallo.

Cosa denuncia Salvini? Racconta di come quando toccò a lui prendere in mano una indagine (quella su piazza Fontana) nata male e proseguita peggio, tra omissioni, incompetenze e depistaggi, le cose iniziarono a cambiare e pezzo a pezzo apparve un mosaico che lasciava capire le responsabilità e le complicità nell’attentato del ‘ 69. Si trattava di lavorare su indizi e anche su prove precise, che Salvini aveva individuato. Ed era possibile e vicina la conclusione dell’inchiesta. A quel punto però in Procura nacque una forte opposizione a Salvini. Per quale ragione? Questo, Salvini non lo spiega, ma noi ci permettiamo di avanzare qualche ipotesi. E’ assai probabile che l’opposizione fosse dovuta essenzialmente alle invidie e alle lotte del potere dentro la magistratura. E lui fu ostacolato, e persino messo sotto inchiesta e accusato davanti al Csm. Per sette anni di seguito dovette pensare a difendersi, mentre la sua inchiesta andava alla malora, le prove si perdevano per strada, i testimoni venivano messi fuori causa. Probabilmente alla Procura di Milano interessava poco assai della strage, che ormai era vecchia di 20 anni e aveva scarse possibilità di influire sulla lotta politica e sui rapporti di forza. Mentre l’inchiesta su Tangentopoli era molto più attuale, e aveva riflessi enormi sulla battaglia politica, sui rapporti tra i partiti, sull’orientamento dell’opinione pubblica. E anche sui nuovi assetti di potere dentro la magistratura. Alla fine Salvini vinse la battaglia, e il Csm riconobbe la sua assoluta innocenza. Però ebbe la carriera stroncata, e cioè l’obiettivo che si poneva qualcuno in Procura fu raggiunto. Noi possiamo anche stabilire che della carriera del dottor Salvini, e delle ingiustizie che ha subito, non ce ne frega assolutamente niente. Benissimo. Però è difficile dire che non ci frega niente neppure della verità su quegli anni, che hanno modificato la storia dell’Italia. E dunque, a parte le scuse a Salvini, dal dottor Borrelli ci aspettiamo qualche spiegazione.

Guido Salvini: «La mia guerra solitaria per sconfiggere gli stragisti», scrive Rocco Vazzana il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio". «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella greca». «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella che vi era stata in Grecia con il golpe dei colonnelli». Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano sulla strage di Piazza Fontana, commenta così la sentenza definitiva della Cassazione su Piazza della Loggia.

Ci son voluti 43 anni per arrivare a una verità processuale. È una vittoria o una sconfitta dello Stato?

«Contrariamente a ciò che pensano molti, per me è una vittoria dello Stato di oggi. È stato possibile ottenere la verità perché solo a partire dagli anni 90, con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura degli archivi dei servizi d’informazione, sono arrivate le prime testimonianze dagli ambienti della destra eversiva che hanno fatto luce sulle stragi. Inevitabilmente nei processi di questo tipo i tempi sono molto lunghi, si tratta comunque di un risultato che illumina un’altra pagina del quinquennio più tragico della strategia della tensione: quello che va dal 1969 al 1974».

Possiamo dire che tutti i responsabili della bomba a Brescia siano stati individuati?

«Non tutti i responsabili delle stragi di Piazza della Loggia e Piazza Fontana sono stati individuati. Possiamo però dire che con le sentenze di Brescia e Milano, la paternità dell’ideazione e dell’esecuzione di queste stragi è certa. Le stesse sentenze di assoluzione per Piazza Fontana affermano che la strage fu commessa dalle cellule venete di Ordine Nuovo ed è riconosciuta in via definitiva la responsabilità di Carlo Digilio (neofascista reo confesso, ndr), come confezionatore dell’ordigno, che beneficiò della prescrizione grazie alla sua collaborazione. E la sentenza di Brescia irroga condanne all’ergastolo indirizzate ad appartenenti alle stesse cellule venete di Ordine Nuovo».

Due stragi e un’unica firma dunque…

«Sì, e probabilmente un identico esplosivo: il Vitezit di fabbricazione jugoslava. Due stragi che rappresentano l’inizio e la fine di un progetto eversivo. Nel mezzo, tante altri attentati e altre stragi, come quella del luglio 1970: un treno deragliò vicino alla stazione di Gioia Tauro per una bomba sui binari. Ci furono 6 vittime e a piazzare l’ordigno, secondo la sentenza, furono esponenti di Avanguardia Nazionale di Reggio Calabria, l’organizzazione gemella di Ordine Nuovo che operava nel Sud».

Cosa succede nel 74? Perché quel progetto eversivo viene accantonato?

«Perché ormai la situazione era mutata: cadono i regimi fascisti in Grecia, Portogallo e Spagna. Inizia una distensione internazionale, finisce anche l’epoca di Nixon e quel progetto diventa antistorico».

Chi sono Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, i due uomini condannati per la strage di Brescia?

«Due militanti che si pongono ai due estremi della catena di comanda degli ordinovisti veneti. Carlo Maria Maggi era il responsabile dell’organizzazione per tutto il Veneto, non solo un ideologo, ma il capo che pianificava le campagne operative. Era in diretto contatto con il centro di Roma e con il mondo militare. Maggi era quindi lo stratega del gruppo. Maurizio Tramonte, invece, è un personaggio di modesta levatura che a un certo punto raccontò al Sid di Padova di aver partecipato alle riunioni preparatorie della strage di Brescia e di aver fornito appoggio logistico all’operazione. Lo racconta come fonte “Tritone”, cioè come informatore. Era dunque un elemento di collegamento, che dimostra come una parte dei Servizi segreti e il mondo dei neofascisti fossero allora in stretta connessione».

Dunque la condanna di “Tritone” rappresenta un’implicita condanna a una parte dello Stato?

«È certo molto indicativa delle collusioni dello Stato in quell’epoca. E non dimentichiamo che nel processo di Catanzaro su Piazza Fontana furono condannati i vertici del SID per aver fatto fuggire in Spagna imputati o testimoni decisivi come Guido Giannettini, un agente di alto livello dello stesso Sid legato a Freda e Marco Pozzan, che di Freda era il braccio destro».

Cosa ha rappresentato Ordine Nuovo per la storia del nostro Paese?

«Era un’organizzazione di stampo decisamente neonazista, con un buon livello ideologico e organizzato a due livelli, con circoli pubblici e cellule segrete molto esperte nell’uso dell’esplosivo e delle armi. Si trattava di un’organizzazione che, per il suo anticomunismo, era considerata da una parte dello Stato come “cobelligerante” per impedire uno scivolamento a sinistra del quadro politico italiano. Moltissimi uomini di Ordine Nuovo erano del resto legati al mondo militare o al Sid».

Cosa dice la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa sulla stagione della tensione?

«Insieme a tutte le altre ci dice che tutti gli attentati di quell’epoca, circa un centinaio, furono materialmente commessi da Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale con un benevolo “controllo senza repressione” da parte dei Servizi di sicurezza italiani e probabilmente americani nell’ottica di un mantenimento dell’Italia in quadro decisamente conservatore».

Lei ha detto che l’esito del processo «premia l’impegno della Procura di Brescia», mentre su Piazza Fontana «la Procura di Milano non ha fatto altrettanto ed ha usato la maggior parte delle sue energie soprattutto per attaccare il giudice istruttore». A cosa si riferiva?

«Per parecchi anni la Procura di Milano non si è mai occupata della destra eversiva, nonostante le mie sollecitazioni. Quando decise di intervenire, Saverio Borrelli incaricò di affiancarmi una sostituta appena arrivata in Procura e completamente digiuna di indagini sul terrorismo. Perdipiù una collega che invece di collaborare dichiarò guerra a me, allora giudice istruttore, con l’idea che l’indagine fosse interamente assorbita dalla Procura».

Non si fidavano di lei?

«Credo che si trattasse di un senso di fastidio perché un altro ufficio, l’Ufficio Istruzione, aveva raggiunto risultati impensabili mentre la Procura aveva sottovalutato il caso. Quando si fecero vivi i sostituti della Procura entrarono, per inesperienza, in collisione con tutti i testimoni, non mossero un passo avanti e invece di collaborare con me pensarono bene di far aprire dal Csm un procedimento di incompatibilità ambientale nei miei confronti cioè di farmi cacciare da Milano. L’obiettivo era impadronirsi di un’indagine sulla quale comunque da soli non erano in grado di ottenere alcun risultato. Ad esempio quando la Procura andò a Catanzaro per fotocopiare gli atti del vecchio processo su Piazza Fontana acquisì l’agenda del 1969 di Giovanni Ventura. Non si accorsero nemmeno che lì dentro c’era il nome di Carlo Digilio e i riferimenti ad un casolare vicino a Treviso dove Ventura, Zorzi e tutti gli altri veneti avevano la base logistica con le armi e gli esplosivi. Digilio aveva raccontato di questo casolare e le assoluzioni in dibattimento vi furono anche perché quella base non era stata trovata. La conferma stava in quelle agende, ma la Procura non si accorse nemmeno di avere in mano la prova regina. Qualche anno dopo la Procura di Brescia studiò la stessa agenda e trovò subito il casolare che stava ancora lì. Ma ormai era tardi».

Perché la ritenevano incompatibile con la sede di Milano?

«II Csm, che all’epoca accoglieva qualsiasi cosa dicesse la Procura di Milano, aprì nei miei confronti il procedimento per “incompatibilità”, una procedura barbara che spesso significa solamente che sei diventato sgradito a qualche magistrato più potente di te. Mio padre è stato magistrato a Milano per 40 anni. Io, all’epoca lo ero da 20, avevo fatto importanti indagini in tutti i settori, lì c’era tutta la mia vita. Sette anni di procedimento con la minaccia di trasferimento possono schiantare una persona. E in più, non riuscivano a capirlo, hanno paralizzato l’ultima parte dell’indagine su Piazza Fontana, la fase decisiva. Io dovevo difendermi tutti i giorni dai loro attacchi e contemporaneamente correre a fare gli interrogatori con Digilio. Furono sette anni di inferno anche se alla fine vinsi il procedimento al Csm. Francesco Saverio Borrelli, che di mio padre era stato collega per tanti anni in Assise, dovrebbe ricordare che ha giocato con la mia vita e con quella della mia famiglia. Aspetto ancora le sue scuse».

«Giustizia milanese affidata a società dei paradisi fiscali», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio".  Lo storico cronista di giudiziaria Frank Cimini ha rivelato per primo il caso che scuote Palazzo di Giustizia: le gestione dei fondi Expo da parte dei magistrati. Ora pronostica: “La verità verrà fuori grazie allo scontro fra le correnti”. Intanto l’Ordine dei Milano sceglie la procedura più trasparente per la gara sui servizi di supporto, finanziati dall’avvocatura. “Solo le correnti della magistratura sono in grado di fare chiarezza sul modo in cui sono stati spesi al Palazzo di giustizia di Milano i fondi governativi assegnati in occasione di Expo2015”. Non usa mezzi termini Frank Cimini, lo storico cronista di giudiziaria del Mattino che per primo, già nel 2014, raccontò sul sito giustiziami.it le “anomalie” nelle procedure di spesa dei 16 milioni di euro stanziati per informatizzare il Tribunale del capoluogo lombardo. Affidamenti senza gara ai quali fa da contrappunto la procedura con “gara europea” adottata dall’Ordine forense di Milano per scegliere il servizio di supporto agli uffici. Sulle spese di competenza delle toghe, finite nel mirino dell’Anac, l’altro giorno il gruppo di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice dei giudici, ha chiesto formalmente al Csm di fare chiarezza “per salvaguardare il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario”. “L’Anac di Cantone – dice Cimini arriva con anni di ritardo. Molti affidamenti, fin da subito, presentavano aspetti poco chiari”. Ad esempio quelli alla Ediservice del gruppo Edicom, società che si occupa fra l’altro della pubblicità accessoria dei procedimenti esecutivi o fallimentari che i giudici della seconda e della terza sezione civile impongono ai loro delegati. Questa società fornisce anche il personale per le cancellerie. “Oltre ad aver vinto la gara – dice Cimini – con un ribasso da brivido del 72%, è normale che una società che lavora per il Tribunale abbia la sede nel Delaware, un paradiso fiscale, e nessuno ad oggi sia in grado di dire di chi sia la proprietà?”. I servizi offerti dalla Ediservice hanno fatto storcere la bocca a diversi magistrati. “Inutili e dispendiosi” disse in una riunione il giudice della terza civile Marcello Piscopo. Su queste vicende, prima dell’intervento dell’Anac che ha trasmesso il dossier alla Procura ed alla Corte dei Conti, un procedimento penale a Milano era stato comunque aperto. Nel 2016 il pm Paolo Filippini, dopo aver scritto che “lo sviluppo dell’indagine deve passare necessariamente dalle condotte dei magistrati milanesi fruitori di questi servizi resi dalla ditta Edicom”, trasmise gli atti ai om bresciani. I quali, dopo 8 mesi, restituirono gli atti ai colleghi di Milano in quanto “il mero sospetto” non era sufficiente per determinare la loro competenza che scatterebbe solamente se si iscrivesse un magistrato nel registro degli indagati. “Ripeto, questa vicenda potrà essere risolta solo con l’intervento delle correnti delle toghe e Mi ha in questo momento la forza per farlo”, aggiunge Cimini. Il riferimento è al fatto che Magistratura indipendente ha avuto solo di recente un exploit a Milano: 51 voti nel 2008, 181 alle elezioni dello scorso maggio per l’Anm. Milano è poi il feudo del togato di Mi Claudio Galoppi, alle ultime elezioni per il Csm il magistrato più votato in Italia. Da quanto emerso fino ad oggi, furono soprattutto le toghe di Unicost e Area ad essere coinvolte nelle procedure di affidamento dei fondi Expo. Da qui, forse, il desiderio di Mi di regolare qualche conto. Ed a proposito di risorse economiche destinate al funzionamento della giustizia milanese, si segnala dunque la decisione dell’Ordine degli avvocati di Milano di fornire anche per i prossimi 2 anni il personale di supporto agli uffici. Un servizio affidato con gara europea, per maggiore trasparenza e nel rispetto della più recente normativa in tema di concorrenza e appalti. “Continuiamo ad offrire il nostro contributo al funzionamento del sistema giustizia milanese, sia pure nel quadro di un graduale ridimensionamento da tempo annunciato e concordato con i capi degli uffici”, ha dichiarato il presidente dell’Ordine Remo Danovi.

Appalti con i fondi di Expo collaudati dai magistrati contro la legge. Le procedure di affidamento da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari. La segnalazione della Guardia di Finanza: «Violato il codice su chi deve verificare le commesse», scrive Luigi Ferrarella l'11 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, al pg della Cassazione e alla Corte dei Conti, c’è un problema non solo sul «prima», cioè sulle violazioni-deroghe-frazionamenti-conflitti di interesse che nel 2010-2015 avrebbero viziato le procedure di cui si è qui riferito ieri, ma anche sul «dopo», e cioè sul momento dei collaudi. I finanzieri del generale Gaetano Scazzeri hanno infatti segnalato a Cantone come la verifica della conformità o del funzionamento delle commesse appaltate risulti essere stata svolta in 13 occasioni da commissioni di collaudo delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge, posto che il Codice degli appalti, in tema di collaudi, alla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del drp 207/210 stabilisce: «Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati ai magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori dello Stato, in attività di servizio». Tra funzionari comunali e dirigenti ministeriali e consulenti, i ruoli non appaiono sempre chiari all’Anac. È il caso della già trattata presenza informale e tuttavia operativa nei tavoli tecnici di Giovanni Xilo quale apparente consulente del Tribunale (ma forse pure della Camera di Commercio, e comunque anche, rileva ora l’Anac, socio unico di un’azienda in rapporti diretti e indiretti con una delle società assegnatarie degli appalti). Ed è il caso anche di un aspetto collaterale alla fornitura da 2,8 milioni che nel giugno 2015 venne fatta convogliare su Maticmind spa e Underline spa argomentando come giustificazione l’«opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze. Qui la principale doglianza dell’Anac resta che non vi fosse invece alcun nesso tra l’appalto per l’hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici; ma, oltre a ciò, all’Anac non appare comprensibile né che il direttore del settore Gare Beni Servizi del Comune di Milano, Nunzio Paolo Dragonetti, sembri aver compiuto atti in qualità di Responsabile unico del procedimento (Rup), incarico invece ufficialmente del direttore comunale della Gestione Uffici giudiziari, architetto Carmelo Maugeri; né che nella commissione di collaudo degli hardware figuri poi il dirigente del Cisia di Milano (terminale locale dell’informatica del ministero), Gianfranco Ricci, che come referente per la stazione appaltante aveva già partecipato proprio al progetto di potenziamento dei centri dati gestiti dal Cisia. Un ulteriore capitolo di anomalie investe le forniture informatiche sottoposte all’adesione al Mepa-Consip, cioè al Mercato elettronico della Pubblica amministrazione. Qui, quando arrivano le offerte delle varie società, la stazione appaltante deve per legge rispettare il termine minimo di 10 giorni per la ricezione: invece in 5 gare, del valore totale di 600.000 euro nel 2010 e 2012 e 2014 e 2015, il Comune di Milano non ha rispettato questo termine, aggiudicando le forniture già dopo 5, 7 o 8 giorni a Telecom Italia, Itm Informatica Telematica Meridionale srl, Dottcom srl. In altre due gare sul circuito MePa-Consip, inoltre, l’Anac critica l’artificioso frazionamento della spesa con il quale una commessa unitaria sarebbe stata divisa in due procedure da 47.890 euro (i progetti «Udienza facile» e «Orientamento interattivo») aggiudicate entrambe alla Eway Enterprise Business Solutions.

Appalti informatici al tribunale di Milano. E’ giallo nel giallo. Non solo commesse assegnate a sigle e imprese in odore mafioso, ma addirittura, per svariati lotti, poi collaudate da magistrati. E contro la legge. Ai confini della realtà. Invece, ben dentro il pianeta giustizia di Casa nostra, scrive il 12 giugno 2017 Paolo Spiga su “La Voce delle Voci”. Scrive il Corriere della Sera del 12 giugno: “magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, c’è un problema non solo sul prima ma anche sul dopo e cioè sul momento dei collaudi”. Commissioni di collaudo “delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge che stabilisce: ‘Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati a magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori di Stato, in attività di servizio’”. Se succede addirittura al Tribunale di Milano, per appalti giudiziari, e con la presenza di magistrati nelle stesse commissioni di collaudo, figurarsi cosa può succedere in altre parti d’Italia. Sorge spontanea la domanda: ma quella normativa così pomposamente recitata dalla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del DPR numero 207/210 cosa ci sta a fare? Al solito, facciamo le norme inondate da codici e codicilli che non vengono rispettate da nessuno, tantomeno dagli stessi magistrati? Uno dei casi più eclatanti di giudici-collaudatori fu, negli anni ’80, quello delle toghe incaricate di verificare i lavori del dopo terremoto in Campania, sisma che si è trasformato in una grande occasione per il decollo della camorra spa, di faccendieri e imprese di partito, ma anche un ottimo ingranaggio per tanti professionisti, in pole position i magistrati. Resta storico un documento presentato da alcuni magistrati contro altri magistrati nel 1989 davanti al Csm nel quale veniva puntato l’indice contro le toghe collaudatrici, un folto numero in Campania, chiamate a suon di milioni di lire, all’epoca, per verificare la congruità – non si sa con quale perizia tecnica – di opere pubbliche costate una barca di soldi. Opere sulle quali avrebbero caso mai indagato in un momento successivo, come è successo con l’inchiesta sul dopo terremoto, dieci anni di carte e processi buttati al vento, e a loro volta costati altre palate di milioni allo Stato. Un processo – quello del post sisma ’80 – ovviamente morto di prescrizione, tanto per cambiare…

Cantone: con i fondi Expo 18 appalti illeciti del Tribunale di Milano. L’Anac su Comune, magistrati e ministero: 8 milioni tra gare aggirate e conflitti d’interesse, scrive Luigi Ferrarella il 10 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Almeno 18 delle 72 procedure d’appalti per l’informatica del Tribunale di Milano, per oltre 8 dei 16 milioni di euro di fondi Expo 2015 stanziati da un decreto legge nel 2008, per l’Anac sono stati viziati fra il 2010 e il 2015 da violazioni del codice degli appalti, da illeciti affidamenti diretti senza bando con la scusa dell’unicità del fornitore per straordinarie ragioni tecniche, da artificiosi frazionamenti pianificati o da accorpamenti privi di senso, da immotivate convenzioni con enti esterni come la Camera di Commercio, e da potenziali conflitti di interesse nei tavoli tecnici. È una radiografia-choc l’esposto che l’«Autorità nazionale anti corruzione» di Raffaele Cantone ha inviato — sulla scorta di un rapporto del Nucleo della GdF del generale Gaetano Scazzeri — non solo alla Corte dei Conti (per i danni all’erario), ma anche alla Procura Generale della Cassazione (per eventuali profili disciplinari a carico di magistrati), e alla Procura della Repubblica di Milano per gli impliciti rilievi penali di turbative d’asta. Benché solo cartolare, la ricostruzione Anac è impietosa sul quinquennio dei tecnici del Comune stazione appaltante (era Moratti e Pisapia); dei vertici del Tribunale (con la presidenza di Livia Pomodoro e l’Ufficio Innovazione dell’attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli); dei dirigenti Dgsia/Cisia (braccio informatico del ministero della Giustizia di Alfano-Severino-Cancellieri-Orlando); della Camera di Commercio di Carlo Sangalli; di singole toghe e consulenti. La conclusione dell’Anac, nutrita anche dalle mail pre-contratti, è infatti che i membri del «Gruppo di lavoro per l’infrastrutturazione informatica degli uffici giudiziari di Milano» in molti casi avessero già deciso di non fare gare pubbliche e di affidare invece in via diretta, nel preteso nome di una più spedita efficienza, gran parte delle commesse a società già “mirate” come Net Service e Elsag Datamat; e che il Comune-stazione appaltante, oltre a individuarle preliminarmente, incaricasse poi il ministeriale Dgsia/Cisia di trovare di volta in volta cosmetiche giustificazioni tecniche. Nel 2015, ad esempio, «urgenti migliorie» a un pezzo del processo civile telematico sono suddivise in due contratti da 256.000 e 835.000 euro assegnati, su richiesta della ministeriale Dgsia, alla Net Service nel presupposto riguardassero «lo stesso codice sorgente (il cuore del software, ndr) mantenuto dalla società», e si trattasse quindi di un affidamento diretto per eccezionalità tecnica del fornitore (II comma art. 57). Ma in realtà, proprio in base ai precedenti contratti con la società, il suo codice sorgente era già diventato proprietà del Ministero, dunque libero di rivolgersi ad altri fornitori meno onerosi, e di così sottrarsi all’altrimenti monopolio di fatto. Analogo meccanismo, prospettato dal comunale responsabile unico del procedimento, arch. Carmelo Maugeri, nel 2013 porta ad esempio 323.000 euro alla Guerrato spa per la centrale elettrica di una sala server.

Altro esempio nel giugno 2015, quando la ragione per convogliare su Maticmind spa e Underline spa una fornitura da 2,8 milioni viene addotta nella «opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze: peccato, nota l’Anac, che non vi fosse alcun nesso tra l’appalto per hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici giudiziari. Singolare, poi, la convenzione del maggio 2013 che, per potenziare il sito Internet e la rete Intranet del Tribunale, il Comune stipula con la Camera di Commercio in quanto «gli Uffici giudiziari hanno comunicato che da tempo è in essere un rapporto consolidato con la Camera di Commercio in ordine all’esecuzione di attività varia», e quindi «risulta opportuno» andare avanti così. Un prolungamento che vale in due rate 250.000 euro. Sui quali ora l’Anac esprime «forti perplessità», vista anche la facile reperibilità sul mercato di quelle competenze. Per tacere dell’infelice precedente dell’autunno 2012, quando il presidente della Digicamere scarl (controllata da Camera di Commercio) non aveva segnalato di aver patteggiato il reato di omesso versamento dell’Iva.

Pur senza un ruolo formale, al tavolo tecnico partecipava come consulente del Tribunale un esperto di organizzazione (già per Camera di Commercio e Ordine Avvocati), Giovanni Xilo, che però l’Anac ora lamenta fosse anche altro. Nel 2012 e 2014 la sua società C.O. Gruppo srl aveva avuto rapporti economici (in qualità di fornitore) con la Net Service, una delle aziende assegnatarie degli appalti del Tribunale; Net Service nel 2012-2013-2014 aveva retribuito incarichi a tre persone; e nel giugno 2014 queste tre avevano comprato da Xilo l’82% della sua società C.O. Gruppo srl, continuando a lavorare per Net Service. Collegamenti diretti o indiretti tra Xilo e Net Service — li riassume ora l’Anac — tali da aver potuto «influenzare», anche solo potenzialmente, il ripetuto ricorso del Comune alla norma sul fornitore unico a favore di Net Service.

Tribunale Milano, appalti senza gara. Atto di accusa di Anac: “Violazione dei codici in 18 delle 72 procedure”. L'Anticorruzione ha presentato un esposto presentato alla Corte dei conti, alla Procura Generale della Cassazione, alla Procura di Milano per gli eventuali rilievi penali. Il presidente del Tribunale Bichi chiede che si verifichino le "singole responsabilità" su "eventuali comportamenti illeciti nel più celere tempo possibile". Aperto un ascicolo per turbativa d'asta al momento senza indagati, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 14 giugno 2017. I lettori del Fatto Quotidiano questa storia la conoscono da tempo, almeno tre anni. I fondi Expo senza gara per ben 16 milioni di euro, stanziati con decreto legge nel 2008, per rendere, tra le altre cose, informaticamente efficiente il palazzo di giustizia di Milano in occasione appunto dell’Esposizione Universale. In un paio d’anni vengono spesi circa 10 milioni, quasi tutti ad affidamento diretto cioè senza gara d’appalto. Li incassano, tra gli altri, Elsag Datamat, allora gruppo Finmeccanica (1,4 milioni) e Net Service (1,8 milioni) che lavorano per realizzare il Processo Civile Telematico. A febbraio, quando ormai l’Expo è un ricordo e l’allora commissario è diventato sindaco, il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, invia i finanzieri ad acquisire la documentazione relativa ai fondi negli uffici del Comune di Milano (che erogava e gestiva i fondi insieme al ministero della Giustizia). La lettura di quelle carte hanno “prodotto” un esposto presentato alla Corte dei conti, alla Procura Generale della Cassazione (per eventuali profili disciplinari a carico di magistrati), e alla Procura di Milano per gli eventuali rilievi penali. Nella relazione dell’Anticorruzione si evidenzia, come scrive il Corriere della Sera, che almeno 18 delle 72 procedure d’appalti per oltre 8 dei 16 milioni di euro di fondi sono stati viziati fra il 2010 e il 2015 da una miriade di violazioni: sia del codice degli appalti, sia del codice penale. Questo perché gli affidamenti diretti e quindi senza gara sono stati giustificati dall’unicità del fornitore per straordinarie ragioni tecniche oppure da anomali frazionamenti pianificati o da accorpamenti illogici, da convenzioni senza motivo con enti esterni come la Camera di Commercio. Infine l’Anac ha rilevato potenziali conflitti di interesse nei tavoli tecnici. La “bomba” lanciata dall’Anac ha come naturale creato scompiglio nella cittadella giudiziaria tanto che oggi, dopo una riunione con i presidenti delle corti, il presidente del Tribunale Roberto Bichi ha emesso una nota in cui si chiede di accertare le “singole responsabilità” su “eventuali comportamenti illeciti nel più celere tempo possibile, per dirimere dubbi, evitare illazioni, e per non ledere l’immagine e il ruolo del Tribunale di Milano, impegnato nel garantire il massimo di legalità in un’area così importante per il tessuto sociale ed economico dell’Italia”. Bichi, nel corso della riunione, ha riferito parlato dei dati presenti sulla tabella “Riepilogo delle acquisizioni per il ministero della Giustizia aggiornata al 9 marzo 2017, trasmessa dal Comune di Milano e portata alla conferenza permanente dei capi degli uffici nelle sedute del 16 e 30 marzo, in cui si dà informazione in merito all’utilizzo dei 16 milioni di finanziamento Expo 2010-2015″ e ha elencato come sono stati impiegati: implementazione di nuovi servizi e acquisizione di dotazioni informatiche destinate ai vari uffici giudiziari milanesi, organizzazione di servizi comuni agli uffici giudiziari (tra cui l’ufficio relazioni con il pubblico dell’atrio di Porta Vittoria), sistemi integrati di segnalazione interna e esterna, interventi di cablaggio per uffici, allestimento di dotazioni e servizi per la palazzina di via San Barnaba”, dove sono state trasferite le sezioni Lavoro, Famiglia e Minori del Tribunale di Milano. “Inoltre, e in larga parte, i fondi sono stati destinati allo sviluppo e all’implementazione del progetto ministeriale del processo civile telematico – poi destinato con vincolo di obbligatorietà a tutti gli uffici giudiziari italiani – e alla creazione di sala server-ced, al servizio degli uffici giudiziari di varie regioni del Nord Italia. Emerge – si legge infine nella nota – che tali impegni sono stati effettuati tramite gare d’appalto con affidamento complementare o con adesione a convenzioni Consip. Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante”. Che infatti è il Comune di Milano. Le gare, fino al 2015, erano proseguite in nome della “continuità tecnologica” coinvolgendo soltanto il Tribunale guidato da Livia Pomodoro e l’“ufficio innovazione” di cui era responsabile il vicepresidente dei gip di Milano Claudio Castelli ora a presidente della corte d’Appello di Brescia. Lasciando anche a bocca asciutta Corte d’appello, Procura generale e Udi (Ufficio distrettuale informatica) che poi avevano chiesto che i 6 milioni non ancora spesi fossero assegnati con gara. Interpellata dal FattoQuotidiano.it Livia Pomodoro si dice serena perché è stata rispettata la procedura e che non si sente chiamata in causa: “Assolutamente no, non sono compiti del Tribunale. Bisogna che qualcuno verifichi e ci dica di chi sono le responsabilità”. Di cosa le responsabilità? Allo stato il procuratore capo dei Milano ha aperto un fascicolo a modello 44, quindi senza indagati, con l’ipotesi di turbativa d’asta. Una eventuale iscrizione di magistrati catapulterebbe l’inchiesta a Brescia. La ricostruzione dell’Anac riguarda i tecnici del Comune stazione appaltante (sindaci prima Moratti e poi Pisapia); i vertici del Tribunale, i dirigenti della Dgsia (Direzione generale dei sistemi informativi automatizzati) e della Cisia (Coordinamenti Interdistrettuali per i Sistemi Informativi Automatizzati) durante i ministeri di Alfano, Severino, Cancellieri e infine Orlando), della Camera di Commercio, di magistrati e consulenti. L’ipotesi è che i membri del “gruppo di lavoro per l’infrastrutturazione informatica degli uffici giudiziari di Milano” in molti casi avessero già stabilito di saltare la fase del bando e di consegnare molti dei lavori esse a società, come dire, particolarmente fortunate come Net Service e Elsag Datamat; e che il Comune-stazione appaltante, oltre a individuarle preliminarmente, incaricasse poi il ministeriale Dgsia/Cisia di escogitare il modo per poterle giustificare. A questo si aggiunge che nonostante la vieti la legge la verifica della conformità o del funzionamento delle commesse appaltate risulti essere stata svolta in 13 occasioni da commissioni di collaudo delle quali facevano parte anche nove magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano.

Un commissario antimafia per le guardie del Tribunale. Società travolte dall’indagine sui clan. «Salvati 600 posti di lavoro», scrive Luigi Ferrarella l'1 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Un provvedimento inedito e pesante, eppure paradossalmente pensato proprio per non buttare per strada 600 lavoratori: dopo l’arresto il 15 maggio dei titolari Alessandro e Nicola Fazio di uno dei maggiori gruppi consortili nel settore della vigilanza privata, il gip Giulio Fanales ha ordinato ieri, su richiesta il 21 marzo del procuratore aggiunto antimafia Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari, non il sequestro, e nemmeno l’interdizione di cinque società dall’esercizio della propria attività - misure che di fatto (anche per l’inevitabile revoca delle licenze da parte della Prefettura) ne avrebbero comportato la chiusura con tutto il loro personale -, ma «la prosecuzione da parte di un commissario giudiziale dell’attività» delle aziende i cui vigilantes sorvegliano non solo un gran numero di supermercati Lidl, ma anche (e, vista la delicatezza, soprattutto) il Tribunale di Milano. L’attività e i contratti in corso potranno così proseguire, i supermercati Lidl e il Tribunale non si ritroveranno di colpo «scoperti», e manterranno il proprio posto di lavoro i 285 dipendenti di Securpolice Servizi srl, i 185 di Securpolice servizi fiduciari srl, i 48 di Securpolice srl, i 46 di Ibi Service srl, e il 19 di Securpolice Group scarl, posto che lo scopo del provvedimento chiesto dai pm, come riassume il gip, è appunto evitare «la paralisi dell’operatività dell’ente consortile» quindi «in via immediata e diretta un rilevante danno occupazionale». La misura, per almeno un anno, è una di quelle previste dall’arsenale della legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai propri vertici nell’interesse aziendale. I presupposti, in questo caso, sono «la pregressa assunzione del controllo della vigilanza presso i supermercati Lidl da parte di Giacomo Politi e Orazio Di Mauro», due degli arrestati ritenuti referenti del clan catanese dei Laudani; «il subentro ad essi nel luglio 2012 di Alessandro Fazio»; e «infine la successiva notevole espansione del gruppo fino alla gestione in appalto della vigilanza presso quasi tutte le filiali di vendita». Una crescita il cui propellente sarebbe stata, per l’accusa, il denaro man mano versato all’associazione mafiosa e destinato in particolare al sostentamento delle famiglie dei detenuti del clan. Gli avvocati delle società, Asa Peronace e Alessandro Ambrogio Doni, controargomentavano che da un paio di mesi si fosse determinata una «netta discontinuità» rispetto alla gestione Fazio con la nomina a presidente del gruppo consortile addirittura di un ex colonnello della Guardia di Finanza che aveva in passato comandato proprio il Nucleo di Milano ed era poi anche stato nello staff del Ministero dell’Economia. Il gip da un lato riconosce l’inizio di un nuovo corso avviato da questo ex colonnello con l’incarico a due società specializzate per «una fotografia aggiornata dei profili patrimoniali-gestionali-fiscali delle imprese» e per la predisposizione dei modelli organizzativi previsti dalla legge 231 e sinora mai adottati. Ma dall’altro lato depotenzia questo dato perché osserva che «la nomina del nuovo presidente interveniva soltanto a seguito della notizia, appresa dai fratelli Fazio, relativa alla pendenza della presente indagine». Insomma, per il gip è stata la fuga di notizie, su cui la Procura sta indagando, a innescare una operazione cosmetica «intesa a creare una sorta di schermo protettivo a tutela delle società», dietro il quale «l’apparente subentro di un soggetto insospettabile» e stimatissimo (come l’ignaro ex colonnello) avrebbe «simulato una cesura con il passato, collocando le aziende in una sorta di stato di quiescenza in attesa delle condizioni contingenti sfavorevoli all’indisturbato dispiegarsi dell’attività delittuosa».

Le mani della mafia sui vigilantes milanesi, scrive Andrea Sparaciari su "Business insider" il 30/5/2017.  Appalti pubblici assegnati senza gara e prolungati sine die per colpa della burocrazia. Una valanga di contanti, frutto di fatture false e rimborsi iva inesistenti, che finiscono dritte ai familiari dei mafiosi della famiglia Laudani, il braccio armato di Nitto Santapaola, detenuti in carcere. E ancora, accordi di cartello, consorzi di cooperative nate da fusioni, incorporazioni e cessioni di rami d’azienda che aprono e chiudono, rapporti stretti e discutibili con Regione Lombardia e le sue società. È lo spaccato del mondo della sicurezza privata sul quale sta tentando di gettare un po’ di luce l’inchiesta della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Milano, guidata da Ilda Boccassini, del 15 maggio scorso per la quale sono state arrestate 15 persone. In manette con le accuse di associazione a delinquere, favoreggiamento e corruzione, sono finiti imprenditori, faccendieri e dipendenti del Comune di Milano. Tra questi, anche i fratelli Nicola e Alessandro Fazio, due nomi assai noti nella galassia della vigilanza privata, perché titolari del gruppo Securepolice, la società che ha in mano la sorveglianza di magazzini e supermercati Lidl, del tribunale di Milano – insieme a GF Protection e Allsystem – e delle sedi dell’Inps della Lombardia.

Securpolice e Allsystem erano già assurti all’onore delle cronache il 9 aprile 2015, quando Claudio Giardiello entrò nel Palazzo di Giustizia di Milano con una pistola e uccise l’ex socio Giorgio Erba, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e il magistrato Fernando Ciampi. “Come è stato possibile far passare una pistola al metal detectori?” si chiesero in molti.

Si scoprì che dal punto di vista della sicurezza, il palazzo era un colabrodo, metal detector fuori uso, sniffer antiesplosivo inesistenti, personale non armato sostituito con semplici custodi. Carenze riconducibili all’appalto predisposto nel 2010 dal Comune di Milano sotto la giunta Moratti (cioè dal centro-destra) del valore di 8.161.117 euro, nel quale il numero delle guardie armate era stato ridotto all’osso per risparmiare. Un appalto che dopo la strage fece molto discutere, ma sul quale poi calò il silenzio.

La storia. Varata nel 2010, aggiudicata nel 2011, ma entrata in vigore solo nel 2013, dopo un ricorso al Tar, la gara per la sicurezza era stata vinta dalla Allsystem e dalla Union Delta. Tuttavia, dopo solo sei mesi si scoprì che Union Delta doveva un paio di decine di milioni al fisco, quindi decadde. Il ramo d’azienda e la titolarità dell’appalto vennero allora assorbiti dalla società GF Protection, di proprietà di Adriele Guarneri (un ex candidato alle elezioni del 2008 della Destra di Daniela Santanché, noto nell’ambiente per il passato nelle forze dell’ordine e l’amore per i busti di Benito Mussolini) e di Alessandro Fazio (che finirà in manette per i soldi dati al clan). L’11 giugno 2014 anche GF Protection passa di mano e contestualmente vende il ramo d’azienda che opera nel tribunale e nelle sedi Inps (un altro affare da 4.4 milioni): Guarneri attraverso la ASC Consulting Srl compra per 400 mila euro il 50% di GF Protection che era nelle mani di Alessandro Fazio, il quale lo cede attraverso la FG Corporate Srl. Il giorno stesso, GF Protection vende a Securpolice Servizi Fiduciari Srl di Antonio Presti il ramo d’azienda con appalti annessi. Dalle indagini dei magistrati risulterà che Alessandro Fazio è il vero proprietario anche della Securpolice, perché detenuta dalla Estate Solution, la quale a sua volta è controllata dalla Impresa Facile. Tutte società facenti capo allo stesso Fazio e che finiranno nell’inchiesta. Quindi Fazio vende tutta GF a Guarneri per poi rilevare pochi minuti dopo da Guarneri il ramo d’azienda. Ma Fazio possiede anche un’altra società di vigilanza, la Security Team, presieduta dall’ex carabiniere Roberto Donzelli, già socio di Guarneri in GF protection. Per i giudici, solo attraverso questa società, Fazio avrebbe emesso false fatture per 310.955 euro, tutti fondi neri che sarebbero finiti ai clan. Insomma, un tourbillon di cessioni e acquisizioni che però non fa suonare alcun campanello d’allarme. Dopo l’attentato di Giardello, scoppia la polemica sui controlli e Securpolice e Allsystem si rimpallano le responsabilità. A far crescere il clamore, il fatto che le stesse società si erano appena aggiudicate senza gara il maxi appalto da oltre 20 milioni per la sicurezza di Expo (che avrebbe aperto i battenti pochi giorni dopo).

Ora, si potrebbe pensare che se due società di sicurezza finiscono nei guai perché un soggetto è riuscito a entrare armato in un tribunale e a far fuori tre persone, quantomeno si vedano ritirare l’appalto. Ma sarebbe sbagliato, perché non solo l’affidamento del 2010 resta in vita fino alla naturale scadenza nel 2015, ma da allora viene prolungato senza gara per altri due anni. Dal 15 settembre 2015 la titolarità della sicurezza nei tribunali italiani è passata dai comuni alle singole procure, che però devono attenersi alle norme e alle gare nazionali dettate della Consip, cui spetta il compito di scrivere la convenzione che fissi i costi minimi per poi indire le gare. Sfortunatamente la convenzione Consip si è arenata per un ricorso al Tar, quindi tutti i tribunali italiani sono stati costretti a prorogare gli affidamenti esistenti. Così la procura di Milano ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, tenendosi gli uomini di Securpolice e Allsystem nel palazzo di via Freguglia. Un dettaglio che nei corridoi del tribunale in molti hanno sottolineato a mezza bocca quando sono scattati gli arresti, visto che la stessa Boccassini aveva denunciato come l’indagine fosse stata danneggiata da una deleteria fuga di notizie originata da una “talpa” che “aveva visionato direttamente il fascicolo” nel suo ufficio. Particolare ancora più inquietante è che ad avvertire gli altri indagati dell’indagine in corso fosse stato proprio Nicola Fazio.

In pratica: uno dei proprietari della società che fa sicurezza nel tribunale di Milano, scopre di essere indagato e avverte i complici, perché qualcuno gli riferisce di aver letto il fascicolo nell’ufficio della Boccassini, che si trova nello stesso tribunale di Milano. Palazzo di giustizia a parte, Securpolice (cioè Fazio) e la galassia di società riconducibili al gruppo GF (cioè Guarneri) negli anni hanno sempre avuto appalti pubblici, concessi loro assai spesso da società riconducibili a Regione Lombardia. Prendiamo Expo 2015: Securpolice è nell’Ati – sempre insieme a Allsystem – che si aggiudica l’affidamento da 20 milioni per la sorveglianza dei varchi durante l’Esposizione Universale. Da notare, che come tutti i fornitori di Expo spa, anche Securpolice godeva della “white card”, la speciale “supercertificazione” rilasciata dalla prefettura che permetteva di saltare molti controlli antimafia e di accedere agli appalti attraverso una via privilegiata. Una certificazione, che alla luce dell’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, fa sorridere, se non piangere! Ma i soldi da Expo spa, attraverso affidamenti in economia (cottimi fiduciari), Securpolice e GF Security iniziano a prenderli ben prima dell’apertura dei cancelli di Rho-Pero il 1° maggio 2015: solo per il periodo 24 giugno-31 ottobre 2013, per esempio, Securpolice riceve 101.536 euro per le guardie giurate al sito, mentre a GF Security ne vanno 101.432 per i vigilantes disarmati. Per la vigilanza al cantiere, invece, alcuni mesi prima avevano ricevuto 97.584 euro Securpolice e 98.332 euro GF Security. Accanto a questi, risultano molti altri affidamenti minori, come i 25.000 euro dati a Securpolice per vegliare sull’ExpoGate o i 13 mila finiti a GF per la videosorveglianza in via Lambruschini. Ma la vera mucca da mungere è la società del trasporto regionale Trenord, che concede sempre senza gara – e a volte in maniera del tutto illegittima – al gruppo GF di Guarnieri e Fazio oltre cinque milioni di euro in meno di cinque anni! GF inizia a fornire personale per la custodia dei depositi a Trenord vincendo un primo bando il 31 maggio 2011 del valore di 380.000 euro. Da allora ne vincerà altri sette consecutivi, tutti affidamenti senza gara: 75.000 il 6 luglio 2011; 600.000 il 30 novembre 2011; 1.890.000 il 7 maggio 2012; 720.000 il 20 marzo 2013; 750.000 l’8 agosto 2013; 600.000 il 1° settembre 2014. Il tutto fa la discreta cifra di 5.015.000 euro. Un sodalizio che andrà avanti indisturbato fino a metà del 2015, quando verrà guastato dalle polemiche che hanno travolto Trenord per le aggressioni a bordo treno.  Dopo l’assalto col machete a un capotreno nella stazione di Villapizzone, l’11 giugno 2015, Trenord e il presidente lombardo Bobo Maroni sono costretti a correre ai ripari e lanciano un nuovo programma di sicurezza: il “Security team”.

Annunciano urbi et orbi che presto i treni viaggeranno protetti da 150 agenti privati i quali assicureranno “una scorta straordinaria sui treni e nelle stazioni”. Ma l’operazione costa, più personale significa più spese, quindi Trenord e Pirellone stanziano 7 milioni di euro. E indovinate chi viene scelto per fornire il personale? GF Protection. Ad accendere i riflettori sul caso sarà il Segretario nazionale del Savip, Sindacato autonomo vigilanza privata, Vincenzo del Vicario, il quale, sottolineando come l’azienda voglia risparmiare pagando poco personale non qualificato, invece di assumere guardie giurate professioniste che hanno un costo del lavoro molto più elevato (stessa storia del tribunale), inizia una lotta furibonda con Trenord, Ferrovienordmilano e Regione Lombardia. Uno scontro che coinvolgerà anche l’Anac di Cantone. Per Del Vicario dell’appalto che lega Trenord e GF Protection non vi è alcuna evidenza pubblica né sui siti di Regione, né di Trenord, né di Anac, contrariamente a quanto prevede la legge. Per mesi la società di trasporto si rifiuterà di spiegare a quanto ammonti l’appalto e se l’affidamento a GF Protection fosse avvenuto con gara o in maniera diretta. Alla fine, si scoprirà che di gare non se n’erano mai viste; che GF Protection aveva “vinto” la fornitura dei 150 vigilantes tramite una procedura negoziata del valore di 750 mila euro per soli quattro mesi; che la firma del contratto risaliva al 31 agosto 2015, cioè a prima del lancio di Security Team; e che i soldi usati erano stati dirottati dai fondi stanziati per un appalto dell’anno precedente, poi bloccato dal Tar. Se a tutto ciò si aggiunge che per espletare l’esercizio delle “attività di sicurezza sussidiaria in ambiti ferroviari”, le norme (articoli 256 bis del Regolamento al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e 2 e 3 del Decreto 15 settembre 2009, n. 154) prevedono che gli agenti debbano avere speciali abilitazioni e licenze, e che il personale di GF ne era del tutto sprovvisto, si comprende come l’intera operazione fosse fuori legge.

Morale: tutto viene annullato e Trenord fu costretta a indire un vero bando da 9,8 milioni, poi vinto dalla Allsystem…

Gli inquirenti stanno ancora indagano per comprendere come abbia potuto Securpolice vincere tanti affidamenti. Tuttavia, nell’ordinanza è riportata un’intercettazione che aiuta a comprendere quanto Regione Lombardia sia permeabile al malaffare. È 15 marzo 2017 quando il faccendiere Domenico Palmieri – un ex dipendente della Provincia di Milano assoldato dalla supposta consorteria mafiosa per procacciare affari – riferisce ad Alessandro Fazio di aver appena saputo che entro aprile il Pirellone avrebbe bandito una gara per i servizi di guardia armata. Palmieri “si impegnava così a fornire a Fazio tutto il necessario affinché potesse partecipare alla gara”, scrivono i giudici, e “rivelava di avere a sua disposizione un membro della commissione aggiudicatrice della gara, una donna di sua fiducia, peraltro chiamata a fare parte del predetto organismo dal presidente della commissione in persona”. Capito come funzionava?

Siracusa, arrestato per corruzione colonnello della Guardia di finanza. Custodia cautelare per Massimo Nicchiniello, comandante Nucleo di polizia tributaria: è uno degli indagati nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia, scrive Luca Signorelli il 16 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Arrestato il tenente colonnello della Guardia di Finanza Massimo Nicchiniello, in servizio a Siracusa, dove comanda dall’agosto 2016 il Nucleo di polizia tributaria. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere gli è stato notificato questa mattina in quanto indagato assieme ad altri 15 persone nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia legata alla concessione di denaro, doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Oggi, infatti, il Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia ha dato esecuzione a 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari, emesse dal gip del Tribunale di Venezia, su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 6 imprenditori (di cui due domiciliari), 2 funzionari dell’Agenzia delle entrate (immediatamente sospesi dal servizio, «al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente», precisa l’Agenzia) ed un ex funzionario della stessa ora in pensione, 2 commercialisti, 2 ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e 2 dirigenti di un’azienda assicuratrice, coinvolti con diversi ruoli in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali. L’ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine ma a Siracusa è stata assicurata la continuità operativa del nucleo e la totale estraneità del Comando. L’inchiesta, condotta dal pm Stefano Ancilotto, è nata da alcune intercettazioni che erano state eseguite nell’ambito dell’inchiesta Mose. Nelle sedici misure cautelari emergono nomi importanti: tra questi Elio Borrelli, ai vertici dell’Agenzia delle entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo ed ex direttore dell’Agenzia di Venezia il secondo. Nell’elenco anche due ufficiali della Gdf, Vincenzo Corrado e Massimo Nicchinello, un giudice tributario della Commissione regionale, Cesare Rindone, due commercialisti di Treviso e Chioggia, Tiziana Mesirca e Augusto Sertore, e una serie di imprenditori appartenenti al gruppo Bison di Jesolo, specializzato in costruzioni, a Cattolica assicurazioni, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre a un produttore di prosciutti friulano, Pietro Schneider.

Il CSM scambia due giudici con lo stesso cognome e Tribunale diversi, scrive il 17 giugno 2017 "pippogaliponews.it". La vicenda dei giudici “scambiati” dal CSM corre sul web con impetuosità. E commenti poco lusinghieri sulle toghe. Il procedimento “contro” il Got del Tribunale Civile di Patti Elisabetta Artino Innaria è firmato da Paola Piraccini ed è registrato come 181/gt/2017. La parte denunziante è il siracusano Francesco Bongiovanni. Volgarmente: CSM inoperoso e quindi non luogo a procedere perché sarebbe atto di censura ad attività giurisdizionale. Quindi, dovrebbe essere la Corte d’Appello di Messina a intervenire, visto che si tratta di un Got in forza a Patti. Eh, no. Il giudice “giusto” da processare è, eventualmente, Giuseppe Artino Innaria, Fallimentare di Siracusa. Dunque, atti alla Corte d’Appello di Catania. E pure a Siracusa, per eventualmente competenza disciplinare.

Il signor Bongiovanni chiedeva giustizia per un leso diritto della difesa in una storiaccia che vede coinvolti un CTU e il figlio avvocato di un ex procuratore. Ma la domanda è semplice: se gli atti sono tutti rigorosamente aretusei come si arriva a Elisabetta Artino Innaria, che è un avvocato e fa il Got a Patti e vive a Sant’Agata di Militello con il marito, l’avvocato Alfio Pappalardo? L’inchiesta è durata quattro mesi visto che l’esposto del signor Bongiovanni è del gennaio 2017. Sorge il dubbio che la Piraccini abbia “mischiato” due fascicoli diversi relativi ad altrettanti Artino Innaria. Ma un’occhiatina finale non sarebbe stato il caso di darla prima di emettere il giudizio? Nota finale. Incrociando i dati su Elisabetta Artino Innaria e il marito Alfio Pappalardo si arriva allo stranoto studio legale di Andrea Lo Castro di Messina (una sospensione di due mesi per il titolare e una vicenda giudiziaria in corso). Sito in corso Cavour. Nel palazzo dove vive l’ex procuratore capo di Messina Totò Zumbo, Papà del consigliere di Corte d’Appello di Catania Eliana, sposa di Antonio Carchietti, pm friulano dal 2011 a Messina.

Siracusa, Veleni in Procura: il Csm ascolterà il 19 giugno il Procuratore capo Giordano e i Pm Longo e Musco. Per essersi venuti a trovare, "a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero", scrive Luca Signorelli su "Siracusa news" l'8 giugno 2017. Saranno ascoltati il prossimo 19 giugno dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura il Procuratore capo Francesco Paolo Giordano e i Pubblici ministeri Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Nella seduta del 17 maggio scorso il Csm aveva deliberato di aprire nei confronti dei magistrati la procedura di trasferimento d’ufficio per essersi venuti a trovare, “a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero”. Incompatibilità ambientale, insomma. Essendo il sostituto Musco già trasferito alla sede di Sassari con provvedimento cautelare (anche se in organico, ancora non ha preso servizio in Sardegna) la procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero mentre la commissione provvederà ad ascoltare Giordano e Longo, come prevede la procedura regolamentare. La Prima Commissione del Csm nei giorni di giovedì e venerdì, 11 e 12 maggio, si era recata negli uffici giudiziari di Siracusa dove aveva sentito 8 sostituti procuratori, il Procuratore aggiunto, il presidente del Tribunale, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e il Prefetto. A questo punto sembra mancare davvero poco per arrivare a una decisione in merito a una Procura che naviga da anni in acque piuttosto agitate.

Convocati dal Csm il procuratore Giordano e i sostituti Longo e Musco, scrive "Libertà Sicilia" l'8 giugno 2017. Il CSM e il caso Siracusa con il suo carico di esposti, segnalazioni, denunce che coinvolgono magistrati, politici e professionisti giunge al capolinea. In questo nuovo filone di veleni, viene coinvolto di riflesso anche il procuratore capo Francesco Paolo Giordano, che ha appreso dalle agenzie che la prima commissione del Csm ha avviato la procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale nei suoi confronti e di quelli del pm Giancarlo Longo, mentre per il sostituto procuratore Maurizio Musco, già trasferito a Sassari, la nuova procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero. La prima commissione del consiglio superiore della magistratura ha fissato per il 19 giugno l'audizione del procuratore Francesco Paolo Giordano. Il capo della Procura aretusea avrà modo di dire la sua dopo che la commissione del Csm ha deciso di avviare la procedura di trasferimento nei suoi confronti e di altri due magistrati "per essersi venuti a trovare, a prescindere dall'esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell'attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero". Il procuratore Giordano ha ricevuto il carteggio con il contenuto delle audizioni che la prima commissione ha effettuato al palazzo di giustizia di Siracusa tra l'11 e il 12 maggio. In quella sede, come si ricorderà, sono stati sentiti quasi tutti gli 8 magistrati, firmatari di un esposto al Csm e alla Procura di Messina, il procuratore aggiunto Fabio Scavone, il presidente del tribunale, Antonio Maiorana, il prefetto Antonio Castaldo, e il presidente dell'Ordine degli avvocati, Francesco Favi. In precedenza era stato ascoltato a Roma il Procuratore generale Salvatore Scalia. Al di là dell'esposto, una parte importante nella decisione dei commissari di chiedere il trasferimento di Giordano l'avrebbero fatta le inchieste imbastite dalla Procura di Messina sul conto di magistrati in servizio a Siracusa. Nel pomeriggio del 19 giugno, saranno sottoposti ad audizione anche i sostituti procuratori Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Per il primo, la procura peloritana ha aperto un fascicolo d'indagine, mentre per quanto riguarda il secondo, già trasferito in via cautelare a Sassari, la procedura di trasferimento riguarda la sola incompatibilità funzionale, e non quella ambientale.

Augusta. Caso “Villa Milena”, depositate le motivazioni della condanna a 3 anni ed 8 mesi inflitta al magistrato priolese Maurizio Musco, scrive il 7 giugno 2017 la Redazione di Webmarte. Confermata l’attendibilità del vice questore Pasquale Alongi. Per il Tribunale di Messina “…emerge a piene mani l’intento del Musco, già al momento della presentazione della denuncia del Corallo (ndr: consegnatagli il 29 agosto 2007 dall’Avv. Piero Amara) e del suo trattenimento, di “gestire” l’intera vicenda attinente i controlli effettuati dalla Polizia su Villa Corallo, facendo valere sugli appartenenti al commissariato il proprio ruolo”. È questo uno dei passaggi più significanti (e pesanti) delle motivazioni,  depositate quasi allo scadere dei 90 giorni previsti, della sentenza con la quale il Tribunale di Messina – Presidente Silvana Grasso – ha condannato nello scorso marzo a 3 anni ed 8 mesi di reclusione il PM Maurizio Musco per tentata concussione nei confronti degli uomini della Polizia di Stato del Commissariato di Augusta, disponendo per l’imputato anche l’interdizione perpetua dai pubblici e l’estinzione del rapporto di lavoro. La vicenda – come si ricorderà – risale all’agosto 2007 e prende spunto dall’accentuato fenomeno – verificatosi in quegli anni nel territorio di Augusta – di trasformazione di numerosi esercizi commerciali o di edifici privati in locali da ballo. Nell’ambito di una ampia azione di prevenzione e controllo avviata dal locale commissariato di P.S. di Augusta, guidato all’epoca dal vice questore Pasquale Alongi, per verificare il possesso da parte dei proprietari/gestori dei requisiti previsti dalla legge, agenti di polizia effettuarono alcuni interventi presso il noto ritrovo notturno “Villa Milena”, gestito dall’associazione culturale “Antropos” di cui il magistrato Musco era socio. Detti interventi peraltro si erano resi necessari a seguito delle numerose segnalazioni dei residenti vicini che lamentavano il disturbo del riposo notturno a causa dell’alto volume della musica.  Secondo la Procura di Messina, durante uno di tali controlli al locale, la notte tra il 30 e 31 agosto 2007, il Musco “…presente unitamente all’avv. Piero Amara (cui era legato da rapporti di amicizia)...”  intervenne sugli agenti di polizia “…qualificandosi  come PM della Procura della Repubblica di Siracusa, esibendo il tesserino di riconoscimento, chiedendo di sapere se il controllo era stato operato di iniziativa o meno e quale fosse la ragione….sindacava la possibilità da parte degli agenti operanti di misurare il volume della musica…..ed avvisava gli agenti che l’indomani avrebbero dovuto trasmettere al suo ufficio l’incartamento relativo a tale controllo…” sollecitando “… nei giorni a seguire l’invio della relazione.” Le 25 pagine della sentenza accolgono l’impianto accusatorio sostenuto dalla Procura della Repubblica di Messina, rappresentata dal PM. Antonio Carchietti, ricostruendo con meticolosità tutti i “passaggi” della delicata vicenda che ha visto protagonista Maurizio Musco, di recente trasferito dal CSM a Sassari. Per il Tribunale di Messina “ …è indiscutibile che il  Musco nel momento in cui riceveva e tratteneva presso di sé la denuncia del Corallo consegnatagli il 29 Agosto dall’Avv. Piero Amara non era il magistrato di turno” come è anche documentale che “ … le regole di organizzazione interna all’ufficio non prevedevano l’assegnazione al Musco di procedimenti aventi ad oggetto reati contro la Pubblica Amministrazione….(ndr: ipotesi di abuso d’ufficio a carico di in agente di Polizia)”. Sempre secondo il Tribunale di Messina poi “Musco non era nel turno e quindi non poteva ricevere le denuncia e, a fortiori, non poteva auto assegnarsela…” perché questo potere spettava al Procuratore capo o in sua assenza all’Aggiunto. Piena attendibilità viene invece riconosciuta dai giudici peloritani alla ricostruzione dei fatti fornita dal Vice Questore Pasquale Alongi, che con il Musco ebbe un incontro dai toni verbali molto accesi il 3 settembre 2007 (“Emerge la veridicità del litigio …”). In sentenza si evince la correttezza dell’operato del dirigente, fedele servitore dello Stato, e dei suoi uomini, il cui intento non era assolutamente “preordinato ad ostacolare l’attività del gestore del locale per danneggiare costui”. Le motivazioni non mancano poi di evidenziare “…la preesistenza di rapporti del Musco con l’avv. Piero Amara…” richiamando la sentenza della Corte di Appello di Messina relativa alla vicenda “Veleni in Procura” con la quale il magistrato priolese è stato già condannato a 18 mesi di reclusione per il caso “Oikothen”, condanna di recente confermata in Cassazione. Forse per mero scrupolo, il Collegio ritiene addirittura di riportare testualmente un significativo passo degli atti dell’inchiesta predisposta dal Ministero, laddove gli ispettori ministeriali nella loro relazione “…concludevano nel senso del raggiungimento della prova di una amicizia “corroborata da notoria frequentazione tra il Dott. Musco ed il citato avv. Piero Amara… altrettanto dimostrato è il progressivo allargamento di tale rapporto amicale alla condivisione di interessi economici…..” precisando che “In definitiva può dirsi che tra l’avv. Amara e il dott. Musco esisteva ed esiste un legame capace di ingenerare il sospetto che la determinazioni assunte dal suddetto magistrato potessero o possano essere ispirate a fini diversi da quelli istituzionali e dirette, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali soggetti coinvolti a vario titolo nei procedimenti in cui l’avv. Amara aveva interessi personali o professionali.” Secondo quanto è emerso dal dibattimento, in sentenza si legge anche come “… il Musco, abusando della sua qualità di magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Siracusa, abbia posto in essere una serie di atti diretti in modo non equivoco a coartare la libera determinazione degli agenti della polizia del commissariato di Augusta nell’espletamento di una doverosa attività d’ufficio già da essi intrapresa…”. “Nel caso in specie” – ad avviso del Tribunale – “tutte le condotte tenute dal Musco risultano idonee a determinare uno stato di soggezione negli appartenenti al commissariato di Augusta al fine di costringerli a non proseguire nell’attività di controllo presso Villa Corallo, risultato non perseguito per la resistenza da essi opposta al comportamento illecito del Magistrato.” Ai fini poi del computo della pena da infliggere, stigmatizzando “… l’elevato disvalore della condotta tenuta da parte dell’imputato approfittando del proprio ruolo in seno alla Procura della Repubblica di Siracusa”, i giudici messinesi hanno ritenuto che “non sussistano le condizioni per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso…che non sono emerse in atti circostanze valutabili in senso favorevole nei suoi confronti.” Questo quanto stabilito dal giudizio di I° grado. È chiaro che per porre fine anche a questa inquietante vicenda, bisognerà attendere l’esito dell’Appello ed eventualmente della Cassazione.

"Veleni" in procura a Siracusa, arrivano gli ispettori, scrive l'11 Maggio 2017 "Il Giornale di Sicilia”. Saranno ascoltati gli otto sostituti sugli 11 in servizio a Siracusa firmatari dell’esposto al Csm e ai colleghi di Messina sul rischio di inquinamento dell’azione della procura, funzionale alla tutela di interessi estranei all’amministrazione della giustizia. Ma saranno sentiti anche i vertici degli uffici giudiziari e il prefetto. Sarà una trasferta impegnativa quella che domani farà a Siracusa una delegazione della Prima Commissione del Csm che da anni ha aperto un fascicolo sui veleni alla procura e sul cui tavolo ci sono diversi esposti. In quello dei pm si richiama la sentenza con cui l’ex procuratore Ugo Rossi e l’attuale sostituto Maurizio Musco - su cui pende una richiesta di trasferimento d’ufficio del ministro della Giustizia dopo che un precedente provvedimento era stato revocato in seguito a un’assoluzione disciplinare - sono stati condannati in appello per abuso d’ufficio. Ma soprattutto si segnalerebbero rapporti molto stretti di uno dei colleghi in servizio con alcuni imprenditori. Nell’ottobre scorso la Commissione presieduta dal laico del pg Giuseppe Fanfani, che domani guiderà la delegazione, aveva ascoltato il Pg di Catania Salvatore Scalia, che aveva descritto una situazione di grande conflittualità in tutti gli uffici giudiziari di Siracusa ma particolarmente grave in procura. Era stato sentito anche il procuratore di Messina Vincenzo Barbaro, che aveva riferito che dopo l’esposto dei pm erano state iscritte cinque persone nel registro degli indagati, tra cui un magistrato, Giancarlo Longo, alcuni consulenti e avvocati.

Siracusa, impressionante escalation “Veleni in Procura2”: salgono a 12 gli indagati a Messina. Scrive l'11 giugno 2017 Concetto Alota su “Siracusa Live”. Sarebbero arrivati a circa dodici gli indagati iscritti a modelli 21 (persone note) della Procura della Repubblica di Messina che sta indagando a fondo sui vecchi e i nuovi veleni, scaturiti alla procura di Siracusa già qualche anno fa, e ora finiti ancora una volta sui tavoli dei pm messinesi. Coinvolti a vario titolo, ci sono magistrati, giudici, imprenditori, dirigenti pubblici, politici, giornalisti, avvocati, faccendieri e portaborse. Quello che sta succedendo al palazzo di giustizia di Siracusa è una ripetizione di un pezzo di storia ancora tutto da riscrivere. Le verità cambiano al passar delle ore. Da Siracusa a Palermo, ancora Messina, poi Roma e Milano. L’impressionante escalation con cui si stanno evolvendo i fatti messi sulla bilancia della Giustizia costituisce un clamoroso atto d’accusa non soltanto contro i colleghi magistrati, ma nei confronti dell’intera classe politica, giudiziaria, imprenditoriale e sociale siracusana. Sulla bilancia la sanzione del trasferimento d’ufficio per diversi togati, la più grave, per almeno tre di questi magistrati, ha finito per essere una punizione per tutti. La premessa della cronaca aspira a chiarire che la Prima Commissione del Csm non arriva al Palazzo di Giustizia di Siracusa solo per il Pm Giancarlo Longo, come appare di primo acchito ascoltando i tamburi di guerra che suonano ormai notte e giorno, ma per una lunga serie di esposti e denunce ben articolate nel tempo trascorso in mezzo ai veleni. I nuovi veleni in Procura stavolta non convincono del tutto la pubblica opinione, e mentre i fatti si raccontano con paginate d’inchiostro, confondono le idee e verità e non s’intravvedono spiragli di chiarezza con tanto fumo negli occhi, calunnie e notizie false con la rettifica l’indomani. Il tutto è rimescolato in un brodo non del tutto conosciuto dalla maggioranza dei cittadini che da almeno dieci anni ribolle e dove ognuno vuole identificarsi come chi ha spedito per primo l’esposto-denuncia (arrivati a circa diciotto nel totale). Già, per la cronaca, altre volte ci sono state denunce contro magistrati e giudici siracusani. Anche il procuratore generale Scalia ha definito a caldo una vicenda insidiosa quella del palazzo di giustizia di Siracusa. “…per tutte le vicende elencate a lungo, ci sono degli accertamenti di spessore e perciò ci vogliono tempi lunghi. Le indagini sono complesse, e talora necessitano di perizie impegnative. Ma chi adombra sospetti e persecuzioni da parte di qualche magistrato sbaglia”. Da Messina investigatori e inquirenti hanno alzato il muro dell’assoluto silenzio, anche se nei giorni scorsi sarebbero state sentite diverse persone informate dei fatti. In gioco ci sono enormi interessi: nel comparto industriale, nel traffico dei rifiuti pericolosi, nelle cento discariche velenose e per quelli solidi urbani, nella gestione dell’acqua, nei risarcimenti milionari, nei lavori pubblici e tutto il resto che conosciamo molto bene. Un territorio da oltre mezzo secolo interessato ai connubi tra la politica e i poteri forti a ventaglio e che ancora una volta subisce i contraccolpi della guerra tra diversi gruppi di potere. Entrano nella logica investigativa anche le amministrative che terminano stasera, con intrecci e riferimenti proprio su interessi delle tematiche industriali, in particolare sulle discariche dei rifiuti velenosi e i dintorni, con il coinvolgimento diretto di uomini della politica, funzionari e dirigenti, nel “cerchio magico” del polo petrolchimico siracusano. La storia ci riporta indietro con il fascicolo “attacco alla Procura di Siracusa”, dopo i vecchi veleni alla stessa Procura. In un voluminoso fascicolo c’è la storia di una parte della politica siracusana che fu attaccata dalla Procura della Repubblica con la richiesta di arresti e di rinvii a giudizio. Facevano il loro dovere. Ma la politica e dintorni a sua volta reagì con un attacco, forse sproporzionato (ma legittimo sul piano giuridico – volevano solamente dimostrare la propria innocenza), coinvolgendo il Parlamento italiano, Camera e Senato, la Commissione Antimafia, il ministro della Giustizia, il Csm e tante istituzioni dello Stato. Quel processo non è mai partito. Fascicolo che giaceva fino a qualche mese fa presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, dopo essere transitato per quella di Messina per legittimità territoriale. Ma ora sembrerebbe che una parte di quel fascicolo che vede sotto accusa quattro giornalisti siracusani e due politici di vecchia data, nato forse da uno stralcio di quell’inchiesta messa in piedi dai Pm Ugo Rossi e Maurizio Musco, dove a vario titolo ci sarebbero stati invischiati una dozzina di persone e oltre cento personaggi chiamati in causa e appartenenti a diversi ambienti della vita pubblica italiana, abbia ripreso in parte a galoppare. Concetto Alota

Atto Camera. Interpellanza 2-01816 presentato da ZAPPULLA Giuseppe Venerdì 26 maggio 2017, seduta n. 804.

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che: 

alla Procura della Repubblica di Siracusa è stato nominato circa 4 anni fa (luglio 2013) il dottor Paolo Giordano procuratore della Repubblica; 

in questi anni l'azione della magistratura siracusana, coordinata dallo stesso procuratore, ha svolto un ruolo importante di presenza e di controllo del territorio con provvedimenti di grande rilevanza nella lotta alla criminalità e al malaffare; 

grazie all'egregio lavoro di diversi magistrati e all'azione rigorosa del procuratore della Repubblica sono stati attivati diversi fascicoli di indagini e relativi provvedimenti sulle attività dei vari comuni della provincia e, in particolare, sul comune di Siracusa; 

tali iniziative hanno visto coinvolti funzionari, imprenditori, responsabili di associazioni, consiglieri comunali, assessori e lo stesso sindaco della città di Siracusa; 

si è aperto uno scontro politico e mediatico contro la magistratura e in particolare contro quei magistrati più direttamente impegnati nei vari fascicoli di indagini; 

in questi anni è ripresa a crescere la credibilità nelle istituzioni giudiziarie e nella magistratura anche grazie all'egregio lavoro e azione realizzato dalla procura della Repubblica; 

sono ripresi i veleni nel palazzo di giustizia con ricorsi vari anche contro lo stesso procuratore della Repubblica; 

una consigliera comunale di Siracusa del Mdp signora Simona Princiotta ha recentemente, in una specifica conferenza stampa, denunziato pressioni, intimidazioni, tentativi di costruire falsi dossier contro di lei al chiaro scopo di delegittimarla sul terreno politico e personale; 

la stessa consigliera riferisce di un esposto documentato e presentato al Consiglio superiore della magistratura in relazione alla posizione di tre pubblici ministeri in forza alla procura della Repubblica di Siracusa, ovvero i pubblici ministeri Antonio Nicastro, Davide Lucignani e Andrea Palmieri; 

dal quadro degli eventi riferito emergerebbe una situazione assolutamente preoccupante che vedrebbe il coinvolgimento degli stessi per fatti e titoli diversi e per rapporti delicati tra avvocati e giudici; 

nella documentazione ufficializzata alla stampa la signora Princiotta chiede provvedimenti, tra l'altro, anche contro i suindicati singoli magistrati accusati di essere parte della lobby di interessi; 

la consigliera comunale, dal quadro di documentazione e di trascrizioni di registrazioni effettuate e già depositate, sarebbe stata vittima di una vera e propria persecuzione di stampo complottista, essendo considerata politicamente pericolosa e incontrollabile nelle sue ripetute denunce; 

in particolare la campagna diffamatoria innestata contro la Princiotta è stata basata su dichiarazione di un pentito di mafia che l'ha ripetutamente chiamata in causa in varie vicende passate e comunque non riconducibili all'attività politica; lo stesso pentito ha dichiarato di essere stato istigato a dire il falso dagli uomini più vicini al primo cittadino di Siracusa; 

in ragione di queste false dichiarazioni, il sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo ha rilasciato dichiarazioni pubbliche che hanno fatto scattare l'interesse delle Commissioni regionali e nazionali antimafia, Commissioni che hanno chiamato in audizione la stessa Princiotta; 

c’è stata, nelle settimane scorse, l'audizione di una delegazione della 1a Commissione del Csm nel palazzo di giustizia di Siracusa; 

nel rispetto dell'autonomia della magistratura e dei suoi organi di autogoverno, l'interrogante è però, fortemente inquietato dalle notizie suindicate e preoccupato dalle indiscrezioni apprese dalla stampa relativamente alla procedura aperta per incompatibilità proprio del procuratore della Repubblica, ovvero lo stesso che ha ridato lustro e credibilità alla procura della Repubblica di Siracusa; in questo senso, appare all'interpellante, paradossale che possano in qualche forma risultare danneggiati proprio quei magistrati che con tanto rigore e serietà stanno tentando di fare luce e giustizia sulle tante vicende legate alla corruzione, al malaffare e alla criminalità; 

è lecito denunziare il rischio che, accertati i fatti e verificate fondate le denunzie della consigliera comunale Simona Princiotta relativamente ad una lobby complottista fatta da avvocati – politici – operatori dell'informazione e alcuni magistrati, non solo si sia attentato alla libertà dell'esercizio dell'attività politica ma si sia messo seriamente in discussione il prestigio della stessa autorità giudiziaria –: 

se il Ministro interpellato sia a conoscenza della situazione della procura di Siracusa; 

se non intenda avviare con urgenza un'attività ispettiva presso la procura di Siracusa ai fini dell'eventuale esercizio di tutti i poteri di competenza. (2-01816) «Zappulla».

«Siracusa, tutte le prove del sistema marcio». Cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd all'Antimafia, scrive il 14/10/2016 Mario Barresi su "La Sicilia". L'audizione di Princiotta all'Ars. Dalle inchieste sulle mazzette al Comune alla "news" sul sindaco Garozzo: «Indagato non solo per l'acqua». L'accusa sui contatti con il il clan e le foto compromettenti del consigliere arrestato per droga (in una c'è anche Renzi). L'autodifesa sul rapporto col mafioso: «Avevo 18 anni, ero una ragazzina». Il primo particolare - importante, ma ufficioso - è che Simona Princiotta è stata ritenuta «sostanzialmente molto credibile» da chi ieri a Palermo l'ha ascoltata per oltre due ore. Il secondo - altrettanto importante e ufficioso - è che il caso Siracusa finirà all'Antimafia nazionale. Ma cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd siracusano alla commissione dell'Ars? Molte cose. Ma, più delle dichiarazioni a verbale, pesano le oltre 100 pagine di dossier. Nel quale a ogni parola corrisponde almeno una carta. Ed è questo, da quanto trapela, ad aver impressionato i suoi interlocutori. Un lungo elenco «di singoli episodi» che però «compongono un sistema condiviso e diffuso», secondo un autorevole componente della commissione. Princiotta dettaglia tutte le inchieste aperte sugli appalti del Comune: servizio idrico, asili nido, impianti sportivi, contributi alle società, manutenzioni, servizi sociali. E via mazzettando, con particolare attenzione «al budget del bilancio usato per comprare le associazioni». Per tutte le indagini la consigliera fornisce atti e in alcuni casi brogliacci delle sue ormai celeberrime intercettazioni "fai-da-te" («per gli audio rivolgetevi al procuratore di Siracusa», avrebbe detto). Ma Princiotta argomenta anche una tesi di fondo: l'amministrazione comunale è stata ed è al corrente di «tutto il marcio del sistema Siracusa». Indice puntato soprattutto sul sindaco Giancarlo Garozzo (che con la sua dichiarazione sulle «infiltrazioni criminali nel Pd» aveva accesso i riflettori dell'Antimafia), già sentito all'Ars lo scorso 22 settembre. E stavolta le parti, com'era prevedibile, s'invertono: consigliera accusatrice; sindaco accusato. Con una novità messa sul tavolo: Garozzo sarebbe «indagato non soltanto per la vicenda dell'acqua». Ma per altra ipotesi di reato fornita da Princiotta, «provata con certificato penale». Il sindaco viene più volte citato anche nell'appassionata auto-difesa della consigliera, incalzata dall'Antimafia su due punti. Il primo è il racconto del pentito Rosario Piccione: l'esponente del clan Bottaro-Attanasio, oggi a piede libero, ha rivelato di un suo legame sentimentale con la consigliera che avrebbe ospitato in casa un affiliato, Alfredo Franzò. Il secondo punto, messo a verbale dal sindaco Garozzo, riguarda contatti (anche tramite Facebook) della consigliera con Nando Di Paola, condannato nel processo sulle infiltrazioni mafiose all'Inda. «Le accuse del pentito sono senza riscontro, tant'è che Piccione è indagato per calunnia aggravata», dice Princiotta. Una «storia di pupi e di pupari», la definisce. «Ero già assessore nel 2008, perché questa storia viene fuori a orologeria soltanto quando tocco i fili che non dovevo toccare?». Perché è «un complotto per screditarmi», del quale indica, prove alla mano, «chi sono i mandanti». La consigliera smentisce la relazione con Piccione, «un pentito di scarso peso e credibilità, che ora fa il relatore ai convegni sulla giustizia ai quali un tempo c'erano Falcone e Borsellino». Del resto, precisa: «Era il 1994, avevo diciott'anni, ero una ragazzina. Per me era uno perbene, non sapevo che sarebbe diventato un mafioso». Ma è sul contatto con Di Paola che, dopo la difesa («per me è il padre di compagni di scuola dei miei figli», dice, presentando i certificati d'iscrizione) sferra l'attacco più duro al sindaco. Mostrando quella che definisce «la prova-regina del contatto di Garozzo con la famiglia Di Paola», dimostrabile «con atti, delibere e non solo». Garozzo viene tirato in ballo anche per la vicenda dell'ex consigliere del Pd, Tony Bonafede, arrestato dalla polizia con 20 chili di droga mentre si s'imbarcava sull'aliscafo Pozzallo-Malta. «Hanno provato ad attribuirlo a me - dice Princiotta all'Antimafia - ma lui era garozziano e renziano al cento per cento». Come prova, la consigliera avrebbe consegnato delle foto che ritraggono Bonafede e Garozzo: in una circostanza con l'ex sottosegretario Gino Foti; in un'altra, nel corso di una manifestazione pubblica, spunta pure Matteo Renzi. A sua insaputa. La consigliera chiede «il commissariamento urgente» del sindaco. In commissione le domandano se si sia mai rivolta al prefetto per chiedere il cosiddetto "accesso" propedeutico allo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Domanda non certo casuale, alla quale lei risponde con sincero smarrimento: «Sono stata investita di talmente tante cose che non pensavo la cosa fosse di mia pertinenza». La faccenda s'ingrossa. E non finisce qui. In attesa della trasmissione degli atti all'Antimafia nazionale, la prossima settimana all'Ars saranno sentiti il deputato nazionale Pippo Zappulla (unico sodale di Princiotta nel Pd siracusano) e il consigliere comunale Alberto Palestro, pesantemente tirato in ballo dalla consigliera. Che, alle pressanti domande su di lui, ha dovuto persino censurarsi: «Chiedete gli atti alla Procura...».

Tutti pazzi per Simona Princiotta: il caso, il fato, il passato, scrive Carmelo Maiorca, Mercoledì, 23 Novembre 2016, su "La Civetta press" da La Civetta di Minerva, 11 novembre 2016.

IL CASO - La consigliera comunale d’assalto con registratore incorporato Simona Princiotta, abita a Siracusa in contrada Pizzuta. E a volte è sicuramente costretta a sorbirsi la musica propagata dall’amplificazione dell’associazione Zuimama, che ha la propria sede a due passi da casa sua. Il caso vuole che Zuimama è l’associazione di promozione sociale affiliata ad Arciragazzi, denunciata tempo addietro da Princiotta per presunte irregolarità nella gestione di un capo estivo per bambini disagiati, dietro affidamento del Comune. Nell’inchiesta giudiziaria compaiono anche Pino Pennisi, storico presidente dell’Arci, e sua moglie Carmen Castelluccio, pure lei consigliere comunale ed ex segretaria provinciale del Pd. Certo ancora il caso, vuole che la casa della famiglia Pennisi-Castelluccio si trovi nell’area condominiale confinante con quella del residence nel quale c’è la casa di Simona Princiotta e famiglia. Siamo comunque in grado di escludere totalmente il pur minimo problema di vicinato all’origine della querelle, con querele incluse presentata da Carmen Castelluccio.

IL FATO - Più che di “casualità” possiamo invece parlare di “fato” – in senso classico e tragico/traggiriaturi - allorché in quel punto nevralgico di contrada Pizzuta, all’interno del medesimo residence in cui vive Princiotta risiede anche, con moglie e figli, Alfredo Franzò, titolare di un ristorante e di altre attività commerciali. Un vicino per il quale non si può esclamare la celebre citazione manzoniana “Carneade! Chi era costui?” Tutt’altro! Franzò nel mese di luglio del 2015 viene denunciato per violazione di domicilio da Simona Princiotta che lo accusa di essersi introdotto di notte nel cortile e nel giardino di pertinenza dell’immobile di sua proprietà; mentre il diretto interessato sostiene che lui, di giorno e non di notte, andò a recuperare il suo cane di nome Biscotto, introdottosi nel giardino dei vicini. Ecco, questa si avvicinerebbe a una classica lite condominiale. Senonché il nuovo vicino - della serie fatale “il passato che ritorna” - a Simona Princiotta l’avrebbe conosciuta in ben altra occasione una ventina di anni addietro, entrambi ventiquattrenni: Franzò, all’epoca “simpatizzante” di un clan mafioso siracusano, da latitante ricercato dalla legge sarebbe stato ospite nella casa dove lei abitava.

IL PASSATO - A chiederle la cortesia per l’amico sarebbe stato Rosario Piccione che in quel periodo avrebbe avuto una relazione sentimentale con la giovane Simona. Ex poliziotto affiliato allo stesso gruppo malavitoso (il clan Urso poi Bottaro-Attanasio) Piccione in seguito è diventato collaboratore di giustizia. L’episodio compare (tra le caterve di fatti da lui raccontati agli inquirenti che lo reputano in generale molto credibile) in un vecchio verbale giudiziario del 2002, pubblicato nel 2013 dal settimanale Il Diario. Va detto che Franzò nell’ambito delle vicende processuali che lo riguardano, è stato assolto dall’accusa di appartenenza ad associazione mafiosa. Di essere stato ospitato a casa della Princiotta venti anni fa, comunque lo conferma. Diversamente, la consigliera comunale (che per quella storia non è mai stata coinvolta in alcun procedimento giudiziario) nega, querela, parla di un complotto per le sue denunce contro la corruzione al Comune, che hanno innescato filoni d’indagini condotte dalla Procura della Repubblica. Un complotto che, se non ordito - fa intendere lei - conduce al sindaco Giancarlo Garozzo; che a sua volta lancia accuse d’infiltrazioni mafiose al Comune e inaugura le audizioni alle commissioni antimafia regionale e nazionale che stanno ascoltando diversi politici, e non solo, sul cosiddetto “caso Siracusa”. Nel frattempo è spuntato un altro vecchio affiliato al clan mafioso di cui sopra, Lorenzo Vasile, per un po’ collaboratore di giustizia pure lui, attualmente agli arresti domiciliari. Vasile avrebbe telefonato a Rosario Piccione (a quanto pare registrandosi a vicenda) per chiedergli in sostanza di lasciare in pace l’amica Simona. Vasile sarebbe andato a cercare Princiotta sotto la segreteria del deputato del Pd Pippo Zappulla, evidentemente a conoscenza delle straordinarie performance-conferenze stampa che periodicamente Zap e Princ eseguono a beneficio della stampa. L’intera faccenda sembra destinata ad andare avanti per un bel pezzo. Ne vedremo ancora delle belle e anche delle brutte.

Giorni di tensione a Siracusa. Il Comune più "indagato" d'Italia, scrive Massimiliano Torneo su "Live Sicilia”. Le vicende giudiziarie diventano terreno di scontro politico. La magistratura indaga e spulcia le carte degli affidamenti ritenuti “illegittimi” nel settore dei servizi sociali, asili nido e impianti sportivi, con ipotesi di reato che vanno dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata; dal falso ideologico da privato in atto pubblico, al falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale nello svolgimento della sua funzione. Per un ammontare di denaro pubblico di 6,3 milioni di euro. Nel frattempo, un'indagine parallela si concentra su presunte gare truccate, turbative d’asta e traffico di influenze illecite. I magistrati, riferendosi all'operato degli indagati, parlano di “promesse, collusioni e altri mezzi fraudolenti”. A ricevere un avviso di garanzia sono nomi eccellenti della politica locale: un assessore comunale, un ex capo di gabinetto del sindaco, tre consiglieri comunali, tre dirigenti del Comune e sei rappresentanti di associazioni destinatari degli affidamenti. La settimana che si è appena conclusa vale a Siracusa un triste primato: è uno dei Comuni più indagati d’Italia. L'inchiesta giudiziaria diventa terreno di scontro politico. Tre consiglieri comunali d’opposizione (Massimo Milazzo, Fabio Rodante e Salvo Sorbello) stanno lavorando a una mozione di sfiducia nei confronti del sindaco Giancarlo Garozzo Per ora sono in tre, ma puntano a raggiungere quota tredici per portare in aula discussione e voto. La reazione del sindaco non si è fatta attendere: ha convocato una conferenza stampa per venerdì prossimo: “Gli accadimenti che vedono indagate 12 persone, tra cui 3 consiglieri comunali, meritano una riflessione. Fermo restando il garantismo, rilevo che i capi di imputazione parlano di affidamenti diretti, di accrediti a strutture e di proroghe. Su tema asili nido e impianti sportivi, vorrei ricordare che è stata proprio la mia amministrazione a mettere definitivamente fine ad un sistema di proroghe di oltre 12 anni”. Parla, senza fare cenno però ai 3 dirigenti comunali e ai 12 avvisi di garanzia notificati ieri dalla Guardia di finanza di Siracusa, a conclusione delle indagini coordinate dal procuratore della Repubblica, Francesco Paolo Giordano, e dirette dal sostituto Marco Di Mauro. Garozzo si scaglia contro i portavoce dell’opposizione in città, il suo duellante al ballottaggio del 2012 Ezechia Reale e il consigliere comunale Salvo Sorbello, “già assessori in giunte di centrodestra tra il 2002 e il 2012”, accostandoli ai tre consiglieri indagati, e spostando altrove l’asse dello scandalo. In realtà, secondo quanto notificato dalla Guardia di finanza, “gli anni oggetto dell’indagine” vanno dal 2013 al 2015. E su chi appartenga a chi, riguardo ai consiglieri comunali, è un rebus per la maggior parte dei siracusani. Sull’altra inchiesta, quella che martedì scorso ha visto destinatari di avviso di garanzia il suo ex capo di gabinetto Giovanni Cafeo, e il suo attuale assessore ai Lavori pubblici Alfredo Foti, indagati per turbativa d’asta entrambi e il primo anche per traffico di influenze illecite, si era detto “colto di sorpresa. Nei prossimi giorni - aveva proseguito - sapremo su quali elementi si basano le accuse della Procura della Repubblica, sul cui lavoro ho sempre manifestato fiducia, ma l'augurio è che Alfredo Foti e Giovanni Cafeo possano dimostrare la loro estraneità ai fatti contestati”. “Faremo le nostre verifiche, approfondiremo i contenuti delle inchieste e indicheremo - spiega il sindaco - quelli che a noi appaiono i reali motivi delle ultime vicende in una conferenza stampa che la Giunta terrà il 24 giugno”. L’esame politico vero per il sindaco renziano potrebbe arrivare, però, dalla direzione provinciale del Pd con la già annunciata presenza del segretario regionale Fausto Raciti. Nel convocarla, il segretario provinciale Alessio Lo Giudice, alla domanda se ci fosse una questione morale nei dem siracusani, aveva risposto “C’è di sicuro una questione…politica che riguarda l’amministrazione Garozzo”. Lo Giudice ha già lasciato intuire che chiederà l’azzeramento della giunta.

Siracusa “la Greca” tra inchieste scandali, corruzione e ruberie, scrive Concetto Alota su "Libertà Sicilia". Siracusa era chiamata “la Greca”; più famosa per aver dato i natali al grande Archimede e per la sua lunga storia, la profonda e antica cultura, per il Teatro greco, per la fonte Aretusa e Ciane, per la struggente bellezza architettonica e il più bel tramonto del mondo, specie visto dalla Marina, per il circuito automobilistico nel Dopoguerra e per il Polo petrolchimico più grande d’Europa negli Anni Sessanta e Settanta, con ben 24 mila addetti, tra il diretto e l’indotto, e il reddito pro capite più alto del Meridione d’Italia. Insomma, era una città ricca, ordinata, civile e rispettosa dei diritti civili. Negli Anni Settanta prima i legami tra la politica e uomini della mafia palermitana, capitanati da Pippo Calò, per i lavori miliardari del porto di Siracusa e la ristrutturazione urbanistica dell’isola di Ortigia; per fortuna tutto fu soffocato con l’intervento di Graziano Verzotto che aveva capito che quell’operazione “confezionata” da gruppi a lui avverse poteva nuocere fortemente alla tranquilla comunità siracusana. Arriva il pretore di ferro Condorelli e si scoprono le prime magagne e gli intrallazzi sui rifiuti industrial smaltiti illegalmente anche dopo l’entrata in vigore della Legge Merli. Scoppia lo scandalo dell’Isab per accendere ancor di più le luci della ribalta in senso fortemente negativo, per essere il primo episodio di corruzione a più livelli, dove la classe politica locale in connubio con quella regionale e pezzi delle istituzioni a vario titolo incassarono una montagna di soldi in bustarelle, per consentire alla famiglia Garrone di poter costruire la raffineria più moderna d’Europa a Marina di Melilli in poco tempo; così cominciarono a girare tutte quelle notizie negative per l’immagine di un territorio che era considerato appartenere alla “provincia babba”, ma ora fortemente corrotta. E ancora, l’inchiesta della magistratura denominata “Mare Rosso”, che coinvolse il colosso della chimica italiana Enichem, che aveva già provocato il fenomeno dei bimbi nati malformati tra i silenzi e i connubi, e le tante discariche di rifiuti industriali velenosi insieme al mare inquinato a più non posso. Scatta l’inchiesta sui fanghi dell’Ias sospettati di essere “scaricati” in mare per risparmiare nello smaltimento, oltre a quelli già stoccati che inquinavano la falda e che costarono una montagna di soldi per essere rimossi. Ma quando sembrava che gli scandali di tale levatura avevano raggiunto l’apice della corruzione, ecco arrivare l’inchiesta legata al fallimento della Sai8 denominata “Oro Blu” per la gestione del servizio idrico, ereditato dalla Sogeas, che a sua volta era stata investita più volte dalle inchieste della magistratura, così come da mille polemiche politiche. L’inchiesta “Oro Blu” provocò arresti, con denunce e polemiche, e il sospetto di una bancarotta fraudolenta che sfociò a sua volta con il fascicolo giudiziario “Veleni alla Procura”, e l’altro subito dopo e che si trova ancora sotto il segreto istruttorio giudiziario, di cui si stanno occupando i magistrati del Tribunale di Messina per legittima suspicione, “Attacco alla Procura”, rimarcando, tra le atre cose, uno scontro tra due poteri dello Stato, quello politico, che in quell’occasione non voleva che i magistrati entrassero nei loro “fatti”, e quello giudiziario che rimarca il proprio diritto e dovere nell’indipendenza, secondo i dettami costituzionali. Poi ancora un altro scandalo. Scattano le indagini della Digos della squadra mobile della Questura di Siracusa sulle “Fantassunzioni”, nei riguardi di un gruppo di consiglieri comunali di Siracusa; uomini della politica locale che ora si trovano alla sbarra al cospetto, proprio in questi giorni, con l’ufficio del Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Siracusa. E ancora, lo scandalo per le “tematiche” collegate alla costruzione del nuovo quanto necessario Ospedale di Siracusa; fatti che furono scoperti all’interno dello scandalo dell’Expo di Milano; poi scoppiò l’indagine della guardia di finanza che sfociò con l’operazione, “Doctor House”, e ora la “Gettonopoli” al Vermexio, facendo ritornare, a suo dire e ben volentieri perché innamorato delle bellezze di Siracusa, Massimo Giletti, il popolare conduttore del programma “L’Arena”, che si occupò anche dell’inchiesta “Doctor House”. Infatti, dopo la denuncia del M5Stelle, è ritornato per riportare alla ribalta la “Gettonopoli” siracusana, che ha colpito per l’ennesima volta, a torto o a ragione e fino a prova contraria, la credibilità della città di Siracusa. La stessa cosa è stata fatta dall’inviata di “Striscia la Notizia”, Stefania Petyx e il suo bassotto, per chiedere al Sindaco di Siracusa Garozzo e al presidente del Consiglio comunale Sullo, delucidazioni in merito al “trucchetto dei gettoni d’oro”, e che secondo il M5Stelle, era stato “inventato” per favorire i capi gruppo e ad altri “risicò”. E tra uno scandalo e un altro di quelli sopra citati, anche quello dell’asfalto “ondulante” dell’autostrada Siracusa Gela all’altezza di Rosolini, dell’Open Land, della Pillirina, della Soprintendenza ai Beni Culturali, e che colpì la dirigente Basile, come della piscina della Sgarlata, entrambe scagionate dalla magistratura di merito perché non avevano commesso nessun reato; ma l’elenco potrebbe continuare. Per “Gettonopoli” le telecamere di Rai Uno della trasmissione “L’Arena”, condotta da Massimo Giletti, hanno raggiuto i consiglieri comunali proprio all’’uscita da una commissione consiliare, tra cui Tony Bonafede, Alberto Palestro e Salvo Cavarra, i quali hanno avuto modo di spiegare le ragioni che portarono a quella deliberazione che il M5Stelle ha denunciato, invece, come una violazione delle norme. La puntata con il servizio televisivo completo su tutta la vicenda andrà in onda domenica prossima su Rai Uno. Ancora tanta indignazione e rabbia per i tutti i telespettatori, ma soprattutto per i siracusani che si vedono ancora una volta additati come dei cittadini italiani abitanti di un luogo carico di malcostume, ruberie, corruzioni, e che offuscano ancora una volta, a torto o a ragione, la propria Siracusa. E se Palermo è la sintesi della Mafia nel Mondo, quale capitale della Sicilia, Siracusa potrebbe diventare di questo passo la sintesi del mal costume, della corruzione, come pure la “terra di nessuno” e fuori dalla legalità dello Stato libero e democratico italiano, dove ognuno può organizzare i propri loschi affari. 

Indagine della Procura di Messina contro quattro giornalisti, scrive Carmelo Maiorca, Lunedì 1 Maggio 2017 su "La Civetta Press". Il direttore della Civetta Franco Oddo, io, il direttore di Magma Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli accusati di calunnia e diffamazione nei confronti dei magistrati Rossi e Musco, in associazione a delinquere con l’ex on. Gino Foti e l’ex sindaco Aldo Salvo. La Civetta di Minerva, 21 aprile 2017. Dunque, io, il direttore de La Civetta Franco Oddo, e altri due giornalisti che si chiamano Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli dal 2013 siamo indagati, all’inizio dalla Procura di Messina, in un procedimento accomunati dallo stesso querelante: il magistrato Maurizio Musco. Oggetto delle querele, alcuni contenuti di articoli scritti da Oddo su La Civetta, di altri articoli pubblicati da Magma per quanto riguarda Pensavalli e La Rocca, e una vignetta apparsa su L’Isola dei Cani relativamente a me. E fin qui diciamo che per dei giornalisti si tratta di cose che capitano. Ad un certo punto quel fascicolo da Messina venne trasferito per competenza territoriale a Reggio Calabria, e il tempo è continuato a trascorrere senza particolari novità. Poi, qualche settimana fa, è stato notificato un nuovo procedimento, iscritto a registro di nuovo a Messina, nel quale ai quattro giornalisti di cui sopra sono stati aggiunti l’ex parlamentare Luigi Foti e l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo. Da quello che si evince dalla notifica siamo indagati, a vario titolo, per associazione a delinquere, calunnia e diffamazione a danno di Musco e dell’ex procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi. Ho già raccontato questa vicenda sul settimanale regionale 100Nove e ho messo un post su facebook. La maggior parte delle persone che hanno letto la notizia hanno avuto una reazione divertita, qualcuno ha pensato si trattasse di uno scherzo de L’Isola dei Cani. Franco Oddo da parte sua si dice molto indignato, Pensavalli, che ho incontrato per la prima volta a marzo, è un po’ incazzato pure lui. La Rocca non so, perché non ci conosciamo. Mentre ci siamo ho informato il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia Riccardo Arena di questo “curioso” procedimento. La presenza dei due attempati uomini politici, quella di Foti in particolare, assieme a 4 giornalisti mi/ci fa pensare che questo fascicolo giudiziario abbia a che fare con un bel faldone che, a sua volta, è transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria: quello relativo alla storiella del complotto, fra l’altro basato su una programmata campagna di stampa che sarebbe stata ordita quasi 6 anni fa da alcuni giornali per screditare i magistrati siracusani. Riguardo a quel dossier redatto da uno o, chissà, più carabinieri della sezione di polizia giudiziaria presso la procura di Siracusa - di cui alcuni giornali pubblicarono qualche stralcio -sin dal 2012 abbiamo scritto su La Civetta che la tesi della campagna di stampa contro Musco e Rossi è una balla. Strada facendo è diventata una sorta di “effetto collaterale” della burrascosa stagione di malagiustizia nel Siracusano che ha coinvolto e continua a coinvolgere, fra i protagonisti principali, alcuni – solo alcuni - magistrati e avvocati. Ai primi articoli pubblicati su Magma, seguì l’approfondita e documentata inchiesta di Franco Oddo e Marina De Michele. Aspetti di quell’inchiesta giornalistica – che ricordo ha valso agli autori il Premio Mario Francese - hanno trovato riscontro nelle aule giudiziarie. La galassia societaria realizzata dall’estro creativo dell’avvocato Piero Amara, e raccontata da La Civetta, è rispuntata di recente nel filone siciliano di un’inchiesta della procura di Roma partita dalle indagini sull’affaire denominato “Mafia Capitale”. L’ex procuratore Rossi è andato in pensione con una condanna confermata in Cassazione per abuso d’ufficio; per la stessa imputazione anche il sostituto procuratore Musco è stato ritenuto colpevole nel medesimo processo, e in un altro è stato condannato in primo grado per tentata concussione. Naturalmente Musco e Rossi, come qualsiasi altro cittadino che si ritenga diffamato da un articolo o da una vignetta, sono liberi di sporgere querele. Analogamente anche dei giornalisti possono ritenersi diffamati se accusati di avere partecipato a campagne di stampa preordinate e foraggiate per screditare qualcuno.

“Attacco alla Procura di Siracusa”, rispolverato il romanzo criminale che ora prende di mira 4 giornalisti e due politici della vecchia guardia, scrive Concetto Alota il 18 aprile 2017 su "Siracusa Live". Il giornalista siracusano Carmelo Maiorca ha annunciato, dalle colone dell’ultimo numero di 100NOVE in edicola, di essere trascinato in una procedura giudiziaria solo per aver scritto un articolo dal tracciato nettamente satirico e pubblicato sul settimanale “L’isola dei Cani”, da lui stesso diretto. Spiega chiaramente di essere indagato dal 2013 per quella vignetta satirica in un procedimento in cui comparivano anche Franco Oddo, direttore del quindicinale “La Civetta di Minerva”, Salvatore La Rocca già direttore del periodico Magma, e Gianfranco Pensavalli, cronista dello stesso settimanale, tutti denunciati dal sostituto procuratore della procura di Siracusa, Maurizio Musco. Ma ora la novità è rappresentata dal fatto che il Gip del tribunale di Messina, Maria Vermiglio, ha accolto la richiesta di proroga delle indagini, avanzata dal pubblico ministero di Messina Antonio Carchietti.  “Leggendo gli atti – scrive Maiorca su 100NOVE – ho appreso con mia sorpresa di essere indagato, oltre che con gli stessi giornalisti, anche con l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo e l’ex sottosegretario di Stato, Luigi Foti, con il quale non abbiamo mai scambiato parola”. “Le indagini di questo nuovo filone sono scattate l’8 settembre del 2016 con ipotesi di reato di associazione per delinquere, calunnia e diffamazione in concorso a danno dell’ex capo della Procura di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto procuratore Maurizio Musco. Il 24 marzo – racconta ancora Maiorca nel suo articolo su 100NOVE – sono stato invitato a presentarmi per rendere interrogatorio a un ispettore delegato dal sostituto procuratore, nella sede della Polizia di Stato. Interrogatorio per il quale sin dal 2013 avevo dato la mia disponibilità ma che non era mai avvenuto. Passano pochi giorni ed ecco attivare la notifica del nuovo procedimento, dove, oltre a noi giornalisti, si sono aggiunti altri due indagati, Luigi Foti e Aldo Salvo e altri ipotesi di reato. Di certo il magistrato titolare di quest’indagine sta compiendo degli atti dovuti. Ma dovuto è anche il diritto alla difesa che coincide, in quest’occasione, con il diritto di cronaca e di critica”. Filone d’inchiesta che potrebbe essere collegato, a lume di naso, a quello originario del 2012 attivato dai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della Procura di Siracusa. Si tratta di un “romanzo criminale” che appare e riappare come l’Araba Fenice. Nel settembre del 2012, con un fascicolo denominato “Attacco alla Procura”, prendeva corpo un’inchiesta giudiziaria molto delicata e a tratti inquietante. Indagini, che erano iniziate nel 2010, per fatti collegati e scaturiti con i fascicoli denominati “Veleni in Procura” e di cui conosciamo le cronache. La tempo, almeno oltre dieci persone sarebbero entrate sotto l’attenzione della Giustizia e che sarebbero stati denunciati a piede libero, con il fascicolo denominato “Attacco alla Procura”. A ben sentire, si tratterebbe di una strategia attuata da un “gruppo misto”, studiata a tavolino e indirizzata alla delegittimazione dell’allora procuratore capo della Repubblica di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, al fine di provocarne l’allontanamento dalla sede siracusana e bloccare quindi il corso di certe indagini che rischiavano di mettere in discussione il presunto colluso e consolidato sistema politico-imprenditoriale. Per fare questo i membri “dell’associazione spontanea” avrebbero stabilito che si sarebbero avvalsi di una serie di strumenti, tra cui una campagna stampa organizzata ad hoc, contro i due magistrati. Secondo le indiscrezioni, nel rapporto degli investigatori le contestazioni consegnate alla magistratura inquirente e le conseguenti accuse sarebbero gravissime. Ma cosa è successo veramente? Se lo sono chiesto a lungo i magistrati della Procura di Reggio Calabria che hanno l’esplosivo e delicato fascicolo denominato “Attacco alla Procura” di Siracusa in sofferenza sul tavolo, dopo che è transitato per il Tribunale di Messina per la legittima suspicione, a causa del coinvolgimento in altra inchiesta di un magistrato prima in forza a Siracusa, poiché si tratterebbe, secondo le indiscrezioni trapelate a suo tempo, di un attacco diretto contro i due magistrati, al potere giudiziario dello Stato. Ma quali sarebbero i fatti contestati a vario titolo a tutti gli intervenuti attori e registi di questo romanzo criminale in salsa greco-romana-siracusana? Si parlerebbe di associazione per delinquere, violenza, minaccia e calunnia al corpo amministrativo giudiziario, diffamazione, rivelazioni del segreto d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e tanto altro ancora; i magistrati inquirenti cercano inoltre di capire come può entrarci in quest’inchiesta un manipolo di uomini politici a più livelli d’importanza, avvocati, tanti deputati e senatori che all’epoca dei fatti avrebbero presentato una serie d’interrogazioni parlamentari, dove denunciarono delle presunte condizioni discutibili contro i due magistrati; ma anche tanti amici, editori e giornalisti, insieme ad oltre cento persone coinvolte nell’indagine a vario titolo, tutte informate dei fatti, o forse è giusto dire, in certe circostanze e il più delle volte tirati in ballo a loro insaputa. Di primo acchito sembra trattarsi di un processone, dove appare una superba regia con tanti interessati seguaci, che nella fase attuativa si sarebbe avvalsa della forza derivante da una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura, dell’avvocatura, della politica, degli imprenditori, di editori e giornalisti, per un ben specifico coinvolgimento strategico della stampa e dell’associazionismo in genere. Secondo le indiscrezioni e di quanto riportato dalla cronaca dei giornali all’epoca dei fati, tutto questo con il sospetto di un disegno criminoso ben congegnato e definito, dove i principali promotori avrebbero avvicinato (o cercato di avvicinare), parecchi membri del Parlamento, compreso i componenti della Commissione Nazionale Antimafia, che all’epoca dei fatti erano il presidente, senatore Giuseppe Pisanu, il suo vice, on. Benedetto Granata, detto Fabio, i componenti, senatore Francesco Ferrante, on. Andrea Orlando, on. Fracantonio Genovese, figlio del senatore Luigi Genovese e nipote delle più volte ministro messinese Nino Gullotti, senatore Giampiero D’Alia. Insomma, secondo le indiscrezioni, trapelate all’epoca dei fatti, sarebbero stati tirati in ballo da chi forse voleva il loro autorevole aiuto. Inoltre, sarebbero stati avvicinati dagli “organizzatori” della “crociata” contro i due magistrati dei consiglieri comunali siracusani per sollecitare iniziative parallele, richiedendo l’invio della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia contro i due Pm della Procura della Repubblica di Siracusa, e di altri personaggi coinvolti. Emergerebbero elementi secondo cui gli organizzatori avrebbero pianificato una strategia destabilizzante, che prevedeva nel simultaneo impiego strategico di molteplici strumenti di “guerra”, tra cui quello che prevedeva una campagna stampa mirata, e da realizzare attraverso una selezione di testate giornalistiche, di cui nomi gli investigatori trovarono le tracce durante una perquisizione per altri fatti collegati. Fascicolo d’indagine che è rimasto fermo per il trasferimento in altra sede dei due sostituiti procuratori della Repubblica di Reggio Calabria ma che ora avrebbe ripreso la corsa verso la decisione di merito dell’Ufficio del pubblico ministero e una parte del fascicolo ritrasferito alla Procura di Messina. Concetto Alota.

Siracusa. Denunciati ed intimiditi due giornalisti della "Civetta", scrive Giorgio Ruta il 13 febbraio 2012 su "Ossigeno". Hanno rivelato rapporti d’affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano. Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c’è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale ‘La Civetta di Minerva’ diretto da un giornalista con alle spalle quarant’anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul “Caso Catania”. Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un’altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da ‘La Civetta’. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell’avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l’avv. Amara e i suoi “soci”. L’inchiesta de "La Civetta" non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul “Caso Siracusa”. Dalla prima inchiesta apparsa su ‘La Civetta’ all’ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento “Partecipazione, rappresentatività, trasparenza” chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e  affigge in Tribunale un manifesto “a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini” per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti “di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano” e ai magistrati coinvolti “di essere loro stessi promotori dell’apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela”. Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l’ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c’è la società civile ad intervenire appoggiando ‘La Civetta’: dall’Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta. Il tintinnare delle sciabole si sente pure in Parlamento dove due deputati presentano due contrapposti documenti. Per primo, il 21 dicembre, interviene il Senatore pd Francesco Ferrante, origini siciliane. Il parlamentare chiede lumi al Ministero della Giustizia sui rapporti societari poco limpidi tra i soggetti elencati da Magma e da "La Civetta". La risposta politica avviene, il 18 gennaio, con un’interpellanza al Ministro della Giustizia presentata dall’on. Vincenzo D’Anna, di Popolo e Territorio, vicino a Nicola Cosentino. Il deputato campano chiede se il Ministro “intenda adottare tutte le azioni e i provvedimenti di propria competenza per assicurare l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura siracusana che a giudizio dell’interrogante è oggetto di una palese campagna a carattere diffamatorio”. Una guerra a viso aperto che sfocia in una bomba atomica. Dopo un articolo de ‘La Civetta’ del 16 dicembre, il 17, il giorno dopo, un altro giornale locale Diario Doc, diretto da Pino Guastella, pubblica, in un’edizione straordinaria, una notizia eclatante: “L’on. Foti e due giornalisti denunciati per estorsione”. I giornalisti in questione sono Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de La Civetta. Il politico in questione è l’ex sottosegretario Dc, Gino Foti, oggi in forza nel Pd. Ma soprattutto al centro – in questi giorni – di uno scandalo sull’affidamento del servizio idrico pubblico. L’onorevole è agli arresti domiciliari, assieme all’amministratore delegato della ditta che gestiva il servizio idrico a Siracusa, con l’accusa di tentata estorsione. La prima domanda che sorge è: cosa c’entrano i due giornalisti con l’ex parlamentare? Per Marina De Michele “non c’entriamo nulla con lui. Abbiamo avute sempre idee politiche diverse e sull’acqua, quando tutti erano per privatizzare, noi abbiamo sposato la scelta dell’acqua pubblica. Idea diversa rispetto a quella di Foti”. Da quanto si legge su Diario Doc 4 imprenditori avrebbero querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa. Nell’articolo si legge pure che: “Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato”. Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de ‘La Civetta’ si infuoca rispondendo all’accusa: “Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l’importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto”.  Ora la redazione ha una preoccupazione: “Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media” sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: “A Siracusa, in questo momento, c’è una emergenza democratica”.

La GdF inchioda i personaggi della nostra inchiesta sulla Procura, scrive Franco Oddo, Venerdì 7 Aprile 2017 su "La Civetta Press". Molte persone accusate di associazione a delinquere finalizzata all’evasione di tributi, per mezzo di operazioni inesistenti, e alcune delle società perquisite dalle Fiamme Gialle sono le stesse di cui La Civetta ha scritto nel lontano 2011. Subito dopo la nostra inchiesta sulla Procura della Repubblica di Siracusa (La Civetta di Minerva, 2 dicembre 2011), che ricostruiva una galassia di srl amministrate da familiari dell’avv. Piero Amara o da praticanti dei suoi tre studi legali di Augusta, Siracusa e Catania, in qualche caso dalle mogli dei praticanti, diciotto persone presentarono denuncia per diffamazione nei confronti del direttore e del vicedirettore del giornale. Il Gip di Messina, dott.ssa Daniela Urbani, archiviò sentenziando che non c’era stata alcuna diffamazione e che il giornalista aveva operato nei limiti del diritto di critica. Ebbene, molti di quei nomi e alcune di quelle società si ritrovano nell’operazione condotta ieri dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza e dal nucleo Gico di Messina in alcune città italiane in cui le srl hanno sede legale (Siracusa, Catania, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Ravenna, Milano, Varese, Trento), in alcuni uffici pubblici e nelle abitazioni degli amministratori. Il blitz, che ha impegnato molti uomini delle Fiamme Gialle, si è svolto contemporaneamente per evitare rapidi occultamenti. I militari, contando sull’effetto sorpresa, hanno acquisito fascicoli intesi a comprovare l’accusa, già formalizzata con avviso di garanzia a una trentina di persone, di associazione a delinquere per commettere frodi tributarie attraverso la fatturazione di operazioni mai realmente avvenute per un ammontare di milioni. A ricevere la cartolina verde sono stati gli avvocati Piero Amara (accusato anche di corruzione per atti d’ufficio) e Giuseppe Calafiore, ritenuti dagli investigatori i maitres à penser del sistema, e altri soggetti: Sebastiano Miano, Carlo Lena, Davide Venezia, Francesco Saraceno, Gianfranco Bessi, Pietro Balistreri, Giuseppe Garino, Francesco Saraceno, Marco Salonia, Ezio Bigotti, Giuseppa Aprile, Agata Di Stefano. Tra gli altri indagati anche Alessandro Ferraro, alias Sandro Napoli, al quale proprio nell’ultimo numero della Civetta, uscito oggi 7 aprile, abbiamo dedicato una pagina. Tra le società “visitate” dalla Guardia di Finanza, quelle di cui abbiamo scritto nell’inchiesta sono la Geostudi, P&G corporate, Energie Nuove, Salmeri, Gida, Parmenide e Dagi. La Gida, in particolare, in quell’arco temporale, amministrata dalla moglie dell’avv. Amara, aveva come soci il figlio dell’ex procuratore capo di Siracusa e il figlio di un magistrato della DDA di Catania. Le Fiamme Gialle hanno anche puntato l’attenzione sulla Cisma, la società che gestisce la discarica di Melilli, per il cui affaire sono scattati recentemente degli arresti. Sempre per presunte evasione fiscale e operazioni inesistenti, il Tribunale di Siracusa, sezione penale, ha interpellato di recente la Corte Costituzionale per districare una difformità tra norme italiane ed europee in merito ai tempi della prescrizione del reato. Imputati nel processo sono l’avv. Piero Amara (amministratore di fatto) e la moglie (amministratore di diritto) della Gida srl, e Alessandro Ferraro (amministratore di fatto) e Angelo Caruso (amministratore di diritto) della Comin srl. L’accusa: operazioni inesistenti che consentivano l'evasione delle imposte sui redditi (IRES e IRAP) e sul valore aggiunto (IVA). Essendo il reato risalente al 2007, per la normativa italiana scatta la prescrizione. Per la normativa comunitaria, in casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea oltre 50 mila euro, scattano tempi più lunghi (si andrebbe al 2020). I tributi evasi superano di gran lunga questo tetto.

Senato della Repubblica. Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-02682 (con carattere d'urgenza). Pubblicato il 28 febbraio 2012, nella seduta n. 681.

LANNUTTI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

numerosi articoli pubblicati da alcuni quotidiani siciliani - quali "Magma" e "La Civetta di Minerva" - ipotizzano legami consolidati tra esponenti della magistratura siracusana ed avvocati che esercitano la professione nella stessa città. Rapporti "incestuosi" di parentele, amicizie ed affari, in grado di inquinare la democrazia siciliana;

in data 13 febbraio 2012 viene pubblicato sul giornale on line "Ossigeno" un riassunto inquietante della vicenda intitolato «Denunciati e intimiditi due giornalisti della "Civetta"». Scrive Giorgio Ruta: "Hanno rivelato rapporti d'affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano". Si legge nel citato articolo: «Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c'è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale La Civetta di Minerva diretto da un giornalista con alle spalle quarant'anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul "Caso Catania". Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un'altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da La Civetta. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell'avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l'avv. Amara e i suoi "soci". L'inchiesta de La Civetta non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul "Caso Siracusa". Dalla prima inchiesta apparsa su La Civetta all'ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento "Partecipazione, rappresentatività, trasparenza" chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e affigge in Tribunale un manifesto "a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini" per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti "di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano" e ai magistrati coinvolti "di essere loro stessi promotori dell'apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela". Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l'ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c'è la società civile ad intervenire appoggiando La Civetta: dall'Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta»;

l'articolo, dopo aver segnalato che la questione ha assunto un rilievo politico a livello nazionale con la presentazione di atti di sindacato ispettivo, si sofferma sulla vicenda che vede indagati due giornalisti, Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de "La Civetta di Minerva", per presunta estorsione nell'ambito di una vicenda legata all'affidamento del servizio idrico pubblico. Nel richiamato articolo si legge che alcuni imprenditori avrebbero ingiustamente querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa e che: «"Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato". Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de La Civetta si infuoca rispondendo all'accusa: "Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l'importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto". Ora la redazione ha una preoccupazione: "Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media" sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: "A Siracusa, in questo momento, c'è una emergenza democratica"»;

considerato che:

a seguito di tali inchieste giornalistiche, risulta all'interrogante che il Ministro in indirizzo avrebbe disposto, nei giorni scorsi, un'inchiesta amministrativa nei confronti di magistrati in servizio o già in servizio alla Procura della Repubblica di Siracusa (dottori Musco, Campisi, Rossi e Toscano), per gravi fatti segnalati da numerosi articoli di stampa, interrogazioni parlamentari ed esposti; per lo svolgimento di tale inchiesta sarebbe stato delegato l'Ispettorato generale presso il Ministero della giustizia;

a quanto risulta all'interrogante, il nuovo Capo dell'Ispettorato generale, dottoressa Maria Stefania Di Tomassi, non solo non ha tempestivamente avviato l'inchiesta già formalmente disposta, ma avrebbe addirittura espressamente contestato le determinazioni già formalmente assunte dal Ministro in ordine ai magistrati nei confronti dei quali effettuare i doverosi accertamenti;

in particolare, a quanto risulta all'interrogante, il Capo dell'Ispettorato avrebbe, con propria nota indirizzata al Ministro, preteso la modifica dell'incarico di inchiesta al fine di ottenere l'esclusione dagli accertamenti della posizione di un magistrato, che sarebbe individuabile nel dottor Roberto Campisi, già Procuratore capo di Siracusa, nei cui confronti, invece, andrebbe doverosamente svolta l'inchiesta, come già stabilito dal Ministro sulla base di elementi circostanziati agli atti;

inoltre, a quanto risulta all'interrogante, tra il dottor Campisi e il Capo dell'Ispettorato esisterebbero stretti rapporti determinati dalla comune appartenenza e militanza alla medesima corrente della magistratura;

pertanto, per effetto di tale inammissibile contrasto, l'inchiesta amministrativa, già disposta e che presenta profili di estrema delicatezza e carattere di urgenza, in ragione della eccezionale risonanza pubblica delle vicende che ne formano oggetto, risulterebbe bloccata;

desta sconcerto che il Capo dell'Ispettorato, a pochi giorni dal suo insediamento, abbia già determinato un pericoloso precedente, che non risulta all'interrogante essersi mai verificato in passato, paralizzando un'inchiesta già disposta dal Ministro al solo evidente scopo di offrire una tutela preventiva ad una specifica posizione soggettiva,

si chiede di sapere:

se risulti vero quanto descritto dalle inchieste giornalistiche, che hanno messo a nudo rapporti incestuosi tra avvocati penalisti e magistrati nel Tribunale di Siracusa;

in quale modo e con quali criteri il Ministro in indirizzo intenda assicurare che l'inchiesta possa svolgersi senza indebite ingerenze da parte del Capo dell'Ispettorato, che sulla vicenda sembra abbia già manifestato un evidente pregiudizio di salvaguardia delle persone coinvolte;

quali iniziative urgenti intenda assumere al fine di garantire, sia in relazione alla vicenda in oggetto che per il futuro, comportamenti ispirati a correttezza ed imparzialità da parte del Capo dell'Ispettorato generale;

se, alla luce dei fatti esposti, ed attesa la particolare gravità di odiose ingerenze a tutela di "compagni di corrente", non ritenga urgente valutare la compatibilità della dottoressa Di Tomassi alla guida di un ufficio delicato nella gestione della giustizia, la cui attività richiede doti di particolare equilibrio ed imparzialità. 

CONDANNA DEFINITIVA A PM CHE CHIESE 5 MILIONI ALLA CIVETTA. Scrive Giuseppe Federico Mennella il 2 marzo 2017 su "Ossigeno". La Cassazione ha inflitto 18 mesi per abuso d’ufficio a Maurizio Musco. Processo nacque dopo inchiesta del giornale di Siracusa. Il 23 febbraio 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’ex sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco, a diciotto mesi di reclusione per abuso di ufficio, riconoscendogli il beneficio della sospensione condizionale della pena. La Cassazione ha confermato anche la condanna dell’ex procuratore capo di Siracusa (ora in pensione) Ugo Rossi a dodici mesi di reclusione. Il processo ebbe inizio dopo un’inchiesta giornalistica del quindicinale di Siracusa “La Civetta di Minerva”. Musco è il magistrato che, a novembre del 2016, con una lettera-diffida controfirmata dal suo avvocato, ha chiesto ai giornalisti Franco Oddo e Marina De Michele, direttore e vice direttrice del quindicinale La Civetta di Minerva, di versargli subito cinque milioni di euro a titolo di risarcimento danni per evitare una denuncia per diffamazione a mezzo stampa a causa degli articoli pubblicati sul suo conto. Richiesta rifiutata dai giornalisti che per tutta risposta hanno inviato le carte al CSM. Il periodico e i suoi giornalisti tra il 2011 e il 2012 sono stati gli autori di una grande inchiesta su alcune presunte irregolarità che coinvolgevano responsabilità di magistrati di Siracusa, su fatti noti come la vicenda dei “Veleni in Procura”. Una storia di intrecci non limpidi tra magistrati e avvocati, di funzioni giudiziarie deviate, di affari e malaffare. Dopo la pubblicazione degli articoli della “Civetta” alcuni parlamentari rivolsero delle interrogazioni al Governo. A marzo del 2012 il ministro della Giustizia, Paola Severino, mandò gli ispettori al Palazzo di Giustizia di Siracusa. Qualche mese dopo, in base alle risultanze dell’ispezione, chiese l’immediato trasferimento del vertice della Procura. A settembre 2012, in via cautelare, la sezione Disciplinare del Csm dispose il trasferimento d’ufficio del procuratore capo Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, in attesa che si svolgesse l’inchiesta disciplinare sul loro operato. Il CSM aprì una pratica sul dottor Musco, per non essersi astenuto su alcuni procedimenti. Al primo esame, il CSM lo ha assolto, ma poi la Corte di Cassazione ha ordinato di riaprire la pratica a suo carico. Il maxi risarcimento di cinque milioni di euro è stato chiesto da Musco pochi giorni prima che scadessero il termine di cinque anni entro i quali è possibile promuovere una causa civile per risarcimento danni, riaprendo così il termine di altri cinque anni per portare in giudizio Oddo e De Michele.

IL COMMENTO DI OSSIGENO – La condanna definitiva di Musco e Rossi giunge come una conferma, sia pure indiretta, della correttezza dell’operato dei giornalisti della “Civetta” e del valore pubblico delle informazioni da loro portate alla luce. Si spera che contribuisca a mettere fine alle azioni di rivalsa promosse pretestuosamente, in questi anni, contro di loro. Ossigeno si augura che la chiusura dei procedimenti giudiziari a carico dei magistrati con la conferma delle responsabilità accertate a loro carico permetta finalmente di riflettere a mente serena e in modo obiettivo sul ruolo svolto dal giornale di Siracusa, usando lo strumento dell’inchiesta giornalistica per informare i cittadini su vicende molto gravi di interesse pubblico e per promuovere gli accertamenti necessari per verificare il corretto funzionamento della macchina della giustizia. In altre parole, a riflettere sulla funzione di pubblica utilità che il giornalismo può svolgere rappresentando fatti e problemi di interesse pubblico e sottoponendo a controllo l’operato dei poteri e dei potenti. La vicenda mostra anche le difficoltà che i giornalisti incontrano quando svolgono questa funzione democratica e quale grande sostegno possono ricevere dalle associazioni dei cittadini. In questo senso, la vicenda della Civetta di Minerva è un caso di scuola da approfondire.

Il direttore della Civetta di Minerva, Franco Oddo, ha accolto la sentenza della Cassazione che conferma la condanna di Musco e Rossi quasi come un suggello della correttezza dell’operato e delle clamorose rivelazioni del suo piccolo giornale e ha ringraziato pubblicamente quanti, in questi anni, hanno aiutato lui e la vicedirettrice del giornale, Marina De Michele, a rompere il silenzio e l’isolamento, che è stato anche mediatico. Oddo ha ringraziato “primo fra tutti” il direttore di Ossigeno per l’Informazione, Alberto Spampinato, ricordando il sostegno ricevuto fin dall’inizio dall’Osservatorio e la presenza di Spampinato a Siracusa in una importante occasione che è valsa a creare un cordone di solidarietà civile attorno alla Civetta, “l’assemblea pubblica che si svolse all’Antico Mercato di Siracusa ed ebbe molta eco nella città”, proprio a ridosso della pubblicazione dell’inchiesta. Il direttore Franco Oddo ha ringraziato anche l’Ordine dei giornalisti, quello nazionale e quello regionale della Sicilia, “per aver sempre creduto nella professionalità dei cronisti della Civetta”. In particolare, Oddo ringrazia il presidente dell’Ordine della Sicilia, Riccardo Arena, per avere assegnato a lui e a Marina De Michele il Premio Mario Francese 2012, “quando – ha sottolineato – l’iter processuale che ci riguardava era aperto e farlo presentava qualche rischio”.

DA MAFIA CAPITALE A MAZZETTA CAPITALE.

Mafia Capitale, nel processo d’appello il giudice che nega i clan. Partirà a marzo il secondo grado del processo. Fra i giudicanti anche Claudio Tortora che definì «semplici criminali» i Fasciani di Ostia, versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione, scrive Ilaria Sacchettoni il 16 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". La data non è ancora stata fissata, ma l’avvio del processo d’appello per Mafia Capitale è previsto a marzo. Quanto al collegio giudicante qualche certezza c’è già. Assieme al presidente della Terza sezione Claudio Tortora siederanno Raffaella Palmisano e Patrizia Campolo. Ma è Tortora il nome che infonde qualche ottimismo nello sterminato collegio difensivo del cosiddetto Mondo di mezzo: già presidente della seconda sezione il magistrato era a capo del collegio che, nel 2016, aveva escluso l’esistenza di una mafia a Ostia, sostenendo che difettasse «la prova della pervasività del potere coercitivo del gruppo Fasciani», versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione. Ora, la sfida argomentativa della procura riguarda proprio la lettura del fenomeno mafioso. Non c’è mafia nella Capitale avevano concluso i giudici di primo grado il 20 luglio scorso, pur distribuendo condanne pesanti a Massimo Carminati (20 anni), Salvatore Buzzi (19) e agli altri imputati che avrebbero dato vita a una semplice organizzazione criminale. Per i pm romani invece, la città non è immune dal contagio mafioso. Basta guardare oltre gli stereotipi di una mafia «con la coppola e la lupara che spara e uccide, ovvero che parla calabrese o siciliano» per rintracciare un’organizzazione autoctona con poteri di intimidazione altrettanto efficaci di quelli di altre organizzazioni. Nel ricorso sul Mondo di mezzo l’aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli invitano i giudici «a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza della Cassazione» e a rivalutare, ad esempio, le testimonianze esitanti o apertamente reticenti di alcuni imprenditori terrorizzati all’idea di deporre su Carminati. A margine di un dibattito pubblico estivo il procuratore capo Giuseppe Pignatone aveva detto la sua: «Carminati otteneva il controllo con il metodo mafioso in quanto aveva la disponibilità della violenza. Tutti lo sapevano: aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. Riteniamo che ci fossero le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso».

La rivincita di Pignatone. Sentenza d’appello: «La mafia a Roma c’è». I giudici della Corte d’Appello di Roma ribaltano la sentenza di primo grado sul Mondo di Mezzo: l’associazione per delinquere che fa capo a Buzzi e Carminati è di tipo mafioso. Ma le pene vengono ricalcolate e ridotte, scrive Giulia Merlo il 12 Settembre 2018 su "Il Dubbio". L’associazione mafiosa c’è, ma le pene vengono ridotte. I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Roma, Presidente dr. Claudio Tortora hanno letto ieri nell’aula bunker di Rebibbia (presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi) il dispositivo di una delle sentenze più attese degli ultimi anni, riuscendo di fatto a dare ragione sia all’accusa che alla difesa. La mafia a Roma c’è, ha stabilito il collegio ribaltando la decisione del luglio 2017 Tribunale Ordinario di Roma X sezione penale, III Collegio Presidente Rosanna Ianniello, Renato Orfanelli, Giulia Arcieri (che aveva riconosciuto solo l’esistenza di due associazioni per delinquere, che avevano i riferimenti in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi). Eppure, anche condannando gli imputati per un diverso e più grave titolo di reato (dal 416 c. p. al 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), le pene sono state ridotte. Il manovratore del “Mondo di Mezzo” Carminati, condannato in primo grado a 20 anni, si è visto ricalcolare la pena a 14 anni e sei mesi. Il “ras delle coop” Buzzi doveva scontare 19 anni, ridotti a 18 e 4 mesi. I due hanno seguito la lettura del dispositivo in videoconferenza dai penitenziari di Opera e di Tolmezzo e non hanno voluto essere ripresi dalle telecamere. I giudici, inoltre, hanno riconosciuto l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’aggravante mafiosa o il concorso esterno anche per 18 dei 43 imputati. L’esito della camera di consiglio, se da una parte ha sposato la linea dell’accusa di chiedere il riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altra non ha invece accolto la richiesta di pena: 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e 9 mesi per Buzzi (in primo grado, invece, la richiesta era stata di 28 anni per Carminati e per Buzzi di 26 anni e 3 mesi). «Massimo Carminati è un boss, così lo chiamano i criminali nelle intercettazioni, riconoscendolo come capo, obbediscono a lui perché riconoscono il suo potere criminale», aveva spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini nella sua requisitoria dello scorso 29 marzo. E ancora, «non si tratta di stabilire se a Roma c’è la mafia ma se questa organizzazione criminale rientra nel 416bis, se ha operato con il metodo mafioso che si riconosce dall’uso della violenza e intimidazione, dall’acquisizione di attività economiche e dall’infiltrazione nella pubblica amministrazione», ha spiegato la Procura, che nell’atto di appello aveva contestato solamente il mancato riconoscimento del 416 bis e dell’aggravante del metodo mafioso e dunque chiedeva una diversa lettura giuridica dei fatti ( riconoscendo non due divese associazioni per delinquere semplici ma una unica e di stampo mafioso) e non la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Linea che ha convinto la Terza Corte D’Appello. Ora ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare gli estremi per un ricorso in Cassazione.

IL PRIMO GRADO. Nel luglio dello scorso anno, la Decima sezione penale del Tribunale di Roma aveva ritenuto che esistessero due associazioni: una coordinata da Carminati e dedita ad usura ed estorsioni; la seconda composta sempre da Carminati ma insieme a Salvatore Buzzi, che invece si occupava di corrompere funzionari per ottenere appalti in favore delle coop dello stesso Buzzi. Al termine del dibattimento, le condanne erano state 41, con 5 assoluzioni. Nelle motivazioni – rovesciate nella decisione d’Appello – si leggeva che «la mafiosità» individuata dalla procura nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo non è quella «recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione». Non solo, il tribunale non aveva individuato «per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» e «le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma». Nessun margine di equivoco, almeno per i giudici del primo grado, riguardo la non “mafiosità” delle condotte. Gli stessi giudici, però, avevano scelto una linea di severità nell’indicazione delle pene: 20 e 19 anni per Carminati e Buzzi e a nessuno dei 46 imputati il riconoscimento di alcuna attenuante generica. Tanto che l’avvocato di Carminati, Giosuè Naso, aveva parlato di «Pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato dato alla procura» nel non riconoscere l’associazione per delinquere di stampo mafioso. La Corte d’Appello, invece, sembra aver optato per la linea opposta: riconosce l’associazione mafiosa, ma ricalcola le pene in senso favorevole agli imputati.

LE REAZIONI. «Le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’Appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso». Questo il commento a caldo del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, al quale ha fatto eco il Procuratore generale Giovanni Salvi, definendo la sentenza «il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell’esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie». Opposte, invece, le reazioni dei difensori dei due principali imputati, che in primo grado avevano ottenuto la vittoria dell’esclusione della “mafiosità” delle condotte. «È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese», ha commentato il difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, sottolineando il fatto che «i magistrati hanno avuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato, quello del “mezza prova mezza pena”. Siccome sanno benissimo che il fenomeno mafioso nei fatti non è minimamente configurante si sono messi una mano sulla coscienza riducendo dove hanno potuto i trattamenti sanzionatori». Ancora più duro il difensore di Carminati, Bruno Giosuè Naso, che ha definito «una sorpresa» la sentenza: «L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Se persino questo collegio, che è uno dei migliori della Corte d’Appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa o io dopo 50 anni di attività professionale non capisco più nulla di diritto, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza». Plauso per la decisione del giudici d’appello, invece, è stato espresso dal mondo politico, in particolare dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. «Questa sentenza conferma che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. È quello che stiamo facendo», ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, presente in aula. «È una sentenza storica che certifica l’esistenza di un’organizzazione criminale tollerata dalla vecchia politica capitolina», ha aggiunto Giulia Sarti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio. Tra i dem, il primo a ringraziare la procura «per il grande lavoro» è Matteo Orfini. Il senatore Franco Mirabelli, invece, ha sottolineato come «dopo tanti anni il negazionismo di chi ha sostenuto che a Roma non ci fosse la mafia è stato sconfitto».

Roma, Mafia Capitale: era davvero mafia! La sentenza d'appello ribalta il primo grado: riconosciuta l'associazione a stampo mafioso, anche se pene ridotte per Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, scrive l'11 settembre 2018 Panorama. A Roma c'era davvero un'organizzazione mafiosa che ha controllato il territorio per anni, con infiltrazioni nel mondo istituzionale. Questo secondo la sentenza della Corte d'appello di Roma sull'inchiesta sul "Mondo di Mezzo - Mafia Capitale", che ribalta la sentenza di primo grado. Dimezza le pene ma riconosce l'aggravante mafiosa. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, la cupola del sistema delle cooperative romane, sono condannati riconoscendo loro il 416 bis, cioè l'associazione mafiosa.

La sentenza d'appello. Il processo d'appello è iniziato il 6 marzo 2018. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'appello di Roma, presieduta dal giudice Claudio Tortora, riconosce l'accusa di metodo mafioso, ancora rivendicata dai pm. Per alcuni degli imputati viene riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso, prevista dall'articolo 416 bis del codice penale. Massimo Carminati è condannato a 14 anni e sei mesi (invece dei 20 anni in primo grado), Salvatore Buzzi a 18 anni e 4 mesi (invece dei 19 anni in primo grado). Oltre che per Carminati e Buzzi, i giudici hanno riconosciuto l'associazione a delinquere di stampo mafioso, l'aggravante mafiosa o il concorso esterno, a vario titolo, anche per Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). Condannati anche Paolo Di Ninno (6 anni e 3 mesi), Agostino Gaglianone (4 anni e 10 mesi), Alessandra Garrone (6 anni e 6 mesi), Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi), Carlo Maria Guaranì (4 anni e 10 mesi), Giovanni Lacopo (5 annu e 4 masi), Roberto Lacopo (8 anni), Michele Nacamulli (3 anni e 11 mesi), Franco Panzironi (8 anni e 4 mesi), Carlo Pucci (7 anni e 8 mesi) e Fabrizio Franco Testa (9 anni e 4 mesi). Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha così commentato la sentenza su Twitter: "Criminalità e politica corrotta hanno devastato Roma, responsabili giusto che paghino. Noi proseguiamo il nostro cammino sulla strada della legalità".

Il primo grado. Il 20 luglio 2017, invece, la decima Corte del tribunale di Roma in primo grado aveva fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa: una vicenda di mafia, in cui la mafia non c'era. Aveva condannato a 20 anni di reclusione comminata Massimo Carminati, l'ex membro dei Nuclei armati rivoluzionari considerato ai vertici dell'organizzazione che, secondo la Procura romana, per anni ha condizionato le istituzioni capitoline. A Salvatore Buzzi, il suo braccio destro, accusato di corruzione e turbativa d’asta con l’aggravante del metodo mafioso, 19 anni di carcere. 11 anni sia per Luca Gramazio che per Riccardo Brugia. A Franco Panzironi, accusato di corruzione aggravata dall’aver favorito la associazione mafiosa, 10 anni. Dure condanne, ma che non confermavano l'accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Il processo era iniziato il 5 novembre 2015.

Come nacque l'indagine Mafia Capitale. Era fine 2014 quando partì il blitz. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo a essere bloccato nell'operazione "Mafia Capitale", il 2 dicembre, era stato il capo del clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana. Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra le 36 persone arrestate c'era Salvatore Buzzi, considerato il braccio destro di Carminati. Nel tempo l'indagine ha coinvolto anche Gianni Alemanno, sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Il 7 febbraio 2017 era stata archiviata l'accusa nei suoi confronti di concorso esterno in associazione mafiosa. Erano rimaste in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine. 

Mafia Capitale: sentenza Appello su Mondo di Mezzo. Le critiche: “Carminati e Buzzi? Cambiato il reato...” Mafia Capitale, oggi sentenza d'Appello: ultime notizie, ribaltate condanne per Carminati e Buzzi. Ridotti gli anni di carcere ma c'è "associazione a delinquere di stampo mafioso", scrive l'11 settembre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Secondo Massimo Bordin, giornalista ed ex direttore di Radio Radicale, quanto avvenuto con la sentenza di Secondo Grado per Mafia Capitale è uno di quei dispositivi destinati a fare giurisprudenza. E non in positivo: «il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”», scrive Bordin in un primo commento a caldo sul Foglio. È come se fosse stato “cambiato” il reato di mafia e dunque, riducendo tutto alle massime estremizzazioni, si potrebbe dire che d’ora in poi “tutto può essere mafia”. In conclusione Bordin sottolinea ancora un punto, «Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto». 

ECCO PERCHÈ LO SCONTO DI PENA PER CARMINATI E BUZZI. Come abbiamo accennato nel dare la notizia della sentenza in Corte d’Appello, le pene per i due massimi imputati nel processo Mondo di Mezzo, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, sono state ridotte nonostante sia stata provata la loro “mafiosità”. Il motivo è semplice, come spiega l’Huffington Post dopo aver sentito gli avvocati Vasaturo (avvocato di Libera, costituitosi parte civile) e Diddi (legale di Buzzi): «Oltre a quello disciplinato dal 416 bis gli imputati erano accusati anche di una serie di altri reati, alcuni dei quali legati alla corruzione. Nel processo di primo grado l'accusa di associazione a delinquere era caduta mentre, invece, erano rimaste in piedi alcune delle altre. Il cumulo delle pene di quei reati, quindi, aveva portato a una condanna più pesante rispetto a quella dell'Appello, almeno per Buzzi e Carminati». Per quanto riguarda le altre condanne, riconosciuto l’associazione a delinquere di stampo mafioso anche per Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi per l’ex braccio destro di Carminati), Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). 

LEGALE DI CARMINATI: “O NON CONOSCO DIRITTO O SENTENZA STRAVAGANTE”. Dopo la sentenza della terza sezione della Corte d'Appello di Roma, presieduta da Claudio Tortora, che ha riconosciuto l'aggravante mafiosa nell'indagine "Mondo di Mezzo" meglio nota come Mafia Capitale, a mostrare perplessità è l'avvocato difensore dell'ex Nar Massimo Carminati. Come riportato da La Repubblica, il legale Giosuè Naso ha dichiarato: "L'insussistenza dell'associazione mafiosa mi sembrava inattaccabile, mi sbagliavo. Questo collegio ha invece riconosciuto la sussistenza della mafia. Se anche questo collegio, che è uno dei migliori della corte d'appello, ha riconosciuto l'aggravante mafiosa e la mafiosità di questa associazione o io dopo 50 anni di attività professionale non conosco più nulla di diritto, il che ci può stare benissimo, oppure c'è qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza". Sul procedimento ha poi ribadito: "E' un processetto". (agg. di Dario D'Angelo)

L'avvocato di Buzzi: "Da oggi pericoloso vivere in Italia": "Quanto accaduto è grave, è un fatto assolutamente stigmatizzabile l'aver riconosciuto in questa roba la mafia. Vedo che per molti cittadini da oggi è molto pericoloso vivere in Italia, è una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese". Così l'avvocato difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, parlando a margine della lettura del dispositivo della sentenza d'appello. Diddi ha poi aggiunto: "Il collegio ha riconosciuto la associazione di stampo mafioso, ma ha ridotto il trattamento sanzionatorio che era stato applicato in primo grado. Noi abbiamo da sempre sostenuto che il tribunale fosse andato con la mano pesante su diverse condotte". Francesco Salvatore per repubblica.it 11 settembre 2018

RAGGI CONTRO IL PD. «La Corte d'Appello di Roma ha accolto l'impugnazione della Procura generale e della Procura della Repubblica di Roma e ha riconosciuto il carattere mafioso dell'associazione. Questo è il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell'esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie, che devono necessariamente essere accompagnate dalla crescita della coscienza civile e dal risanamento della struttura della pubblica amministrazione»: così ha spiegato il procuratore generale Giovanni Salvi dopo la sentenza d’Appello dal carcere di Rebibbia. Molto polemica invece il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che senza “citarli” attacca a testa bassa il Partito Democratico della Capitale: «Questa sentenza conferma la gravità di come il sodalizio tra imprenditoria criminale e una parte della politica corrotta abbia devastato Roma», ha dichiarato la prima cittadina M5s che era presente ala lettura della sentenza. Non solo, «Conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. E' quello che stiamo facendo e continueremo a fare per questa città e i cittadini».

PM SODDISFATTI. La sentenza odierna della Corte d’Appello segna un punto importante nella vicenda giudiziaria conosciuta come Mafia Capitale dato che, rispetto al primo grado, c’è stato un vero e proprio ribaltamento, con gli imputati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi che, pur vedendosi ridotte le pene, si sono pure visti attribuire l’aggravante mafiosa per le proprie condotte: “La Corte ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso” ha detto soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini circondato da un nugolo di giornalisti. “Un nostro successo? Non ho una visione agonistica dei processi” si è schernito invece il pm Luca Tescaroli a proposito di quello che è un successo dei pm in merito al processo a quello che nella vulgata giornalistica oramai era conosciuto come il Mondo di Mezzo che imperava a Roma: e facendo eco al suo collega si è detto pure lui soddisfatto che i giudici dell’Appello “abbiano riconosciuto il lavoro che abbiamo svolto”. (agg. di R. G. Flore)

Mafia Capitale, Pignatone: "Roma non è Palermo, il problema più grave resta la corruzione". "Sì, era mafia ma Roma non è Palermo". "Il problema più grave resta la corruzione". Così il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d'appello per Mafia capitale in due interviste a Il Corriere della Sera e a La Repubblica. Pur essendo il "Mondo di mezzo" "un gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla 'ndrangheta o alla camorra. E Roma - ha affermato parlando con il Corriere - non è Palermo, né Reggio Calabria né Napoli. L'abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo scioglimento del Comune per mafia", ha detto il procuratore. Quello che contraddistingue la mafosità del gruppo di Carminati e Buzzi "non è il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di alcuni settori dell'imprenditoria". "La nostra elaborazione avanzata dell'associazione mafiosa era già basata su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l'ha ribadita in altre sentenze. La corte d'appello ne ha preso atto e ha individuato un condizionamento di tipo mafioso". "Non tutti i traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le corruzioni. Ci dev'essere un condizionamento derivante dal vincolo associativo, ed è necessaria la "riserva di violenza" riconosciuta all'esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma il problema principale non è la mafia". E qual è? "Credo che si possa individuare in quell'insieme di reati contro la pubblica amministrazione e l'economia che va sotto il nome di corruzione ma comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi turbative d'asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato". "Io fui il primo - ha detto Pignatone a Repubblica - dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell'assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l'associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata". Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene? "Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l'associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L'Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme". Agi 12 settembre 2018

 RICONOSCIUTA "AGGRAVANTE MAFIOSA". La sentenza è stata ribaltata ma le pene sono state ridotte: così il processo d’Appello si conclude con le importanti decisioni di questi minuti dall’aula bunker del Carcere di Rebibbia. Massimo Carminati condannato in Appello a 14 anni e sei mesi. Salvatore Buzzi 18 anni e 4 mesi: sono queste le prime condanne in Appello al processo per Mafia Capitale-mondo di mezzo che hanno due punti cruciali da segnalare subito. A differenza del Primo Grado, in questa sentenza viene riconosciuta “l’aggravante mafiosa” mentre le pene sono state ridotte, come ha spiegato l’avvocato di Carminati, perché sono state eliminate alcune recidive passate. «Nel primo processo l'aggravante mafiosa cadde perché, come si leggeva nelle motivazioni, l'applicazione letterale del 416bis non era possibile», scrive Repubblica: per le decisioni di oggi invece bisognerà attendere le motivazioni tra 100 giorni, ma intanto le rispettive difese di Buzzi e Carminati continuano a ribadire, «questo è un processino cui però vengono condannati con pene mostruose, altro che alte, i nostri assistiti». 

ATTESA PER BUZZI E CARMINATI. L’hanno chiamata Mafia Capitale fin da subito, eppure dopo le condanne in Primo Grado quell’appellativo andava abolito visto che i giudici della III sezione di Roma avevano esclusa l’aggravante del metodo mafioso e dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per tutti i 41 condannati (sui 46 imputati, ndr). Nel 2017 venne riconosciuta l’esistenza di due associazioni a delinquere “semplici” che avevano in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi i due punti di riferimento. Per l’ex Nar i giudici avevano sentenziato 20 anni di reclusione per “corruzione” ma non per “aggravante mafioso”; per il “re delle cooperative romane” invece il magistrato decise di condannarlo a 19 anni di reclusione per associazione a delinquere “semplice”. I giudici ora, dopo il Processo di Appello tenuto nell’ultimo anno, sono riuniti in Camera di Consiglio nell’Aula bunker del Carcere di Rebibbia: alle 13 è attesa la sentenza che potrebbe, viste le richieste dell’accusa, ribaltare completamente la decisione del Primo Grado.

MAFIA CAPITALE: LE RICHIESTE DELL’ACCUSA. Mafia Capitale-mondo di mezzo: bisognerà decidere a quale dei due “ambiti” appartengono gli imputati. Se infatti il terrorista “nero” Carminati e il ras delle cooperative avevano messo i piedi una organizzazione mafiosa, allora si concretizzerà la richiesta della accusa: per l'ex Nar il pg Pignatone ha chiesto una condanna a 26 anni e mezzo, mentre per Buzzi 25 anni e 9 mesi. Se invece viene confermata la tesi del Primo Grado, allora non si può parlare di “mafia capitale” ma di grande organizzazione criminale senza le aggravanti di rito, e senza dunque anche il regime di carcere duro (41Bis) per i condannati. Come riporta bene l’Ansa in attesa della sentenza d’Appello, «Secondo l'accusa negli anni il gruppo un tempo guidato dal solo Carminati sarebbe cresciuto, passando dalle semplici estorsioni al controllo di attività economiche, appalti e bandi pubblici. Dopo l'incontro con Buzzi, avvenuto nel 2011, ci sarebbe stato un'ulteriore salto di qualità, che avrebbe permesso all'organizzazione di condizionare politica e pubblica amministrazione». Oggi si attendono novità sulla presenza o meno di una “nuova mafia” che agiva nella Capitale.

Il fatto alternativo di Mafia capitale. Una bolla di fatti alternativi non la puoi sgonfiare, e così nel processo d’Appello si è deciso di convertire il senso di condanne già erogate nel significato simbolico che le bolle richiedono. Stavolta la mafia c’è. Ma la bufala resta lì ed è sempre grande, scrive Giuliano Ferrara l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Mafia capitale è un classico “fatto alternativo”, un caso di scuola, la bolla informativa al posto del contenuto di fatto. Anche i bambini hanno capito quel che non era difficile divinare a tutta prima e che nessuna sentenza potrà mai smentire: due o tre associazioni per delinquere a scopo di lucro (appalti, corruzione della pubblica amministrazione e della politica capitolina per segmenti, prestito a strozzo) furono smantellate da indagini giudiziarie che, per comodità e aura mediatico-politica, furono condotte con ...

E’ stato cambiato il reato di mafia, e adesso tutto può essere mafia. La sentenza pronunciata dalla Corte di appello sul cosiddetto processo Mafia Capitale contro Massimo Carminati e l’associazione a delinquere, scrive Massimo Bordin l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Ci sarà tempo per valutare più analiticamente il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di appello che ha accolto il ricorso della procura romana sul processo Mafia Capitale, ma il cuore del problema, l’elemento che ha spostato il giudizio nel suo secondo grado sta probabilmente nell’analisi del fatto piuttosto che nella sistemazione degli elementi e dei precedenti in punto di diritto. Qui si era avvertito il lettore, all’inizio del processo d’Appello, che, dalla sentenza di primo grado, le cose in Cassazione erano mutate sul tema della utilizzabilità del reato di mafia per associazioni a delinquere attive anche lontano dai luoghi tradizionali dell’insediamento mafioso e non necessariamente connotate da pratiche esplicitamente violente. Più di una sentenza definitiva della Suprema Corte aveva convalidato decisioni di alcune Corti di appello, non solo romane, che avevano applicato estensivamente il famoso articolo 416 bis anche a piccole associazioni criminali, in più di un caso formate neppure da italiani. La giurisprudenza della Cassazione, insomma, si era mossa in controtendenza rispetto alla sentenza del tribunale su Carminati e soci. Naturalmente nella discussione il fenomeno è stato valorizzato dalla pubblica accusa e analizzato criticamente dalle difese, che hanno cercato di sganciarlo dal merito del processo romano. Qui arriviamo al punto vero che non è, o almeno non è solo, una dotta disquisizione giuridica, ma principalmente è l’interpretazione dei fatti processuali. In soldoni il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”. Non si diceva esplicitamente che anche la procura in fondo la pensava così, ma alla fine l’interpretare come artificiosa l’unificazione operata dall’accusa alludeva proprio a questo. Siccome ogni processo è fatto di persone, di storie, di comportamenti e intrecci, per parlare con cognizione di causa di questa sentenza occorre davvero aspettare di leggere come la Corte di appello li ha interpretati e combinati per contraddire sul punto di fatto decisivo la sentenza di primo grado. Comunque dal dispositivo si capisce nitidamente anche un’altra cosa. Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto.

«Avvocato, amico della mafia ti sommergerò col fango!». L’intimidazione di un giornalista dell’Espresso contro un difensore, scrive Damiano Aliprandi il 9 giugno 2018 su "Il Dubbio". Un giornalista dell’Espresso, molto famoso, Lirio Abbate, ieri ha pubblicato su Facebook un post che potrebbe essere stampato sui libri che studiano il linguaggio dell’odio e della volgarità negli anni 10 del XXI secolo. Ha scritto Abbate, rivolto a Cesare Placanica, presidente della camera penale di Roma: «Le infamità e le calunnie vomitate ieri in un’aula di giustizia da un para- difensore presidente di categoria a Roma hanno eguali solo ad affiliati alla mafia. Para- difensore, dico a te che leggi questo post: di te e dei tuoi amici criminali che ti pagano, non ho paura. Ho la coscienza pulita per affrontarti. Il fango che tu e i tuoi amici mafiosi volete spargere sulla mia correttezza professionale vi si ritorcerà sommergendovi». In serata la federazione della stampa è intervenuta, a sorpresa, non per chiedere scusa, ma per difendere Abbate e chiedere interventi del ministro contro Placanica. IL VICEDIRETTORE DELL’ESPRESSO È PREOCCUPATO PER IL CASO MONTANTE? «Ho la coscienza pulita per affrontarti. Il fango che tu e i tuoi amici mafiosi volete spargere sulla mia correttezza professionale vi si ritorcerà sommergendovi», tuona il vicedirettore de L’Espresso Lirio Abbate tramite un post su Facebook. Si rivolge direttamente all’avvocato Cesare Placanica, Presidente della Camera Penale di Roma, riferendosi alla sua arringa di giovedì scorso durante il processo d’appello giornalisticamente battezzato “Mafia Capitale”, concentrata sulla tesi della Procura romana – respinta dai giudici di primo grado – sulla presunta natura mafiosa del sodalizio tra Buzzi e Carminati. Il giornalista dell’Espresso ha definito Placanica un «para- difensore presidente di categoria» che avrebbe «vomitato infamità e calunnie» nei suoi confronti che «hanno eguali solo ad affiliati alla mafia». Il suo commento sul social network è stato considerato particolarmente feroce, associando di fatto la figura del difensore ai criminali e alla criminalità mafiosa da lui assistita nel processo. Ma cosa ha detto l’avvocato Placanica durante la sua arringa da generare un commento del genere? Probabilmente Abbate si riferisce a due passaggi del suo intervento durato un’ora e mezzo, volto a smontare la ricostruzione fatta dai pubblici ministeri, quando ha fatto cenno a due situazioni che coinvolgerebbe-ro Abbate. Il primo è relativo al caso giudiziario del sistema Montante, quando dall’informativa ( riportata da Il Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta, sono emersi nomi di giornalisti che avrebbero avuto frequentazioni con l’ex presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, il quale – secondo la tesi della procura di Caltanissetta – avrebbe avvicinato alcuni giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani venissero, in un certo senso, redarguite e manipolate, per non scrivere notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Dall’informativa il nome di Abbate viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. L’avvocato Placanica durante l’arringa ha esclamato: «Perché non le scrivono queste cose sui loro giornali, perché non le trovate?». Ha anche tenuto a precisare che lui considera Montante innocente fino a prova contraria e ha detto di essere contento che queste notizie relative a presunti rapporti con i giornalisti, non sono stati dati in pasto all’opinione pubblica «sempre più becera». Altro passaggio che avrebbe fatto scatenare la reazione di Abbate, riguarda il famoso furto al caveau della città giudiziaria di piazzale Clodio, a Roma, avvenuto la notte tra il 16 e 17 luglio del 1999. L’avvocato Placanica, soprattutto in questo caso, ha indirizzato espressioni polemiche e sferzanti – connesse ai temi di difesa che stava affrontando – nei confronti di un giornalista, definendolo «cialtrone» e sottolineando «mi rifiuto di fare il nome». Ma giustamente, il giornalista dell’Espresso, si è sentito parte in causa perché fu lui che scrisse un’inchiesta sul famoso furto dove sostenne che Carminati si impossessò di documenti riservati per ricattare la Repubblica italiana. In effetti, Abbate pubblicò un libro dove viene riportata la lista indicante le cassette di sicurezza piene di documenti scottanti che avrebbero concesso una specie di “impunità” all’ex-Nar Carminati in virtù del materiale acquisito con la rapina. Ci sono nomi di giudici, avvocati, tutte persone che sarebbero state sotto ricatto per farsi aggiustare i processi. Il problema è che non uno dei giudici citati è segnalato come titolare, all’epoca, d’inchieste scottanti su Carminati o su chissà quale altro “potere occulto”. Abbate non cita neanche una sentenza su cui possa gravare il sospetto di essere stata “aggiustata” per compiacere qualche “sodalizio criminale”. Una lista che però non ha avuto nemmeno un effetto immediato visto che furono arrestati e processati tutti gli autori del colpo, Carminati compreso. L’avvocato Placanica, durante l’arringa, è stato costretto a parlare di questo furto e della tesi di Abbate, perché la vicenda è stata evocata anche dai Pm durante la requisitoria.

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Mafia capitale, 19 anni a Buzzi e 20 a Carminati. Ma per i giudici non è una cupola. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze, scrive il 20 luglio 2017 "Il Dubbio". 20 anni di carcere per Massimo Carminati e 19 anni per Salvatore Buzzi. E’ la sentenza di primo grado del processo Mafia Capitale. Dunque, secondo i giudici di Roma, l’organizzazione capitanata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stata una vera associazione mafiosa. La sentenza è stata letta davanti a centinaia di giornalisti e tv provenienti da tutto il mondo. I due principali imputati, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, hanno ascoltato le parole della presidente Rosanna Ianniello in videoconferenza. In aula non c’era il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone mentre c’era la sindaca Virginia Raggi. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze. Alla sbarra erano finiti 46 imputati, 19 con l’accusa di 416 bis, vero terreno di battaglia di questo maxiprocesso tenutosi, al ritmo di 4 udienze a settimana, nell’aula bunker di Rebibbia, fatta eccezione per la prima a piazzale Clodio. Un’associazione che, secondo la Procura di Roma, “usando il metodo mafioso”, fatto di assoggettamento, intimidazione e omertà, avrebbe messo le mani su gare e appalti della pubblica amministrazione, dai rifiuti ai profughi al verde pubblico, grazie anche ai politici messi a libro paga. Da destra a sinistra nessuno escluso perché, come ha detto Buzzi in collegamento dal carcere di Tolmezzo, “non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo”.

Mafia Capitale, 20 anni a Carminati e 19 a Buzzi: la lettura della condanna. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso.

Mafia Capitale, il procuratore Ielo: ''Sentenza ci dà in parte torto, ma la delusione non ci appartiene''. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo commenta la sentenza della decima sezione del Tribunale di Roma del Processo Mafia Capitale che non ha riconosciuto le accuse di associazione mafiosa.

Mafia Capitale, legale Carminati: ''Sconfitta di Pignatone, sono solo quattro cazzari''. "Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi". Lo ha detto l'avvocato di Massimo Carminati, Bruno Giosuè Naso, commentando la sentenza del processo a Mafia Capitale nell'aula bunker di Rebibbia. Interrogato poi da una giornalista, l'avvocato conferma quanto detto tempo fa in merito a quella che lui stesso definisce "la banda del benzinaro": "Sono solo quattro cazzari".

Mafia Capitale, legale Buzzi: ''Provata l'inesistenza della mafiosità''. "Né Salvatore Buzzi né Massimo Carminati sono mafiosi. Questa è una pietra miliare, una lezione di diritto della quale qualcuno dovrà prendere atto". A dirlo è Alessandro Diddi, l'avvocato di Salvatore Buzzi, al termine della lettura della sentenza di Mafia capitale che ha condannato il ras delle cooperative a 19 anni di reclusione. "Erano i pubblici ufficiali a rivolgersi a Buzzi, e non lui a intimidirli", ha sottolineato il legale.

L'avvocato di Massimo Carminati Giosuè Naso, al termine della sentenza che ha visto decadere l'accusa per associazione mafiosa del suo assistito, nell'aula bunker di Rebibbia ingaggia una lite con un funzionario di polizia e viene portato via. La figlia Ippolita, anch'essa avvocata, chiede ironicamente se il padre sia stato arrestato. Contattato successivamente al telefono, l'avvocato Naso ha fatto sapere che si sarebbe trattato di "sciocchezze", senza fornire ulteriori spiegazioni.

Roma. “Mafia Capitale”…anzi no! Adesso bisognerà cambiare nome…?!? Scrive il 20 luglio 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caduta l’associazione mafiosa richiesta dalla procura romana. E’ stata vana la inutile passerella del Sindaco di Roma Virginia Raggi. La decisione della 10ma sezione penale del Tribunale di Roma è la sconfitta delle etichette della informazione “forcaiola” e serva della pessima politica. Nella sentenza è stata esclusa sia la natura del sodalizio mafioso ex art 416 bis del codice penale, sia la presenza dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 convertita con Legge 203/1991. In definitiva si è trattato il processo a due associazioni a delinquere semplici. Al termine del processo il Tribunale di Roma ha condannato Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione, 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, ex capogruppo del Pdl in Comune. Caduta quindi l’accusa di associazione mafiosa a 19 imputati del processo a mafia capitale, tra cui i presunti capi Carminati e Buzzi. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti la corte ha stabilito una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per Ricardo Brugia il presunto braccio destro di Carminati, 10 per Franco Panzironi l’ex Ad di Ama. L’ex minisindaco del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni. Su 46 imputati tre sono stati assolti. Si tratta di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, per i quali la Procura aveva chiesto 16 anni di carcere, e l’ex dg di Ama Giovanni Fiscon, per il quale erano stati chiesti 5 anni. Secondo l’accusa Rotolo e Ruggiero avrebbero garantito i contatti tra “Mafia Capitale” ed ambienti della ‘ndrangheta. I giudici della decima Corte presieduta da Rosanna Ianniello hanno inflitto oltre 250 anni di carcere, dimezzando di fatto le pene rispetto alle richieste della Procura che aveva proposto per tutti gli imputati 5 secoli di carcere. I giudici hanno detto che “la mafia a Roma non esiste, come andiamo dicendo da 30 mesi” ha dichiarato soddisfatto l’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati. “La presa d’atto della inesistenza dell’associazione mafiosa – ha aggiunto – ha provocato una severità assurda e insolita. Mai visto che a nessuno di 46 imputati non venissero date attenuanti. Sono pene date per compensare lo schiaffo morale dato alla procura”. I giudici della X sezione del Tribunale di Roma sono stati chiamati a giudicare i 46 imputati del processo denominato “Mafia Capitale”, l’associazione che avrebbe condizionato la politica romana, guidata da l’ex Nar Massimo Carminati e dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi. Il presidente della Corte Rosanna Ianniello, prima di entrare in camera di consiglio, ha ringraziato il “personale amministrativo” del tribunale, “senza il quale non sarebbe stato possibile portare a compimento il processo” e i tecnici, che hanno “lavorato con competenze e dedizione”. Un ringraziamento, da parte del presidente, anche alla procura, in particolare al pm Luca Tescaroli, che “si è contraddistinto per la professionalità” ed agli avvocati difensori.

Mafia Roma: pm Ielo, sentenze si rispettano – “Questa sentenza riconosce un’associazione a delinquere semplice, non di tipo mafioso. Sono state date anche condanne alte. Rispettiamo la decisione dei giudici anche se ci danno torto in alcuni punti mentre in altri riconoscono il lavoro svolto in questi anni. Attenderemo le motivazioni”. Lo afferma il procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo la sentenza della X sezione penale del Tribunale di Roma.

Carminati a legale, “avevi ragione tu, sono soddisfatto” – “Avevi ragione tu, sono soddisfatto”. Queste le parole pronunciate da Massimo Carminati parlando con la sua legale Ippolita Naso, commentando la sentenza che lo condanna a 20 anni, anziché a 28 anni, non essendo stata riconosciuta l’associazione mafiosa. L’avvocato era convinto che l’associazione mafiosa non sarebbe stata riconosciuta e così è stato. “Avevi ragione tu”, le ha quindi detto Carminati. “Ora mi devono togliere subito dal 41 bis”. E’ la prima richiesta che Massimo Carminati ha rivolto al suo avvocato subito dopo la lettura delle sentenza della X sezione penale del tribunale di Roma che non ha riconosciuto l’esistenza dell’associazione mafiosa. “Non me lo aspettavo – ha aggiunto l’ex Nar al telefono con l’avvocato – avevi ragione tu ad essere ottimista”. “Carminati temeva – ha detto l’avvocato Naso – che le pressioni mediatiche avessero portato ad un esito negativo per lui”.

Buzzi a legali, ora quando esco da carcere? – “Ora quando esco?”: questo il primo commento di Salvatore Buzzi dopo la lettura della sentenza per i 46 imputati di mafia capitale, esprimendo felicità per l’esito del processo. “Mi auguro – ha aggiunto parlando con il suo avvocato – che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire”. Condanne esemplari per tutti gli imputati per alcuni anche superiore alle richieste del pm ma non si tratta di un’associazione mafiosa. In 41 sono stati condannati e in 5 assolti.

Ecco tutte le condanne: Massimo Carminati 20 anni; Salvatore Buzzi anni 19 anni; Riccardo Brugia 11 anni; Fabrizio Testa 11 anni; Luca Gramazio 11 anni; Franco Panzironi 10  anni; Cristiano Guarnera 4 anni; Giuseppe Ietto 4 anni; Claudio Caldarelli 10 anni; Agostino Gaglianone 6 anni e 6 mesi; Carlo Pucci 6 anni; Roberto Lacopo 8 anni; Matteo Calvio 9 anni; Nadia Cerrito 5 anni; Carlo Maria Guarany 5 anni; Paolo Di Ninno 12 anni; Alessandra Garrone 13 anni e 6 mesi; Claudio Bolla 6 anni; Emanuela Bugitti  6 anni; Stefano Bravo 4 anni; Mirko Coratti 6 anni; Sandro Coltellacci 7 anni; Michele Nacamulli 5 anni; Giovanni De Carlo 2 anni e 6 mesi; Antonio Esposito 5 anni; Giovanni Lacopo 6 anni; Franco Figurelli 5  anni; Claudio Turella 9 anni; Guido Magrini  5 anni; Sergio Menichelli 5 anni; Marco Placidi  5 anni; Mario Schina  5 anni e 6 mesi; Mario Cola 5 anni; Daniele Pulcini 1 anno; Angelo Scozzafava 3 anni; Andrea Tassone 5 anni; Giordano Tredicine 3  anni; Luca Odevaine  6 anni e  6 mesi; Pierpaolo Pedetti  7 anni; Tiziano Zuccolo  3 anni e 3 mesi; Pierina Chiaravalle  5 anni.

Questi gli assolti: Giovanni Fiscon assolto; Rocco Rotolo assolto; Salvatore Ruggero assolto; Giuseppe Mogliani assolto; Fabio Stefoni assolto.

Mafia Capitale non esiste. 20 anni per Carminati ma è un "delinquente abituale". Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette la parola fine al maxi processo durato due anni. Condanne pesanti ma non per 416 bis. Nervi tesi per l'avvocato Naso che dà in escandescenze e viene portato via dalla polizia, scrive Giovanni Tizian e Federico Marconi il 20 luglio 2017 su "L'Espresso". Mafia Capitale non esiste. La storia si ripete. Come ai tempi della banda della Magliana, per il tribunale di Roma non esiste organizzazione mafiosa locale nella città eterna. Svanisce in mezz’ora, il tempo della lettura del verdetto. La Corte d’Assise ha condannato Massimo Carminati a 20 anni e Salvatore Buzzi a 19 ma non per 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette così la parola fine al maxi processo durato due anni e 240 udienze. I giudici riconoscono due associazioni, semplici, con a capo Carminati. In una di queste hanno confermato il ruolo centrale di Salvatore Buzzi, braccio economico della “banda”. Secondo i giudici, inoltre, il “Cecato” è un delinquente abituale. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso. La sentenza è arrivata poco dopo le 13, in un aula gremita di giornalisti. Nelle gabbie di Rebibbia una decina gli imputati detenuti. Tre, tra cui Carminati, erano collegati dal 41 bis in videoconferenza. In fondo all’aula parenti e amici degli imputati. Tra loro Il fratello di Massimo Carminati, Sergio, e il leader di Militia Maurizio Boccacci. Alla lettura delle prime pesanti condanne alcune donne hanno pianto, altre hanno gioito per le assoluzioni. Tra i banchi delle parti civili, invece, era presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “È una giornata importante” ha commentato la sindaca appena entrata in aula, una ventina di minuti prima dell’ingresso della Corte. Raggi che oggi scopre di governare una città in cui la mafia non c’è mai stata. Dai tempi della Banda della Magliana, nessun processo ha mai riconosciuto l’associazione mafiosa ai gruppi criminali imputati. Tra i 41 condannati, pene pesanti anche per Alessandra Garrone (13 anni e 6 mesi), Fabrizio Testa (12), Luca Gramazio (11), Luca Brugia (11), Franco Panzironi (10), Luca Odevaine (8), Mirko Coratti (6 anni) e Giordano Tredicine (3). Condannato, inoltre, Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia, poi sciolto per mafia, e Luca Odevaine, il regista del business dei migranti, a 8 anni complessivi. La pena di 9 anni è stata inflitta a Matteo Calvio, detto “Spezza pollici”, ritenuto il tirapiedi del capo dell’associazione Massimo Carminati. Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ha dichiarato: «La sentenza in parte ci dà torto ma aspettiamo di leggere le motivazioni». Era evidente la delusione negli sguardi di chi ha condotto le indagini sul gruppo Carminati. Le difese, invece, nonostante le pene comunque alte, si ritengono soddisfatte della decisione della corte. Alcuni degli imputati a piede libero hanno esultato, uno di loro rivolgendosi all’inviato di Repubblica ha chiesto: «E mo che vi inventate?». Mezz’ora dopo la lettura della sentenza, la tensione non è calata. Nervi tesi per l’avvocato di Carminati, Domenico Naso. Dopo la soddisfazione per il verdetto che cancella il reato di mafia, l’avvocato ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono accesi e c’è stato un battibecco con l’agente, che ha chiesto a Naso di seguirlo al posto di polizia. L'avvocato Naso, legale di Carminati va in escandescenza alla fine della sentenza. Ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono esasperati e l'avvocato è stato portato al posto di polizia. Alla fine il dirigente della polizia ha calmato la situazione.

Perché "Mafia Capitale" è stata archiviata. Tra i 113 prosciolti anche Alemanno e Zingaretti. Ecco chi erano gli indagati e perché sono stati scagionati, scrive l'8 febbraio 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama.  Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi "elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio" e così la posizione di 113 indagati nell'inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste. L'ex sindaco Gianni Alemanno, scagionato. L'ex amministratore delegato di Eur S.p.A, Riccardo Mancini, scagionato. E scagionati anche gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell'Anno. Idem per il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Disposta in camera di consiglio la restituzione degli atti al pubblico ministero di Salvatore Forlenza, Salvatore Buzzi, Carminati e Giovanni Fiscon, all'epoca direttore generale della municipalizzata, dell’ex presidente della commissione Bilancio del comune, Alfredo Ferrari e dell’ex consigliere comunale della lista civica “Marino sindaco” Luca Giansanti. L'elenco è lungo, i nomi si sprecano. Le accuse, no. Il blitz era partito nel 2014 con gli arresti delle prime 37 persone. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo ad essere bloccato infatti nell'operazione "Mondo di mezzo" era stato il già citato capo del Clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana, sotto processo per il 416bis, e ora invece scagionato dalla contestazione di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio (come per Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, che erano sospettati di essere a Roma i referenti di Cosa Nostra, oggi salvi). Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra quei nomi c'era anche quello di Gianni Alemanno. In particolare per l'ex sindaco di Roma le accuse erano più di una: corruzione e illecito finanziamento. Ma nei suoi confronti dell'ex sindaco i pm contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, appunto, e quello di aver ricevuto somme di danaro per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, attraverso la fondazione Nuova Italia di cui era presidente. In ballo, 125 mila euro per i fondi illeciti ricevuti tra il 2012 ed il 2014. Alemanno poi avrebbe preso anche 75 mila euro camuffati da finanziamento per cene elettorali, 40 mila euro che gli sarebbero stati erogati per la Nuova Italia, più altri 10 euro ma senza una causale. Ma, se di mafia non si può più parlare, per lui restano ancora in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine per cui andrà a processo a maggio prossimo. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, era saltato fuori invece come indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi risalenti 2011 e nel 2013 e per turbativa d'asta a causa delle dichiarazioni di Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno” a capo anche lui di un’organizzazione di tipo mafioso. Principale imputato nell'inchiesta, Buzzi avrebbe raccontato alla magistratura ciò che c'era dietro il nuovo palazzo della Provincia dell'Eur, ossia che l'amministratore Zingaretti avrebbe acquistato prima della sua costruzione. In archivio alcune accuse anche per Maurizio Venafro, indagato per corruzione, la ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi, indagata per concorso in corruzione, l'ex consigliere comunale della lista Marchini, Alessandro Onorato, anche lui indagato per concorso in corruzione, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, per turbativa d'asta, e per l'ex delegato allo sport della Giunta Alemanno Alessandro Cochi. Nell'elenco dei prosciolti figurano anche i nomi degli imprenditori Luca Parnasi, Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak e Gianluca Ius, e poi Leonardo Diotallevi, figlio di Ernesto, l'allora capo della segreteria personale di Alemanno Antonio Lucarelli e l'ex consigliere di Roma Multiservizi Stefano Andrini. Resta accusato di mafia invece il consigliere regionale di Forza Italia, Luca Gramazio che il gip Flavia Costantini, nell'ordinanza che ha portato al suo arresto nel 2015 sosteneva: "Mette al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione". Niente mafia insomma, o quasi. Perché, come scrive Andrea Feltri su La Stampa, la Piovra che ha stritolato Roma è solo un moscardino.

L'insano sollievo. L'editoriale di Mario Calabresi del 21 luglio 2017 su “La Repubblica". La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa. Quando la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura. Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti. Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali. Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi. Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso. Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura e l’esultanza dei condannati. La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione «semplice». Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi, scrive Giovanni Bianconi il 20 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera".  Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sufficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ’ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all’amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri — parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio — restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia.

Cari giudici di Mafia capitale, è l’ora di rileggere Sciascia, scrive Tommaso Cerno venerdì 21 luglio 2017 su "L'Espresso". «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». Abbiamo risentito la frase italiana per eccellenza: la mafia non esiste. Quella dei tempi d’oro. Quando la politica mangiava con loro e i giornalisti venivano ammazzati. Lo dicono ridacchiando mentre uno ‘Stato cecato’ ha inflitto oltre 280 anni di carcere a un’organizzazione criminale guidata da er Cecato vero, Massimo Carminati. Con una sentenza che ripulisce Roma dal lordume. Fra le risatine di avvocati entusiasti per avere mandato in galera i loro assistiti. Ridono perché questa è una sentenza pesante, ma che mostra una visione vecchia della mafia. E fa sembrare loro dei giuristi. Mentre ripetono quello che i mafiosi dicono dal carcere: la mafia non c’è. Un limite culturale dello Stato. Pur con sostanziali passi avanti rispetto agli anni delle assoluzioni choc, degli indulti a comando. Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Leonardo Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». A distanza di mezzo secolo da questa profezia, il tribunale infligge pene severissime ai criminali che avevano messo le mani su Roma, ma non cancella la parola “Forse” dalla più celebre citazione de “Il Giorno della Civetta”. E la mafia certamente ha ascoltato dalle sue lorde tane e dalle sue latitanze. Perché può stare certa che in un Paese come il nostro, invischiato in decine di scandali e omicidi, attovagliato spesso con loschi figuri, affermare in nome del popolo italiano che non solo non siamo riusciti a sconfiggere le mafie storiche, ma siamo stati capaci di farne crescere una nuova, nel cuore di Roma, già graziata ai tempi della Banda della Magliana, è roba troppo grossa per il nostro Stato. Lo sappiamo da anni. Una cosa buona c’è. L’organizzazione criminale di er Cecato, di quel Massimo Carminati, ex terrorista nero, viene smantellata da una condanna pesantissima. È un passo avanti. Ma non basta. L’organizzazione messa sotto i riflettori dall’Espresso nel 2012, quando Roma faceva finta di non conoscere quel signore che se ne stava seduto in un distributore di benzina facendo piedino a un pezzo di politica di tutti i colori, con lo stesso sguardo immobile che tenne durante il processo Pecorelli al fianco di Andreotti, va dietro le sbarre. Va detta una cosa: in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo mondo di mezzo. Sembra che la giustizia vada avanti, però a piccoli passi. Stavolta le pene ci sono, ma c’è pure l’ennesimo rinvio della grande questione che tiene impalata l’Italia. Siamo in grado di capire che la mafia non porta più la coppola, non usa i pizzini né carica la lupara? Non è facile. Per questo dico senza paura che questa condanna non è il migliore regalo di Stato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’anniversario delle stragi. E ci costringe a rileggere parole che risuonano come una oscura profezia, anche se stentano a prendere vita dentro un’aula di giustizia. La mafia non è un demone, è normalità. Non è sangue, è aria che respiriamo: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Lo scrisse Sciascia, appunto, nel 1957. Quando quei giudici erano bambini o nemmeno erano nati. Lo scrisse in nome suo. Incurante di loro. Prima o poi lo riscriveranno anche i giudici in una sentenza. In nome del popolo italiano. Quello che può vincere contro gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraqua. «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sul giornale gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma». Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961

Non era Mafia Capitale (e qualcuno osò dirlo). Dure condanne ma nessuna conferma del 416 bis. Già nel 2015 Panorama aveva sollevato dubbi sulla coerenza giuridica dell'associazione mafiosa, scrive Maurizio Tortorella il 20 luglio 2017 su Panorama. Fin dal gennaio 2015, quando ormai da un mese in tutte cronache giudiziarie aveva fatto la sua comparsa quel nome impegnativo e sinistro, “Mafia Capitale”, Panorama aveva mostrato qualche perplessità tecnica sulla coerenza giuridica della principale accusa rivolta contro una sequela d’indagati e arrestati nell’inchiesta romana su corruzione e appalti pubblici. Oggi il processo si è concluso in primo grado con dure condanne, ma senza che la decima corte penale del Tribunale confermasse l’accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso.

Quindi non è mafioso il neofascista Massimo Carminati, che pure è stato condannato a 20 anni di reclusione, e non lo è nemmeno Salvatore Buzzi, l’ex ergastolano per omicidio, poi redentosi e divenuto alfiere di alcune cooperative sociali (rosse) che a Roma e circondario facevano affari d’oro con gli immigrati (19 anni di carcere). Tra i condannati, sebbene anch’egli assolto dall'imputazione di mafia, compare anche Luca Odevaine, già capo di segreteria del sindaco Walter Veltroni e poi divenuto responsabile del “tavolo per i migranti”: 6 anni e 6 mesi di reclusione. Adesso, come sempre in questi casi, dovremo aspettare le motivazioni della sentenza per capire dove e perché gli inquirenti hanno sbagliato, o esagerato prospettando una specie di "416 bis alla romana". Certo, oggi tornano alla mente le parole del difensore di uno dei condannati, il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio (11 anni); intervistato da Panorama nell’ottobre 2015, l’avvocato Giuseppe Valentino aveva negato tutte le accuse, ma sull’associazione mafiosa si era inalberato con forza particolare: “Che mafia è quella che non usa le pistole ma il denaro per persuadere e corrompere? Qui c’è tutt’al più un sottobosco romano, un autentico suk, dove pullulano chiacchieroni e millantatori”. È evidente che l'avvocato Valentino almeno su quel punto aveva ragione: di certo, Cosa nostra, la 'ndrangheta e la camorra napoletana, cioè le associazioni mafiose che tutti noi purtroppo conosciamo, usano mezzi intimidatori molto più violenti di quelli utilizzati dagli imputati di Mafia Capitale. Ma oggi, dopo l'assoluzione da quell'accusa, tornano alla mente anche i fischi con i quali alcuni giornali-bandiera del populismo giudiziario avevano accolto quanti (su Panorama, ma anche sul Foglio o sul settimanale Tempi) a suo tempo mostravano perplessità per l’ipotesi “mafia a Roma”. Contro chi aveva osato scrivere che “l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non può essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo…”. Nessuna polemica. Leggeremo le motivazioni. Solo il tempo di ricordare che in un altro primo grado, il 3 novembre 2015, c’era stata una sentenza anticipata, pronunciata in uno stralcio di processo per un imputato minore della grande inchiesta Mafia Capitale: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, era stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per entrambi i reati. In quel caso, i giornali-bandiera di cui sopra avevano brindato alla condanna, sbeffeggiando i garantisti d'accatto che si ostinavano a non vedere quanta mafia ci fosse nell'inchiesta. Gammuto era stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi imputati perché aveva scelto la formula del procedimento abbreviato. E la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) era parsa confermare in pieno l’impianto accusatorio. Invece, lo scorso gennaio, in Corte d’appello Gammuto era stato assolto dal 416 bis. Si vedrà per tutti in Cassazione. Si vedrà anche se domattina, su certi giornali-bandiera, la sentenza della decima sezione penale di Roma verrà "rispettata e non criticata": sarebbe una delle auree (ed eccessive) leggi del populismo giudiziario. Ma si sa come finiscono certe cose...

L'eroe della sesta giornata. Mafia capitale e quegli esponenti del Pd rimasti immobili di fronte a anni di malaffare, scrive Giorgio Mulè il 12 dicembre 2014 su Panorama. Non ho letto tutti i documenti giudiziari a sostegno dell’operazione Mafia capitale. Ne ho letti a sufficienza, però, per farmi un’idea piuttosto circostanziata della vicenda. Dirò subito che, avendo compulsato decine di ordinanze di custodia cautelare su Cosa nostra, mi lascia molto perplesso l’attribuzione del marchio di mafia ai soggetti arrestati o indagati. Ci sono alcune vicende che fanno a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un’organizzazione sovrapponibile a Cosa nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani: a Roma, secondo quanto contestato nei capi di imputazione, ci sono presunti boss che si agitano per recuperare due assegni scoperti da 300 e 600 euro, addirittura colui che si vorrebbe come braccio destro di Massimo Carminati mette su un putiferio per far saldare un debito da 670 euro. Ora, va bene che c’è la crisi e siamo disposti a credere che il quartier generale di Mafia capitale sia presso un benzinaio, però c’è anche un minimo di dignità criminale da salvaguardare se bisogna dar retta alle stime che indicano in oltre 10 miliardi il fatturato di Mafia spa: insomma, Leoluca Bagarella (braccio destro di Totò Riina) non rischiava di finire in galera e sputtanare la "famiglia" per 670 euro, suvvia. L’avrebbero ucciso i suoi stessi compari per questa leggerezza. Transeat, i tempi cambiano e magari sono io a dovermi aggiornare. C’è però un punto del ragionamento degli inquirenti che mi appare così debole da non poter credere che abbia avuto l’avallo di una toga espertissima come il procuratore Giuseppe Pignatone. I magistrati sostengono infatti che Mafia capitale sia una sorta di gemmazione della Banda della Magliana, la stessa finita al cinema e in televisione con la superba trasposizione di Romanzo criminale. Ma stabilire in un atto giudiziario alla base di decine di arresti un nesso diretto tra lo share e la realtà significa conferire alla fiction carattere di verità oggettiva, il che a mio giudizio è una follia oltre che un pericolosissimo vulnus in sede di valutazione degli indizi da parte dei giudici. Eccoci a pagina 33 dell’ordinanza di custodia cautelare: "Il collegamento con la Banda della Magliana è, infatti, solo uno degli elementi su cui si fonda la forza di intimidazione della organizzazione che ci occupa (Mafia capitale, ndr), che si avvale di quella derivazione come strumento di rafforzamento della caratura e della immagine criminale dei suoi associati, sfruttando anche il 'successo mediatico' di quella organizzazione, successo che ne ha indubitabilmente sancito, almeno nell’immaginario collettivo (che però è ciò che conta in questo tipo di delitti), il carattere di mafiosità". Dopo aver letto questo ragionamento, per assurdo, un pubblico ministero particolarmente su di giri potrebbe perfino formulare un’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di sceneggiatori, registi e attori di Romanzo criminale che con la loro opera avrebbero dato un contributo occasionale a questa Cosa nostra all’amatriciana. Sopportata questa dissertazione giuridica, è il caso di fare altre considerazioni intorno alla vicenda. I reati contestati, i soggetti coinvolti e le dimissioni a catena seguite all’esplosione degli arresti all’interno della giunta di Roma imporrebbero un atto unilaterale di dignità politica da parte del sindaco Ignazio Marino: le dimissioni. Perché è questa l’unica strada percorribile rispetto all’ipotesi accusatoria (difficile da smontare in quanto a ruberie e deviazioni finanziarie) secondo la quale Carminati & c. facevano il bello e il cattivo tempo all’interno del Comune di Roma contando perfino sull’asservimento del funzionario che il sindaco aveva voluto come cerniera con il commissario Anticorruzione. Intendiamoci, sarebbe possibile anche uno scioglimento d’autorità da parte del ministero dell’Interno. A scorrere i decreti che dal Piemonte alla Sicilia hanno portato in un recentissimo passato a spazzare via giunte e consigli comunali senza tenere minimamente conto della presunzione di innocenza, non si comprende in verità come e perché Roma dovrebbe godere di un regime specialissimo di valutazione degli indizi. In realtà lo sappiamo perfettamente ed è questione squisitamente politica. Di opportunismo politico, meglio. Come potrebbe mai il Pd di Matteo Renzi accettare questo schiaffo planetario? Siamo alle comiche, ne converrete: c’è un sindaco che fino al momento della grande retata era bollato (giustamente) come inadeguato dai massimi dirigenti del suo partito, il Partito democratico, al punto da essere stato commissariato su due piedi. Scoppiata la bufera, pur di tenerlo in vita e non andare a elezioni, lo stesso Pd ha la faccia tosta di commissariare il commissario con un nuovo commissario. Inarrivabili. D’altronde ci tocca vivere il tempo degli eroi della sesta giornata, quello in cui – ricordate le Cinque giornate di Milano? – gli opportunisti mostrano il petto accaparrandosi meriti che non hanno. Come Marino, appunto. E come Renzi, il quale, pur di non prendere atto del fallimento di un partito che non ha saputo rifondare dal Veneto alla Sicilia, butta la palla altrove. Sarà allora arrivato il momento, dopo aver letto le malefatte contestate a Roma al cooperatore Salvatore Buzzi così coccolato dall’ex capo della Lega delle cooperative e attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di accendere un faro in tutta Italia sul business della misericordia sociale. E cioè su questo enorme calderone in cui – nel nome di un fine nobile come l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza dei nomadi o il reinserimento dei detenuti – le coop la fanno da padroni. Si verifichino le convenzioni, le procedure di appalto, i contributi elargiti alle feste di partito e a manifestazioni di "impegno sociale". Il Pd si è dimostrato incapace di fare pulizia al suo interno nonostante sei mesi fa Renzi avesse invitato i suoi a denunciare il malaffare, a "salire i gradini dei palazzi di giustizia". La verità e che in quei palazzi molti esponenti del Pd i gradini li salgono, ma solo dopo che il malaffare è stato scoperto. E spesso per rispondere ad accuse gravissime. Infamanti, direi. Non solo per un partito, ma per una intera classe politica. 

Mafia Capitale non esiste: e questa è la condanna senza appello per la politica romana. E così scopriamo che la politica romana è stata messa sotto scacco non dalla versione romana del Padrino, ma da una banale associazione di trafficoni. Serviva la procura per fermarli? O bastavano occhi aperti e un po’ di coraggio? Ci fossero stati, forse Roma non sarebbe nello stato in cui è ora, scrive Flavia Perina il 21 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Approfitta dei tassi più bassi dell'estate. Tuffati nell'offerta speciale che celebra i 40 anni di Mercedes-Benz Financial: TAN fisso di 0,90% o 1,90%, TAEG variabile a seconda del modello e un anno di RC Auto incluso.... Adesso lo sappiamo per sentenza: era Febbre da Cavallo, non il Padrino. E così, il verdetto di primo grado al processo di Mafia Capitale (che d'ora in poi converrà chiamare Non-Mafia Capitale) ha tra i suoi primi effetti collaterali la necessità di riconsiderare il rapporto tra la città di Roma, i principali partiti cittadini e le bande affaristiche che si muovevano (si muovono?) negli uffici capitolini. Qualificare queste bande come “mafia” ha salvato, in qualche modo, tutti quelli che a vario titolo si sono distratti davanti ai traffici di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La mafia è cattivissima, la mafia uccide, contro la mafia fior fiore di classi dirigenti si sono squagliate perché nessuno è tenuto ad essere eroe: naturale che alti dirigenti, signori delle tessere, persino sindaci, a Roma come in passato a Palermo, si siano girati dall'altra parte e abbiano fatto finta di non vedere per non trovarsi – chissà – un Luca Brasi alla porta. Ma se non era mafia, se erano solo Mandrake, Er Pomata e Manzotin, il discorso cambia. Ed è molto più difficile spiegare perché ci siano voluti i magistrati per levare di mezzo questa ordinaria, banale associazione di trafficoni, provocando il terremoto che sappiamo. Non erano così spaventosi e minacciosi, quelli di Non-Mafia Capitale. E nemmeno così ricchi da potersi permettere le famose offerte “che non si possono rifiutare”. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” (98 milioni in dieci anni, tra il 2003 e il 2013) con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per un solo filone degli scandali milanesi di Expo, l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro ha denunciato la richiesta di un milione e duecentomila euro di mazzette (poi ne versò 600mila). Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Insomma, Mandrake, Er Pomata e Manzotin, all'approdo del processo di primo grado, non solo risultano poco temibili ma anche piuttosto modesti nelle loro possibilità corruttive. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Ora che il tribunale ci ha restituito nelle giuste proporzioni il ritratto delle bande affaristiche del Comune di Roma, due sono le considerazioni. La prima riguarda la Procura romana che ha perseguito fino in fondo la “pista mafiosa”, e la scansiamo: ne parleranno altri, più esperti in questioni giudiziarie. La secondachiama in causa il sistema politico capitolino, tutto, la destra, la sinistra e pure il M5S, perchè le redini di questa città negli anni d'oro della coppia Buzzi&Carminati le hanno tenute tutti, da posizioni di governo o di opposizione, e col senno di poi è naturale chiedere: ma davvero vi siete fatti mettere nel sacco da questi? Davvero serviva la Procura per fermarne, o quantomeno denunciarne, i modesti traffici? Siete scemi o cosa? La città ha pagato un prezzo altissimo per lo scandalo e tutto ciò che ne è seguito. Il commissariamento del Pd, la fuga di molti suoi militanti disgustati, e dall'altra parte lo sputtanamento della destra con un analogo distacco di chi ci aveva creduto, il suo declino elettorale, l'eclissi politica di uno come Gianni Alemanno, che pure in città contava qualcosa. E poi, i nove mesi di calvario di Ignazio Marino, i cui uffici furono devastati dall'indagine e dagli arresti. L'imbarbarimento del confronto politico in città, la revoca della fiducia al sindaco da parte della sua maggioranza, il caos che ne è seguito con la parallela e inarrestabile ascesa del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto proporsi come unica forza di moralizzazione in una Capitale che a un certo punto sembrava la Palermo di Ciancimino, o la Miami di Scarface. Non era vero. Era la solita Roma di sempre. La Roma dei «politici pezzenti», come Vittorio Sbardella chiamava i sottopanza che si sporcavano direttamente le mani con gli affari. La Roma del «Fra' che te serve», nella geniale sintesi di Franco Evangelisti, che pre-esiste a qualsiasi formula di governo cittadino e che è stata il sottotesto inespresso di ogni amministrazione. La solita Roma nella sua versione più basic, più elementare, la «mafia del benzinaro» come ha detto Massimo Carminati in aula, con il modesto potere di scambio di qualche spiccio per la campagna elettorale, di qualche centinaia di tessere comprate per vincere un congresso. Che la destra e la sinistra capitoline non siano riusciti a fermare neanche questi modesti delinquenti, a liberarsene, a tenerli nella regola in qualche modo, fa cadere le braccia. Per molti versi, sarebbe stato più consolatorio immaginarle distrutte da Don Vito Corleone piuttosto che da Er Pomata.

«Sì, li condanniamo, però non era mafia», scrive Simona Musco il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio".  L’ex sindaco Marino attacca: “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Ma Orfini: “Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”.

IL PROCESSO. Non c’era mafia a Roma, ma solo due associazioni a delinquere che si sono presi la città con corruzione e malaffare. Il processo “Mafia Capitale” dunque regge a metà: 41 le condanne e cinque le assoluzioni, ma con l’esclusione del metodo mafioso, quello che ha dato il nome all’intero processo. Il calcolo finale delle pene dimezza così il complessivo chiesto in aula dai magistrati. Quelle più alte sono andate ai due protagonisti dell’inchiesta: Massimo Carminati, l’ex Nar, condannato a 20 anni, contro i 28 chiesti dall’accusa, e Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, condannato a 19 anni a fronte dei 26 richiesti. L’ex vicepresidente della sua cooperativa, la “29 giugno”, Carlo Guaray, per il quale avevano chiesto 19 anni, è stato condannato a cinque. Il X collegio penale presieduto da Rossana Ianniello ha iniziato a leggere la sentenza alle 13, dentro un’aula bunker stracolma di giornalisti, dopo una camera di consiglio durata 4 ore. In aula anche i parenti degli imputati, assiepati dietro la ringhiera. Il grande assente, poi definito dai legali lo «sconfitto», è stato il procuratore capo Giuseppe Pignatone. A presidiare l’aula c’erano i tre pm che hanno condotto le 240 udienze, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Dieci minuti prima della lettura della sentenza è toccato agli imputati fare l’ingresso in aula, sistemati nei gabbiotti numerati dall’ 1 al 4. Alcuni sono rimasti seduti, altri appesi alle sbarre con lo sguardo fisso sull’altare di legno dal quale poco dopo sono spuntati i giudici. Non è un mafioso, dunque, Massimo Carminati, ma un «delinquente abituale». Per lui, a pena espiata, il tribunale ha stabilito l’affidamento ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per almeno due anni. Nel frattempo gli sono stati confiscati i beni: dai gemelli d’oro custoditi in casa, alle opere d’arte, ma soprattutto le armi, una katana, due machete e un’accetta. Le condanne sono arrivate anche per i politici coinvolti: sei anni – due in più rispetto alla richiesta – per Mirko Coratti (Pd), ex presidente del consiglio comunale di Roma ed esponente; 11 anni per Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl; 10 anni a Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, otto per Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale; cinque ad Andrea Tassone (Pd), ex presidente del municipio di Ostia. Assolti, invece, Giovanni Fiscon, ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, Giuseppe Mogliani, Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo. «La mafia a Roma non esiste», ha sentenziato il legale di Carminati, Bruno Giosuè Naso. «C’è stata una severità assurda: non si è mai visto che su 46 imputati nemmeno uno meriti le circostanze attenuanti generiche. Sono quindi delle pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato rivolto alla Procura – ha affermato – Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi». E la sconfitta, in parte, l’ha ammessa anche l’aggiunto Ielo. «È una sentenza che in parte ci dà torto, per quanto riguarda la qualificazione giuridica, ed in parte riconosce la bontà del nostro lavoro – ha detto – La sentenza riconosce l’esistenza di un’associazione a delinquere semplice ed aggravata. È stato un fenomeno di criminalità organizzata ma non di tipo mafioso. Sono state riconosciute due distinte organizzazioni criminali che non avevano però il carattere della mafiosità. Ma la dinamica della delusione non appartiene a chi fa il mio mestiere». L’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con Carminati. Più soddisfatto, invece, Buzzi. «Ora quando esco? questo il suo primo commento Mi auguro che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire». La sentenza ha certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Buzzi. «Credo che oggi Buzzi sia stato creduto perchè altrimenti certe condanne che si basano esclusivamente sulle sue dichiarazioni il Tribunale non le avrebbe potute fare. Per questo motivo credo che la Procura debba rifare da capo il processo al “mondo di mezzo”. Abbiamo dato una grande lezione alla Procura che ha investito tutto sul 416 bis impedendo di accertare le corruzioni in questa città».

LE REAZIONI.

MARINO – “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Lo dice l’ex primo cittadino di Roma, Ignazio Marino in un’intervista alla Stampa. “Contro di me – spiega – ci fu una convergenza opaca di interessi. Non so se qualcuno abbia voluto o tentato di condizionare la magistratura. Ma so che i giudici non sono condizionabili”. Marino quindi si lascia andare a un giudizio ultimativo sul Pd: “Soffro per l’agonia a cui è sottoposto il partito che ho contribuito a fondare. Oggi mi sembra difficile dire che il Pd renziano esista ancora”.

ORFINI – “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perchè Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. A scriverlo in un articolo pubblicato sul sito della rivista Left Wing è Matteo Orfini, presidente del Pd. “Basta fare una passeggiata in centro e contare i ristoranti sequestrati perchè controllati dalla mafia. Basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica. Basta leggere le cronache per trovare la mafia ovunque”, aggiunge. “Ma quella di Carminati non è mafia, dice il processo. Vedremo cosa stabiliranno i prossimi gradi di giudizio, ma come scrissi mesi fa, cambia davvero poco. A Roma la mafia c’è e ha dilagato usando la corruzione come grimaldello. Oggi Roma è gestita da più clan che hanno evidentemente trovato un equilibrio tra di loro e si sono spartiti la città. A chi ha iniziato a sgominare questo sistema bisogna solo dire grazie, soprattutto se si pensa che in passato la procura di Roma era nota come il “porto delle nebbie”. Farebbe piacere anche a me – continua Orfini – poter dire che la mafia a Roma non c’è. Ma sarebbe una bugia. Io sono orgoglioso di essere romano. Ed è proprio l’orgoglio che mi fa dire che – di fronte a quello che oggi è diventata Roma – bisogna reagire e combattere, non affidarsi a tesi di comodo. Roma non è stata umiliata da chi indaga. Roma è stata umiliata da chi l’ha soggiogata. E da chi non ha saputo impedirlo. Invertire l’ordine delle responsabilità significa continuare a tenere gli occhi chiusi”, conclude.

RAGGI – “Quello che la sentenza ha comunque accertato è che c’è stato un pesantissimo e intricatissimo sistema che per anni ha tenuto sotto scacco la politica. Questo significa che quando parlo di bandi, di seguire le procedure di legge, vuol dire andare verso un nuovo corso, quello che i cittadini ci hanno chiesto. Io non vedo altra strada se non quella di continuare in questa direzione”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi interpellata a margine di una conferenza stampa torna a commentare la sentenza di ieri sul processo “Mafia Capitale” che pur infliggendo pesantissime condanne per corruzione ha escluso l’associazione mafiosa, mantenendo l’associazione semplice.

Roberto Saviano, dito medio a chi lo insulta, scrive il 22 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dito medio agli insulti e un consiglio: "Se vi infastidiscono le mie parole state alla larga da questa pagina. Non sarà insultando che mi ridurrete al silenzio". Così Roberto Saviano in un post su Facebook risponde a chi lo attacca e a chi vuole metterlo a tacere. "Se parlo di Napoli, meglio che stia zitto. Se parlo di infiltrazioni mafiose al Nord, meglio che parli di Napoli. Se parlo di riciclaggio a Londra, meglio che parli di Italia. Se parlo di una parte politica, ma non parli mai degli altri? Più mi invitate al silenzio, più capisco di colpire nel segno, di centrare il bersaglio". E poi c'è chi è convinto che io non capisca ciò che accade perché non vivo più a Napoli, perché non vivo più in Italia. Vivrei, invece, come dice un senatore di Ala, in un attico a Manhattan. Triste constatazione: alla politica si dà ormai credito solo quando diffonde bufale".  "Ed ecco quindi un messaggio chiaro e inequivocabile per chi mi insulta - prosegue lo scrittore - mi dispiace, perdete il vostro tempo. Continuerò a studiare, ad analizzare, a mettere insieme tasselli e a farne un racconto comprensibile (soprattutto) per i non addetti ai lavori. Perché è questo il mio obiettivo: condividere ciò che imparo".

Saviano critica se le sentenze non sono le sue, scrive Annalisa Chirico, Sabato 22/07/2017, su "Il Giornale".  Sgombriamo il campo dagli equivoci: il tribunale non dice che Roma è la culla della legalità, che Carminati e Buzzi sono due stinchi di santo; né le toghe ritengono che le soavi minacce al telefono fossero una candid camera per burlarsi dei poliziotti all'ascolto, che mattacchioni. La verità è che le decisioni dei giudici paiono incontestabili quando coincidono con le proprie opinioni e attese, possono essere invece aspramente criticate quando contrastano con il nostro dover essere della giustizia. Se ne faccia una ragione Roberto Saviano il quale replica alla sentenza che ha condannato gli imputati di Mazzetta capitale (Mafia, non scherziamo) annullando l'imputazione dell'associazione mafiosa. Eppure la speculazione a uso e consumo dei mafiologi nostrani prosegue, del resto sulla mitologia mafiosa si costruiscono lucrose carriere. Saviano paragona la Roma, covo di cravattari e corruttori, alla Palermo delle stragi mafiose che trucidarono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e numerosi altri uomini dello Stato. Ma se tutto è mafia, nulla è mafia. «A Roma la mafia non esiste. Anche a Palermo non esisteva», cinguetta su Twitter lo scrittore napoletano. Come se non bastasse, l'autore di Gomorra, che vive sotto scorta, si spinge fino ad auspicare una modifica della stessa fattispecie criminosa: «È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Ecco il Saviano legislatore che dà consigli al Parlamento per adattare la legge dello Stato alle sue personali convinzioni, e nel far ciò, senza sprezzo per il ridicolo, egli finge di non sapere, o forse non sa. C'è da sperare che il Saviano pensiero non contempli la retroattività della legge penale, ma soprattutto vorremmo sapere se nei suoi auspici il progetto rivoluzionario comporterebbe pure l'introduzione di una nuova fattispecie: la mafia etnica senza mafiosità. Ponendo la questione in termini di appartenenza geografica, come se i giudici smentissero l'aggravante mafiosa per una pura circostanza di accento siculo o calabrese mancante, Saviano auspica che i nuovi confini del metodo mafioso siano definiti su base linguistica. Sono mafiosi pure i romani doc, brianzoli e venessiani chi lo avrebbe mai detto. Nessuno nega che la ndrangheta si sia radicata saldamente a Roma come a Milano, ma la sconfitta della procura capitolina nasce dalla ostinata volontà, questa sì fallace, di dimostrare l'esistenza di una Cupola all'ombra del Cupolone, retta da er Cecato, vertice di un sistema fondato non su sangue e violenza, intimidazione e sacralità associativa, ma sulla elargizione di mazzette. Corrotti e mafiosi non sono sinonimi.

Pignatone non si arrende: “A Roma la mafia c’è…”, scrive il 22 luglio 2017 "Il Dubbio". Il procuratore capo parla dopo la sentenza di Mafia Capitale: “Non è vero che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico della città”. “Non ho cambiato idea questa notte: a Roma le mafie esistono e lavorano incessantemente nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio di capitali illeciti, nell’usura”. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone torna a parlare dopo la sentenza di Mafia Capitale. Un giudizio che ha confermato il ruolo di Buzzi e Carminati nella gestione della corruzione escludendo però l’aggravante mafiosa. Nella sua intervista a Repubblica il procuratore capo di Roma ribadisce quindi che l’associazione criminale di Buzzi e Carminati tornerebbe a qualificarla come mafia”. Pignatone da un lato ammette la “sconfitta”, data dal non riconoscimento da parte dei giudici del 416 bis, l’associazione mafiosa, dall’altro però sottolinea che “la sentenza ha riconosciuto che a Roma ha operato una associazione criminale che si è resa responsabile di una pluralità di fatti di violenza, corruzione, intimidazione” e che l’indagine della procura romana “ha svelato un sistema criminale capace di infiltrare il tessuto amministrativo e politico della città fino al punto di avere a libro paga amministratori della cosa pubblica”. E l’intera inchiesta non è stata “una fiction”. Il procuratore capo respinge le semplificazioni giornalistiche che sono seguite alla sentenza: “Dire che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico degli eventi a Roma, che abbiamo esposto la città al ludibrio del mondo, significa attribuirci un uso politico della giustizia penale che non abbiamo in alcun modo esercitato. Non penso che debba rispondere il mio ufficio di chi ha usato politicamente i fatti che la nostra inchiesta ha fatto emergere”. Pignatone sottolinea inoltre che Roma “ha un’emergenza altrettanto grave, se non più grave della mafia: e sono la corruzione e i reati economici. Noi trattiamo bancarotte per centinaia di milioni di euro; frodi all’erario ed evasioni fiscali per miliardi. E su questo vorrei fosse chiaro a tutti che il mio ufficio non accetta ne’ intende rassegnarsi all’idea che tutto questo sia normale. Faccia parte del paesaggio, addirittura ne sia componente necessaria”. Chiarito che dire ‘Mondo di Mezzo’ (il nome dell’inchiesta, ndr) è mafia ma non equivale a dire che Roma è mafia, perchè un’affermazione simile sarebbe “assurda”, Pignatone aggiunge che comunque “il problema mafia esiste ed esiste da tempo. Basterebbe ricordare che sulla mafiosità della Banda della Magliana esistono due sentenze della Cassazione che giungono a conclusioni opposte. E comunque in questi anni passi avanti nella consapevolezza che la mafia non sia solo un fenomeno meridionale ci sono stati in tutta Italia. Anche a Roma”.

Mafia Capitale, lite tra Abbate e avvocato di Carminati. Mentana: “È adrenalina da sentenza”, scrive il 21 luglio 2017 "Trendinitalia". Polemica al calor bianco a Bersaglio Mobile (La7) tra Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, e Ippolita Naso, avvocato difensore di Massimo Carminati. La legale accusa Abbate di essere “ossessionato” dall’ex Nar. Il giornalista sorvola e racconta il colpo messo a segno da Carminati nel 1999 al caveau della Banca di Roma all’interno del Palazzo di Giustizia, con la complicità di quattro carabinieri corrotti. Ma Naso lo interrompe: “Non è così, sono stati i carabinieri ad aver organizzato il furto e hanno chiesto aiuto a Carminati, perché non erano in grado di farlo da soli. Quindi, si sono rivolti ai “cassettari” romani. Sta dando dati errati. Lo vede che non si legge le carte processuali?”. “Ma non è così! Questo lo racconti ai ragazzini! Lei rilegga bene le sentenze e tutte le carte”, ribatte Abbate. E a intervenire è Enrico Mentana, che, scettico, chiede all’avvocato: “Ma questi carabinieri come hanno trovato Carminati? Sulle Pagine Gialle?”. Abbate spiega che il furto fu organizzato su commissione perché richiesto da alcuni avvocati per ricattare dei magistrati romani. Ma l’avvocato di Carminati ribadisce: “Lei sta calunniando dei magistrati romani”. “E’ tutto scritto nelle carte” – replica il giornalista – “Se dico una falsità, lei ha tutti gli strumenti penali per ricorrere nei miei confronti”. “No, non ne ho bisogno”, risponde Naso. Abbate poi si sofferma sul teste Roberto Grilli, che, per paura di Carminati, ritrattò durante il dibattimento la propria testimonianza resa nella fase preliminare. “Quello che dice mi conferma che non legge le sentenze di cui poi parla”, commenta, piccata, Ippolita Naso. “Invece le sue parole mi confermano che, quando il suo cliente minaccia di spaccarmi la faccia, lei non ha mosso un dito”, controbatte Abbate, che fa riferimento alle note telefonate intercorse tra Carminati e al suo braccio destro, Riccardo Brugia. In quell’occasione, l’ex terrorista dei Nar, infastidito da un articolo pubblicato nel 2012 da Abbate, si sfogò: “Non so chi è sto Lirio Abbate, infame pezzo di merda. Se lo trovo gli fratturo la faccia”. Naso insorge e accusa il giornalista di essersi procurato le intercettazioni delle conversazioni tra lei e Carminati: “Le conversazioni tra me e il mio cliente lei non le avrebbe dovute neanche leggere, le ha lette perché forse qualche suo amico carabiniere gliele ha date. Lei ha fatto un autogol clamoroso”. E ripete più volte: “Si vergogni”. Abbate ribatte: “Veramente le telefonate tra lei e il suo cliente sono rimaste coperte dal segreto. E’ lei che è caduta nella trappola. Lei sa benissimo che non sono come voi che “ho qualcuno”. Si vergogni lei”. A sedare la bagarre è Mentana che osserva: “Io capisco che c’è l’adrenalina da sentenza, ma Lirio Abbate non ha certamente ascoltato le telefonate tra lei e il suo cliente”.

I lapsus del giornalismo embedded, scrive Valerio Spigarelli il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Certe volte, nella cronaca giudiziaria, la fantasia supera la realtà, nel senso etimologico del termine. Quel che è avvenuto oggi, prima durante e dopo la lettura della sentenza che ha stabilito, per ora, che Mafia Capitale è un esperimento giudiziario andato male, nella migliore delle ipotesi – o un bluff sostenuto proprio da una stampa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo, nella peggiore – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Vediamo i fatti. Attorno alle 9,30, il collegio del Tribunale di Roma si ritira in camera di consiglio indicando per le ore 13 il momento in cui leggerà il dispositivo della sentenza. Per i giudici non c’è mafia per Rai e Ansa invece sì. L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’ANSA, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve takesubito ripreso da molte testate dal titolo shock “MAFIA ROMA: CARMINATI CONDANNATO A 28 ANNI”. Il testo specificava “Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana”. La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: “avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita” “certamente hanno parlato con qualcuno” “forse hanno visto una bozza del dispositivo” “chi sarà la talpa?”. I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria – cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) – subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza – di suo comunque non troppo elegante – che al seguito dei procuratori si è presentato il ROS che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sottocapo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: “se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘sto giornalista dice la verità!” è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia ANSA dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di “annullare la notizia” in quanto “andata in rete per errore”, i commenti preoccupati si acquietano: “figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte”. I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. “Spiacevole, sì” – pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto – anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice LA PROCURA DI ROMA SMENTITA etc etc”. Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: “Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta” dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice “scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato”!. E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, “spiacevole incidente”, “scusa Ameri mi dicono che non è gol”. Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: “la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso”. E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia “vera” ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella “notizia”, su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente “una balla” e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo?

Massimo Carminati, il non-boss della non-mafia, scrive Paolo Delgado il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Di “materiale” contro l’ex Nar ce n’è in abbondanza, ma del tutto insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e presentarlo come un capo clan. No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato. In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile. Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”. I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss. La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979. Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio. Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”. Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.

Vi racconto la vera storia di Salvatore Buzzi, scrive Lanfranco Caminiti il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". In carcere fondò la 29 giugno, cooperativa nata per il recupero dei detenuti. E lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Salvatore Buzzi è un criminale italiano. Dice così Wikipedia, e nella sua laconicità sembra non possa restare altro da dire. Eppure, d’essere «un criminale italiano», lo si potrebbe dire d’uno qualunque delle migliaia di detenuti, senza che la cosa faccia una piega. A Buzzi invece, Wikipedia resta stretto. È il 29 giugno 1984. I giornaloni italiani parlano della sinistra socialista all’attacco ma senza dichiarare guerra a Craxi; di un’intervista dell’onorevole Tina Anselmi in cui parla delle trame della P2 che fanno pensare al fascismo; di mille miliardi stanziati in Parlamento per ristrutturare in cinque anni gli aeroporti di Fiumicino e della Malpensa; del giallo del Dams, a Bologna, in cui è stata orrendamente assassinata, un anno prima, Francesca Alinovi critica d’arte emergente; dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, ritiratosi da mesi dall’attività politica, che ha preso la parola al Bundestag per presentare un suo progetto sull’Europa. Non parlano di carcere. Nessuno scrive di carcere. «Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna». È il 29 giugno 1984, e questo è il titolo del convegno a Rebibbia. A ascoltare Salvatore Buzzi parlare del recupero di chi ha sbagliato ma non deve essere dimenticato ci sono sul palco il sindaco di Roma Ugo Vetere, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e Nicolò Amato, direttore generale delle carceri. C’è lo Stato, insomma. In pompa magna. Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. 29 giugno 1984. Quel fatidico convegno. La prima cooperativa di detenuti in Italia (e già Buzzi era stato il primo detenuto a laurearsi in cella: Lettere e filosofia, tesi su Vilfredo Pareto, 110 e lode). Un fiore all’occhiello, quella cooperativa, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è stata al centro dell’indagine giudiziaria più comunemente nota come Mafia-Capitale. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, poi deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione Lazio, vita natural durante. Ruolo centrale per la destinazione di congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del Lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega. Buzzi non viene dalla strada, non era un delinquentello di quartiere, anche se è nato alla Magliana, che ha imparato presto la dura legge della vita – mangia o sarai mangiato – e che è progressivamente cresciuto di rango e di reato. È figlio di una maestra e di un grande invalido: a vent’anni è già in banca a lavorare. È un mestiere d’oro, in quegli anni, il lavoro in banca: si guadagna tanto, rispetto i salari medi, un sogno. Ci facevano le canzoni, i nostri cantautori, per dire di come ci si potesse vendere l’anima, di come ci si potesse ridurre in mezzo a quel fiume di denaro. Ma per Buzzi le cose non sono esattamente così: in quel tenore di vita ci sguazza, anzi prova a accrescerlo con qualche “manovrina”. Un gioco di assegni rubati che passa a un pischello di vent’anni ma già svelto di mano e d’ingegno: solo che il pischello si mette a ricattarlo – quella macchinona di Buzzi, come avrà fatto a comprarsela? E tutti quei regali e quelle cene con la giovane brasiliana, come può permettersele? I due si incontrano per un chiarimento definitivo, il pischello ci va armato – almeno è così che la racconta poi Buzzi – una colluttazione, e Buzzi che colpisce e colpisce e colpisce. Trentaquattro coltellate, risultano tante quando le contano. Una storiaccia. Pena complessiva: anni 14 e mesi 8 di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. È il 26 giugno 1980. Tre anni dopo, si laurea. E un anno dopo organizza il convegno di Rebibbia. Deve avere del sale in zucca, Buzzi, oltre a essere «un criminale italiano». Per capire il convegno di Rebibbia e tutto quello che venne dopo bisogna capire cosa succedeva dentro le carceri negli anni Ottanta del secolo scorso. Una massa di detenuti politici (che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, ci fu un parlamentare, uno spirito cattolico inquieto e fermo, che riuscì a ribaltare il punto di vista: si chiamava Mario Gozzini. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. C’era tutta un’area di detenuti politici – quelli dell’Area omogenea di Rebibbia, che cercavano di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/ Stato – che si incontravano con parlamentari di vario segno politico, producevano documenti per convegni, ragionavano sulle possibilità di “socializzare il carcere”. Gozzini non voleva «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, piuttosto puntava a dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa. E così, la Gozzini (legge 10 ottobre 1986, numero 663), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. È nella formazione di questo quadro normativo e istituzionale che nacque la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi. Lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Il resto è cronaca giudiziaria e politica.

Mafia Capitale, storia e protagonisti del "Mondo di mezzo". Le tappe e i protagonisti dell'inchiesta su Mafia Capitale che ha scoperchiato il "Mondo di mezzo" della politica romana, scrive Giovanni Neve, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in 20 mesi; 46 imputati, molti dei quali accusati di associazione di stampo mafioso e ancora in carcere (da Massimo Carminati al 41 bis detenuto a Parma, a Salvatore Buzzi nella struttura di massima sicurezza a Tolmezzo); 80mila intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte; 10 milioni di carte e altri 4 milioni di pagine di brogliaccio. Sono questi alcuni numeri del processo Mafia Capitale che si è concluso oggi con la sentenza di primo grado. Queste le tappe più significative:

2 dicembre 2014 - 37 persone arrestate (28 in carcere e 9 ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso: sono i primi risultati dell'operazione Mondo di Mezzo, poi mediaticamente denominata Mafia Capitale. La Procura ritiene che negli ultimi anni nella capitale e nel Lazio abbia agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari (leciti e no) con imprenditori collusi e con la complicità di dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici di ambo gli schieramenti, per il controllo delle attività economiche e per la conquista degli appalti pubblici. Lunga la lista dei reati contestati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione - secondo chi indaga - sono il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra, Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti".

4 giugno 2015 - Nuova ondata di arresti per Mafia Capitale: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l'ennesimo terremoto. Ancora una volta, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell'ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all'alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa anche esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra (al Comune e alla Regione Lazio), risultati a libro paga dell'organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo (business degli immigrati 'in primis') e si aggiudicava i migliori appalti (tra i quali punti verde e piste ciclabili). In carcere finisce anche Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale e poi in Regione: è ritenuto il volto istituzionale di Mafia Capitale per aver messo le sue cariche al servizio del sodalizio criminoso con cui avrebbe elaborato "le strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione".

5 novembre 2015 - Comincia il processo davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula "alla luce dell'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati".

7 febbraio 2017 - Finiscono in archivio le posizioni di 113 indagati su 116 coinvolti nel procedimento stralcio di Mafia Capitale per imputazioni più o meno residuali, rispetto al processo principale. Accogliendo le richieste avanzate dalla Procura di Roma nell'agosto 2016, il gip Flavia Costantini ha firmato il decreto di archiviazione con un provvedimento di 82 pagine che riguarda esponenti della politica, imprenditori, professionisti, ex militanti di destra e amministratori. Molti di loro, però, sono già a giudizio (o sono stati già processati) per altre imputazioni. Due i motivi principali che hanno spinto il giudice ad accogliere l'impostazione della Procura: per alcune posizioni, "le indagini sin qui portate avanti non hanno consentito di individuare elementi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio"; per tutte le altre, non sono state riscontrate o ritenute credibili le dichiarazioni accusatorie fatte da Salvatore Buzzi. E così, per il reato di associazione di stampo mafioso escono definitivamente di scena, ad esempio, l'ex sindaco Gianni Alemanno (che però è sotto processo per corruzione e finanziamento davanti ai giudici della seconda sezione penale), gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti, l'ex capo della segreteria politica di Alemanno Antonio Lucarelli, l'ex responsabile di Ente Eur Riccardo Mancini ed Ernesto Diotallevi, che era finito nel mirino dei pm perchè sospettato di essere a Roma il referente di Cosa Nostra. Archiviazione anche per il presidente Pd della Regione Lazio Nicola Zingaretti (indagato per due episodi di corruzione e uno di turbativa d'asta), per il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (che era accusato di corruzione, mentre è in attesa del giudizio di appello dopo essere stato assolto in primo grado da un'accusa di turbativa d'asta) e per una serie di altri esponenti della politica come l'ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi (corruzione), il consigliere comunale della Lista Marchini, Alessandro Onorato (corruzione), il parlamentare ex Pdl, poi passato al Gruppo Misto, Vincenzo Piso (finanziamento illecito), il presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Daniele Leodori, (turbativa d'asta) e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport della giunta Alemanno (turbativa d'asta). Accolta pure la richiesta di archiviazione, per un episodio di abuso d'ufficio, per Luca Gramazio, l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio ancora detenuto in carcere per il filone principale e per Massimo Carminati che rispondeva di associazione per delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio contestata anche a Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak, Stefano Massimi e Gianluca Ius.

27 aprile 2017 - la procura chiede la condanna di tutti e 46 imputati per complessivi 515 anni di reclusione. Le pene più elevate sono state sollecitate dai pm nei confronti di coloro che sono ritenuti gli organizzatori o semplici partecipi dell'associazione di stampo mafioso. Il primo della lista è Massimo Carminati (28 anni perché capo oltre che promotore), seguito da Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi).

20 luglio 2017 - Arriva la sentenza: Salvatore Buzzi condannato a 19 anni, Massimo Carminati a 20. Per Mirko Coratti, ex presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente del Partito democratico, 6 anni di carcere. Per Gramazio la pena è di 11 anni. Dieci anni a Franco Panzironi, ex ad dell'Ama. Riccardo Brugia a 11 anni. Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione.

Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Era un operaio della coop di Buzzi, lo hanno rovinato senza un processo e gli hanno tolto il lavoro. Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio «per motivi di ordine pubblico». Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di ‘ normale’ corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché «ci trattano come bestie da soma». Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a «non litigare» e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: «Non lo voglio tra i piedi». Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, «Adesso il capo sei tu», che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a ‘capo’ è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione «per motivi di ordine pubblico», che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite ‘kafkiane’. La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene «rapporti con la ‘ ndrangheta» e svolge un «ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa». Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo «sospeso» e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: «Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/ 2011… Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione». In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai «provvedimenti di prevenzione espressamente previsti» non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta.

Mafia Capitale, Odevaine alla sbarra: "Ecco perché prendevo 5000 euro al mese da Buzzi". L'interrogatorio dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, confermato per tre mesi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno: "Da fine 2011 al novembre 2014 sono stato remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di 'facilitatore'. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione", scrive Federica Angeli l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Ho percepito cinquemila euro al mese da Salvatore Buzzi da fine 2011 al novembre del 2014. Per lui risolvevo i problemi, facilitavo gli interessi di Buzzi. Ho preso soldi anche dalla cooperativa La Cascina". Soldi da Salvatore Buzzi (5mila euro mensili, di cui una parte in nero) e soldi dalla cooperativa “La Cascina” (10mila euro al mese che potevano arrivare anche a 20mila). Per anni, almeno dal 2011 al 2014, Luca Odevaine, anni prima vicecapo di gabinetto vicario del sindaco Veltroni, incarico proseguito per altri tre mesi con l'arrivo del sindaco Alemanno, ha intascato fior di tangenti mettendo a frutto il suo lavoro di componente del Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale (struttura creata nell'estate del 2014 ma informalmente esistente due anni prima) e di presidente della Fondazione IntegraAzione, che curava e coordinava eventi politici, religiosi e sociali. Sentito dal tribunale nel processo Mafia Capitale in corso nell'aula bunker di Rebibbia, Odevaine ha ammesso quanto già dichiarato alla Procura nei mesi scorsi: "Venivo remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di facilitatore. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Svolgevo un funzione di raccordo tra le sue cooperative, il ministero degli Interni e i funzionari della Prefettura, un mondo con il quale le coop faticavano ad avere un dialogo costante. Io mettevo a disposizione l'esperienza acquisita nel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, conoscevo molte persone ma non è vero che io orientassi i flussi degli immigrati, non avrei potuto farlo. Il Tavolo discuteva su temi generali e non decideva". Odevaine è stato poi interpellato sui soldi ricevuti dai vertici della Cascina (segmento giudiziario già definito davanti al gup con un patteggiamento di pena a due anni e 8 mesi di reclusione per corruzione e la restituzione di circa 250mila euro, più o meno l'equivalente della somma incassata in modo illecito), per agevolare l'assegnazione dell'appalto per la gestione del Cara di Mineo dopo aver concordato con loro il contenuto del bando di gara. "Anche in questo caso - ha spiegato Odevaine - ricevevo soldi per il mio lavoro di raccordo col Ministero dell'Interno". Molte domande dei pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini hanno riguardato il commercialista Stefano Bravo, anche lui sotto processo per corruzione perchè sospettato di aver curato la predisposizione della documentazione fittizia che avrebbe dovuto giustificare l'ingresso delle somme illecite nella casse della Fondazione e delle società riferibili a Odevaine. "Era il mio commercialista personale e della famiglia, si occupava della contabilità della Fondazione. A lui ogni tanto chiedevo consiglio, gli dissi che avevo soldi in contanti ma lui certe cose preferiva non saperle. Io gli presentai i rappresentanti della Cascina e poichè con questa cooperativa avevo in piedi un affare che non aveva nulla a che vedere con la questione immigrati, gli chiesi se voleva occuparsene. Cominciavo ad avere numerose attività fuori dall'Italia e avevo bisogno di una persona che seguisse le mie cose in Italia". "Con la giunta Alemanno sì stabili un accordo per cui ad ogni consigliere comunale vennero dati 400mila euro da spendere per eventi culturali. L'accordo fu preso dal sindaco Alemanno e dal capogruppo di minoranza Umberto Marroni", ha spiegato Odevaine, che, vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, fu confermato per i tre mesi successivi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno ma dopo un mese fu messo di fatto all'angolo. "Alemanno - ha poi aggiunto - mise nuove figure in base ad appartenenze politiche nei posti chiave dell'amministrazione: Gianmario Nardi, che era stato allontanato da Veltroni perché troppo vicino a imprenditori che facevano manifestazioni pro suolo pubblico fu nominato vicecapo gabinetto. Marra fu spostato al Patrimonio". "Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l'onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell'Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco". 

Buzzi parla ancora: «Ho dato 875mila euro a Panzironi e finanziato la campagna di Veltroni», scrive Vincenzo Imperitura il 29 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Vergogna per aver foraggiato la destra? «Diceva Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo». «Camerata io? Io so’ comunista». Suona più o meno come la famosa battuta del grande Mario Brega, la risposta fulminante che Salvatore Buzzi si lascia sfuggire in aula, rispondendo al difensore dell’ex ad di Ama, Franco Panzironi, che gli chiede se non provava vergogna ad aver finanziato le campagne elettorali della destra. «Rispondo in termini marxiani e citando Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. Io avevo 300 persone da mantenere. Non ho mai votato Pdl», replica Buzzi (considerato il braccio finanziario del “mondo di mezzo”) nel corso della settima e ultima udienza di Mafia Capitale dedicata alla sua deposizione. «A Franco Panzironi, complessivamente, abbiamo dato 875mila euro», racconta in collegamento video con l’aula bunker di Rebibbia. «A lui restavano i soldi in nero per vincere le gare Ama, quelli in chiaro andavano alla Fondazione Nuova Italia e quindi certo che andavano a Gianni Alemanno. Panzironi è un delinquente, chiedeva sempre soldi». Soldi che, racconta sempre Buzzi, sarebbero andati all’ex Ad di Ama (imputato nello stesso processo) anche fuori dal circuito elettorale: «Quando gli abbiamo dato i primi 100mila euro non c’era nessuna campagna elettorale e neppure quando gli abbiamo dato i secondi 120mila o i terzi 100mila». Buzzi poi parla del sostegno ai tempi di Walter Veltroni: «Il sistema delle cooperative tirò fuori circa 150mila euro. Non erano soldi per vincere le gare. Era un riconoscimento all’attività dell’amministrazione Veltroni che aveva affidato alle cooperative sociali la manutenzione del verde dei parchi di Roma». E se ieri si è chiusa la lunghissima deposizione di Buzzi, oggi nell’aula bunker di Rebibbia, è il turno dell’imputato numero uno del processo, Massimo Carminati. L’ex membro della destra eversiva degli anni di piombo parlerà in video collegamento dal carcere di Parma ma, contrariamente a quanto successo fino a ora, il “cecato” già protagonista di un “saluto romano” durante un udienza non potrà venire ripreso dalle telecamere che dalle prime battute seguono il processo agli imputati di Mafia Capitale. È stato lo stesso Carminati a revocare l’autorizzazione. Secondo l’avvocato Ippolita Naso, uno dei difensori dell’imputato, il “nero” della banda delle Magliana «solo in parte parlerà del suo passato, lui intende rispondere a domande ben precise su fatti che gli sono stati contestati in questo dibattimento».

Lo show di Carminati: «Io sono un vecchio fascista degli anni 70», scrive Vincenzo Imperitura il 30 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Mafia capitale, il protagonista del “mondo di mezzo” a ruota libera in tribunale: «Ho sempre saputo di essere controllato, ho un solo occhio ma ci vedo benissimo». Seduto su una sedia di plastica, attorniato dal mare di carte del maxi processo su “Mafia capitale” che lo vede alla sbarra come imputato principale, e ripreso da una telecamera fissa che fa un po’ serie poliziottesca, Massimo Carminati è un fiume in piena. Così impaziente di rispondere, per la prima volta nella sua lunga “carriera” processuale, che si infuria quando il collegamento dal carcere di Parma crea qualche imbarazzo. Ha il senso dello spettacolo Carminati: è consapevole delle decine di giornalisti che affollano l’aula bunker del carcere di Rebibbia (e che non lo possono riprendere per la prima volta in 180 udienze), e non si fa mancare qualche colpo di teatro, in una deposizione, dice l’avvocato Ippolita Naso introducendo l’interrogatorio «che sarà limitata, come limitato è stato il diritto alla difesa del mio imputato, tuttora rinchiuso in regime di carcere duro». Nel lungo racconto dell’ex terrorista nero ci sono almeno un paio di punti fermi. Punti sui quali il presunto capo del “mondo di mezzo”, torna più volte durante la prima delle due giornate che lo vedranno impegnato in prima persona: la rivendicazione (quasi tronfia) della propria storia fascista, e la “persecuzione” giudiziaria di cui sarebbe stato vittima negli anni. «Io sono un vecchio fascista degli anni ’ 70, e sono contento e felice di quello che sono. Non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi» dice sicuro Carminati, mentre Salvatore Buzzi, dal carcere di Tolmezzo, lo osserva in piedi, sgranando gli occhi e passeggiando stancamente lungo la stanzetta del video collegamento. «Io sono un vecchio fascista, non c’entro niente con i servizi. Qui sostenete che abbia collegamenti con i servizi segreti ma la verità è che quando mi associano ai servizi, io in realtà mi offendo. Mi accusano di avere ricevuto notizie relative all’inchiesta da due poliziotti del commissariato di Ponte Milvio e da un vecchio maresciallo in pensione. Ma io sono un pregiudicato ed è normale che fossi conosciuto dai poliziotti di quartiere che venivano a controllarmi continuamente, soprattutto durante il periodo in affido. Ma – dice senza mai perdere la calma e con gran senso dei tempi scenici – mettiamoci d’accordo. Questi, ma che potevano fa’? Le cose sono due, o io sono Fantomas come mi descrivete e quindi mi relaziono con chi dite voi, o sono un cretino, che parla con degli sfigati che non mi possono aiutare». Per contrastare l’ipotesi di avere ricevuto segnalazioni sull’indagine che lo riguardava poi, il “cecato”, ha anche dato lezioni di investigazione in aula, raccontando di essersi accorti immediatamente dei pedinamenti, ma di averli associati alla perquisizione subita qualche giorno prima. «Sono sempre stato sotto controllo, ma dopo la perquisizione le cose sono peggiorate. Ma i pedinamenti erano visibilissimi, cioè era impossibile non vederli. Una volta – ha detto ancora l’imputato – si sono fermati in due in una macchina davanti a una banca, e la polizia che è passata più volte lì davanti non si è mai fermata. Cose che se mi ci mettevo io lì davanti a una banca, in due minuti arrivava l’esercito». Carminati poi è certo di essere stato usato come cardine per dare “forza” all’intero procedimento e, incurante dei 32 capi d’imputazione che gli vengono contestati, dall’associazione mafiosa alla corruzione, passando per l’usura e la violenza, ripete più volte di essere stato descritto come il male in persona. «Senza di me questo processo sarebbe stato ridicolo – affonda – invece c’è Carminati in mezzo e quindi cambia tutto. Ma forse – dice ancora – questo pensiero è solo figlio del mio Ego ipertrofico. Sulla figura del perseguitato Carminati ritorna più volte, intervallando il racconto con piccole frasi prese dalla strada. «Io c’ho un occhio solo, ma ci vedo benissimo» oppure, raccontando di quando avrebbe “fiutato” l’indagine che lo riguardava «La preda sa sempre che il cacciatore è in agguato». Ma sono i giornalisti le vittime preferite degli affondi di Carminati: «Io sono diventato una macchietta, chi mi conosce sa che sono una macchietta. Mi hanno dato del “Nero” di Romanzo Criminale, del samurai, mi hanno rotto tutti le palle. Ma queste cose che in un certo tipo di mondo ti rende ridicolo, non sono cose che ti danno potere, sono cose che ti fanno diventare deficiente. Tutti quelli che mi conoscono mi prendevano per il culo su questa cosa, sono diventato una macchietta, questa è la verità. Non sto dicendo che sono una mammoletta. Ma non c’entro nulla con Romanzo criminale, con i samurai e con tutte queste puttanate».

Banditello comune o boss de noantri? Ecco chi è Carminati…, scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". “Mafia capitale”, biografia di Carminati: la prima pistola se la procurò a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare le banche. È un bandito come tanti (non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico. «Senza di me questo processo è ridicolo»: almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al recupero crediti. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante. Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia. Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti». Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona. Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: Massimo non era dei Nar. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa. Franco Giuseppucci, Er Negro, Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi. A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato. La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita». Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna. Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...

Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.

«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?

«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».

In che senso?

«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».

Nessuna soffiata alla stampa?

«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».

Oggi sarebbe assolutamente impensabile...

«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».

Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?

«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».

Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?

«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».

Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?

«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».

Diversa ma non sconfitta?

«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».

Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?

«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».

E quindi dove e come germina oggi la mafia?

«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».

Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?

«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».

Italia, dalla Repubblica dello spread a quella dei bonus, scrive il 26.05.2015 Marco Fontana. Uno sport molto in voga tra gli opinionisti politici è quello di identificare per titoli le discontinuità storiche del Parlamento italiano. Un esempio classico è la distinzione tra Prima e Seconda Repubblica, che sintetizza il cambio di assetto istituzionale avvenuto nel 1992-94 dopo che sui partiti politici si abbatté lo tsunami Tangentopoli. Originale la più recente spartizione ideata dall'editorialista dell'Espresso, Marco Damilano, che nel suo ultimo saggio afferma: C'è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell'Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un'unica bandiera: l'Io. Riteniamo che la classificazione di Prima, Seconda e Terza Repubblica sia uscita pesantemente sconfitta dai colpi della cronaca giudiziaria. In sostanza, niente è davvero cambiato dal ‘92 ad oggi. Che differenza c'è tra l'inchiesta Mafia Capitale (con le presunte commistioni tra sistema delle cooperative e partiti), le operazioni Minotauro e Quadrifoglio (che hanno svelato le infiltrazioni mafiose al Nord e negli appalti di Expo 2015), i casi Monte dei Paschi — Unipol/Sai e le "mazzette" di Tangentopoli? La corruzione continua a dilagare dentro e fuori dalla politica: intanto sarà lievitato il prezzo da pagare, ma nulla è mutato. La percezione della corruzione nelle istituzioni da parte dei cittadini sfiora il 90%, un vero record tra i paesi dell'Ocse. Secondo un recente studio di Unimpresa, è un fenomeno che costituisce una pesante zavorra per l'Italia: ha fatto diminuire gli investimenti stranieri del 16% e aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti; ha divorato in dieci anni circa 100 miliardi di euro di PIL; le imprese sotto lo scacco della corruzione sarebbero cresciute in media un 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità. Sono cifre terribili che l'Italia non riesce a combattere efficacemente, anche perché il sistema giudiziario sembra colpire soltanto i comprimari, le zampe di quella bestia che è il sistema clientelare, senza andarne a recidere la testa. E negli ultimi anni anche la fiducia dei cittadini nella magistratura è crollata. In un contesto del genere, dove tutto sembra uguale ai tempi prima di Tangentopoli, pare fuori luogo parlare di Prima e Seconda o Terza Repubblica. Il passato è tornato d'attualità, dimostrando che sotto il profilo etico possono cambiare i personaggi, ma il copione rimane il medesimo. Sulla classificazione di Damilano non v'è nulla da eccepire, se non che tale visione è figlia di un'ideologia radical chic che preferisce per la sua classe politica grigiore e anonimato rispetto all'identificazione con un leader forte e carismatico. D'altra parte non si comprende il motivo per cui tale fervore critico, molto generoso nei giudizi in patria, non si abbatta con lo stesso impeto su politici stranieri quali Clinton, Obama o Tsipras, individui dall'Io forte che vengono innalzati ad icone senza neppure aspettare che ottengano successi reali per i propri cittadini. Personalmente, credo sarebbe molto più semplice concentrarsi sugli ultimi anni della politica italiana, che hanno visto alternarsi tre governi non votati dal popolo e che hanno prodotto risultati nefasti per la qualità della vita e per le aspettative sul futuro delle persone. L'Italia ha visto tramontare la sua forma di governo conosciuta e ha abbracciato un nuovo modello, la Repubblica dello Spread, nella quale la democrazia si piega a parametri economici soggettivi ed esterni. Dopo le rivelazioni di Alain Friedman è ormai palese che nel 2011 elementi al di fuori del nostro Paese abbiano agito per piegare il Parlamento italiano ad accettare rappresentanti più graditi alla Troika. Non è fantapolitica, altrimenti avremmo visto partire smentite e querele. Nessuno fiata neppure di fronte a inchieste giudiziarie di cui si parla poco, ma di cui media si dovrebbero occupare, perché hanno determinato un'ingerenza esterna alla nostra democrazia. Dal caos venuto dalla finta austerity di Monti e Letta si sarebbe scatenata prima o poi una reazione. La richiesta di continui sacrifici senza poter vedere l'uscita dal tunnel ha necessariamente portato ad aggrapparsi a chiunque racconti belle favole di speranza. Ed ecco che la parabola di ascesa di Renzi ha trovato il suo terreno fertile. In Italia è tornato il tempo di chi promette mirabolanti soluzioni ai problemi quotidiani. E non importa se in realtà sta solo concedendo una parte del dovuto, anche in termini costituzionali. Si è così passati alla nuova fase: la Repubblica dei bonus. Una continua elargizione dello Stato magnanimo, prima con gli 80 euro, poi coi bonus bebè e infine il bonus pensioni. Chissà che un domani, dopo un paio di anni di nuova local tax, non arrivi anche il bonus casa. Perchè quando in Italia si parla di bonus, è meglio coprire con le mani il portafoglio e assicurarsi che sia ancora in tasca.

CODICE ANTIMAFIA E MISURE DI PREVENZIONE. PADRI E PADRINI.

Come ti approvo una legge che giustifica l’espropriazione proletaria del capitale.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

IL CODICE ANTIMAFIA E I CONCORSI TRUCCATI IN MAGISTRATURA, scrive Rocco Schiavone il 29 settembre 2017 su “L’Opinione”. L’Italia ormai approva solo leggi forcaiole e incostituzionali come questo assurdo Codice antimafia. L’ingresso della Casaleggio Associati in Parlamento è stato devastante, neanche il fascismo ha avuto strumenti legislativi simili... Basti pensare che con una querela di parte per stalking, l’indiziato, che potrebbe in ipotesi essere un poveretto che la moglie perseguita per rivalsa, potrebbe vedersi sequestrati tutti i beni. Siamo all’uso privatistico dell’azione penale. Ma detto ciò, di chi è figlia questa legge? Probabilmente dell’eterno dibattito congressuale interno al Partito Democratico. A leggere “Il Messaggero” sembra che neanche Matteo Renzi la volesse più. E che anzi sarebbe in polemica con il guardasigilli Andrea Orlando, che invece ne ha fatto una bandiera con cui giocare la propria battaglia interna al Pd. Il tutto, in attesa dell’ennesimo intervento riparatore della Consulta, nell’illusione di inseguire Beppe Grillo sul suo stesso terreno. Questa legislatura devastante per lo Stato di diritto, fatta di scandali mediatici che durano due giorni, solo su alcuni scandali veri è rimasta silente: i concorsi truccati in magistratura. Su “La Stampa” viene rievocata l’annosa vicenda di Pierpaolo Berardi e del concorso svoltosi nell’anno delle stragi di mafia del 1992. Nella commissione esaminatrice era presente anche la moglie di Giovanni Falcone, ma non poté opporsi alle combine dei colleghi, semplicemente perché il 22 maggio, mentre sono ancora in corso gli scritti, dopo aver firmato il registro delle presenze, saluta tutti, esce e va all’aeroporto di Roma, direzione Palermo, insieme al marito. L’ultimo viaggio in Sicilia della propria vita. I commissari che restano però, non onoreranno la sua memoria. Temi non corretti, temi riconoscibili, tanti figli di papà promossi e signori nessuno bocciati. Solo Pierpaolo Berardi, oggi avvocato, per anni reclamerà giustizia invano al Consiglio superiore della magistratura. Che a lungo impedirà l’accesso agli atti. Salvo poi, dopo che il Tar e il Consiglio di Stato, statuiranno il suo diritto di accesso e dopo che saranno constatati dallo stesso Berardi i brogli e i raggiri tipici di altri concorsi pubblici truccati che oggi assurgono alla prima pagina, finirà nel 2008 per dover ammettere che molti dei temi concorsuali (tra cui quello del Berardi) neppure erano stati corretti. Berardi, come tanti altri, era stato scartato a prescindere. In quel concorso del lontano anno delle stragi, cui avrebbe dovuto partecipare nella commissione esaminatrice la moglie di Falcone, tra i favoriti ci furono un magistrato che poi divenne persino giudice costituzionale e un altro che è stato di riserva nel tribunale dei ministri. Se questa è la maniera di selezionare una classe dirigente, lo giudichi il lettore. Ma che poi tanti Pm colleghi, o ex tali, di chi è diventato magistrato in questa maniera ci vengano tutti i santi giorni nei talk-show a fare la lezione su come la politica dovrebbe o meno comportarsi sta diventando francamente insopportabile. Per la storia più che per la cronaca: il concorso in magistratura del 1992 non fu l’unico a essere colpito o sfiorato da sospetti di trucchi. L’ex membro del Csm Mauro Mellini nel 1994 fece uno studio dei concorsi svoltisi dal 1949 a quell’anno, e scoprì, leggendo le stesse motivazioni delle commissioni con cui venivano ammessi agli orali dei veri e propri “caproni”, che il “volemose bene” era stato un vero e proprio metodo dal dopoguerra a oggi. Addirittura, nel concorso del 1949 si metteva per iscritto che quasi la totalità dei partecipanti era da bocciare per la propria impreparazione nel diritto, ma che data la circostanza delle carenze di organico lasciate dalla caduta del fascismo, dalle epurazioni e dalla Seconda guerra mondiale, si doveva comunque dare loro la toga sennò l’Italia sarebbe rimasta senza giudici. Fosse questo il vero peccato originale della Repubblica nata dalla Resistenza?

"Ci sono troppe leggi autoritarie. Tutta colpa del partito dei pm", scrive Dimitri Buffa su "Il Tempo" il 12 luglio 2017. Parla Mauro Mellini, storico leader Radicale: "Grillo e Renzi? Su questo sono uguali". "Grillo o Renzi o altri ancora per me pari sono. Fanno queste leggi da stato autoritario, dall'omicidio stradale a questa che vuole proibire i busti di Mussolini, passando magari per una nuova normativa di prevenzione per fare sequestrare e poi confiscare i beni degli indiziati di corruzione, come succede per quelli di mafia, per un solo motivo: sono tutti sotto ricatto. Il partito dei pm non l'ho inventato io, ma l'ho scoperto e denunciato per primo. E se all'epoca, quando stavo al Csm, Berlusconi mi avesse dato retta invece di tentare un'impossibile mediazione, non avrebbe fatto la fine che poi ha fatto". Mauro Mellini, Radicale storico dei tempi delle battaglie per il divorzio e l'aborto, e in seguito grande rivale politico, se non "nemico", all'interno di quella galassia, delle idee e dei metodi di Marco Pannella, dopo essere stato per quattro anni al Csm, su nomina del centrodestra, ha idee ben precise sul male italiano che affligge ormai tutti i poteri: giudiziario, esecutivo e legislativo.

E quali sono le sue idee su queste leggi liberticide che l'attuale parlamento sforna a getto continuo?

"È l'inquinamento culturale del partito dei giudici e del loro golpe iniziato con Mani Pulite. Che a sua volta è stato l'apogeo di una lunga marcia iniziata ai tempi della lotta al terrorismo e proseguita con la lotta alla mafia. Loro hanno chiesto e ottenuto alla politica di stravolgere lo stato di diritto, loro hanno instillato questo virus mortale dei fini che giustificano i mezzi, loro hanno voluto e vogliono uno stato autoritario, veramente e intrinsecamente fascista".

Insomma il fascismo degli anti fascisti di cui parlava spesso Pannella?

"Pannella distruggendo il partito radicale e riducendolo a una setta di cui lui era lo stregone, una specie di compagnia di giro di teatranti con lui come capo comico, ha a suo modo contribuito a far sì che le cose non cambiassero. Più concreta la Bonino che però è politicamente atea, nel senso che non crede in nulla, tranne che in se stessa, e infatti è una donna ambiziosa e egoista, ma, vivaddio, concreta".

Ma perché la politica non riesce secondo lei a dire di no al partito dei giudici?

"Ma sta scherzando, ma ancora non l'avete capito? Tutti hanno qualcosa da nascondere e da temere, tutti quelli che hanno volato troppo vicino al sole si sono bruciatile ali. Persino Renzi, che voleva rottamare tutto e tutti, è già tanto se non hanno rottamato lui. È una macchina da guerra, con le manette e gli sputtanamenti mediatici ottengono tutto, va avanti così da una trentina d'anni e fanno ridere questi politici ipocriti che ogni volta che vengono colpiti continuano a ripetere la litania del "confido nella giustizia". Ma che volete confidare? Al massimo dovrebbero dire che vogliono limitare i danni. Solo Sgarbi aveva capito queste cose ma poi gli hanno chiuso la trasmissione in tv... e poi tutto questo senza venire eletti da nessuno anzi diventando magistrati con concorsi poco trasparenti".

Addirittura?

"Quando stavo al Csm ne ho viste di tutti i colori, ho denunciato concorsi con il trucco in magistratura dal dopoguerra sino agli anni 90. Non sono diversi da altri settori della pubblica amministrazione".

Chissà quante querele avrà subito?

"Innumerevoli, mi hanno pignorato i soldi della pensione da parlamentare e i diritti sui libri che ho scritto, ma ho vinto anche tante cause contro di loro. Quella che mi diede più soddisfazione mi vedeva opposto all'allora procuratore di Palmi Agostino Cordova, il primo che ebbe la pensata di fare sequestrare tutti gli elenchi dei massoni d'Italia su denuncia di un avvocato di Palmi che straparlava di complotti. Presi in giro questa maniera di fare inchieste e di dare credito a questi personaggi parlando dei "Palmipedi", ma alla fine ebbi ragione io, anche perché Cordova nel frattempo, essendo fondamentalmente un idealista e un brav'uomo, era caduto in disgrazia presso l'allora Pds quando divenne procuratore a Napoli, tanto che di fatto lo fecero fuori".

La sua visione del conflitto tra politica e magistratura sembra a dir poco pessimistico, se non cinico...

"Può essere, ma è la verità. E i politici oltre a fare troppe ma veramente troppe leggi, le fanno tutte male e venate del morbo oscuro dell'autoritarismo. Quella che vuole far condannare chi si tiene a casa i busti del Duce è solo l'ultima. Ma la culla del diritto è diventata una bara già da trenta anni. Adesso piove solo sul bagnato. Perché ormai ai magistrati chi glielo toglie più il potere? Male hanno fatto i politici a consegnarsi mani e piedi, adesso per loro non c' è più scampo".

Il nuovo codice antimafia è legge: più regole e trasparenza, scrive il 27/09/2017 “La Stampa”. Il nuovo Codice antimafia è legge. Con 259 voti a favore la Camera ha approvato la riforma che punta a velocizzare le misure di prevenzione patrimoniale; rende più trasparente la scelta degli amministratori giudiziari; ridisegna l’Agenzia per i beni sequestrati; include corrotti, stalker e terroristi tra i possibili destinatari dei provvedimenti. Punto contestato, quest’ultimo, su cui però è passato anche un ordine del giorno che impegna il governo a rivedere l’equiparazione mafioso-corrotto. Soddisfatta, dopo il via libera alla riforma, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi: «È un regalo al Paese». Per il ministro della Giustizia, Andrea Orlando è una «svolta», ci saranno «più strumenti contro la mafia e più trasparenza». Forza Italia, con Renato Brunetta, grida invece all’«abominio» perché «si porta tutto sul piano penale». Sono quasi 20 mila i beni confiscati alle mafie, tramite sequestro preventivo, a cui si aggiungono 2.876 aziende. Altri 20 mila i beni confiscati (tra terreni, aziende e immobili) con procedimenti di natura penale. Immenso il valore: quasi 30 miliardi, ma oltre il 90% oggi fallisce.

Queste in dettaglio le misure previste dalla nuova norma.  

MISURE PER CORROTTI - Si allarga la cerchia dei possibili destinatari di misure di prevenzione: oltre a chi è indiziato per aver aiutato latitanti di associazioni a delinquere, la riforma inserisce anche chi commette reati contro la pubblica amministrazione, come peculato, corruzione (ma solo nel caso di reato associativo) - anche in atti giudiziari - e concussione. 

SEQUESTRO-CONFISCA PIU’EFFICACI - L’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali è resa «più veloce e tempestiva» prevedendo una «trattazione prioritaria». Nei tribunali dei capoluogo sede di corte d’Appello si istituiranno sezioni o collegi specializzati per trattare in via esclusiva i procedimenti. Si estendono i casi di confisca allargata, quando viene accertato che il patrimonio dell’autore del reato è sproporzionato rispetto al reddito e il condannato non è in grado giustificare la provenienza dei beni. Quando non viene applicata la confisca si può avere l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario. Confisca allargata obbligatoria per alcuni ecoreati e per l’autoriciclaggio e si applica anche in caso di amnistia, prescrizione o morte di chi l’ha subita. 

CONTROLLO GIUDIZIARIO AZIENDE SE RISCHIO INFILTRAZIONE - Introdotto l’istituto del controllo giudiziario delle aziende in caso di pericolo concreto di infiltrazioni mafiose. Il controllo è previsto per un periodo che va da uno a 3 anni e può anche essere chiesto volontariamente dalle imprese. 

STOP INCARICHI A PARENTI - «Maggiore trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari, con garanzia di competenze idonee» e di «rotazione negli incarichi». Viene modificato il procedimento di nomina e revoca dell’amministratore giudiziario di beni confiscati: l’incarico non potrà essere dato a parenti né a «conviventi e commensali abituali» del magistrato che lo conferisce. È la cosiddetta «norma Saguto», dal nome dell’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo sospesa e indagata per corruzione. Il governo è delegato a disciplinare un regime di incompatibilità da estendere ai curatori fallimentari: stop a chi ha parentela, affinità, convivenza o assidua frequentazione con uno qualunque dei magistrati dell’ufficio giudiziario che conferisce l’incarico. 

SOSTEGNO AZIENDE SEQUESTRATE - Per favorire la ripresa delle aziende sequestrate nasce un fondo da 10 milioni di euro l’anno e misure per aiutare la prosecuzione delle attività e la salvaguardia dei posti di lavoro. Gli imprenditori del settore matureranno, dopo un anno di collaborazione, un diritto di prelazione in caso di vendita o affitto dell’azienda e la possibilità di un supporto tecnico gratuito. Novità sulla segnalazione di banche colluse con la malavita. 

AGENZIA RIDISEGNATA - Viene riorganizza l’Agenzia nazionale per i beni confiscati dotandola di un organico di 200 persone e che rimane sotto la vigilanza del ministero dell’Interno. La sede centrale sarà a Roma e avrà un direttore - non per forza un prefetto - che si occuperà dell’amministrazione dei beni dopo la confisca di secondo grado. Ridefiniti i compiti, potenziata l’attività di acquisizione dati e il ruolo in fase di sequestro con l’obiettivo di consentire un’assegnazione provvisoria di beni e aziende, che l’Agenzia può anche destinare beni e aziende direttamente a enti territoriali e associazioni.

Le critiche al nuovo Codice antimafia, scrive giovedì 28 settembre 2017 "Il Post". È stato approvato ieri in via definitiva, ma molti contestano la decisione di estendere la confisca dei beni a reati di tipo non mafioso. Mercoledì 27 settembre 2017 la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il nuovo Codice antimafia, cioè il testo che stabilisce le norme della lotta alla mafia in Italia. Il nuovo Codice, che sostituisce quello del 2011, è stato approvato con 259 voti a favore, 107 contrari e 28 astenuti: a sostenerlo è stato principalmente il Partito Democratico, mentre hanno votato contro Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia. La Lega Nord si è astenuta. Il testo era già stato approvato nel novembre del 2015 alla Camera, poi era stato modificato lo scorso luglio dal Senato, ed è diventato legge dopo il nuovo passaggio di ieri alla Camera. Il Codice dovrebbe rendere più veloce la confisca dei beni, migliorare il controllo sulle infiltrazioni mafiose nelle aziende, rendere più trasparente la selezione degli amministrazioni giudiziari dei beni confiscati e tutelare maggiormente i posti di lavoro nelle aziende sequestrate; inoltre prevede la riorganizzazione dell’agenzia che si occupa della gestione dei beni confiscati. Nel dibattito alla Camera c’è stata molta discussione attorno a un particolare aspetto della legge, contestato soprattutto da Forza Italia ma anche da parte del PD e di Alleanza Popolare: il Codice prevede infatti l’equiparazione di reati contro l’amministrazione pubblica, come corruzione e concussione, a quelli di associazione mafiosa. Con il nuovo Codice, in pratica, potranno essere sequestrati i beni di chi è anche soltanto sospettato di fare parte di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione propria e impropria, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita. Già con il “pacchetto sicurezza” del 2008/2009 la confisca patrimoniale era stata estesa a reati non strettamente legati alla mafia tradizionale, legati alla criminalità organizzata straniera e all’immigrazione. Il nuovo Codice, però, estende l’applicazione di questa misura anche a reati più comuni, e che per molti giuristi – e per molte forze politiche – non andrebbero assimilati a quelli mafiosi. Sempre il nuovo Codice prevede la possibilità della confisca dei beni nei casi di stalking violento, di favoreggiamento della latitanza e di terrorismo: ma non è intorno a questi punti che si è concentrata la discussione. Come per i reati mafiosi, anche nel caso di quelli contro la pubblica amministrazione, perché sia disposta la confisca dei beni, l’indiziato deve essere giudicato «socialmente pericoloso», e deve essere riscontrata una disponibilità di beni incompatibile con il suo reddito. Non è però necessario che la persona a cui vengono sequestrati i beni sia stata condannata, e questo è l’altro punto sul quale si sono concentrate le critiche. Renato Brunetta di Forza Italia ha detto che «con la pessima riforma del Codice antimafia siamo al "panpenalismo". Non c’è alcuna distinzione, si porta tutto sul piano penale, senza selezionare le singole tipologie di reato. A nostro avviso quest’estensione del penale a reati che nulla hanno a che fare con la criminalità mafiosa o con quella economica è inaccettabile». Sulla prima pagina del Mattino di oggi c’è un editoriale del giurista Giovanni Verde che definisce il Codice «una legge che offende la libertà», accompagnata da un disegno della Morte (con la falce, proprio). Non è detto comunque che l’equiparazione di reati comuni a quelli mafiosi rimarrà legge: un ordine del giorno presentato da Walter Verini del PD, da Antonio Marotta e Rosanna Scopelliti di AP e dall’indipendente Stefano Dambruoso, e approvato ieri, prevede infatti che il governo debba «mettere in campo tutti gli strumenti che riterrà opportuni ed efficaci al fine di monitorare e verificare le prassi applicative della legge», con riferimento particolare alla confisca dei beni per i reati contro la pubblica amministrazione. In pratica, il governo è tenuto a controllare come sarà applicata, per poi eventualmente cambiarla se non dovesse funzionare. Secondo i giornali, l’ala renziana del PD non sarebbe molto d’accordo con questo aspetto del Codice e vorrebbe cambiarlo. Non è però facile trovare il modo di farlo: RaiNews dice che potrebbe essere presa in esame una misura all’interno del Milleproroghe, oppure potrebbe essere fatti dei cambiamenti nella legge sulle vittime dei crimini domestici. Il Codice antimafia prevede molte altre modifiche tecniche al sistema di confisca dei beni, che oltre ad essere stato esteso è stato anche reso più veloce ed efficace, secondo il PD: tra le altre cose, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo potrà proporre quali misure di prevenzione adottare, avendo accesso al Sistema di interscambio flussi (SID) dell’agenzia delle Entrate. Il Codice stabilisce che non è possibile giustificare la provenienza di beni sostenendo che li si è comprati evadendo le tasse, e che se il bene confiscato è stato destinato a finalità di interesse pubblico può essere restituito – nel caso in cui sia deciso così – con un bene equivalente. È stato poi modificato anche il sistema con il quale vengono scelti gli amministratori giudiziari per i beni confiscati e i curatori fallimentari, che non potranno essere «conviventi e commensali abituali» del magistrato che dà l’incarico. Il Codice introduce anche un procedimento di controllo giudiziario per impedire l’infiltrazione mafiosa nelle aziende: potrà durare da uno a tre anni, e potrà anche essere chiesto volontariamente dalle imprese. È stato poi istituito un fondo di 10 milioni di euro all’anno e nuove misure per aiutare le aziende sequestrate a proseguire le attività, tutelandone i dipendenti. L’Agenzia nazionale per i beni confiscati è stata riorganizzata: avrà 200 dipendenti e sarà controllata dal ministero dell’Interno. Avrà sede a Roma, e sono state estese le sue competenze: tra le altre cose, potrà assegnare i beni confiscati a enti territoriali e associazioni.

Sgarbi: "Nuovo codice antimafia. Approvato da parlamento di deficienti". Critiche durissime da giuristi e opinion leader. Il nuovo codice antimafia è inutile e dannoso. Ecco le aberrazioni contenute nel nuovo provvedimento, scrive Antonio Amorosi su "Affari Italiani", Giovedì 28 settembre 2017. “Soltanto un parlamento di deficienti può approvare una legge del genere. Il tutto per rendere comoda l'attività agli inquirenti”. E' quanto ha affermato ad Affaritaliani il critico Vittorio Sgarbi dopo il varo in parlamento, poche ore fa, del nuovo Codice antimafia. Approvata dall'attuale maggioranza a guida Pd ha trovato il voto contrario dei deputati di Forza Italia, di M5S e Fratelli d'Italia. Astenuti Lega Nord e di Direzione Italia. “La corruzione è una cosa, la mafia è un'altra”, spiega il critico, “lo dice il costituzionalista Giovanni Maria Flick, non Sgarbi... . Sono entrambi reati ma come si fa a paragonarli? Qualcuno dovrà ricorrere alla Corte costituzionale. E' come paragonare una Volkswagen ad una Fiat. Sono entrambe auto ma non sono la stessa cosa”. Infatti con il nuovo codice sequestri e confische sono possibili non solo contro i mafiosi ma anche a chi è accusato di reati come corruzione, concussione, terrorismo e stalking. Unanime la contrarietà del mondo giuridico, da Raffaele Cantone al giudice Giovanni Fiandaca all'ex capo della procura di Venezia Norberto Nordio. Cantone disse in fase di approvazione: “La modifica che si vuole approvare al Codice antimafia non è né utile, né opportuna, e rischia persino di essere controproducente”. Dello stesso parere Giovanni Maria Flick, giurista di fama internazionale, presidente emerito della Corte costituzionale, che non lascia dubbi sul provvedimento: “E' uno strumento per tranquillizzare... con rimedi che all’apparenza soddisfano l’opinione pubblica, ma che in realtà sono assolutamente risibili”. Come a dire: la legge è inutile e dannosa e serve solo per tacitare la piazza. Il Mattino di Napoli ha aperto una campagna sul tema ed oggi ha fatto uscire il giornale con in prima pagina l'icona della morte con la falce in pugno. Tra le altre aberrazioni il codice antimafia prevede che per il proseguimento dell'attività le aziende sequestrate potranno contare su apposite sezioni del Fondo di garanzia (3 milioni di euro all'anno) e del Fondo per la crescita sostenibile (7 milioni di euro all'anno), istituite dalla legge di stabilità 2016. Il governo è poi delegato a individuare altre misure a sostegno dell'occupazione dei lavoratori delle imprese di mafia. Quindi il governo ha deciso che un'impresa di mafia che ha lavorato per anni manipolando il mercato nel momento del sequestro viene garantita con aiuti di Stato, mentre per tutte le altre oneste (che hanno resistito alle leggi di mercato e alle stesse imprese si mafia che sul mercato corrompono e agiscono) non ci può essere nessun benefit o aiuto pubblico. “La Corte costituzionale abbatterà il Codice antimafia, c'è poco da fare, le incongruenze sono palesi” spiega ad Affari l'ex giudice della Cassazione Romano De Grazia. De Grazia è famoso perché da anni cerca di far fare approvare la legge Lazzati, contro il voto di scambio. La legge (De Grazia è anche autore del provvedimento) introduce il divieto ai malavitosi sottoposti alla misura della sorveglianza speciale di raccogliere voti durante le competizioni elettorali. “In Italia i mafiosi possono continuare a finanziare candidati o sovvenzionare liste. Non è vietato... è una vergogna!”, spiega. “Si sono dimenticati di inserirla anche nell'attuale codice Antimafia, come avevano promesso”, dice amareggiato. Anche se rivela che la legge è stata di nuovo calendarizzata al Senato, dopo un lungo stallo in prima commissione Affari Costituzionali. Fra qualche settimana si terrà la sua audizione, quale autore del progetto normativo, del professor Cesare Ruperto, presidente emerito della Corte Costituzionale, del dottor. Francesco Menditto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli e del Prof Marco Angelini, titolare della cattedra di Diritto Penale dell'economia presso l'università di Perugia.  

Codice Antimafia, pene inasprite: ai pm basta un sospetto per sequestrati il conto corrente e processarti, scrive Paolo Emilio Russo il 28 Settembre 2017 su “Libero Quotidiano”. Lo chiamano Codice Antimafia, ma, in realtà, è un dispositivo di legge finalizzato ad inasprire le pene per reati molto diversi tra di loro, che punisce il solo “sospetto” con confische e sequestri del patrimonio. Fermato per un soffio (e per mezzo di Ap) lo Ius Soli, il Pd ha provato a ricucire con questa mossa i rapporti con le organizzazioni non governative più vicine alla sinistra. Acli, Arci, Avviso Pubblico, Centro studi Pio La Torre, Cgil, Cisl, Legambiente, Libera, Nomi e Numeri contro le mafie, Sos Impresa e Uil sono infatti state le prime a gioire, ieri sera, quando la Camera dei deputati ha dato il via libera al testo scritto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando con 259 voti, che pure sono molti meno della metà di quelli degli aventi diritto, 630. (Sicuramente hanno stappato lo champagne tutti coloro che si avvantaggeranno dell’espropriazione proletaria ndr). La “riforma” punta a velocizzare le misure di prevenzione patrimoniale per i mafiosi ed estende la loro applicazione a corrotti, stalker e terroristi. Viene prevista una «trattazione prioritaria» di sequestri di denaro e confische dal momento che nei nei tribunali dei capoluogo sede di corte d’Appello si istituiranno sezioni o collegi specializzati per trattare in via esclusiva i procedimenti. Basteranno il sospetto e un’indagine, dunque, per sequestrare il patrimonio. Fino ad oggi era necessaria una condanna. Si estendono i casi di «confisca allargata» quando viene accertato che il patrimonio dell’autore del reato è sproporzionato rispetto al reddito e il condannato non è in grado giustificare la provenienza dei beni. Ai fini delle indagini patrimoniali tutti i titolari del potere di proposta di prevenzione avranno accesso al Sid, che poi è il sistema di interscambio flussi dell’Agenzia delle entrate. Basterà dunque una denuncia per stalking perché un pm possa indagare sul patrimonio di un cittadino. Soddisfatta, dopo il via libera alla riforma che aveva fatto storcere il naso a una grossa fetta del Pd e addirittura al magistrato che governa l’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi: «È un regalo al Paese». Se per il Guardasigilli, dem dissidente, la riforma è «una svolta», le opposizioni si indignano. Per Forza Italia parla Renato Brunetta, che grida all’ «abominio». Per il collega Carlo Sarro, il codice contiene norme «illiberali» e «costituisce un arretramento del livello di civiltà giuridica del nostro Paese». Gli azzurri sostengono che questa norma si inserisca «nel solco di altre norme di diritto penale e sostanziale varate nell’ultimo triennio esclusivamente per assecondare l’invasività di talune procure». Una piccola polemica c’è stata in Aula quando si è toccato il tema dello stalking. Il reato di “Atti persecutori”, che fu introdotto nel 2009 dal governo di Silvio Berlusconi, è stato oggetto nell’ultimo triennio di due marce indietro firmate dal Pd. Prima, tre anni fa, è stata cancellata la carcerazione obbligatoria, poi, a giugno, è stata introdotta la possibilità di estinguere il reato dietro pagamento di una somma, cosa che ha fatto infuriare le femministe. Oggi, il governo, prevede il sequestro preventivo dei beni anche per i soli sospettati. Protesta Ap che, tornata nelle mani di Maurizio Lupo, contesta l’equiparazione tra ma mafiosi e corrotti, così come malumore serpeggia tra gli stessi renziani. Anche l’ex premier è perplesso rispetto all’idea di consegnare ai magistrati le “chiavi” del Palazzo. Il Codice ridisegna l’Agenzia nazionale per i beni confiscati, che rimane sotto la vigilanza del ministero dell’Interno, dotandola di un organico di 200 persone. Sono quasi 20 mila i beni confiscati alle mafie, tramite sequestro preventivo, a cui si aggiungono 2.876 aziende. Altri 20 mila i beni confiscati (tra terreni, aziende e immobili) con procedimenti di natura penale. Immenso il loro valore: quasi 30 miliardi. La normativa, che aveva creato non poche preoccupazioni in Confindustria perché rischia di bloccare molti appalti, si applica anche ai presunti corrotti, vuole fermare “parentopoli” nella pubblica amministrazione e nei Tribunali. Non potranno più assumere l’ufficio di amministratore giudiziario, coadiutore o diretto collaboratore il coniuge, i parenti e gli affini, i conviventi o i commensali abituali del magistrato che conferisce l’incarico. Chi è andato a cena con un magistrato, dunque, non potrà ricevere da lui alcuna nomina. Paolo Emilio Russo

"È inutile e dannoso" Anche i giudici bocciano il nuovo codice antimafia. Pareri contrari, da Cantone ai pm impegnati nella lotta ai boss. Fi e M5s: «È scandaloso», scrive Anna Maria Greco, Martedì 04/07/2017, su "Il Giornale".  È tra mille polemiche che il nuovo codice antimafia arriva in Senato, dopo l'approvazione alla Camera. Critiche durissime del presidente dell'Autorità dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, che ritiene la riforma «inutile e dannosa» e non sufficienti i «rimedi» suggeriti dal procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, cui replica piccato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Critiche di illustri penalisti come Giovanni Fiandaca e Vittorio Manes, di costituzionalisti del calibro di Sabino Cassese, di magistrati impegnati contro Cosa nostra come Maurizio De Lucia, che in questi giorni passa dalla Dna alla guida della procura di Messina, anche del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, che parla di una «deriva più di consenso che di pragmatismo», insomma del tentativo di «accontentare chi urla di più». Il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda aveva annunciato che oggi sarebbero state approvate le norme antimafia, poi destinate ad una terza lettura. Dem e grillini fanno a gara per presentarsi come paladini della lotta alla corruzione, ma ieri il M5s si è messo di traverso. «Per noi il codice antimafia è un codice scritto male, è uno scandalo - attacca Roberto Fico - non va approvato ma va invece combattuto in tutti i modi e stiamo facendo la nostra parte per bloccarlo in commissione». Il giorno prima era stato Gaetano Quagliariello, leader centrista di Idea in Senato, a chiedere alla maggioranza di appoggiare il ritorno in commissione del provvedimento, dopo i rilievi degli esperti (che non erano stati convocati preliminarmente, vedi Cantone). Queste norme, dice, «rischiano allo stesso tempo di produrre uno sbrego costituzionale sul versante del garantismo e di indebolire anziché rafforzare gli strumenti investigativi e repressivi nei confronti della criminalità organizzata». Per Carlo Giovanardi è stato un adattamento ad «ideologie e metodi dei peggiori sistemi totalitari». Sulle garanzie insiste da giorni l'Unione delle camere penali: attacca l'«arroganza» di una «politica addirittura fiera del suo populismo penale», dice che nel nuovo codice si segue una linea contraria a recenti indirizzi della Corte Costituzionale e della Cassazione. La novità e il punto più controverso riguarda l'estensione di confische e sequestri di patrimoni agli imputati di reati contro la Pubblica amministrazione, dalla corruzione al peculato. Per Roberti, si può fare, prima di una condanna definitiva, a patto di condizionare i provvedimenti a forti indizi di pericolosità legati alla partecipazione ad associazione per delinquere. Cantone non è d'accordo e avverte che si rischia la bocciatura della Consulta. De Lucia, che fino a metà mese è proprio nell'ufficio di Roberti, dice che il codice antimafia ce lo «invidiano» e «copiano» tutti e cambiarlo può rompere un equilibrio che funziona bene, creando conflitto con principi costituzionali e obblighi delle corti internazionali. Per dirla con Boccia, la modifica può provocare «un cortocircuito». Roberti sembra molto seccato. «Assolutamente non voglio entrare in queste polemiche», risponde alla richiesta di intervista. Sabato, all'università di Palermo, incontrerà Cantone alla chiusura del corso per amministratori giudiziari, organizzato con l'Anac e la Dna. Forse per allora in parlamento sarà cambiata qualcosa sul codice antimafia.

Codice antimafia approvato: una legge che offende la libertà, scrive Giovanni Verde il 27 settembre 2017 su “Il Mattino". E venne il giorno in cui il Codice Antimafia fu approvato. A larga maggioranza. Più dei due terzi dei Deputati l’ha votato. Si tratta, perciò di una scelta convinta o, come ha detto l’onorevole Bindi, commentando il risultato, di un «regalo al Paese». Eppure, molti tecnici, tra i quali molti tra quei parrucconi che oggi sono i professori universitari (me compreso) e il Mattino, avevano espresso perplessità, timori, disappunto. È, tuttavia, evidente che (noi dissidenti) eravamo fuori strada, perché due sono le cose: o non avevamo capito e continuiamo a non capire niente; oppure facciamo parte di quella porzione della cittadinanza che è collusa con la malavita e con il malaffare. Ed in questo clima non è inutile continuare a fare sentire la propria voce, è pericoloso e nocivo, perché, se ci va bene, siamo considerati degli imbecilli e, se ci va meno bene, siamo additati come fiancheggiatori dei delinquenti o addirittura come delinquenti. Voglio correre il rischio. Le Cassandre sono annunciatrici di guai e non sono ben viste. Talvolta, però, ci colgono. E le Cassandre vedono un pericoloso e costante slittamento della nostra democrazia, ossia del governo del popolo, verso un governo dei giudici. Basta scorrere i giornali. Siamo tra quelli che pensano o si illudono di pensare che il compito dei giudici (che mi ostino a tenere ben distinti dai pubblici ministeri) sia quello di giudicare, ossia quello di emettere verdetti all’esito di un giusto processo. Ci illudiamo. Oramai il processo è uno strumento marginale. O meglio è la stessa idea del processo, come luogo in cui la parte fa valere le sue ragioni con tutte le garanzie che una civiltà evoluta come la nostra deve o dovrebbe garantire, è tramontata. Sul contenzioso tra privati incombono le esigenze dell’economia. Non ci possiamo consentire il lusso di processi a tutto tondo e, oltre tutto, essendo un popolo incline al contenzioso, è necessario debellare il cancro della litigiosità, che ci fa perdere alcuni punti di Pil. E allora il processo, quello con la P maiuscola, va celebrato come strumento residuale. Bisogna trovare altre strade per comporre le liti, e il legislatore ci sta provando da anni con tenacia. 

Codice antimafia, Boccia: equipara imprenditori a delinquenti, scrive il 29 settembre 2017 “Il Sole 24 ore". «Con il nuovo codice antimafia si equipara l'attività degli imprenditori a quella dei delinquenti». Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, nel suo intervento alla convention Euromed del Gruppo Grimaldi in Sardegna non usa mezzi termini nel criticare il nuovo codice antimafia. «In questo Paese ogni mattina si deve combattere con una cultura antindustriale e iperideologica che, pensando di far bene, fa in realtà molto male al Paese intero» spiega Boccia, sottolineando che «l'impostazione del nuovo codice - sottolinea Boccia - è un errore madornale che abbiamo denunciato a voce alta. E non da soli, anche Raffaele Cantone, anche Sabino Cassese sono andati su questa linea. A questo servono i corpi intermedi, a far sentire in frangenti del genere la voce degli interessi autentici del Paese». Il leader degli industriali ha evidenziato come nel nuovo codice antimafia si possano rilevare anche profili di incostituzionalità. «Dover essere eroi per fare l'imprenditore non ci piace». «Il punto di rottura – rimarca ancora Boccia – si genera tra la realtà dei fatti e una visione della società anomala, in cui non si capisce cos'è un'impresa. Un imprenditore vive di reputazione, se lo rovini con la cultura del sospetto e della prevenzione non è che poi, quando lo riammetti al consesso sociale senza macchia, lo riabiliti in pieno, ormai lo hai comunque distrutto». «Dover essere eroi per fare l'imprenditore non ci piace - continua il presidente di Confindustria - viviamo un paradosso, siamo il secondo Paese industriale d'Europa, eppure respiriamo una delle più forti culture antindustriali del mondo, e solo il 30% degli italiani sa che siamo il secondo Paese industriale d'Europa. Gli imprenditori li fai scappare se li fai sentire disprezzati». «A volte si seguono sondaggi prescindendo da interesse reali». «Il presidente francese Macron vuole che la Francia diventi il secondo Paese industriale d'Europa, cioè vuole superarci - aggiunge - e anziché reagire c'è qualcuno che tifa per questa retrocessione alla terza posizione. A volte si seguono eccessivamente i sondaggi e la pancia del Paese, prescindendo dagli interessi reali. In campagna elettorale il rischio è che si cavalchi troppo questa emotività rischiando di danneggiare gli interessi collettivi reali». 

Così la nuova legge sui mafiosi può rovinare gli imprenditori. Per i professionisti sospettati di corruzione scatterà il sequestro dei beni. Come per i boss di Cosa nostra, scrive Stefano Zurlo, Sabato 30/09/2017, su "Il Giornale". La stampa progressista lo lucida come si fa con i gioielli. Il Parlamento ha finalmente approvato il nuovo codice antimafia. Ma fra le tante norme varate, sacrosante, ce n’è una che rischia di provocare guasti profondi al tessuto sociale del Paese: è il passaggio che di fatto equipara i corrotti ai mafiosi e li risucchia nel gorgo delle misure di prevenzione. Tradotto per i non addetti ai lavori, ora sarà possibile sequestrare il patrimonio di un imprenditore o di un professionista che sia anche solo sospettato di aver allungato mazzette per oliare appalti. La questione è stata al centro di un braccio di ferro fra Matteo Renzi e il Guardasigilli Andrea Orlando che premeva per inasprire il testo. Alla fine la diatriba è stata risolta solo apparentemente con un compromesso: si potranno portare via i beni a chi sia inquisito non solo per corruzione o concussione, ma per associazione per delinquere finalizzata a commettere questi reati. Insomma, si viene puniti solo se l’illecito è, ci si perdoni l’espressione, al quadrato. «Noi pubblici ministeri - afferma al Giornale un magistrato del Nordest - raramente contestiamo l’associazione per la corruzione o la concussione». Solo che la precisazione, pur doverosa, non risolve il problema. Il punto decisivo è lo stigma che colpisce il soggetto in questione: l’imprenditore che, forse, ha dispensato oboli viene trattato come il boss di Cosa nostra. Non ci vuole la condanna e, a dirla tutta, non serve nemmeno il processo: basta il sospetto, è sufficiente il tenore di vita o conti in banca che appaiano sproporzionati rispetto al lavoro svolto. Parametri flessibili, pensati per la mafia ed ora estesi in numerose direzioni: così il colletto bianco entra nel sinistro circuito delle persone pericolose socialmente. E viene afferrato dagli ingranaggi della giustizia. La casistica sull’associazione per delinquere offre comunque un ventaglio di precedenti molto ampio: l’indagine sulla cricca dei Grandi appalti in cui tornavano i nomi del costruttore Diego Anemone, dell’alto funzionario Angelo Balducci, dell’ex numero uno della Protezione civile Guido Bertolaso. Una storia da manuale, se fosse ancora attuale, per battezzare la nuova legge. Che però potrebbe essere applicata anche al torbido intreccio di Consip e alla figura, da anni nel mirino dei giudici, dell’imprenditore Alfredo Romeo. Come un soldato di Cosa nostra potrebbe essere considerato Giandomenico Monorchio, figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, coinvolto in una vicenda di appalti illegali. Stessa situazione per i tecnici e gli industriali finiti a suo tempo nel calderone dell’inchiesta sulla Tav: dal supermanager Ercole Incalza all’ingegner Stefano Perotti. Ma l’elenco dei possibili bersagli passa anche per politici come Roberto Formigoni e Ottaviano Del Turco. Qualcosa non quadra, anzi stride. I cultori del diritto sanno che la pericolosità sociale ha due facce: quella generica e quella qualificata. Il nuovo strumento infila i signori della tangente nel secondo girone. È un salto culturale impressionante. Ma non si tratta solo di suggestioni. «La norma appena nata - spiega al Giornale Nicola Madia, assegnista di diritto penale all’Università di Tor Vergata - è demagogica e inutile perché già la precedente legislazione permetteva di attaccare i patrimoni fuori dal perimetro di Cosa nostra. Colpendo evasori, riciclatori e via elencando. Ma è ancora più grave che il testo sia arrivato a poche settimane dalla sentenza della Corte di Strasburgo che ha bacchettato le misure di prevenzione perché tropo generiche e vaghe». Una bocciatura che, nel disinteresse generale, il parlamento ha di fatto ignorato.

Un codice antimafia così liberticida è degno del Venezuela, scrive Nicola Porro, Venerdì 29/09/2017, su "Il Giornale".  Il Partito democratico ha fatto approvare forse la peggiore legge di questa legislatura. È un peccato che il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che in passato aveva dato segni di equilibrio garantista, si sia detto soddisfatto. Si chiama, pomposamente, codice antimafia. All'interno ha anche misure tecniche utili. Ma è come un buon vino passato per l'anello dei Borgia: è avvelenato. Una goccia uccide tutto. È l'«equo canone» della giustizia, una norma paurosa. Andiamo al dunque. Gli indiziati di alcuni reati di corruzione, di truffa aggravata e persino di stalking violento saranno equiparati ai sospetti mafiosi. Grazie a ciò sono previste durissime misure preventive personali e di sequestro del patrimonio senza che ci sia alcuna sentenza. Non è esagerato dire che si tratti della fine dello stato di diritto. È chiaro ed evidente che un corrotto e un pericoloso stalker debbano finire in galera e pagare per i reati commessi. Ma immaginare che ciò avvenga prima della sentenza di primo grado è da Venezuela di Maduro. I garantisti pensano che sia meglio un colpevole fuori dalla gattabuia che un innocente dentro. Con il nuovo codice si va oltre. Si fornisce un kalashnikov armato ai magistrati dell'accusa e si dice loro: sparate, che qualche delinquente nel mucchio lo trovate. È incredibile come non si riesca a trovare un bilanciamento tra la certezza della pena (che spesso non c'è per la lungaggine dei processi e per le ostruzioni che gli avvocati riescono a scovare) e la tutela dei diritti degli imputati. Non è un caso se spesso la magistratura ha provato ad estendere l'aggravante mafiosa. L'ultimo caso è quello di Mafia Capitale, che è stata poi giudicata un verminaio, ma non mafioso. Prima ancora il caso Scaglia, in cui proprio mercoledì sono arrivate le assoluzioni anche in Appello ma che, grazie all'estensione dell'aggravante mafiosa, permise sequestri di patrimoni e incarcerazioni nei confronti di chi poi si rivelò non solo estraneo alla mafia, ma anche innocente. Renato Brunetta ha parlato di panpenalismo a proposito. D'Ambruoso ha cercato con un ordine del giorno di mettere un occhio sulla prossima applicazione della legge. Resta un disastro per uno stato di diritto, in cui le nostre libertà sono affidate totalmente e senza garanzie ad una parte del processo: l'accusa. Che ci può ridurre schiavi (senza libertà, senza quattrini) prima dello svolgimento di un regolare processo, in ossequio ad una rivoluzione culturale per cui sono tutti colpevoli fino a prova contraria.

Mafiosi e corrotti per il codice ora sono uguali. Un depensante come il ministro della giustizia Orlando si compiace di una legge insensata, voluta da Cgil e Libera, che estende le misure di prevenzione personale e patrimoniale a chi, non mafioso, è "indiziato" di partecipare a una associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla concussione, scrive Vittorio Sgarbi il 29 settembre 2017 su “Il Giorno”.  Un depensante come il ministro della giustizia Orlando si compiace di una legge insensata, voluta da Cgil e Libera, che estende le misure di prevenzione personale e patrimoniale a chi, non mafioso, è «indiziato» di partecipare a una associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla concussione. La nuova legge è evidentemente incostituzionale come hanno osservato giuristi insigni e il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, che fu anche ministro della giustizia. Rispetto ai diritti dei cittadini, il provvedimento è inutile e dannoso, ha il solo scopo di attribuire maggiori poteri e di rendere più comoda l’attività degli inquirenti. La corruzione è una cosa, la mafia è un’altra. Sono entrambi reati, ma come si fa a paragonarli e a sovrapporli?

Codice antimafia è legge, Flick: «Inutile e dannosa, serve solo per tacitare la piazza», scrive Francesco Lo Dico il 28 settembre 2017 su “Il Mattino". «Già dopo Tangentopoli era emersa, venticinque anni, fa la necessità di prevenire, e non soltanto di reprimere la corruzione. Ma il tema è stato ignorato per molti anni. Ci si è limitati al contrario a sopprimere i reati sentinella, che erano una delle forme di prevenzione più efficaci. Poi, da cinque anni abbiamo invece imboccato la strada della prevenzione in una modalità che è a mio avviso profondamente sbagliata, perché più della sostanza privilegia l'apparenza»: Giovanni Maria Flick, giurista di fama internazionale e presidente emerito della Consulta, fu il primo guardasigilli che negli anni Novanta si pose il problema di «uscire da Tangentopoli». Non nasconde oggi la sua contrarietà di fronte al codice antimafia approvato ieri dalla Camera: «In primo luogo - spiega - perché mette esattamente sullo stesso piano la corruzione e la criminalità organizzata, che sono due cose profondamente diverse, sebbene spesso si sommino e si aiutino l'una con l'altra. Sono diverse perché nel caso della criminalità organizzata c'è una componente di violenza, mentre nel caso della corruzione è implicato un consenso illecito, bacato, tra chi ha il potere e chi compra per avere la gestione del potere».

E poi?

«Poi stiamo imboccando la strada del sospetto, perché usiamo la confisca e il sequestro come strumenti di prevenzione a tutto campo, in una situazione in cui c'è il sospetto che la persona viva di reati o abbia commesso un reato. Ma la cosa ancora più problematica è che aggiungiamo un'ennesima forma di confisca in un panorama già sufficientemente confuso, in cui abbiamo già molte forme di ablazione del profitto: la confisca del profitto come misura di sicurezza, la confisca per equivalente, la confisca nei confronti degli eredi. Già ora disponiamo insomma di una serie di strumenti che consentono di azzerare il vantaggio derivante dall'attività di corruzione. Aggiungere un ulteriore profilo di confisca è quanto mai inopportuno: penso ad esempio alla confusione che si è creata in seguito alla decisione della Procura di Genova di sequestrare e confiscare i proventi della Lega per la truffa ai danni dello Stato, per la quale sono stati condannati i vertici del partito. Una situazione in cui ci si è domandati se la decisione non urtasse con i principi che tutelano l'attività politica. Ciò dimostra, una volta di più, che l'introduzione di certi meccanismi automatici senza coordinamento crea molti più danni di quanti vantaggi possa apportare».

Insomma una legge che cede al clima giustizialista, figlio dei tempi?

«È la perplessità diffusa tra molti, per non dire tra tutti. Si va avanti così perché si ritiene che il forte allarme sociale richieda uno strumento per tranquillizzare l'opinione pubblica».

Le misure di prevenzione rappresentano di fatto un unicum in Europa. Sono figlie di un diritto cosiddetto del doppio binario, un diritto autoritario adottato dopo l'Unità d'Italia dalla destra storica per debellare i briganti, usato dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, fatto proprio dal Fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l'intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. Condivide questa lettura?

«La Carta è sul tema molto cauta, e ribadisce il principio di presunzione di innocenza e quindi la necessità di una condanna definitiva a cui segue la pena. Non dice nulla a proposito della prevenzione, ma evidentemente essa va calata in un clima in cui ci deve essere rispetto per la posizione dell'indagato e per il diritto di proprietà, ribadito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo».

Il nostro Paese ha infatti ignorato la censura della Corte di giustizia europea, che pochi mesi fa ha esortato l'Italia a ridurre il perimetro delle fattispecie di reato per le quali possano scattare le misure di prevenzione in ragione della pericolosità sociale, un principio ritenuto dai magistrati europei sin troppo generico.

«Temo difatti che continuare a perpetuare l'equivoco che porta all'assimilazione tra criminalità organizzata e corruzione finisca per mandare in corto circuito i rapporti con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma oltre ad aver invitato l'Italia a circoscrivere la genericità del principio di pericolosità sociale, la Cedu ha limitato l'impiego di confisca e sequestro soltanto a fattispecie di reati della criminalità organizzata. Far passare il principio che la corruzione è l'altra faccia della mafia contribuisce largamente ad accrescere la confusione che caratterizza le misure di prevenzione e la loro applicazione».

A turbare è peraltro il fatto che misure di prevenzione così pervasive spostano l'afflittività della sanzione penale alla fase preliminare, in assenza di giudicato.

«Il punto è un altro. Stiamo spostando il tiro: dalla repressione che lo Stato non è in grado di fare alla prevenzione. Da un lato chiediamo ai soggetti privati di fare prevenzione sotto minaccia di una pena (penso ai modelli di comportamento e alla compliance del decreto legislativo 231 del 2000); dall'altra moltiplichiamo gli adempimenti burocratici previsti per la pubblica amministrazione. Un'aspettativa illusoria, quella di supporre che chi deve impiegare il tempo a riempire moduli non trovi poi quello per corrompere. Si tratta insomma di forme di prevenzione che rischiano di diventare soprattutto, se non soltanto, apparenza. A ciò si aggiunge che stiamo sostituendo una repressione che si dimostra inefficace con una prevenzione che inevitabilmente finisce per essere fondata soltanto sul sospetto».

È incostituzionale il fatto che sulla base del sospetto siano mortificati i diritti della difesa, dal momento che il contraddittorio tra le parti è negato dalle misure di prevenzione?

«È fuori di dubbio che nell'ambito delle misure di prevenzione il principio di legalità è fortemente attenuato. Ed è molto attenuato anche il diritto di difesa».

Come spiega il fatto che un governo di centrosinistra abbia imboccato con la riforma della giustizia prima, e con il nuovo Codice antimafia poi, una deriva securitaria, che resuscita i fantasmi di un diritto illiberale e autoritario?

«La spiegazione è esemplificata dal famigerato reato di clandestinità, che dovrebbe colpire i migranti che si sono introdotti in modo illecito nel territorio dello Stato. È un reato inutile, il cui tentativo di repressione è inefficace e non fa altro che far perdere tempo ai tribunali. La magistratura e la classe politica riconoscono che è inutile, ma non viene abolito perché la gente non capirebbe. Ho paura che la confisca fondata sul sospetto sia stata messa a punto soltanto per lanciare un segnale all'opinione pubblica».

Ha destato molto stupore, in questo senso, anche l'estensione delle misure di prevenzione allo stalking. Si tratta di un crimine odioso da condannare con forza, ma che cosa c'entra con l'illecito arricchimento e il sequestro dei beni?

«Non posso che ribadirlo: si tenta di rispondere alla domanda di tranquillità sociale con rimedi che all'apparenza soddisfano l'opinione pubblica, ma che in realtà sono assolutamente risibili. Si usano le leggi come messaggi sociali da lanciare ai cittadini, a prescindere dalla loro efficacia e dai loro aspetti più problematici».

Tra sequestri e confische sono finora finite sotto chiave qualcosa come 18mila aziende, per un patrimonio stimato di circa 21 miliardi di euro, spesso mal gestito. Non si rischia così di mettere nelle mani della magistratura, oltre che i destini della politica, anche quelli dell'economia?

«Escludo che il Codice possa essere stato scritto con queste intenzioni, ma è nota a tutti la situazione di contrasto tra economia e giustizia, quella che definirei un'invasione di campo della giustizia nell'ambito economico. Ma nei fatti il legislatore persegue una logica più semplice: usare il pugno di ferro a parole nei confronti di chi non è in grado di difendersi, per dimostrare che la sua azione legislativa serva a qualcosa».

Il nuovo Codice arriva peraltro dopo una riforma della Giustizia approvata con voto di fiducia, che conteneva anch'essa misure ispirate a un certo populismo penale, come la dilatazione dei tempi della prescrizione.

«Si è parlato con eccessivo ottimismo di una riforma epocale. Ma di fatto la legge sul processo penale si è limitata a toccare due punti essenziali: l'ennesimo dibattito sulle intercettazioni, di cui si discute da venti anni senza trovare una linea ragionevole di intervento, e poi l'allungamento della prescrizione e il suo ancoraggio all'aumento edittale. Un problema questo che non può essere affrontato con un aumento smisurato delle pene».

Su queste colonne giuristi molto autorevoli hanno esposto una censura unanime: il nuovo Codice antimafia è ritenuto inutile, controproducente e anticostituzionale. Una posizione che anche lei condivide?

«Inutile lo è senz'altro, perché già oggi disponiamo di molti strumenti per privare del profitto il corruttore o il corrotto. E di certo è controproducente, perché non fa altro che aggiungere confusione a confusione. Sull'incostituzionalità preferisco non pronunciarmi. Dato il mio ruolo passato nella Consulta, sarebbe inopportuno anticipare giudizi. Ma voglio lanciare anche un allarme su un altro fenomeno: la dilatazione del concetto di corruzione, anche rispetto a comportamenti di mala amministrazione colposa, che però sono, giuridicamente parlando, altra cosa. L'enfasi con cui i media portano avanti questa denuncia è preoccupante e contribuisce a confondere nella coscienza civile il diritto con l'etica. Ma c'è anche un altro rischio: che la corruzione venga combattuta solo in quanto fattore anti-concorrenziale per eliminare i concorrenti, soprattutto a livello di contrasto alla corruzione internazionale. Questo rischia di diventare il diritto dei potenti».

Ecco l'ennesima sentenza che conferma che i giudici - e, prima ancora, la legislazione sulle c.d. misure di prevenzione - non hanno alcuna considerazione per il diritto di proprietà, scrive Pietro Cavallotti il 29 settembre 2017. Si potrebbe dire (con il rischio di essere accusati, però, di essere in malafede) che ai giudici - diciamolo pure: allo Stato - non interessa più prevenire la commissione di delitti attraverso l'applicazione di una misura di prevenzione personale; interessa soltanto requisire alla mano pubblica (ovvero, in qualche caso, alla mano di associazioni bene organizzate di privati) i patrimoni, con lo scopo evidente (ma non ancora dichiarato) della ridistribuzione della ricchezza (non importa se di provenienza lecita o illecita) e, in definitiva, della statalizzazione dei mezzi di produzione. In questa ultima sentenza si afferma che il procedimento per l’applicazione della confisca presenta una natura «tale da non comportare necessariamente l’autodifesa da parte del proposto», e pertanto potrà avere corso anche nel caso di provata incapacità dello stesso. Il diritto di proprietà è un diritto di "serie B", che si può comprimere non solo con minori garanzie rispetto al bene supremo della libertà personale, ma che si può violare a piacimento, in assenza di alcun reato e senza che all'individuo venga data la possibilità di difendersi dall'indizio o dal sospetto di non meglio precisata "illiceità" del suo patrimonio. Per un liberale, tuttavia, rimane un quesito di difficile risoluzione: che cosa è la libertà personale senza la tutela del diritto di proprietà?

Leggi demenziali: il suicidio della democrazia, scrive Martedì 11 Luglio 2017 Giustizia Giusta, riportando l'articolo di Mauro Mellini del 07.07.2017. A questo punto non so più se siano l’ignoranza, la malafede, il fanatismo, la paura ed il servilismo a prevalere tra i nostri legislatori. E’ con angoscia che mi tornano alla mente quelle date (3 gennaio 1925, ad esempio) che diedero forma scritta ed infame valore di legge alla violenza fascista che distrusse l’Italia liberale. C’è il rischio e ben più che solo il rischio, che tra qualche tempo questo inizio di estate del 2017 sia ricordato come quelle altre infauste giornate in cui furono approvate le leggi “fascistissime” che privarono gli Italiani della loro libertà. Oggi vogliono farci credere che le leggi che Camera e Senato stanno approvando siano “democraticissime”. Ma non sono meno deleterie di quelle di quasi un secolo fa. Il “codice antimafia, la legge contro la tortura”, nella loro ipocrita veste di “difesa della sostanza dei diritti dei buoni cittadini”, hanno una caratteristica spaventosamente pericolosa: sono tali  da lasciarci in balia di magistrati che hanno perduto ogni ritegno sulla strada della “giurisdizionalizzazione” dello Stato e della cosa pubblica in genere e tra i quali serpeggia una non esigua presenza di fanatici settari spregiudicati che hanno invocato leggi del genere, minacciando e ricattando la classe politica. E, purtroppo, a Destra e a Sinistra, nelle Maggioranze e nell’Opposizione una letale incoscienza porta quasi tutti ad alzar le spalle e ad accontentarli. Le leggi penali di questa infausta fase della nostra Repubblica sono tutte, più o meno, frutto di ignoranza o di condiscendenza, quasi sempre di paura di “non andare a collocarsi tra i sospetti” di mafia, di corruzione etc. etc., hanno la caratteristica della violazione del “principio di legalità” sancito dall’art. 25, comma 2° della Costituzione che, vietando che “chiunque” possa essere punito senza che il reato sia stabilito dalla legge precedente al fatto a lui addebitato, impone che sia chiaramente individuata e qualificata la fattispecie del reato, che essa non sia descritta in modo da risultare vaga e malamente circoscritta e che ad essere punito non sia il fatto ma, magari, la “qualità” della persona. Ora la legislazione antimafia invocata dagli Ingroia e dai Di Matteo, dai Gratteri e da altri consimili soggetti sembra fatta apposta per negare e sopprimere tali principi essenziali. L’ignoranza (se di ignoranza si tratta) dei legislatori nella formulazione delle leggi è così messa al servizio di una funzione giudiziaria che travalica i suoi confini. Apre la strada alla dittatura delle Toghe. E di quelle meno pulite. Ma non basta. Per le “esigenze di lotta” alla mafia, è stata inventata da tempo la legislazione di prevenzione che prevede restrizioni delle libertà personali e confisca dei beni (che non basta certo affermare che abbia carattere “preventivo”, quasi a “difesa” di chi vi è sottoposto (!!!) per negare che si tratti di “punizione” per le persone indiziate di avere una qualità, di essere mafiose. In pratica, poi, per gli “indiziati di essere indiziati di mafiosità”, come è provato dal rilevante numero di sequestri di beni, non convalidati e trasformati in confische. Ora con il “nuovo codice antimafia” in discussione al Senato, si vuole estendere il sequestro dei beni, patrimoni ed aziende agli “indiziati” di essere concussori, corruttori o corrotti. Cioè agli “indizi” di reati “istantanei”. Con la certezza del diritto scompare così la certezza dei diritti. Ad esempio la certezza della proprietà, garanzia anche per i creditori (invano quando ero Deputato ho cercato di sollevare la questione della salvaguardi dei diritti dei creditori degli “indiziati”…). Nella discussione alla Camera, Daniele Capezzone ha posto con fermezza la questione delle ripercussioni delle sciagurate leggi “Orlandine” sulla credibilità dell’economia, fondata sulla salvaguardia del credito, nel nostro Paese. Una parentesi: Orlando ha cercato di accreditarsi come “garantista” andando a farsi applaudire dagli scimunuti “marciatori per lo Stato di diritto” riuniti in un grottesco congresso a Rebibbia. E’, in realtà, magari proprio per la sua pochezza, un pericoloso succube del Partito dei Magistrati. Lo sta dimostrando ora. Siamo sull’orlo del baratro. Possibile che non vi sia partito, forza politica, non vi siano personaggi accademici, giornalisti che vogliano aprire gli occhi e denunziare alto e forte al Paese il pericolo che sta correndo? Possibile che alle pretese delle sciagurate platee di ignoranti forcaioli, non vi sia nessuno capace di rispondere in nome dei principi di un diritto di cui il nostro Paese ha potuto un tempo vantarsi di essere la culla? Possibile che le leggi ammannite da questa subcultura populista di Destra e di Sinistra non trovino nessuno che le riconosca, come corrispondente alle teorie giuridiche della Germania nazista che pretendevano di equiparare al colpevole la persona capace di rendersi tale? Si vagheggiano nuovi partiti, nuove “geografie politiche”. Forse non ci resta che costituire un nuovo “Comitato di Liberazione”. A costo di dover agire in onorata clandestinità. Mauro Mellini 07.07.2017

Scoprono le magagne, non le più grosse, scrive Giovedì, 27 Luglio 2017 Giustizia Giusta, riportando l'articolo di Mauro Mellini del 19.07.2017. Un po’ di ragionevolezza ogni tanto viene fuori persino dalle icone dell’ “antimafia devozionale” e da qualche esponente del ceto responsabile della nostra povera giustizia. Nell’anniversario dell’assassinio di Borsellino abbiamo inteso da Fiammetta, la Figlia, parole impensabili in certe circostanze e che, magari avranno amareggiato l’Ingegner Fratello. Fiammetta, anziché lanciare fulmini contro lo Stato complice dell’assassinio del suo Congiunto, dei poteri occulti, dei Servizi deviati, della C.I.A. etc. etc., ha lamentato che la verità sugli assassini abbia tardato tanto, esplicitamente addebitandone la responsabilità ai magistrati, che, ne avevano commesse di tutte e di più e si erano fatti dire “non so se per colpa, o dolo o per incapacità” dai pentiti di turno i nomi di innocenti invece che di colpevoli, ed ha chiesto pure scusa ai condannati all’ergastolo, solo ora riconosciuti innocenti. Pensieri apprezzabili e ragionevoli, cioè inconsueti. Non è certo la fine del sistema basato sul furore panforcaiolo, sui pentiti, sulle presunzioni, ma è già qualcosa, anzi, è molto, se pensiamo che ad esprimersi così è uno dei congiunti di una Vittima illustre della Mafia. Un’altra dichiarazione che offre uno spiraglio di imprevedibile ragionevolezza è l’articolo di Michele Vietti, ex Vice Presidente del C.S.M. ed ex sottosegretario alla Giustizia, apparso su “Il Foglio” di ieri, 19 luglio. Vietti “arriva ad ammettere” che “l’impostazione del nuovo codice antimafia si dovrebbe rivedere, fatto salvo l’impegno riformatore del Ministro”. Meglio di niente, anche se, francamente, parlar di “rivedere” un codice, ancorché antimafia, quando ad essere “rivista” dovrebbe essere addirittura l’ “impostazione” è una vera contraddizione in termini, cui l’augurio all’intangibilità dell’impegno del Ministro conferisce il sapore tragicomico di un leccapiedismo degno di miglior occasione. Ci dispiace per “Il Foglio”.

Nell’articolo di Vietti si Fanno delle ammissioni di estrema gravità, la cui portata, però, probabilmente sfugge a Vietti, come spesso accade nelle stentate e prudenti confessioni dei corresponsabili di certe malefatte. “Allentare la specificità delle norme…è una tendenza comune alla legislazione penalistica degli ultimi anni”. Per Vietti questo sembra un particolare tecnico. E, invece, significa ammettere che il “principio di legalità” fermamente stabilito dall’art. 25 comma 2° della Costituzione, è sistematicamente violato. “Legalità” è divenuto un termine che indica quella cosa che insegnano nelle scuole le mogli dei magistrati e dei funzionari di Polizia, insomma, l’antimafia. Ma il principio di legalità, non lo dico io, ma lo disse la Corte Costituzionale nella sentenza n. 96 dell’8 giugno 1981 scritta da un giurista non “sottile”, ma di grandissimo spessore come Volterra, non è osservata solo ponendo una qualsiasi norma di legge a base della pretesa punitiva, ma occorre che questa e la norma invocata siano effettivamente caratterizzate da una specificità e chiarezza non “allentate”. La genericità, invece, ammette Vietti riguarda anche i poteri, le competenze e le procedure degli organi che debbono individuare “i meccanismi operativi” della confisca dei beni dei presunti mafiosi e della loro gestione. Anche se, bontà sua l’Orlandino “ha mostrato apprezzabile volontà riformatrice” (quella stessa che ci divertimmo a definire nello “Stupidario del SI’” all’epoca del referendum, con il detto sublime: bè, almeno è qualcosa di nuovo). Appena qualche parola di prudente riserva dedica Vietti all’estensione delle misure “preventive” (??) patrimoniali dei reati contro la Pubblica Amministrazione ed alla ulteriore cavolata di “limitare” tali misure al caso in cui tali reati siano commessi nel contesto di una “associazione per delinquere”. Di essi Vietti lamenta che “abbia distratto il legislatore”, non già dall’osservanza dei principi fondamentarli del diritto penale, ma “dall’obiettivo della lotta alla mafia!!”. Si tratta del punto che, di tutto il “codice antimafia” è il più oscenamente pericoloso!!!! Ma decisamente comica è la conclusione “Forse sarebbe il caso di cambiare l’impostazione del progetto di riforma…”. Alla faccia della “revisione” del testo approvato dal Senato. E, soprattutto, alla faccia delle ripetute sviolinate alle buone intenzioni del povero Ministro Orlando. Del quale comincio a domandarmi se sia il suo aspetto e la sua statura politica un po’ miserella a doverci preoccupare, o, invece non sia altro. Ma, questo è il concetto di Vietti e, purtroppo, direi anche de “Il Foglio”. Ma, questo passa il convento. Meglio di niente? A forza di “abbozzare” secondo questo criterio siamo, intanto, giunti al punto in cui siamo. Quousque tandem? Mauro Mellini 19.07.2017

ANTIMAFIA DEMENZIALE: ULTIMO ATTO, scrive Mauro Mellini il 29.09.2017. Nello stesso momento due episodi segnano col suggello dell’evidenza di una demenzialità ossessiva ed intollerante dell’Antimafia e del suo potenziale devastante per la giustizia, l’economia e la civiltà nel nostro Paese. Mentre dopo ben nove anni di accanimento giudiziario veniva dichiarata l’insussistenza dell’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione addebitata a Del Turco, Presidente della Regione Abruzzo, arrestato allora con quella infamante accusa fondata sulla tipica presunzione di colpevolezza “antipolitica”, con conseguente scioglimento della Amministrazione Regionale, è stato approvato il “codice antimafia”, che, tra le coglionerie per le quali viene sbandierato come necessario strumento di lotta alla criminalità mafiosa ed alla corruzione, prevede che le misure di prevenzione con le quali possano essere puniti gli indiziati dei reati di mafia (o colpiti, con immediati effetti devastanti, gli indiziati di essere indiziati) prevede tale trattamento per gli indiziati, e, intanto, per gli indiziati di essere indiziati dei reati contro la Pubblica Amministrazione (Corruzione, Concussione etc.) commessi però mediante associazione a delinquere (cioè con indizio di tale associazione). L’evidenza della confusione di idee e della dilagante asinità implicita nel mettere sullo stesso piano un reato tipicamente associativo, che presuppone e si manifesta in una sorta di marchio personale, quasi razziale di chi ne è ritenuto colpevole ed un reato tipicamente “istantaneo”, seppure “incastonato” in un contesto associativo, sono evidenti. Essi si aggiungono all’assurdità del sistema della “persecuzione indiziaria” di tutte le “misure di prevenzione”. Se il codice antimafia fosse stato già in vigore, nove anni fa il Sig. Dott. Procuratore della Repubblica avrebbe chiesto ed ottenuto il sequestro dei beni (ammesso che ne abbia) di Ottaviano Del Turco per il fatto della contestazione di un’associazione finalizzata alla corruzione che ci sono voluti nove anni a dimostrare inesistente. Ma non è detta l’ultima parola assolto perché il fatto non sussiste va bene. Ma Ottaviano Del Turco è stato assolto sì dalla associazione a delinquere che non esiste, ma non è stato assolto dall’indizio di tale appartenenza, che, in quanto indizio, non ha bisogno che l’associazione esista davvero e sia mai esistita. Se questa non è demenza legislativa e non solo legislativa è bene che gli psichiatri vadano a fare un altro mestiere. L’Antimafia komeinista e mafiosa traballa e mostra le sue crepe. La gente non ne può più delle panzane retoriche e delle concrete malefatte di questi sciacalli dell’Antimafia. I magistrati non privi di ragionevolezza cominciano a prendere le distanze dai loro colleghi fanatici e somari. Ma la politica continua ad assecondare le peggiori tendenze devastanti di una “giustizia di lotta”. Lotta contro la legalità e la certezza del diritto. E vota il codice antimafia con le sue bestialità. E’ ora che chi ha un po’ di coraggio lo dimostri, che ci si scrolli di dosso questa assurda e soffocante nuova ipocrita e perversa forma di intollerabile totalitarismo. Parliamo chiaro ai nostri rappresentati politici, ai partiti, ai Parlamentari. E’ nostro dovere. Mauro Mellini 29.09.2017

[Il retroscena] L'ultimo colpo di Rosy Bindi nel codice antimafia e il pasticcio sui sospettati. Un ottimo ultimo atto della legislatura e della Commissione. Ma ci si divide sull'articolo 1 che prevede il sequestro per i sospettati dì corruzione. Stop del presidente Grasso ad ogni modifica, scrive Claudia Fusani il 29 settembre 2017 su "Notizie Tiscali". Nessun decreto. Nessuna correzione. Con buona pace di chi, dentro e fuori dal Parlamento, dentro e fuori la maggioranza e lo stesso Pd, mercoledì, prima della votazione finale in aula rassicurava che "ora votiamo compatti ma poi il Codice antimafia sarà corretto". L'ipotesi non è tra quelle percorribili. Come ha detto chiaramente il presidente del Senato Piero Grasso ieri ospite a Napoli alla Festa di Articolo 1. "Se si tratta di valutarne l'applicazione - ha chiarito la seconda carica dello Stato perché questo dice l'ordine del giorno Verini (Pd) approvato - nessun problema.  Se però arriva un decreto che tra due settimane cambia la legge allora sarebbe un segnale negativo, un boomerang per le forze politiche che l'hanno approvata".

Monitoraggio ma non modifiche. Suona come un requiem ad ogni intenzione balenata in queste ore: il nuovo Codice Antimafia non si tocca, è legge dello Stato e non sarà corretta. A meno che il monitoraggio della fase applicativa, dell'efficacia delle nuove norme e della loro piena garanzia non dimostri che le critiche, feroci, di ieri e degli ultimi mesi (erano iniziate a giugno con l'approvazione al Senato) hanno un riscontro nella prassi. La legge divide lo stesso centrosinistra e la maggioranza. La "colpa" è dell'articolo 1 che equipara, pur in determinate condizioni, i corrotti ai mafiosi e come tali li sottopone al sequestro dei beni in via preventiva. Grasso non ha dubbi: la legge consente il blocco di beni e fondi che finiscono nei paradisi fiscali e lì spariscono per sempre e dunque è una norma "utile, tenuto conto della pericolosità sociale del fenomeno corruttivo". Senza dimenticare che si tratta di un provvedimento che era "nel programma del Pd. E per una volta che attuiamo il programma - ha concluso - non si può tornare indietro. Sarebbe un tradimento". Circa la contestata equiparazione mafia- corruzione, il presidente del Senato ha spiegato che il sequestro dei beni "si applica non su un singolo corrotto ma quando c'è intreccio tra corruzione e mafia, quando c'è comunque l'esercizio della violenza, una rete correttiva, la reiterazione". Nessuno scandalo né cedimento ai giustizialismi. Solo, semmai, "la capacità della politica di essere etica". Un concetto caro ad un padre nobile della sinistra come Gerardo Chiaromonte. 

Il muro del Presidente del Senato. Se Grasso alza il muro in serata quasi a chiudere definitivamente la polemica, prima di lui sono stati tanti i nomi di punta del Pd che hanno chiuso sul nascere ogni ipotesi di riforma lanciata dal presidente Orfini ("l'articolo 1 è una forzatura, un cedimento ad una visione giustizialista del diritto abbastanza incompatibile con i principi a cui dovremmo ispirarci").  Il ministro Anna Finocchiaro ha detto chiaramente che "l'equiparazione tra corruzione e mafia è sbagliata visto che la riforma estende la possibilità del sequestro e della confisca dei beni ai casi in cui i reati contro la pubblica amministrazione sono collegati ad un'associazione criminale, di fronte, ad esempio, ad una organizzazione che si occupa di pilotare appalti o si impossessa di denaro pubblico, spesso anche con la partecipazione di pubblici funzionari". Una norma, quindi, di "particolare rigore, anche in chiave preventiva, che i magistrati dovranno applicare con prudenza, ma necessaria visto che la corruzione è per tutti un'emergenza".

Pd diviso. Allineati con Grasso e Finocchiaro, il ministro Orlando, la presidente della Commissione Giustizia Donatella Ferranti che ricorda "le numerose audizioni in questi quattro lunghi anni e soprattutto con i magistrati, dall'Anm fino al parere positivo del CSM". Insomma, "nessuna forzatura del diritto". Non si capisce poi dove nasca il furore delle ultime ore visto che "la legge ha avuto il via libera del procuratore antimafia Roberti". E pazienza per Cantone che fin da luglio è critico col testo. Un No condiviso dal segretario Renzi che ieri dopo il voto ha provato a mandare avanti Orfini ed Ermini per organizzare un fronte critico. Spinto anche, si dice, dalle rimostranze di centristi e associazioni come Confindustria. Ma Renzi tiene bassa la polemica, non è il momento adesso di aprire nuovi fronti in Parlamento: mercoledì c'è da votare la nota di aggiornamento del Def (e al Senato sono necessari 161 voti), c'è da portare avanti la legge elettorale e poi la sessione di bilancio. Ed è necessario, per gli stessi motivi, anche non aizzare troppo la parte a sinistra del Pd per cui invece questa legge è una bandiera della legislatura. 

La battaglia di Rosi. Ma tra i renziani, che pure non insistono sul punto, si cerca di ricostruire l'origine di questo pasticcio che è l'articolo 1. "Va bene - ci si chiedeva ieri alla Camera - mettere mano all'agenzia dei beni sequestrati, organizzare in modo più trasparente ed efficiente le gestione dei patrimoni confiscati, ma chi ha voluto inserire quell'articolo che mette sullo stesso piano corrotti e mafiosi?".  Si arriva così in fretta alla presidente della Commissione Antimafia che quattro anni fa per prima con l'onorevole Mattiello (Pd, relatore della legge) raccolse le richieste delle associazioni antimafia e a San Macuto scrisse il primo articolato. Dove si prevedeva appunto il sequestro anche per gli indiziati, cioè indagati, per reati contro la pubblica amministrazione che sono un fenomeno ad altissima pericolosità sociale. Una presa di posizione durissima contro la corruzione sempre più spesso, tra l'altro, reato satellite delle organizzazioni criminali che la usano per infiltrare l'economia legale ma in crisi. "Un regalo al Paese" ha detto la presidente Bindi dopo l'approvazione. Fiera di aver messo la firma su una legge che, 35 anni dopo, aggiorna la Rognoni-La Torre e, come allora, può rappresentare l'arma vincente contro una mafia sempre più economica, che non si sporca le mani con le armi ma preferisce la corruzione. Un ottimo ultimo atto della legislatura e della Commissione. 

Sequestro di senatore, scrive Mattia Feltri il 7/07/2017 su "La Stampa". Conoscete la storia dei fratelli Cavallotti? I fratelli Cavallotti avevano ereditato dal padre un’azienda a Belmonte Mezzagno, Palermo, e l’avevano ampliata fino a contare 400 dipendenti. Tanti erano quando, a fine Anni Novanta, tre dei fratelli finiscono in carcere per mafia. Si fanno due anni e mezzo e poi sono assolti. Segue l’appello, la Cassazione, e in capo a dieci anni la loro innocenza diventa definitiva. Intanto però l’azienda (con l’intero patrimonio di famiglia) è stata sequestrata preventivamente. L’amministratore giudiziario combina qualche pasticcio, diciamo così. Oggi l’azienda non c’è più e i quattrocento operai sono disoccupati. Non è una storia rara. Magari meno eclatanti, magari più trascurate, ma di storie così ce ne sono. Questa la si racconta perché ieri il Senato ha esteso le regole antimafia all’anticorruzione. Significa che basterà essere sospettati di associazione a fini corruttivi per vedersi sequestrare tutto. Poi, se assolti, come i Cavallotti, tanti auguri. Non solo la mafia, pure la corruzione è un’emergenza, ha spiegato il ministro Anna Finocchiaro. Anche lo stalking è un’emergenza, ha detto la senatrice Lo Moro (dalemiana). Quindi il sequestro si farà anche ai sospetti stalker. E ai sospetti terroristi. Hanno scordato l’emergenza vaccini, l’emergenza incendi, l’emergenza migranti, l’emergenza Xylella e l’emergenza pitbull, e tante altre emergenze. Poi, al primo politico cui faranno un sequestro preventivo, scopriremo l’emergenza sequestri preventivi (e sarà colpa dei magistrati).   

Cantone: antimafia usata come brand. Presidente Anac, corruzione limita investimenti, scrive il 4 luglio 2017 "L'ANSA". "Molte persone si sono improvvisate paladini dell'antimafia e non c'è stata nessuna valutazione sul loro reale operato". Lo ha detto Raffaele Cantone, oggi all'università di Palermo, commentando le indagini su alcuni esponenti dell'antimafia. "L'antimafia - ha proseguito - è stata utilizzata più come un brand per propri fini personali. Si è verificato in Sicilia così come in altre regioni. Bisogna interrogarsi. Tutto questo finisce per creare disdoro all'antimafia vera". "La corruzione - ha aggiunto il presidente dell'Anac cambiando argomento - limita investimenti ovunque, non solo in Sicilia. Tra i parametri degli investitori ci sono sicuramente le percentuali di corruzione dei vari Paesi o regioni".

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Flick con Cantone: «Il Codice antimafia così non funziona», scrive Errico Novi il 4 luglio 2017 su "Il Dubbio". Parla il presidente emerito della Corte costituzionale alla vigilia del voto al Senato: «Basta la natura associativa dei reati per colpire la proprietà privata? Rischiamo il no di Strasburgo». «Sono molto preoccupato». Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, scandisce le parole, le pesa ma non per questo le attenua. «Riguardo all’estensione delle misure patrimoniali previste per la criminalità organizzata ad altri reati, e in particolare a quelli di corruzione, sono molto preoccupato per una ragione di metodo: in particolare perché vedo l’utilizzo sistematico dell’emergenza come strumento ordinario di risposta al crimine». Il professor Flick, che è stato anche ministro della Giustizia, sa bene di far precipitare la propria valutazione in un giorno particolare. Quello in cui il Senato si appresta ad approvare in seconda lettura il Codice antimafia con i sequestri preventivi ai corrotti, ovvero il cosiddetto doppio binario trapiantato nel campo dei reati contro la pubblica amministrazione. A Flick non interessa «sollevare polemiche», anche se il tema è fin troppo divisivo e delicato per pensare che se ne possa fare a meno.

Perché un presidente della Corte costituzionale arriva a dirsi preoccupato per le nuove norme?

«Mi perdoni, ma la domanda è mal posta. Io non entro nella valutazione di specifici aspetti di una decisione del Parlamento. Ci penseranno eventualmente la Corte costituzionale o la Corte europea dei Diritti dell’uomo. Mi dico preoccupato per una tendenza che riguarda la legislazione nell’intero campo del diritto penale».

Da quale punto di vista?

«Riguardo all’estensione ad altri campi di norme e misure eccezionali, in modo da normalizzarne l’utilizzo. È una strategia che non può funzionare, come contrasto sistematico delle attività illecite. Ciò che è pensato per essere eccezionale dovrebbe rimanere tale. Non mi riferisco solo a misure come i sequestri. Il paradigma è stato offerto dall’ordinamento penitenziario: penso all’applicazione sempre più ampia del 41 bis e dell’articolo 4 bis, ossia la norma che prevede l’esclusione degli autori di determinati reati dalle misure alternative e dunque da un modello trattamentale fedele al dettato dell’articolo 27 della Costituzione. Tale esclusione inizialmente riguardava solo la criminalità di stampo mafioso, poi è stata estesa a un ventaglio di reati disomogeneo e disorganico che avevano un comune denominatore: suscitare un forte allarme sociale».

Si pensa di dover placare un’ansia diffusa e si ricorre per tutti i tipi di reato alla stessa soluzione.

«Sì, c’è la forte spinta a percorrere la strada dell’emergenza come risposta che in apparenza dovrebbe tranquillizzare, assicurare una risposta securitaria. Ma si tratta di contromisure dall’efficacia più apparente che reale».

Cosa pensa del contesto associativo come condizione necessaria per applicare i sequestri a reati come il peculato?

«Guardi, il tentativo di limitare l’applicazione di determinate norme può essere lodevole, come appunto in questo caso, ma è sbagliato il sistema. Mi chiedo: il concorso nel commettere un reato può davvero giustificare l’introduzione di questi strumenti patrimoniali?»

Cantone teme che allargare il ricorso ai sequestri preventivi possa indurre la Corte di Strasburgo a dichiarare non conformi alla Convenzione dei Diritti umani gli stessi sequestri agli indiziati di mafia.

«Siamo riusciti a mettere in confusione persino la Corte europea. Neppure a Strasburgo riescono più a comprendere se si tratta di sanzione o di prevenzione, se vogliamo rispondere alla pericolosità del reato, o della persona che lo commette, o del bene come profitto di reato che ha un’autonoma pericolosità e che va quindi confiscato anche agli eredi. Sono confuse le categorie in cui iscrivere il sequestro e la confisca. E prima o poi potrebbe arrivare da Strasburgo una pronuncia che metta in discussione lo strumento in sé. Finora la stessa Corte si è trovata di fronte a una specificità italiana qual è la necessità di contrastare la criminalità mafiosa, che giustifica interventi di carattere emergenziale. Ebbene, non so se la normalizzazione di questi interventi possa essere accettata».

Sulle norme di cui si discute in questi giorni potrebbero arrivare pronunce sfavorevoli dalla Corte costituzionale?

«No, mi stia a sentire: non si possono fare pronostici, la Corte europea e la Corte costituzionale eventualmente valuteranno. Si tratta non di misure cautelari personali ma patrimoniali: ebbene, va determinato quali limiti le misure repressive possano imporre al principio della proprietà privata».

Non un dilemma da poco.

«In singoli episodi il sequestro preventivo può essere legittimo, ma è il quadro che emerge ad essere preoccupante. Soprattutto perché il legislatore ha scelto di normalizzare l’emergenza, ripeto, e certi automatismi producono delle assurdità».

Il quadro normativo attuale regola già i sequestri in base a indizi di corruzione?

«Posso dire che la legislazione attuale prevede un campo d’applicazione fin troppo ampio per misure come sequestri e confische. Vorrei anche ricordare che il principio di tali misure discende dalla circostanza che una certa ricchezza sia frutto di reato. Un fatto che suscita allarme perché si tratta di un inquinamento economico. Ma se il ricorso a tali misure viene agganciato soltanto al tipo di reato commesso e non al comportamento del soggetto che ne è autore o alla natura del profitto, si capisce bene come le conseguenze che ne possono discendere siano completamente diverse: sino ad arrivare al diritto penale di autore o del nemico. Comunque a una forma indeterminata di ablazione. Mi pare lo stesso processo di estensione impropria avvenuto appunto con la norma dell’articolo 4 bis nell’ordinamento penitenziario».

Perché colpire un arricchimento frutto di attività illecita non è sempre e comunque appropriato, visto che si tratta in ogni caso di un inquinamento?

«Un conto è andare a Strasburgo e dire "ricorriamo a determinate misure per contrastare un fenomeno del tutto extra ordinem come la mafia", ben altro è trasformare un sequestro preventivo in strumento generale a cui ricorrere sempre. D’altronde non credo di essere il solo a ritenere inadeguate le attuali forme di contrasto della corruzione».

A cosa si riferisce?

«A quanto hanno detto il presidente e il procuratore generale presso la Corte dei Conti in sede di presentazione del rendiconto generale dello Stato la settimana scorsa. Il primo ha parlato di un sistema devastante di corruzione. Il procuratore generale ha descritto un sistema di contrasto basato su una pluralità di controlli, affidati a soggetti diversi, dalla stessa Corte alle autorità indipendenti, articolato come una serie di sottosistemi che, insieme, non formano alcunché di unitario. Fino a generare costi complessivi a cui non corrisponde adeguata utilità. Alla luce di questo, non so quanto la repressione attraverso l’asporto del denaro sia davvero strumento sufficiente per bloccare la corruzione. Al di là del suo valore di proclamazione- manifesto».

Mafia e corruzione sono oggi due volti dello stesso fenomeno?

«Sono due fenomeni che possono sovrapporsi. Ma restano distinti: della prima è caratteristica la violenza, della seconda l’accordo. E per questo pensare di usare contro la corruzione gli stessi strumenti adottati contro le mafie non mi sembra la strada giusta. Quando i due fenomeni si sovrappongono, si dovrebbe ricorrere sia agli strumenti di contrasto propri dell’uno che a quelli concepiti per l’altro».

Catania: appalti pilotati alla Publiservizi, arrestato l'ex presidente Adolfo Messina. Aveva denunciato minacce, per Crocetta simbolo di legalità. Zuccaro: "Il governatore non informato, ha sbagliato a scegliere lui come emblema di legalità", scrive Natale Bruno il 3 luglio 2017 su “La Repubblica”. C’è anche Adolfo Messina, l’ex presidente della Publiservizi S.p.a. di Catania, società “in house” della Città Metropolitana di Catania, tra i sei arrestati della Guardia di finanza in un‘operazione scattata all’alba e ordinata dalla Procura distrettuale di Catania, denominata “Cerchio magico”. Le fiamme gialle del nucleo di polizia tributaria hanno scoperto un giro di corruzione avvenuto tra il 2015 e il 2016 per appalti pilotati. Le misure cautelari sono due arresti in carcere e quattro ai domiciliari e riguardano il reato di corruzione continuato con il vincolo associativo. Sequestrati beni per oltre duecentomila euro pari al profitto corruttivo. Con Messina a piazza Lanza è finito Alfio Massimo Trombetta consulente della partecipata, ai domiciliari invece Raffaello Giovanni Pedi di 43 anni, responsabile di una delle quattro posizioni organizzative quella della manutenzione edilizia e gli imprenditori Rosario Simone Reitano di 36 (Renergy), Santo Nicotra di 44 (Light and Power srls) e Alfio Giuffrida (ma.gi. srl). Sfiorato, ma estraneo dall’indagine per la sua buona volontà a collaborare con gli inquirenti Salvatore Branchina, 58 anni, rup della pubbliservizi. L’indagine è durata meno di un anno ed ha avuto un’accelerazione quando a metà ottobre dell’anno scorso Adolfo Maria Messina denuncia di avere ricevuto minacce, assolutamente inventate, trascinando sino a Catania il presidente della Regione che per il suo pupillo tira fuori i soliti slogan della legalità. Su questo fatto, sull’abbaglio del Governatore, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro è perentorio: “Crocetta quando sostiene che ci sono uomini della legalità che debbono avere il coraggio di denunciare dice il vero – spiega ai cronisti Zuccaro – non disponendo però di una rete informativa ha sbagliato nello scegliere chi doveva essere posto ad emblema. Il camaleontismo spesso fa sì che il mafioso si veste, si camuffa da antimafioso così come il corrotto fa e si camuffa da anticorrotto”. Nell’inchiesta coordinata dal procuratore Zuccaro e dai sostituti Fabio Regolo e Fabio Saponara e affiadata alla guardia di finanza guidata dal neo comandate il generale Antonio Quintavalle Cecere e dal colonnello Fracesco Ruis comandate del nucleo di polizia tributaria salta fuori un orologio, un Rolex che balla, un Daytona da 23 mila euro acquistato in quota parte dai corruttori, gli imprenditori disposti a pagare mazzette per le manutenzioni delle strade e delle scuole della provincia di Catania; un orologio talmente ingombrante che Adolfo Messina ad un certo punto per dribblare le leggende metropolitane che si moltiplicavano attorno al prezioso oggetto ha scambiato con un modello più economico. E poi c’è ancora la ricorrenza del suo compleanno che Messina festeggia a Trecastagni in casa dell’imprenditore Alfio Giuffrida, che, obbligato per i benefici avuti dal presidente, offre catering e festeggiamenti. L’inchiesta è nata a settembre e si è conclusa a dicembre dell’anno scorso, è stata fondata su accertamenti bancari, perquisizioni e una minuziosa analisi documentale. Il nucleo di polizia tributario della guardi di finanza ha ricostruito che Adolfo Messina avvalendosi del suo consulente Trombetta ha messo in piedi un sistema di corruzione incassando qualcosa come 200 mila euro (somma sequestrata) pilotando gli appalti grazie al sistematico utilizzo dell’affidamento diretto dei lavori sotto la soglia dei 40 mila euro e poi gonfiati da varianti in corso d’opera grazie alla compiacenza di imprenditori che tra l’altro avevano a disposizione corsie preferenziali nei pagamenti delle commesse. Il comandante della guardia di finanza etnea.

Poi c'è il risvolto della medaglia. Atto a cui si riferisce: Angelo Niceta è il testimone di giustizia che sta raccontando alla magistratura gli affari e le collusioni della mafia siciliana, chiamando in causa, tra l'altro, la famiglia Guttadauro e...Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-17051presentato da PALAZZOTTO Erasmo iGiovedì 22 giugno 2017, seduta n. 819. PALAZZOTTO. — Al Ministro dell'interno, al Ministro della giustizia . — Per sapere – premesso che:

Angelo Niceta è il testimone di giustizia che sta raccontando alla magistratura gli affari e le collusioni della mafia siciliana, chiamando in causa, tra l'altro, la famiglia Guttadauro e Matteo Messina Denaro; 

i Niceta a Palermo sono un cognome che conta: il loro grande magazzino nella centralissima via Roma è stato il primo di tutta la Sicilia nel settore tessile e per la biancheria della casa;

in quel grande magazzino la famiglia Niceta intratteneva rapporti con i massimi esponenti di Cosa Nostra, da Bernardo Provenzano, ai fratelli Carlo, Giuseppe e Filippo Guttadauro e persino con Matteo Messina Denaro;

presa coscienza dei rapporti pericolosi che si consumavano nell'azienda di famiglia, ad un certo punto Angelo Niceta ha deciso di dire basta e di parlare con i magistrati;

a Palermo i magistrati Nino Di Matteo e Pierangelo Padova hanno chiesto per lui lo status di testimone di giustizia, per aver reso dichiarazioni come persona informata sui fatti;

la richiesta inizialmente è stata accolta dalla Commissione centrale del Ministero dell'interno, ma oggi però, pur non essendo mai stato indagato per mafia, Angelo si ritrova (con la moglie e i loro quattro figli) bollato come «collaboratore di giustizia», abbandonato e senza nessuna protezione;

in seguito alla comunicazione della Commissione centrale del Ministero dell'interno che negava il riconoscimento dello status di testimone di giustizia, Angelo Niceta rifiutò lo status di collaboratore di giustizia e rinunciò alle misure di protezione ritenendo quell'atto non adatto alla sua situazione;

nonostante l'importanza oggettiva delle sue dichiarazioni, riconosciuta dalla procura di Palermo che ha richiesto per lui speciali misure di protezione, gli viene negato il ruolo di testimone di giustizia e perfino la scorta;

quest'atto della Commissione centrale del Ministero dell'interno potrebbe creare un precedente tale da disincentivare la collaborazione con le istituzioni di altri cittadini che vivono la stessa condizione del soggetto in questione–:

quali siano le motivazioni che hanno portato a rifiutare il riconoscimento delle misure di protezione collegato allo status di testimone di giustizia;

se le informazioni fornite da Niceta non mettano a rischio l'incolumità dello stesso e dei suoi familiari;

quali misure si intendano adottare per assicurare l'incolumità e la sicurezza della famiglia Niceta, attivando la scorta e le altre misure di protezione previste dalla legge;

quali iniziative di competenza s'intendano adottare per far sì che venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e assicurare allo Stato, tramite le informazioni ricevute dal Niceta, di raggiungere ulteriori obbiettivi nel contrasto alla mafia e nella cattura dei latitanti di cui Niceta parla;

quali iniziative di competenza intenda assumere in relazione all'attuale gravissima situazione di isolamento sociale ed indigenza economica che si è creata a causa della sua «scomoda» testimonianza. (4-17051)

Antimafia, il pm sul caso Saguto: "Sembrava un santuario", scrive Lunedì 03 Luglio 2017 "Live Sicilia”.  "Si è creata una specie di congiuntura, per cui era quasi impossibile intaccare quello che sembrava un santuario". A dirlo è stato il sostituto procuratore Cristina Lucchini parlando davanti alla Commissione antimafia, nel corso di una audizione in cui sono stati ascoltati anche il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Caltanissetta, Amedeo Bertone, i procuratori aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci e i sostituti procuratori Stefano Luciani. Il resoconto dell'audizione è stato depositato in questi giorni. "L'idea che ci siamo fatti - ha detto il pm Lucchini, rispondendo ad una domanda della presidente dell'Antimafia Rosy Bindi a proposito del caso che ha riguardato Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - è che i magistrati (questo, però, riguarda non solo l'incarico e il ruolo di giudice delegato nelle misure di prevenzione, ma può riguardare anche altri incarichi) non hanno la preparazione per interloquire fondatamente con dei professionisti quali gli amministratori giudiziari nella gestione di compendi in sequestro". "Il sistema, per come è strutturato, si fonda, di fatto, sulla capacità di controllo del giudice delegato sulle attività di amministratori giudiziari e sulla onestà degli amministratori giudiziari nella gestione dei compendi in sequestro. Ci sono, dunque, variabili troppo fragili per consentire una gestione improntata a criteri di legalità e di efficienza", ha proseguito Lucchini, secondo la quale il "caso Saguto" è stato possibile "perché si è lasciato tutto all'onestà, in questo caso alla disonestà, del presidente della sezione misure di prevenzione. Poi, quando si sono avvertiti i primi scricchiolii, perché sono iniziate le prime denunce, la reazione è stata - mi permetto di dirlo, credo anche della Commissione antimafia - di incredulità e di difesa netta dell'operato della sezione misure di prevenzione". (ANSA).

Comma 7 dell'art. 416 bis del codice penale (associazione mafiosa). "Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego". Domanda: se già il codice penale prevede la confisca nei confronti del condannato per mafia a che serve la confisca di prevenzione se non a togliere i beni ad una persona giuridicamente innocente? Altra domanda: togliere ad una persona innocente i beni è una vittoria dello Stato contro la "mafia" o è un crimine di Stato?

L'Antimafia per tutti nel Parlamento degli incompetenti, scrive Giovanni Fiandaca il 30 giugno 2017 su "Il Mattino" (Salerno). Riforme che incidono profondamente sui diritti fondamentali, come quella volta a estendere la confisca preventiva antimafia all'indiziato anche di un solo delitto contro la pubblica amministrazione, non dovrebbero essere varate in assenza di una elaborazione tecnico-giuridica adeguata. Purtroppo, in Parlamento predominano incompetenze, confusione, improvvisazione e approssimazione. E non dovrebbe costituire criterio di decisione politica determinante, per un partito come il Pd, la paura di essere accusato dai grillini di non voler fare sul serio nella lotta alla corruzione. Ribadisco, in sintesi, perché l'innovazione è poco ragionevole. La confisca di prevenzione cosiddetta allargata, che può avere ad oggetto l'intero patrimonio, è stata introdotta nel 1982 riguardo agli indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata di stampo mafioso, sulla base di un presupposto empiricamente avvalorato dalle conoscenze criminologiche: che il mafioso sia un soggetto che accomuna patrimoni grazie a una attività illecita ripetuta e protratta nel tempo. Da qui la presunzione legislativa che le ricchezze acquisite, salva prova contraria, siano frutto di pregresse e reiterate condotte delittuose. Una presunzione analoga non risulta, invece, altrettanto ragionevole (con la possibilità, dunque, di essere sindacata dalla Corte Costituzionale) nel caso di chi sia indiziato di aver commesso, ad esempio, un solo piccolo peculato o anche una sola corruzione: la persona a cui capita di commettere un reato contro la pubblica amministrazione non è infatti, perciò stesso, un soggetto professionalmente o abitualmente dedito a compiere reati dello stesso tipo. Per superare una simile incongruenza, gli attuali relatori al Senato Lumia e Pagliari hanno ritenuto di far proprio un suggerimento del Procuratore nazionale antimafia, consistente nell'aggiungere che il soggetto in questione debba altresì essere indiziato di far parte di un'associazione per delinquere, anche cosiddetta semplice (art. 416 C.P.). Con tutto il rispetto per il Procuratore Franco Roberti, questa modifica aggiuntiva non mi pare idonea a risolvere il problema. Nella logica della confisca allargata, decisivo non è infatti che il singolo reato contro la pubblica amministrazione sia oggetto del programma criminoso di un'associazione: ma, piuttosto, è determinante la presenza di riscontri circa la continuità o la professionalità dell'attività illecita, elementi questi che possono anche prescindere dal fatto che il soggetto sia o meno indiziato di appartenere ad un sodalizio criminale. Tutto ciò premesso, auspicherei - almeno allo stato attuale - un atto di sopravvenuto pentimento parlamentare, con conseguente blocco della riforma. Tanto più che, nonostante la stragrande maggioranze dei cittadini lo ignori, la confisca antimafia può già in base al diritto vigente (a partire dai pacchetti sicurezza del 2008 e del 2009) essere applicata a tutti i soggetti indiziati di essere «abitualmente dediti ad attività delittuose», quale che sia l'attività criminosa che viene in rilievo e, dunque, anche un comportamento delittuoso abituale contro la pubblica amministrazione. Il diritto vigente, per quanto paradossale possa sembrare, è quindi comparativamente più intelligente e ragionevole rispetto alla novità in discussione: novità che, evidentemente, i fautori della riforma vorrebbero introdurre proprio per consentire il sequestro e la confisca dell'intero patrimonio prescindendo dall'accertamento di una abitualità nell'illecito, ma in presenza appunto anche di un solo reato contro la pubblica amministrazione. Questa tendenza ad estendere, oltre il ragionevole, sequestro e confisca antimafia non è solo frutto di un populismo penale onnivoro, che strumentalizza politicamente la lotta alla corruzione come spot elettorale. Essa non tiene, per di più, conto della perdita di legittimazione che la normativa italiana sulle misure di prevenzione sta cominciando a subire per effetto della Corte Europea di Strasburgo, in particolare a partire dalla recente sentenza «de Tommaso». Anziché incrementare i difetti del sistema attuale, approvando una novità normativa non solo discutibilissima ma di pressoché nulla utilità pratica, il ceto politico farebbe meglio ad avviare un processo di profonda revisione dell'intero sistema della prevenzione personale e patrimoniale, in modo da renderne meno generici e vaghi i presupposti applicativi, e così da riscriverlo in linea con i principi di civiltà giuridica additati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

ANTIMAFIA, IL “CERCHIO MAGICO” SI STRINGE, scrive Debora Borgese il 26 giugno 2017 su “L’Urlo”. Fari puntati sulla presunta lotta alle mafie e sull’amministrazione dei beni confiscati. Da un lato, il via al processo contro Silvana Saguto insieme ad altri 22 imputati per 79 capi di accusa a vario titolo, dalla corruzione, truffa e falso. In particolare, Silvana Saguto è accusata dalla procura di Caltanissetta per aver gestito in modo spregiudicato i patrimoni sottratti alla mafia. Dall’altro lato, invece, il nuovo Codice Antimafia, in discussione generale da martedì 27 giugno a Palazzo Madama, spinto fortemente da Pietro Grasso dopo circa un anno e mezzo di attesa. Al centro del dibattito, il primo emendamento che estende le misure di prevenzione personali e patrimoniali di confisca e sequestro agli indiziati, oltre che di mafia, anche di atti persecutori e contro la PA. «Su questo punto ci sono resistenze enormi – ha dichiarato il sen. Giuseppe Lumia (PD) a il Sole 24 Ore – ma confidiamo di superarle». E il supporto potrebbe arrivare dal M5S dove si dicono pronti a votare favorevolmente il ddl a patto che «non si svuotino le norme che estendono la prevenzione ai corrotti», ha affermato il sen. Mario Michele Giarrusso. In mezzo (ma nessuno lo dice o non ne vuole tenere conto: in particolare le Procure), ci sono le associazioni antiracket che si fanno Stato, supportate da esponenti con alte cariche. Pietro Grasso, per esempio, in tempi non molto lontani, si è definito il “padre putativo di Addiopizzo”, indicando il comitato quale “effetto deterrente sulla mafia”. Lo diceva pochi mesi prima che scoppiasse lo scandalo di Silvana Saguto, l’ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo oggi al banco degli imputati. Una vicenda che ha portato all’attenzione pubblica le associazioni antiracket che, a detta di Silvana Saguto, suggerivano addirittura i nomi degli amministratori giudiziari ai quali assegnare i beni confiscati. Tra questi, anche Addiopizzo di cui è stato presidente fino all’ufficializzazione della sua candidatura a sindaco di Palermo Ugo Forello, oggi neo-consigliere comunale in quota M5S che nelle scorse settimane la stampa ha rivoltato come un calzino con i suoi affari societari e legami familiari che lo vedrebbero intrecciato alla sfera di Silvana Saguto. Il suo curriculum, a prescindere da Addiopizzo, dimostra un impegno costante nell’antiracket. Un vero professionista dell’antiracket: nel 2008 entra a far parte dell’ufficio legale Fai (Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane il cui presidente onorario è Tano Grasso) e nel 2010 nel “Comitato di solidarietà vittime dell’estorsione e dell’usura”, un organismo prestigioso costituito presso il Ministero dell’Interno che ha il compito di esaminare e decidere sulle istanze per l’accesso ai benefici del Fondo di solidarietà. Nel 2013 lo troviamo alla guida dello Sportello solidarietà di Palermo, una struttura formata da una equipe di avvocati, psicologi e commercialisti per seguire e orientare cittadini e imprese che si trovano in difficoltà. Peccato che sul portale del Ministero dell’Interno non siano mai state pubblicate le nomine dei membri del Comitato di Solidarietà che appunto delibera le erogazioni del fondo per il sostegno alle vittime, e in quale misura siano state ripartite queste somme anche alle associazioni! Misteri. Non è un mistero invece vedere fianco a fianco il sen. Giuseppe Lumia (PD) e il sen. Mario Michele Giarrusso (M5S) a sostegno del nuovo Codice Antimafia, come non stupisce l’unanime posizione sul primo emendamento che inasprisce le misure di confisca e di sequestro dei beni patrimoniali. Per prevenzione, è la giustificazione. E a prescindere l’art. 27 della Costituzione! È risaputo che i rapporti dei due senatori vadano ben oltre i partiti d’appartenenza, e riguardano altri interessi: entrambi risultano tra i responsabili regionali della Associazione Antonino Caponnetto, insieme ad altri. Già, proprio il sen. Lumia. Lo stesso senatore che, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, nel 2015, esprimeva in un post su facebook la sua solidarietà a Silvana Saguto, poco prima che questa venisse indagata. Un messaggio che, oltre all’accanimento sulle confische verso soggetti non giudicati effettivamente colpevoli dei reati per i quali vengono inquisiti (e perciò innocenti, fino a prova contraria), lascia ipotizzare un’amicizia con la giudice. “Misteri Buffi” – citando il titolo del libro dell’On. Antonio Venturino, vicepresidente ARS – sono invece i coinvolgimenti della segreteria del PD e del sen. Michele Giarrusso per supportare l’elezione di Pietro Grasso alla Presidenza del Senato. “La segreteria nazionale del Pd sollecitò un mio intervento.”, racconta l’On. Venturino. “Mi chiedevano di instaurare una possibile interlocuzione con il gruppo M5S. Giunse un’insolita telefonata del senatore Giarrusso. Mi invitava a raggiungerlo a Roma. Giunsi nella capitale il giorno prima dell’elezione del presidente del Senato.” E svela: “Continuava a confermarmi della necessità di aprire al Pd, dei segnali che anche lui aveva ricevuto. Chiedeva il mio contributo in Sicilia a favore di una linea di confronto.” A quell’incontro riservato, seguì il suo intervento in assemblea con il gruppo parlamentare del Senato – M5S: “La mia indicazione fu chiara, l’astensione del M5S avrebbe condotto all’elezione di Renato Schifani. Il mio suggerimento era quello di eleggere una personalità di rilievo come Piero Grasso. Si scatenò il putiferio.” L’On. Venturino venne accusato di essere estraneo allo spirito del Movimento e che non avrebbero mai accettato alcun compromesso. Ma sta di fatto che Pietro Grasso veniva eletto Presidente del Senato. Prevedibile, a questo punto, potrebbe risultare il nome di Paolo Borrometi, il giornalista a cui il PdR Sergio Mattarella ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e che ormai da anni vive sotto scorta, tra i nomi del Gruppo Stampa e informazione di questa fondazione. Un “Polo Progressista 2.0″ del Movimento per la Democrazia – La Rete di Leoluca Orlando che, oltre alle associazioni antimafia, oggi si realizzerebbe con il M5S, insomma. E certamente appare più evoluto nei mezzi (grazie al web e alla magistratura) e nelle finalità. Un brutto bluff, o forse solo un grande business, presto dimostrato dal caso Saguto che potrebbe non rimanere isolato, aprendo nuovi scenari nel mondo dell’associazionismo legato all’antimafia, ai suoi fondatori e ai suoi padri putativi. Un mondo tutto da scoprire dalle Procure dell’isola.

La camera mortuaria della culla del diritto, scrive il 27/6/2017 Vincenzo Maiello su "Il Mattino di Caserta". Questa condizione costringe da tempo ad analizzare iniziative e proposte politiche orientate a drenare consenso sociale in danno dello Stato di diritto e dei suoi principi identitari. A questo radicato milieau appartiene, ultimo in ordine di tempo, ma non, invece, per la preoccupante cifra di rozza involuzione che la caratterizza, il disegno di legge che estende agli indiziati di reati contro la Pubblica Amministrazione le misure di prevenzione disciplinate dal codice antimafia. Contro l'intervento di cui la propaganda di governo non ha mancato di enfatizzare il ruolo di frontiera avanzata del contrasto alla corruzione pubblica è già stata espressa su questo giornale una posizione di forte dissenso, elaborata dalla visuale del «laico» che non veste i panni del giurista professionale. Segnalando il pericolo di incisive torsioni autoritarie a cui finirebbe per esporsi ancora una volta il sistema delle garanzie individuali, Massimo Adinolfi ha dato voce alle ragioni di «buon senso civile» che si oppongono a ciò che si prospetta come un nuovo, becero aggiramento del modello di relazioni tra «autorità» ed «individuo» sublimato dallo Stato costituzionale di diritto. A quelle ragioni, vanno aggiunte considerazioni di sistema che fanno comprendere come il legislatore di questi giorni si stia muovendo lungo il piano inclinato di un inquietante scivolamento verso soluzioni niente affatto degne di un ordinamento costituzionale. Al nostro legislatore, che ascrive a proprio merito l'ampliamento del raggio di azione delle misure di prevenzione, occorrerebbe rammentare cosa esse sono e da quale storia provengano, dicendo:

A) che esse rappresentano, storicamente, una forma di deroga alla legalità penale ed ai criteri che presiedono all'imputazione di responsabilità legata alla commissione di reati;

B) che la loro apparizione sulla scena normativa risale ai primi anni dello Stato unitario e corrisponde alle urgenze repressive della borghesia di governo, interessata, per un verso, a neutralizzare l'area della marginalità sociale pericolosa (i cosiddetti birbanti) in quanto capace di attentare all'integrità delle sue ricchezze; per laltro, a rimarcare come il diritto penale delle garanzie trovasse esclusiva applicazione rispetto ai reati commessi dai «galantuomini», ossia dagli individui non appartenenti a classi sociali antagoniste;

C) il successivo loro impiego durante l'arco dell'esperienza pre­repubblicana coincide con le poco nobili vicende di «soffocamento» del dissenso politico: alla fine dell'Ottocento, esse vengono piegate all'azione di emarginazione repressiva degli anarchici e del movimento operaio; durante il ventennio, assurgono a chiave di volta della strategia di allontanamento e di controllo degli avversari del regime, attraverso il famigerato «confino di polizia»;

D) la Costituzione repubblicana mantiene su di esse un rigoroso silenzio, interpretato da una parte qualificata della dottrina giuridica come inequivocamente espressivo della volontà di negare loro ogni forma di cittadinanza;

E) sebbene assorbita dal «realismo politico» della giurisprudenza costituzionale, questa posizione trova oggi un parziale ancoraggio nel sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali, segnatamente nel contesto della Cedu.

Ebbene, proprio quest'ultimo punto merita attenta considerazione e dovrebbe indurre le forze parlamentari a ponderare con adeguata capacità di riflessione i passi che si stanno per compiere. Andrebbe ricordato che non più tardi di qualche mese fa, la Corte Europea del Diritti dell'Uomo nella sua composizione di vertice (la Grande Chambre) ha giudicato il sistema italiano di misure di prevenzione incompatibile con l'art. 2, Protocollo 4, della Cedu, osservando come i presupposti per la loro applicazione collidano con gli standard qualitativi richiesti dalla Convenzione e dal suo giudice. In particolare, ha rilevato che le fattispecie di pericolosità sono definite attraverso disposizioni legislative vaghe, eccessivamente porose e, perciò, affette da indeterminatezza; lo suffragherebbe lo stesso diritto elaborato dai nostri Tribunali e dalla Corte di Cassazione che continuerebbero a valorizzare elementi solo congetturali da cui ricavare la pericolosità del soggetto, anziché collocarsi sulla scia dei valori e delle funzioni di garanzia della «fattispecie». Su queste premesse, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno già tratto importanti conseguenze nel dare una rigorosa interpretazione dell'art. 75 del codice antimafia (che punisce le trasgressioni delle prescrizioni correlate alle misure di prevenzione personali) e la Corte di Appello di Napoli ha rimesso una importante questione di legittimità costituzionale alla Consulta. Si tratta di elementi che un dibattito parlamentare e, prima ancora, pubblico dovrebbe valorizzare non solo per evitare di compiere scelte di retroguardia culturale e civile, ma anche per scongiurare gli effetti di decisioni avventate che il diritto delle Corti europee potrebbe bocciare. Vorremmo tutti impedire che il nostro ordinamento si trasformi da culla del diritto a sua camera mortuaria.

Nota sulle misure di prevenzione, scritta da Pietro Cavallotti su "Tele Jato" il 27 giugno 2017. La misura di prevenzione non è usata come strumento per prevenire, bensì per punire ed affliggere chi ne viene sottoposto: togliere ad una persona tutto il patrimonio, finanche la casa familiare, significa privare lei e la sua famiglia di ogni mezzo di sostentamento; significa travolgere il suo passato (il patrimonio, solitamente, è un complesso di beni in cui si identificano intere generazioni) e distruggere il suo futuro. Per usare una citazione eloquente: “la prevenzione patrimoniale è la morte civica di una persona”. A ciò si aggiunga che, nel momento in cui l’Amministrare giudiziario si presenta per prendere possesso del bene, senza che, nell’immediatezza con cui è disposto il sequestro, neppure i proposti ne conoscano le motivazioni, costoro vengono allontanati dalle proprie aziende e dalle proprie abitazioni, senza alcuna possibilità di trovare altra occupazione, poiché “marchiati” dal provvedimento. Non ci sono limiti temporali alle indagini di prevenzione, né è prevista la possibilità di una prescrizione del provvedimento. Anche nell’eventualità di un rigetto della proposta, l’azione può essere (ri)esercitata e il Tribunale può accogliere o rigettare il provvedimento in qualsiasi momento. Si consideri che “la confisca è preceduta dal sequestro e che lo stesso giudice che ha disposto il sequestro, inaudita altera parte, deciderà se revocare il sequestro o disporre la confisca, in ciò rivalutando i medesimi elementi indiziari. Di conseguenza non potrà mai essere terzo ed imparziale poiché non potrebbe mai essere “incentivato” a restituire i beni all’avente diritto il quale, una volta rientrato in possesso dei propri averi, potrebbe esercitare l’azione di responsabilità nei confronti proprio di quel giudice e dell’Amministratore Giudiziario”. Quasi sempre, inoltre, il sequestro produce effetti devastanti irreversibili sulle cose oggetto della misura e sulla vita delle persone. Il giudice che, disponendo il sequestro, ha concorso a produrre danni incalcolabili. La perizia disposta dal Tribunale, diventa lo strumento stesso attraverso il quale il giudice ricerca elementi nuovi sui quali fondare la sua decisione. In altre parole, il Tribunale si spoglia della sua terzietà, ricercando esso stesso la prova! Sarebbe bene anche che la politica si confrontasse con gli effetti prodotti dalle misure di prevenzione sulla vita delle persone, nel tessuto economico, rispetto al libero mercato. La minaccia sempre costante dell’applicazione di queste misure riduce, insieme alla presenza del crimine organizzato la già scarsa propensione ad investire in Sicilia e limita fortemente l’attitudine degli imprenditori siciliani ad espandere la propria attività economia. Pietro Cavallotti

NEL LABIRINTO DELLE STRAGI. TALPE, SPIE, TRADITORI.

19 gennaio 1940 - 19 luglio 1992. Borsellino, il coraggio e l’onestà. La mafia ha già ucciso Chinnici, Cassarà e Falcone. Lui è il prossimo e lo sa. Qualche giorno prima della strage rivela a un agente della scorta: «Sono turbato. È arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi». Palermo, 19 luglio 1992. Paolo Borsellino, dopo aver trascorso la mattinata a Villagrazia con la famiglia, decide di andare a trovare la madre che abita in via D’Amelio. Alle 16.55 il giudice scende dalla Croma, tende un dito per suonare il campanello, ma in quell’istante esplode una vecchia Fiat 126, parcheggiata davanti al civico 21, in cui sono stipati 90 chili d’esplosivo.

Strage Borsellino, tre poliziotti sotto accusa per il depistaggio del falso pentito Scarantino. Notificato il provvedimento di chiusura dell'indagine, verso il processo un funzionario e due sottufficiali. I pm di Caltanissetta contestano il reato di calunnia, scrive Salvo Palazzolo su "La Repubblica" l'8 marzo 2018. Prima degli interrogatori, suggerivano le dichiarazioni. Dopo, le aggiustavano. Un funzionario di polizia e due sottufficiali - simboli dell’antimafia in terra di Sicilia - sono accusati di aver costruito ad arte il pentito fantoccio Vincenzo Scarantino, la gola profonda che prometteva di svelare tutti i segreti della strage in cui morirono il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. La procura di Caltanissetta ha chiuso l’indagine sul colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità per tanti anni e si appresta a chiedere un processo per il dottore Mario Bo, oggi in servizio a Gorizia, per l'ispettore Fabrizio Mattei e per Michele Ribaudo (all'epoca era agente scelto). E’ la prima volta che uomini delle istituzioni vengono messi sul banco degli imputati per i misteri che ancora avvolgono le indagini sulla strage di via d’Amelio, avvenuta a Palermo il 19 luglio 1992. L’anno scorso, era stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a lanciare un appello per la verità: «Troppe sono state le incertezze e gli errori - aveva detto al Csm – e tanti gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto». Parole che raccoglievano l’amarezza dei figli del giudice Paolo. «Sono stati buttati via 25 anni a costruire falsi pentiti con lusinghe e con torture», ha detto Fiammetta Borsellino davanti alla commissione parlamentare antimafia. «Ci vorrebbe un pentito nelle istituzioni». Ma nessuno ancora ha infranto il muro dell’omertà. I magistrati non si sono arresi. La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Amedeo Bertone, ha fatto un lavoro certosino in questi anni. Prima, ha svelato il grande imbroglio, scagionando nove innocenti, grazie alle rivelazioni del pentito (vero) Gaspare Spatuzza, lui e non Scarantino aveva rubato la Fiat 126 trasformata in autobomba. Poi, è stato istruito il processo ai veri esecutori della strage (i mandanti di mafia erano già stati individuati). Adesso, si apre il capitolo del depistaggio di Stato. I tre poliziotti sono accusati di calunnia dal sostituto procuratore Stefano Luciani e dai procuratori aggiunti Gabriele Paci e Lia Sava. E ci sarebbe stato anche un altro imputato nella lista, ma è deceduto nel 2002: è l'ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, che coordinava il gruppo di indagine "Falcone-Borsellino" sulle stragi del 1992. In un primo tempo, era stata invece archiviata la posizione di Bo e di altri due funzionari, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera. Ma le indagini sono andate avanti. «Chiederemo una nuova audizione - dice l'avvocato Nino Caleca, che assiste Mario Bo - ribadiremo quanto già detto al primo giudice, che aveva archiviato. E solleciteremo una nuova archiviazione».

I VERBALI AGGIUSTATI. «Mi davano i verbali con degli appunti scritti a penna», ha raccontato Scarantino. «Mi facevano studiare anche il libro di Buscetta, che spiegava le regole dell’affiliazione a Cosa nostra e altri argomenti che non conoscevo». Dopo gli interrogatori con i magistrati, i tre poliziotti tornavano dal falso pentito, per fare il punto sulle contraddizioni emerse nei verbali. Erano sempre tante. Venivano corrette nelle successive audizioni. «Nessuno cercava conferme alle mie parole – ha accusato ancora Scarantino – bastava che facessi i nomi. Mi veniva detto: “Tu dichiara questo e stai tranquillo”. E se c’erano dei dubbi sulle cose da dire ai pm, sarebbe bastato chiedere di andare in bagno. Lì, avrebbe trovato i poliziotti a suggerire. In un altro caso, Bo sarebbe intervenuto con modi sbrigativi quando Scarantino annunciò la sua ritrattazione con un’intervista a Studio Aperto: nel giro di poche ore, il pentito fu convinto a ritrattare la ritrattazione. I tre indagati si difendono, negano qualsiasi pressione e fanno capire che era il superpoliziotto La Barbera l’unico vero dominus dell’indagine Scarantino.

I MISTERI CHE RESTANO. Ma davvero la spaventosa macchina delle menzogne fu solo iniziativa dell’ex capo della squadra mobile La Barbera e di alcuni suoi fedelissimi? Davanti alla commissione antimafia Fiammetta Borsellino ha chiesto che si faccia luce anche sui magistrati che si occuparono del caso. Durante il nuovo processo Borsellino, il quater, il pentito Scarantino ha chiamato in causa l’allora sostituto procuratore Anna Palma, ma sono rimaste accuse generiche, che non hanno portato all'apertura di un fascicolo (competente è la procura di Catania). Un’altra questione: cosa avrebbe spinto validi investigatori a mettere in piedi questa grande messinscena? L’ipotesi dell’inchiesta di Caltanissetta è che La Barbera sia stato spinto da una smodata ansia di trovare un colpevole a tutti i costi. Ma la strage Borsellino è ancora un buco nero: non sappiamo chi rubò l’agenda rossa del giudice nell’inferno di via d’Amelio; e neanche Spatuzza conosce il nome del misterioso uomo che il giorno prima della strage caricò la 126 di esplosivo, nel garage di via Villasevaglios 17, poco distante dal luogo dell’attentato. Si continua a indagare. I pm di Caltanissetta stanno cercando di dare un nome anche a un altro uomo del mistero, «l’amico che mi ha tradito», confidò in lacrime Paolo Borsellino ai suoi giovani colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa. Era l’inizio di luglio. C’è poi il mistero del dialogo fra il pentito Santino Di Matteo e la moglie, avvenuto dopo il rapimento del figlio, il piccolo Giuseppe, poi strangolato e sciolto nell’acido. Era il dicembre 1993. La donna parlò di «qualcuno della polizia» che era «infiltrato». Faceva riferimento alla strage Borsellino, disse che aveva paura. Chi era l’infiltrato? E perché il capo della Mobile Arnaldo La Barbera era anche a libro paga dei servizi segreti? Anche questo hanno scoperto i magistrati di Caltanissetta.

La storia del depistaggio su Via D’Amelio. Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su "Il Post". Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso. Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.

La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.

Venticinque anni di cazzate, scrive Filippo Facci venerdì 21 luglio 2017. Il presidente della Repubblica ha parlato di «incertezze», «errori» e «interrogativi» sui processi per la strage di via D'Amelio. Ma di che parlava esattamente? Tentiamo di mettere un po' d'ordine. In generale, si può sostenere che i processi per via D'Amelio siano stati il più spaventoso fallimento della storia giudiziaria siciliana: quattro dibattimenti sbagliati più uno di revisione che, proprio nei giorni scorsi, ha definitivamente assolto nove persone dapprima condannate anche all'ergastolo e al 41 bis. Due mesi per accusarle nel 1992 (falsamente) e 25 anni per assolverle.

1992. L'errore più incredibile fu inventarsi la credibilità di Vincenzo Scarantino, un meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, bocciato tre volte in terza elementare, ladro di pneumatici, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera dissero che non l'avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d'essere l'uomo che Totò Riina aveva incaricato di una delle stragi più importanti della storia d'Italia. Fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l'avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti "i cosi..." u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l'ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano.

1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrisse una relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c'è da fidarsi - fu la sua opinione. Durante l'estate la Boccassini si rese disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le rispose che non era necessario. La Boccassini ripartì per Milano e le sue indagini furono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo. I tre pm - domanda - caddero nelle spire di un depistaggio? «Il dominus dell'indagine resta sempre il pm, mai l'investigatore», dirà però la Boccassini nel 2014, «e sono i pm ad aver deciso di andare avanti con Scarantino».

1995. La moglie di Scarantino, in una lettera, accusava il questore La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli, tuttavia, convocò i giornalisti e e parlò di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». Alla difesa di La Barbera partecipò Caselli, il prefetto Achille Serra e il procuratore Antonino Palmeri. Il 26 luglio, la procura di Caltanissetta ordinò di distruggere una duplice intervista che «Studio Aperto» aveva appena fatto a Scarantino: un'intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione.

1998. Ogni tentativo di ritrattazione da parte di Scarantino viene tacitato. Disse il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Disse il pm Nino Di Matteo in una requistoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L'avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra». Eppure, altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall'informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un'interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale - reso da Scarantino nel 1994 - che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta. Sempre in quel 1998, Scarantino mise a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere».

2008. A 17 anni dalla strage di via D'Amelio, compare il pentito Gaspare Spatuzza. L'uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati diventano spazzatura, un pattume avvalorato solo dalla testimonianza di un uomo che, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava, e che c'erano degli innocenti condannati all'ergastolo. La Corte d'Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell'autunno 2010, in attesa dell'assoluzione di 7 anni dopo.

2012. Il neo processo legato alle confessioni di Spatuzza (Borsellino quater) si chiude con altri ergastoli e una condanna per calunnia a Scarantino, prescritta. La colpa del depistaggio e delle false accuse ricade in sostanza sul defunto questore La Barbera, e su nessuno tra gli ottanta magistrati che pure, volenti o nolenti, hanno concorso al depistaggio.

2013. Solo Enrico Deaglio, sul Venerdì di Repubblica, racconta che Spatuzza, già nel 1998, aveva già raccontato tutta la verità all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Tutto: dai dettagli sull'esplosivo usato in via D'Amelio al fatto che Scarantino fosse un falso pentito inventato dalla polizia. Da quanto inteso, Vigna mandò il verbale alla procura di Caltanissetta. Da quanto inteso, non accadde nulla. Libero, 20 luglio 2017

Quel naso grifagno, scrive Filippo Facci Giovedì 20 luglio 2017. Il silenzio. Quello di una chiesa. Era una domenica del primo autunno 1992 e Paolo Borsellino era già morto. Ad Arese, provincia di Milano, Salvatore Borsellino salì sull'altare e lesse una lettera che Paolo gli aveva scritto poco tempo prima, nella consapevolezza di avere i giorni contati. Paolo e Salvatore peraltro non si erano visti nè sentiti da molto tempo. «Quelle parole furono la testimonianza di una fede viva e profonda, e Salvatore, anche grazie a quella lettera, si riavvicinò alla fede. Ogni domenica, Salvatore accompagnava sua madre a messa ed era una vecchietta piccola, vestita di scuro, che non parlava mai. Io - ci ha raccontato Mariella, catechista di Arese - la accompagnavo a ricevere la Comunione: mi ringraziava con gli occhi, colmi di dolore e dolcezza. Ricordo Paolo Borsellino negli occhi della madre, e prego per lui e per la sua famiglia. Ora sono passati anni, la piccola madre non c’è più, e non c’è più quel Salvatore Borsellino. Ricordo quella lettera e credo che Paolo non approverebbe la politica dei propri cari, e mi sono detta che Salvatore, invece di sventolare libretti rossi, dovrebbe rileggere a tutti l’ultimo testamento di Paolo: che parlava di fede, perdono, silenzio».

Silenzio. Chissà se avrebbe potuto immaginare, Paolo Borsellino, un solo centesimo del canaio che da allora è stato fatto in suo nome. E chissà se l'avrebbe immaginato sua madre, che era un bel tipetto: quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, nel 1940, vietò ai figli di accettare doni dagli americani. Probabilmente era stata di destra come lo divenne anche Paolo. Nel marzo 1992, quando l'ex magistrato Giuseppe Ayala lasciò il palazzo di Giustizia perché si era candidato al Parlamento, il dialogo con Borsellino fu surreale: «Non ti posso votare»; «Perché?»; «Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto». Tutto ovviamente sul filo dell’ironia, come per gli sfottò legati al passato di Borsellino da simpatizzante del Fuan: «Lo chiamavo camerata Borsellino», ha raccontato Ayala nel libro «La guerra dei giusti». «Ci rideva su, io entravo sguainando il braccio destro e lui rispondeva allo stesso modo». Amico vero di Borsellino del resto era Guido Lo Porto, deputato missino, oppure Giuseppe Tricoli, il professore di Storia con cui Borsellino passò l’ultimo giorno della sua vita.

Ma il silenzio, dicevamo: «Paolo non amava parlare molto dei suoi disagi. Era raro che della sua solitudine parlasse in famiglia», ha raccontato Rita Borsellino, «perché quando ci incontravamo c’era sempre nostra madre, e lui davanti a mamma non parlava. Quando dovette partire per l’Asinara, per scrivere la requisitoria del maxiprocesso, le disse soltanto: ci portano in un posto, non posso dirti dove, non posso dirti quando, non potrò comunicare con te». Si parla del 1985, come racconterà Paolo Borsellino al Csm: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo esseri segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se questa ordinanza non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno perché nessuno era in grado di metterci mano. Siccome io protestai, dicendo che questa decisione non doveva essere attuata immediatamente, perché Falcone è senza figli, ma io avevo famiglia e dovevo regolarmi le mie faccende, mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le rispettive famiglie in quest’isola. Tra parentesi, io non amo dirlo, ma lo devo dire: tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara a lavorare per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta».

Il silenzio, dopo la morte di Paolo il 19 luglio 1992, sarà rotto anche da una famiglia di cui tutti in qualche modo abbiamo avuto notizia. C'è appunto Salvatore Borsellino, fratello minore di professione «attivista» in virtù del suo «Movimento delle agende rosse», questo mito su un'agenda che non si sa neppure se esista, se sia esistita, se il magistrato l'avesse con sé quando fu ucciso, se fu trafugata o solo persa, se ci fossero su appunti giudiziari o che altro, niente, zero, aria: eppure l'hanno fatta diventare «la scatola nera della Seconda Repubblica» (Marco Travaglio) o bene che vada «il motivo per cui Paolo è stato ucciso» (Rita Borsellino). Salvatore Borsellino comunque è quello che suggerì ad Antonio Ingroia, che si è sempre detto allievo di Paolo Borsellino, di mettere nella sua lista politica anche Benny Calasanzio Borsellino, coautore di un libro-intervista a Salvatore Borsellino in cui quest'ultimo parla del fratello Paolo Borsellino, e nipote, sempre Benny, di un altro Paolo Borsellino trucidato dalla mafia: non il magistrato, ma un omonimo pure lui ucciso in Sicilia negli anni Novanta, come ricostruito dal fratello di Paolo Borsellino (il secondo) che si chiama Pasquale Borsellino. Il citato Ingroia, com'è noto, per lungo tempo ha indagato sulla morte di Paolo Borsellino a margine dell'inchiesta sulla «trattativa» che si basava anche sulle testimonianze di Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino e madre di Manfredi Borsellino, quest'ultimo apprezzato testimone della gesta di suo padre e attaccante della nazionale magistrati, anche se è commissario di Polizia. Discorso a parte quello di Rita Borsellino, sorella di Paolo e parlamentare europeo del Pd. Ma la famiglia, almeno, era la famiglia. Discorso a parte meriterebbe l'osceno marketing del defunto che miliardi di sciacalli «antimafia» hanno costruito in 25 anni: ma oggi non vogliamo farlo, questo discorso. Perché Paolo Borsellino andrebbe ricercato nei suoi scarni scritti, nelle trascrizioni dei suoi interventi, nella cultura sobria ed estremamente dignitosa ereditata dalla madre, nell'umiltà di chi la mafia, giorno dopo giorno, la combatte davvero. Magari in silenzio.

Le testimonianze ci sono. Le trascrizioni, le registrazioni ci sono. E i libri, pochi tra tantissimi. Ora ne è uscito uno molto bello scritto dal presidente del Senato, Pietro Grasso, che a lungo lavorò con lui e ne condivise l'amicizia e i drammi: è pieno di dettagli inediti ed è scritto con un affetto che quasi si cerca di occultare, come se esibirlo fosse troppo impudico, poco coerente col Paolo Borsellino che Pietro Grasso vuole ricordare. Anche se ricorda, ovviamente, quel 23 maggio 1992, quando Falcone saltò in aria con tutta la scorta mentre lo show televisivo del sabato sera, sulla Rai, andò puntualmente in onda tre ore dopo la strage. Paolo Borsellino non fu più lo stesso uomo. I suoi ritmi si fecero ancora più convulsi: sveglia alle cinque di mattino, spostamenti furtivi, tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno. Perse il suo humor proverbiale, restava silente per ore intere. Borsellino lasciò Marsala e tornò a Palermo per riprendere il posto di procuratore aggiunto che era stato di Falcone, ma in base a un principio di anzianità gli fu impedito di occuparsi della mafia palermitana e lo relegarono alla provincia di Trapani. Ogni volta che un collaboratore della giustizia chiedeva di parlare solo con Borsellino ecco che a palazzo tornavano i mugugni di sempre. Quando il pentito Gaspare Mutolo chiese espressamente di lui, i vertici della procura cercarono di impedire il contatto: Borsellino per spuntarla dovette minacciare le dimissioni. Nella camera ardente dei caduti a Capaci, secondo il ricordo di Grasso, Paolo Borsellino aveva avvisato tutti: «Chi vuole andare via da questa procura se ne vada, ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende: il nostro futuro è quello lì», disse puntando il dito verso le cinque bare.

Poi, il 19 luglio 1992, i primi tam tam dicevano che avevano fatto saltare Giuseppe Ayala, il giudice appena eletto deputato repubblicano. I suoi figli già lo piangevano, anche perché altra spiegazione non c’era: in quella zona, a due passi da via Autonomia Siciliana e a trecento metri da via Mariano D’Amelio, c’era lui e non altri. Invece Ayala era per strada che camminava verso quel portone annerito. Vide due cadaveri, poi un terzo. Neanche lui sapeva che la madre di Paolo abitava lì. Brandelli umani, rottami di lamiera, poi inciampò in qualcosa. Guardò per terra e riconobbe quel naso grifagno, quei denti, un tozzo scuro. Era inciampato in un pezzo del suo amico Paolo Borsellino, morto sotto la casa della madre. Con lui morirono gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta. Una giovane ragazza che accanto a Borsellino aveva consentito d’incastrare decine di mafiosi, Rita Atria, si suicidò una settimana dopo. Quando la salma di lei fu riportata a Partanna, nella valle del Belice, il paese l’accolse con disprezzo. Aveva 18 anni. E siamo, venticinque anni dopo, ancora tutti qui a scrivere e a parlare, litigare, polemizzare, accusare, soprattutto dimenticare che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ora. Miracolosamente, sono forse gli unici italiani che noi tutti indistintamente amiamo. Chi in silenzio, chi no. Libero, 19 luglio 2017.

Borsellino, Scopelliti, e gli ipocriti coccodrilli in toga, scrive Felice Manti il 19 luglio 2017 su “Il Giornale”. Paolo Borsellino è morto 25 volte. Una volta è stato ucciso dalla mafia, le altre dallo Stato che ad oggi non è riuscito a dare un volto ai suoi veri assassini. Non mi riferisco a chi ha premuto il telecomando (e già sarebbe tanta roba), ma ai mandanti. Quelli veri. L’ultima verità propalata ai media è che il nemico di Paolo è uno di loro, un magistrato. In effetti Paolo Borsellino è vittima dell’incapacità dei suoi colleghi, che si sono bevuti le balle di Scarantino – neanche troppo ben istruito – e che oggi come ogni anno si battono il petto sognando una comoda poltrona da ministro della Giustizia anziché sbattere la testa contro un muro e farsi da parte. Paolo Borsellino è vittima del suo essere non allineato, di destra, diverso. La figlia dice che gli altri magistrati hanno lasciato sola la famiglia, e fossi in lei ne sarei ben contenta. Mi ricorda una storia molto simile. Un altro giudice morto senza giustizia, ucciso dalla mafia (già, ma da quale?) e dallo Stato che, povero lui, aveva difeso fino alla fine dicendo no alle lusinghe delle coppole. Il giudice Antonino Scopelliti fu ammazzato il 9 agosto 1991 da un commando di killer calabresi su ordine di Cosa Nostra. Una verità storica che ancora fa fatica a diventare verità giudiziaria. Qualcuno sa (forse) chi ha premuto il grilletto, ma sui mandanti è ancora oggi buio pesto. E anche la figlia, oggi parlamentare Ncd, lamenta lo stesso distacco. Borsellino e Scopelliti erano due corpi estranei alle logiche correntizie che ancora oggi lacerano le toghe, alla faccia della giustizia. D’altronde, come diceva lo stesso Scopelliti, «il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso». Le toghe piangono lacrime di coccodrillo e le mafie ridono…

La magistratura ha abbandonato Falcone. L’ultima accusa di Borsellino, scrive il 20 luglio 2017 su "Il Foglio" Annalisa Chirico. Il discorso del magistrato un mese dopo la strage di Capaci. Grazie a Radio radicale la parola torna a Paolo Borsellino. Basta esegeti e scimmiottatori. E’ il 25 giugno 1992, sono trascorsi trentadue giorni dalla strage di Capaci. Ne mancano ventiquattro all’eccidio di via D’Amelio. “Sono venuto questa sera per ascoltare perché, mai come ora, è necessario che io ricordi a me stesso e a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato debbo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e conoscenze partecipando a convegni o dibattiti, ma esclusivamente per il mio lavoro”. La platea applaude, la commozione è palpabile. Borsellino fa professione di silenzio, in realtà è mosso da una irrefrenabile voglia di parlare. “Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e giustizia non perché aspirasse a trovarsi nella capitale in un posto privilegiato, non perché si fosse innamorato dei socialisti, non perché si fosse innamorato di Claudio Martelli. Ma perché, a un certo punto della vita, ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e, nelle sue convinzioni, decisivo nella lotta alla criminalità mafiosa”. Borsellino si sente un superstite, chissà fino a quando. Il procuratore di Marsala arriva in ritardo all’assemblea dal titolo “Ma è solo mafia?”, promossa da La Rete. Radio radicale ripropone i trenta minuti del suo intervento, un atto d’accusa contro il corporativismo togato che ha emarginato e vilipeso Giovanni Falcone. Così, in mezzo allo strepitio scomposto di mezzi figuri che oggigiorno scimmiottano il suo esempio e tentano, senza successo, di accreditarsi come suoi degni eredi, emerge l’imponente normalità di un uomo che di sé dice: “Non sono un eroe né un kamikaze ma una persona come tante altre”. “In questo momento – prosegue Borsellino – oltre che magistrato, io sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto tante sue confidenze, non voglio dire più di ogni altro perché non voglio imbarcarmi nella gara di questi giorni per stabilire chi fosse più amico di Giovanni Falcone, devo riferire anzitutto all’autorità giudiziaria gli elementi che porto dentro di me. L’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone segna pure la fine di una parte della mia vita”. Per l’ex capo del pool antimafia Antonino Caponnetto, Falcone comincia a morire nel gennaio 1988. Borsellino concorda con lui. “Con ciò non intendo dire che la strage del ’92 sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Ma quel che dice il giudice Caponnetto è vero perché oggi che noi tutti ci rendiamo conto della statura di quest’uomo ci accorgiamo di come il paese, lo stato, la magistratura – che forse ha più colpe di ogni altro – cominciò a farlo morire nel gennaio 1988”. Borsellino si riferisce alla bocciatura, decisa dal Consiglio superiore della magistratura, della candidatura di Falcone per l’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo. 10 voti per Falcone, 14 per il concorrente Antonino Meli. “Non appena Falcone presentò la sua candidatura per succedere a Caponnetto, qualche giuda s’impegnò da subito a prenderlo in giro. Nel giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferendogli l’altro candidato con motivazioni risibili. Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni e la volontà di continuare a svolgere il lavoro che aveva inventato, cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo subìto dal Csm, avrebbe potuto proseguire nella sua professione. E continuò a crederlo. Io ero invece più scettico, ormai osservavo i fatti da un osservatorio abbastanza privilegiato essendo stato trasferito a Marsala, sapevo che nel volgere di pochi mesi lo avrebbero distrutto. Ciò che più mi addolorava è che Giovanni Falcone sarebbe morto professionalmente nel silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse. Perciò denunciai pubblicamente ciò che stava accadendo a Palermo: se deve essere eliminato, pensai, l’opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non in silenzio”. Fu così che nel settembre 1988, sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Csm rivide in parte la sua posizione e il pool antimafia, seppur zoppicante, fu rimesso in piedi. “La protervia del consigliere istruttore, – incalza Borsellino – l’intervento nefasto della Cassazione, iniziato allora e proseguito fino a ieri, continuarono a far morire Falcone. Nonostante quel che è accaduto in Sicilia, la Suprema corte continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste”. Febbraio 1991, il guardasigilli Martelli chiama Falcone a dirigere gli Affari penali al ministero di via Arenula. “Alla presenza dei colleghi Leonardo Guarnotta e Giuseppe Ayala, Falcone tirò fuori l’ordinamento interno del ministero e, scorrendo i singoli punti, mi illustrò quel che egli riteneva di poter fare dalla nuova postazione per la lotta alla criminalità mafiosa. Anche io talvolta ho assistito con un certo disagio alla vita o ad alcune manifestazioni della vita di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quella giudiziaria. Si tratta di una situazione nuova, di un lavoro nuovo, di vicinanze nuove. Tuttavia Giovanni Falcone si trasferì a Roma restando con la mente a Palermo. In fin dei conti, il bilancio, se vogliamo farlo, riguarda principalmente la creazione di strutture che, a torto o a ragione, egli riteneva funzionali nella lotta alla criminalità organizzata. Falcone cercò di riprodurre a livello nazionale e con la legge dello stato quelle esperienze del pool antimafia nate artigianalmente, senza che la legge le prevedesse e, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questa era la superprocura. Anche io espressi dapprima alcune perplessità, fui tra i firmatari di una lettera critica verso il progetto predisposto dal collega Marcello Maddalena di Torino. Eppure non ho mai dubitato, neanche per un istante, che l’obiettivo ultimo di Falcone fosse quello di tornare a fare il magistrato. Non a caso l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, ha scelto l’esatto momento in cui Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia. Si trattava di indiscrezioni che io conoscevo, che avevo comunicato a lui, che egli sapeva e che ritengo fossero note anche al di fuori del palazzo. Si può dire che egli si prestò alla creazione di uno strumento che metteva in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che si avvicinò troppo al potere politico, ma non si può negare che Giovanni Falcone, in questa sua breve, anzi brevissima, esperienza ministeriale, lavorò segnatamente per tornare a fare al più presto il magistrato. E’ questo che gli è stato impedito. Perché è questo che faceva paura”. Annalisa Chirico

Paolo Borsellino, i misteri che restano su via D’Amelio 25 anni dopo, scrive il 18 luglio 2017 Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera". Le parole, inquietanti, di un pentito: «Il capo clan si incontrò con uomini dichiaratisi degli 007 che volevano destabilizzare lo Stato». L’ultimo processo per la strage di via D’Amelio è appena cominciato, a carico dell’ultimo grande latitante di Cosa nostra rimasto in libertà, Matteo Messina Denaro. Davanti alla corte d’assise di Caltanissetta, il boss mafioso verrà giudicato per la morte di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta (e di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre poliziotti uccisi con loro a Capaci): un’occasione non solo per valutare le sue responsabilità per le bombe del 1992, e cercare le verità che — dopo 4 processi e la scoperta del «gigantesco depistaggio» svelato dal pentito Spatuzza — ancora mancano sull’attentato del 19 luglio 1992. A distanza di venticinque anni restano diverse «questioni irrisolte», per dirla con i pubblici ministeri di Caltanissetta; un drappello di inquirenti ostinati — il procuratore Amedeo Bertone, gli aggiunti Gabriele Paci e Lia Sava, il sostituto Stefano Luciani— che continua a scavare fra verbali e intercettazioni vecchie e nuove. Come quelle arrivate di recente da Palermo con le conversazioni registrate in carcere del boss stragista Giuseppe Graviano, l’uomo che cercava i nuovi referenti politici di Cosa nostra a colpi di tritolo e dinamite; o le numerosissime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia rilette alla ricerca di ulteriori elementi da approfondire. Tra queste ci sono le frasi di un «pentito», Armando Palmeri, che fu autista e uomo di fiducia del capomafia trapanese Vincenzo Milazzo, ammazzato cinque giorni prima di Borsellino, il 14 luglio 1992, quando scomparve insieme alla fidanzata Antonella Bonomo. Al duplice delitto partecipò, su mandato di Totò Riina, anche Messina Denaro. Il movente «ufficiale» dell’eliminazione di Milazzo furono presunte violazioni delle regole interne a Cosa nostra, ma Palmeri ha svelato alcuni retroscena che offrono una diversa chiave di lettura e si collegano alla ricerca dei cosiddetti «concorrenti esterni» delle stragi. Quelle del ’92, ma anche quelle in continente del 1993. Secondo il suo autista, Milazzo che all’epoca era ricercato ebbe «una serie di incontri con personaggi dichiaratisi appartenenti ai servizi segreti, che gli avrebbero prospettato un progetto volto a destabilizzare lo Stato». Palmeri lo accompagnava agli appuntamenti ma poi rimaneva nei dintorni, su ordine del capo, «per controllare la situazione a distanza». Ci furono almeno tre riunioni, «tutte durarono circa un paio d’ore». L’ultima si tenne «una decina di giorni prima della sua morte». Quindi dopo la strage di Capaci e prima di via D’Amelio. «Nel corso di tali riunioni — ha raccontato il pentito — a Milazzo venne proposto di adoperarsi per la destabilizzazione dello Stato, finalità da perseguire attraverso il compimento di atti terroristici fuori dalla Sicilia. Milazzo si dimostrò decisamente contrario alla proposta che, diceva, non avrebbe portato alcun vantaggio a Cosa nostra e anzi avrebbe determinato una veemente reazione dello Stato». Le persone legate ai Servizi esercitavano sul boss «un certo fascino, al punto che continuava a ripetermi che la vera mafia non è quella di Cosa nostra ma quella “segreta” di cui gli stessi facevano parte». Di recente Palmeri, assistito dall’ex pm di Palermo Antonio Ingroia divenuto avvocato, è stato riascoltato dagli inquirenti nisseni, ai quali ha fatto il nome di chi presentò gli «appartenenti ai Servizi» a Milazzo. Ha precisato che «il primo incontro avvenne prima della strage di Capaci», che «dopo aver rifiutato la proposta di porre in essere le stragi Milazzo iniziò a temere per la sua vita», e che secondo lui «la sua contrarietà fu riferita a Riina che ne decise l’eliminazione». Il pentito sarà chiamato a deporre nel processo a Messina Denaro, per approfondire la pista dei «concorrenti esterni» alla mafia che la Procura di Caltanissetta considera il principale tra «i residui nodi da sciogliere», insieme alla scomparsa dell’agenda rossa con gli appunti segreti di Paolo Borsellino, dal momento che tutti gli approfondimenti svolti finora «non sono risultati sufficienti a colmare i tanti vuoti ereditati dalla iniziale gestione delle indagini svolte a suo tempo» dal gruppo di poliziotti che diede credito al falso pentito Vincenzo Scarantino. Tuttavia i pm hanno scritto con chiarezza nella loro ultima requisitoria che il depistaggio non serviva a coprire gli eventuali contatti fra la mafia e i nuovi referenti politici cercati con le stragi. Perché altrimenti Scarantino non avrebbe tirato in ballo quel Giuseppe Graviano «all’epoca cerniera tra Cosa nostra e il mondo istituzionale, artefice dell’intera strategia stragista» e ancor più «l’ambigua figura di Gaetano Scotto, uomo d’onore indicato da vari collaboratori come personaggio chiave nei rapporti tra Cosa nostra e spezzoni deviati dei servizi di sicurezza». Un altro mistero da sciogliere, 25 anni dopo.

Violante: «L’ultima volta che vidi Borsellino già sapeva di non avere più tempo». Intervista di Giulia Merlo del 19 luglio 2017 su "Il Dubbio". «Lui e Falcone erano i soli ad avere le conoscenze per indicare con chi la mafia si sarebbe alleata. La loro morte ha impedito di conoscere le mosse future di Cosa nostra». Sono passati 25 anni da quella calda domenica di luglio in via D’Amelio, nel centro di Palermo. Alle cinque del pomeriggio, una Fiat 126 rubata contenente 90 chilogrammi di tritolo telecomandati a distanza esplose davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino, uccidendo sul colpo lui e cinque agenti di scorta. La strage di via d’Amelio segna il secondo attacco della mafia al cuore dello Stato: il primo era avvenuto solo due mesi prima, a Capaci, con l’omicidio di Giovanni Falcone. Luciano Violante, magistrato ed ex presidente della Camera, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, li ha conosciuti entrambi: «Con loro, perdemmo le uniche due persone in grado di indicarci in quale direzione si sarebbe mossa Cosa nostra, dopo la crisi della cosiddetta prima Repubblica».

Ricorda il suo primo incontro con Paolo Borsellino?

«Prima conobbi Giovanni Falcone, poi Paolo. Era il 1982, nei mesi immediatamente successivi all’omicidio di Pio La Torre, e io ero a Palermo come delegato del Pci. Per il partito mi occupavo anche di lotta alla mafia e per questo avevo rapporti non solo con le autorità politiche sull’isola, ma anche con quelle giudiziarie e di polizia».

Che magistrato era?

«Borsellino era anzitutto un uomo chiuso e prudente, uno che centellinava le sue amicizie. Ricordo che parlava poco e fumava moltissimo. Nelle indagini, Falcone faceva l’azione di sfondamento, mentre a Borsellino spettava la ricucitura dei pezzi. Proprio questa sua grande capacità di ricostruire le cose era la caratteristica prima del suo modo di lavorare: all’epoca non esistevano i computer e Borsellino compilava delle agende, in cui segnava tutti i nomi delle persone in cui si imbatteva durante le indagini, con il numero del procedimento e la pagina che portava il riferimento a quella persona. Era un archivio umano: le carte del maxiprocesso erano 400mila pagine e lui era l’unico ad avere chiaro il quadro complessivo».

A proposito di agende, è nota la vicenda della famosa agenda rossa di Borsellino, trafugata e mai più trovata…

«Guardi, io a quella storia non credo molto, mi è sempre sembrata una costruzione di fantasia, anche se fatta in buona fede. Non è mai emerso con precisione che quell’agenda ci fosse e che poi sia stata sottratta. Certo, però, capisco che il fatto meriti attenzione perché, attorno a tanti misteri, il fatto che un’agenda sia scomparsa sembrerebbe molto coerente. Inoltre Paolo aveva molte agende in cui segnava i riferimenti dei processi, ma mi pare che non fosse nel suo costume tenere un proprio diario come invece faceva Falcone».

Proviamo allora a ricostruire questi misteri. Come è stato possibile che la mafia abbia potuto colpire due volte in due mesi, uccidendo prima Falcone e poi Borsellino, proprio nel posto che doveva essere più protetto?

«La morte di Borsellino ha alcuni aspetti strani. Il primo è l’inspiegabile assenza di divieto di parcheggio sotto la casa della madre di Borsellino, dove è stata piazzata la macchina con la bomba. La seconda questione riguarda il pentito, Gaspare Mutolo, che voleva a tutti i costi parlare con Borsellino ma il Procuratore capo impediva il colloquio, perchè riteneva che Borsellino dovesse occuparsi della mafia di Trapani e non di quella di Palermo. Il terzo elemento strano è che per la strage furono condannate persone che non c’entravano nulla, sulla base di indagini di polizia frutto di confessioni estorte anche con la violenza, pur di avere un risultato, qualsiasi esso fosse».

Dietro il colloquio con il pentito Mutolo potrebbe nascondersi il movente della strage?

«Esiste certamente una convergenza sinistra tra il momento in cui Mutolo chiede di parlare con Borsellino e il suo omicidio. Dopo un duro braccio di ferro, il Procuratore capo di Palermo telefonò a Paolo la domenica mattina verso le 6, per dirgli che aveva deciso di assegnargli l’indagine e di andare immediatamente da Mutolo. Borsellino, indispettito dall’orario e in pessimi rapporti con il procuratore, gli rispose che l’avrebbe incontrato l’indomani, perché quella mattina sarebbe andato al mare e poi nel pomeriggio a trovare la madre. Quel pomeriggio stesso, però, venne ucciso».

Era una morte evitabile, quindi?

«Tutte le morti lo sono. Quello che so è che le due stragi avvennero nel mezzo di un cambiamento complessivo degli equilibri politici in Italia. Dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, il sistema traballava e nuovi leader politici si stavano affacciando. Ecco, Falcone e Borsellino erano gli unici con le conoscenze e l’autorevolezza per indicare con chi mafia si sarebbe alleata. Non so se siano stati uccisi per questo, ma sicuramente la loro morte ha impedito di conoscere tempestivamente le mosse future della mafia».

E dunque era una morte quantomeno prevedibile?

«Lei prima mi ha chiesto quando ho incontrato per la prima volta Borsellino. Io le posso raccontare l’ultima volta che l’ho visto: lui mi venne a trovare in ufficio per discutere di alcune questioni. Ricordo che stava per partire per la Germania per degli interrogatori, ma sembrava che già presagisse l’ineluttabilità della sua fine. Detto oggi può sembrare una costruzione a posteriori, ma lui sapeva che il cerchio si stava stringendo. Attenzione, non mi trasmise un sentimento di timore, ma era evidente che cercasse di mettere a disposizione tutti i dati in suo possesso. Per questo chiese insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta sulla strage di Capaci, ma non fece in tempo».

Era la stagione dei veleni nelle procure siciliane: un clima che isolò Borsellino?

«In quella fase, le istituzioni italiane non erano tutte dalla parte della lotta alla mafia. Recentemente il Csm ha reso pubbliche le sedute del consiglio in cui è stato sentito Borsellino: per capire quale fosse il clima dominante basta leggere quei veri e propri interrogatori, con le ambiguità, l’astuzia e il cinismo di alcuni componenti del Csm. Allora la lotta alla mafia non era scontata; bisogna calarsi nel clima di quel tempo per capire quanto coraggio umano servisse per combattere quella guerra nell’isolamento generale, accettando di venire considerati dei matti, o peggio assetati di notorietà».

Sono rimaste tristemente famose le due interviste di Borsellino, nelle quali sosteneva che la lotta alla mafia stesse arretrando…

«Lo disse per la prima volta ad Agrigento, durante un dibattito che avemmo insieme. Disse che ormai la lotta alla mafia stava facendo dei drammatici passi indietro e dimostrò che il nuovo consigliere istruttore aveva vanificato le indagini antimafia, poi confermò tutto nelle due interviste a Repubblica e all’Unità. A quel punto venne sottoposto ad una specie di processo da parte del Csm e il ministero della Giustizia mandò in Sicilia l’ispettore generale, con il mandato di valutare se le accuse di Paolo fossero fondate. L’esito fu che effettivamente Borsellino aveva ragione: la lotta si era fermata, perché non venivano più favorite le indagini unitarie su Cosa nostra, lasciando che ciascun tribunale siciliano si occupasse delle proprie, senza un quadro unitario».

E’ vero, come per Falcone, che Borsellino è stato lasciato solo in vita, quanto è stato osannato dopo la strage di via d’Amelio?

«Falcone e Borsellino furono oggetto di una contesa, in cui alcuni erano dalla loro parte e altri no. Il tema di fondo era: è compatibile o no la presenza della mafia in uno stato democratico? Loro ritenevano che non fosse compatibile e che bisognasse andare fino in fondo nella lotta, ovvero arrivare alle connessioni della mafia con la politica. Altri invece ritenevano che bisognasse combattere, ma con moderazione. Ricordo che, quando ero presidente della commissione antimafia, chiesi all’alto commissario Emanuele De Francesco come andava e lui rispose: “A fisarmonica, quando loro colpiscono noi rispondiamo”. Io ribattei che alla mafia andava dato il primo e non il secondo colpo. Ecco, Falcone e Borsellino avevano in mente il primo colpo. Altri invece pensavano fosse meglio una sorta di armistizio, una coabitazione tra mafia e Stato, ritenendo che il secondo colpo fosse sufficiente: bastava rispondere, senza impegnarsi a colpire per primi».

E in questa lotta tra opposti che cosa provocò la morte di Borsellino?

«Per capirlo bisogna tornare indietro: prima ci fu l’omicidio di Salvo Lima, che teneva i legami tra mafia e politica; poi le stragi di Falcone e Borsellino e infine l’uccisione di Ignazio Salvo, l’esattore che teneva i rapporti economici della mafia. Nell’arco di pochi anni vennero liquidati gli antichi legami tra mafia e mondo della legalità e furono uccisi i due che potevano indicare le nuove strade che la mafia avrebbe scelto».

Si ripristinò un equilibrio, quindi?

«Per comprendere meglio, le racconto un aneddoto: quando fu ucciso Giangiacomo Ciaccio Montalto, Carlo Palermo – un magistrato che prima lavorava a Bolzano – chiese di andare a Trapani. Io, che avevo sostenuto questo trasferimento, durante un viaggio in aereo ebbi una strana conversazione con un importante uomo politico siciliano, il quale mi disse che con quella mossa avevamo fatto un errore: “Questo sconquassa tutti gli equilibri, non capite che cosa può succedere”. Consideri che era un uomo non legato alla mafia ma di lungo corso politico e temeva proprio la rottura dell’equilibrio. L’idea di fondo era dunque quella di mantenere un equilibrio nel rapporto tra mafia e Stato».

Proprio il rapporto tra mafia e politica è stato al centro del processo sulla cosiddetta trattativa Stato- mafia. Trattativa c’è stata, secondo lei?

L’ho detto pubblicamente quando sono stato interrogato dalla Corte d’Assise di Palermo durante quel processo: io credo che i magistrati inquirenti abbiano commesso un errore. L’indagine ha confuso quella che potrebbe essere stata una trattativa di polizia – tipica dei casi in cui non c’erano pentiti e non esistevano ancora le intercettazioni, in cui i poliziotti trattavano con i confidenti, facendo loro piccoli favori al fine di avere notizie – con una trattativa di carattere politico, che a mio avviso non c’è mai stata. Del resto Mannino, che doveva essere il vertice, è stato assolto e Mori, che doveva essere l’esecutore, è stato assolto due volte. Ingroia se n’è andato e anche Di Matteo sta lasciando».

Un processo fondato su presupposti errati, dunque?

«Posso sbagliarmi, ma ho seguito il processo con una certa attenzione e credo che sia stato sovrapposto alla realtà un preciso modello ideologico, secondo il quale lo Stato avrebbe trattato con la mafia, che però non aveva nulla a che fare con i fatti».

L’eredità di Borsellino è stata correttamente raccolta da chi lo ha seguito?

«Io credo di sì: tutti i capi mafia sono stati presi, tranne Messina Denaro. Dopo le stragi l’azione messa in campo dalla magistratura e dalle forze di polizia è stata di grande efficacia. Lo ha detto correttamente Giuseppe Pignatone in un editoriale sul Corriere della Sera: ora bisogna lavorare nello stesso modo anche nella lotta alla ‘ndrangheta, nella quale siamo ancora indietro».

Sarebbe irrealistico, però, parlare di sconfitta della mafia.

«Ma certo, la lotta non è finita. Dobbiamo però essere grati a quelli che hanno smantellato un’organizzazione che sembrava invincibile. Ora il problema è la cultura mafiosa: le leggi e le punizioni servono ma non bastano».

E cosa serve, invece?

«Se da un terreno sassoso togliamo i sassi ma non concimiamo e coltiviamo, il terreno continuerà a non dare frutti. Alla Sicilia servono politiche sociali e di crescita culturale e il nuovo strumento dell’antimafia deve essere un governo sano ed efficace nella regione. La repressione serve a riequilibrare, certo, ma non risolve i problemi: può farlo solo il buon governo, ma purtroppo la Sicilia sembra essere ancora all’anno zero. E questo non riguarda certo i giudici, ma soprattutto la politica, soprattutto quella locale».

Strage via D’Amelio, Rita Borsellino: “25 anni di giustizia negata”, scrive Sky tg24 il 19 luglio 2017. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla ai microfoni di Sky TG24 durante la cerimonia di commemorazione a Palermo: “In tanti sanno la verità. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”. Il fratello Salvatore: “Vogliamo sapere dov’è l’agenda di Paolo". “Parliamo di giustizia che non c’è, di 25 anni di giustizia negata”. Rita Borsellino, sorella di Paolo, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione per i 25 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui il magistrato perse la vita insieme a 5 agenti della sua scorta. Ai microfoni di Sky TG24 dice: “Vorremmo sapere perché è negata questa giustizia? Chi non vuole che questa verità venga fuori? La verità c’è e la sanno in tanti”. Rita Borsellino ha citato Fiammetta, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, che dopo anni di silenzio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato di “25 anni di schifezze e menzogne”. In una recente commemorazione, ricorda Rita Borsellino, “Fiammetta, alla battuta di Grasso che disse "ci dobbiamo aspettare un altro pentito" commentò "un pentito lo vogliamo nelle istituzioni" e aveva ragione. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”.

Alla cerimonia era presente anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “C’era qualcuno in questa via che aspettava l’esplosione. Qualcuno si è avvicinato alla macchina di Paolo, ha preso la borsa e si è allontanato. Non sappiamo a chi l’abbia portata. Quando quella borsa è stata rimessa nel sedile posteriore dell’auto, l’agenda non c’era più. Forse speravano che la macchina prendesse fuoco e si perdesse anche il ricordo di questa agenda. Ma non si è perso”. Salvatore Borsellino ha aggiunto a Sky TG24: “Ci sono foto che mostrano un capitano dei carabinieri che si allontana con la borsa. È stato assolto ma vogliamo sapere a chi ha portato quella borsa, chi ha preso l’agenda e dove si trova oggi. Sui contenuti dell’agenda penso si reggano i ricatti incrociati che legano il sistema di potere della seconda Repubblica, che ha le fondamenta intrise di sangue”.

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio. 

Un anticipazione dei verbali di Paolo Borsellino al Csm: “Stanno smantellando il pool antimafia”, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. L’audizione desecretata per la prima volta dal Consiglio Superiore della magistratura a 25 anni dalle stragi. Sono parole pesanti quelle che Paolo Borsellino pronunciò il 31 luglio del 1988 davanti al Comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura per spiegare alcune sue dichiarazioni, che aveva rilasciate precedentemente in un evento pubblico e due interviste. “Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Il giudice Borsellino come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia, così definiva il pool antimafia di Palermo, di cui aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala: “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia“. Ecco un’anticipazione degli atti: Borsellino accese i riflettori sul fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. Al termine dell’audizione durata 4 ore Paolo Borsellino disse che all’interno dell’Ufficio Istruzione “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”. L’audizione di Borsellino dinnanzi al CSM avvenne qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore a Palermo, che venne preferito a Giovanni Falcone, prendendo di fatto il posto e ruolo che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. Ed aggiunse: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più“.

Borsellino, lo sfogo della figlia: i suoi colleghi non ci frequentano. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».

Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?

«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.

Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?

«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».

Sottovalutazione generale?

«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».

Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.

«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».

Che cosa rimprovera?

«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».

E poi?

«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».

Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?

«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».

Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?

«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Compresi i magistrati?

«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».

Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.

«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto». Di Felice Cavallaro Fonte Corriere della Sera Palermo, 19 luglio 2017

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.

Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.

Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?

«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».

Uomo d'onore di che famiglia?

«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?

«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».

Quando ha visto per la prima volta Mangano?

«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».

Per interrogarlo?

«Sì, per interrogarlo».

E dopo è stato arrestato?

«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?

«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».

Quando, in che epoca?

«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».

Ma lui viveva già a Milano?

«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

E si sa cosa faceva a Milano?

«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?

«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero... ».

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?

«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...

«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».

Mangano conosceva Bontade?

«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarnzione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe paranto a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.

«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?

«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?

«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?

«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello li non "surra"[non c'entra, ndr]”).

«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?

«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».

A Palermo?

«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».

Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].

«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».

I fratelli?

«Sì».

Quelli della Publitalia, insomma?

«Sì».

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?

«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».

Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?

«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».

In un albergo. Dove?

«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».

Ah, oltretutto.

«Sì».

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?

«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Sono di Palermo tutti e due...

«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].

«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?

«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].

«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.

«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?

«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?

«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».

Concernenti cosa?

«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?

«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?

«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?

«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...

«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.

E questa inchiesto quando finirà?

«Entro ottobre di quest'anno...».

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?

«Certamente ...».

Perché cl servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...

«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

La profezia americana sul processo Andreotti, scrive il 17 luglio 2017 "Piccole Note". Sulla Repubblica del 17 luglio, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo pubblicano documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma relativi agli anni delle stragi di mafia e a un incontro riservato con il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Pur se un po’ (inevitabilmente) pervaso dall’aura che circonda la figura di Andreotti, la leggenda nera alimentata da decenni di narrativa ostile, l’articolo offre spunti interessanti. Nel report dell’ambasciata si legge che l’uomo politico democristiano critica sia Luciano Violante che Leoluca Orlando, suoi grandi accusatori (particolare in realtà di secondo piano). Più interessante il cenno che inquadra le accuse a lui rivolte come risposta a sue iniziative contro la mafia, la quale quindi si starebbe «vendicando», accusando lui di collusioni con la stessa. Non solo la mafia italiana, secondo Andreotti: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Accuse più che circostanziate, soprattutto quella rivolta all’United Sates Marshall Service, un’Agenzia con compiti di vigilanza giudiziaria davvero poco nota alla cronaca. Evidentemente con quel cenno tanto particolare Andreotti vuole indicare ai suoi interlocutori di avere informazioni molto dettagliate sulle trame ordite contro di lui. Nel report americano non c’è traccia di domande da parte americana sul punto: gli interlocutori di Andreotti cioè non chiedono spiegazioni, cosa che invece dovrebbe essere più che doverosa. Semplicemente lasciano cadere la cosa, come argomento di nessuna importanza. Forse avevano paura che quelle accuse trovassero un qualche riscontro? Poi, a un certo punto, Andreotti inizia a fare domande. Così viene segnalato nel report: «“Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai”. «Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure “che è stato un errore» aver diffuso quella nota”. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi possano essere resi pubblici”. Messaggi con sue conversazioni “di alto livello e sensibili”». Accennando alla “profezia” del consolato di Palermo, Andreotti di fatto accusa gli Stati Uniti, alcuni ambiti ovviamente, di aver costruito il processo a suo carico, creando quei pentiti che lo avrebbero poi portato alla sbarra (davvero tanti i pentiti di quella stagione: un fenomeno unico, per le sue proporzioni, nella storia d’Italia; ma magari nel processo sulla trattativa Stato mafia, semmai andrà a compimento, si troverà qualche risposta a tale inspiegabile anomalia). Nella loro risposta, di fatto gli americani accusano Andreotti di aver reso noto quel documento: e ciò secondo loro sarebbe stato un “errore”. Strana protesta data la natura del documento in questione. In realtà quella americana sembra più un “avviso” rivolto al loro interlocutore a non prendere altre iniziative simili. Minaccia alla quale Andreotti risponde per le rime, accennando alla possibilità che possano sfuggirgli altre rivelazioni “sensibili”. Al di là dello scambio di battute finale, che di questo si tratta nella sostanza, resta la clamorosa vena profetica del documento del consolato Usa a Palermo, in particolare sulla genesi della legione di pentiti che avrebbero poi accusato Andreotti passando per Lima, il politico siciliano della sua “corrente” (pentiti che non potevano essere ignorati dalla magistratura). Val la pena ricordare, en passant, che già prima che iniziasse il processo Andreotti, un pentito aveva provato ad accusare Lima di collusioni con la mafia: tal Giovanni Pellegriti. Era il 1989 allora e Falcone lo accusa del reato di calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. Gli ignoti evocati da Falcone non furono individuati, ma il magistrato riuscì egualmente a condannare Pellegriti per calunnia. Poi Falcone verrà assassinato… il resto è storia. Una storia ad oggi scritta dai vincitori di allora, ma che, come si evince da questi cenni, riserva ancora sorprese.

«L’Italia è incapace di reagire ai boss». I dossier segreti Usa sulle stragi di mafia, scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica" il 17 luglio 2017. Il dispaccio indirizzato a Washington è del 23 luglio 1992, quattro giorni dopo l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino: «L’ultimo massacro della mafia contro il simbolo delle speranze dei siciliani ha scioccato e ulteriormente infiammato la gente, ormai stanca dell’influenza mafiosa che pesa sul futuro». Il console generale americano a Palermo Mann nel suo messaggio (numero “P231430Z Jul 92”, from Amconsul Palermo to AmEmbassy Rome and SecState WashDc) avverte la segreteria di Stato: «Sono il governo e il sistema politico, che la gente valuta nel loro fallimento... La reputazione internazionale dell’Italia, già messa a dura prova dall’omicidio di Falcone, viene ulteriormente scalfita dall’uccisione di Borsellino e dall’apparente incapacità del governo e delle istituzioni politiche nel definire un piano d’azione contro la minaccia». Carteggi riservati sull’Italia delle stragi. Le bombe di mafia commentate dagli americani in una serie di comunicazioni che cominciano il 26 maggio 1992 – appena dopo Capaci – e si chiudono il 2 luglio 1993, quando sono passati meno di due mesi dal massacro di via dei Georgofili. Ci sono dentro i morti di mafia ma ci sono anche personaggi sospettati di mafiosità come Giulio Andreotti. Documenti riservati e recuperati al Dipartimento di Stato americano dal professore Andrea Spiri della Luiss di Roma, una ricostruzione di quei mesi di terrore vista con gli occhi degli americani. A Roma tremano, a Washington mettono in allarme tutte le sedi consolari in Italia. L’ambasciatore Peter Secchia – è il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio – incontra il nuovo procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (il magistrato che deve indagare sulle uccisioni di Falcone e Borsellino) e riferisce al governo americano: «Non ha nascosto di essere sotto pressione…». E informa Washington che il procuratore ha chiesto l’intervento dell’Fbi nelle indagini sugli attentati. Da Palermo è ancora il console Mann che, il 20 luglio, inoltra un altro dispaccio alla segreteria di Stato: «Borsellino era stato identificato poco prima dell’omicidio Falcone come l’obiettivo di un assassinio commissionato dalla mafia stessa, stando alle rivelazioni di mafioso in carcere che sta collaborando con le autorità giudiziarie». Borsellino, un delitto annunciato. L’Italia è nel caos. Passano alcuni mesi e alla procura di Palermo mettono sotto accusa per mafia l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. È il 27 marzo del 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato è datata 14 aprile. L’uomo politico italiano più importante dal dopoguerra – 7 volte capo del governo e 21 volte ministro della Repubblica – chiede un incontro con l’ambasciata americana. Il primo luglio del ‘93, «l’incaricato d’affari riceve a pranzo il presidente Andreotti e il suo ex capo di gabinetto, Riccardo Sessa». Per gli americani, è un incontro riservato. Annotano all’ambasciata di via Veneto nel dispaccio numero P021616Z: «Abbiamo spiegato in modo chiaro che il pranzo doveva intendersi come un incontro privato e che non avrebbe dovuto essere strumentalizzato per scopi mediatici». Il report ha questo titolo: «L’accusato. Parla Andreotti». Il testo riportato è all’inizio una lunga autodifesa: «Andreotti ha fatto presente che negli anni ‘70, nelle sue vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (compreso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli era a capo del governo anche nel momento in cui il giudice antimafia Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia. Più tardi, sulla scia dell’assassinio di Falcone, il suo governo ha varato la normativa che si è rivelata così efficace negli ultimi mesi. La mafia, ha detto Andreotti, si sta vendicando di lui». Poi gli americani annotano altre parole di Andreotti: «Questa vendetta viene sfruttata dai politici della Rete di Orlando, alcuni dei quali egli ha descritto come molto vicini alla mafia, e da vecchi comunisti implacabili come il presidente della Commissione parlamentare antimafia (Luciano Violante, ndr)...». Le accuse dell’ex presidente del Consiglio non si fermano lì: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Gli americani chiedono ad Andreotti se è ancora convinto, dopo l’esecuzione di Salvo Lima, dell’estraneità agli ambienti mafiosi del suo amico siciliano: «Lui ha risposto di non avere mai avuto prova evidente di un simile rapporto, sostenendo che le dichiarazioni sul punto rese dai pentiti non sono chiare e convincenti». Ma ad un certo punto è Andreotti a fare domande. Viene segnalato nel report: «Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai». Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure «che è stato un errore» aver diffuso quella nota. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi «possano essere resi pubblici». Messaggi con sue conversazioni «di alto livello e sensibili».

Così il Divo fregò anche gli Usa. Dai file rivelati da WikiLeaks emerge come la diplomazia americana non riuscisse a capirci molto del potente politico democristiano: e alla fine, estenuata dai suoi misteri, preferiva puntare su Forlani e Cossiga, scrive Stefania Maurizio il 7 maggio 2013 su “L’Espresso". Per tutti è l'uomo dei misteri d'Italia. E Giulio Andreotti resta un personaggio difficilmente decifrabile anche quando si hanno in mano le carte per raccontarlo. Settecentocinquantanove documenti contenuti nel giacimento dei "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che vanno dal 1974 al 1976 e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica", ne restituiscono – manco a dirlo - un'immagine enigmatica. Non è il leader democristiano che ha una strategia di lungo corso che gli americani combattono con le unghie e con i denti, com'è Aldo Moro (che la diplomazia Usa vede come fumo negli occhi per il suo dialogo con il Pci). Non è il cavallo di razza della Dc con cui gli americani hanno un rapporto di complicità, comE Francesco Cossiga, con cui via Veneto si appassiona a ragionare delle strategie migliori per evitare l'infiltrazione dei comunisti negli apparati dello Stato (dai servizi segreti all'Arma dei carabinieri). Non è «l'italiano più profondamente morale che l'ambasciata abbia mai conosciuto», come è il Dc Benigno Zaccagnini, un nemico per gli Usa perché troppo vicino a Moro e al portare al "compromesso storico". E allora chi è il Giulio Andreotti che esce dai "Kissinger Cables"? Un grigio sacerdote del potere. Intelligente, certo. Ma piatto come un contabile e sprovvisto di quell'arguzia che, da noi, lo ha reso celebre per battute memorabili. L'uomo che ha incarnato il Potere granitico e immarcescibile, il depositario dei segreti della Repubblica, esce dai "Kissinger Cables" come un personaggio evanescente. Non un file che lo sorprenda a parlare con gli americani con slancio, come fa Cossiga. Non un documento che colpisca per una sua analisi, un'invettiva o anche un commento velenoso contro un avversario politico. Dov'è il Belzebù, il luciferino custode degli arcana imperii? Nel database non c'è traccia. Tutto quello che i cablo ricompongono è un mosaico di mosse, riti e trattative quotidiane, che parcellizzano l'enorme potere del personaggio: Andreotti sembra riuscire a camuffarlo e farlo sparire anche da qui. Per gli americani, certo, è un amico. Quando nel 1974 la Grecia, appena uscita dalla stagione dei Colonnelli, minaccia di uscire dalla Nato, gli Usa si affidano alla mediazione dell'allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Uno dei nostri migliori amici in Italia", scrive l'ambasciatore John Volpe al Dipartimento di stato. E poi: «Sono fiducioso che lui voglia sinceramente essere utile". Il segretario Henry Kissinger, allora, autorizza via Veneto a fare un briefing con il ministro sulla vicenda, ma senza lasciargli in mano alcun documento. Forse anche gli americani temevano i suoi archivi. Sono anni di scandali, stragi e trame. La diplomazia americana non gli perdona il suo comportamento nello scandalo del Sid, i potenti servizi segreti di Vito Miceli, al centro di mille disegni eversivi. «La gestione di Andreotti dell'affare Sid, che ha portato all'arresto dell'ex capo Miceli", scrivono, "ha provocato notevoli critiche da parte dei circoli moderati e conservatori e militari, come anche un violento attacco da parte del partito neofascista Msi". Secondo quanto riportato sui cablo, è per questa gestione che Andreotti viene fatto fuori come ministro della Difesa nel 1974. E gli americani non sembrano affatto dispiaciuti. Tutti gli arresti che ruotano intorno all'eversione di destra - da Amos Spiazzi, dell'organizzazione neofascista "Rosa dei Venti", fino quella di Miceli - irritano moltissimo gli americani, convinti che «questa caccia alle streghe in corso» avvantaggi la sinistra, che può usarla a livello mediatico. Sull'anticomunismo di Andreotti, però, gli Stati Uniti non hanno dubbi: «E' uno dei pochi leader Dc che ha la capacità di guidare nel migliore dei modi la Dc contro i piani del compromesso storico con il Pci», scrivono. Allo stesso tempo, però, sono consapevoli che, politicamente, è un realista, «un politico furbo», con cui devono relazionarsi in modo «franco ed energico». Dopo le elezioni del giugno 1976, quelle del rischio del "sorpasso storico" del Pci di Berlinguer sulla Dc, «Andreotti sottolinea che è necessario guardare alla realtà della politica italiana e che la Dc di trova ora davanti alla possibilità che il Partito comunista formi un governo con i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, i radicali e democrazia proletaria. Di fronte a questa situazione la Dc o lavora a un accordo con il Pci, o va all'opposizione o indice nuove elezioni». Ma poiché né Andreotti né i colleghi credono che le ultime vie alternative siano percorribili, «sarebbe meglio cercare di accomodarsi con il Pci in un modo che non implichi alcun ruolo di governo per i comunisti in Italia». Di fronte a questo lucido realismo, gli americani replicano in modo franco ed fermo, giocando la carta del ricatto finanziario: «Sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti e, presumibilmente, per gli altri partner europei fornire assistenza economica e di altro tipo all'Italia nel caso in cui il Pci avesse un importante ruolo nella formazione del governo», chiarisce l'ambasciatore Usa con Andreotti, sottolineando che la politica dell'America rimarrà la stessa negli anni a venire, indipendentemente da un'amministrazione democratica o repubblicana. Giulio Andreotti ne prende atto e consiglia agli americani di coltivarsi Bettino Craxi e i socialisti in funzione anticomunista. Proprio quel Craxi che poi lo ribattezzò 'Belzebù' per le sue trame luciferine. Il database non lascia dubbi su chi sono gli uomini su cui, nel '76, punta la diplomazia americana per tenere l'Italia al riparo dai comunisti: Andreotti, Craxi e Forlani, quest'ultimo è il leader che vogliono alla guida della Dc. Non l'onestissimo Zaccagnini, pericolosamente vicino a Moro. Puntano su Forlani, ma non vogliono «appoggiarlo apertamente, perché sarebbe controproducente» e forse «verrebbe usato per confermare le speculazioni che nel 1972, quando era segretario di partito, ha avuto a che fare con la Cia». Quanto a Craxi, gli Usa sembrano prendere sul serio i consigli di Andreotti e sono particolarmente soddisfatti che «il suo [di Bettino] viscerale anticomunismo sia ben nascosto dall'occhio pubblico». Trenta anni dopo questi cablogrammi, Andreotti, Craxi e Forlani sono tramontati. E del 'divo Giulio' nei file di WikiLeaks che vanno dagli anni 2002 al 2010, si ricordano appena le sue traversie giudiziarie e che «è strettamente associato al Vaticano».

Nel labirinto delle stragi, scrive Attilio Bolzoni il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l'Italia non conosce. A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall'Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni. E' un lungo racconto ma non è solo un racconto. E' anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell'estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi. Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all'altra anche se lontane nel tempo. C'è l'intrigo della trattativa Stato-mafia e c'è l'oscura parentesi della dissociazione "morbida" che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c'è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina. Un'estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il "suicidio" nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell'attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni - il 27 luglio del 1993 - in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane. Con l'apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il "pupo vestito", il pentito fasullo di via D'Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi. Venticinque anni dopo - nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola - siamo ancora dentro il labirinto. Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.

Quei delitti "preventivi", scrive Enrico Bellavia, Giornalista di Repubblica, il 16 luglio 2017. Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989. L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno. A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore. Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita. A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino. Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima. Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa. E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo. Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo. 

Talpe, spie e traditori, continua Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. L’Addaura, partiamo allora da lì, lasciando in ombra il contesto e tirando fuori alcuni fatti e alcune domande irrisolte. Chi avvertì i sicari di Cosa nostra che il giudice avrebbe fatto ritorno a casa a quell’ora - nella sua villa sul litorale di Palermo per concedersi una pausa e deliziare i suoi ospiti durante una rogatoria - con i magistrati elvetici che indagavano sul riciclaggio della mafia in Svizzera? Chi fu la talpa che corse a informare lo squadrone di sub pronti all’attacco che sì il tritolo poteva essere piazzato a quell’ora in riva al mare, nel punto in cui, Falcone si sarebbe immerso? Sappiamo adesso, perché lo disse Falcone, che a salvargli la vita fu un giovane poliziotto che lavorava al commissariato San Lorenzo. Si chiamava Nino Agostino. Lo uccisero il 5 agosto 1989, quarantasei giorni dopo il fallito attentato dell’Addaura. Dal suo armadio sparirono delle carte importanti che un collega confessò al telefono di aver distrutto. Il padre si ricordò di aver visto una settimana prima nei pressi di casa del figlio uno strano personaggio, uno con "la faccia da mostro", presentatosi a cercarlo insieme con un collega poliziotto. Bisogna tenere bene a mente questo particolare perché avremo modo di tornarci. Con Agostino morì la moglie incinta, Ida Castelluccio. E, uccidendola, eliminarono con ogni probabilità l’unica testimone diretta dell’avventura umana di un servitore dello Stato al lavoro nell’avamposto più ostile e infido che si potesse immaginare.Talpe e spie dappertutto intorno ad Agostino, pronte a impedirgli di rivelare in che modo si fosse imbattuto nella notizia che gli permise di evitare la strage dell’Addaura. Un altro ragazzo ci rimise la vita: si chiamava Emanuele Piazza. Lavorava già nei "servizi". Ma i suoi capi per lungo tempo hanno negato. Era agli inizi, in prova, e si era gettato nell’impresa di dare la caccia ai latitanti. Faceva base al commissariato San Lorenzo, lo stesso in cui lavorava Agostino. In palestra, Piazza aveva agganciato Francesco Onorato, il pugile, superkiller della cosca dei Madonia di San Lorenzo e dei Galatolo, loro fidi alleati: due piedi nella mafia ma, come vedremo, molte orecchie tra gli sbirri. Ligio al dovere, Piazza, passava le informazioni ai superiori. Dopotutto era stato il superpoliziotto Luigi De Sena, al vertice del Sisde, poi anche parlamentare del Pd, a ingaggiarlo. Glielo aveva presentato il suo autista, un ispettore che finirà condannato per aver favorito i Graviano di Brancaccio. Un giorno di marzo del 1990, Piazza lasciò la porta di casa aperta come se fosse uscito con qualcuno che conosceva per rientrare poco dopo. Non tornò più. Chi tradì Piazza? Chi tradì Agostino? E chi aveva tradito una prima volta Falcone?

Speciale Via D'Amelio. Storia di un colossale depistaggio, scrive il 17 Luglio 2017 Gea Ceccarelli su "Articolo 3". E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno. Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta. Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone. E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto. Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo. Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale. Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89. Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitanti” Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa. Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”. Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità. Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata. Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile. E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.

Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio. La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattaccabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico. Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.

E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”. Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo. Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde, “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”. Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.

Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.

Borsellino, la trattativa e il più grande depistaggio di sempre, scrive ancora Gea Ceccarelli su "Articolo 3" a luglio 2016. Ventiquattro anni. Tanto tempo è passato da quel 19 luglio 1992, quando, in via D'Amelio, a Palermo, una 126 imbottita di tritolo fece saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. A tanti anni di distanza, però, i motivi della strage, così come i veri colpevoli, sono ancora nell'ombra. Per anni si sostenne che Borsellino fosse stato ammazzato perché scomodo, perché giudice antimafia, perché, come Giovanni Falcone, perseguiva un ideale di giustizia. Perchè troppo esposto, magari proprio da chi, come Scotti, l'aveva candidato pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia. Ed è vero. Ma sono anche tanti, ora, che si domandano se non c'entri, in quell'eccidio così frettoloso, anche qualcosa riguardante la trattativa Stato-mafia: era possibile, infatti, che Paolo Borsellino avesse scoperto come lo Stato avesse contattato Cosa Nostra per raggiungere un accordo, e si fosse messo di traverso? Non appare un'eventualità così impossibile. Paolo Borsellino il giorno prima di morire, parlando con la moglie Agnese, rivelò di sapere che, a ucciderlo, non sarebbe stata soltanto la mafia. In un'altra occasione, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, venne trovato a piangere, sostenendo di esser stato tradito da un amico. E ancora: al ritorno da un viaggio a Roma (in quel periodo si moltiplicarono), si sfogò spiegando di aver visto, nella capitale, il vero volto della mafia. C'è, in particolare, uno di quei viaggi nella città eterna, a restar impresso più di altri. Lo racconta il pentito Gaspare Mutolo, che, quel giorno, era interrogato da Borsellino. Era il primo luglio e il giudice venne interrotto da una telefonata dal Ministero dell’Interno: il neoministro Nicola Mancino, subentrato a Scotti, voleva conferire con lui. Secondo quanto riportò Mutolo, all’incontro Mancino e Borsellino non erano soli: “Borsellino tornò dopo circa due ore – ricordò infatti – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (allora capo della Polizia) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Mancino, però, negli anni successivi, smentirà il tutto, sostenendo di non aver mai incontrato il magistrato e che, a quel tempo, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Ancor prima, nell'ultima settimana di giugno, il capitano del Ros De Donno avvicinò Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, per informarla dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo nell'ottica di creare un canale di dialogo con Cosa Nostra. Da parte sua, la Ferraro riferì il tutto al ministro della Giustizia Martelli e a Paolo Borsellino, il quale organizzò subito un incontro con i carabinieri del Ros, De Donno, ma anche Mori, che si tenne il 25 giugno. Di cosa parlarono, è impossibile saperlo. Certo è che pochi giorni dopo, a Palermo, venne denunciato il furto di una 126. E' quindi possibile che, dietro la strage, ci siano ombre istituzionali? Di questo era convinto per esempio Totò Riina che, nel 2009, riferendosi a Borsellino, sosteneva: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Quando poi tornò a parlare, nel 2013, con il suo compagno d'aria Alberto Lorusso, aggiunse: "L'agenda rossa?", diceva, intercettato.  "I servizi segreti, gliel'hanno presa". L'agenda rossa è un altro dei misteri che gravitano attorno la strage di via D'Amelio. Per quasi due mesi Borsellino non fece altro che ripetere di voler essere interrogato dalla Procura di Caltanissetta, quella titolare delle indagini sulla strage di Capaci. Voleva riferire quanto aveva scoperto, quanto sapeva e che non poteva render pubblico, per il segreto d'inchiesta. Nessuno lo volle ascoltare. E' presumibile che avesse comunque segnato tutto sulla sua agenda, che aveva con sé anche quel 19 luglio, e che non fu mai più ritrovata. Ma, oltre a Riina, anche Gaspare Spatuzza ha parlato di servizi segreti. Lui, uno dei veri esecutori della strage, sostenne infatti che, all'interno del garage in cui era stata portata la 126 per imbottirla di tritolo, si trovava anche un uomo estraneo a Cosa Nostra, un agente dei servizi. Fu una delle tante, importanti, rivelazioni che Spatuzza offrì, permettendo di riscrivere la storia giudiziaria di via D'Amelio e smantellare il più grande depistaggio di sempre, quello del falso pentito Vincenzo Scarantino, che aveva portato alla condanna di innocenti. Successivamente, Scarantino sostenne di esser stato costretto a mentire, dal super poliziotto Arnaldo La Barbera -colui che, secondo l'ex boss Di Carlo si recò nelle carceri inglesi in cui si trovava recluso per avere un contatto con Cosa Nostra per allontanare Falcone- e magistrati, tra cui Palma e Tinebra: questi, raccontò Scarantino, lo avrebbero anche invitato a prendere "questa cosa della collaborazione come un lavoro", e di star tranquillo, nell'accusare innocenti, perché "se non hanno fatto questo, hanno fatto altro". Le ultime dichiarazioni, Scarantino le ha rilasciate qualche anno fa, dagli studi di Servizio Pubblico. Fuori dallo studio, però, lo attendevano le forze dell'ordine per arrestarlo. Ha parlato e, con tempistiche quantomeno anomale, è finito con l'essere arrestato con l'accusa di stupro; una storia di cui non s'era mai avuta notizia prima e che, l'anno scorso, s'è conclusa con la sua assoluzione. Intanto, però, il messaggio di tacere era stato inviato.

La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.

Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.

La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.

La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.

Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.

La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdi di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.

Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.

I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.

In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.

Quegli ''innominati'' dietro la scomparsa dell'agenda rossa, scrive il 17 Luglio 2017 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. L'imputazione coatta nei confronti di Arcangioli viene accolta dalle aspre polemiche dei suoi difensori. Il 27 febbraio 2008 gli avvocati Diego Perugini e Sonia Battagliese depositano una memoria difensiva con la richiesta di audizione di numerosi uomini delle istituzioni tra cui l'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, i generali dei carabinieri Antonio Subranni e Domenico Cagnazzo, l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e molti altri. I legali di Arcangioli premono per risalire ai nominativi degli uomini dei Servizi presenti in via d'Amelio il giorno della strage e chiedono ugualmente di sentire pentiti del calibro di Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè ed altri. Il 5 marzo 2008 i pm avanzano la richiesta di rinvio a giudizio per Arcangioli. Martedì 1° aprile 2008 si svolge l'udienza preliminare davanti al Gup di Caltanissetta, Paolo Scotto Di Luzio. A metà pomeriggio viene emessa la sentenza di non luogo a procedere «per non avere commesso il fatto». Un mese dopo le motivazioni sono depositate in cancelleria. Tra le 27 pagine del documento il Gup traccia un'ombra ambigua sull'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Per il giudice la circostanza che Arcangioli sia stato filmato nell'atto di portare la borsa appartenuta a Borsellino non consente di stabilire «che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta scomparire», poi poche righe più sotto rimarcando che «nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione». Il 13 maggio la procura nissena impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, illustrano le contraddizioni espresse in sentenza, così come la illogicità delle motivazioni e soprattutto il travisamento della prova. In merito alla considerazione alquanto azzardata del Gup che mette in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice, vengono poste di contraltare le dichiarazioni (rese nel corso della fase istruttoria) della signora Agnese Piraino Leto, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini. Di Natale e Liguori smontano pezzo per pezzo le evidenti incongruenze della sentenza di proscioglimento per Arcangioli. L'ipotesi ventilata dal giudice della «presenza simultanea di due borse, entrambe nella disponibilità del Dr. Borsellino» contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa. L'eventualità ipotizzata dal Gup che Paolo Borsellino avesse potuto stringere in una mano l'agenda rossa nel momento stesso che si accingeva a citofonare alla madre viene contraddetta dalla logica dei fatti. «Dalla corretta (e in questo caso non controversa) ricostruzione degli eventi - scrivono i magistrati nel documento - si ricava, infatti, come il Dr. Borsellino si trovasse alla guida della vettura blindata (era di domenica pomeriggio e quindi non c'era l'autista del Ministero della Giustizia) mentre la borsa si trovasse nel pianale posteriore (dove fu poi ritrovata dopo l'esplosione)»; «Ne consegue - sottolineano i magistrati - che risulta alquanto improbabile (oltre che complicato) che il magistrato abbia fatto uso della borsa (o peggio abbia estratto l'agenda dalla borsa) durante il tragitto per Via d'Amelio (mentre si trovava alla guida), né tanto meno si spiegherebbe perché il Dr. Borsellino avrebbe dovuto portare con sé l'agenda rossa (che di certo non utilizzava per gli appunti quotidiani, quali appuntamenti, spese ed altro) una volta arrivato in via d'Amelio, considerato che era sceso dall'autovettura solo per citofonare alla madre che avrebbe dovuto accompagnare da un medico per una visita prenotata da tempo». In un dedalo di interpretazioni e travisamenti della prova il dott. Paolo Scotto Di Luzio mette in dubbio le stesse riprese televisive che inquadrano Arcangioli mentre si allontana da via d'Amelio. Per il Gup le immagini non sarebbero in grado di restituire con esattezza il preciso percorso del tenente. «Seppur non essendo dato conoscere, sulla base del filmato, la destinazione finale del percorso di Arcangioli - scrivono i pm nel loro ricorso - né il tempo esatto del possesso della borsa, è ancora errato e illogico trarne conclusioni in termini indiziari assolutamente neutri, senza considerare sia il luogo dell'ultima immagine dell'Arcangioli (già di per sé fortemente sospetto), sia la direzione (altrettanto sospetta), che la circostanza che per sottrarre un'agenda da una borsa (possibilmente consegnandola a terzi) non necessitano né ore, né minuti, ma solo pochi secondi». La procura nissena smonta ulteriormente il teorema del Gup sulla possibile presenza di «due borse» appartenenti a Borsellino e sull'eventualità che Arcangioli potesse essere giunto successivamente all'assistente di polizia, Francesco Paolo Maggi. «Tale assunto - ribadiscono i pm Di Natale e Liguori - travisa completamente il dato probatorio e contrasta inevitabilmente sia con gli accertamenti della Dia di Caltanissetta, che hanno concluso per l'identità della borsa trovata dal Maggi con quella raffigurata nella foto dell'Arcangioli, che con le dichiarazioni dei familiari del Dr. Borsellino che hanno riconosciuto in quella repertata l'unica borsa di cuoio utilizzata quel giorno dal magistrato»; «Inoltre - sottolineano i magistrati nisseni - la ricostruzione cronologica riportata in sentenza si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni dei soggetti venuti in qualche modo a contatto con la borsa del magistrato». Nel ricorso in Cassazione vengono messe a confronto tutte le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di Giuseppe Ayala e lo stesso Arcangioli a dimostrazione della necessità assoluta di celebrare un dibattimento per chiarire definitivamente ogni dubbio su una materia tanto delicata come la sparizione dell'agenda di Paolo Borsellino. I giudici nisseni concludono affermando che la sentenza del Gup «ha avuto la pretesa di giudicare sulla colpevolezza/innocenza dell'imputato come se si trattasse di un giudizio abbreviato, e ha concluso tentando di porre una pietra tombale su una delle vicende giudiziarie più inquietanti degli ultimi tempi». Ma quella «pietra tombale» sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa verrà messa proprio dalla VI sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto il 17 febbraio 2009. Pochi minuti basteranno agli ermellini per scrollarsi di dosso una vicenda ritenuta decisamente fastidiosa. Un caso da seppellire al più presto nei caotici archivi di una cancelleria istituzionale. Nell'aula austera del «palazzaccio» la presenza di un carabiniere in borghese, qualificatosi come «colonnello», non passa inosservata. In un luogo normalmente inaccessibile per chiunque non sia coinvolto nel processo celebrato, quell'uomo è lì ed assiste al pronunciamento della sentenza. Il procuratore generale, Carlo di Casola, chiede inaspettatamente il rigetto del ricorso della procura nissena. Identica richiesta viene avanzata dal difensore di Arcangioli l'avv. Adolfo Scalfati. L'avvocato di parte civile, Francesco Crescimanno, è l'unico a chiedere la possibilità di avere un regolare processo per chiarire il mistero del furto dell'agenda rossa. Ma rimane in minoranza. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della procura di Caltanissetta. E il proscioglimento del colonnello Arcangioli diventa definitivo. L'ombra di una «ragione di Stato» si allunga sulla sentenza di un processo abortito ancor prima di iniziare. Nelle quattro paginette della motivazione della sentenza l'ignominia di uno Stato che non vuole processare se stesso prende forma. Il punto più alto dell'indecenza lo si raggiunge nel momento in cui viene messa nuovamente in dubbio l'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Nel citare le testimonianze dell'ispettore Maggi, dell'appuntato Farinella, del dott. Teresi e dell'on Ayala, gli ermellini sottolineano come da «nessuna di queste fonti, i cui contributi vengono puntualmente riportati e criticamente analizzati, è desumibile l'esistenza dell'agenda nella borsa maneggiata dall'Arcangioli e meno che mai si può ritenere la sottrazione ad opera di quest'ultimo dall'interno della borsa». L'evidente strumentalizzazione delle relative testimonianze assume i contorni di una decisione già concordata e che doveva essere solo formalizzata. Nella motivazione della sentenza di Cassazione il presidente della VI sezione penale si avvale per buona parte delle motivazioni del Gup di Caltanissetta concludendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un'agenda». Sconcerto, delusione e soprattutto rabbia quella di Salvatore e Rita Borsellino alla notizia del proscioglimento di Arcangioli con una simile motivazione. «A questo punto - scrive provocatoriamente Salvatore Borsellino sul suo sito - non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l'occultamento dell'Agenda». «Dato che Paolo non se ne separava mai - rimarca con sdegno e rabbia il fratello di Borsellino - solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell'imputato». «Il momento attuale è peggiore del '92 - dirà successivamente Rita Borsellino - allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c'è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l'eredità di Paolo». Nei computer dei magistrati nisseni restano archiviati i file delle dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda incredibile. Chiuse nelle cartelline rimangono scritte le loro ambigue contraddizioni. Ed è rileggendole che il fumo nero di via d'Amelio si dipana. Dietro quelle nebbie si intravedono ora i volti degli «innominati» di questa epoca. Ma anche questa volta è una questione di tempo. E il timer è già scattato.

“Già si cominciava a parlare della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Lavoravamo al nostro archivio, volevamo catalogare le immagini più emblematiche delle stragi di mafia. Quella foto in realtà era una diapositiva, con le lenti d’ingrandimento passavamo in rassegna gli scatti di via D’Amelio prima di scansionare e conservarli in formato digitale. La nostra attenzione si fissò su quella borsa, invitammo alcuni colleghi a visionarla. Il responso fu unanime, poteva trattarsi della borsa di Borsellino. Non si fece in tempo a venderla (la foto, ndr), avevamo contatti con L’Espresso, Panorama e Repubblica per la cessione in esclusiva ma un collega giornalista ci tradì, la notizia uscì su Antimafia 2000 a firma di Lorenzo Baldo. Pochi giorni dopo bussarono alla porta dello studio gli uomini della Dia e sequestrarono la foto. Ci fu proibito persino di parlare del sequestro”. A parlare al Gazzettino di Sicilia è il fotografo Michele Naccari, collega di Franco Lannino (colui che materialmente ha scattato la foto che ritrae l’allora capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli). Una precisazione: il primo lancio della notizia di quella fotografia non è uscito sul nostro giornale, bensì su l’Unità. La vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che ci ha visto testimoni diretti per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine di Arcangioli, merita quindi di essere raccontata per intero. A futura memoria. «Esiste una foto dove si vede un ufficiale dei carabinieri che si allontana da via d'Amelio pochi minuti dopo lo scoppio della bomba reggendo la borsa di Paolo Borsellino». Per un attimo rimango in silenzio**. Ma poi torno alla carica. «E chi sarebbe questo carabiniere?». «Giovanni Arcangioli, nel '92 aveva il grado di capitano». Sono gli ultimi mesi del 2004 quando ricevo questa segnalazione da una persona decisamente attendibile che conosciamo da diversi anni. Gli chiedo altri dettagli. Voglio vederci chiaro. «La foto è custodita dal fotografo palermitano Franco Lannino». La conversazione finisce lì. Dopo una rapida consultazione in redazione telefono al funzionario della Dia di Caltanissetta Ferdinando Buceti. Il vice questore si occupa delle nuove indagini sui mandanti occulti nelle stragi del '92 sotto il coordinamento della procura nissena. Non mi interessa fare alcun tipo di “scoop” per Antimafia Duemila. La precedenza va all'autorità giudiziaria. Punto. Buceti prende nota per poter verificare gli elementi ricevuti. Nel frattempo mi accorgo che Giovanni Arcangioli è lo stesso ufficiale che nell'estate del 2004 ha freddato a Roma il serial killer Luciano Liboni, soprannominato «il lupo». Un osso duro, Arcangioli, che nel frattempo è diventato tenente colonnello. Successivamente il funzionario della Dia scopre da riscontri incrociati che il 19 luglio 1992 risulta confermata la presenza di Arcangioli in via d'Amelio. Ma è il secondo passo quello determinante. In una sorta di «irruzione» vera e propria cinque agenti della Dia piombano nello studio dal fotografo Franco Lannino. Devono visionare il suo archivio. Subito. La cartellina delle immagini della strage di via d'Amelio viene analizzata minuziosamente fotogramma per fotogramma. La foto del carabiniere che regge la valigetta di Borsellino esce fuori dall'album. E' stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992. E' lui. E' Giovanni Arcangioli, all'epoca comandante della sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Il reperto fotografico viene acquisito immediatamente dall'autorità giudiziaria. E' la prova documentale della segnalazione giunta in redazione. La macchina investigativa ha acceso i suoi motori. E' l'alba del 27 gennaio 2005 quando parto per Roma. L'appuntamento è per le ore 11 agli uffici della Dia. La verbalizzazione ufficiale della nostra segnalazione sulla fotografia di Arcangioli è prevista per quella mattina. L'indicazione fornita telefonicamente poche settimane prima al dott. Buceti viene trascritta in un verbale che confluisce nel fascicolo sulla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel momento l'opinione pubblica ignora ancora la notizia del ritrovamento della foto. Ma è solo questione di un paio di mesi. Il 26 marzo l'Unità pubblica un articolo a firma di Marzio Tristano. Il ritrovamento della foto del carabiniere con la valigetta di Paolo Borsellino diventa di dominio pubblico. Da un dispaccio Ansa del 19 maggio si scopre che Giovanni Arcangioli è stato interrogato un paio di settimane prima per una foto che lo ritrae con in mano la borsa del giudice Borsellino. Domenica 5 febbraio 2006 le agenzie diramano la notizia che la Dna ha segnalato alla procura di Caltanissetta l'esistenza di un vecchio verbale del 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento della borsa del giudice Borsellino. I dispacci riportano che Ayala e Arcangioli sono stati sentiti sul punto specifico dall'autorità giudiziaria. Passano solamente quattro ore e le agenzie battono la notizia di un nuovo interrogatorio di Giovanni Arcangioli previsto nei giorni successivi. Ed è nella data di martedì 8 febbraio che quell'interrogatorio avviene negli uffici romani della Dia. Quello stesso giorno viene sentito nuovamente anche Giuseppe Ayala. I due verranno messi a confronto e le rispettive versioni non coincideranno. Inizia così una sfida a colpi di memoria. Giocata su più tavoli. Primi vagiti di un depistaggio. Consapevole o non. Ma di certo non innocente. Cinque mesi dopo, nell'edizione delle ore 20, il Tg1 trasmette un servizio di Maria Grazia Mazzola sulla strage di via d'Amelio. Per la prima volta in assoluto un canale nazionale, nell'edizione di punta del proprio telegiornale, manda in onda il video di quel frangente. Nel filmato il capitano dei carabinieri avanza spedito reggendo in mano la borsa di cuoio di Borsellino. Dietro di lui si intravedono le auto in fiamme e i pompieri che si affannano a spegnerle. La telecamera insiste implacabile sull'ufficiale. Ma è questione di pochi secondi. Con grandi falcate Arcangioli esce dal quadro delle riprese allontanandosi da via d'Amelio. Riparte il filmato, questa volta a rallentatore. Il volto del carabiniere non tradisce alcuna emozione. La valigetta è stretta nella sua mano destra. Poi più nulla. Nel servizio l'intera vicenda viene sintetizzata sotto la scure dei tempi televisivi. Ma è la novità di quel video ad attirare tutta l'attenzione. La consacrazione definitiva a livello pubblico della scomparsa dell'agenda rossa è avvenuta. Nell'immaginario collettivo la figura di colui che preleva la valigetta di Paolo Borsellino ha finalmente un volto, un corpo e un'anima.

La pietra tombale sulla scomparsa dell'agenda rossa. “Etica è innamorarsi del destino degli altri e Palermo è uno dei pochi luoghi etici rimasti in questo Paese perchè si è costretti a scegliere: o stai con gli assassini, oppure no, o stai da una parte oppure dall'altra, anche se poi è difficile vivere questa scelta”. Un cielo grigio avvolge la città di Caltanissetta. Ripenso a quelle parole pronunciate diversi anni fa da Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di quella città, mentre mi dirigo verso il palazzo di giustizia. E' il 24 febbraio 2006, alle ore 11 è prevista la mia audizione come persona informata sui fatti. L'inchiesta sulla scomparsa dell'agenda rossa procede in un percorso a ostacoli. Il procuratore capo Francesco Messineo e l'aggiunto Renato Di Natale si fanno ripetere sostanzialmente tutto l'iter della segnalazione giunta in redazione. Passano poi agli approfondimenti. Ma l'interrogativo che pesa maggiormente nella sala riunioni della procura nissena riguarda l'identificazione della «fonte». Il procuratore intende sapere se quella segnalazione provenga da ambienti «istituzionali» o meno. Ribadisco ai magistrati la provenienza «non istituzionale» della segnalazione. Sono però costretto a ricorrere al «segreto professionale» sull'identità dell'autore per una precisa volontà dello stesso. Messineo e Di Natale non battono ciglio e procedono alla verbalizzazione. Sabato 25 febbraio il quotidiano La Repubblica anticipa l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli per false dichiarazioni al pubblico ministero. La miccia è stata accesa. E' come se una scintilla cominciasse a percorrere un lungo filo prima di arrivare all'esplosivo. Non passa nemmeno un mese e i difensori di Arcangioli chiedono di spostare la competenza dell'indagine a Roma. Secondo i legali il reato ipotizzato sarebbe stato commesso a Roma e di conseguenza i giudici naturali sarebbero quelli della Capitale. La procura di Caltanissetta oppone un fermo rifiuto in quanto i reati sarebbero stati commessi nel territorio di competenza della procura nissena. Un braccio di ferro che termina con un risultato a favore della procura. L'inchiesta resta a Caltanissetta. Il fascicolo in cui si ipotizza il reato di furto resta a carico di ignoti; l'ufficiale dei carabinieri viene iscritto nel registro degli indagati per false dichiarazioni ai pm. Nel mese di ottobre del 2006 si conclude l'indagine su Arcangioli. Da quel momento attorno al caso della sparizione dell'agenda rossa si apre una danza schizofrenica a suon di carte giudiziarie. Il 3 novembre del 2006 i pm titolari dell'inchiesta, Renato Di Natale e Rocco Liguori, chiedono per l'ufficiale dei carabinieri una prima archiviazione. L'istanza viene rigettata dal Gip Ottavio Sferlazza che, il 21 luglio 2007, ordina di integrare il quadro probatorio con ulteriori accertamenti. Il 28 settembre 2007 una nuova richiesta di archiviazione da parte della procura nissena viene depositata in cancelleria. Poche pagine che racchiudono tra le righe una piccola nota in fondo al testo che apre ulteriori scenari. «Da indagini parallele in altro procedimento penale - si legge nel documento - emergeva comunque come la borsa (di Paolo Borsellino, nda) fosse stata consegnata al Dr. Giovanni Tinebra il giorno dopo l'attentato dal Dr. Arnaldo La Barbera». Il 5 novembre il Gip rigetta nuovamente la richiesta di archiviazione e ordina un supplemento di indagine. Il 14 gennaio 2008 viene reiterata dalla procura la terza richiesta di archiviazione. Il giorno 1° febbraio 2008 il Gip impone ai Pm l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli con l'accusa di furto pluriaggravato. Nell'ordinanza il Gip Sferlazza illustra una per una le gravi contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Arcangioli mettendole a confronto con le testimonianze di Giuseppe Ayala, altrettanto altalenanti, così come con quelle di Vittorio Teresi. «Contrariamente all'assunto del ten. col. Arcangioli - si legge nel documento - a nessuno dei magistrati presenti, chiamati in causa dal predetto ufficiale, fu affidata, anche temporaneamente, la borsa in questione». «L'allora capitano Arcangioli - che in un determinato contesto spazio-temporale certamente si trovò ad operare da solo - rimase per un apprezzabile lasso di tempo nella disponibilità della borsa, come documentalmente provato dai fotogrammi che lo ritraggono con la borsa in mano nell'atto di allontanarsi fin quasi l'incrocio con Via Autonomia Siciliana dove la telecamera cessa di inquadrarlo». Secondo il Gip Giovanni Arcangioli si allontana «ingiustificatamente di ben 60 metri dalla zona maggiormente interessata dall'esplosione (portineria e cratere) e dai rilievi in corso».Per Ottavio Sferlazza la direzione di marcia dell'ufficiale sembra piuttosto «funzionale all'esigenza di allontanarsi da quello spazio per controllare personalmente la presenza dell'agenda lontano da occhi indiscreti e per farla sparire, affidandola ad altri o nascondendola in una autovettura parcheggiata nei pressi, per poi fare ritorno verso via d'Amelio dove la borsa potè essere agevolmente riposta nell'autovettura del Dr. Borsellino ma ormai priva del suo prezioso documento». In totale antitesi con le registrazioni video che lo smentiscono in pieno Arcangioli aveva invece detto di essersi spostato «sul lato opposto della via d'Amelio rispetto alla casa del Dr. Borsellino» dove avrebbe aperto la borsa per esaminarne il contenuto. Per il Gip di Caltanissetta «appare evidente che, fallito clamorosamente il tentativo di precostituirsi una prova “autorevole” e “tranquillizzante” proveniente da fonte qualificata - costituita dalla asserita verifica da parte dei magistrati presenti, nell'immediatezza del prelievo della borsa dall'autovettura e sotto il loro controllo visivo, dell'assenza di una agenda all'interno della borsa stessa - all'Arcangioli, ripreso dalle telecamere in quell'atteggiamento univocamente indiziante, non rimaneva che negare di “avere mai superato, portando la borsa, il cordone di polizia che sbarrava l'accesso alla via d'Amelio”». Sferlazza sottolinea che in realtà c'era una sorta di corridoio libero che non era sbarrato da alcun cordone di polizia e che comunque per Arcangioli, munito di distintivo al petto, non era certo difficile attraversare quel tratto di strada per dirigersi verso la via Autonomia Siciliana «dove certamente sostavano molte autovetture di servizio in cui ben potè operare indisturbato, e fare poi ritorno in via d'Amelio senza destare alcun sospetto». Il Gip nisseno definisce «alquanto singolare» che il capitano Arcangioli non abbia redatto alcuna relazione di servizio «su un episodio di indubbia rilevanza investigativa, quale il rinvenimento di una borsa appartenuta al Dr. Borsellino», nemmeno «l'asserita consegna della borsa ai magistrati presenti […] avrebbe giustificato l'omessa redazione di una annotazione di servizio su un episodio tanto significativo». Nel documento viene riportata la dichiarazione di un superiore di Arcangioli, il ten. col. Marco Minicucci il quale, sul punto specifico, sottolinea che «sarebbe stato normale per un ufficiale che preleva la borsa che era contenuta nell'auto di Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage redigere una relazione di servizio». Ma Arcangioli misteriosamente non redige alcun rapporto. Per il Gip «non può dubitarsi della esistenza dell'agenda all'interno della borsa né della attribuibilità al solo Arcangioli, almeno in una prima fase, di una condotta di sottrazione della stessa». Sferlazza evidenzia le circostanze dei diversi ritrovamenti della borsa di Paolo Borsellino all'interno della sua auto. La prima persona che recupera la borsa «sul sedile posteriore» è l'agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Successivamente l'ispettore Francesco Paolo Maggi asserisce di averla trovata «sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri». I due diversi ritrovamenti costituiranno i pilastri del mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo il Gip nisseno la sparizione dell'agenda «va collocata in una fase certamente precedente all'intervento dell'ispettore Maggi ed appare chiaramente ascrivibile all'ufficiale dell'Arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni». «E quale altra funzione - scrive Sferlazza nell'ordinanza - può avere avuto la successiva ricollocazione della borsa all'interno dell'autovettura se non quella di consentirne un successivo recupero, dopo averla fraudolentemente privata di quel documento approfittando della confusione che regnava in quella fase concitata e confidando sul fatto che il successivo repertamento della stessa avrebbe destato ben minori sospetti rispetto ad un suo eventuale e definitivo mancato rinvenimento?!». In merito ai risvolti legati a quanto vi possa essere scritto nell'agenda scomparsa il Gip di Caltanissetta punta dritto verso quegli organi di Stato «infedeli». «E' evidente - ribadisce Sferlazza - che il suo contenuto (dell'agenda rossa, nda) dovette subito apparire di estremo interesse al punto di suggerirne una definitiva e deliberata sottrazione ad ogni possibile sviluppo e/o doveroso approfondimento investigativo da parte dell'A.G. funzionalmente competente, mentre fu privilegiata, in sedi che non è dato conoscere ma certamente da parte di organi dello Stato infedeli, la definitiva espunzione di quel documento da un quadro probatorio complessivo, fin dall'inizio di difficile ricostruzione e lettura, che avrebbe potuto essere arricchito e reso più decifrabile». «Diversamente opinando - conclude il Gip - non si comprenderebbe perché quell'agenda non sia stata - si ribadisce, neppure tardivamente - mai più restituita alla famiglia Borsellino, sia pur, in ipotesi, dopo averne fotocopiato ed acquisito “clandestinamente” il contenuto, al di fuori delle corrette regole procedurali, tanto più ove si consideri che ciò avrebbe potuto essere fatto anche soltanto il giorno dopo senza destare alcun sospetto, mentre si è scelta la strada della criminosa e definitiva sottrazione del documento a qualunque verifica probatoria».

«Non ho un ricordo molto nitido, però, relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini». Le parole dell'ispettore Giuseppe Garofalo, in servizio il 19 luglio 1992 alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, infittiscono le nubi su via d'Amelio. I magistrati lo ascoltano attentamente. «Ricordo - racconta Garofalo - di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto». I funzionari della Dia sottopongono quindi all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprende Giovanni Arcangioli. Ma l'ispettore esclude che si tratti della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo ravvisa «forti somiglianze tra l'Adinolfi (il tenente colonnello del Ros di Palermo Giovanni Adinolfi, nda) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa», poi però in data 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato Garofalo «non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi». Dal canto suo il col. Adinolfi ribadirà quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in ordine alla sua presenza in via d'Amelio il 19 luglio 1992 ma «seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli». I magistrati riportano che nelle successive deposizioni lo stesso Adinolfi «nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino». Le asserzioni dell'isp. Garofalo si intersecano in maniera inquietante con quelle dell'agente della Volante San Lorenzo, Salvatore Angelo, tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. In mezzo a quella bolgia l'agente Angelo riconosce il collega Salvatore Mannino in servizio fino a qualche tempo prima al commissariato San Lorenzo. Mannino era stato poi trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo aveva descritto come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa, ma era anche sospettato di essere stato una «talpa» del commissariato. Non appena individuato Mannino, Salvatore Angelo resta interdetto. «Mi ha colpito addirittura un abbigliamento consuetudinario a lui - ricorda l'agente Angelo - giacca e pantaloni colore cammello e questo ha fatto scattare l’interrogativo di dire: ma 'sta persona qua che ci fa? Proprio perché il soggetto era quello che io ricordavo da sempre. Io poi l’ho perso con lo sguardo, perché come lui ha attraversato ancora c’era il fumo, c’erano le... le auto in fiamme, cioé non era facile seguire le persone all’interno della via D’Amelio. Ripeto, sono attimi in cui la cosa era ancora abbastanza fresca». Successivamente le dichiarazioni dell'artificiere antisabotaggio, Francesco Tumino, all'epoca in servizio presso il Nucleo Operativo del Comando Provinciale dei carabinieri di Palermo, creano ulteriore confusione nelle indagini degli investigatori. «Per il mio specifico compito cominciai ad attenzionare il cratere provocato dall’esplosione - racconta Tumino - se ben ricordo erano le 19.00 circa, allorquando notai la borsa che mi mostrate in foto in mano ad un tale ben vestito che, attraversato il cratere, si diresse verso un capannello di persone ove vi erano i più alti esponenti delle forze dell’ordine. Tale circostanza mi colpì poiché la borsa risultava per un lato bruciata e per l’altro integro e bagnata. Non conosco il tale che teneva in mano questa borsa e non mi sono accorto a chi l’abbia consegnata. Escludo, tuttavia, che potesse trattarsi di un nostro ufficiale poiché l’avrei riconosciuto». Viene quindi verbalizzata una ricostruzione alquanto discordante dalle altre testimonianze. Ma Francesco Tumino è lo stesso artificiere dei carabinieri coinvolto nei misteri del fallito attentato all'Addaura del 1989. Ed è lo stesso brigadiere che verrà condannato in appello per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sul fallito attentato a Falcone per aver accusato l'allora capo della Criminalpol di Palermo, Ignazio D'Antone, di essersi appropriato di alcuni reperti recuperati dopo la disattivazione dell'ordigno esplosivo. Tumino morirà nel mese di gennaio del 2006 portando con sé ambiguità e segreti. Nel frattempo i misteri si intensificano. La relazione di servizio del ritrovamento della valigetta di Borsellino viene inspiegabilmente redatta dall'ispettore Maggi il 21 dicembre 1992 e consegnata al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Un'incomprensibile e irragionevole vuoto temporale. Un enigma che alcuni protagonisti dell'epoca riescono ulteriormente a ingarbugliare con i propri vuoti di memoria. Il funzionario della Mobile di Palermo, Paolo Fassari, viene indicato da Francesco Maggi come il comandante che gli ordina di portare la valigetta di Borsellino in questura. Fassari, sentito successivamente dall'autorità giudiziaria, riferisce di non ricordarsi bene della presenza di Maggi in via d'Amelio, né tanto meno rammenta di avergli impartito l'ordine di recarsi in questura una volta rinvenuta la borsa del giudice. Fassari tuttavia non esclude che si siano verificate tali circostanze «in considerazione del notevole tempo trascorso e della grandissima confusione che era scaturita, in quei frangenti, in via d'Amelio». Dal tenente colonnello Marco Minicucci (all'epoca Comandante del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri Palermo I, nda), dipendevano cinque Sezioni Operative, a capo di una delle quali, la prima, era il capitano Giovanni Arcangioli. Ed è proprio Minicucci, interrogato dagli inquirenti nel 2005, a fornire un'ennesima versione dei fatti. «Ricordo in merito alla valigetta, molto vagamente, atteso i tredici anni trascorsi, che il collega (Giovanni Arcangioli, nda) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall’interno dell’auto del Procuratore Borsellino la valigetta dello stesso all’interno della quale mi ricordo che era contenuto un Crest araldico, se non erro dell’Arma, questo sulla base dei racconti che mi erano stati fatti dal Capitano Arcangioli». «In merito alla valigetta - specifica Minicucci - non ricordo altro e ritengo di potere escludere che siano stati redatti verbali da personale dipendente poiché l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato in segno di rispetto per le perdite subite. Non so aggiungere altri particolari e dettagli in merito alla valigetta poiché non ho vissuto materialmente il prelievo ed il controllo della stessa ma ne sono venuto a conoscenza dal collega successivamente e limitatamente alla parte che ho appena narrato». Gli investigatori confrontano le diverse dichiarazioni e tornano a sentire l'appuntato Farinella che non ha alcun problema a confermare quanto precedentemente riferito. «Io ricordo perfettamente - ribadisce Farinella - che appena notata la borsa il vigile ha cercato di spegnere le fiamme esterne ed insieme abbiamo tentato, fino a riuscirci, di aprire la portiera che permetteva di prendere la borsa. Ricordo altrettanto bene - sottolinea l'appuntato dei carabinieri - che abbiamo aperto una delle portiere posteriori, ma non so dire se la sinistra o la destra, proprio perché abbiamo fatto diversi tentativi. Inoltre, quando io ho prelevato la borsa la stessa era perfettamente asciutta, diversamente sarebbe dovuta essere inzuppata d’acqua». L'ipotesi della borsa bagnata è uno dei punti nevralgici delle contraddizioni emerse dalle differenti dichiarazioni dei testimoni. In totale contrapposizione alle affermazioni di Rosario Farinella, Francesco Maggi riferisce che la borsa era inzuppata d'acqua in quanto un pompiere l'aveva bagnata per impedire il principio di un incendio che si stava formando all'interno dell'autovettura. Di fatto Farinella e Maggi prelevano la borsa in tempi diversi. Nel primo caso non c'è alcun incendio all'interno della Croma, così come testimonia il pompiere che aiuta l'appuntato Farinella ad aprire l'auto. Mentre quando Maggi preleva la valigetta un altro pompiere ha appena colpito con un getto d'acqua l'interno della vettura. Ad avallare le dichiarazioni di Farinella si aggiungono quelle del vigile del fuoco Giovanni Farina che materialmente lo aiuta ad aprire la portiera della macchina blindata di Borsellino. «Il giorno della strage - racconta Farina agli inquirenti il 26 ottobre 2005 - ero funzionario di servizio e subito dopo la richiesta d'intervento sono stato tra i primi ad intervenire in via d'Amelio. Al momento del nostro arrivo, al quale seguiva immediatamente l'arrivo di una squadra dei Vigili del Fuoco del distaccamento portuale, ho notato che sul posto vi erano già delle auto delle forze dell'ordine che impedivano l'accesso alla gente che sopraggiungeva». «Preciso che in quella prima fase - sottolinea il vigile del fuoco - non sapevamo ancora quali fossero lo cause di quello scenario che si presentava davanti a noi. Ricordo, però che quando siamo arrivati ciò che c'era in via d'Amelio era completamente oscurato dal fumo. Inizialmente, accorgendoci che diverse macchine erano in fiamme abbiamo provveduto a spegnerle». A quel punto Giovanni Farina mette a fuoco il ricordo della macchina del giudice. «In tale circostanza ho notato che vi era una Fiat Croma di colore blu scuro alla quale non riuscivamo ad aprire le portiere. Nel tentativo di rompere un deflettore posteriore mi sono accorto che era un'auto blindata». «Successivamente - evidenzia il pompiere Farina - grazie all'intervento di qualcuno appartenente alle forze dell'ordine siamo riusciti ad aprire le portiere e verificare che non vi fosse nessuno al suo interno. Preciso che l'autovettura in questione era posizionata quasi al centro della strada, quasi all'altezza del portone d'ingresso della madre del giudice Borsellino». Il vigile del fuoco spiega successivamente agli inquirenti di aver appreso direttamente da Giuseppe Ayala, circa 30 minuti dopo «che si era trattato di un attentato al giudice Borsellino». Quando i magistrati mostrano a Rosario Farinella la foto del capitano Arcangioli per un'identificazione, l'appuntato dei carabinieri dichiara di non essere in grado di riconoscere la persona nella fotografia. «Posso aggiungere però - conclude Farinella - che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei». Dai principali protagonisti della scena del prelevamento, Giovanni Arcangioli e Giuseppe Ayala, si susseguono una serie di affermazioni, rivedute e corrette fino allo sfinimento. Arcangioli chiama addirittura in causa magistrati che non ci sono mai stati in via d'Amelio quel 19 luglio come Alberto Di Pisa (che minaccia querele per essere stato citato inopportunamente), e cita ugualmente chi vi è arrivato solamente nel tardo pomeriggio come Vittorio Teresi. Il 12 luglio 2005 il procuratore aggiunto di Palermo racconta agli investigatori la sua versione dei fatti. «Non posso precisare l'ora in cui arrivai in via d'Amelio - dichiara Teresi agli investigatori - ma probabilmente era trascorsa un'ora e un quarto o un'ora e mezza dall'esplosione. Mi fermai per qualche minuto ad osservare il terribile spettacolo dei corpi straziati tra i quali quello di Paolo Borsellino, e poi, mi andai a collocare sul marciapiede opposto alla cancellata del palazzo, in posizione però spostata verso l'imbocco di via d'Amelio». «Nel medesimo luogo - sottolinea il magistrato palermitano - credo di ricordare di avere visto i colleghi Ingroia e Natoli e forse Patronaggio e Ayala. Ricordo anche che altri colleghi erano sul posto ma non riesco a ricordare chi fossero». A quel punto gli inquirenti chiedono a Vittorio Teresi se ricorda di aver incontrato in quella circostanza Giovanni Arcangioli. «Non ricordo, in quella circostanza - replica Teresi - di essere stato avvicinato dal capitano Arcangioli né di avere comunque parlato con lo stesso. Chiarisco che io conoscevo e conosco benissimo il capitano Arcangioli con il quale avevo svolto alcune indagini, ma non ricordo che in via d'Amelio lo stesso mi abbia avvicinato o in qualsiasi modo interpellato». «Naturalmente - evidenzia il procuratore aggiunto di Palermo - non mi sento neanche di escludere che ciò sia avvenuto, perché, come ho detto, mi trovavo in uno stato di grande confusione e prostrazione psichica». Ai magistrati presenti Vittorio Teresi illustra minuziosamente la sua versione sul ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino. «Escludo in modo più assoluto come fatto materiale - sottolinea Teresi - che il capitano Arcangioli abbia esibito qualsivoglia borsa ed a maggiore ragione che io abbia aperto tale borsa, o comunque che una borsa sia stata aperta in mia presenza o anche da un altro. Peraltro io non avevo alcuna veste istituzionale, non essendo il sostituto di turno e quindi non avrei potuto ricevere alcun reperto, cosa questa che il capitano Arcangioli assai esperto doveva sapere». Prima di concludere il verbale di interrogatorio Vittorio Teresi dichiara agli investigatori di ricordarsi della presenza dell'agenda rossa del giudice assassinato «sul tavolo di Paolo Borsellino sino a venerdì o sabato (prima della strage, nda)», ma di non poter sapere se tale agenda fosse quella scomparsa. Il 13 dicembre dello stesso anno gli investigatori interrogano Mario Bo, funzionario della Squadra Mobile di Palermo nel '92 (all'epoca dirigente della II° sezione investigativa antirapina e successivamente componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera), che cinque anni dopo sarebbe stato indagato nella nuova inchiesta sul depistaggio nelle indagini per la strage di via d'Amelio. Mario Bo racconta agli investigatori di avere ricevuto la notizia della strage di via d'Amelio mentre si trovava al mare all'Addaura. Bo specifica di essersi immediatamente recato sul posto, ma di esservi rimasto per poco tempo a causa del suo abbigliamento troppo informale, di essere quindi passato a casa sua per cambiarsi prima di recarsi agli uffici della Mobile e solo successivamente in via d'Amelio. Gli investigatori mostrano a quel punto alcune fotografie della borsa di Paolo Borsellino e chiedono all'ex funzionario della Mobile se ricordi averla vista in via d'Amelio. «Dopo aver visionato le foto - risponde il dott. Bo agli inquirenti - debbo dire che, nonostante l'enorme lasso di tempo intercorso, sarebbe assai improbabile non aver mantenuto il ricordo di un oggetto così particolare. In effetti, non posso escludere di avere avuto modo di vederla, ma non riesco a contestualizzare il latente ricordo». «La mia difficoltà, in questo momento - evidenzia l'attuale capo della Squadra Mobile di Trieste - è accentuata dal fatto di non averne memoria neppure in relazione alle indagini sull'attentato in questione ed alle quali io ho partecipato a partire dal mese di giugno 1993, allorquando entrai a far parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, diretto dal dott. La Barbera». In ultimo gli investigatori chiedono a Bo se l'assistente Maggi gli abbia mai parlato della borsa in questione. Dal funzionario di polizia giungerà l'ennesima risposta negativa. Dal canto suo Giuseppe Ayala cambierà versione progressivamente. Come una tela di Penelope il racconto del ritrovamento della valigetta di Borsellino assumerà forma e sostanza mutevole. A seconda della testimonianza si allungherà in dettagli fuorvianti, o si accorcerà dietro inquietanti omissioni. Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e L. Baldo, Aliberti) 

LA MAFIA DENTRO LO STATO.

"Gli antimafiosi mi odiano... Mi troverete morto per strada". L'intervista. Il procuratore generale, Lari: "Prima mi odiavano solo i mafiosi". E sul caso Saguto..."Prima i mafiosi mi odiavano. Ora mi odiano gli antimafiosi. Un giorno mi troverete morto per strada, e non saprete chi è stato". E' quanto afferma l'attuale procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari, nel corso di un articolo pubblicato sull'ultimo numero del settimanale statunitense "The New Yorker", a firma di Ben Taub. A lungo procuratore capo nella stessa città e artefice di numerose inchieste - tra cui quella riguardante alcuni magistrati della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, guidata da Silvana Saguto, attualmente sotto processo a Caltanissetta - Lari spiega che proprio questa indagine gli ha procurato molti nemici nella magistratura e nella politica. "Il giudice Saguto - aggiunge - era considerata una sorta di Falcone della Sezione misure di prevenzione e si presentava come una specie di eroina". "The New Yorker", che intervista altri magistrati, investigatori, giornalisti, affronta la questione dei migranti, della lotta alla mafia, dello stato dell'informazione in Sicilia, partendo dallo scambio d'identità che ha portato all'arresto di un innocente al posto di un presunto trafficante d'uomini. Il titolo del servizio è "Come non risolvere la crisi dei rifugiati". (ANSA 31 Luglio 2017).

Figli, mogli, amici: i raccomandati vip della sezione beni confiscati. Le cimici svelano decine di segnalazioni, "sistemati" anche parenti di cancellieri, scrive Salvo Palazzolo il 24 ottobre 2015 su "La Repubblica". I raccomandati delle Misure di prevenzione erano davvero speciali. Amici del giudice Silvana Saguto e dei suoi figli. Ma anche amici dei loro amici. E che amici. Professionisti della città bene e rappresentanti delle istituzioni (a cominciare dal prefetto di Palermo). In tanti si rivolgevano all'influente presidente di sezione per piazzare qualcuno nelle aziende sequestrate ai boss. E anche su queste assunzioni stanno indagando gli ispettori del ministro della Giustizia. "L'ispezione si chiuderà nel giro di pochi giorni", fa sapere il Guardasigilli, Andrea Orlando. La settimana prossima, la prima commissione del Csm si riunirà in sessione straordinaria per il caso Saguto. Fra dieci giorni partiranno le audizioni dei giudici indagati. "Intanto, cominciamo con tuo figlio sicuramente ", diceva Silvana Saguto alla cancelliera dell'ufficio dei gip Tea Morvillo. E proseguirono pure con il fratello Sandro. Furono assunti nella tabaccheria sequestrata in via Torretta, ma finirono per fare solo pasticci. Dopo la scomparsa di 26 mila euro, l'amministratore firmò una lettera di licenziamento. Intervenne il giudice, convocando la cancelliera: "Non è che gli posso dire all'amministratore che non li licenzi - esordì - Quindi, io mi ritroverò con persone licenziate per giusta causa, che poi come ti assumo in un altro posto? (...) Tea ho le mani legate ". Ma trovarono una brillante soluzione: "Se loro si dimettono prima, io dico che non si procede". E i parenti del cancelliere non solo furono graziati, ma vennero subito rimessi in pista per un altro incarico. Pure in fretta. La microspia sistemata dagli investigatori del gruppo tutela spesa pubblica ha intercettato la Saguto mentre annuncia soddisfatta alla cancelliera che una sistemazione si è trovata per suo figlio: "Lo mettiamo da Niceta, in un posto che si libera, contabilità (...) se dovesse andare male da Niceta, nel frattempo troviamo altri posti". Aggiunse: "Per tuo fratello, ho parlato con il professore Provenzano". Anche i due figli dell'assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della Saguto, erano stati sistemati. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l'amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo. "Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli... sono dappertutto, non è possibile". La vicenda di Gianluca Grimaldi si è poi conclusa in modo drammatico, con due colpi di pistola sparati nella cava Buttitta di Trabia, anche questa in amministrazione giudiziaria, da un dipendente in mobilità. Dall'indagine della Procura emerge che pure Giuseppe Rizzo era un raccomandato. Diceva la Saguto: "C'ho messo Rizzo perché me l'ha... praticamente è amico di Nasca ". La guardia di finanza commenta nell'informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. La Saguto gli chiedeva "se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare ". Rizzo fece il nome del geometra Greco. Le intercettazioni allegate all'inchiesta di Caltanissetta sono piene zeppe di nomi di raccomandati. Nella lista dei segnalati è finita pure la moglie dell'ex direttore generale di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Valeria Aiello era arrivata alla Nuova Sport Car, una delle società sequestrate ai Rappa. "L'ha presa direttamente l'avvocato Virga", dicevano i suoi collaboratori. "Si deve prendere i soldi e apparentemente si può occupare proprio di qualche minchiata". Una collaboratrice di Virga protestava: "Ma lei è scecca totale". Un altro la riprendeva: "Ma ha le amicizie che contano". Persino i familiari della giudice antimafia avevano fatto le loro segnalazioni. Il figlio Francesco aveva indicato Fabio Torregrossa per un incarico di coadiutore nel sequestro Acanto. Il marito del giudice aveva invece raccomandato Roberto Tre Re per la stessa amministrazione. Non è finita. Silvana Saguto aveva piazzato il marito della sua cara amica Francesca Mesi, Giuseppe Tagliareni, con l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Che si lamentava, perché il neo assunto non era all'altezza. "Lui rimane lì, bellamente ", diceva. "A volte gli manca la volontà, poi mi rendo conto che invece non è cosa sua". Raccomandati e incompetenti, a volte. La Saguto aveva puntato pure su un brillante avvocato, Antonio Ticali. "Ma tu l'amministrazione di Villa Giuditta la vuoi adesso o ti vuoi fare le ferie e aspettiamo settembre?". Lui scelse settembre. La giudice non obiettò, interessava solo che il legale l'aiutasse a trovare un posto per il figlio chef, a Milano.

 "Così è stabilito e così si fa". Saguto, Virga e l'ex prefetto, scrive Riccardo Lo Verso il 21 ottobre 2016 su "Live Sicilia". Le intercettazioni svelano i rapporti fra tre protagonisti eccellenti dell'inchiesta. Qualunque cosa si farà, sarà fatta per suo padre, ma non solo da me, da tutti”, diceva Silvana Saguto parlando di Walter Virga. Il padre è Tommaso, ex presidente di una sezione del Tribunale che, esplosa l'inchiesta sulle misure di prevenzione a Palermo, è stato trasferito a Roma. Le parole di Silvana Saguto vengono considerate dai pm di Caltanissettaalla stregua di “una confessione stragiudiziale”. Furono pronunciate nel momento in cui il magistrato era ormai ai ferri corti con il giovane amministratore giudiziario che aveva licenziato dal suo studio la fidanzata del figlio della Saguto. Nei mesi scorsi si era parlato di un intervento di Virga padre al Csm, di cui è stato membro fino al 2014, per bloccare l'apertura di un procedimento disciplinare nei confronti della Saguto. Dagli accertamenti emerge che i procedimenti erano stati davvero aperti, e chiusi con l'archiviazione, prima però che Virga approdasse al Csm. Così come precedente era la nomina di Silvana Saguto alla guida della sezione Misure di prevenzione. In questo caso, però, i finanzieri ipotizzano che Virga avesse in qualche modo sponsorizzato la nomina. Questioni di correnti interne alla magistratura. Di certo, e questo viene ricostruito dalle indagini, Virga senior cercò di aiutare il collega affinché trovasse piena solidarietà al ministero e al Consiglio superiore della magistratura nei giorni in cui sulla stampa montava il caso della gestione dei beni confiscati. Gli agenti della polizia Tributaria hanno ricostruito la trasferta che insieme i due fecero a Roma per incontrare Cosimo Ferri, attuale sottosegretario alla Giustizia che aveva fatto parte, lui sì, della commissione che aveva proposta la Saguto per la presidenza della sezione. Una proposta poi accolta all'unanimità. È a lui che Virga avrebbe sottolineato i meriti della Saguto che aveva dato “un'impostazione rigorosa alla sezione”, Non erano veritiere né le accuse di averla gestita male archiviate in passato né le nuove polemiche. Nel caso del Csm, invece, pare che Virga avesse solo millantato un intervento con un paio di consiglieri. Il tono confidenziale fra i due magistrati emergeva nel corso di quella che gli investigatori definiscono l'exit strategy. Quando si capì che lo scandalo stava per travolgere la sezione, erano i giorni anche dei servizi de Le Iene e di Telejato, Virga padre diceva che il figlio era “distrutto, ti verrà a parlare, dategli una mano”. Walter voleva fare un passo indietro, rinunciare agli importanti incarichi per la gestione dei beni Bagagli e Rappa: “No vabbè si chiude, Walter, si chiude. No scema scema totale (la Saguto, annotano gli investigatori)”, diceva il padre. Era il caso di fare girare la voce che “io di qua me ne voglio andare”. “La tutela del figlio passava - scrivono i pm nel decreto di sequestro - inevitabilmente attraverso la tutela dei giudici della sezione per questo l'aveva accompagnata da Ferri e le aveva fatto credere di avere parlato con due componenti del Csm”. Da qui l'ipotesi di abuso d'ufficio che viene contestata ad entrambi. Confidenziale era il rapporto fra la Saguto e l'ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo che si sarebbe spesa per trovare un posto di lavoro al figlio di un collega. Si tratta di Richard Scammacca, nipote di Stefano Scammacca, ex prefetto di Messina, oggi in pensione. La Saguto individuò un'opportunità all'Abbazia Sant'Anastasia, azienda vitivinicola con resort a Castelbuono, sequestrata a Francesca Lena, imprenditore assolto dall'accusa di essere i affari con i mafiosi. Bastava parlare con Alessandro Scimeca, amministratore giudiziario anche del supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana dove la Saguto aveva accumulato un debito per migliaia di euro. Una parte fu pagato dallo stesso Scimeca in contanti, mentre la Saguto e il marito, una volta che la notizia fu pubblicata dalla stampa, effettuò, era l'ottobre scorso, due bonifici per diciotto mila euro. In realtà Richard Scammacca aveva già lavorato in un'altra amministrazione giudiziaria. E adesso attendeva la chiamata dall'Abbazia. Delle sue speranze per il futuro prossimo parlava con Cappellano Seminara: “Oggi mi hanno fatto parlare con il coadiutore di Abbazia Sant'Anastasia che ha valutato il mio curriculum e mi ha offerto 1500 euro per fare i turni di reception oltre alla direzione dell'hotel”. La Saguto era certa che “sua eccellenza non sarebbe rimasto assolutamente contento”. E così sarebbe intervenuto di nuovo Cappellano per portare lo stipendio a 2.500 euro. Era stato allertato dalla Saguto: voleva parlargli di “quello che avevano detto ieri per il prefetto, ma non per il ragazzo, per il nonno (in realtà era lo zio, Stefano Scammacca, ndr)”. Fu la stessa Saguto a discutere la faccenda con Scimeca. Ne parlò prima con Cappellano: “Farà quello che chiedeva il prefetto”. E poi con la Cannizzo: “Io ho parlato con Scimeca e abbiamo risolto... poi ti conto... dice che abbiamo problemi qua, là, così, dico così deve essere. È stato così stabilito e così si fa”. Ce n'è abbastanza, dicono gli investigatori, per ipotizzare una concussione.

Falcone, 25 anni dopo, lo sfogo del pg Lari: "C'era chi lo chiamava sceriffo". Il procuratore di Caltanissetta ha ricordato il difficile rapporto del magistrato con le istituzioni, scrive il 14 maggio 2017 “La Repubblica”. Giovanni Falcone Negli anni Ottanta, quando lo Stato avviò la guerra contro Cosa nostra culminata con il maxiprocesso, "all'interno delle istituzioni c'era chi definiva Giovanni Falcone uno sceriffo. Perché aveva avuto un nuovo approccio investigativo che stava portando grandi risultati". E' la denuncia di Sergio Lari, oggi Procuratore generale di Caltanissetta, amico e collega di Giovanni Falcone, che a 25 anni di distanza dalla strage di Capaci, ricorda il periodo precedente all'uccisione del suo collega, della moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Lari, raccontando a una platea di studenti all'Università di Palermo la lotta alla mafia 25 anni dopo le stragi, ricorda anche come Falcone "fu delegittimato anche dal mondo delle istituzioni", ricordando il suo "rapporto tormentato con le istituzioni". Inevitabilmente, Sergio Lari ha raccontato anche delle "nuove e complesse indagini" avviate sulle stragi mafiose, dopo le dichiarazioni choc del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che ha fatto riaprire il processo e fatto scarcerare sette persone che erano state ingiustamente condannate all'ergastolo. "Mi sono dovuto cimentare, a distanza di sedici anni, su nuove indagini - spiega - sembra una storia quasi romanzata, ma è la realtà". "Mi ero insediato da Procuratore capo di Caltanissetta il 10 aprile 2008 e tutto avrei immaginato fuorché a distanza di tre mesi mi sarei trovato sulla mia scrivania i colloqui investigativi di Gaspare Spatuzza, uomo d'onore di Cosa nostra, già reggente di Brancaccio. Il collaboratore confessò di avere ucciso una quarantina di persone e di avere partecipato a tutta la campagna stragista di Cosa nostra iniziata il 23 maggio del '92 e terminata nel '94 con il fallito attentato all'Olimpico di Roma, che avrebbe provocato la morte di duecento carabinieri. Attentato che per fortuna fu evitato". "Lo scenario era allarmante - dice ancora Sergio Lari - Si aprivano piste inedite sulla strage del '92 che facevano emergere il protagonismo del mandamento di Brancaccio. Non venivano messe in discussione le 37 condanne all'ergastolo per i capi i Cosa nostra, viceversa la confessione di Spatuzza riguardante un importante segmento esecutivo della strage di via d'Amelio, come il furto dell'autovettura, delle targhe da una macchina rubata e poi imbottita di esplosivo, tutto questo metteva in discussione le dichiarazioni che erano state rese nel processo Borsellino da 4 collaboratori come Candura, Scarantino, Pulci e Andriotta. Dichiarazioni che avevano portato alla condanna di undici persone, di cui sette all'ergastolo e lo stesso Vincenzo Scarantino a 18 anni di carcere". "Si profilava, sul piano investigativo uno sforzo enorme - dice ancora Sergio Lari - significava recuperare in quella massa di processi le tessere false che qualcuno aveva inserito e trovare contemporaneamente le tessere mancanti, una indagine che andava condotta su un doppio binario". E ricorda che la prima cosa da fare era quella di "fare scarcerare le persone ingiustamente condannate".

TUTTI I MAGISTRATI UCCISI, scrive il 19 luglio 2005 “Libertà e Giustizia".

Agostino PIANTA, il giorno 17 marzo 1969, era intento al lavoro nel suo ufficio, allorché faceva ingresso nella sua stanza tale Loris Guizzardi il quale aveva insistito per parlare con il Procuratore della Repubblica. Il Guizzardi porgeva al Procuratore un certificato di detenzione e mentre quest’ultimo stava leggendo il documento, scaricava improvvisamente contro il magistrato 4 colpi di arma da fuoco determinandone in breve tempo la morte. Successivamente, identificato l’uccisore, questi risultava essere un pregiudicato, sottoposto a libertà vigilata, che aveva riportato numerose condanne, tra l’altro per omicidio e tentato omicidio, dalla Corte di Assise di Mantova e da quella di Brescia. Il Guizzardi, interrogato, dichiarava di non aver conosciuto in precedenza il dr. Pianta e di non avere subìto alcun torto da lui, ma di averlo deliberatamente ucciso perché il magistrato rappresentava in Brescia la Magistratura che ingiustamente lo aveva condannato.

Pietro SCAGLIONE, il giorno 5 maggio 1971, si recava in Palermo al Cimitero dei Cappuccini per visitare la tomba della moglie; quindi proseguiva a bordo dell’autovettura di servizio guidata dall’agente di custodia Antonio Lo Russo per raggiungere il Palazzo di Giustizia di Palermo; improvvisamente, tre assassini esplodevano contro il magistrato e l’agente numerosi colpi di arma da fuoco che ne determinavano la morte; gli uccisori si dileguavano immediatamente.

Francesco FERLAINO, il giorno 3 luglio 1975 verso le ore 13,30 stava rientrando nella propria abitazione a Lamezia Terme provenendo da Catanzaro dove aveva svolto la consueta attività lavorativa quale Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro. Egli, mentre stava scendendo dall’autovettura in prossimità dell’abitazione, veniva attinto alla schiena da due colpi di fucile esplosi da due sconosciuti che si trovavano a bordo di un’autovettura Alfa-Romeo; al fatto erano presenti altre persone di passaggio.

Francesco COCO, il giorno 8 luglio 1976, mentre stava rincasando in Genova facendo ritorno dall’ufficio, veniva colpito a morte da alcuni colpi di rivoltella, esplosi alle spalle a bruciapelo, e nello stesso modo perdevano la vita gli agenti di scorta il brigadiere Giovanni Saponara e l’appuntato Antioco Deiana. Dalle indagini svolte nelle immediatezze, risultava che l’agguato era stato compiuto da cinque persone. Due ore dopo il fatto criminoso, nell’aula della Corte di Assise di Torino, dove si stava celebrando il processo a carico di noti appartenenti all’organizzazione terroristica denominata «Brigate Rosse» (tra cui, Curcio, Franceschini, Ferrari), uno degli imputati leggeva un messaggio nel quale la detta organizzazione rivendicava la paternità del triplice omicidio. L’efferato episodio trovava indubbia causa nell’intendimento dei terroristi di volere punire il comportamento tenuto dal Procuratore Generale nel 1974 in occasione della liberazione del sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, sequestrato per vario tempo dalle «Brigate Rosse». In particolare, onde ottenere la liberazione del Sossi, la Corte di Assise di Appello di Genova aveva concesso la libertà ad alcuni detenuti, subordinando l’effettiva scarcerazione alla condizione che fosse assicurata l’integrità fisica del dr. Sossi; peraltro, quest’ultimo, una volta liberato, presentava la frattura di una costola e segni di pregresse lesioni, per cui Coco, Procuratore Generale, non eseguiva l’ordinanza di scarcerazione dei detenuti, la impugnava per cassazione ottenendone l’annullamento dalla Suprema Corte.

Vittorio OCCORSIO, il 10 luglio 1976 verso le ore 8,15, lasciava la sua abitazione sita in Roma Via Mogadiscio, per recarsi in ufficio presso la Procura della Repubblica, da solo a bordo della propria autovettura; a poca distanza, all’altezza di Via Giuba, veniva attinto da raffiche di mitra esplose da una o più persone a bordo di una motocicletta; il magistrato, colpito in diverse parti del corpo, decedeva immediatamente. All’interno della autovettura, venivano rinvenuti alcuni stampati con i quali il «Movimento Politico Ordine Nuovo» rivendicava l’esecuzione del magistrato, ritenuto colpevole «di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori». In realtà, Occorsio aveva proceduto all’istruzione di due distinti procedimenti a carico di numerosi esponenti e militanti del movimento suindicato, imputati di ricostituzione del partito fascista. Il primo processo era stato definito in primo grado con sentenza del 21 novembre 1973 della 1ª Sezione Penale del tribunale di Roma, a seguito della quale il Ministro dell’interno aveva ordinato lo scioglimento del movimento; il secondo processo, mentre era in corso di trattazione avanti la 3ª sezione penale pure del tribunale di Roma, era stato sospeso con ordinanza del Collegio in data 27 gennaio 1975, avverso la quale Occorsio aveva proposto ricorso per cassazione, accolto dalla Suprema Corte. Il magistrato, negli anni ’70, aveva, altresì, istruito il processo per la strage avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano – Piazza Fontana – presso la Banca Nazionale della Agricoltura, collegata agli attentati avvenuti in pari data nella Capitale; detto procedimento, in sede dibattimentale era stato rimesso all’autorità giudiziaria di Milano per motivi di competenza.

Riccardo PALMA era direttore dell’ufficio VIII della Direzione Generale per gli Istituti di prevenzione e pena, che si occupa di edilizia penitenziaria. Il 14 febbraio 1978, il predetto lasciava la sua abitazione sita in Roma Piazza Lecce 11 verso le ore 9,30 per raggiungere l’ufficio presso il Ministero di Grazia e Giustizia; giunto in Via Forlì, mentre stava per salire sulla propria autovettura ivi parcheggiata, veniva colpito da raffiche di mitra Il magistrato, attinto al torace ed al viso decedeva immediatamente.

Girolamo TARTAGLIONE percorreva una brillante carriera in magistratura, ricoprendo posti di merito quale sostituto procuratore della Repubblica a S. Maria Capua Vetere ed a Napoli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, consigliere della Corte di Appello di Bari; nonché successivamente svolgeva la sua attività prima come applicato al Massimario della Corte di Cassazione e poi come Consigliere della Corte, addetto alle sezioni penali, con assegnazione anche alle Sezioni Unite Penali. Espletava le ulteriori funzioni quale Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Napoli, e, quindi, nel 1976 veniva collocato fuori ruolo per esercitare le funzioni di direttore generale degli Affari Penali, presso il ministero di Grazia e Giustizia. La sua competenza ed attività nel settore penale, penitenziario, della criminologia erano conosciute ed apprezzate anche all’estero. Il giorno 10 ottobre 1978, il magistrato subiva un’azione terroristica che lo conduceva a morte; l’attentato era rivendicato da organizzazioni sovversive.

Fedele CALVOSA, il giorno 8.11.1978, subiva un gravissimo attentato in Patrica riportando ripetute ferite da arma da fuoco che ne provocavano il decesso per “shock traumatico ed emorragia consecutiva”. Il delitto veniva rivendicato da formazioni politiche eversive.

Emilio ALESSANDRINI profondeva notevolissimo impegno nell’istruzione del processo per la strage di Piazza Fontana, dopo che il procedimento era stato trasmesso all’autorità giudiziaria di Milano per incompetenza di quella di Roma. Il 29.1.1979, verso le ore 8,30 il magistrato accompagnava con la propria autovettura il figlio Marco alle vicine scuole elementari; quindi, si dirigeva verso la propria abitazione per ivi parcheggiare il mezzo e poi recarsi a piedi in ufficio, presso la Procura della Repubblica. Fermatosi all’incrocio tra Viale Umbria e Via Muratori in Milano, ove era collocato un semaforo, veniva aggredito da due persone, facenti parte di un gruppo più ampio di cinque, che gli si avvicinavano esplodendogli contro numerosi colpi di pistola, che provocavano la subitanea morte di Alessandrini. Poco più tardi nella stessa mattinata, l’omicidio veniva rivendicato, tramite una telefonata alla redazione di un giornale, dall’ “Organizzazione Comunista Combattente Prima Linea”; di eguale tenore era un volantino diffuso poco dopo.

Cesare TERRANOVA dal 1958 al 1971 prestava servizio al Tribunale di Palermo quale giudice istruttore penale; nel 1971 veniva nominato Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Marsala (dove prendeva servizio nel giugno dello stesso anno). Collocato in aspettativa per motivi elettorali il 20 maggio 1972 veniva eletto alla Camera dei Deputati per il collegio XXVIII/Catania, ed in tale legislatura faceva parte della IV Commissione Giustizia, nonché partecipava in qualità di segretario alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della «mafia» in Sicilia. In data 2 luglio 1976, veniva rieletto deputato per la VII legislatura. Al termine della legislatura, Terranova, con istanza in data 14 giugno 1979, chiedeva di essere richiamato in ruolo dall’aspettativa per mandato parlamentare e destinato al tribunale di Palermo con funzioni di Consigliere istruttore. Il Consiglio Superiore, con deliberazione del 10 luglio 1979, lo richiamava in servizio assegnandolo alla Corte di Appello di Palermo in qualità di consigliere, e di tale ufficio il magistrato prendeva possesso il 31 agosto 1979. Il 25 settembre dello stesso anno, verso le ore 8,30, Terranova, a bordo della sua vettura, si apprestava a lasciare l’abitazione per recarsi in ufficio, allorché veniva fatto segno di colpi d’arma da fuoco, che ne determinavano il decesso. Insieme a lui veniva colpito il maresciallo dr P.S. Lenin Mancuso, che pure decedeva poco dopo.

Nicola GIACUMBI. La sera del 16 marzo 1980 stava per rientrare a casa in Salerno assieme alla moglie, allorché due individui scendevano da una macchina parcheggiata in prossimità dell’abitazione e, avvicinatisi al magistrato, esplodevano contro di lui numerosi colpi d’arma da fuoco che ne provocavano la morte. L’esecuzione veniva rivendicata dall’organizzazione terroristica denominata «Brigate rosse – colonna Fabrizio Pelli».

Girolamo MINERVINI ha svolto una intensissima attività in magistratura, profondendo il suo impegno in settori vari e distinguendosi in tutti per l’apporto professionale, culturale ed organizzativo fornito. Già in giovane età, negli anni dal 1947 al 1956, veniva assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena -, dove dirigeva nell’ultimo periodo l’Ufficio II (personale di custodia). Trascorreva, quindi, un lungo periodo presso la Procura generale della Cassazione in qualità di applicato prima di tribunale e poi di appello; nel 1968 veniva nominato segretario presso il Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo un breve periodo, durante l’anno 1973, nel quale prestava servizio presso la Corte di Appello di Roma in qualità di consigliere, faceva ritorno al Ministero di Grazia e Giustizia con funzioni di capo della segreteria della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Quindi, nel novembre 1979 era ricollocato in ruolo e destinato alla Procura Generale della Cassazione con funzioni di sostituto. Il 18 marzo 1980 a Roma, a seguito di un’azione terroristica, Minervini veniva ucciso. Il delitto era rivendicato da formazioni politiche eversive.

Guido GALLI svolgeva le funzioni di giudice istruttore penale presso il tribunale di Milano. Il suo impegno culturale e professionale nel campo del diritto veniva esercitato anche in sede universitaria, nel cui ambito Galli teneva corsi di criminologia prima presso l’Università di Modena e successivamente presso quella di Milano. Il 18 marzo 1980 era vittima di un’azione terroristica che ne causava la morte. Il delitto era rivendicato dalla formazione politica eversiva denominata «Prima linea – sezione Romano Tognini».

Mario AMATO svolgeva funzioni di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Rovereto dal settembre 1971 a metà anno 1977. Il 30 giugno di detto anno prendeva servizio presso la Procura della Repubblica di Roma sempre in qualità di sostituto. Nell’esercizio delle funzioni in Roma, istruiva delicatissimi processi concernenti il c.d. «terrorismo nero», ricevendo minacce ed «avvertimenti» di vario genere. Il 23 giugno 1980, mentre si trovava presso la fermata dell’autobus che doveva portarlo presso gli uffici della Procura in Piazzale Clodio, il magistrato veniva colpito con un colpo di arma da fuoco alla testa e decedeva nelle immediatezze. L’uccisione veniva rivendicata da formazioni politiche eversive.

Gaetano COSTA, il giorno 6 agosto 1980 verso le ore 19,15, usciva dalla sua abitazione in Palermo per effettuare una passeggiata a piedi. Egli si trovava nella centrale Via Cavour sul marciapiede di fronte a quello ove era posta una sala cinematografica; improvvisamente, veniva colpito alle spalle da uno sconosciuto con tre colpi di pistola. Ne conseguiva il decesso del magistrato. Il dott. Costa, dal 1966 al 1978, esercitava le funzioni di Procuratore della Repubblica a Caltanissetta e nel luglio 1978 prendeva possesso del nuovo ufficio di Procuratore della Repubblica di Palermo.

Gian Giacomo CIACCIO-MONTALTO, entrato in magistratura nel 1970, veniva assegnato nel settembre 1971, con il conferimento delle funzioni giurisdizionali, alla Procura della Repubblica di Trapani in qualità di sostituto. In detta sede, il giovane magistrato mostrava un impegno elevatissimo affrontando nel modo più adeguato indagini e problematiche processuali delicatissime in campo mafioso. Il 25 gennaio 1993, a seguito di un grave attentato, il magistrato veniva ucciso con colpi di arma da fuoco.

Bruno CACCIA svolgeva tutta la sua attività in magistratura espletando funzioni requirenti, prima come sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Torino, poi come Procuratore della Repubblica di Aosta e successivamente come sostituto procuratore generale presso la Procura Generale di Torino; nel 1980 veniva nominato Procuratore della Repubblica di Torino. Caccia si segnalava per avere partecipato negli anni 74-75 con il massimo impegno e diligenza all’istruzione (prima da solo e poi con il Giudice Istruttore) del gravoso ed imponente processo contro gli appartenenti alle «Brigate rosse» che si erano resi colpevoli del sequestro del Sostituto Procuratore di Genova Mario Sossi e di altri efferati delitti (il processo era stato spostato per competenza a Torino ai sensi dell’art. 60 C.P.P. previgente). Il 26 giugno 1983 in Torino, il magistrato subiva un gravissimo attentato terroristico che, a causa delle numerose ferite da arma da fuoco riportate al capo ed al corpo, ne provocava la morte.

Rocco CHINNICI. Il 29 luglio 1983 verso le ore 8,10 del mattino, in Via Giuseppe Pipitone Federico in Palermo, all’altezza del civico 59 ove abitava Rocco CHINNICI, Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, esplodeva violentemente una Fiat 126 pieno di carica di esplosivo. Nell’occorso decedevano il dr. Chinnici, (il quale si apprestava a salire in macchina per recarsi in Tribunale), il Maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l’Appuntato Salvatore Bartolotta, addetti al servizio di scorta del magistrato, nonché il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi; venivano ferite anche 19 persone, fra le quali quattro Carabinieri addetti pure alla tutela di Chinnici. Il magistrato, nominato Consigliere istruttore aggiunto presso il Tribunale di Palermo nel gennaio 1975 e Consigliere istruttore del medesimo ufficio nel gennaio 1980, dava un apporto decisivo nell’organizzare in modo adeguato e razionale l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, nell’intento di intervenire ed incidere in modo efficace e duraturo sul gravissimo fenomeno mafioso; all’uopo, conduceva e concludeva indagini di assoluta rilevanza e delicatezza, avvalendosi di un pool di colleghi di alto valore, tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Alberto GIACOMELLI. I Carabinieri di Trapani rinvenivano, il giorno 14 settembre 1988 alle ore 8,35 sulla Via Falconara di Locogrande (centro nelle vicinanze di Trapani) il cadavere di Alberto GIACOMELLI, già presidente della Sezione penale del Tribunale di Trapani, collocato in pensione il 1 maggio 1987. Il cadavere, supino sul margine destro dell’indicata via, era posto dietro l’autovettura di proprietà dell’ex-magistrato, presentava un colpo di arma da fuoco alla regione temporale destra ed un altro al lato destro dell’addome. Le indagini successivamente svolte in sede giudiziaria evidenziavano che il delitto era stato organizzato e portato a compimento da componenti della criminalità organizzata locale.

Antonino SAETTA.  La sera del 25 settembre 1988, intorno alle ore 22, Antonino SAETTA, Presidente della 1ª Corte d’Assise d’Appello di Palermo, partiva in macchina assieme al figlio Stefano da Canicattì, dove la moglie esercitava l’attività di farmacista, per raggiungere la sua abitazione in Palermo. Mentre stava percorrendo la S.S. 640 in direzione di Caltanissetta, all’altezza del km. 48,500, l’autovettura del magistrato veniva affiancata da altra autovettura i cui componenti incominciavano ad esplodere colpi di arma da fuoco contro Saetta ed il figlio, così facendo per tutto il sorpasso, e provocando, tra l’altro, la rottura del parabrezza e dei vetri degli sportelli. La macchina del magistrato si fermava circa 100 metri in avanti in posizione di normale sosta, per cui, gli assassini, non sicuri che gli occupanti del mezzo fossero deceduti, scendevano dalla loro autovettura e colpivano ancora ripetutamente le vittime in modo definitivo. Saetta ha svolto una lunga carriera esercitando molteplici funzioni, quale giudice di tribunale a Caltanissetta e Palermo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca, Consigliere di Corte di appello a Genova e Palermo, Presidente di Sezione presso la Corte di appello prima di Caltanissetta e, poi, di Palermo.

Rosario Angelo LIVATINO svolgeva funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Agrigento nel periodo del 24 settembre 1979 all’agosto 1989; in data 28 agosto 1989 veniva trasferito al Tribunale di Agrigento in qualità di giudice addetto alla sezione penale. Nell’espletamento di entrambe le funzioni, il magistrato si occupava di delicati procedimenti concernenti persone associate alla mafia. Il 21 settembre 1990 alle ore 8,45 circa, Livatino si allontanavano in macchina da Canicattì dove risiedeva per recarsi in Agrigento presso il Tribunale; giunto a 5 Km da quest’ultima località, venivano esplosi vari colpi di arma da fuoco contro di lui, il che determinava la rottura del parabrezza anteriore e del lunotto posteriore del suo mezzo. Il magistrato, rilevato di essere bloccato da altro autoveicolo, faceva marcia indietro andando ad urtare contro il gard-rail, scendeva dall’auto e fuggiva a piedi attraverso la scarpata sottostante, ove, inseguito dagli aggressori scesi da una motocicletta, veniva colpito in modo mortale.

Antonio SCOPELLITI svolgeva la carriera di magistrato nell’esercizio di funzioni requirenti, come sostituto presso la Procura della Repubblica di Roma e, per diversi anni, presso quella di Milano; veniva, poi, nominato magistrato di appello applicato alla Procura Generale della Cassazione ed in prosieguo Sostituto Procuratore Generale. Nell’espletamento sia delle funzioni di merito che in sede di legittimità, più volte era titolare, in sede requirente, di processi di notevole rilievo. In data 9 agosto 1991 verso le ore 17,25, Scopelliti, in ferie nella terra d’origine, stava percorrendo a bordo della sua autovettura la strada provinciale di collegamento tra Villa S. Giovanni e Campo Calabro, allorché era affiancato da altra vettura, dalla quale venivano esplosi due colpi di arma da fuoco che colpivano il magistrato nella parte sinistra del collo; l’auto con a bordo Scopelliti precipitava in un vigneto sottostante capovolgendosi, ed il predetto decedeva.

Giovanni FALCONE, entrato in magistratura nel 1964, svolgeva le funzioni giurisdizionali quale Pretore di Lentini, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Trapani e giudice presso lo stesso Tribunale; nel luglio 1978 veniva trasferito al Tribunale di Palermo ove esercitava le funzioni di giudice istruttore penale; nell’ottobre 1989 veniva trasferito alla procura della Repubblica di Palermo in qualità di procuratore aggiunto. Nel marzo 1991 era collocato fuori ruolo per assumere l’incarico di Direttore generale degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Falcone, unitamente ai consiglieri istruttori dell’epoca e ad altri colleghi dell’ufficio istruzione, dava un impulso eccezionale alle indagini intese a circoscrivere e debellare il fenomeno mafioso. Tra le indagini più rilevanti va ricordato il processo a carico di Spatola Rosario e altri 119 imputati, avente ad oggetto i reati di associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, ricettazione ed altri illeciti penali, con collegamenti con altre pericolose associazioni mafiose nazionali ed internazionali (la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio constava di 1000 pagine). Di gran rilievo, era il lavoro svolto da Falcone, unitamente ai colleghi Paolo Borsellino – Leonardo Guarnotta – Giuseppe Di Lello, nell’istruzione del procedimento penale contro Abbate Giovanni + altri 706 imputati (c.d. maxiprocesso), ai quali era contestata la perpetrazione di circa un centinaio di omicidi, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, lo spaccio di grandi quantità di droga ed altri delitti (la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio constava di oltre 8000 pagine raccolte in 40 volumi). Il 23 maggio 1992, Falcone, unitamente alla moglie Francesca Morvillo anch’ella magistrato, faceva ritorno mediante aereo militare a Palermo proveniente da Roma. I predetti stavano percorrendo, a bordo di un’auto blindata scordata da altre due vetture blindate, l’autostrada che congiunge l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, allorché, all’altezza della località «Capaci», aveva luogo una violentissima esplosione che creava un profondo cratere nella sede stradale. Nell’occorso, perdevano la vita i due magistrati e gli agenti Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schisano.

Francesca MORVILLO decedeva, appunto, assieme al coniuge Giovanni Falcone nell’attentato di Capaci il 23 maggio 1992. Nel corso della carriera, esercitava le funzioni di giudice del tribunale di Agrigento, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo, di Consigliere della Corte di appello di Palermo. All’epoca dell’attentato, era componente della Commissione per il concorso di accesso in magistratura.

Paolo BORSELLINO, entrato in magistratura nel 1964, esercitava le funzioni giurisdizionali quale giudice del Tribunale di Enna, pretore di Mazara del Vallo e di Marsala; nel 1975 prendeva servizio presso il Tribunale di Palermo ove svolgeva le funzioni di giudice istruttore penale; nel luglio 1986 veniva nominato procuratore della Repubblica di Marsala, e nel marzo 1992 faceva ritorno negli uffici palermitani assumendo le funzioni di procuratore della Repubblica aggiunto. Borsellino, unitamente a Giovanni Falcone, faceva parte, nel periodo della sua permanenza presso l’ufficio istruzione penale del tribunale di Palermo, del pool di magistrati (diretto dai Consiglieri istruttori Rocco Chinnici prima, e Antonio Caponetto poi) impegnato in modo professionale elevatissimo e con una dedizione a tempo pieno eccezionale ad inquisire la criminalità mafiosa nei suoi più svariati aspetti. Il predetto, tra gli altri, istruiva il processo a carico della mafia di Altofonte con 21 imputati, quello a carico di Bonanno ed altri nove coimputati per l’omicidio in persona del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, il procedimento a carico di Filippo Marchese e altri 14 imputati per l’omicidio in persona del vice Questore Boris Giuliano. Partecipava all’istruzione, assieme a Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, del c.d. maxi-processo contro la mafia, con 707 imputati, che imponeva ai magistrati un lavoro di indagini di assoluta complessità e delicatezza, che si concludeva con la redazione di una sentenza-ordinanza di oltre 8.000 pagine (in cui la posizione di ciascuno dei 475 imputati rinviati a giudizio veniva compendiata in apposite schede); tale imponente lavoro istruttorio consentiva una conoscenza del tutto inedita del fenomeno mafioso. Il giorno 19 luglio 1992 – domenica (a meno di due mesi dall’eccidio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e di tre agenti della scorta), verso le ore 18, Paolo Borsellino si stava recando a visitare la madre in Via D’Amelio a Palermo; giunto davanti al portone d’ingresso scendeva dall’auto blindata sotto la vigilanza della scorta: in quel momento si verificava una deflagrazione violentissima proveniente da un’autovettura FIAT 126 parcheggiata di fronte al portone che determinava danni gravissimi alle abitazioni circostanti e a numerose vetture parcheggiate nelle vicinanze. Così il magistrato perdeva la vita, e con lui cinque agenti: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Limuli.

Luigi DAGA, direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero di Grazia e Giustizia, veniva inviato in missione al Cairo dal 23 al 29 ottobre 1993 per partecipare, in qualità di relatore, al VI Congresso dell’Associazione egiziana di Diritto Criminale. Il magistrato avrebbe dovuto svolgere una relazione nell’ambito della tavola rotonda sul nuovo codice penale francese ed il progetto di riforma del codice penale italiano. Il 26 ottobre, il predetto subiva un sanguinoso attentato presso l’Hotel Semiramis de Il Cairo, che ne provocava poi, il decesso in Roma il successivo 17 novembre 1993. Daga, che ha trascorso una lunga parte della sua carriera presso gli uffici dell’Amministrazione Penitenziaria, era uno studioso e profondo conoscitore, apprezzato in sede internazionale, di ogni problematica del «carcere» e del mondo penitenziario. Non dimentichiamo inoltre i 29 carabinieri e poliziotti morti per la difesa dei magistrati. Fonte: ufficio studi del CSM

Treviso, giudice inseguito in auto: "Mi armo, lo Stato non c'è più". Il togato si pone un problema: "Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d'ora in poi, che sarebbe successo se quei due mi avessero fermato e aggredito?" Scrive Marta Proietti, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale. Dopo che il 67enne Mario Cattaneo ha sparato e ucciso un ladro che stava tentando un furto nel suo locale si è riaperto il dibattito sulla legittima difesa. Con una lettera aperta indirizzata ai quotidiani veneti del gruppo Finegil, Angelo Mascolo racconta l'episodio che lo portato a una scelta drastica: "D'ora in poi sarò armato", scrive. Il giudice spiega che qualche sera fa si trovava in auto quando ha deciso di sorpassare una macchina di grossa cilindrata che ha cominciato a inseguirlo e a dare colpi di abbaglianti. Poco dopo il giudice ha incontrato una pattuglia di carabinieri, ai quali gli inseguitori hanno detto che Mascolo era stato seguito "per esprimere critiche sul suo modo di guidare". Il giudice non crede alle versione e si pone un problema: "Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d'ora in poi, che sarebbe successo se, senza l'intervento dei Carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare?". La lettera continua poi con una critica nel confronti dei colleghi giudici e dello Stato: "Se avessi sparato avrei subito l'iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente - ed è qui il grave errore - tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti". Il problema della legittima difesa, continua Mascolo, "è un problema di secondo grado - accusa - come quello di asciugare l'acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature e, cioè, che lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorrazzano impunemente delinquenti di tutti i colori". Per il giudice, conclude amaramente, "la severità nei confronti di questi gentiluomini è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma che lavoro a fare?".

Abbandonati dallo Stato ed uccisi da Cosa Nostra, scrive Fabrizio Colarieti il 10 maggio 2012. Li ho visti da vivi e li ho visti da morti. Ho conosciuto molti dei personaggi che hanno incrociato le loro esistenze tormentate, i pochi amici, i tanti nemici, il branco degli indifferenti. Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapevo già come finiva la storia di questi uomini soli». Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, esperto di mafia, nella premessa del suo ultimo libro, “Uomini soli” (Melampo Editore, 232 pagine 16,00 euro), accoglie così i suoi lettori. Il suo saggio è quasi un trattato di storia contemporanea, è un racconto collettivo su quattro uomini, lasciati soli dalle istituzioni e uccisi da Cosa Nostra. È la storia di Pio La Torre, il primo parlamentare (del Pci) ucciso dalla mafia, sparato giù a Palermo, il 30 aprile 1982. Lo ammazzano, scrive Bolzoni, perché, probabilmente, «aveva capito che la Sicilia stava cambiando padroni». Lo uccidono perché era pericoloso, tenace, intransigente. Insomma era uno «che non si piegava mai» e che parlava due lingue, il siciliano e l’italiano. Di Pio La Torre, resta una legge, la Rognoni- La Torre, uno strumento decisivo nella lotta alla mafia, nata grazie al suo sacrificio e a quello di altri uomini rimasti soli, come lui. Quattro mesi dopo tocca a un altro uomo dello Stato, a un generale dei carabinieri che non piace al potere. Quando ammazzano Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, la sera del 3 settembre 1982, a Palermo in via Isidoro Carini, i detenuti dell’Ucciardone brindano con lo champagne. È il cadavere – scrive Attilio Bolzoni – di un generale «fatto a pezzi dallo Stato, diventato troppo ingombrante». «Una leggenda per i suoi carabinieri, un mito della lotta al terrorismo degli Anni Settanta, una minaccia permanente per l’Italia che sopravvive fra patti e ricatti». Anche lui, giù a Palermo, era un uomo solo. Come Giovanni Falcone, il giudice simbolo, l’uomo che faceva tremare la mafia. Quando muore, a Capaci il 23 maggio 1992, insieme a sua moglie, Francesca Morvillo, e agli agenti della sua scorta, anche lui era rimasto solo. Falcone – scrive ancora Bolzoni – era il magistrato «più amato e più odiato d’Italia». «Detestato, denigrato, guardato con sospetto dagli stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi. Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi. Per quello che fa e per quello che non fa». Cinquantasei giorni dopo tocca al suo erede, all’uomo che ne ha appena raccolto il testimone, Paolo Borsellino. La morte lo attende il 19 luglio, siamo ancora giù a Palermo, in via Mariano D’Amelio. Alle 16.58 e 20 secondi, narra Bolzoni raccontando la storia dell’ultimo uomo solo, il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. Un attentato libanese. «Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino». Gli uomini soli di Attilio Bolzoni, come Borsellino e Falcone, sapevano che li avrebbero fermati, prima o poi. «Facevano paura al potere». Perché erano italiani «troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte». «Una solitudine generata non soltanto da interessi di cosca o di consorteria. Ma anche da meschinità più nascoste e colpevoli indolenze, decisive per trascinarli verso una fine violenta. Vite scivolate in un cupo isolamento pubblico e istituzionale». Trent’anni dopo la morte di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, e vent’anni dopo quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non sappiamo ancora chi li ha voluti morti, ma, di certo, sappiamo che erano uomini soli.

COME SI UCCIDONO I MAGISTRATI. Falcone e Borsellino avevano dedicato la vita alla lotta alla mafia. La mafia li ha liquidati con le bombe. Paolo Borsellino a Giovanni Falcone: «al tuo funerale dirò che eri una testa di minchia». Paolo Borsellino e Giovanni Falcone scherzavano sovente parlando del loro ineluttabile destino, quasi a voler esorcizzare ciò di cui tutti e due erano consapevoli. Si divertivano anche a immaginare quale discorso funebre avrebbero tenuto in occasione del funerale di uno di loro due. E Paolo Borsellino fu facile profeta, ironizzando con l’amico Giovanni. «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più testa di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».

Da la Repubblica, 29 maggio 1992. E i clan brindarono all’Ucciardone. Un fragoroso applauso e grida di festa si levano dalle celle dell'Ucciardone. Sono le 19 di sabato 23 maggio. In quel momento la televisione dà la notizia che il giudice Falcone è morto. Il carcere sembra uno stadio. In quasi tutte le sezioni si "festeggia" l'assassinio del magistrato, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta. Molti detenuti restano incollati davanti allo schermo fino a tarda notte per seguire i "particolari" della cronaca della strage e il lungo elenco dei morti che la deflagrazione ha provocato. Brindisi e abbracci continuano. Le scorte di champagne e di vino si esauriscono in una sola notte. Chi non aveva vino e champagne ha brindato anche con la coca-cola. «Non potevamo tappargli la bocca», dicono dalla direzione del carcere, precisando che non tutti hanno preso parte ai festeggiamenti. Alcuni si sono astenuti. Chi era in isolamento è stato però informato tempestivamente da radio carcere che non ha fornito i dettagli su chi ha partecipato o chi si è astenuto dal brindisi «in onore di Falcone» che in galera, durante gli anni in cui è stato giudice istruttore e poi procuratore aggiunto, ha spedito centinaia e centinaia di mafiosi. Il nemico numero uno di "Cosa nostra" ormai non farà più paura. Anche nel carcere di Termini Imerese, a trenta chilometri da Palermo, i detenuti hanno fatto festa. Il giorno dopo le "mazzette" dei giornali si sono gonfiate. Le richieste dei quotidiani sono raddoppiate. Il macabro rituale dei festeggiamenti nel vecchio carcere borbonico si è ripetuto ancora. Anche per il generale Dalla Chiesa all'Ucciardone si fece festa. Anche allora, il 3 settembre del 1982, quando radio e televisione annunciarono la morte del prefetto, della moglie e dell'agente che li scortava uccisi dai killer armati di Kalashnikov, l'Ucciardone si trasformò in un grande salone di festeggiamenti. Dall'esterno il giorno dopo i ristoranti accettarono centinaia di "pranzi speciali". Anche allora vennero stappate decine di bottiglie di champagne.

Da la Repubblica Luca Fazzo, 26 maggio 1992. Boccassini: voi lo avete tradito ora non avete il diritto di piangere. Piange e accusa, Ilda Boccassini. Il pubblico ministero milanese della "Duomo connection" esce vincente dal suo processo, dall' inchiesta contro gli uomini della droga e del riciclaggio e della corruzione nata due anni fa dal suo lavoro insieme con Giovanni Falcone. Subito dopo fa irruzione nella grande aula al primo piano del tribunale, dove è appena iniziata la commemorazione di Giovanni Falcone. Per quindici minuti sulla platea scende il ghiaccio. Sui colleghi, sui vertici della procura, sulle correnti dei magistrati Ilda Boccassini scaraventa l'accusa di avere isolato e insultato Giovanni Falcone, di portare una parte delle colpe della sua morte. «Giovanni sapeva di dovere morire. Ma gli è toccato morire con l'amarezza di essere lasciato solo». Indica con nome e cognome i giudici che oggi, secondo lei, non hanno il diritto di piangere Falcone. In prima fila il procuratore generale Giulio Catelani, il procuratore aggiunto Gerardo D' Ambrosio (che poi la condannerà severamente), l'avvocato generale Mario Daniele. «Io sono forse l'unica amica che Giovanni ha avuto qui. Sabato sono andata a Palermo ma l'ho fatto alla chetichella, tardi, quando tutti se n'erano andati. E domenica mattina sono tornata presto all'obitorio, perché volevo essere sola come era stato solo Giovanni. Non volevo vedere lo scempio che si sta verificando oggi a Palermo, con i funerali di Stato. Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Non potrò mai dimenticare quel giorno a Palermo, due mesi fa, quando a un'assemblea dell'associazione magistrati le parole più gentili per Giovanni, soprattutto da sinistra e da Magistratura democratica, erano di essersi venduto al potere. Mario Almerighi lo disse, 'Falcone è un nemico politico'. E un conto è criticare la superprocura, un conto è dire - come il Csm, i colleghi, gli intellettuali del fronte antimafia - che Falcone era un venduto, una persona non più libera dal potere politico». Ancora: «Giovanni aveva scelto l'unica strada per continuare a aiutare i colleghi, andando al ministero per fare sì che si realizzasse quel progetto rivoluzionario di una struttura unica per combattere la mafia». Ilda Boccassini insiste su questo punto, invita il ministro Martelli a non abbandonare i magistrati che credono nella Dna, denuncia lo smembramento del gruppo di carabinieri che hanno lavorato con lei e Falcone in questi anni. E conclude: «A quanti colleghi che sono qui ho cercato di fare aprire gli occhi, ma sono stata spazzata via anch'io perché ero amica di Falcone. I colleghi che stamattina sono a Palermo fino all'altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. Gherardo Colombo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali? E l'ultima ingiustizia Giovanni l'ha subita proprio dai giudici di Milano, la rogatoria per lo scandalo delle tangenti gliel'hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: 'Che amarezza, non si fidano del direttore generale degli affari penali'. C'è tra voi chi diceva che le bombe all'Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Abbiate il coraggio di dirlo adesso, e poi voltiamo pagina. Se pensate che non era più autonomo, libero, indipendente, perché andate ai suoi funerali? Dalla Chiesa non può andare ai funerali, Orlando non può andare. Se i colleghi pensano che in questi due anni Giovanni Falcone si sia venduto lo dicano adesso, vergogniamoci e voltiamo pagina. Ciao, Giovanni».

Da la Repubblica Giuseppe D’avanzo, 21 maggio 2002. Boccassini: «Falcone un italiano scomodo».

Dottoressa Boccassini, oggi al ministero della Giustizia sarà scoperta una targa in memoria di Giovanni Falcone, a dieci anni dalla morte...

«Non lo sapevo».

È la prima volta che un magistrato ha quest'onore anche se è vero che solo Giovanni Falcone, direttore degli Affari Penali in quella primavera del 1992, è morto ammazzato quando era al vertice del ministero di Giustizia.

«Non è del tutto vero, Girolamo Minervini quando fu ucciso, il 18 marzo del 1980, si preparava a diventare direttore dell'amministrazione penitenziaria: dunque, un alto dirigente del ministero».

E allora?

«Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche».

Buona domanda, qual è la sua risposta?

«Credo che la ragione vada rintracciata nell'ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. È soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi... Non c'è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. È stato sempre "trombatissimo". Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un personaggio letterario, l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non c'è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute "trombature", ogni anno si celebra l'esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito».

Polemiche, ancora polemiche, venti lustri dopo? Non le sembra una maledizione di cui conviene, una buona volta, liberarsi?

«Non voglio risse né polemiche. Voglio ricordare, ragionare e capire perché - credo - così si rispetta il sacrificio di questo strano tipo di italiano, grande e scomodo, che è stato Giovanni. Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm, Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l'«assoluta indipendenza» dell'antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che «i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità». Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo "popolare" per Viglietta. Più esplicito in quell'accusa fu Alfonso Amatucci, anch'egli togato al Csm, per la corrente dei Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse a Il Sole 24 Ore che Giovanni «in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica». Falcone era più o meno un "venduto" per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando Cascio, nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra - che «dentro i cassetti della procura di Palermo ce n'è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici». Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l'accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un "venduto". Delle due l'una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda. In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l'eccentricità "rivoluzionaria" del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell'idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al ministero dove gli fu possibile sperimentare qualche sua innovativa idea».

Qual era, secondo lei, la "diversità" di Falcone?

«Una parte della magistratura italiana è stata sempre "sensibile" agli interessi della politica e la politica ha sempre desiderato la magistratura "sensibile" alla ragion di Stato, agli equilibri di governo, alla difesa dello status quo, alle convenienze dei più forti. Era vero venti anni fa quando i procuratori generali mai pronunciavano la parola "mafia" nei discorsi inaugurali dell'anno giudiziario, è vero oggi. Anche ora alcuni magistrati tra i migliori della nostra Repubblica, conservatori o riformisti che siano, sono attenti al gioco e agli interessi della politica. Magari questa attenzione è meno esplicita, più laterale e mediata, diciamo più scolorita e indiretta, ma è ancora presente. Bene, Giovanni Falcone è stato sempre sensibile soltanto all'indipendenza e all'autonomia della sua funzione: erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a un privilegio di casta, come appare ad alcuni miei colleghi, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario, pensava che autonomia e indipendenza fossero le gravose responsabilità che la Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l'imparzialità del giudizio, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni sentiva l'indipendenza del magistrato come missione e risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso "straniero" tra i magistrati "sensibili" e tra i politici innamorati dei magistrati "sensibili": così è diventato un "corpo estraneo" da bocciare, distruggere, calunniare. È questa la ragione di fondo per cui non mi stancherò mai di chiedere alla magistratura una severa autocritica. Solo facendo i conti con la storia di Giovanni Falcone, la magistratura potrà trovare la forza e le ragioni per fronteggiare chi oggi vuole manipolare, con l'ordinamento giudiziario, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura anche strumentalizzando le riflessioni di Giovanni».

Da lassù Falcone mi perdonerà, ma ho sempre avuto l'impressione di un fondo ambiguo (ambiguo per necessità) nelle sue riflessioni. Come se, da tutti osteggiato, dovesse farsi accorto, fare il suo pensiero prudente e mai esplicito, esponendolo a letture contraddittorie e tuttavia non infondate. Da "destra" come da "sinistra", per così dire. Ora è il governo a "leggere" Falcone in modo da rafforzare l'impianto della riforma della giustizia e dell'ordinamento giudiziario.

«Basta fare i nomi di chi oggi spende il nome di Giovanni per toccare con mano la strumentalità e la malafede...»

A chi pensa?

«Lascio cadere i nomi di tutti coloro che hanno ruolo istituzionale per evitare altre polemiche. Forse il nome del senatore Lino Jannuzzi posso, tuttavia, farlo. Jannuzzi, quando Falcone si trasferì al ministero, consigliò agli italiani di tenere a portata di mano il passaporto perché stava nascendo, dopo la "cupola" mafiosa di Palermo, un'altra pericolosa "cupola" a Roma».

Passi, e tuttavia quando nel governo e nella maggioranza si ragiona su separazione delle funzioni, terzietà del giudice, pubblico ministero si ascolta l'eco delle riflessioni di Giovanni Falcone. Non le pare? Per dirne una, è stato Falcone a scrivere che «il pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione ordinamentale differente rispetto a quella del giudice».

«Se si è in buona fede, si deve ragionare sulle condizioni che hanno sollecitato quegli scritti e, in premessa, riconoscere che Giovanni non è stato soltanto "simbolo della lotta alla mafia", come riduttivamente qualcuno o troppi si accingono a fare in questo decennale. Falcone, quando scrive, ha in mente il rito accusatorio introdotto dalla riforma del processo del 1989. Ne intravede le grandi possibilità di repressione del crimine e di contrasto alla criminalità organizzata. Tiene a conservare il pubblico ministero come il dominus dell'indagine, il regista e lo stratega del lavoro della polizia giudiziaria. Si rende conto del potere di quell'ufficio nella raccolta delle prove e avverte la necessità di un contrappeso nella terzietà del giudice che deve valutarle. È consapevole che quel potere impone al magistrato un'autonomia cristallina e una forte ed equilibrata professionalità, un lavoro ancora più rigoroso nelle fonti di prova che dovranno essere "blindate", per così dire, se si vuole affrontare il dibattimento: se non lo sono, meglio lasciar perdere... Voglio dire che Falcone vede, nel nuovo processo, la possibilità di garantire allo Stato maggiore forza nel difendere la cittadinanza dalla criminalità senza mutilare le garanzie dell'imputato. Non mi sembra questo, oggi, il centro del dibattito. L'ipertrofia legislativa ha deturpato il processo rendendolo un ibrido osceno dove lo Stato non difende più se stesso e le regole che si è dato e un imputato, se ha buone risorse, può difendersene con cavilli ed escamotage addirittura impedendone la celebrazione. Ecco, se si vogliono utilizzare le riflessioni di Falcone e questo vale sia per la politica che per la magistratura - siano ripristinate le condizioni che erano alla radice dei suoi ragionamenti: rito accusatorio, volontà dello Stato di potenziare il controllo della legalità, garanzie per l'imputato nel processo e non dal processo. Si mettano da parte le tentazioni di rendere subalterna ad altri poteri l'attività giudiziaria. In caso contrario, si lasci in pace nella sua tomba Giovanni Falcone».

Tra le "fissazioni" di Falcone, non è soltanto il rito accusatorio a segnare il passo. La legge per i "collaboratori di giustizia" è un arnese inutile ormai. L'unicità di comando di Cosa Nostra appare un residuo culturale. La centralità delle investigazioni, un'opzione non necessaria. L'intero "quadro" legislativo e di metodo nato dall'esperienza di Falcone appare in crisi. Le chiedo: è vero? E, se è vero, chi o che cosa ne porta la responsabilità?

«Anche a rischio di apparire provocatoria, le rispondo che quel "quadro" legislativo e di metodo, come lo chiama lei, è in crisi perché chi lo ha utilizzato, in alcuni casi, lo ha fatto senza la necessaria professionalità e rigore. Mai Falcone avrebbe interrogato un mafioso di Cosa Nostra, come Giovanni Brusca, alla presenza di dieci pubblici ministeri venuti a Roma da procure diverse, come è purtroppo accaduto. Mai credo avrebbe accettato una convivenza tra Stato e mafia, il "quieto vivere" che abbiamo sotto gli occhi. Si dice addirittura che siano in corso trattative con i capi di Cosa Nostra!».

Si riferisce alla lettera che Pietro Aglieri ha inviato al procuratore Vigna?

«Sì, a quei brani pubblicati dai giornali. Quella lettera, e lo dico per la mia esperienza, non mi sembra possibile che sia stata scritta da Pietro Aglieri: è un italiano troppo corretto ed efficace. Chi gliel'ha scritta? Mi auguro, anzi sono sicura, che non si è aperta nessuna trattativa. Ma non mi spiego perché quelle lettere non finiscano nel cestino della carta straccia. Questi signori sono i responsabili dei più efferati delitti. Hanno ucciso bambini innocenti, sciolto cadaveri nell'acido, massacrato servitori dello Stato. Sono stati giudicati responsabili, con sentenze passate in giudicato, di migliaia di omicidi commessi negli Anni Novanta, un eccidio degno di una guerra civile. Ora si fanno avanti annunciando di volersi dissociare. Che poi vuol dire ammettere l'esistenza di Cosa Nostra senza accusare nessuno. Non capisco che cosa ci possa guadagnare lo Stato da una trattativa come questa. Sappiamo già che Cosa Nostra esiste, senza che ce lo dicano loro, e sappiamo che loro sono i capi e gli assassini di Cosa Nostra. Non c'è nulla da trattare».

Da quel che si è capito, il motivo ufficiale è l'abolizione del cosiddetto 41bis, vogliono un carcere meno severo.

«Meno severo del 41 bis di oggi, annacquato come un vino di quart'ordine, c'è soltanto il carcere-grand hotel di una volta. Il 41 bis in origine prevedeva isolamento pieno in un'isola, un colloquio al mese e nessun contatto tra detenuti. Ora i mafiosi hanno anche l'ora di socialità. Potrebbero accontentarsi, ma non si accontentano. Vogliono riunirsi, organizzare un tavolo di trattative. Chiedono di ricostruire il loro potere e c'è chi gli dà spago, a quanto pare».

Che cosa bisogna fare, secondo lei?

«Il loro potere criminale deve essere distrutto. Hanno avuto un giusto processo. Sono stati condannati. Che il carcere per loro sia severo, come accade negli Stati Uniti, dove per assassini come Aglieri la tolleranza è zero. Vogliono un carcere meno duro? Dicano quello che sanno. A cominciare da collaboratori come Brusca che non hanno detto tutto».

Giovanni Brusca, che a Capaci attivò l'innesco del tritolo, ha confessato. Che cosa doveva dire che non ha detto?

«Le sue dichiarazioni, per le stragi del 1992 e '93, mi sono sempre apparse insufficienti. È stato latitante fino al 1996, era in grado di conoscere ben altro che non l'operazione militare che portò alla morte di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone».

Sta dicendo che Brusca conosce i mandanti non mafiosi della strage, ammesso che ce ne siano?

«Nel 1993 ho scritto che, delle stragi, abbiamo soltanto una parziale ricostruzione e che la verità non c'è ancora. Di questo sono tuttora convinta».

Ritornerà ad occuparsene?

«L'attività giudiziaria ha le sue regole e le sue competenze. Se mi dovesse capitare, non mi tirerò certo indietro. Spero di poter fare il mio lavoro con un ordinamento giudiziario che sappia ancora garantire alla magistratura quell'autonomia e indipendenza che, per Falcone, erano alimento essenziale del principio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».

Nutre qualche dubbio?

«Quale magistrato non coltiva oggi qualche dubbio con i progetti di riforma presentati dal governo? Io credo che in questa battaglia, che vede in gioco il destino stesso di una funzione giudiziaria indipendente e quindi il futuro dello Stato di diritto, la magistratura debba saper vedere meglio, più acutamente - e finalmente, aggiungo - nell'esempio di Giovanni Falcone un modo di essere un magistrato che umilmente, senza arroganza e tentazioni di potere, serve il compito che la Costituzione gli ha assegnato. È un compito terribile, essere autonomi; ma è il nostro compito. È il compito che Giovanni svolse fino all'ultimo minuto della sua vita. È il "testimone" che ci ha consegnato. Noi magistrati dobbiamo raccoglierlo e difenderlo senza le divisioni, il risentimento e l'invidia che gli resero la vita breve e infelicissima».

Discorso di Paolo Borsellino alla Veglia per Falcone. Palermo, 20 giugno 1992. Paolo Borsellino: "Le nostre coscienze debbono svegliarsi". «Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? PER AMORE! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Lavorare a Palermo, da magistrato, e con questo intento, fu sempre, fin dall'inizio, nei propositi di Giovanni Falcone anche durante le sue peregrinazioni professionali nell'est e nell'ovest della Sicilia. Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo dopo un lungo esilio provinciale proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua più terrificante potenza: morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa e tanti altri. E qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno, di ogni cittadino. La lotta alla mafia (il primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte, proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col male, le più adatte cioè, queste giovani generazioni, a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, e di tutti quelli che lo affiancavano, quando, in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice (questa affermazione l'ha fatta anche il giudice Di Pietro a Milano), significava di più, significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza della mafia. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sopravvenne quasi il fastidio, l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia: il nuovo codice di procedura penale. Adesso hanno fornito un alibi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha voluto o non ha più voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì, ma cercò di ricreare altrove, le ottimali condizioni del suo lavoro. Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di 10 anni. Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. In condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato. Morì, è morto insieme a sua moglie e agli agenti della scorta e allora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato e talora odiato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Molti cittadini, ed è la prima volta che avviene, collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, almeno con la modifica di alcune norme paralizzanti del codice di procedura penale. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso a questa morte di Falcone, a questa morte di sua moglie, a questa morte degli uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, e abbiamo un grosso debito verso di loro e questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia, accettando in pieno queste gravose e bellissime verità: dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone È VIVO!» Il 25 giugno 1992, a Palermo, intervenendo a una manifestazione di commemorazione promossa da MicroMega, Borsellino rivelò in pubblico il clima di diffidenza e di isolamento che di fatto condannò a morte Giovanni Falcone. Fu il suo ultimo discorso pubblico prima dell’attentato del 19 luglio in cui perse la vita.

«Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Il Sole 24 Ore dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura».

Da il libro Era d’estate a cura di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi edito da Pietro Vittorietti. La lettera del figlio di Borsellino, di Manfredi Borsellino. «Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo. Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni. La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci. Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione. Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio. Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta. La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di..., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio. Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta. Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere. D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di…o perché di cognome fa Borsellino. (…) Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere».

Da Il Manifesto, 7 dicembre 2002. «Chi ci tradì?» l'ultimo dubbio di Caponnetto. È morto ieri mattina in un ospedale fiorentino il giudice Antonino Caponnetto. Aveva 82 anni. Aveva creato e diretto per oltre quattro anni il primo pool antimafia. Nel luglio del 1992, dopo l'omicidio di Paolo Borsellino che aveva seguito di due mesi quello di Giovanni Falcone, all'uscita della camera ardente Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall'emozione «Non c'è più speranza.». Quella che segue è una sintesi di una toccante intervista realizzata nel maggio del 1996 da Gianni Minà, della serie televisiva Storieda lui stesso realizzata e trasmessa da Rai Due. L'intervista è pubblicata da Sperling & Kupfer e Rai-Eri. 

Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese? 

«Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall'obitorio dove avevo baciato per l'ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l'obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole d sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l'opera di Giovanni e Paolo»

Caponnetto, lei non era nato eroe, ma uomo mite, e invece si è trovato, di colpo, a dover essere coraggioso. 

«Sì, con quel tanto di paura che accompagna gli uomini in questo tipo di avventure. Ricordo ancora la risposta che diede Paolo quando gli chiesero se non avesse paura. “«Certo - disse - non sarei un essere umano se non avessi paura, però mi sforzo di avere quel tanto di coraggio che serve per superarla, per andare avanti». Che risposta meravigliosa!»

Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo? 

«Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent'anni a Pistoia e poi a Firenze»

E perché inviò la domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttorio, dopo l'assassinio di Chinnici? 

«Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c'è un cordone ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall'oppressione della mafia, per restituire dignità e libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché non pensavo di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il tempo mi ha perdonato…(...)»

Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo? 

«Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano, per loro ero comunque uno “straniero” che veniva a togliere lavoro ai siciliani, e ai palermitani...(…) Sicuramente c'erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C'è la certezza che qualcuno ha tradito. Ma appena la giustizia si avvicina a questo sottobosco politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, e tuttora, a “coperture” anche se si sta cercando di far luce su tutto questo»

Lei ha mai conosciuto Contrada? 

«Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983»

Come seppe dell'attentato a Falcone? 

«Dalla televisione, e mi sentii morire»

Parlò con Borsellino quel giorno? 

«Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento»

Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli? 

«Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo»

Lei mi ha detto «Borsellino sapeva di morire»; in che senso sapeva di morire? 

«Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell'attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento»

Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo per farlo saltare in aria? 

«Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un'altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili»

Ma non c'era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno che lo potesse aiutare in qualche modo?

«Sì, Paolo aveva chiesto alla questura - già venti giorni prima dell'attentato - di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto nei suoi confronti disciplinarmente e con quali conseguenze…(…)»

Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta? 

«Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un'associazione così ben organizzata come la mafia, se non coordinandosi. C'era bisogno di riunire le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di mafia. Avevo già coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di un'esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la stessa esperienza l'aveva vissuta a Roma»

Come scelse i suoi collaboratori? 

«Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già li e aveva istruito il processo Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell'omicidio del commissario Basile…»

Parliamo dell'operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la mafia.

«Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre centoventi omicidi. La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò perla prima volta i nome di Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Liggio, dei Greco, dell'omicidio Scaglione, rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”. Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise - aprendo la porta dall'interno - di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l'unico modo per entrare in una struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai progrediti (...)»

Chi decise di smantellare il pool antimafia? 

«Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come affrontare la lotta alla mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per lasciare il posto a Giovanni che era l'unico per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose andarono diversamente. 

Chi bocciò Falcone? 

«Il Csm.» 

Nelle persone di? 

«Mi porto sempre dietro l'appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi dei presunti favorevoli, dall'altra quella dei quali dava per scontata l'opposizione. Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all'ultimo momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella colonna a lui contraria»

Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a Palermo. 

«Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri, in tanti documenti. Borsellino li definì “giuda”, quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del 1993, dopo l'eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere a Caponnetto, il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest'uomo rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.”»

Non so se - come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c'è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco? 

««Ognuno ha fatto la sua parte. Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell'Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica, e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la procura della Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue (…)»

In un'intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato”. 

«Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il parlamento non avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari. E', quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti decisivi perla lotta alla mafia»

Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria? 

«Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che non lo saprò mai».

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

La mafia dei concorsi pubblici, degli esami di stato e l’omertà dei media. Ne parla il Dott. Antonio Giangrande, Presidente dell’Ass.ne contro tutte le mafie, scrive Elena Mascia il 6 ottobre 2014 su "Sardegna Reporter". In Italia, si sa, non vale la meritocrazia e gli effetti sulla gestione della cosa pubblica e l’esercizio delle professioni di pubblica utilità ne sono un esempio.

Ma cosa è l’abilitazione alla professione, concessa dai commissari d’esame e non conquistata per merito?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto “Esamopoli e Concorsopoli” oltre che “Esame di Avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com.

Abilitazione significa essere abilitati da qualcuno ad essere omologati a loro. La conformità universale è la regola. Essere diverso e rompere le palle al sistema ti pone fuori dal circuito professionale ed impedito a lavorare. Le stesse regole valgono per tutti i concorsi pubblici, nessuno esente. Quindi nessuno può chiamarsi fuori e rendersi verginella. L’autunno è il periodo prediletto per le sessioni degli esami di Stato e delle prove scritte dei concorsi pubblici. Per esempio, per quanto riguarda l’esame di avvocato le domande di partecipazione devono essere inoltrate entro l’11 novembre e i tre giorni per l’esame scritto vengono fissati tra il 10 ed il 20 dicembre.  Le tracce sono stilate al Ministero della Giustizia e la Commissione Centrale è composta da membri già cacciati dalle commissioni periferiche, di cui, per legge, non possono farne parte.

I risultati d’esame sono il frutto di una fase pubblica e di una fase internos tra una combriccola di commissari (sempre gli stessi).

Nella fase pubblica, ogni tanto, come fumo negli occhi, viene fuori che alcuni candidati hanno copiato dai cellulari o dai compagni di banco e la notizia fa eco sui giornali. Una volta oltre cento solo a Lecce. Nessuno dice che il vero malaffare si svolge in camera caritatis tra i commissari d’esame. Lor signori falsamente affermano di aver letto, corretto e giudicato con motivazione credibile ogni elaborato esaminato. Invece è tutto falso. E resta impunito e, quindi, reiterato. A loro serve solo abilitare i conformati o i loro pupilli. E di questo scempio né magistratura, né giornalismo osa punirlo o denunciarlo.

A riprova di ciò ci sono le innumerevoli sentenze dei Tar di tutta Italia. Cinque minuti per valutare il compito di un aspirante avvocato sono troppo pochi. Lo sostiene il Tar di Palermo ad ottobre 2014 che ha ammesso con riserva, all’orale, M.N., 30 anni, bocciato agli scritti nel 2013. Il giovane praticante avvocato si è accorto che la commissione di Salerno aveva corretto 45 elaborati in appena 235 minuti, con una media di poco più di cinque minuti per elaborato. E perciò, difeso dall’avvocato Girolamo Rubino, ha deciso di fare ricorso al Tar che gli ha dato ragione.

E a sua volta è lo stesso Tar di Salerno che accoglie i ricorsi dei bocciati. E’ la Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature.

Io è dal 1998 che partecipo all’esame di avvocato in quel di Lecce. Da abilitato al patrocinio legale dei sei anni non ho perso una causa e non mi sono genuflesso alle regole dei vecchi marpioni forensi; da presidente provinciale di Taranto dell’Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati ho combattuto ed ottenuto con la legge di riforma che i consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non facessero parte delle Commissioni d’esame e che i magistrati esaminatori fossero di fuori distretto. Di non essere omologato a generale marciume lor signori non me lo hanno perdonato. Non ho ricevuto solidarietà o aiuto né dai colleghi, quantunque vittime, né dalle istituzioni, né dai media. Un fatto è certo, dal 1998 sono sui banchi di esame per testimoniare il malaffare perpetuo e l’omertà imperante. Avvocato non lo diventerò più, grazie all’omertà ed alla collusione dei magistrati, che come prova non gli basta il fatto che i miei compiti sistematicamente non vengono corretti; che a presiedere la commissione ci sia uno estromesso e da me denunciato; che essere bocciato dal 1998, caso unico, più che raro, sia sintomo di una palese persecuzione. Questo basta per farmi dire che sono orgoglioso di essere diverso e di testimoniare al mondo cosa sia la conformità, specialmente nel silenzio assordante dei giornalisti. Comunque l’omertà dei giornalisti è pleonastica. Tanto chi vuol informarsi, lo fa.

Interrogazione a risposta scritta 4-08560 presentata da Elisabetta Zamparutti,  più altri,  martedì 14 settembre 2010, seduta n.367  al Ministro della giustizia. “L’avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi, 46 anni, dopo 18 anni, 16 procedimenti al Tar e 8 al Consiglio di Stato, non avrebbe ancora avuto giustizia. Le sentenze hanno stabilito che le sue prove scritte per il concorso 1992 sono rimaste chiuse nelle buste, nonostante sui verbali sia scritto «non idoneo» . Un falso ideologico che il Csm ha riconosciuto soltanto due anni fa. Nonostante ciò, non risulterebbe sia stato preso alcun provvedimento”.

Sul concorso per uditori giudiziari, parla con “La Stampa” l’ex procuratore generale del Piemonte, Silvio Pieri. L’alto magistrato non usa mezzi termini: “Quanto è accaduto è gravissimo. Ho avuto modo di verificare l’intera documentazione raccolta dall’avvocato Berardi. Ho fotocopiato tutti gli atti, uno per uno. Credo che, a un certo punto, questa situazione si potesse risolvere subito, con decisione, con la necessaria trasparenza. Ma il ministero ha pervicacemente rifiutato, sino all’ultimo istante, di affrontare in modo diretto quanto era accaduto, quanto era sotto gli occhi di tutti. Con il risultato di mettere a pregiudizio le posizioni anche di quei magistrati che svolsero, in allora, i temi in modo corretto. Ma non credo assolutamente che si possano ulteriormente ignorare i verbali sottoscritti da gente che non c’era, la storia dei fascicoli spariti, degli elaborati giudicati “idonei” quando non lo erano affatto». Non solo. Contro il muro di gomma opposto dal ministero di Grazia e Giustizia (a proposito del concorso per uditori giudiziari del 20, 21, 22 maggio 1992, ora sotto accusa per aver trasformato in «idonei» decine di candidati autori di prove molto discutibili) erano già rimbalzate, nel corso degli anni, ben 13 interpellanze parlamentari, firmate quasi tutte da Nicky Vendola di Rifondazione Comunista, ma anche da esponenti di An e di altri partiti. Morale: nessun risultato”.

L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da 15 anni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: “Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti”. Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. “Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione” conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris. Luigi De Magistris abilitato con un esame farsa che si occupò dell’esame farsa di avvocato di Catanzaro.

Un’inchiesta facile, dal punto di vista dei documenti, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I temi erano così identici l’uno all’altro che moltissimi riportavano la parola «precisamente» corretta con una barretta sulla «p» iniziale: «recisamente». Come se qualcuno si fosse corretto dettando la giusta soluzione del tema. La grande difficoltà era sui numeri: già è difficile processare un imputato, in Italia. Figuratevi 2.295.

I giovani magistrati protagonisti dell’indagine, Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (poi trasferita a Padova), una soluzione l’avevano individuata: un bel decreto penale. Cioè una sentenza che colpisse gli imputati (diventati man mano 2.585) almeno con una multa di 3 milioni e mezzo di lire ciascuno. Ipotesi respinta dal capo dell’ufficio Gip Antonio Baudi: troppo poco. Bene, rispose il pm delegato al caso appena gli fu possibile riprendere la palla in mano (dopo mesi e mesi perduti): raddoppiamo a 7 milioni e mezzo. Troppi, rispose questa volta Baudi rimandando tutto indietro. E via così, col processo che veniva spostato a Messina perché c’entravano altri magistrati e poi tornava a Catanzaro e poi si infognava in 2.585 pratiche e 2.585 ricorsi e 2.585 cavilli e 2.585 eccezioni… E intanto passavano le settimane, i mesi, gli anni… Ed eccoli là: tutti a casa. Immacolati. E neppure vergognosetti, potete scommetterci, per la figuraccia. Così fan tutti… O no?

Io no! Per questo che dal 1998 non mi abilitano all’avvocatura e mi hanno bocciato al concorso in magistratura; perché sono diverso!

A questo punto non mi si deve chiedere: perché non ho esposto tutto al Ministero della Giustizia? L’ho fatto, tutto lettera morta, specialmente se in commissione di esame centrale vi era colui il quale, ed i suoi colleghi, ho denunciato per i favoritismi e fatto estromettere con la riforma dell’esame.

A questo punto non mi si deve chiedere: perché non denuncio tutto alla magistratura? L’ho fatto per anni e in fori diversi ed ho trovato un muro di gomma e di insabbiamenti, anzi il tutto mi si è ritorto contro con accuse penali infondate dei magistrati, accertate con sentenze.

Inoltre non mi si deve chiedere: perché non ho fatto ricorsi al Tar? Li ho fatti e sistematicamente il Tar di Lecce. Questi signori per le stesse doglianze da me presentate: agli altri candidati ricorrenti i ricorsi li accoglieva, i miei li rigettava.

Non mi si deve chiedere: perché non mi sono rivolto alla stampa? L’ho fatto per anni e non solo per le mie vicende, ma su tutti i temi sociali. Per loro, abilitati col trucco e zerbini dei magistrati, meglio ignorare e tacere.

Morale: si parla di mafia. Quale mafia?»

Dott. Antonio Giangrande Presidente dell’Ass.ne contro tutte le mafie.

Per Nicola Gratteri i dirigenti pubblici calabresi sono peggio della ‘ndrangheta, scrive “Il Post” il 10 luglio 2016. Il noto magistrato antimafia ha detto che sono peggio anche dei politici locali. Il magistrato Nicola Gratteri, attualmente Procuratore di Catanzaro, ha spiegato ieri nel corso di un incontro pubblico in città quali sono secondo lui i principali problemi della sua regione. Secondo la Stampa, che ha seguito l’evento, Gratteri ha detto al pubblico: «Prima ancora della politica e della ’ndrangheta, il problema della Calabria sono i quadri della pubblica amministrazione». Secondo Gratteri, sono impiegati e dirigenti pubblici a causare l’inefficienza della pubblica amministrazione, mentre i politici eletti sono solo figure “deboli” e “senza preparazione”. «Ci sono direttori generali – dice Gratteri – che da vent’anni sono nello stesso posto, e da incensurati gestiscono la cosa pubblica con metodo mafioso». Gratteri ha 57 anni ed è uno dei magistrati antimafia più conosciuti in Italia: scrive libri, partecipa a convegni ed è noto per il suo stile oratorio molto diretto. Ha lavorato soprattutto in Calabria, indagando sulla ‘ndrangheta e sulle altre organizzazioni criminali, in particolare quelle che si occupavano di sequestri. A causa del suo lavoro, Gratteri vive sotto scorta dal 1989. L’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio, del PD, era ospite allo stesso incontro e ha appoggiato la tesi di Gratteri: «Sottoscrivo convintamente la valutazione del procuratore Gratteri. Si avverte una pressione, una presenza che definirei un macigno, uno schema sempre uguale di burocrazia dominante. Sono dell’idea che questa struttura abbia avuto un peso tutt’altro che secondario nel ritardato processo di sviluppo della Calabria».

"Le nuove mafie sono dentro lo Stato e attaccano la Costituzione". «Il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian è il tratto più inquietante dei fatti venuti alla luce» scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza del processo. Che diventa uno spartiacque per la giurisprudenza italiana. «Le organizzazioni criminali si inseriscono nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse», scrive Federico Marconi il 31 luglio 2017 su "L'Espresso". Le nuove mafie esistono, prosperano in territori nuovi e utilizzano metodi inediti oltre a quelli tradizionali. E così il loro attacco ai principi della Costituzione si fa sempre più forte, come dimostrano le minacce di morte al giornalista Giovanni Tizian, colpevole di averne denunciato il giro di affari. Si possono riassumere così le 764 pagine con cui il Tribunale di Bologna ha motivato la sentenza del processo che ha visto sul banco degli imputati l'organizzazione criminale con a capo la famiglia Femia, smantellata nel 2013 dall'inchiesta “Black Monkey”. La sentenza, emessa lo scorso 22 febbraio, è stata accolta come uno spartiacque per la giurisprudenza italiana: riconosce un’associazione a delinquere di stampo mafioso dai tratti tipicamente moderni e in grado di corrompere con la forza del denaro. Ma soprattutto un’associazione mafiosa «caratterizzabile come tale anche se non insediata nei classici territori di radicazione», come si legge nella motivazione pubblicata lo scorso 19 luglio. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Quella di Nicola Femia e degli altri ventidue imputati è per i giudici bolognesi «un sistema di potere, prima ancora che una consorteria criminale: è fondato sul consenso sociale ed economico e non può prescindere dalla penetrazione nelle istituzioni». È questo un altro punto fondamentale: la nuova mafia non si pone più come antagonista allo Stato, ma «la sua esistenza e affermazione comporta anche la collaborazione con funzionari pubblici, apparati dello Stato e politici».

Il processo ha dimostrato, scrive il presidente della prima sezione penale del Tribunale di Bologna Michele Leoni, i collegamenti dell'associazione capeggiata da Femia «con funzionari che assicurano una rete di sicurezza svelando indagini, o con sedicenti o effettivi apparati dell'intelligence». In altre parole, un rapporto di complicità tra mafia e parti dello Stato. Su questo rapporto potrà fare chiarezza lo stesso Nicola Femia, che a febbraio ha iniziato a collaborare con la giustizia. A febbraio ha chiesto di parlare con il pm del Dipartimento distrettuale antimafia di Bologna Francesco Caleca. La sua collaborazione potrebbe risultare importante per ricostruire gli interessi della 'ndrangheta nell’Italia settentrionale.

«La mafia oggi non è più solo pizzo» continuano i giudici nella motivazione «ma imprenditoria con aspirazioni monopolistiche-oligopolistiche». Aspirazioni che non prescindono però «dai consueti metodi illegali che permettono l'insediamento e il consolidamento dell'organizzazione criminale». In quest'ottica il consenso sociale «non è solo estorto agli altri operatori economici, ma proviene dai vantaggi offerti dalla condivisione di attività illecite». Alcune tracce del passato rimangono, altre svaniscono. Rimane «la capacità non solo attuale, ma potenziale, di sprigionare una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di chi viene in contatto con gli affiliati dell'organismo criminale». Fatto dimostrato nel corso del processo dal susseguirsi di teste totalmente reticenti. Svanisce, invece, il rituale di affiliazione: non c'è bisogno di dito punciuto e santino bruciato per individuare un mafioso. «La ricorrenza di un rituale può essere una prova» scrivono i giudici bolognesi «ma non condiziona l'esistenza di una realtà criminale associativa, che deve essere dimostrata da altri persuasivi elementi».

Elementi come il potere di intimidazione e assoggettamento, l'omertà, il controllo di settori economici, infiltrazioni nelle istituzioni e consolidati legami con le altre organizzazioni mafiose, che evidenziati nel corso del processo hanno «indotto ampiamente a ritenere la natura mafiosa dell'associazione per delinquere facente capo a Nicola Femia». Tra le parti civili del processo è presente anche il giornalista Giovanni Tizian, che dal 2011 vive sotto protezione per le minacce ricevute da Guido Torello, tirapiedi di Nicola Femia. La colpa del giornalista, che all'epoca scriveva per la Gazzetta di Modena, è stata quella di aver pubblicato due articoli sugli affari illeciti del clan. In un'intercettazione telefonica del dicembre 2011 si sente Torello parlare a Femia e minacciare Tizian: «Lo facciamo smettere... ci penso io... o la smette o gli sparo in bocca...».

«Il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian, colpevole di aver denunciato sulla stampa l'attività criminale dei Femia, è il tratto più inquietante e sinistro dei fatti venuti alla luce» scrivono i giudici bolognesi «si tratta di un aspetto addirittura eversivo, un attentato alla Costituzione la quale, all'articolo 21, stabilisce che la stampa non può essere soggetta a censure». Viene evidenziata così «la pericolosità della mafia quale contropotere che tende ad avere il controllo sociale, a tacitare l'informazione e, lentamente e progressivamente, a inserirsi nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse».

La mafia sta vincendo. I successi delle inchieste antimafia e i boss murati vivi al 41 bis sono solo una parte della realtà. Perché i clan hanno cambiato modo di agire e hanno ripreso ad avvolgere il paese nella loro rete. Ecco come, scrive Giovanni Tizian il 24 luglio 2017 su "L'Espresso". L’odore stantio di un passato che ritorna. Che ci riporta indietro di anni, a prima dell’ascesa dei Corleonesi e di Totò Riina, capo dei capi di Cosa nostra. Prima della stagione delle bombe e delle stragi. Ci riporta alla stagione dell’aristocrazia mafiosa palermitana, del “principe” Stefano Bontate. A quell’idea di mafia fatta di mediazioni, accordi, dialogo, che non è mai stata sconfitta. Nel lungo periodo hanno vinto gli strateghi dell’inabissamento, strenui oppositori dell’attacco frontale alle istituzioni democratiche. I principi sono tornati, e li troviamo capi e reggenti delle cosche. Hanno resistito al carcere, alle confische, alle faide, ai pentiti. Forti di una società che ha bisogno di loro e dei loro servigi. E mentre le cronache riportano la marcia trionfale dell’antimafia giudiziaria, dai territori, da Palermo, Reggio Calabria, Roma, Bologna, Milano, Torino, si levano segnali inequivocabili: lo Stato non ha vinto. Spieghiamoci meglio: se ci fermassimo alle statistiche della repressione giudiziaria potremmo affermare senza alcun dubbio che le mafie sono destinate a un’inesorabile sconfitta. Se il nostro sguardo si fermasse, senza andare oltre, sulle gabbie del 41 bis dentro le quali sono murati vivi capi mafia di due generazioni criminali potremmo essere oltremodo soddisfatti della lotta ai clan. Ma ridurre la guerra ai mafiosi a una mera questione di ordine pubblico, faccenda da sbirri, giudici e manette, è un suicidio. E se provassimo, invece, a ribaltare il campo d’osservazione spostandoci sull’altra riva del fiume? Dal lato in cui cioè i fatti si manifestano in tempo reale, molto prima dell’arrivo delle sirene e dei detective, di quella giustizia, insomma, che per ovvi motivi arriva solo a crimine compiuto. Che giudizio daremmo se provassimo a interpretare alcuni segnali, che sembrano indicarci un ritorno al passato? È come se l’attenzione e la tensione etica del post stragi si fossero affievolite. Alcuni pilastri della lotta alla mafia vengono persino messi a rischio da sentenze destinate a fare scuola. Il concorso esterno all’associazione mafiosa, il reato che colpisce le complicità esterne, è sul banco degli imputati. Moltissimi sono i suoi detrattori, in molti vorrebbero celebrare il suo funerale. Eppure se non si colpiscono le relazioni con gli insospettabili, vera forza delle cosche, è impensabile battere le mafie. Il fenomeno mafioso non è solo l’agire criminale, ma tutto un modo di intendere la società, i rapporti umani, sociali ed economici. Chi di notte taglia la testa del busto di Giovanni Falcone a Palermo o chi devasta la stele che ricorda il giudice Livatino ad Agrigento è, probabilmente, solo un ignorante. E tale grazie al fallimento educativo che non permette la trasmissione della memoria del passato. Ma c’è qualcosa in più a darci la sensazione di una mafiosità quotidiana. È quella cultura dell’arroganza, dell’impunità, della prepotenza, della prevaricazione e della vandalizzazione della bellezza che vediamo prevalere ovunque attorno a noi. Bisogna dirlo: non siamo in grado di offrire valide alternative a chi vive nel disagio sociale o, peggio, in ambienti criminali. Colpisce la storia del quindicenne della Locride che ha scritto al boss del paese per comunicargli che lui è pronto, vuole essere un suo soldato. È stata la figlia del capoclan, compagna di classe del ragazzo, a consegnare la lettera nelle mani del padre. Ancora: diamo ormai per scontato che le organizzazioni criminali spostino il consenso elettorale. In questa resa c’è qualcosa di patologico. Come se fossimo vittime di una sindrome di Stoccolma collettiva. Ostaggi di un potere che ci ha assuefatto e sedotto. Siamo così assuefatti che pochi conosceranno la vicenda di Niscemi, il paese del Mous, acronimo delle contestatissime parabole della Marina americana, in provincia di Caltanissetta. Eppure c’è un elemento della vicenda che rientra in quei segnali inquietanti di resa collettiva all’arroganza del sistema criminale. Il mese scorso l’ex sindaco, Giovanni Di Martino, ha scoperto perché cinque anni fa non è stato rieletto: l’avversario che lo ha sconfitto per pochi voti, è la tesi dei pm, aveva il sostegno della cosca locale. Di Martino si era distinto per il suo impegno antimafia, e aveva pagato con intimidazioni pesanti la sua scelta. Era diventato primo cittadino nel 2007 con il suo partito, il Pd, nella tornata elettorale successiva al secondo scioglimento per mafia. La primavera è durata un solo mandato. Cosa nostra si è ripresa la scena, partecipando attivamente alla campagna elettorale contro Di Martino. «Ho provato rabbia», dice all’Espresso Di Martino, «perché le autorità competenti non si sono adoperate subito per avviare una commissione di accesso per arrivare ad una proposta di scioglimento del Consiglio Comunale? Questi elementi erano da tempo in mano agli inquirenti». Ma l’ex sindaco la delusione maggiore l’ha avuta nell’apprendere «che nonostante gli sforzi, e i sacrifici personali, la mafia continua a condizionare la libera espressione del voto dei cittadini». Così è finita la carriera di un sindaco onesto e coraggioso. Frenata dai clan e dall’indifferenza del suo ex partito, che prima lo portava come simbolo della lotta alle cosche e poi lo ha dimenticato. Dal’92-’93, apice della strategia della tensione messa in atto da Cosa nostra, a oggi è indubbio che i risultati ottenuti siano notevoli. Tuttavia c’è da chiedersi che tipo di mafia fosse quella e quali caratteristiche, invece, abbiano oggi le mafie contemporanee. E perché la prima abbia perso, mentre persistono e si rafforzano le seconde. Queste si possono dire violente nella misura in cui riescono a esercitare il loro potere di coercizione senza nemmeno dover trasformare le nostre città in Far West. Sanno influenzare, interferire, manipolare le decisioni economiche e politiche con il denaro e la corruzione. È una mafia, insomma, in piena attività che usa politici, imprenditori, professionisti, ma anche magistrati e forze dell’ordine, per i propri scopi e viene utilizzata dagli stessi per risolvere questioni private. Clan che sono allo stesso tempo entità criminali paragonabili ad aziende e strumenti al servizio del migliore offerente. Decidono chi eleggere nei Comuni, scelgono assessori e consiglieri, sostengono senatori e deputati, arrivano a dettare il testo delle interrogazioni parlamentari sulle questioni a loro care. Hanno creato nel tempo anche una loro macchina propagandistica, necessaria per ripulirsi l’immagine e offrirsi in pubblico con una faccia “presentabile”. Come imprenditori, invece, agevolano altre imprese nella limatura dei costi offrendo servizi di vario genere a prezzi fuori mercato: smaltimento rifiuti, lavori di varia natura nei cantieri, manodopera da spremere con orari massacranti. Siamo in una terra di confine, dove tutto si confonde, buoni e cattivi frequentano gli stessi salotti, gli stessi luoghi, le stesse aule. Massimo Carminati la definirebbe “mondo di mezzo”, quello spazio in cui purezza e peccato convivono, bianco e nero si amalgamano e formano un’estesa zona grigia, abitata insieme dagli affiliati duri e puri e dai loro complici “perbene”. Di convergenze criminali sanno qualcosa a Reggio Calabria. Qui una cupola ha gestito da sempre i processi decisionali della città. Ha piazzato governanti e deciso finanziamenti. Accadeva già 30 anni fa, e molti dei sospettati di oggi sono gli stessi di allora. La ’ndrangheta e la massoneria, gli stessi casati criminali di un tempo, boss e spioni infedeli. Cosa è cambiato? Qualche denuncia in più, qualche associazione antimafia che prima mancava, ma quel potere che negli anni ’70 ha trasformato Reggio Calabria in laboratorio di un sistema criminale “misto”, poi mutuato anche da altre organizzazioni, non intende mollare di un centimetro. «La lotta alla mafia non è tra le priorità di questo Paese», riflette Claudio Fava, vicepresidente della commissione antimafia. Fava ha vissuto la violenza mafiosa sulla propria pelle. Il padre, Pippo Fava, su “I Siciliani” aveva sviscerato il potere oscuro di Catania. Fu ucciso nel 1984. Nel mirino del cronista il vero governo ombra del territorio, costituito da Cosa nostra e dai monopolisti degli appalti in Sicilia, ribattezzati i Cavalieri dell’apocalisse mafiosa. «A Catania sono cambiate molte cose, e allo stesso tempo non è cambiato nulla, chi comanda ha gli stessi cognomi, in alcuni casi anche i nomi, di chi comandava all’epoca dell’omicidio di mio padre. Sempre gli stessi, geografia immutabile del territorio», dice Fava. Un’immutabilità che stride con gli annunci di chi troppo presto ha deposto le armi e delegato il lavoro pesante a magistrati e investigatori, pure eccellenti. I partiti hanno rinunciato a vigilare.

Eppure, secondo Fava, se la sinistra avesse fatto tesoro dell’insegnamento di Enrico Berlinguer, della sua “questione morale”, e l’avesse applicata alla lotta alla mafia, non assisteremmo oggi a un inquietante ritorno al passato. «È come se in assenza dell’odore del napalm aspettassimo giorni più tragici per ritornare al fronte, come se la lotta alla mafia fosse solo un problema di polizia giudiziaria. Intanto la criminalità organizzata continua a condizionare la politica, interferisce nei processi finanziari ed economici». Che la sola repressione non sia sufficiente è scritto nei provvedimenti stessi delle procure: facciamo i conti con famiglie mafiose arrivate alla quarta generazione, che dominano la scena da mezzo secolo nonostante arresti, carcere duro e confische. «Queste famiglie sono state capaci di trasmettere alle nuove leve la forza criminale e il senso di impunità, nonostante tutto» aggiunge il vicepresidente. «La mia impressione, ciò che mi preoccupa davvero», continua, «è che si sia tessuta una tela di potere di cui la mafia è componente essenziale ed è una tela che condiziona processi politici ed economici, una sorta di scambio reciproco tra diversi mondi». Conferme in questo senso giungono da più luoghi, centrali nelle strategie criminali, eppure apparentemente periferici per l’attenzione dei media. La cupola masso-mafiosa di Reggio Calabria, il riciclaggio al Nord e in Europa, il connubio tra clan e logge a Trapani. Qui, ad esempio, alle ultime elezioni un candidato si trovava ai domiciliari e un altro, il senatore Antonio D’Alì, in attesa di un’udienza che stabilisse se disporre la misura dell’obbligo di dimora chiesta dalla procura di Palermo. E sempre nel trapanese, a Castelvetrano, paese del super latitante Matteo Messina Denaro, il filo che lega grembiuli e mafiosi fa da sfondo al recente scioglimento per mafia del Municipio. «A Castelvetrano Messina Denaro ha costruito una rete di protezione nel ceto medio, nella borghesia cittadina. Non si tratta di omertà, attenzione. Ma di convenienza. La classe imprenditoriale ha trovato in Cosa nostra un partner ideale. E questo avviene anche altrove.

Siamo tornati alla mafia poco appariscente e di sostanza del periodo pre-Corleonesi. Sconfitta l’ala stragista, insomma, il mosaico ridotto in mille pezzi è stato ricomposto. Oggi Cosa nostra e le altre organizzazioni sono tornate a essere parte integrante del panorama. Con modi meno rozzi, ma con la stessa capacità di mettere tutti d’accordo e seduti allo stesso tavolo». Poi Fava ricorda un’audizione in Commissione antimafia. «I magistrati di Palermo avevano riscontrato che alcuni imprenditori si erano recati dai mafiosi, non perché minacciati, ma per stabilire un rapporto di reciproco vantaggio. La parola convenienza ha soppiantato la parola omertà. Del resto le cosche rappresentano il socio adeguato alla complessità di quest’epoca». Complessità irriducibile al solo folklore delle organizzazioni mafiose. La mafia che ha vinto non è quella che celebra un funerale pacchiano con la musica del Padrino, la pioggia di petali di rosa e la carrozza con i cavalli per salutare l’ultimo patriarca. Non è neppure un anziano di 90 anni che ricorda i fasti del passato sotto un ulivo nella sua campagna in Calabria o in Sicilia. E non sono neppure i ragazzini armati fino ai denti che hanno seminato il panico per i vicoli di Napoli. Per trovare oggi le mafie bisogna seguire i soldi. C’è un pentito che sta parlando con i magistrati di Reggio Calabria. Lui è un vecchio riciclatore di miliardi ricavati dai sequestri di persona. «Sa dottore» ha detto rivolgendosi al pm, «eravamo i migliori clienti di alcune banche internazionali, non è stato difficile per noi diventare soci». Ecco, dove sono i tesori dei clan? L’ultima grande sfida investigativa. Una pista che potrebbe portare lontano nel cuore di un’Europa per niente intimorita dai capitali delle cosche e priva di leggi adeguate per sradicare le succursali mafiose. Purché si evitino fastidi, clamori, sparatorie e violenza, nessun denaro è straniero nella grande e civile Unione.

"La mia vita a metà per aver denunciato la 'ndrangheta al Nord". "Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista, scrive Giovanni Tizian il 23 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan. Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza. Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna. Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo, il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine.  

Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena. Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo. Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia. In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali. Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi.

Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo. Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.

Taranto, un pentito svela la nuova mappa della Sacra Corona Unita sullo Ionio: “Ecco affari, riti e gerarchie criminali”. Vincenzo Mandrillo, imputato per omicidio, ha deciso di collaborare con la magistratura e sta ridisegnando la mappa di potere dei clan nella provincia ionica. E poi le 'filastrocche' di affiliazione in carcere e gli affari con le cosche calabresi. Tutto confermato dall'ultima relazione della Dia che parla di "spregiudicatezza e propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi" come "modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali", scrive Francesco Casula il 30 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.

Il pentito svela la geografia della Scu. “Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.

Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”. Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitis diede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.

“Mafia tentacolare, bonifica difficile”. Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.

Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”. Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”.  Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto Scarpalonga. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano (insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).

Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite. “In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in Scarpalonga uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.

Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”. Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastrocca che ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».

Giuramento, gradi e gerarchie. E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava.

Blitz antimafia. La piovra manduriana nel potere economico e politico, scrive Nazareno Dinoi il 5 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale. Esponenti della malavita organizzata tra potere economico e politico in un intreccio quasi asfissiante che mirava a controllare l’economia e le risorse pubbliche del territorio. La «piovra messapica» come non era stata mai presentata prima, ha sconvolto la tranquilla comunità manduriana sbattuta in prima pagina e nelle notizie d’apertura dei telegiornali per fatti che lasciano a bocca aperta. Sono quasi tutti nomi di spicco e di peso, sia criminale che politico, quelli finiti nelle 592 pagine di un’informativa dai contenuti per certi aspetti inquietanti. Dal sindaco di Avetrana, Antonio Minò, all’ex presidente del Consiglio e consigliere comunale dimissionario di Manduria, Nicola Dimonopoli, passando per l’ex assessore al Turismo e spettacolo, Massimiliano Rossano con ombre che si allungano su alte cariche pubbliche della stessa città Messapica i cui nomi vengono solo citati nell’inchiesta perchè i «risvolti penali a loro carico sono risultati esigui» e pertanto risparmiati da ogni provvedimento nemmeno da indagati. Dal girone dei politici, sono due i personaggi che più di tutti hanno provocato sgomento e incredulità in questo versante della provincia jonica: quelli del sindaco di Avetrana Minò e del consigliere Dimonopoli. Il primo è stato coinvolto non in qualità di politico ma in quanto imprenditore. Fondatore e patron di un’associazione per l’assistenza e il soccorso di infermi convenzionata con la Asl che gli ha affidato la gestione della postazione del 118 di Manduria, su di lui pesa l'accusa di concorso esterno di associazione mafiosa e per questo è stato rinchiuso nel carcere di Taranto. Il dottore Dimonopoli, medico in servizio al pronto soccorso di Manduria, ai domiciliari, è accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Associazione mafiosa per Rossano ritenuto invece organico al presunto clan capeggiato da Antonio Campeggio, entrambi in carcere. Il sindaco Minò, secondo l’accusa, avrebbe fornito «consapevolmente e volontariamente» un contributo importante al rafforzamento, dell'articolazione del sodalizio del «padrino» Campeggio, «mettendosi a completa disposizione agevolando l'imposizione dell'assunzione di un componente del clan, in qualità di autista, nella postazione del 118 di San Giorgio Jonico, obbligando per questo il presidente l'associazione Croce Verde Faggiano. Sempre secondo la procura antimafia che lo indaga, il primo cittadino avrebbe provvedendo lui stesso all'assunzione, nella sua associazione «Avetrana soccorso» di altri membri della stessa organizzazione mafiosa. Ad incastrare Minò ci sono diverse intercettazioni telefoniche e ambientali mentre prende accordi diretti con il presunto capoclan Campeggio. Di diversa natura il coinvolgimento dell’ex consigliere Dimonopoli (da quattro giorni dimissionario per divergenze politiche con il resto del gruppo di minoranza), il quale avrebbe chiesto e ottenuto appoggi elettorali ad esponenti della malavita in cambio di favori legati alla sua attività professionale come certificazioni mediche con giorni di prognosi. Più complessa la posizione dell’ex assessore Rossano che deve rispondere di accuse ben più pesanti. Secondo gli inquirenti, il dipendente Asl (anche lui impiegato al pronto soccorso del Giannuzzi), farebbe parte dell’organizzazione mafiosa del «padrino» manduriano. Inoltre, nel periodo in cui ha ricoperto la carica assessorile, avrebbe favorito una ditta locale con la promessa di una tangente di 1.400 euro. Molto più grave la terza accusa: avrebbe costretto l’impresa che gestiva l’edizione della Fiera Pessima manduriana del 2012 ad assumere il controllo sulla guardiania della campionaria. La «piovra», spiegano gli investigatori nelle loro indagini, investiva il denaro sporco accumulato con il traffico di sostanze stupefacenti, rilevando aziende sane. Tra queste, i cui nomi compaiono nel fascicolo, i ristoranti balneari di Campomarino, Don Piccio e Bikini. L’investimento della mala non risparmiava il business del 118. Per questo è stato arrestato l’imprenditore Leonardo Trombacca, nome storico nel campo delle pompe funebri, affidatario di una convenzione con la Asl per la gestione della postazione 118 di Avetrana. Per la procura una parte dei guadagni finivano nelle casse del sodalizio criminale guidato da Campeggio. L’associazione, di fatto controllata da Trombacca, era stata intestata fittiziamente ad uno dei suoi dipendenti che risulta per questo indagato. Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale, Giuseppe Caforio, titolare dell’azienda di serramenti. Dalle indagini è emerso che nessuno di loro ha ceduto al pizzo.

Mafia e politica, la difesa di Minò e Dimonopoli, scrive Nazareno Dinoi il 7 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Tra le lacrime di alcuni e i silenzi di altri, si è conclusa ieri la prima delicata fase degli interrogatori di garanzia delle persone raggiunte martedì mattina dai provvedimenti di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessi dal Tribunale di Lecce su richiesta della della Direzione distrettuale antimafia che indaga su presunte contaminazioni della sacra corona unita nel tessuto imprenditoriale e politico dei comuni di Manduria, Avetrana e Erchie. Il più drammatico confronto con il gip Pompeo Carriere, delegato con rogatoria dalla giudice Cinzia Vergine che ha disposto le misure, è stato sicuramente quello con il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo cittadino, coinvolto nell’inchiesta non nel suo ruolo istituzionale ma come presidente di un’associazione di volontariato, «Avetrana Soccorso», convenzionata con la Asl di Taranto per la gestione della postazione 118 di Manduria, ha dichiarato tra le lacrime la propria innocenza dicendosi quindi estraneo a qualsiasi collusione con gli ambienti della malavita. In merito alla sua presunta pressione esercitata nei confronti del presidente di un’altra associazione di San Giorgio per l’assunzione di un esponente del clan di Antonio Campeggio, ritenuto a capo dell’organizzazione mafiosa, Minò avrebbe giustificato tale circostanza come un atto di solidarietà su cui si fonderebbe l’associazione di cui è presidente. Nel corso dell’interrogatorio non sarebbero mancati momenti di profondo sconforto da parte del politico che in più occasioni è stato costretto a fermarsi perché impossibilitato ad andare avanti. Parlando poi con uno dei suoi avvocati, Mario De Marco, che è anche componente della giunta, il sindaco si è raccomandato per il buon andamento dell’amministrazione invitando il vicesindaco Alessandro Scarciglia, che lo sostituisce, a fare di tutto per non far sentire la sua mancanza e per difendere l’ente nel migliore dei modi. Anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che deve rispondere di scambio elettorale politico – mafioso, ha preferito rispondere alle domande del gip sottraendosi anche lui da ogni accusa. L’ex consigliere, medico alle dipendenze della Asl di Taranto, avrebbe negato qualsiasi accordo con elementi della malavita ai quali non avrebbe chiesto appoggi dicendosi certo di conoscere quasi tutti i suoi elettori. A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Una mossa, questa, spiegata probabilmente dalla necessità, per gli avvocati, di prendere visione degli atti in mano alla procura antimafia prima di imbastire una linea di difesa. Tutto il folto collegio difensivo composto dai penalisti Nicola Marseglia, Mario De Marco, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo, Mimmo Micera, Gaetano Vitale, Luigina Brunetti, Antonio Liagi ed altri, sono già al lavoro per il ricorso al Tribunale del riesame al quale chiedere intanto la revoca delle misure imposte ai propri assistiti. Desterebbero preoccupazioni infine le condizioni di salute dell’ex assessore manduriano, Massimiliano Rossano, anche lui in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, sottoposto più volte a visita medica. Rossano che è operatore socio sanitario in servizio al pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria, è sospettato di essere parte attiva dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Antonio Campeggio, detto “Tonino scippatore”.

Inchiesta Dia, parlano gli indagati. Minò: rifarò il sindaco - Dimonopoli: basta con la politica, scrive Nazareno Dinoi il 27 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò e l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, sono tornati liberi. Ieri il Tribunale del Riesame di Lecce ha accolto le richieste dei rispettivi avvocati, Nicola Marseglia del primo e Franz Pesare e Armando Pasanisi il secondo. Il primo cittadino di Avetrana ha lasciato il carcere di Taranto dove era rinchiuso dal 4 luglio, mentre Dimonopoli può lasciare il proprio domicilio dove era ristretto. Il sindaco è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa mentre Dimonopoli di voto di scambio. Minò ha fatto rientro a casa nel tardo pomeriggio di ieri accolto da una folla di parenti e cittadini in festa. Lui, visibilmente commosso e provato, ha abbracciato tutti prima di chiudersi in casa con i parenti e i suoi più stretti collaboratori. Ed ha trovato il tempo per rilasciare delle dichiarazioni. «Non ho mai dubitato e non dubiterò mai della giustizia, il mio – dice Minò - lo considero un incidente di percorso che, sono sicuro, sarà risolto definitivamente». Pronto a rimettersi in gioco, il primo cittadino non vede l’ora di riprendere la sua attività politica. «Già da lunedì – racconta – sarò nel mio ufficio in municipio e riprenderò le redini del mio comune con più energie di prima». Poi l’appello rivolto agli organi d’informazione. «Voi fate il vostro dovere e lo comprendo, ma adesso tocca a voi darmi quello che merito, la mia figura ha bisogno di positività e in questo confido in voi». Infine i ringraziamenti. «Alla mia famiglia prima di tutto che mi è stata molto vicina in questi terribili giorni, e poi a tutti gli amici e agli amministratori anche di opposizione che hanno compreso. Un ringraziamento particolare - conclude il sindaco –, al mio avvocato Marseglia che si è dimostrato un uomo e un professionista all’altezza della situazione».

Uno degli avvocati di Antonio Minò, Mario De Marco, così commenta: “La decisione del Tribunale di riesame oltre a dare grande sollievo al Sindaco ed alla sua famiglia conferma la debolezza di indagini molto sommarie svolte con metodo inquisitorio ma soprattutto allontana anche il mero accostamento tra la comunità avetranese ed ogni forma di attività criminale”. Altrettanto sollevato ma di umore differente si è presentato invece l’ex presidente del consiglio, il manduriano Dimonopoli che di politica non ne vuole più sapere. «Con questa storia ho chiuso completamente con la politica; ho capito ora più che mai quanto sia sporca; adesso – conclude Dimonopoli che è medico ospedaliero – devo concentrarmi a riconquistare la fiducia delle persone che mi stimano e dei miei pazienti». Naturalmente sia Minò che Dimonopoli restano indagati a piede libero e rischiano comunque il processo.

Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari nonostante le pesanti accuse di corruzione in associazione mafiosa di cui è accusato e i suoi numerosi precedenti penali. Confermate invece le misure detentive per i manduriani Luciano Carpentiere e Vito Mazza. Resta ai domiciliari anche il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti mentre è libero l’ex suo vicesindaco, Domenico Margheriti. Il collegio difensivo di ieri era composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo, Nicola Marseglia, Raffaele Missere, Fabrizio Lamanna e Michele Iaia.

Stragi, pm di Reggio Calabria: “Le mafie si fermarono quando trovarono in Forza Italia la struttura con cui relazionarsi”. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha spiegato nel dettaglio i particolari dell'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano: sarebbero loro i mandanti di tre attentati compiuti contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Aggressioni ad esponenti dell'Arma considerati per anni episodi isolati. E che invece, secondo la ricostruzione degli inquirenti, fanno parte di un'unica strategia stragista. Rallentata quando le piovre trovarono la "struttura più conveniente con cui relazionarsi", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2017. Gli omicidi di secondini e carabinieri, le stragi di via d’Amelio e Capaci, le bombe a Roma, Firenze e Milano. E poi all’improvviso ecco la pace e la strategia stragista portata avanti dalla criminalità organizzata che “si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la ‘ndrangheta ed altre organizzazioni criminali come la camorra e la Sacra Corona Unita trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi”. È praticamente una sorta di nuovo Patto fondativo della Seconda Repubblica quello ripercorso dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che in conferenza stampa ha illustrato i particolari dell’operazione “Ndrangheta stragista”. Oggi infatti la procura calabrese ha ottenuto l’arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano: sarebbero loro i mandanti di tre attentati compiuti contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Aggressioni ad esponenti dell’Arma considerati per anni episodi isolati. E che invece, secondo la ricostruzione degli inquirenti, fanno parte di un’unica strategia stragista portata avanti da una “Cosa sola”: a dichiarare guerra allo Stato nel 1993, non fu solo Cosa nostra ma anche la ‘ndrangheta. E lo fece uccidendo i i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo: un’esecuzione da collegare al fallito attentato dell’Olimpico, commissionato proprio da Graviano a Gaspare Spatuzza. “Che la ‘ndrangheta non sia coinvolta nelle logica delle stragi voluta da Toto Riina – ha detto Lombardo – è solo falsa politica. Numerose dichiarazioni che abbiamo riscontrato di collaboratori calabresi e siciliani, che erano disperse in decine di inchieste separate, ci hanno permesso di ricostruire un mosaico che dà dignità a questa inchiesta e spiega i motivi che hanno portato all’attacco all’Arma dei carabinieri e ad altri rappresentanti dello Stato”. L’obiettivo era semplice: siglare un nuovo patto di convivenza con lo Stato. “Il disegno terroristico e mafioso servente rispetto ad una finalità più alta, che prevedeva la sostituzione di una vecchia classe politica con una nuova, diretta espressione degli interessi mafiosi”, ha detto il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. “Dopo il tramonto della Prima Repubblica e la lunga scia di sangue che ne ha segnato il trapasso – ha aggiunto il numero uno di via Giulia – ‘ndrangheta e Cosa nostra volevano mantenere il controllo assoluto sulla classe politica, proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si andava delineando. In questo quadro rientrava anche la decisione delle mafie di fare un attentato dinamitardo con un’autobomba nella terza decade del mese di gennaio del 1994 allo stadio Olimpico contro i carabinieri che avrebbe provocato, secondo chi lo aveva organizzato, almeno cento morti tra gli uomini dell’Arma, con effetti destabilizzanti per la democrazia”. Ma non solo. Perché nella ricostruzione di Lombardo torna prepotentemente a fare capolino una sigla del passato: la Falange Armata. “In numerose azioni tra cui il duplice omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e l’assassinio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, viene usata dagli assassini la rivendicazione Falange armata la stessa che viene usata anche per gli attentati a Roma ed a Firenze. Fu proprio Riina, come ci è stato riferito da Leonardo Messina e da altri importantissimi collaboratori, per il loro ruolo in Cosa nostra, collaboratori di giustizia siciliani, che nell’estate del 1991 ad Enna, dove aveva riunito i vertici di cosa nostra siciliana, spinse ulteriormente l’organizzazione criminale a rompere le corna allo Stato utilizzando la sigla Falange armata”. Una firma che evoca morte tra il 1990 e il 1994 e che secondo gli investigatori “è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d’informazione dell’epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno”, ha spiegato Lombardo. Che poi ha narrato nel dettaglio come è avvenuta la partecipazione della ‘ndrangheta nell’attacco allo Stato.  “È di questo periodo, anche se numerosi riscontri datano tempi precedenti – ha sostenuto poi Lombardo – che si infittiscono i rapporti ed aumentano le pressioni di cosa nostra stragista sui vertici delle cosche più rappresentative della ‘ndrangheta calabrese ai quali viene chiesto, in alcune riunione svoltesi a Nicotera (Vibo Valentia), Lamezia Terme e Milano, l’esplicita adesione al programma autonomista e stragista cui il capo corleonese voleva dare corso. A questa richiesta aderirono i De Stefano, i Libri, i Tegano di Reggio Calabria, i Coco Trovato e i Papalia di Platì creando un asse operativo con quello che appare sempre di più un grumo di interessi politici ed economici attorno a cui ruotano servizi segreti deviati, massoni vicini a Gelli e organizzazioni criminali”. Calabresi e siciliani insieme dunque nella fase che dalla Prima Repubblica portò alla Seconda spargendo sangue e bombe per tutto lo stivale. Il disegno criminale era unitario. Un filo rosso, infatti, sostengono gli inquirenti, lega la fallita strage dello stadio Olimpico e l’agguato consumato pochi giorni prima sulla Salerno-Reggio Calabria, all’altezza di Scilla, dove a colpi di fucile e di mitragliatrici Beretta M12 furono crivellati i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Un attentato riuscito al secondo tentativo. Poche settimane dopo furono arrestati gli esecutori materiali, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, oggi tra i pentiti che hanno aiutato i pm a inquadrare quegli agguati considerati non più come episodi sporadici ma come un tassello di un progetto più ampio di “attentato allo Stato” maturato nell’ambito dell’alleanza tra Cosa nostra e ‘ndrangheta.

Il boss Graviano sapeva di essere intercettato, scrive Damiano Aliprandi il 28 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità Umberto Adinolfi sapevano di essere intercettati. Dalle trascrizioni, infatti, dal momento che si accorsero di essere “spiati” (parole loro), hanno cominciato a parlare alternandosi con sussurri all’orecchio e, soprattutto verso la fine del periodo dell’intercettazioni, si passavano dei biglietti che venivano letti voltando le spalle alla telecamera. Graviano scopre di essere intercettato esattamente i primi di febbraio del 2016. Mette in guardia Adinolfi spiegandogli che avevano messo le telecamere nel loro passeggio, che i lavori che stavano effettuando servivano a passare dei fili per il rifacimento di un impianto che sarebbe servito per ascoltare le loro conversazioni, così come stavano facendo in questo momento, poiché “sono degli spioni”. Graviano inoltre precisa ad Adinolfi che, dal momento del suo arrivo, avevano allestito la struttura per ascoltare le loro conversazioni. Graviano continua affermando che avevano sostituito il vecchio sistema di video sorveglianza di telecamere privo dell’audio, con delle nuove, nelle quali invece vi era anche l’audio.

Il giorno dopo era lo stesso Adinolfi a rivolgersi a Graviano: “Giuse’ ma… stanno riprendendo tutte cose… ah! ”. Il dialogo era andato esattamente in questo modo: Graviano: “Cosa?” 

Adinolfi: “Stanno riprendendo tutte cose!”

Graviano: “Tutto?”

Adinolfi: “Tutto! Si… incomprensibile… Giusè!”.

Graviano: “Niente Umbè… e…. ”.

Adinolfi: “Comunque… dobbiamo… ”.

Graviano: “… finire di parlare”.

Adinolfi: “Si… in- comprensibile.. ”.

Graviano: “… incomprensibile… eh… allora non mi hai capito quando io ti dicevo…. ”.

Adinolfi: “Ci stanno rovinando, non possiamo parlare… (alza la testa e guarda in alto in direzione della nuova telecamera)”.

Graviano: “No? E., e… si ma a tutti ci fanno la proposta… incomprensibile… quando a loro gli conviene… sicuramente e c’è qualcosa… al quarto piano…”.

 Adinolfi: “… incomprensibile… ”.

Graviano: “E io… incomprensibile quando ti dicevo qualche cosa che non…. uh? ”.

Adinolfi: “Perché… sì, sì, no ma… incomprensibile… vanno a mettere… incompresibile… ”.

Graviano: “Sì, sì…. ”.

Adinolfi: “… incomprensibile… ci vanno a mettere qualcosa”.

Graviano: “No no”.

Da quel momento in poi Graviano, durante tutto il periodo delle intercettazioni, a più riprese professa la sua innocenza su tutte le imputazioni. Dice di non aver messo le bombe nel ‘ 93, non ha ucciso don Puglisi, dice di essere una persona innocente e che, sbattendolo dentro, lo hanno così ringraziato per aver fatto tanto bene al suo popolo. Ma non solo. Dice al suo compagno di socialità che Giuseppe Gullotti (lo chiama “Pippo”) non è stato il mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, il corrispondente de La Sicilia colpito da tre pallottole l’8 gennaio del 1993 mentre si trovava all’interno della sua Renault nei pressi di casa. Gli spiega che è innocente perché gliel’ha detto lui. Poi fa confusione, probabilmente racconta di vicende che nemmeno conosce. Durante un’intercettazione i due fanno riferimento al pentito Vincenzo Scarantino e alle dichiarazioni rese dallo stesso nel processo per la strage di via D’Amelio.

Adinolfi si domanda: "… questa persona in mano di chi stava? Chi ha preso le dichiarazioni di questa persona…?"‘

Graviano risponde e dice: ‘… Arnaldo La Barbera e la Bocassini…”. Chi conosce la triste vicenda che portò al 41 bis degli innocenti accusati da Scarantino per aver messo le bombe che uccisero Paolo Borsellino, sa che la magistrata Ilda Boccassini ha certamente interrogato anche lei Scarantino, ma – a differenza degli altri suoi colleghi – concludendo subito non era da prenderlo in considerazione.

Poi c’è la storia del concepimento del figlio in cella, quella riportata da tutti i giornali. Su Il Dubbio è stato spiegato più volte, che la storia è inverosimile visto che per compiere un atto del genere dovevano essere complici i Gom (i reparti speciali addetti alla vigilanza), gli addetti alla videosorveglianza con la telecamera puntata h24 in cella, perfino nel water. Inoltre anche il fratello, Filippo, ha concepito il figlio durante la sua detenzione. L’ipotesi più probabile è quella di aver fatto fuoriuscire la provetta, non quella di aver ospitato la moglie in cella. Ma Graviano non racconta solo quello. Se venisse preso sul serio su tutte le storie che ha raccontato, non si capisce perché non viene riportato il suo racconto circa la detenzione, nella stessa cella, con suo fratello. Addirittura, riferendosi al concepimento del figlio, racconta di averci provato quando era insieme a lui. Infatti Graviano racconta ad Adinolfi: “Ti ho raccontato… ti ho raccontato che eravamo insieme in Calabria… scusa che può essere anno? È una questione di mesi… quando è capitato l’occasione, la prima volta là, che poi mio fratello è stato molto educato, mi ha detto prima tu…” Racconta anche questo. Dovrebbe fare scandalo, perché – come lui stesso dice in un’altra intercettazione – è stato fin da subito al 41 bis. Il regime duro prevede un isolamento completo e nella cella bisogna stare soli. Probabile che anche questa storia che ha narrato non risulti veritiera. Parlano di tutto, lui e Adinolfi. Il più delle volte, Graviano racconta dei suoi ricorsi, delle sentenze della corte europea, confida in una sua liberazione. La sua speranza, che è quella di tutti i detenuti che riversano da anni nel regime duro, è quella di uscire. La sua detenzione la descrive come un inferno. Lo ha ribadito anche durante l’interrogatorio davanti i sostituti procuratori Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia. Si era avvalso la facoltà di non rispondere in merito ai suoi racconti intercettati, ma ha approfittato per denunciare delle vessazioni che lui avrebbe subito e le condizioni carcerarie che si trova costretto a vivere.

L’atto finale, come se fosse una scena teatrale, è quella del 29 marzo scorso (il giorno dopo l’interrogazione) quando Adinolfi si rivolge a Graviano: ‘ comunque ieri è stata una giornata… diciamo, per quello che noi sconoscevamo… alla fine non si è rivelato un fatto negativo, secondo me. Perché noi sconoscevamo che eravamo intercettati. E quindi tutti quello che abbiamo detto… siccome questi hanno intercettato tutto quello che abbiamo detto, noi ricordandoci più o meno quello che ci possiamo ricordare… tutto quello che abbiamo detto… più importanti di quello che abbiamo detto, le cose quotidiane, cioè alla fine non è stato un fatto negativo… negativo perché ci hanno intercettato… è sempre un fastidio… ma noi non lo sapevamo. Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano… la genuinità dei… la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto…”. Eppure, come già premesso e riportato dalle intercettazioni, loro sapevano benissimo di essere ascoltati.

I pm che non si rassegnano, scrive P.F. De Robertis il 27 luglio 2017 su “La Nazione". In attesa della riapertura delle indagini sul delitto Matteotti e del discendente di qualche pentito che tiri fuori particolari inediti sull’assassinio di Re Umberto, ecco che spunta l’indagine " 'ndrangheta stragista ". Nella regione italiana – la Calabria – in cui da anni nell’indifferenza generale le Asl non presentano i bilanci, i caporali assoldano immigrati irregolari in piazza davanti alla caserme della forza pubblica, la DDA di Reggio Calabria apre un’inchiesta sull’omicidio di due carabinieri avvenuto 23 anni fa, e su una presunta trattativa tra lo Stato e la ’ndrangheta. Col solito corollario di servizi deviati (potevano mancare...?) e rivelazioni di pentiti. Siccome arranca il processo sulla madre di tutte le trattative Stato-mafia, quella di Palermo (inchieste giornalistiche tante, docufilm a bizzeffe, carriere politiche dei pm non ne parliamo ma condanne nessuna), ecco che si apre un filone parallelo in Calabria. Come dire, quello che esce dalla porta rientra dalla finestra. E così dobbiamo assistere a nuove perquisizioni all’ex poliziotto Bruno Contrada, riabilitato quindici giorni fa dalla Cassazione dopo essersi scontato dieci anni, e a nuove accuse contro Forza Italia. Per carità, l’omicidio è l’unico reato che non finisce in prescrizione, però a un certo punto bisognerebbe anche rassegnarsi e voltare pagina. I pm dovrebbero essere più illuminati del giornalismo e della politica complottista e guardona che li spalleggia e li imbecca. Questa la teoria. Ma nel Paese del Ruby-quater ci possiamo aspettare di tutto.

L’inchiesta di Ingroia finita nel nulla. Ci riprova Reggio Calabria, scrive il 30 luglio 2017 "Il Dubbio". L’operazione “‘ndrangheta stragista” prende le mosse da un teorema archiviato dei pm palermitani. La strategia stragista portata avanti dalla criminalità organizzata agli inizi degli anni ‘ 90 «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la ‘ ndrangheta ed altre organizzazioni criminali come la camorra e la Sacra Corona Unita trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi». Così Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, sintetizza l’operazione «’ ndrangheta stragista» che ha portato all’arresto di Giuseppe Graviano capo mandamento del rione Brancaccio di Palermo ( fedelissimo di Totò Riina e già in carcere) e Rocco Santo Filippone, considerato vicino alla clan Piromalli di Gioia Tauro: un esponente di Cosa Nostra e uno della ‘ ndrangheta, accusati di essere i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 a Scilla ( Rc). Perché, secondo Lombardo, che ha condotto le indagini insieme al sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, non fu solo la mafia siciliana a destabilizzare il Paese con le bombe nei primi anni ‘ 90: tutte le organizzazioni criminali presero parte al progetto stragista. Gli inquirenti hanno ascoltato decine di testimoni nel corso di quattro anni, determinante sarebbe stato il contributo fornito da Gaspare Spatuzza. Lombardo è il pm che da tempo conduce le inchieste più delicate e ambiziose in Riva allo Stretto, riuscendo spesso a ottenere una ribalta nazionale: da una sua indagine partì il terremoto che spazzò via la Lega di Bossi e fu sempre lui a chiedere l’arresto dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola per aver favorito la latitanza dell’ex parlamentare di Forza Italia, Amedeo Matacena. Tutte operazioni apparentemente distinte ma legate da un filo conduttore. Non è un caso, ad esempio, che nel mirino di Lombardo sia finito più volte il Carroccio. Alcune delle sue inchieste, compresa «’ ndrangheta stragista» di questi giorni, prendono spunto da una vecchia indagine finita nel nulla della Procura di Palermo: “sistemi criminali”. A condurla, negli anni Novanta, fu Antonio Ingroia. La tesi di fondo è del tutto simile a quella sostenuta da Lombardo oggi: durante il crepuscolo della Prima Repubblica, Cosa nostra, orfana di interlocutori si agita parecchio e mette a punto, insieme alle altre organizzazioni criminali, una strategia eversiva che viene interrotta solo con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Ma prima di approdare a Forza Italia, i clan, secondo la ricostruzione dei pm palermitani, prendono in considerazione l’ipotesi di un progetto politico alternativo col sostegno della Lega Nord. Sembra un paradosso, ma nei primi anni Novanta le Leghe (anche meridionaliste) spuntano come funghi ovunque. Il Carroccio all’epoca è una forza ancora marginale, quasi folkloristica, ma è già capace di cavalcare la domanda di cambiamento che viene dalla pancia del Paese. E in quegli anni le sigle autonomiste si moltiplicano al Sud: Sicilia libera, Calabria libera, Lega lucana, Abruzzo libero, Campania libera. La Procura di Palermo, che ispirerà il lavoro di di Giuseppe Lombardo, è convinta che Cosa nostra abbia sposato inizialmente il progetto di dividere il Paese in due stati, con un Sud controllato dalle mafie. Ingroia raccoglie indizi, ascolta testimoni, trae conseguenze ma non riesce a trovare riscontri e l’inchiesta si conclude con un’archiviazione. Ma il materiale accumulato contiene informazioni che oggi vengono riprese. Anche allora, il lavoro degli investigatori si concentrava sulle relazioni tra Cosa nostra e ‘ ndrangheta e sul ruolo avuto dalle organizzazioni segrete negli anni del cambiamento di potere. Oggetto dell’indagine di Ingroia: Licio Gelli, gran maestro della loggia P2. Secondo gli inquirenti, a spingere per la creazione di formazioni autonomiste nel Mezzogiorno è la massoneria, col sostegno della criminalità organizzata e di apparati deviati dei servizi di sicurezza. Tra i pentiti, è Leonardo Messina, mafioso di Caltanissetta, il collaboratore più prolifico: «Il progetto consisteva nella futura creazione di un nuovo soggetto politico, la Lega Sud o Lega Meridionale, che doveva essere una sorta di “risposta naturale” del Sud alla Lega Nord», ma che in realtà era «al servizio di Cosa Nostra». Poi la strategia cambia, è il pentito Tullio Cannella a spiegare il perché ai pm palermitani: «La posizione all’interno di Cosa Nostra era articolata. Alcuni come Bagarella erano tutti proiettati, in un primo momento, sul progetto separatista. Altri, come i Graviano e Provenzano, pur coltivando lo stesso progetto, ritenevano tutta via che si trattasse di un progetto che richiedeva tempi lunghi di attuazione», racconta Cannella agli inquirenti. «Per questo motivo, i Graviano e Provenzano, pur continuando a coltivare il progetto separatista, si impegnarono e profusero le loro energie per favorire ed appoggiare l’affermarsi di un nuovo partito politico e cioè Forza Italia». La stessa convinzione che oggi spinge il pm Giuseppe Lombardo a riaprire un’inchiesta finita nel nulla a Palermo.

LA TESI DI FONDO DEGLI INQUIRENTI: COSA NOSTRA E ‘ NDRANGHETA POSERO FINE ALLA STRATEGIA DELLA TENSIONE SOLO GRAZIE ALLA DISCESA IN CAMPO DI SILVIO BERLUSCONI

Prototipi letterari per Ingroia e Travaglio, scrive Il Foglio, 11 luglio 2017. Conservo il ritaglio di un’intervista di quando Antonio Ingroia era candidato presidente del consiglio. Parlava di disponibilità alle alleanze: “Io faccio come quel bel libro di Sciascia: Porte aperte. Le lascio aperte le mie porte in politica, così come ho fatto sempre in Procura”. Inarrivabile Ingroia. Aveva letto solo il titolo, e neppure l’aveva capito. E dire che l’editore di un suo libro di memorie si era spinto a dire, nel comunicato stampa, che “da potenziale personaggio di un’opera di Leonardo Sciascia” Ingroia era diventato “riconoscibile epigono del grande scrittore siciliano”. Dopo che la Cassazione ha disfatto la tela lungamente intessuta del processo Contrada, mi viene semmai da pensare che il flemmatico ex magistrato avrebbe potuto essere un personaggio di Vitaliano Brancati; e non il bell’Antonio, come l’onomastica suggerisce, ma uno dei giovani protagonisti degli Anni perduti, un romanzo degli anni Trenta (promemoria per Ingroia: sono appunto gli anni delle “porte aperte”). Questi tre amici s’infiammano all’idea di costruire una torre panoramica a Natàca, anagramma appena aggiustato di Catania, e l’impresa li riscuote dalla noia. Ma a cose fatte scoprono che non potranno inaugurarla, per via di un ordine del Municipio vecchio di quattordici anni, emesso cioè ben prima che si lanciassero in quel progetto grandioso: “Sotto un fascio di registri si nasconde un foglietto giallo, cinque paroline, una legge inviolabile, qualcosa che, apparendo all’ultimo momento, ci dice che il nostro lavoro è stato un errore, che noi abbiamo lavorato in una direzione vietata e sbagliata”. Ingroia ha pescato lui pure il suo foglietto giallo: tutta quella torre pericolante fatta di gradi di giudizio stratificati su cui si reggeva il suo massimo trionfo giudiziario, gliel’hanno buttata giù con un soffio, stabilendo che non aveva neppure il permesso di cominciare i lavori. Chi avrebbe potuto senza dubbio trovare una particina in un romanzo di Sciascia è invece il compagno di ombrellone di Ingroia, Marco Travaglio. Quando il direttore del Fatto era, per dirla con Arbasino-Berselli, una bella promessa (il passaggio di fase è arrivato presto), le sue apparizioni mi riportavano continuamente alla memoria una pagina del Cavaliere e la morte, il penultimo libro di Sciascia. È quella in cui entra in scena una figura imperiosa, che spicca sui cronisti assiepati nei corridoi della Questura: “Tra loro, rampante e schiumante come un purosangue capitato in una stalla di brocchi, era il Grande Giornalista. Dai suoi articoli, cui settimanalmente i moralisti di nessuna morale si abbeveravano, gli era venuta fama di duro, di implacabile; fama che molto serviva ad alzarne il prezzo, per chi si trovava nella necessità di comprare disattenzioni e silenzi”. Il Grande Giornalista è prima di tutto una postura, un rictus, che ha per fondamento la pretesa di collocarsi al di sopra dei vizi dell’umanità comune; e mantenere a lungo una posa tanto innaturale è faticoso, specie quando mille bastonate – l’affaire Raggi-Romeo, quello Woodcock-Scafarto-Lillo, lo sfacelo del processo trattativa e, buon ultimo, Contrada – ti spingerebbero ad assumere la normale curvatura degli umani, congedando l’illusione mortuaria della schiena dritta. Ma proprio in momenti come questi, chi ha puntato tutto su quella postura anchilosata e su quel rictus sarcastico non può permettersi di abbandonare l’una e l’altro, è costretto anzi a esasperarli, a difenderli come un’ultima trincea dell’identità. Così, a farla breve, Travaglio sta impazzendo. “Meno male che almeno qualcuno ce lo siamo levato dai coglioni” ha detto un paio di giorni fa parlando di Gardini, di Cagliari e dei suicidi di Mani pulite. E quanto più affila questo moralismo sadico, perfettamente amorale e fieramente abominevole, tanto più i suoi ammiratori si inchinano alla sua terroristica virtù. Ma anche qui, a ben vedere, un precedente letterario c’è: “Fomà Fomìc! Chi era costui?”. Per saperlo Travaglio dovrebbe leggere un altro romanzo di Sciascia, Candido. Non soltanto il titolo, però: ché poi magari lo scambia per un libro sul Candido di Pisanò…Il Foglio, 11 luglio 2017

Tutte quelle inchieste finite in flop sui legami tra Forza Italia e la mafia. Per le procure è stata quasi un'ossessione. Ma sono state archiviate, scrive Mariateresa Conti, Sabato 10/06/2017, su "Il Giornale". In principio fu il fascicolo 6031/94, quello in cui, criptati sotto cinque «M», erano indagati altrettanti personaggi, anche se quelli cruciali erano due: Silvio Berlusconi, appena sceso in campo nell'agone politico con Forza Italia, e Marcello Dell'Utri. La suggestione Forza Italia-mafia è un vecchio amore della procura di Palermo e soprattutto dell'ex pm Antonio Ingroia. E pazienza se poi le sentenze non lo hanno avallato, anzi al contrario l'hanno smentito. E così, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ora approda Giuseppe Graviano, nuovo indagato di «violenza a corpo politico dello Stato», il singolare reato rispolverato per istituzioni e boss alla sbarra insieme. Nuovo indagato chiave per la ricostruzione dell'accusa della trattativa. Infatti l'ex pm Ingroia, che quel processo l'ha inventato, anche se non è più in procura oggi gongola: «C'è ancora chi ha il coraggio di negare che dietro alle stragi di mafia dei primi anni '90 ci fossero anche mandanti politici? C'è ancora chi insiste con il dire che non c'è stata alcuna trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra per ragioni politiche? E, soprattutto, c'è ancora qualcuno che ha il coraggio di negare i rapporti tra Berlusconi e Graviano? Chi meglio di Graviano poteva confermare tutta la ricostruzione dell'indagine trattativa Stato-mafia e dei rapporti di Berlusconi con i boss stragisti?». Ingroia sentenzia, anche se non ha più la toga da magistrato. E dimentica che proprio su mafia e stragi le procure di Caltanissetta e di Firenze hanno indagato Berlusconi. Per due volte. E per due volte hanno archiviato. Ma questo, per l'ex pm della trattativa, poco importa. Come poco importa anche all'attuale pm della trattativa Nino Di Matteo, che in un convegno a Palermo poco più di un mese fa ha attaccato Berlusconi (e anche Renzi che trattava con lui per la legge elettorale) parlando di «patto di protezione fra l'imprenditore Berlusconi ed esponenti mafiosi, un patto andato avanti dal 1974 al 1992». Di Matteo citava la Cassazione, la sentenza di condanna di Marcello Dell'Utri. Ma chissà se aveva in mente anche le intercettazioni di Graviano, depositate al processo solo ieri. Anomalie, convinzioni, stranezze. Qualche stranezza, nell'ingresso a sorpresa di Graviano nel processo giusto all'indomani dell'assoluzione di Mori nella prova generale del processo trattativa, quello sulla mancata cattura di Provenzano nel 1995, c'è. Qualche coincidenze. Di comportamenti e di tempistica. Graviano è stato intercettato in carcere al 41 bis. Come Totò Riina nel 2013, anche lui parole in libertà spiate a sua insaputa durante l'ora d'aria. Ma davvero a sua insaputa? Riina almeno è ultraottantenne. Giuseppe Graviano invece di anni ne ha 54. E tutto è meno che uno stupido, come dimostra il suo concepimento del figlio al 41 bis. Non sapeva? O sapeva e parlava per essere ascoltato? E nei colloqui spiati dice la verità? Sembrerebbe di no dalla storia del figlio concepito in carcere. O era una balla la fecondazione assistita di cui sinora si è parlato? Già, Riina. E le strane manovre intorno a lui, dopo la sentenza della Cassazione che apre uno spiraglio alla sua uscita dalla cella. «È lucidissimo», ha detto il pm della trattativa. E infatti ha anche depositato nuove intercettazioni in carcere, in cui Riina parla male di Vito Ciancimino e lo collega a Licio Gelli. L'ex procuratore antimafia e adesso presidente del Senato Pietro Grasso due giorni fa ha lanciato l'amo: «Vuole tolto il 41 bis? Dica chi sono i mandanti delle stragi». E ha raccolto l'assist l'attuale procuratore antimafia, Franco Roberti: «Se decidesse di parlare, e se cominciasse a collaborare seriamente con la giustizia, allora si potrebbe rivedere anche la sua situazione detentiva e il suo 41bis». Il processo trattativa, a detta di tutti e anche sulla base delle sentenze parallele (l'assoluzione di Mori, quella dell'ex ministro Calogero Mannino) annaspa. E ora le strane manovre attorno ad esso si moltiplicano. Incluse le strane intercettazioni di Graviano.

"Io, Dell'Utri, Berlusconi e la Mafia". Il big di Forza Italia confessa: "Tutta la verità". L'intervista di Pietro Senaldi del 20 Settembre 2016 su “Libero Quotidiano”.

Onorevole Micciché, parliamo di Parisi?

«Parliamo di politica. Forza Italia era un malato a letto senza cure, era rimasto un progetto ideale senza struttura, senza neppure la sede nazionale. Bisognava intervenire e smuovere le acque, con qualcosa di nuovo, per questo sono un tifoso di Parisi».

Da Forza Italia lo accusano di essere Papa straniero...

«Toti definisce così Parisi. Mi viene da ridere: che cos’era Toti fino a tre anni fa? Uno straniero neppure Papa. Voglio bene a tutti gli esistenti, ma solo una figura nuova può dare la scossa. Mentre parlava nella sua convention a Milano, ho mandato a Parisi un sms esplicito: “Abbiamo bisogno di te”. Se ne rende conto anche chi non lo dice».

I giornali hanno scritto che lei, con la Gelmini, era la presenza politicamente più importante in platea...

«Mi ha fatto piacere ma è vero solo per la Gelmini. Io non sono neppure parlamentare».

Che impressione ha tratto dalla due giorni parisiana?

«Buona. Tanta gente, soprattutto bella gente. Sangue fresco, e anche qualche ritorno importante. Non i rompicoglioni che se ne erano andati perché rimasti senza poltrona ma persone di qualità. A voler muovere una critica, forse è stata un po’ noiosa. Stefano non ha la forza travolgente di Berlusconi».

C’è chi dice che sarà proprio Berlusconi a uccidere Parisi. Teme anche lei che finirà così?

«Berlusconi mi ha telefonato sabato e mi ha detto di essere molto contento della riuscita dell’evento».

È rimasto un grande punto di domanda sul programma di governo del manager, lei ha capito qualcosa?

«Berlusconi ha annunciato una conferenza programmatica con Brunetta e Romani. Credo che ne sapremo di più allora».

Ma come, il programma di Parisi lo scrive Berlusconi?

«Lo stanno studiando insieme. È più semplice di quanto sembra. Da anni si cercava un erede del Cavaliere e quando Parisi ha perso a Milano, tutti quanti abbiamo tirato un sospiro di sollievo pensando che potesse essere un’ottima risorsa a livello nazionale. È molto bravo, viene dalla politica, è un imprenditore, sa parlare. Merita una chance».

Come si riconquista l’elettorato perso?

«Cavalcare la protesta come fanno i Cinquestelle è una politica con le gambe corte e la sinistra al governo ha peggiorato le condizioni degli italiani. Abbiamo delle praterie davanti da conquistare, basta recuperare lo spirito del 1994».

Ma non è finita quella stagione?

«La due giorni di Parisi è un’importante ripartenza».

Parisi ha un problema dentro Forza Italia?

«Non credo. Alla fine Berlusconi sarà il presidente e lui l’amministratore delegato».

Ma Toti è andato a Pontida e Brunetta e Romani non erano al Megawatt a Milano. Sicuro che vada tutto bene?

«Brunetta e Romani staranno sempre con Berlusconi. Toti va a Pontida perché ha un rapporto forte con la Lega e punta molto all’asse dei governatori del Nord con Maroni e Zaia. Cerca di far quadrare i suoi conti ma non è incompatibile con Parisi. Il guaio di Forza Italia è che molti preferiscono essere armatori di una zattera alla deriva piuttosto che mozzi di una nave da guerra».

Salvini però si definisce incompatibile...

«Lui non può decidere cosa vuole in casa nostra, altrimenti io mi metto a dire che preferisco Maroni a lui. Anche Bossi ha dato cento volte del fascista a Fini, poi da statista, benché in canottiera, ha sempre cercato l’accordo politico. La struttura dell’alleanza del centrodestra non è variabile: Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. E se a Salvini non va bene, significa che andremo da soli».

Non ha citato Ncd: una dimenticanza?

«Credo che Ncd sia perso alla causa».

Per il centrodestra o come partito?

«Entrambe le cose. Con Alfano ci sentivamo spessissimo, lo proposi io come presidente della Regione Sicilia. Ancora fino a poche settimane fa ero io il tramite tra lui e Berlusconi, che mi chiedeva di tenerlo in qualche modo agganciato. Poi Angelino, in concomitanza con le notizie uscite sui giornali sugli affari di suo fratello, non si è fatto più sentire. Immagino che si sia legato a Renzi definitivamente. Forse fonderà una corrente del Pd. Credo che ormai Alfano, e Casini, siano diventati consapevoli della loro incapacità a fondare e rappresentare il centro».

E i suoi elettori, peraltro concentrati in gran parte in Sicilia?

«Con un senatore siciliano di Ncd abbiamo fatto un esperimento: abbiamo chiamato a uno a uno gli uomini del partito chiedendo se sarebbero rimasti anche se Ncd fosse andato a sinistra. Il 70% ha risposto di no. E se in Sicilia sono il 70%, figurarsi altrove, solo il 10% sosterrebbe alle elezioni un Angelino renziano».

Lei si candiderà presidente della Regione Sicilia, il prossimo autunno?

«No, io mi candiderò a consigliere regionale, decideranno gli elettori. Voglio verificare il mio stato di rottamazione. Ho 62 anni, sono qui a Milano oltre che per Parisi perché sono appena diventato nonno, di Anita, e nel mio curriculum ormai non ho più spazio. Ho fatto il deputato, il viceministro, il ministro, il sottosegretario di Stato, il presidente dell’Assemblea Regionale. Mi ricandido in Sicilia solo perché chi governerà l’Italia nel 2018 dipende da come andranno le elezioni del 2017 in Sicilia».

Non è una visione un po’ campanilista, seppure illustrata dall’uomo del 61-0, il miracolo delle Politiche del 2001?

«No, è un calcolo. Dodici assessori regionali siciliani del centrodestra valgono almeno 400mila voti. Tutte le ultime elezioni Politiche sono state vinte con uno scarto inferiore».

Però in Sicilia vincerà Grillo...

«Cinquestelle non ha mai vinto quando si votava a turno unico. Raggiungerà il 27%. La sinistra non esiste, è sotto il 10. Noi, se uniti, possiamo arrivare al 35%».

Senza Alfano?

«Le porte ad Alfano io le tengo aperte, ma si vota troppo a ridosso delle Politiche, è difficile che Ncd possa replicare la strategia di Milano, dove ha sostenuto il centrodestra. A meno che Renzi non sia così lucido da suggerire ad Alfano di sostenerci in chiave anti-grillina».

E senza Salvini? 

«La Lega in Sicilia conta poco. Non basta mettersi una felpa con la scritta “Palermo” per ingannare gli elettori; sui muri siciliani non è infrequente imbattersi in scritte tipo “Salvini boia”. Noi siamo la regione più moderata d’Italia, la Dc era al 50%, i toni di Salvini sono troppo forti, i moderati sono tali anche perché sono gente educata. Non si può dare del traditore alla salma di Ciampi, la critica va bene, l’insulto no».

Adesso Salvini dice che vuol rottamare il movimento Noi con Salvini e fare un nuovo soggetto, magari con un nuovo capo...

«Beh, con Noi con Salvini un minimo di voti li poteva pescare. Con il simbolo della Lega sarebbe impossibile. Il nuovo movimento può essere un’idea, un contenitore è troppo poco per racchiudere tutto il centrodestra, si riempie troppo in fretta. Per questo noi stiamo anche con la destra di Nello Musumeci, dove hanno trovato riparo tutti i vedovi siciliani di Fini».

Con Fini lei provò il dialogo, nel 2009 fondando una costola siciliana del Pdl...

«Il progetto fallì perché Fini si staccò da Berlusconi mentre gli elettori stavano ancora con Silvio. A Fini l’ha fregato Napolitano, facendogli balenare in testa chissà che cosa se avesse mollato il Cavaliere. Gianfranco non si rese conto di essere usato dal Quirinale e spaccò a sinistra, ma con una tradizione e uomini che arrivavano e prendevano voti a destra. Un suicidio».

Fu lui a far cadere Berlusconi?

«Fu l’Europa. L’Europa ha fatto più danni a Berlusconi della sinistra. Nel 2011, siccome Berlusconi dialogava con Putin e si ribellava ai diktat europei sulle banche, tramò per destituirlo. Ma anche prima provò a fermarlo. Mi tocca dare ragione a Martino, che già nel ’93 era contro l’Europa, ma allora era solo e sostenere posizioni antieuropeiste significava perdere voti».

In che modo l’Europa avrebbe danneggiato Berlusconi?

«Se non abbiamo abbassato le tasse al 33% e rilanciato il Paese è perché, fin dal 2004 l’Europa si è sempre opposta. Il taglio delle tasse è un progetto a lunga scadenza, porta benefici dopo un paio d’anni, ma se nel frattempo l’Unione ti costringe ad abbassare il debito pubblico non puoi perseguirlo. L’Europa non ci ha mai dato aperture di credito sulla politica fiscale, così ci siamo dovuti accontentare di tagliare le tasse sulla casa, contenere quelle sull’eredità, accontentare alcune categorie come i taxisti. Oggi mi sono convinto che è la Ue il vero nemico dell’Italia, è l’Europa ad averci cambiato la vita in peggio, in questo do molta ragione a Salvini, anche se gli critico la deriva lepenista».

Sembra essersene convinto anche Renzi ultimamente...

«Renzi la attacca perché non gli consentono di derogare al patto di stabilità, ma fino a ieri è stato il più supino di tutti con l’Europa».

Più di Monti?

«No, Monti era addirittura complice. La verità è che l’Unione non ha una forza politica propria, quindi comanda il più forte, quindi la Germania, che persegue solo i propri interessi. Ma la miopia della politica della Merkel è dimostrata dal fatto che oggi gli stessi tedeschi, nonostante tutti i favori e i privilegi che lei ha garantito alla Germania, si preparano a mandarla a casa. Sarà la vittima più illustre del fallimento del progetto Ue che ha sabotato».

Perché l’Italia non è mai riuscita a farsi valere in Europa?

«Perché nelle Commissioni Ue abbiamo politici inadeguati. L’unico capace di imporsi in Europa è stato Tremonti, quando era ministro dell’Economia. L’Italia è tra i sei Paesi che hanno potere di veto e Giulio, che amo definire “uno stronzo raffinato”, con la sua “r” moscia sapeva quando esercitarlo. Era bravissimo e ascoltava anche le esigenze del Sud. Quelli di oggi invece... La Ue ci ha appena rifilato due mazzate che ci costeranno miliardi e ammazzeranno la Sicilia».

A cosa si riferisce?

«Ha tolto i dazi sulle arance, come denunciato da Libero tre giorni fa, e ha vietato la pesca del tonno. Poi ha allargato le maglie delle reti da pesca, così che il pesce scappa da quelle dei nostri pescatori per finire in quelle dei tunisini, che sono più strette. Risultato: al mercato di Palermo c’è lo stesso pesce di prima, solo che adesso arriva dalla Tunisia anziché da Mazara del Vallo».

Renzi è un rivale per lei, ma le piace almeno un po’?

«Era partito con idee giuste, quasi liberali, specie sulle tasse. Puntava sul Nazareno, poi però sta a sinistra e la struttura del partito l’ha condizionato, gli ha impedito di essere un premier innovatore».

Cosa voterà al referendum sulla riforma della Costituzione?

«Che domanda inutile».

Cambiamo spartito: cosa pensa di Dell’Utri in carcere?

«È un dolore infinito. Dell’Utri non è un mafioso. Aveva solo qualche conoscenza negativa, ma negli anni Settanta in Sicilia tutto era mafia».

La mafia a quei tempi ricattava, minacciava, ammazzava chi non si piegava, bisognava trattare...

«Io ero un venditore di Publitalia, e quindi ero completamente fuori dal discorso. Ma a quel tempo tutti gli imprenditori in Sicilia dovevano venire a patti con la mafia, altrimenti non avrebbero potuto lavorare. Se un negoziante paga il pizzo è colpevole lui o lo Stato che non riesce a difenderlo? Dell’Utri ha risolto a Berlusconi qualche problema in Sicilia? Vi ricordo che ai tempi dello sbarco in Sicilia, al tavolo dell’Armistizio di Cassibile con gli americani e lo Stato italiano c’erano anche la Chiesa e la mafia».

Il presidente Mattarella potrebbe graziarlo?

«Sarebbe giusto, e i siciliani capirebbero. Ma sinceramente non credo che Mattarella avrà mai questo coraggio. Tra due anni Marcello uscirà, auguro allo Stato di scampare alla vergogna di farlo morire in carcere».

Quindi lei è a favore della trattativa Stato-mafia?

«Questo Paese è una barzelletta. Quando si è in guerra, si tratta, la mafia è stata battuta, e questo dimostra che lo Stato ha fatto bene a trattare».

Chi ha sconfitto la mafia?

«Si è sconfitta da sola, quando ha ucciso Falcone e Borsellino, perché ha costretto lo Stato a reagire. Ma era già una mafia perdente, vittima di sanguinose guerre intestine. In realtà la mafia ha cominciato a perdere con la caduta del Muro di Berlino».

Questa me la spieghi bene...

«L’ho scoperto quando ero a Scotland Yard per la Commissione Antimafia. La caduta del muro ha raddoppiato il mercato europeo della cocaina e dell’eroina e la Sicilia non è più stata geograficamente strategica. I boss sudamericani del narcotraffico hanno mollato Cosa nostra per puntare sulla mafia georgiana, e in qualche mese quella siciliana ha perso un giro d’affari da ventimila miliardi l’anno. La mafia si è impoverita di colpo, non ha più potuto pagare e lì è nato il fenomeno del pentitismo, colpo di genio di Violante e Buscetta: è Buscetta che ha distrutto la mafia».

Facendo i nomi?

«Non solo. Al maxi processo parlava nascosto da un paravento. A un certo punto, come in un film, l’ha scostato e si è fatto vedere. È stato il segnale: potete parlare, la mafia non vi farà nulla. Anzi, vi conviene perché oggi lo Stato vi garantisce per parlare quello che la mafia un tempo vi garantiva per stare zitti: protezione, una nuova vita, soldi, una casa. Addirittura una crociera. Si ricorda le foto di Buscetta a torso nudo sul ponte della nave nell’estate del ’99? Tutto studiato mediaticamente. Devo riconoscere che nella lotta alla mafia la magistratura palermitana è stata strepitosa».

Non sempre direi...

«Certo, solo all’inizio. Poi è subentrato il pentitismo di Stato, quando i pm volevano far dire ai pentiti quello che avevano in testa loro e non solo la verità. Un gruppo di magistrati che si erano montati la testa. Hanno inquisito il numero uno della Dc siciliana, Calogero Mannino e il presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, poi assolti. Anche l’onorevole Gaspare Giudice, che si ammalò di cancro a causa del processo, l’ha certificato il suo medico, ed è stato assolto un mese prima di morire, altrimenti sarebbe morto con il sospetto».

L’ex governatore Cuffaro però è stato condannato...

«Ma anche lui non è un mafioso, ha solo incontrato dei mafiosi, che ai suoi tempi in Sicilia era cosa all’ordine del giorno. È stato un periodo terribile, la magistratura era impazzita. Si ricorda di Ingroia? Ha inquisito tutti, la sua fama era arrivata perfino in Giappone dove ce lo invidiavano, mi ha confidato un giorno la Cancellieri, poi si è candidato in politica. E gli elettori l’hanno meritatamente punito. Vuole sapere come ho fatto io a fare politica in Sicilia per oltre vent’anni senza subire neppure un processo?».

Francamente sì, ci terrei molto: come ha fatto?

«Perché non ho mai voluto neppure incontrare nessuno. Avevo 4-5 persone che mi dicevano chiaramente i luoghi e gli appuntamenti da evitare e mi suggerivano di scendere dal palco quando ci saliva qualcun altro. Un autentico schermo protettivo che mi isolava da tutto. Ovviamente, questo l’ho pagato in termini di consenso, ma ne è valsa la pena».

Oggi la mafia in Sicilia è ancora pericolosa?

«Penso che sia molto più pericolosa altrove, oggi».

In Campania e in Calabria?

«In Lombardia».

COMMEMORAZIONI ANTIMAFIA. RETORICA ED IPOCRISIA.

In un mondo dove sono tutti ciottiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti. La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

Giudici, un italiano su due non si fida. Dati ribaltati rispetto a Mani Pulite. Nel ‘94, secondo l’Ispo, la fiducia nei confronti dei magistrati arriva a toccare il 70 per cento. Venticinque anni dopo la realtà è capovolta: secondo il sondaggio Swg, il 69 per cento degli italiani pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici», scrive Goffredo Buccini il 21 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse la caduta comincia con un colpo di teatro: la mossa a effetto con cui Antonio Di Pietro, il 6 dicembre 1994, si sfila la toga dopo la requisitoria Enimont, iniziando un’inarrestabile marcia d’avvicinamento alla politica. Nei due anni precedenti il pm simbolo di Mani Pulite arriva, secondo la Doxa, a guadagnarsi la fiducia dell’83 per cento degli italiani. E ancora quell’anno, il ’94, sette italiani su dieci, secondo l’Ispo, si fidano dei magistrati, convinti che non abbiano fini politici. La realtà che un quarto di secolo dopo fotografa l’ultimo sondaggio Swg (fra il 13 e il 15 marzo, su un campione di 1.500 cittadini) è assai diversa. Due italiani su tre non credono nel sistema giudiziario, uno su due ha poca o nessuna fiducia nei giudici. E, soprattutto, la stragrande maggioranza (il 69 per cento, percentuale quasi identica ma rovesciata rispetto al ’94) pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici». Il 72 per cento trova «inopportuno» che un magistrato si candidi e il 62 per cento è contrario alle «porte girevoli», ovvero al rientro nei ranghi togati dopo un mandato elettorale. Mondi distanti. Il sondaggio, commissionato dall’associazione «Fino a prova contraria», è stato presentato ieri con l’introduzione dell’ex ministro Paola Severino e l’intervento di Giovanni Legnini. Il vicepresidente del Csm da sempre teorizza distanza tra i due mondi: per evitare «sia in fase di accesso che di reingresso che l’indipendenza della magistratura possa essere messa in discussione dalla militanza a qualunque titolo», spiegò nell’illustrare la stretta in materia del plenum del Csm più d’un anno fa. Naturalmente non c’è solo questo nel grande freddo che pare calato tra gli italiani e i loro giudici. Come è improprio imputarlo al cambio di casacca — da arbitro a giocatore — di un singolo, si chiami pure Di Pietro. Ma la percezione muta. E non pare possa attribuirsi a una svolta garantista dell’opinione pubblica se l’80 per cento continua, sia pur con diversi gradi di convinzione, a ritenere utile la carcerazione preventiva e il 74 per cento invoca mano libera per i magistrati nelle intercettazioni (uno su due è però contrario a pubblicarle sui giornali).

Dubbi sul processo. La sfiducia sta, insomma, nell’istituzione, non più percepita come «altro» dalla politica. S’annida tra infelici esperienze quotidiane e distorsioni mediatiche. Quei sei italiani su dieci con poca o nessuna fiducia nel sistema si lagnano soprattutto dell’iter processuale: insomma di quel meccanismo farraginoso che, specie nel campo del civile, trasforma in una vera lotteria ogni causa. Ne deriva, fortissima, l’esigenza di una riforma del sistema, urgente per il 43, importante per il 41 per cento. Quasi sette su dieci invocano un «cambio radicale», a rammentarci pure quanto la riforma Vassalli del 1989 abbia lasciato, in fondo, a metà del guado il processo penale con rito accusatorio: un processo di parti, dunque, in cui il pm resta tuttavia ben al di sopra delle altre parti. Lo scoppio di Tangentopoli, tre anni dopo, non è forse del tutto estraneo a quest’impasse.

È un Paese sconcertato. Dai troppi epigoni di Di Pietro, forse, e certo dalle tante invasioni di campo: come si coglie nei sondaggi degli ultimi vent’anni, con la fiducia nei magistrati che cala a picco tra gli elettori del centrodestra per effetto dei processi a Berlusconi, flette poi tra i supporter dell’Unione di Prodi quando i pm si concentrano sul fronte progressista, torna a salire nel centrosinistra tra il 2009 e il 2010, coi berlusconiani di nuovo al governo e nel mirino.

Pm come goleador. Questo moto pendolare del consenso, da uno schieramento all’altro, disegna l’incrinarsi di un rapporto. Ora gli italiani non si fidano ma tifano, si sceglie un pm come un goleador della propria squadra. Il tempo del consenso bipartisan è passato, il patrimonio di credibilità che accompagnò i pm di Milano nella primavera del ’92 è dissipato per sempre. E la campana suona anche per noi giornalisti. Quasi un italiano su due ci chiede «più cautela» nel rivelare notizie riguardo persone sulle quali le indagini non sono ancora concluse. Il 48 per cento vorrebbe che se ne «valutassero le conseguenze». Una massima pericolosa se si fa filtro di convenienza politica, ineccepibile se diventa garanzia di umanità.

 Scritte contro don Luigi Ciotti e le forze dell'ordine sono comparse questa mattina 19 marzo 2017 sul muro della sede del Vescovado di Locri, dove in questi giorni è in corso la manifestazione nazionale della memoria e dell'impegno, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Libera. Le scritte, "Più lavoro meno sbirri" e "don Ciotti sbirro", sono state cancellate.

La taglia contro i nemici di don Ciotti, scrive Simona Musco il 2 Aprile 2017 su "Il Dubbio". A Locri il sindaco-sceriffo offre una ricompensa per chi contribuirà ad identificare chi, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, ha imbrattato i muri della città con le scritte contro don Ciotti. Un sindaco sceriffo contro le scritte sui muri di Locri. Giovanni Calabrese, già noto per scritto una lettera a Gesù bambino contro i fannulloni, questa volta ha cambiato registro, offrendo una ricompensa per chi contribuirà ad identificare chi, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, ha imbrattato i muri della città con le scritte contro don Ciotti. Sul suo profilo Facebook, giovedì, è apparso un volantino con la scritta “wanted”, montata su un fotogramma estratto da una delle telecamere esterne al centro di aggregazione. La foto inquadra un ragazzo di circa 170 centimetri, felpa bianca, mancino, che in 15 secondi ha disegnato sul muro una delle scritte incriminate: “Don Ciotti sbirro e più sbirro il sindaco”. Una frase che in molti, con faciloneria, hanno attribuito alla ‘ ndrangheta, che mollate le pistole avrebbe deciso di armarsi di spray nero per “terrorizzare” la città con scritte irriverenti alla vigilia della giornata in memoria delle vittime innocenti delle mafie. «Ecco l’immagine del balordo che arrivato in piazza De Gasperi a bordo di un’Opel Corsa guidata da altro idiota, ha lasciato traccia della propria viltà esponendo l’intera città ad una pessima figura a livello nazionale. Si offre lauta ricompensa a chi fornirà dettagliate notizie utili per poterli individuare». Il volantino richiama il Far West, teatro di scontri tra bande, trasformandosi in etichetta, la stessa che più volte Calabrese ha rifiutato, quando il nome della sua città è stato utilizzato dai media come sinonimo di ‘ ndrangheta. «Una provocazione», dice Calabrese, che ha suscitato le ire di Antonio Guerrieri, referente locale di Sinistra Italiana. «Viene lanciato il messaggio che il vivere civile o meglio che il dovere civico e morale abbiano un prezzo – ha evidenziato -. È così che il nostro sindaco sceriffo si sostituisce a forze dell’ordine e alla coscienza civica».

Le scritte di Locri, l’ennesimo urlo di disperazione che arriva dalle viscere della Calabria e lo Stato non capisce. A Locri si mobilita il mondo dell’antimafia, ma che imbarazzo su quelle scritte: le voci di Gratteri e Sgarbi una piccola luce nel deserto dell’omologazione, scrive il 21 marzo 2017 Peppe Caridi su "Stretto web". Mentre a Locri va in scena l’ennesima buffonata dell’antimafia di facciata, con Sindaci, Governatori e potentati vari in sfilata in nome di quelle vittime della mafia che in queste ore si rivoltano nelle loro tombe, la Calabria e in modo particolare la locride sono tornate sulle prime pagine dei mass media nazionali, dai giornali alle TV, per quella che viene erroneamente dipinta come l’ennesima brutta storia di ‘ndrangheta. Ci riferiamo, ovviamente, alle scritte apparse ieri nei muri degradati della cittadina reggina dopo la visita del presidente Mattarella, su tutte “Don Ciotti sbirro” e “Più lavoro meno sbirri”. Un turbinio di polemiche e una levata di scudi generale, a partire dalle istituzioni reggine e calabresi con in primis il Sindaco di Locri Giovanni Calabrese, il Sindaco della Città Metropolitana Giuseppe Falcomatà e il Presidente della Regione Mario Oliverio, che hanno condannato il gesto dandogli chissà quale importanza. In realtà si è trattato dell’ennesimo urlo di disperazione che arriva dalle viscere di questa terra sventurata, e che lo Stato (a partire dalle sue propaggini territoriali) non riesce a capire. La mafia e la ‘ndrangheta, stavolta, non c’entrano proprio niente. Perché la ‘ndrangheta nel 2017 non scrive sui muri: fa affari, siede nelle stanze dei palazzi più pregiati (a partire da Roma e Milano, e giù di lì fino a Reggio Calabria e Provincia), gestisce business miliardari e non si preoccupa certo di andare a imbrattare i muri di Locri offendendo forze dell’ordine e paladini antimafia attirando tutte queste attenzioni.

Molto chiare le parole del procuratore Nicola Gratteri: “non è certo stata la ‘ndrangheta a ordinare quelle scritte, sarebbe stato un autogol. La ‘ndrangheta non reagisce mai quando ci sono i riflettori accesi, e ieri c’erano 50 telecamere, gli inviati di importanti giornali nazionali. No, gli ‘ndranghetisti non sono degli stolti”. Gratteri ha anche sottolineato che le parole dette a Locri in questi giorni di manifestazioni sono “le stesse che si ripetono da decenni”, e tornando sulle scritte ha aggiunto: “non sono state fatte su ordine della ‘ndrangheta doc, quella che conosco io da 30 anni, le famiglie più importanti e più impegnate nel traffico di cocaina e nel riciclaggio. Non mi pare che queste siano così sciocche da mandare qualcuno a scrivere sui muri, la ‘ndrangheta doc si è sempre inabissata, ha cercato di intrufolarsi nel sistema legale con i suoi uomini, inserendoli nel circuito dell’antimafia, come Cosa nostra fa da decenni. La ‘ndrangheta non è come la camorra che spara per qualche bustina di droga”.

E allora cosa sono quelle scritte, da cosa provengono e cosa significano? Basta guardare la foto accanto per accorgersi che le scritte sono forse la cosa meno degradata dell’immagine: il marciapiede a pezzi, il muro sbucciato. E’ un’immagine di degrado, povertà e miseria che testimonia meglio di ogni parola le attuali condizioni della Calabria, dove la gente soffre e non ha lavoro. A Reggio Calabria stanno chiudendo l’Aeroporto, letteralmente svenduto da una classe politica imbarazzante: fino a tre anni fa viaggiava stabilmente sui 600.000 passeggeri annui, era collegato con le principali città italiane ed europee. Poi sono arrivati Falcomatà e Oliverio, e in tre anni prima hanno chiuso le porte ad Alitalia, poi hanno fatto fallire la Sogas e adesso la principale città della Regione rimane isolata dal resto del Paese e del mondo. Tra 4 giorni Alitalia smetterà di volare sul “Tito Minniti” e tra poco più di due mesi anche l’ultima compagnia, Blu-express, abbandonerà lo scalo. Falcomatà ha promesso di dimettersi, è stato a Roma per una riunione snobbata persino dal Ministro del “governo amico” Delrio, e non ha ottenuto neanche le briciole.

E in questa Regione ogni anno vengono sequestrate, con accuse di presunta mafiosità, migliaia di aziende, attività commerciali e turistiche che poi si rivelano totalmente estranee ad ogni attività criminosa. Ma intanto la gente perde il lavoro. Sempre Reggio Calabria è stato il primo comune capoluogo di provincia sciolto per presunzione di infiltrazioni della ‘ndrangheta, mai dimostrate. E i reggini non sono cretini: hanno scoperto il grande inganno quando, nei giorni degli arresti dell’inchiesta “Roma Capitale” che scoperchiava la cupola di corruzione e malavita infiltrata ai massimi livelli del Campidoglio, l’allora premier Renzi difendeva il compagno di partito (allora Sindaco) Marino spiegando candidamente a Bruno Vespa, durante una trasmissione di Porta a Porta, che “lo scioglimento dei comuni è una scelta politica, quindi non scioglieremo il comune di Roma”. Le scelte politiche che hanno affossato la Calabria, nei decenni e negli anni più recenti, dallo scioglimento di Palazzo San Giorgio alla chiusura dell’Aeroporto dello Stretto passando per le dimissioni dell’ex governatore Scopelliti, unico caso nella storia calabrese di Presidente dimissionario per la legge Severino a cui invece De Magistris e De Luca sono riusciti a scampare grazie ad appositi cavilli normativi, sono le scelte che hanno privato questa terra di libertà e democrazia, alimentando povertà, malessere e degrado. Quelle scritte sono l’ennesimo urlo di disperazione di una terra di disperati a cui lo Stato oggi chiede soltanto di accogliere migliaia di altri disperati provenienti dal nord Africa senza fornire alcun tipo di supporto non solo per l’accoglienza, ma neanche per la sopravvivenza. Uno Stato sordo a questo drammatico urlo di disperazione che arriva dalla gente e che le istituzioni non riescono a capire. Che poi nessuno ha scritto che la mafia porta lavoro, si chiede soltanto che lo Stato faccia quello che deve fare per creare le condizioni di sviluppo e occupazione, anziché imporre una repressione massiccia che non porta a nulla. Sull’antimafia di professione, poi, è meglio stendere un velo pietoso: dopo i recenti fatti di cronaca giudiziaria, è normalissimo che da queste parti la gente perbene non si fidi dei professionisti dell’antimafia tanto quanto tiene le distanze da boss e affiliati ai clan. Creare lavoro e benessere è, inoltre, l’unico modo per sconfiggere la mafia. E’ l’unica cosa che temono i boss. E quanto lavoro (e soprattutto sviluppo) avrebbe portato il Ponte sullo Stretto? Ma abbiamo preferito dire di “no”…

L’aspetto che fa più specie in tutta questa storia, è che l’appiattimento generale non riguarda solo i grandi mass-media e le TV. In Calabria nessuno dice le cose come stanno. L’unica mente brillante che ha avuto il coraggio di esporsi è stato quel genio di Vittorio Sgarbi, che la scorsa notte nella trasmissione di Maurizio Mannoni “TG3 Linea Notte”, è stato come sempre chiaro e puntuale. (Qui il video, l’intervento di Sgarbi sul tema a partire dal minuto 25). Riportiamo alcuni stralci dell’intervento di Sgarbi, che può servire soltanto ad aprire gli occhi su mafia, antimafia e le scritte di Locri: “credo che quelle scritte corrispondano ad una verità profonda, completamente opposta alla lettura che tutti stanno dando. Un’azione di repressione che agisce contro le persone oneste e non contro i criminali, è peggio della mafia. L’antimafia, in molte sue manifestazioni, è una cricca pericolosa di gente che si sostiene in nome di una battaglia che non fa più. Sciogliere i comuni per mafia non è coraggio, è viltà. Questa frase vuol dire: “perchè ci mandate tanti carabinieri e uomini di polizia come se fossimo tutti delinquenti, e non ci date invece il lavoro?”. Il presidente della Repubblica non può dare soltanto delle soluzioni che siano così ireniche, e dice che bisogna combattere la mafia. E certo, bisogna combattere la mafia, ma dove c’è. Invece lì i magistrati e i prefetti fanno carriera combattendo una mafia che non c’è, soprattutto i prefetti che vanno a commissariare i comuni prendendo diecimila euro ciascuno, con tre commissari prefettizi in ogni comune commissariato, al posto dell’amministrazione eletta dalla gente e che viene sciolta. Allora qui probabilmente scioglimenti, mancanza di lavoro, inducono non mafiosi, ma persone che rivendicano qualcosa, in maniera simile a quella dei tanto lodati che hanno attaccato Salvini, che siccome è Salvini quello va attaccato, facendo una gazzarra immonda a Napoli con il sostegno di un sindaco indegno di fare il sindaco, ex magistrato, che li sosteneva, ed Emiliano con lui…” “Quindi – prosegue Sgarbi – dobbiamo guardare le cose come sono, altrimenti qui avremo mille persone contro quella scritta, e nessuno a dire che quella scritta risponde a un problema vero, non c’è lavoro. Ed è lo Stato che deve darlo, quel lavoro! Invece lo Stato è la vera mafia! C’è solo una repressione rispetto a realtà mafiose presunte. Quella frase è una burla, una presa in giro, come è una presa in giro quello che lo Stato non fa per il meridione, e quando fa, scioglie i comuni in cui non c’è nulla … Chi ha fatto quella scritta è un cretino che ha detto una mezza verità, voi celebrate l’antimafia di fronte a gente che non lavora. Era andato Mattarella pochi giorni prima e non aveva garantito niente. Chi sono questi magistrati poi alla fine? Sono tutti santi? Ricordate Ingroia? Com’era lodato Ingroia? E non è quello che adesso ha fatto peculato? E Don Ciotti è l’unico santo? E il giudice Saguto, che utilizzava in modo scorretto i soldi di società sequestrate alla mafia? Ci sono dei casi talmente inquietanti che io non me la prenderei con una scritta come questa, è uno sfogo e non farei troppa gazzarra a dire che è una cosa di mafiosi, perchè la vera mafia non la combatte nessuno. La vera mafia è nelle pale eoliche, nel fotovoltaico, nell’orrore contro il paesaggio, e non la combatte nessuno”. Nel suo intervento televisivo, Sgarbi aggiungeva ancora: “Facciamo le riunioni per combattere la mafia e diciamo a parole di combatterla, ma poi nessuno va dove la mafia c’è. Cacciano i Sindaci che poi si scopre che non erano mafiosi ma vengono cacciati come tali, indagano le persone per mafia e poi non lo sono. Perché consentono di distruggere l’ambiente mettendo pale eoliche ovunque? Questi magistrati combattano la mafia davvero dov’è, non in astratto. Saviano è diventato miliardario con la camorra, ne ha avuto solo vantaggi. Ha avuto una scorta retorica, fatta apposta per creare la mitologia di un personaggio che diventa miliardario con la camorra, Vittorio Pisani della squadra mobile ha detto che non c’era alcuna necessità di quella scorta. Allora io dico, questi che non diventano miliardari e non diventano niente e sono poveracci, possono almeno protestare con una riga su un muro? O devono dire siamo d’accordo con Mattarella? E’ troppo facile solidarizzare con Don Ciotti, io solidarizzo con i cittadini calabresi che non hanno lavoro a Locri, e sono trattati tutti come mafiosi. Perché se tu nasci a Reggio Calabria ti accusano di essere mafioso, se nasci a Reggio Emilia non ti capita. E io sto parlando proprio di quest’azione di presunta mafiosità: don Ciotti stabilisce un grande fumo in cui tutto si dice, meno che risolvere i problemi di quei cittadini che hanno diritto di protestare. Possono scrivere stronzate, ma non sono mafiosi. Me la tirino fuori la mafia, la cerchino. Vedremo quando li prenderanno questi delle scritte, che sono stati immortalati dalle telecamere di videosorveglianza, che gran mafiosi che erano. Vadano a cacciare quelli che prendono un miliardo e seicento milioni di euro per far fare le pale eoliche in Sicilia. Come mai non le fanno in Umbria? Perché non ci sono in Toscana? Perché le fanno solo laggiù? Improvvisamente soltanto la Calabria e la Sicilia hanno bisogno dell’energia pulita?  E’ l’unica azione vera della mafia. I magistrati se ne sono accorti aprendo alcune inchieste 15 anni dopo di me. Brandi diceva che la strada più bella del mondo è quella che va da Palermo a Mozia, oggi lì ci sono 850 pale eoliche, la metà ferme, e non si è mosso nessuno di questi che gridano contro la mafia. Facessero azioni contro la mafia combattendola lì dove c’è, non con la mitologia di Matteo Messina Denaro che è colpevole di tutto. Lì la mancanza di lavoro è colpa di uno Stato che non fa nulla, e i cittadini protestano. E hanno ragione. Perché non dovrebbero protestare? Mattarella va lì, fa la solita cerimonia e non risolve nulla. Respingono uno Stato che non c’è. Se uno non ha lavoro a Locri e oltretutto viene chiamato mafioso, c’è una doppia ingiuria, di non cercare di far nulla affinché possa lavorare, e di non fare nulla per impedire che venga indagato essendo innocente. Quando tu hai un’indagine in cui vengono indagate 800 persone, e poi si scopre che 600 non erano mafiosi, qualcuno dovrà pur pentirsi di aver fatto quell’azione per colpire nel mucchio. Lì ci sono magistrati che vogliono fare i fenomeni”.

La lotta alla mafia e la retorica, scrive Piero Sansonetti il 21 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Lo Stato, da molti anni, per affrontare la criminalità organizzata conosce solo l’opzione militare. E affida la direzione delle operazioni non alla politica ma alla Procura. Sui muri dell’arcivescovado di Locri, l’altra notte, sono state tracciate delle scritte che hanno suscitato una grande indignazione. Una di queste era contro don Ciotti, il fondatore di Libera, e cioè della principale associazione anti- mafia che opera in Italia. La scritta diceva: “don Ciotti sbirro”. La seconda scritta era più generica, ma anche più politica. Diceva: “meno sbirri più lavoro”. Quando l’antimafia condanna chi combatte la mafia. Non sono due scritte uguali, anche se è uguale lo sdegno che hanno provocato sui grandi giornali e nel palazzo romano. La prima è un semplice insulto a un sacerdote molto impegnato sul fronte della lotta alla mafia. La seconda, con termini molto rozzi, esprime un concetto non del tutto insensato. E cioè l’idea che per riscattare il Sud, e in particolare la Calabria – che è il sud del sud – e ancora più in particolare la Locride – che è il Sud della Calabria – lo Stato non debba presentarsi con le manette ma con una offerta economica e sociale. Innanzitutto il lavoro, che manca, e mancando crea miseria, emigrazione, rabbia. E poi la sanità, la scuola, il welfare. Invece lo Stato, da molti anni, per affrontare la mafia conosce solo l’opzione militare. E affida la direzione delle operazioni non alla politica ma alla Procura. Non è un delitto dire queste cose. Anche se pochissimi le dicono, e se le dici molti ti accusano di corrività con la ‘ ndrangheta. È probabile che le scritte sul muro della Chiesa le abbia scarabocchiate qualche picciotto di mafia. E questo giustifica lo scatto contro la ‘ndrangheta, ma non la retorica vuota, le belle e inutili e spesso molto ipocrite parole. Don Ciotti e Mattarella erano stati accolti, in Calabria, da una lettera – che giovedì scorso abbiamo pubblicato sulla prima pagina del nostro giornale – scritta da Piero Schirripa e da Natale Bianchi. Tra poche righe vi diciamo chi sono Piero e Natale. Prima volgiamo dirvi che quella lettera era molto polemica con Ciotti. Ne ricopio un brano: «Caro Ciotti, noi ti accusiamo fraternamente di aver sbagliato (…) Tu, politicamente, ci hai fatto massacrare dalle persecuzioni giudiziarie e dal disdoro dei pettegolezzi. Tu, politicamente, stavi con i potenti: con la Procura e la Prefettura. Hai scelto, come altri, ciò che ti è convenuto. Noi, che pure non eravamo contro le istituzioni, ma volevamo conquistare un’altra Calabria, siamo stati puniti per questo, e messi alla gogna». Chi sono Piero Schirripa e Natale Bianchi? Piero è un medico, lo ho conosciuto da giovane perché militavamo insieme nella sezione universitaria del Pci. Laureatosi, alla fine degli anni settanta, è sceso nella Locride, cioè la sua terra, e ha dato vita a varie cooperative, che servivano a creare lavoro e a fornire assistenza. Negli anni 90, con l’aiuto del vescovo Bregantini, ha realizzato anche una cooperativa per aiutare gli ex detenuti e i bambini figli dei boss di mafia. Insieme a lui c’era Natale Bianchi, un ex prete, che era stato sospeso a divinis perché si era schierato per il divorzio, nel 1974. Natale è molto famoso nella Locride perché è stato l’unico prete, forse, a schierarsi a faccia aperta contro don Stilo, il prete potentissimo appoggiato dalla ‘ndrangheta e dai signori della Locride. Della lotta tra Natale e don Stilo parla a lungo Corrado Staiano, in uno dei suoi libri più famosi, “Africo”, scritto alla fine degli anni settanta. Un giorno don Stilo, di fronte a molti testimoni, esasperato dalle posizioni di don Bianchi, gli gridò sul muso: «Tu non sai chi sono io; anche le pietre mi conoscono. Se io voglio posso schiacciarti come una formica». Piero e Natale, coraggiosi nemici della mafia, negli anni novanta furono perseguitati dalla giustizia. Ma anche dalla mafia, che un paio di volte gli sparò. La Chiesa, per evitare conflitti con lo Stato, rimosse mons. Bregantini dalla Locride e lo mandò nelle Marche. Le Procure avviarono diversi processi contro Schirripa e Bianchi. Dissero – mostrando fantasia e logica ferrea – che le loro cooperative di assistenza ai figli dei mafiosi erano frequentate da molti figli di mafiosi… Non c’è niente da ridere. Per anni Piero a Natale hanno dovuto sostenere l’assalto. Dei giudici, della stampa, dell’antimafia ufficiale. Alla fine, è logico, sono stati assolti da tutte le accuse. E ora anche Mattarella, anche il governo, persino gli stessi giudici, esaltano le cooperative. Ma ormai la cooperativa di Pietro e Natale è morta, gran parte del loro lavoro, della loro vita, distrutti. L’antimafia ufficiale – anche quella rappresentata da “Libera” – non mosse un dito per difendere il medico e il prete. L’antimafia ufficiale, in Italia – non c’è bisogno di Sciascia per accertarlo – ha una idea molto autoreferenziale della lotta alla mafia. Considera se stessa l’unica struttura autorizzata, non conosce pluralismo: tutti gli altri, se vogliono occuparsi di mafia, devono chiedere il permesso, e se non hanno il permesso allora sono sospettabili di amicizia coi mafiosi. Questa abitudine, questo vizio, sono stati il freno principale alla lotta alla mafia. Magari è ora di farla finita con quelle abitudini. E con la retorica e i salamelecchi al posto dei fatti.

La fiction al posto della verità. E' l'antimafia, bellezza, scrive Roberto Puglisi il 28 maggio 2016 su "Live Sicilia”.

"Era d'estate". Ma sono poi diversi i filmetti dalla realtà? Ecco l'elenco aggiornato di un'ipocrisia.

Bella la nuova sobrietà dell'antimafia: al posto della retorica, una congrega di talebani scalzi che già promette di giustiziare ogni parola in più. 

Fantastica l'antimafia riverniciata e penitente, che irroga sentenze di condanna per gli altri, i cosiddetti antimafiosi di facciata, che appartengono immancabilmente a una parrocchia nemica. 

Squisita l'antimafia al gusto di originalità, riscoperta nell'ultimo anniversario delle stragi, dopo una serie di processi color trattativa finiti malissimo, cioè secondo logica, e una sfilza di presunte "saguterie" che avrebbe fatto impallidire Giovanni e Paolo, come li chiamano, così, per intimità funeraria.

Pensi che il peggio sia passato, insomma, ti rilassi, accendi la tv. Neanche il tempo di cambiare canale che ti viene addosso tutto il blob del già detto, scritto e rimasticato, somministrato in pillole di sceneggiata da prendere una volta al dì, preferibilmente la sera.

L'elenco appare desolante. C'è l'impraticabile 'Romanzo siciliano', con un Fabrizio Bentivoglio – già valentissimo attore, che spettacolo il suo Giorgio Ambrosoli ispido di dolore e umanità – ridotto alla bollitura di se stesso. Il cascame della mascella, il siculo da parata - ci manca giusto un “minghia signor tenente” -, l'accetta che taglia i buoni e i cattivi, senza un tentativo di approfondimento, compongono il ritratto usurato della fumisteria. 

C'è il filmino su Boris Giuliano. C'è il filmetto “Era d'estate” e via antimafieggiando. Vince sempre e comunque la fiction pedagogica che continua a proporre il trionfale birignao di un'ipocrisia, innalzando i santini al posto delle persone in carne e ossa. E hanno il coraggio di prendersela con Gomorra per i contenuti non edulcorati, come se dolcificare il sangue non fosse già una suggestione da pessimi maestri.

Un polpettone davvero disgustoso e reiterato. Del resto, come potrebbe risultare altrimenti se la finzione, cioè il fumo invece dell'arrosto, discende sempre dalle cose in sé? Le prove sono evidenti. Ecco al proscenio Rosy Bindi, nella recente celebrazione di Capaci: "Non abbiamo bisogno di eroi ma di persone, politici, magistrati, giornalisti e preti che fanno il loro dovere". Davvero? Ma se tutta la mistica della commissione che Rosy governa si basa proprio sull'esaltazione dell'eroismo, sulla venerazione delle statue di marmo?

Ecco il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando a 'Repubblica', qualche tempo fa: “Il 23 maggio? Spero diventi un giorno feriale (e intanto si è blindata la città, ndr). Prima le manifestazioni di piazza servivano a difendere la vita di qualcuno. Oggi non dico che non siano utili, ma rischiano di essere il paravento di un’antimafia ambigua”. Sul serio? Ma se tutta la liturgia dell'Orlandismo, in salsa di necessità del sospetto, è stata costruita su una certa estetica politico-filosofica dei paraventi che Sciascia isolò in laboratorio per primo e l'analisi gli costò lo spernacchiamento di troppi quaquaraquà?

Ecco - bellezza mia - la fiction diffusa al posto dell'onesto e ruvido profilo degli eventi, la trama che ha smarrito l'aderenza ai fatti, eleggendo la fissità marmorea della statua a suo imperituro canone - nei plot televisivi come altrove - portando alla ribalta improbabili attori e stagionati politici, sull'effervescenza del luogo comune. Ma si tratta delle medesime bollicine.

Ai margini, in una zona dolente e silenziosa della coscienza, rimangono Giovanni e Paolo – cioè il dottore Falcone e il dottore Borsellino – che mai si arricchirono e mai perseguirono ambizione che non fosse la verità, nella giungla dei nuovi ricchi e degli ambiziosi in carriera. Per questo li amiamo e loro ancora ci parlano, senza orpelli, né sceneggiature: semplicemente umani.

La celebrazione della retorica e dell'ipocrisia, scrivono il 23 Maggio 2015 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo il 23 maggio 2015 su "Antimafia Duemila". 23° anniversario della strage di Capaci: parole al vento e tanti silenzi. Parole. Quelle dette e quelle taciute. In entrambi i casi sono state tante. Un senso di nausea ci accompagna di fronte all’esaltazione della retorica e dell’ipocrisia. Che oggi si sono manifestate in tutta la loro potenza nell’anniversario di una strage efferata sulla quale non è stata fatta piena luce. Ma questa è una terra strana, che porta in processione gli eroi morti ammazzati a mo’ di trofeo e si prepara a celebrarne di nuovi. Comincia quindi la grande parata. Uomini e donne delle istituzioni, magistrati, forze dell’ordine, tanti “vip” che sorridono e si stringono le mani. Ognuno ha un suo ricordo personale del giudice Falcone. C’è chi lo indica come l’ispiratore delle proprie azioni e chi ne esalta le doti. Dal canto suo il presidente del Senato, Piero Grasso, traccia sulla sua pagina facebook un personalissimo ricordo dell’amico e collega. Sono parole di affetto per “un maestro”, “un fuoriclasse” dalla “tenacia proverbiale”. “Hai insegnato molto a tutti noi e alla tua terra – conclude Grasso nella sua missiva –, che ha raccolto il testimone dell’impegno per la legalità e ha inferto durissimi colpi a Cosa nostra”. Poi, però, di fronte ai cronisti accalcati fuori dall’aula bunker dell’Ucciardone spiega che “oggi la mafia dei tempi di Falcone, quella stragista, quella terrorista non c’è più. L’abbiamo destrutturata. C’è un fenomeno criminale minore che cerca di infiltrarsi nell’economia legale ed è quello che dobbiamo combattere, ed è più difficile perché nascosta”. Quindi la mafia che fa le stragi non c’è più, dice l’ex Procuratore nazionale antimafia. Decisamente una bella assunzione di responsabilità in una simile affermazione. Dio non voglia che nuove bombe debbano scoppiare nuovamente a Palermo, perché davvero il Presidente del Senato sarebbe tra le prime persone alle quali si chiederebbe conto e ragione per queste sue dichiarazioni. E proprio chi ha perso le persone più care con un’autobomba di matrice mafiosa (e non solo) ci fa intendere di avere invece compreso perfettamente la pericolosità di questa piovra dai mille tentacoli. E’ Margherita Asta, unica sopravvissuta della strage di Pizzolungo, a intervenire in collegamento da Reggio Emilia. Sul maxischermo appare il volto sereno di questa giovane donna dalle idee molto chiare. “Quando parliamo di mafia dobbiamo parlare di un sistema criminale fatto da segmenti della politica, segmenti dell’imprenditoria, da veri e propri mafiosi”. Tutto il resto passa in secondo piano. I discorsi autoreferenziali del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini – che con la sua riforma sta minando alle fondamenta della scuola pubblica – si sparpagliano inutili nell’etere, così come la maggior parte di quelli che si alternano prima e dopo. Nessuno parla dell’importanza di sostenere – adesso che sono vivi – i magistrati condannati a morte da Cosa nostra. Nessuno si interroga sul “gioco grande” intuìto da Giovanni Falcone, indubbiamente legato a quei “sistemi criminali” responsabili del biennio stragista ‘92/’93. Nessuno si chiede come mai sono state ammazzate tante persone innocenti sull’altare di una trattativa Stato-mafia. E’ come se fossero questioni innominabili. Tanto ormai le stragi non si fanno più. Fuori dal coro giungono le dichiarazioni del Presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi. A margine del convegno della Fondazione Falcone la Bindi afferma che “è una caratteristica della mafia avere rapporti con il potere, altrimenti non sarebbe mafia se non avesse il consenso e la capacità di condizionare il potere politico e i poteri”. “Ha ragione il pm Di Matteo – sottolinea – ma questa è la mafia, sconfiggerla vuol dire chiamare a un nuovo senso di responsabilità tutti i poteri di questo Paese”. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dichiara di essere venuto “per dire che la mafia può essere sconfitta”, con tanto di promessa solenne: “batteremo la mafia”. Parole forti, sicuramente. Che, però, restano appese ad un filo sottilissimo. Mattarella non ha ancora speso una sola parola in sostegno dei magistrati – vivi – condannati a morte da Cosa nostra, Di Matteo in primis. Oggi sarebbe stata l’occasione giusta, ma non c’è stato alcun esplicito riferimento. Non vogliamo pensare che il Presidente della Repubblica ritenga che vi sia una mafia ormai debole, incapace di essere a volte “il braccio armato dello Stato”, così come aveva detto l’attuale Presidente del Senato qualche anno fa. Dall’alto delle gradinate dell’aula bunker osserviamo la conclusione di questo spettacolo. Nel frattempo fuori di qua restano tanti giovani già segnati da una profonda disillusione verso il futuro. Che non sanno cosa farsene di quei discorsi – vuoti – che si sono ascoltati questa mattina. Ma le dichiarazioni di un ventenne, intervistato dal blogger Piero Ricca, sono quelle che fanno più male: “se vedessi in giro un nuovo Falcone, gli direi di lasciar perdere, perché questo popolo non lo merita”. Parole che pesano come macigni di fronte alle quali l’ipocrisia e la retorica di questa giornata scompaiono come neve al sole.

Dalla retorica dell’antimafia alla nuova Questione meridionale, scrive il 14 gennaio 2017 Marco Valdo. Pubblico volentieri questo articolo a firma Giancarlo Costabile e pubblicato sulla pagina on line del “Corriere di Calabria”.

“La disperazione è una malattia sociale. Forse la peggiore. Corrado Alvaro amava dire che «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». In Calabria e nel Sud il rischio che stiamo correndo è di permanere in una condizione di subalternità culturale rispetto agli altri territori del Paese, accettando come ineluttabile un destino amaro segnato dalle ingiustizie e dal malaffare. Il problema criminale è innegabilmente parte costitutiva della Questione meridionale, ma non può, in alcun modo, esaurirne la complessità dei suoi paradigmi. Dietro le vicende di Melito Porto Salvo e Nicotera, con il loro miserabile apparato di responsabilità individuali e collettive, non si cela soltanto il dominio mafioso con le sue necessità di comunicazione sociale. Le mafie sono l’epifenomeno di un problema strutturale sul piano socio-economico che caratterizza la storia del Mezzogiorno prima e dopo l’Unità del Paese. Il Meridione non è riuscito a mettere compiutamente in discussione la forma padronale, di matrice feudale, delle sue relazioni di potere sociale, neanche in questi 70 anni di storia repubblicana. La nostra è, infatti, ancora una società di padroni, che si nutre di rapporti verticali funzionali a modelli di organizzazione piramidale della vita pubblica. A Sud di Roma, e in Calabria specialmente, vi sono larghi strati della popolazione che non faticano a riconoscersi quali portatori della peggiore antropologia educativa: quella dell’uomo-struzzo. La cosiddetta antimafia di professione, lautamente pagata con denaro pubblico in tutti questi anni per ogni genere di proposta educativa messa in cantiere, non ha quasi mai affrontato con rigore scientifico il tema della fenomenologia dell’oppressione che si pone come sovrastruttura ideologica dell’economia padronale meridionale. A Melito come a Nicotera, ma è così in molte aree del Mezzogiorno, prevalgono una morale privata ed un’etica pubblica figlie concettuali di un’ideologia del silenzio e della rassegnazione, che ha sequestrato il nostro presente, amputando il futuro delle giovani generazioni. L’uomo-struzzo non deve né vedere né sentire, ma solo tacere perché è destinato all’obbedienza padronale. Regola aurea vigente sia per coloro che sapevano della mattanza da “Arancia meccanica” alla quale era sottoposta l’adolescente di Melito Porto Salvo, sia per le decine di nicoteresi che osservavano l’arrivo dell’elicottero degli sposi, accolti da non pochi applausi nella piazza comunale. La Costituzione nata dalla Resistenza è materia ancora sconosciuta nel tessuto socio-culturale del Meridione. Al Sud non serve più l’antimafia dei cortei e delle liturgie convegnistiche, che hanno ridotto la Questione meridionale a mera criminologia, con la quale segmenti nodali dello Stato hanno trasformato il disegno dell’emancipazione collettiva delle nostre terre in un bisogno personale di affermazione e prestigio sociale. La centralità della nuova Questione meridionale è determinata dall’urgenza di frantumare il paradigma padronale dell’inginocchiatoio, che sta avvelenando i pozzi della speranza. E una società senza speranza non è altro che una comunità di sepolcri imbiancati destinata a sporcare l’esistenza, ammantando con il nero della disperazione la bellezza dell’azzurro del cielo. Soltanto frantumando la struttura padronale dell’economia meridionale, riusciremo a costruire un nuovo habitat educativo per la nostra gente. Antonio Gramsci osservava opportunamente che se ogni relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un rapporto di potere. Una nuova egemonia culturale deve farsi progetto di cambiamento di questo modo di intendere e vivere le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche. Dal 2000 ad oggi, la Svimez ci spiega che sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno, in larga parte laureati e sotto i 35 anni di età. Sempre secondo questo importante centro di ricerca, entro il 2050 solamente 1 italiano su 4 abiterà le città meridionali. Scientificamente si chiama desertificazione civile, politicamente è un olocausto. Se non vogliamo altre Melito e Nicotera, dobbiamo uscire dall’ipocrisia di certa antimafia, fatta di sirene estetizzanti, spasmodica ricerca di denaro pubblico, danze folcloristiche. E, invece, rilanciare con forza la centralità dello sviluppo del Meridione, a cui non bastano le politiche sull’ordine pubblico e la diligente azione repressiva della Magistratura, ma soprattutto occorrono interventi strutturali in materia di capitale umano, leve fiscali, innovazione logistica e tecnologica. Il Mezzogiorno non può continuare ad essere una “questione”, ma deve diventare il cantiere di una rinnovata speranza: da non-luogo del presente a luogo del futuro.”

Tra l’altro la metafora dell’uomo struzzo è una delle mie favorite e da me più utilizzate.

Il Sud non ha bisogno di retorica perché sta morendo di retorica.

L'antimafia delle urgenze e quella dei palloncini colorati. La scritta "Più lavoro meno sbirri" comparsa a Locri è una sfida contro uno Stato che latita e che perde tempo con l'autoreferenzialità, scrive il 24 marzo 2017 Giorgio Mulè su Panorama. La Calabria, dunque. Parliamone. Ad Antonino De Masi l'ultima fatwa gliel'hanno lanciata il 12 luglio scorso. Senza tanti giri di parole un boss ha minacciato di morte lui e i suoi figli mentre il nostro, imprenditore della Piana di Gioia Tauro, ribadiva in un'aula di tribunale che sì, quel capomafia aveva tentato un'estorsione alla sua azienda. Da allora moglie e figli hanno dovuto abbandonare la Calabria. Ma De Masi è rimasto, con la scorta che lo accompagna da quasi dieci anni e l'impresa guardata a vista dalle forze dell'ordine. Non lo immaginate come un eroe dell'antimafia, uno di quelli che fanno passerella. È l'opposto. Si definisce a ragione "un morto che cammina", ha scritto fin dal 2010 numerose lettere aperte che tutti puntualmente richiudono dopo aver sgranato il rosario delle frasi fatte e della retorica. Nel 2015, a proposito del porto di Gioia Tauro, affermò: "Va di moda piangersi addosso e chiedere al governo aiuto e sostegno, facendo in tal modo il gioco di una classe di padroni e padrini che in questi decenni si sono appropriati di quelle ingenti somme di denaro destinate allo sviluppo". Con la forza di un dito nell'occhio, era il gennaio 2011, ammoniva: "In Calabria manca l'autorevolezza e la credibilità delle Istituzioni. Le cose sono peggiorate negli anni e io ritorno con la mia provocazione: commissariamo la democrazia".

Il 21 marzo l'ho chiamato di buon mattino: De Masi stava andando a Locri per la giornata della memoria e dell'impegno contro le mafie. Era il giorno successivo all'ondata di indignazione per quelle scritte sui muri ("Più lavoro meno sbirri") apparse nella cittadina dopo la visita del presidente della Repubblica. Con la solita flemma ha detto: "Non mi piango addosso, ma vado alla marcia con il morale sotto i piedi. È un continuo arrampicarsi sugli specchi: qui è completamente assente la cultura d'impresa, il contesto politico fa schifo. Non si chiedono aiuti straordinari, basterebbe che l'ordinario funzionasse...". Come ha ben notato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, uno che alla brodaglia della magniloquenza preferisce i fatti, non è stata la 'ndrangheta a far sporcare i muri di Locri. "Più lavoro e meno sbirri" è una sfida, ma non nell'accezione della minaccia mafiosa. È una sfida che andrebbe finalmente raccolta. Perché se c'è lavoro c'è meno repressione, c'è meno criminalità. Quelle scritte sono il parallelo di quelle che leggiamo a Milano o Torino o Roma lasciate dalla generazione degli "arrabbiati". Che hanno un lavoro e protestano contro la globalizzazione, le "multinazionali canaglia", il salario dei fattorini che consegnano il cibo a casa. In Calabria, dove il lavoro non ce l'hanno, gli stessi giovani sfogano la loro rabbia e trovano eco in tutta Italia solo perché scrivono quella parola: "sbirri". Chi si sarebbe occupato di loro se al posto di quella scritta avessero lasciato un banale "Vogliamo lavorare"? Quante dotte analisi sociologiche avreste letto? Quanti telegiornali avrebbero dedicato loro spazio? Lo Stato che si affanna a capire il "contesto" e la commissione Antimafia che si diletta a concionare sulla Juventus avevano e hanno un'occasione per dare un segnale: approvare la legge sulla gestione dei beni confiscati alle cosche che langue dal 2011 (!) in Parlamento. Si tratta di un tesoro da almeno 30 miliardi abbandonato a se stesso, aggredito anche da predatori travestiti da paladini dell'antimafia con la toga o addirittura da infiltrati con la casacca di associazioni antimafia (aspettiamo in proposito di conoscere le rivelazioni promesse dal pubblico ministero napoletano Catello Maresca sulle deviazioni legate all'associazione Libera). Tra due mesi esatti saranno passati 25 anni dalla strage di Capaci. Lo Stato si presenti con quella legge approvata. Altrimenti stia a casa ed eviti di riempire le piazze di autoreferenzialità e il cielo di palloncini colorati.

Agguato ad Antoci, le indagini sull'attentato le fa la mafia. L'assalto ai danni del presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ha ancora un colpevole. Ma a cercare il responsabile, oltre alle forze dell'ordine, ci sono i boss, scrive Francesco Viviano il 21 marzo 2017 su “L’Espresso”. Chi è stato? Anzi, per dirla con il dialetto usato dai mafiosi: «Cu fu?». E stavolta a voler scoprire l’identità dell’autore dell’attentato compiuto in provincia di Messina nel maggio dello scorso anno al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ci sono soltanto carabinieri e polizia. Ci sono anche uomini delle cosche di Cosa nostra. Per raccontare la storia occorre fare un passo indietro. La notte del 18 maggio Antoci, dopo aver partecipato a un convegno antimafia, torna verso casa a bordo dell’automobile blindata con due poliziotti di scorta. La strada provinciale che collega i paesi dei Nebrodi Cesarò e San Fratello è bloccata da alcuni massi: la blindata si ferma e improvvisamente, stando al racconto dei protagonisti, qualcuno spara dei colpi di fucile. I pallettoni sfondano la lamiera nella parte bassa dello sportello posteriore dove Antoci è seduto. La scorta risponde al fuoco ma, nel frattempo, sopraggiunge casualmente un’altra automobile con a bordo il dirigente Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata di Militello e un altro agente. Sparano anche loro contro gli attentatori che sarebbero fuggiti in mezzo alla campagna, coperti dal buio della notte.

«Il mio capo scorta mi ha immediatamente preso e messo sotto il sedile, si è posto sopra di me, mentre continuavo a sentire gli spari» ha raccontato Antoci agli investigatori il giorno dopo l’agguato. «L’autista ha fermato l’auto, è sceso, ha aperto il fuoco e lo stesso ha fatto il mio capo scorta. Dietro eravamo seguiti dalla vettura del dottor Manganaro, che pur non essendo personale addetto alla mia scorta è arrivato, grazie a Dio, durante l’agguato. È così che sono stato salvato. Erano almeno 5 o 6, e avevano molotov da lanciare per scatenare un incendio nell’auto, costringerci a scendere e quindi ucciderci». Una ricostruzione dei fatti che anche il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello e gli altri agenti ribadiscono. Loro, dopo aver ricevuto la gratitudine dello stesso Antoci, adesso sperano in una promozione. Ma non è detto che arrivi. L’inchiesta si rivela subito difficile per le forze dell’ordine che sguinzagliano in tutte le direzioni i loro informatori. Ma da questi, a distanza di tanti mesi e nonostante il grande sforzo investigativo riversato sul territorio, non hanno avuto neanche una piccola traccia, un’ipotesi, un sospetto. Niente di niente. Neanche gli esami del dna dal sangue rilevato nel luogo dell’attentato, e che si presume possa appartenere a uno degli assalitori, hanno permesso di risalire all’identità di chi ha sparato e quindi al movente. Le inchieste sulle cosche mafiose fanno però emergere un altro lato della vicenda. Perché oltre ai poliziotti e ai carabinieri, alla ricerca degli autori dell’agguato a quanto pare si siano messi pure i boss mafiosi dei clan messinesi e di quelli che agiscono sul territorio dei Nebrodi. Intercettazioni rivelano che gli uomini di Cosa nostra sono interessati a capire come si sono svolti i fatti e soprattutto a scoprire chi ha agito senza il loro permesso. E per questo svolgono indagini autonome e parallele a quelle degli investigatori delegati dall’autorità giudiziaria. I padrini sospettano che possa essere stato qualche “cane sciolto”. Ma, intanto, indagano. L’incredibile interesse della mafia messinese per scoprire chi avrebbe sparato all’auto di Giuseppe Antoci è stato svelato da una decina di intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite dai carabinieri del Ros e dagli agenti della squadra mobile di Messina che indagano sulla mafia dei Nebrodi. Qualche giorno dopo l’agguato al presidente del parco dei Nebrodi i boss, parlando tra di loro, si chiedono insistentemente «cu fu» (chi è stato?). Da una cosca all’altra la domanda è sempre la stessa, ma anche la risposta: «Noi non siamo stati». E questo potrebbe rientrare nella tipicità del metodo mafioso. Ma qui sembra essere diverso l’atteggiamento dei boss.

«Potrebbero essere stati i catanesi?» chiede un intercettato al suo interlocutore, che risponde: «Ce l’avrebbero detto, quantomeno ci avrebbero avvertiti per evitarci ulteriori guai». Insomma, gli storici clan dei Bontempo-Scavo e le altre famiglie che in questi mesi hanno avuto tra le loro file decine di arresti non si danno pace. Anche loro brancolano nel buio e, se avessero avuto notizie, avrebbero fatto giustizia a modo loro oppure, come spesso la storia della mafia insegna, avrebbero segnalato in maniera anonima agli investigatori gli autori dell’attentato per allentare la pressione nei loro confronti. L’unica segnalazione anonima che è arrivata fino ad ora è invece quella inviata a tre procure, Messina, Patti e Termini Imerese, al Ministero dell’Interno, al capo della Polizia e all’autorità Anticorruzione. Sono sette pagine piene di veleni scritte, secondo chi indaga, a più mani: non escluse quelle di qualche poliziotto e di qualche politico locale. La denuncia anonima adesso è al vaglio delle tre procure siciliane: vi si trovano accuse anche nei confronti di Manganaro. Secondo l’anonimo il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello sarebbe anche “vicino” a esponenti politici del Pd e ad alcuni personaggi dell’Antimafia come il senatore Giuseppe Lumia, eletto nella lista “il megafono” di Rosario Crocetta.

Ma torniamo alle intercettazioni tra i boss. Nelle loro conversazioni i mafiosi si lamentano dell’opera di Antoci che ha denunciato i lucrosi affari delle cosche. Queste avevano in concessione pascoli di migliaia di ettari nei Nebrodi, pagando cifre irrisorie per gli affitti dei terreni in cambio di milioni di euro di contributi regionali ed europei. I boss avrebbero quindi avuto motivi per toglierlo da quella posizione, pericolosa per i loro interessi. Ma negano, nelle intercettazioni, di aver preparato e attuato l’attentato. Di più, si lamentano di come quell’agguato abbia provocato ulteriori difficoltà ai loro affari: da allora l’attenzione degli investigatori su tutta la zona è aumentata parecchio.

Giovanni Falcone che sussurrava all’orecchio di Paolo Borsellino: sono passati 25 anni da quella foto-simbolo. Fu il reporter Tony Gentile a immortalare quel momento divenuto un’icona: era il 27 marzo 1992 e poche settimane dopo i due magistrati sarebbero stati uccisi dalla mafia, scrive "TGcom 24" il 27 marzo 2017. "Oggi è il compleanno di una mia fotografia, ma non un semplice compleanno, un quarto di secolo, una data tonda, importante che non è possibile dimenticare o far passare inosservata". Scrive così sul suo blog il reporter Tony Gentile, a proposito della foto-simbolo che immortalò quel 27 marzo 1992 Giovanni Falcone sussurrare all'orecchio del collega Paolo Borsellino, che risponde alle sue parole con un sorriso complice. Fu quella l'ultima volta che vedremo insieme i due magistrati in prima linea contro Cosa Nostra: poche settimane dopo quello scatto e a poche settimane di distanza la mafia li zittì per sempre a suon di bombe. "Ogni fotografia ha una vita. Ogni fotografia ha una storia. Ogni fotografia conserva in sé una memoria. E se ha una vita ha anche un giorno in cui è nata e quel giorno è il suo compleanno", continua Gentile sul post che ha intitolato "Le vite di una fotografia". L'occasione giusta, dunque, per tornare indietro nel tempo, a quel fatidico giorno: "E' un venerdì pomeriggio di fine marzo e da Il Giornale di Sicilia arriva la richiesta di un servizio su un incontro in cui si parlerà di 'Mafia e Politica'. Un avvenimento non molto interessante dal punto di vista visivo ma ci sono personaggi importanti, che mi interessa fotografare per il mio archivio, perché sono personaggi di cui si parla molto sui giornali nazionali e allora come a volte succede può venir fuori una bella foto, interessante e che potrei usare al di là dell'assegnato di quella sera". Mai intuizione fu così previdente. "Ad un tratto quel qualcosa che avevo sperato succede, Falcone e Borsellino si avvicinano, Giovanni dice qualcosa a Paolo, sicuramente non parlano dei temi del dibattito, deve essere una battuta ma non ho tempo per capire; devo avvicinarmi, devo mettermi davanti a loro, inquadrare, mettere a fuoco e scattare. In quel preciso istante, un 60esimo di secondo della mia Nikon F3 si materializza una foto, un sorriso, una spontaneità, una rilassatezza, una complicità, un senso di amicizia che mai mi era successo di vedere prima tra questi due uomini". "La mia fotografia di Giovanni e Paolo ha avuto tante vite. La prima vita è quella che ricordo oggi, il suo compleanno, il giorno in cui è stata impressionata per sempre sull’argento della mia pellicola. (...) diventa un susseguirsi di pubblicazioni, di fotocopie, di manifesti, di magliette, di lenzuoli portati dalla gente durante le manifestazioni, nei cortei, nelle catene umane. Ma anche manifesti affissi e poi strappati nelle strade strette di Corleone. La fotografia - conclude Gentile - prende vita e si trasforma in memoria collettiva, suggestioni, pensieri, condivisioni, fino a diventare icona".

"Le vite di una fotografia. Ogni fotografia ha una vita. Ogni fotografia ha una storia. Ogni fotografia conserva in sé una memoria. E se ha una vita ha anche un giorno in cui è nata e quel giorno è il suo compleanno. E siccome per un fotografo le fotografie sono come dei figli, delle creature a cui resti legato per sempre, proprio per questo non dimenticherà mai la loro data di nascita. Quando le ha scattate, dove, perchè e la vita che hanno vissuto. A volte questi ricordi vanno oltre la semplice memoria visiva ma coinvolgono anche gli altri sensi. Le immagini possono possedere anche odori, suoni, parole. Oggi è il compleanno di una mia fotografia, ma non un semplice compleanno, un quarto di secolo, una data tonda, importante che non è possibile dimenticare o far passare inosservata. 25 anni di vita in cui è stata consegnata, come fa uno staffettista con il testimone, da generazione in generazione. Dai nonni ai nipoti nelle famiglie, da professori a studenti nelle scuole. Un flusso continuo che dal 27 marzo del 1992 ha percorso ininterrottamente l’Italia. L’Italia che ha deciso di ribellarsi alla mafia, di abbandonare la cultura mafiosa di seguire l’esempio della legalità. L’Italia che ha adottato, come fossero amici di famiglia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ un venerdì pomeriggio di fine marzo e dal Giornale di Sicilia arriva la richiesta di un servizio su un incontro in cui si parlerà di “Mafia e Politica”. Un avvenimento non molto interessante dal punto di vista visivo ma ci sono personaggi importanti, che mi interessa fotografare per il mio archivio, perché sono personaggi di cui si parla molto sui giornali nazionali e allora come a volte succede può venir fuori una bella foto, interessante e che potrei usare al di là dell’assegnato di quella sera. Arrivo con il solito anticipo e comincio a fare qualche fotografia ai vari relatori e agli ospiti, anch’essi di tutto rispetto. Poco dopo comincia la discussione ma Giovanni Falcone non è ancora arrivato e tra i vari bisbiglii che emergono tra l’illustre platea non manca qualche appunto critico nei confronti del “solito Giovanni”. Ad un certo punto arriva il “ritardatario”, saluta i suoi compagni di tavolo, e si accomoda accanto al suo vero amico Paolo Borsellino. Prima un intervento poi un altro e la discussione va avanti regolarmente sui temi prestabiliti e io, non avendo altro posto possibile, mi piazzo ad un lato del tavolo dei relatori e attendo, ascolto e attendo. Dovrà succedere qualcosa, almeno lo spero, un gesto, un’azione, qualcosa che mi consenta di realizzare un bel ritratto in barba alla monotonia tipica dei convegni. Ad un tratto quel qualcosa che avevo sperato succede, Falcone e Borsellino si avvicinano, Giovanni dice qualcosa a Paolo, sicuramente non parlano dei temi del dibattito, deve essere una battuta ma non ho tempo per capire; devo avvicinarmi, devo mettermi davanti a loro, inquadrare, mettere a fuoco e scattare. In quel preciso istante, un 60esimo di secondo della mia Nikon F3 si materializza una foto, un sorriso, una spontaneità, una rilassatezza, una complicità, un senso di amicizia che mai mi era successo di vedere prima tra questi due uomini. La foto è veramente bella e se n’è accorta anche una signora seduta in prima fila, la moglie di un altro magistrato collega di Giovanni e Paolo, che nel momento in cui esplode il lampo del mio flash dice compiaciuta “che bella foto avrà fatto quel fotografo”. Forse era vero ma io ancora non lo sapevo, perché il digitale ancora non c’era e per essere sicuro sarei dovuto andare in camera oscura a sviluppare il rullino. Quella signora aveva proprio ragione, la foto era bella, era comunicativa e composta bene pronta per essere pubblicata. In realtà piacque molto anche al redattore capo il quale, appena la vide disse, “bella foto Tony, la useremo sicuramente, ma non questa sera. Oggi usiamo quest’altra. Mettila in archivio, vedrai che nei prossimi giorni la useremo”. E questo ho fatto, io giovanissimo fotografo a colloquio con un esperto e bravo redattore capo prendo alla lettera il suo consiglio e conservo in archivio la bella foto. A volte le fotografie hanno destini strani, inimmaginabili. A volte nascono, poi muoiono e poi rinascono. La mia fotografia di Giovanni e Paolo ha avuto tante vite. La prima vita è quella che ricordo oggi, il suo compleanno, il giorno in cui è stata impressionata per sempre sull’argento della mia pellicola. Poi rimane al buio di un classificatore del mio archivio ma solo per poco tempo perché il 23 maggio, 57 giorni dopo averla scattata, la mafia aziona il telecomando che fa saltare in aria l’autostrada uccidendo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della loro scorta. Pochissimi giorni dopo, sollecitato dal mio collega e amico Mike Palazzotto, nonostante fossimo impegnatissimi in quelle giornate frenetiche, rimetto le mani nell’archivio e recupero i negativi di quella fotografia. Ne stampo alcune copie e le spedisco all’agenzia Sintesi, che a quei tempi distribuiva le mie foto per la stampa nazionale ed internazionale. Loro, come si faceva una volta, prendono le stampe e le portano in giro per diversi quotidiani e settimanali i quali, anch’essi colpiti per la particolarità della fotografia, l’acquistano e la conservano nei loro archivi. Questa è la seconda vita. La terza vita arriva curiosamente ancora 57 giorni dopo, ovvero il 19 luglio. Un altro telecomando aziona il tritolo che uccide Paolo Borsellino e la sua scorta. Quando alcuni giornali nazionali cercano nel loro archivio una foto di Borsellino trovano quella, la foto dei due amici uccisi da cosa nostra. “La foto”, l’immagine che racchiude in sé la sintesi quasi perfetta di ciò che la mafia aveva fatto in meno di due mesi, e la pubblicano. Da questo momento in poi diventa un susseguirsi di pubblicazioni, di fotocopie, di manifesti, di magliette, di lenzuoli portati dalla gente durante le manifestazioni, nei cortei, nelle catene umane. Ma anche manifesti affissi e poi strappati nelle strade strette di Corleone. La fotografia prende vita e si trasforma in memoria collettiva, suggestioni, pensieri, condivisioni, fino a diventare icona. Oggi quella fotografia celebra il suo compleanno."

Bindi, Crocetta e i fiori del male. In scena la Sicilia dei pataccari, scrive Giuseppe Sottile Venerdì 17 Marzo 2017 su "Live Sicilia".  Ecco il reality antimafioso. Con le sue sceneggiate, i suoi riti e i suoi ospiti irrinunciabili.

Da questo lato c’è lui, Massimo Giletti, il conduttore più ganzo che ci sia. Ogni domenica Massimuccio entra nella cripta dell’informazione Rai e con la tensione drammatica propria di un apostolo del populismo celebra la cerimonia della Purificazione. Raccoglie i fiori del male, abbandonati lì, nello studio dell’Arena, dai peccatori della politica e, con la voce vibrante di chi sta per compiere il miracolo, li trasforma nel corpo e nel sangue di Beppe Grillo. Un pomeriggio indimenticabile e all’un tempo imprevedibile, quello che Rai Uno riserva alle nostre domeniche. Un aprés-midi d’un faune, verrebbe da dire. Perché se mai dovesse accorgersi, ad esempio, che la forza di quell’estremo peccato, che è il vitalizio, fosse capace di resistere al suo esorcismo, allora Massimo perderebbe la pazienza e si offrirebbe di colpo alla sceneggiata napoletana. Ricordate quando, indignato fino all’inverosimile, scagliò per terra il libro di Mario Capanna? L’ex leader del Sessantotto gli aveva appena detto che non intendeva rinunciare alla sua ricca pensione e Giletti non ci vide più dagli occhi.

Dal lato opposto invece c’è lei, Rosy Bindi, la badessa più laica che ci sia. Ogni santo giorno segnato sul calendario la presidente Rosy entra nella cripta di San Macuto, riunisce la commissione parlamentare antimafia e inizia a celebrare – anche lei – il suo reality show. Un tempo, l’Antimafia con la maiuscola cercava di squarciare i cieli scuri dei misteri e dei complotti ed era come farsi strada tra lastre di sangue perché la mafia c’era, eccome: era la mafia che seminava morte e terrore, che falciava le vite degli eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sfidava lo Stato e voleva prendersi tutto, baracca e burattini.

Oggi, per fortuna, quella mafia non c’è più. Lo Stato ha vinto e Totò Riina, con tutta la sua ributtante compagnia, è sepolto dagli ergastoli, murato vivo in un carcere di massima sicurezza. Ma Rosy, con i cinquanta parlamentari che compongono la storica commissione d’inchiesta, deve pure recitare la sua parte. Già, ma quale parte?

Se guardi con distacco i dibattiti che accendono di questi tempi l’aula di San Macuto, a due passi da Montecitorio, la prima impressione è che la compagine guidata dalla Bindi sia diventata il crocevia delle più opache e inconcludenti risse strapaesane. E non deve essere proprio un caso che tra gli ospiti più gettonati del reality antimafioso ci sia quel Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, che a settimane alterne si ritrova alloggiato con tutti i conforti e con tutti i riguardi nella cripta di Giletti. Ma l’Arena, proprio perché deve impupare pure lo spettacolino, ha sempre bisogno di avere come ospite quella macchietta della politica. Mentre la Bindi, anche per un riguardo all’istituzione che rappresenta, potrebbe farne comodamente a meno. Invece no: pigramente cede anche lei alla logica del teatrino e convoca ogni due o tre mesi Crocetta. Il quale, secondo un copione ormai collaudato, racconta lì le sue fandonie antimafia: parla di centinaia e centinaia di boss che lui ha fatto arrestare, di centinaia e centinaia di picciotti che ha fatto licenziare, di centinaia e centinaia di minacce subite da lui e dai fedelissimi che compongono il suo incontenibile cerchio magico. Ovviamente nessuno smentisce, perché nessuno è in grado di certificare quelle bugie. E Crocetta, che ha trasformato la Sicilia in un disastro ormai pronto per l’insediamento dei grillini, rifà il trucco alla propria immagine e torna in Sicilia a fare altri guasti e altri danni.

Ma il metodo Crocetta, si sa, non conosce ostacoli. Facciamo un altro esempio. Un suo fedelissimo, che è poi l’esattore delle tasse siciliane, chiede alla Regione lo stanziamento di un centinaio di milioni per tenere in piedi l’azienda fallimentare della riscossione. E per meglio far sentire la sua voce sostiene urbi et orbi che un misterioso contropotere, composto prevalentemente da consiglieri regionali che da anni evadono il fisco, sta facendo di tutto per affossare la macchina esattoriale. Il giochino dell’esattore, chiamiamolo così, poteva rimanere tranquillamente dentro i limacciosi confini di una polemica tutta siciliana. Ma il reality di palazzo San Macuto tiene sempre le luci accese e così anche la diatriba sulle tasse è approdata lì per essere dibattuta e inquisita. Ovviamente, con la colonna sonora di una Cavalleria rusticana e con l’inevitabile coda di repliche e controrepliche. Ma con un grado di irrilevanza talmente alto da far pensare che la commissione della Bindi vada cercando ogni giorno uno spunto per riempire la puntata. Le ultime performance stanno lì a dimostrarlo. L’antimafia – la stessa alla quale fino a una decina di anni fa si concedeva la maiuscola – l’altro ieri ha ascoltato l’avvocato della Juventus per scandagliare il sospetto secondo il quale, dietro le tifoserie della scintillante squadra di calcio, ci sarebbero nientemeno che le ‘ndrine, con la loro violenza e i loro giochi loschi. L’avvocato non poteva che smentire, ma la Bindi non ha smesso di suonare l’allarme: “Ci preoccupa che venga negata l’esistenza del fenomeno”, ha sentenziato. Pagina chiusa, almeno così è sembrato. Qualche mese prima, la stessa commissione si era inchiodata sulla massoneria: aveva chiesto l’elenco integrale di tutti i grembiuloni sparsi per l’Italia e al rifiuto dei rispettivi Gran Maestri ha agitato con mano ferma la possibilità di affidare l’ingrato compito addirittura alle forze dell’ordine. E questo perché la commissione, se qualcuno ancora non lo sapesse, può anche sguainare all’occorrenza i poteri propri dell’autorità giudiziaria e procedere alle perquisizioni.

Ma, come in tutti i reality show, uno spazio sostanzioso viene dedicato anche e soprattutto all’Oltremafia: a quel filone dell’antimafia, cioè, che da anni si occupa di tutto ciò che sovrasta la mafia: dai servizi deviati alle regie occulte, dal terzo livello criminale fino ai mandanti nascosti dentro le istituzioni.

Il rappresentante più autorevole di questa impegnativa linea di pensiero è Pietro Grasso, approdato al Pd e quindi alla presidenza del Senato dopo una lunga carriera di procuratore antimafia. “Si intuisce – ha detto recentemente in una intervista al Corriere – che Cosa nostra possa essere stato il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica; di interessi di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali”. Anche se la parola “entità” porta direttamente alla metafisica – e anche a quella boiata pazzesca che è il processo su una presunta trattativa tra i boss della mafia e alcuni pezzi dello Stato – il tema dell’Oltremafia non può che appassionare chiunque si trovi, per caso o per scelta, a frequentare i difficili ma esaltanti sentieri dell’antimafia. Figurarsi, dunque, l’attesa con cui San Macuto ha accolto due settimane fa il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, arrivato lì per una audizione centrata, manco a dirlo, sui misteriosissimi progetti di attentati che potrebbero scatenarsi da un giorno all’altro contro i magistrati: attentati orditi non solo dalla mafia ma “riconducibili a entità di carattere superiore”.

Con l’Oltremafia di Scarpinato – uno specialista della materia: sua la lunga filiera di “sistemi criminali”, una maxinchiesta che dopo vari flop è sfociata poi nella fantomatica Trattativa – dobbiamo fermarci purtroppo a queste poche ma sentite parole. Rosy Bindi, infatti, ha creduto opportuno secretare i verbali dell’audizione con la conseguenza che difficilmente riusciremo a conoscere i dettagli delle trame nere che pendono sulla testa di chissà quali e chissà quanti servitori dello Stato. L’unico elemento che fino a questo momento dà consistenza alla rappresentazione di Scarpinato – che al palazzo di Giustizia indicano come futuro candidato al vertice della procura nazionale antimafia – è il fatto che le sue dichiarazioni non possono essere divulgate. E questo basta a rafforzare il mistero e, con il mistero, quell’aura di imperscrutabilità che abitualmente accompagna la carriera di ogni alto funzionario chiamato a impugnare la spada del comando nella lotta a Cosa nostra.

Ma la commissione, si dirà, deve ascoltare tutti. Non a caso ha sentito magistrati e investigatori, storici e giornalisti. Eppure, agli inizi del 2014, quando a San Macuto si è presentato il prefetto Giuseppe Caruso, più che mai intenzionato a raccontare di quali storture e di quali lordure era fatta la gestione dei beni confiscati alla mafia, Rosy Bindi ha avuto un momento di smarrimento. Il prefetto, di fatto, alzava la pietra che nascondeva il verminaio di Palermo e dava chiaramente a intendere quello che da lì a pochi mesi sarebbe venuto clamorosamente a galla: la complicità fra Silvana Saguto, il giudice a capo della sezione misure di prevenzione del tribunale, e una combriccola di commercialisti e avvocaticchi che, con la banalissima scusa di amministrare i patrimoni sotto sequestro, in realtà se li spartivano e li dissanguavano.

Rosy Bindi, come si ricorderà, quel giorno reagì male. E, anziché prendersela con la cosca togata che stava depredando le imprese e gli immobili che erano appartenuti ai mafiosi, trattò malissimo il prefetto Caruso, colpevole a suo avviso, di sollevare dubbi sul meraviglioso e fatato mondo dell’antimafia giudiziaria. Uno scatto sopra le righe. Tale e quale a quello del capopopolo Giletti di fronte al peccaminoso vitalizio di Mario Capanna.

Ecco come il fratello chiacchierone spreca il nome di Paolo Borsellino, scrive Roberto Puglisi, Domenica 26 Marzo 2017, su "Live Sicilia". Ancora una frase di Salvatore, perlomeno incauta. Quando finirà lo show delle agende rosse? Un libro di carne e sangue, scritto quasi con le identiche parole. Ecco cos'è un fratello. L'altro te, incardinato come un amorevole accidente, fra tuo padre e tua madre. Puoi odiarlo quando pensi che ti rubi qualcosa che era tuo. Lo ami, ogni volta che in lui riecheggia un'eco stranita di ciò che sei tu. E se è destinato a seppellirti, lo guarderai da un letto d'ospedale con un morso d'invidia per la vita che se ne va e una colata tiepida di conforto per il nome che resta. E se sei destinato a seppellirlo, spargerai l'ultimo mucchietto di fiori e terra sulle sue ossa, come per un omaggio a te stesso.

Salvatore Borsellino ha detto, giorni fa a Napoli, di fianco a Luigi-Giggino De Magistris, primo cittadino partenopeo, già magistrato: “Dovete essere vicini al vostro sindaco. Quando era pm e gli hanno tolto le inchieste, è come se lo avessero ucciso. Luigi è un altro pm morto". Un altro rispetto a chi? Rispetto a Paolo. Almeno, è naturale pensarlo; infatti i giornali hanno intitolato: “De Magistris, pm morto come mio fratello”, insistendo sull'improvvido accostamento di due figure talmente lontane da far apparire surreale ogni ipotesi di vicinanza. L'alternativa è dunque secca. O Salvatore smentisce – e sarebbe complicato – quelle ricostruzioni e quelle suggestioni. Oppure si pone una domanda brutta, ma ineludibile: è mai stato, Salvatore, in profondo sintonia col sangue del suo sangue? Ha mai conosciuto Paolo Borsellino, il ragazzo che gli camminava accanto? Ne ha mai appreso la misura caratteriale, la parola asciutta, la necessità di sottomettere i ragionamenti ai fatti?

E noi – meglio chiarirlo subito – diamo per scontato che la risposta converga sul sì e che di quel legame sia rimasta soprattutto l'ustione di un'atroce perdita. Eppure, chi ha presente i personaggi tirati in ballo sa bene che nessun giorno di Borsellino – liberamente parafrasando – è mai stato un giorno di Giggino. Come può, allora, un fratello confondersi fino a tal punto? Sotto l'effetto tragico di quale cecità?

Vasta, infatti, è la didascalia delle differenze a corredo di foto e biografie. Paolo era uno che i processi li vinceva; Giggino De Magistris più raramente, per la cronaca. Paolo non ha mai fatto politica e non si sarebbe mai sognato di farla; Giggino, invece, sì. Paolo ha rilasciato delle dolentissime interviste per descrivere, per esempio, il tramonto del Pool Antimafia, soverchiato da troppi avversari, con la cautela di chi è costretto a cantare fuori dal coro. Giggino ha recitato una carriera da solista, nel fragore mediatico applicato all'aula di giustizia. Il coro, semmai, è sempre stato un impiccio. Paolo indossava la toga come un saio severo e laico, benché fosse un padre e un marito allegro, capace di scovare la battuta perfino nell'attesa dei suoi ultimi giorni. Per Giggino - così almeno parrebbe dallo scintillio mediatico intorno a certe gesta - la toga è stata più un vestito di gala, anche a coronamento di un'ambizione personale: e non c'è nulla di sbagliato, se l'ambizione viene sostenuta dalla correttezza, come sarà senz'altro accaduto. Però quanta differenza di stile e di sostanza. Quante distanze.

Il saio e il vestito. La sobrietà e la sfrontatezza. La clausura e l'esibizione. Il tritolo di una strage e la presunta sottrazione di inchieste equiparate nella stessa definizione di morte. Se l'incommensurabilità del paragone – in ogni tempo, in ogni contesto, in ogni luogo, in ogni sia pur periferica connessione, in ogni morale della favola, in ogni segmento della storia - è chiara a tutti, perché non risulta evidente al 'sangue de sangue'? E come è stato possibile – per citare un altro stravolgimento che grida vendetta - sceneggiare il sacrilego abbraccio con Massimo Ciancimino, in via D'Amelio, proprio sull'altare del sacrificio?

Un libro che è uno specchio, un altro te stesso: questo è un fratello. Non un'icona slabbrata, non l'assenzio di una narrazione da agende rosse. Forse un giorno Salvatore deporrà i paramenti della vanagloria e dell'antimafia da circo che ha messo di guardia intorno al suo cuore spezzato, scegliendo l'ira funesta, nemica della lucidità. Potranno aiutarlo Manfredi, Fiammetta e Lucia – i figli del dottore Borsellino – che hanno sposato il lutto privato a un ammirevole equilibrio pubblico. Forse il fratello sopravvissuto tornerà sulla tomba del fratello morto, abbandonando la caricatura che ha contribuito a tratteggiare, per riabbracciare ciò che resta di un uomo. E non sarà mai tardi: capita di smarrirsi, specialmente in certe notti tenebrose, quando un mucchietto di fiori e terra da stringere nella mano come una cara reliquia sembra un niente sopraffatto dal silenzio. Invece è lì, nel buio, che risplende, con la consistenza luminosa del tutto.

La replica di Salvatore Borsellino sulla sua pagina facebook alle 12:01. «Stamattina ho dovuto svegliarmi con il telefono già pieno di messaggi che mi segnalavano l'ennesimo attacco che un pseudo giornalista, un certo Roberto Puglisi, non tralascia occasione di portarmi attraverso le pagine di un pseudo giornale, live sicilia (uso volutamente il minuscolo) al servizio dei veri mafiosi, quelli con il colletto bianco nei cui salotti si brindò il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 in sincronia con le bottiglie di champagne che venivano stappate nelle celle dell'Ucciardone. In tanti incitano a sporgere querela contro di lui e il suo giornale ma non intendo farlo. Se camminando ti capita di mettere un piede su degli escrementi non vai a cercare da quale orifizio anale sono venuti fuori. Qualche volta mi capita però di chiedermi quale possa essere il motivo di tale accanimento nei miei confronti e chi possa esserci dietro, quale origine abbia tanto livore, anche se la risposta è semplice, basta guardare il nome di chi dirige quel giornale, e ricordare le sue contiguità con i cugini Salvo ai tempi di Vito Ciancimino e di Salvo Lima. Per fortuna in mezzo a tanti messaggi di solidarietà me ne è arrivato anche uno di Nino Di Matteo, e dice: "Caro Salvatore, l'articolo di live sicilia è l'ennesima tappa di un percorso studiato per screditare e sfiancare chi ancora osa cercare e avere rispetto della verità. Non solo la nobile anima di tuo fratello, ma tutto il paese ti deve riconoscenza e amore. Ti abbraccio. Nino di Matteo". Grazie Nino, un messaggio come il tuo, insieme a quelli di tanti altri, bastano a compensarmi di mille amarezze.»

Paolo Borsellino è l'eroe di tutti. Caro Salvatore, onori il suo nome, risponde Roberto Puglisi, Domenica 26 Marzo 2017, su "Live Sicilia".  Il fratello, quello dell'abbraccio con Ciancimino, risponde con veleni al nostro articolo.

Caro Salvatore Borsellino,

Purtroppo il nostro dolente sospetto ha avuto una inscalfibile conferma: la sua. Avevamo scritto che lei, pur molto amando Paolo e molto soffrendo per la sua dipartita, non era forse riuscito ad apprendere la misura e la compostezza di un fratello di carne e di sangue che è diventato una figura familiare per tutti noi. Avevamo scritto che il sacrilegio ideologico di certi paragoni - lei ha operato un'ardita similitudine fra suo fratello e Luigi De Magistris - e di certi abbracci - quello con Massimo Ciancimino in via D'Amelio ancora brucia - non può essere giustificato da niente; nemmeno dagli effetti di una cocente mutilazione. In risposta al nostro articolo, nella sua pagina facebook, lei ha replicato con una indicibile litania di volgarità e una sequela di allusioni che muovono solo una profonda pietà cristiana per la sofferenza, lo sconvolgimento interiore, il disagio psicologico, probabilmente generati da un insopportabile lutto. E non sarebbe necessario aggiungere neanche una virgola, perché il suo intervento spazza via ogni possibile equivoco su tutto, proprio su tutto. Tanto da augurarci che non sia davvero lei, Salvatore, l'autore di quel post intriso di esaltazione e maldicenze; che sia stato un suo alias, a sua insaputa, a vergarlo, qualcuno che le vuole veramente male e che non onora il suo cognome tanto riverito. Tuttavia, una postilla è doverosa. Non per lei, perché una prosa così stentorea non meriterebbe altro che una breve occhiata compassionevole o una immediata querela per diffamazione. Ma per l'affetto che dobbiamo a coloro che ci seguono e ci leggono.

Questo giornale ha assunto nei suoi confronti e nei confronti di una certa antimafia che abbiamo ribattezzato 'da circo' una linea esplicita. Rispetto, affetto e condivisione per la ferita provocata dall'orrore della strage. Ma anche umanissima pietà per le chiacchiere surrealiste che possono nascere da una così atroce perdita.

Abbiamo accuratamente evitato, per esempio, di tessere commenti sul ritardo - diciassette anni dopo la tragedia, la prima marcia delle Agende Rosse - con cui lei, da fratello, ha messo in campo una reazione ai terribili eventi di via D'Amelio. E abbiamo pure evitato di approfondire, più di quanto fosse necessario a rigore di cronaca, il segno di scelte contrarie e irriducibili. Da una parte lei, il fratello di Paolo, col canovaccio della sua antimafia chiacchierona, urlata e scomposta. Dall'altra, i figli di Paolo, che hanno portato il cilicio di una devastazione immane, con il loro stile impeccabile dentro e fuori le aule di giustizia.

Però, umanissima pietà non può significare reticenza. Abbiamo dunque sposato una perentoria chiarezza nel dire che l'antimafia delle agende rosse, con le sue esaltazioni, con le sue suggestioni e i suoi estremismi, è un concentrato di retorica e demagogia che ha avvelenato i pozzi del confronto su un tema talmente importante quale l'impegno e la ricerca della verità. E la radice di quella brutta antimafia è pienamente ravvisabile nella sua replica, dove - caro Salvatore Borsellino - si tratteggia il perfetto compendio dell'agenda rossa in servizio permanente effettivo al fianco di un populismo mediatico e giudiziario che non ammette il contraddittorio e che ha bisogno di mascariare sempre, mai entrando nel merito di nulla.

Chi non la pensa come l'antimafioso da agenda rossa, in sostanza, è un mafioso o un bicchierante che alza il calice per rallegrarsi del sangue dei giusti. Nessuna opinione diversa è accettabile; appena chicchessia si discosti dal vangelo (lo scriviamo minuscolo, a ragion veduta), imposto in forza di una parentela, si accende la reazione. Ai diversamente pensanti è riservata la scomunica, con l'indice dei peccatori e il rogo delle prolusioni in odore di anatema. Ne consegue che chiunque abbia letto con favore l'articolo di LiveSicilia vada iscritto d'ufficio nella categoria moralistica dei fiancheggiatori del male. Supponiamo anche Giovanni Paparcuri, coraggioso collaboratore di Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, che su facebook ha apposto il suo like alla nostra riflessione. Perfino Tony Gentile, il fotografo che immortalò Falcone e Borsellino con uno scatto memorabile, che, oggi, leggendo stupefatto quel post ormai celebre, ha espresso solidarietà all'autore dell'articolo 'dello scandalo'. E chissà, lei stesso, Salvatore, potrebbe suggerire all'Ordine dei giornalisti una revoca di incarico, visto che il sottoscritto-scrivente domani presenterà il premio nazionale dedicato alla memoria di Mario Francese, giornalista valoroso, assassinato per le sue inchieste.

Per non parlare, poi, di alcune deliranti conclusioni che si auto-elidono per la loro incongruità logica. Noi saremmo al guinzaglio dei colletti bianchi (che orribile banalità linguistica)? Noi che la mafia la raccontiamo ogni giorno grazie all'abnegazione di cronisti tanto bravi quanto consapevoli che non sfilano, a differenza di altri cantori del nulla, nelle parate, perché preferiscono lavorare a testa bassa in strada e nei tribunali? Noi, i Sancho Panza degli stragisti? Noi che, venticinque anni fa, eravamo poco più che bambini e saremmo successivamente stati i cronisti di un quotidiano che all'epoca non era nemmeno nella mente degli dei?

Caro ingegnere Borsellino, la nostra colpa è di averla definita, nel nostro titolo, un "fratello chiacchierone" che per vanagloria "spreca il nome di Paolo Borsellino". Le sue successive parole vanno drammaticamente nel senso di questo giudizio, espresso - sia chiaro - per un religioso amore nei confronti di Paolo e dei figli che con rigore e rispetto cristallino onorano quella memoria sacra. Le sue accuse, invece, non scalfiscono né il nostro impegno né la nostra storia. Scivolano sulle nostre spalle come l'acqua sul marmo perché sono campate in aria, cose da trattare appunto con commiserevole indulgenza. Un'ubriacatura civile agganciata a un cognome pulito e ispiratore di ben altri pensieri. Ed è questo, più di tutto, che fa male.

L’antimafia della bava alla bocca, scrive Francesco Massaro il 27 marzo 2017 su “Di Palermo”. La reazione violenta del fratello di Borsellino di fronte a un articolo su Livesicilia e le nostre imperdonabili colpe per avere delegato la lotta a Cosa nostra a chi rappresenta solo se stesso, e non i siciliani che la mafia la combattono ogni giorno. Senza scatenare guerre di religione. La violentissima e assai scomposta reazione del fratello di Paolo Borsellino al composto e assai bene argomentato articolo di Roberto Puglisi su Livesicilia rappresenta in fondo la cartina di tornasole del nostro fallimento, perché ci inchioda alla colpa non più sanabile di avere delegato l’antimafia a ultras accecati dal tifo, non più in grado di discernere la critica costruttiva e garbata dall’attacco becero e frontale. La reazione del fratello di Paolo Borsellino non fa onore all’antimafia stessa e agli uomini e donne che in quell’antimafia credono – e per quell’antimafia lottano – senza per questo vedere nemici in coloro che di tanto in tanto alzano il dito chiedendo di esprimere una nota dissonante rispetto a quella imposta dalla Gazzetta Ufficiale dei militanti di professione. La reazione del fratello di Paolo Borsellino ci indica che la lotta alla mafia ha sostanzialmente fallito, perché ha creato un’invincibile armata che lotta al grido di “o con me o contro di me”, che non ammette dubbi e incertezze, che rifiuta a priori la critica, la discussione, il dialogo, che se ne sta arroccata in una sorta di torre d’avorio che raccoglie i buoni e guarda con sufficienza, quando non con rabbia sprezzante, chi decide di restare libero da dogmi. La reazione del fratello di Paolo Borsellino, quel livore cieco da bava alla bocca, quel ricorso rabbioso al turpiloquio becero (l’orifizio anale), ci lascia di stucco perché ci conferma che da qui purtroppo non si torna indietro e ci pone, soprattutto, una domanda drammatica: perché abbiamo lasciato l’antimafia a chi non ci rappresenta? Perché abbiamo lasciato che i non siciliani credano che il riscatto della Sicilia che dice no alla mafia abbia il volto di Salvatore Borsellino e della sua claque? Perché? Vergogniamoci per questo. Vergogniamoci per non avere alzato la voce quando avremmo potuto ancora farlo, quando a certe facce, anche istituzionali, avremmo potuto sovrapporre la faccia di qualcun altro. Adesso non possiamo più, non siamo più in tempo. E siamo imperdonabili per questo. 

Tra antimafia e aria fritta, scrive Franco Cascio il 17 marzo 2017 su “Di Palermo”. La casa di don Tano Badalamenti a Cinisi, i tour delle scolaresche nei luoghi simbolo di Cosa nostra e un sindaco che, finalmente, dice quello che molti pensano ma non hanno il coraggio di dire. Quando qualche anno fa la casa di don Tano Badalamenti – lontana cento passi da quella di Peppino Impastato – venne assegnata al Comune di Cinisi, l’allora sindaco Palazzolo (omonimo dell’attuale), dal balcone di quella che fu l’abitazione del potente capo mafia, celebrò l’importante conquista coinvolgendo cittadini e istituzioni. Dalla strada, una ragazzina (guai a definirla “mocciosetta”) lanciava pesanti insulti all’indirizzo del capitano dei carabinieri che stava accanto al sindaco e al fratello di Peppino. Chiedendole il motivo di quegli insulti, la ragazzina (guai a definirla “mocciosetta”) mi rispose che “i carabinieri hanno depistato le indagini sull’assassinio di Impastato”. Insomma, per la ragazzina (guai a definirla “mocciosetta”) quel capitano dei carabinieri (che forse nel 1978 non era nemmeno nato) era responsabile del depistaggio e meritevole di disprezzo e dileggio. Mi è venuto in mente questo episodio leggendo quanto riporta Repubblica Torino in merito a dei fatti che sarebbero accaduti qualche giorno fa a Cinisi, protagonisti una scolaresca di Moncalieri, la casa del boss e l’attuale sindaco Palazzolo. Agli studenti piemontesi che erano andati dal sindaco per lamentarsi delle difficoltà nel riuscire a visitare l’edificio dove viveva il boss Tano Badalamenti, il primo cittadino avrebbe risposto che lui quella casa la butterebbe giù, aggiungendo poi pesanti critiche ai tour della legalità, organizzati come “visite allo zoo”. «Alcuni di questi giovani – avrebbe detto Gianni Palazzolo – vengono qui con la supponenza di trovare il sindaco mafioso e pensano di visitare una città dove vedere i padrini con coppola e lupara». Magari avrà esagerato nei toni, ma nella sostanza il sindaco ha ragione da vendere. Non tutti, per carità, ma molti dei fruitori del turismo-antimafia e delle visite guidate nei luoghi simbolo della storia mafiosa siciliana, sono convinti di trovare le stesse atmosfere narrate nei romanzi e nel cinema. Escursioni con colazione a sacco che fanno la gioia di quell’esercito di esaltati, affetti da una specie di sindrome di Stendhal dell’antimafia, che rimangono incantati nel vedere da vicino strade e angoli della Sicilia teatro della barbarie mafiosa o nello stingere la mano al familiare di una vittima della mafia. Emozioni da raccontare al ritorno agli amici o da condividere con un post sui social, magari aggiungendo che in Sicilia ancora la gente si chiude dietro le persiane, dice di non sapere nulla della mafia e che i sindaci sono tutti collusi con Cosa nostra. 

E non ha nemmeno torto il primo cittadino quando, provocatoriamente, afferma che quella casa appartenuta al boss lui la butterebbe giù. Perché, in questo caso, la scusa che bisogna mantenere viva la memoria per evitare che si ripetano gli errori del passato non regge. Mantenere viva la memoria non vuol dire marcirci dentro. Una Sicilia che vuole guardare al futuro non può fare certo a meno della memoria, ma non muoverà mai un passo fino a quando rimarrà in essa ingabbiata. Radere al suolo un edificio appartenuto al potere mafioso, tra le cui stanze, sebbene oggi di proprietà dello Stato, si aggirerà sempre il nome della stirpe Badalamenti, andrebbe oltre il valore simbolico. Difficile da proporre (coraggioso è stato il sindaco) e ancor più difficile da accettare, specialmente in una Sicilia dove regna una certa antimafia che vive di simboli e di tour della legalità. Di aria fritta insomma. Eppure la vera svolta passerebbe dalla capacità di guardare avanti ricordando sì il passato, ma senza che questo diventi un macigno. Altrimenti ci sarà sempre una ragazzina (guai a definirla “mocciosetta”) che oggi griderà insulti a un carabiniere perché nel 1978 i suoi colleghi furono responsabili di avere depistato le indagini su un omicidio.

ANTIMAFIA CONNECTION. L'IPOCRISIA DELLE RICORRENZE.

Cordiali e rassicuranti, ecco come riconoscere i nuovi mafiosi, scrive Francesco Alberoni, Domenica 30/04/2017 su "Il Giornale". Per molto tempo ho pensato che il mafioso fosse solo colui che appartiene alla delinquenza organizzata. Poi ho conosciuto e studiato meglio alcune persone e mi sono reso conto che esiste una mentalità mafiosa non solo in Sicilia o in Calabria e non solo nel mondo della malavita ma anche nel campo professionale. Puoi trovare medici, avvocati, professori universitari, politici e amministratori con questa mentalità. Io sono convinto che si tratti di un tipo umano preciso e riconoscibile. Tanto per cominciare il mafioso è un uomo d'onore. Egli si presenta sempre come il massimo della integrità morale e della più calda affettuosa, sincera generosità. È una figura cordiale, rassicurante, pronta a farvi favori senza chiedere nulla in cambio. Almeno subito, perché nel momento in cui li accettate ai suoi occhi contraete un debito di riconoscenza che potrà esigere quando vuole e nella misura che vuole. Una cambiale in bianco che può essere pesantissima. Il mafioso è caratterizzato da una infinita volontà di dominio. Non vuol realizzare un progetto, un sogno, il suo scopo è acquistare sempre nuove cariche e quindi sempre nuovo potere su altri uomini che poi tratterà come burattini, come servi. Questo tipo umano si è addestrato a mentire, a dissimulare le sue emozioni. Prepara a lungo i suoi tranelli ed è difficile scoprire il suo inganno prima che abbia colpito. Può vivere per anni, come amico, a fianco della persona che ha già deciso di distruggere. Di solito non ostenta. Nel film Il padrino parte II il più potente di tutti i capi mafia, Hyman Roth, vive poveramente in una casetta anonima nei sobborghi di Miami. E anziché nascondere il suo precario stato di salute, ne parla apertamente per dare l'impressione di apparire ormai impotente, quindi non pericoloso. Perché non ha altri valori che il potere, non ha altro interesse che il potere. Tutto per lui, morale, religione, cultura, amicizia, sentimenti, politica, tutto è mezzo. Quando governa una istituzione gode nell'incutere terrore ed instaura un clima di paura e di odio. Prima si sbarazza dei migliori e poi opprime, senza freni, i suoi prigionieri impotenti.

"Quell'indagine su mafia e appalti". La strage Borsellino e il movente. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci è stato audito dalla commissione Antimafia, scrive il 3 luglio 2017 "Live Sicilia". "Il discorso mafia-appalti inizia nel 1989 e vede quel famoso rapporto che l'allora colonnello Mori e il capitano De Donno depositano, se non sbaglio nel febbraio del 1991, e che consegnano a Giovanni Falcone. Ma Giovanni Falcone il giorno dopo o qualche giorno dopo migra per Roma. Quel rapporto contiene, nei suoi allegati, elementi molto circostanziati che riguardano non solo la tangentopoli siciliana, che però rispetto alla tangentopoli milanese ha il problema che l'altra gamba del tavolino è rappresentata da Cosa nostra, ma contiene anche degli elementi che riguardano proprio il dottore Giammanco". A parlare della pista del rapporto mafia-appalti come possibile movente della strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino è il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, audito dalla commissione Antimafia. Il resoconto è stato depositato nei giorni scorsi. "Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala. - prosegue Paci - Altro dato che emerge inquietante è che, spesso ci siamo soffermati a pensare a quest'aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest'attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D'Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all'eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala". "Che cosa ha fatto Paolo Borsellino nel 1991 di particolare? - si chiede il magistrato - Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti? Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto tra mafia e appalti, di tutto quello che è collegato a mafia e appalti. Non viene a conoscenza del fatto solamente che c'è un'appendice del rapporto tra mafia e appalti a Pantelleria. Evidentemente, viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano la De Eccher, il rapporto con imprenditori del nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l'amministratore della società, comunque legato mani e piedi al potere politico romano". (ANSA).

"Borsellino avrebbe voluto arrestare Giammanco", scrive Martedì 22 Febbraio 2011 "Live Sicilia". I rapporti tra Borsellino e l'allora procuratore Piero Giammanco erano talmente tesi che una volta il giudice poi ucciso in via D'Amelio, arrabbiato, disse in modo provocatorio che se avesse potuto lo avrebbe arrestato. A dirlo è il tenente Carmelo Canale, per anni braccio destro del magistrato assassinato che lo volle con se a Palermo, sentito oggi come testimone della difesa al processo per favoreggiamento aggravato al generale dei carabinieri Mario Mori. "Un giorno vidi Borsellino scrivere convulsamente sulla sua agenda rossa. Non so cosa stesse appuntando, ma mi disse, arrabbiatissimo, che ce n'era per tutti e che era finito il tempo di scherzare, ma bisognava scrivere". Canale ha ricordato l'episodio, avvenuto una settimana prima della strage di via D'Amelio. Il teste, che fino a pochi momenti prima che il giudice scrivesse sulla sua agenda, poi sparita dopo l'attentato, aveva scherzato con Borsellino, ha proseguito: "Non mi disse cosa era accaduto nel frattempo e perché fosse così adirato. So solo che il suo cruccio in quel momento era l'omicidio di Giovanni Falcone e che su quella vicenda c'erano fatti che solo lui conosceva e sui quali non fu mai sentito a Caltanissetta". Canale ha ricordato anche un altro episodio in cui vide il giudice molto arrabbiato. "Fu quando - ha spiegato - seppe che l'allora procuratore Giammanco voleva andare al funerale di Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del '92. Un omicidio che lui riteneva non di mafia, ma che per Falcone era invece un fatto di enorme peso in Cosa nostra''. "Mi disse - ha aggiunto - anche forzando un po' i toni che avrebbe voluto arrestare Giammanco". Canale ha poi dato un giudizio molto negativo sul colonnello dei carabinieri Michele Riccio, grande accusatore di Mori. "Lo incontrai - ha spiegato - perché sosteneva di avere una cassetta registrata con le dichiarazioni di un suo maresciallo sulla morte di mio cognato (il maresciallo Lombardo suicidatosi in caserma in circostanze mai chiarite ndr). Ma quella cassetta non me la diede mai, mi parlò solo di affari suoi e l'unica cosa certa era che ce l'aveva a morte con Mori". Il processo è stato rinviato all'8 marzo per sentire un altro teste della difesa, l'ex capitano del Ros e braccio destro di Mori, Giuseppe De Donno. Nel corso della mattina, Canale aveva parlato invece dei rapporti tra i Ros e il giudice assassinato in via D'Amelio: “Tra il Ros del generale Subranni e del colonnello Mori e il procuratore Borsellino - ha detto Canale - c’erano ottimi rapporti. Mai Borsellino mi riferì giudizi critici su Mori”. Canale, dopo una lunga vicissitudine processuale, è stato assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, che gli ha comportato 5 anni di sospensione dall’Arma, e reintegrato in servizio col grado di tenente colonnello. Per lungo tempo braccio destro del giudice Paolo Borsellino il teste ha ripercorso in aula, davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo, la sua carriera. A riprova della bontà delle relazioni tra l’imputato e Borsellino e più in generale tra il Ros e il magistrato, Canale riferisce di due cene a cui il giudice ed altri magistrati parteciparono insieme ad ufficiali del raggruppamento. “Organizzammo una cena a Terrasini tra ufficiali del Ros, tra i quali c’era anche l’allora Maggiore Obinu (coimputato insieme a Mori ndr) – ha aggiunto – e alcuni magistrati come Borsellino, Lo Voi e Natoli. Al termine della cena Borsellino tenne un discorso che finì con questa frase: “questa è la cena delle persone oneste”. Poi Canale ha raccontato di un altro incontro conviviale tra Mori e Subranni, rispettivamente vice e comandante del Ros, e Borsellino. “Avvenne – ha spiegato – nella sede del comando generale a Roma una settimana prima che Borsellino venisse ucciso. Poi andammo a Salerno in elicottero con Subranni”. (fonte: Ansa)

Luciano Violante: «La verità su Falcone e Borsellino? La mafia stava cambiando strategia e aveva paura di loro». Intervista a tutto campo con l’ex presidente della Camera: «Sciatteria nella protezione a Borsellino? La Sicilia non è terra di distratti. Le intercettazioni Consip? Un uso immorale della questione morale», scrive di Roberto Arditti il 23 Maggio 2017 su "L'Inkiesta". Giovanni Falcone muore esattamente 24 anni fa, ucciso con cinque quintali di tritolo dalla mafia insieme a sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Sulla sua morte e su quella di Paolo Borsellino sappiamo molto, ma certamente non sappiamo tutto. Così è anche per molte vicende degli anni di piombo, a cominciare dal caso Moro. Se c'è una persona cui chiedere se siamo una Repubblica dei Misteri questa persona è Luciano Violante: «Non userei quella espressione - spiega a Linkiesta - Anche se va detto che su alcuni episodi drammatici della nostra storia ci manca la verità. Penso, in particolare, a tre vicende, cioè l'omicidio di Aldo Moro, le stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia. Vale per molte altre tragedie come ad esempio l’omicidio Kennedy e quello di Lee Oswald accusato di aver ucciso il presidente degli Stati Uniti. Aggiungo che noi siamo l'unico Paese d'Europa che ha riconosciuto ai terroristi la dissociazione, prendere le distanze dal terrorismo senza accusare altri. Nicolò Amato (allora a capo delle carceri italiane, ndr) ci propose di creare le aree omogenee fra detenuti. La Dc si rimise alle nostre decisioni, del gruppo dirigente del Pci. Ne discutemmo e alla fine molti si convinsero. Introducemmo questa importante novità e ottenemmo la dissociazione di molti brigatisti. Possibile perché di fronte c'è uno Stato che accetta la loro ammissione di avere sbagliato rispettando la volontà di non collaborare con la giustizia. Quella è una prova di democrazia che altri Paesi, dalla Spagna alla Germania alla Gran Bretagna, non hanno osato sostenere.

Hai accennato al caso Moro. Cosa non torna in quella storia drammatica dei 55 giorni?

«Quella è una vicenda assai più tragica e complessa della pur angosciante battaglia tra lo Stato le Brigate Rosse. La verità giuridica che ci hanno consegnato le aule giudiziarie spiega molto, ma certamente non spiega tutto. Credo che la commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal senatore Fioroni ci rivelerà particolari di grande interesse».

Moro poteva essere liberato?

«Penso di sì, come qualsiasi sequestrato in un paese moderno. Il suo omicidio rispondeva a interessi nazionali ed anche sovranazionali. Non sto dicendo che i brigatisti erano agenti al servizio di potenze straniere. Loro potrebbero aver agito senza sapere per conto di chi portavano a termine la loro missione di morte. Io sono stato nella prima commissione d'inchiesta. Abbiamo indicato tutte le contraddizioni e le incongruenze. Non può essere tutto spiegabile con disattenzione o sciatteria. Facciamo un esempio. A un certo punto arriva la pista "Gradoli". Perché le forze dell'ordine vanno al paesino con quel nome e non alla via di Roma (dove più avanti sarà ritrovato un covo delle BR, ndr)? Il Capo della Polizia del tempo ci dice che la colpa è dell'elenco telefonico troppo vecchio, che non riporta la nuova via Gradoli di recente istituzione. È chiaro che in quella storia c'è qualcosa, e non di poco conto, che non torna».

E sulle due stragi di Brescia e Milano?

«Il problema è nelle indagini. Troppi depistaggi, troppe mancanze. Non può essere un caso».

Torniamo a Falcone. La Repubblica è venuta a patti con la mafia? Abbiamo capito cosa è successo davvero?

«La trattativa politica, a mio avviso, non c’è mai stata. C’è che la mafia considera intollerabili le proprie sconfitte e uccide chi “esagera”, chi colpisce troppo o troppo a lungo. Chi turba gli equilibri non può essere tollerato a lungo. Falcone, Borsellino, Chinnici, Livatino, La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa rompevano gli equilibri mafiosi e la antica convivenza tra mafia e poteri pubblici. Perciò sono uccisi».

La coincidenza tra stragi mafiose ('92-'93) e fine della Prima Repubblica è casuale?

«La caduta del muro di Berlino cambia radicalmente gli equilibri internazionali e muta altrettanto radicalmente il ruolo dell'Italia. I partiti non reggono l'urto, in particolare non reggono Dc e Pci. La mafia avverte che il mondo sta cambiando e capisce anche che i suoi referenti storici non sono più in grado di garantirli. Falcone e Borsellino capiscono che Cosa Nostra si avvia a cambiare strategie e interlocutori e per questo vengono uccisi. Perciò dietro quei due omicidi c'è un'intelligenza "politica", ancorché messa al servizio della criminalità organizzata. Non a caso nella stessa stagione vengono assassinati anche Lima e Salvo. Cosa Nostra fa fuori il garante dei contatti politici e il garante dei contatti finanziari, insieme ai due magistrati più capaci e coraggiosi. Così la mafia taglia i ponti con il passato, preparandosi alla Seconda Repubblica. La mafia si occupa sempre del futuro, non del passato».

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono ammazzati a meno di due mesi di distanza l'uno dall'altro. Poteva andare diversamente?

«Rispondo con gli occhi di chi guarda tanti anni dopo a quelle drammatiche settimane. E debbo purtroppo dire che avevano ragione loro quando dicevano, con impressionante lucidità, "siamo due morti che camminano". Ero amico di Giovanni Falcone; lo sono diventato di Paolo Borsellino dopo Capaci. L'idea della morte, un'idea tutta siciliana della morte, era spesso presente nei loro ragionamenti».

Il 23 maggio del 1992 muore Falcone. Come è possibile che non riusciamo a salvare almeno Paolo Borsellino?

«A quel punto l'evidenza del pericolo non ha certo bisogno di altri elementi».

Ma se non fu disposto nemmeno il divieto di parcheggio sotto casa della madre?

«Tutti sapevano che la domenica andava lì. Mi torna alla mente un episodio. Borsellino viene a trovarmi a Roma, dopo la morte di Falcone. In quel momento telefona Piero Vigna, Procuratore della Repubblica a Firenze. Gli dico che c'è Paolo e gli passò la cornetta per un saluto. Vigna non era certo tenero con le parole e infatti si lamenta subito con Borsellino, dicendogli che invece di girare a fare comizi nelle scuole dovrebbe leggere i fax che lui gli manda. Borsellino cade dalle nuvole e allora Vigna gli rivela che c'è a Firenze un pentito di nome Mutolo (Gaspare Mutolo, sarà di lì a poco la voce più importante tra i pentiti di Cosa Nostra a sostenere le forti contiguità tra mafie e esponenti di spicco dello Stato, ndr) a che vuole parlare con lui. Ma Borsellino non ne sa nulla perchè il suo capo, il dottor Giammanco, non lo ha informato. Inizia così una defatigante trattativa, perché Borsellino viene autorizzato ad incontrare il pentito ma soltanto in presenza di altri magistrati della Procura di Palermo. Ma il pentito vuole parlare solo con lui. La mattina del 19 luglio 1992, domenica, alle sette, ha riferito Agnese Borsellino alla Corte d’Assise di Caltanissetta, mio marito ricevette a casa una telefonata del procuratore Giammanco che gli comunicava di aver deciso di affidargli le inchieste sulla mafia a Palermo. “Così la partita è chiusa”, dice il procuratore Giammanco. “Così la partita è aperta “risponde Paolo Borsellino. Verrà ucciso nel pomeriggio dello stesso giorno».

Insomma non poteva andare diversamente, anche se è molto doloroso ammetterlo. Ma il parcheggio libero consentito davanti a casa della madre, dove Borsellino si reca ogni domenica, è solo un caso di sciatteria, una falla nel sistema di protezione?

«La mia opinione è che non c'è sciatteria da quelle parti su temi così importanti. Conosco Palermo, ho lavorato per vent'anni laggiù. Non è terra né di stupidi né di distratti. L'ultimo venerdì prima di morire Paolo interroga ancora Mutolo e ne esce sconvolto, come racconterà sua moglie Agnese. Dà appuntamento al pentito per il lunedì successivo, ma proprio quella domenica lo ammazzano. Il tema di quel colloquio mai avvenuto sarebbe stato proprio sui rapporti tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato».

Voltiamo pagina e guardiamo allo scenario politico internazionale. Abbiamo avuto le elezioni francesi, che arrivano dopo quelle americane. Cos'è la sinistra? Cosa ne rimane? La vittoria di Macron è la morte della sinistra come l'abbiamo conosciuta oppure no? E Trump che batte la Clinton? 

«Prima di pronunciare sentenze definitive, mi riferisco alla Francia, attenderei le elezioni legislative. Le presidenziali sono certo importanti, ma il risultato socialista è stato certamente influenzato dal fatto che il Presidente uscente, cioè Hollande, ha deciso di non candidarsi. In ogni caso pongo un tema: Melenchon è di sinistra oppure no? Difficile non dire di sì. Ma di quale sinistra? Il tema su cui ci si divide non è il conflitto tra capitale e lavoro, grande classico del '900; è il conflitto tra europeisti e nazionalisti o sovranisti come oggi si autodefiniscono pudicamente i nazionalisti. Melenchon è di sinistra ma è antieuropeo; Forza Italia è di destra ma è filoeuropea. E ancora. Guardiamo ai comportamenti di chi vive di rendita e chi vive di lavoro. In passato avremmo detto che i primi sono di destra e i secondi di sinistra. Ma qualche grande rentier non disdegna di dichiararsi di sinistra, fa più elegante. Oggi tutto va sottoposto a nuove analisi e nuove riflessioni. E poi l'America. Vado a sentire un comizio di Trump e uno della Clinton. Di Trump capisco si e no la metà dei concetti espressi. Allora mi volto verso un vicino e gli chiedo di aiutarmi. Mi dice "don't worry", sono parolacce. Della Clinton capivo tutto, concetti chiari e di buon senso. Ma confondeva il politicamente corretto con il principio di eguaglianza. Parlava dei neri, dei messicani, delle donne, dei gay. Tutto giusto ma non parlava ai bianchi americani poveri e disoccupati. Trump parlava solo a loro. Un esempio per capirci. Mi trovo in Calabria qualche mese fa. Dentro un bar di un piccolo paese. Prendo un caffè e vedo un gruppo di ragazzi di colore che chiacchierano, sembra per passare il tempo. Si avvicina un signore anziano e mi rivolge questa domanda: "Può spiegarmi perché quelli lì prendono due euro e mezzo al giorno e mio nipote disoccupato niente?". Il dramma è che la risposta non c'è. E qui si torna alla Clinton. Nel suo ineccepibile "politically correct" i bianchi schiacciati dalla globalizzazione non trovano risposte. E votano Trump. Lo stesso in Gran Bretagna, dove i conservatori della May si fanno carico dei dimenticati dalla sinistra. E attenzione che in Italia il fenomeno è già in atto, tanto è vero che il Pd ha, sinora, più consenso nei quartieri benestanti delle città e meno consenso in quelli più popolari».

Ma se cerchiamo di andare più a fondo, troviamo una spiegazione di perché tutto questo è accaduto e continua ad accadere?

«A mio avviso la risposta è nel 1989, con la caduta del muro. La sinistra perde il suo riferimento planetario e si ritrova a dover scendere a patti con il capitalismo, magari scegliendo quello meno peggio. Mi verrebbe da dire provando a dialogare con la "migliore" finanza, che però resta pure sempre finanza, con le sue logiche. Le idee di solidarietà, di socialismo e così via ne escono clamorosamente indebolite e quasi dimenticate dalla sinistra, o almeno dalla sinistra prevalente. Torniamo a Hegel: "ciò che è razionale è reale". E questo è la sinistra. Ma se leggiamo al contrario, cioè "ciò che è reale è razionale", troviamo la destra. La sinistra ha un progetto in testa e quindi si batte per realizzarlo. La destra chiede innanzitutto di prendere atto che se le cose sono in certo modo un motivo ci sarà. Adesso, almeno a mio avviso, si vede una impressionante inversione, perché molti a sinistra, sulla scia del "politically correct" tendono ad assumere ciò che "è" come punto di riferimento, mentre a destra apparentemente c'è più aria di cambiamenti drastici».

E allora i partiti? Quelli di sinistra, italiani e non, sono gli interpreti di questo ribaltamento di ruoli?

«La sinistra è erede dell’illuminismo e ha sempre usato la ragione come strumento per leggere la realtà. Ma da un po’ di anni la ragione é diventata un comodo divano, sul quale sdraiarsi, non più un bisturi per aprire i problemi e guardarci dentro. Inoltre tutti i partiti, anche quelli di sinistra, si sono "statalizzati". L’intero gruppo dirigente è composto di persone che stanno in Parlamento o nei consigli regionali. Con il risultato di rendere sempre più di palazzo la loro sensibilità, lontani dai problemi, che stanno invece fuori dal palazzo. Ancora una volta è il politicamente corretto che trionfa, imponendo anche di abbandonare i toni della protesta, che per sua natura unifica, mobilita e indica obbiettivi. La sinistra è ancora in tempo per tornare alla società, per maturare ed esplicitare un proprio punto di vista sul mondo e sul futuro. Ma deve far presto».

E infatti il Pd è sostanzialmente un partito-Stato in Italia...

«Il peso del Pd lo hanno deciso i cittadini tramite libere elezioni. Questa è la sfida che ha davanti il PD: riorganizzarsi nella società. Ci sono le condizioni, pensi solo alle migliaia di volontari che hanno permesso l’organizzazione delle primarie. E molti sono giovani. Quale altro partito può farlo? Ma, ripeto, bisogna far presto».

È anche vero che non ci sono più le classiche "cinghie di trasmissione" come i sindacati o le cooperative.

«Come dice Papa Francesco siamo dentro un cambiamento epocale, mutano gli elementi portanti del mondo occidentale. Qualche giorno fa abbiamo presentato il nostro rapporto annuale di Italiadecide. E come sempre abbiamo invitato un italiano capace di distinguersi sul fronte dell'innovazione e del pensiero. Ruggero Grammatica arriva e ci presenta la sua piattaforma digitale, capace non di elaborare semplicemente dei testi, ma in grado di sviluppare concetti. Siamo cioè di fronte al pensante non umano, che si affianca a quello umano. Le vecchie categorie sono quindi nostalgia allo stato puro. Oggi la questione fondamentale è reinventarsi una nuova antropologia e questo vale anche per la politica. O forse soprattutto».

Certo, il problema è abbastanza chiaro. Come risolverlo molto meno però...

«Dobbiamo capire che siamo alla crisi dell'Illuminismo, della ragione come strumento supremo di comprensione della realtà. Mi capita di scriverlo nella mia rubrica sull'Osservatore Romano. Da un'altra parte arriva alla stessa conclusione Julián Carrón, il presidente di Comunione e Liberazione. In fondo siamo di fronte ad una stagione neo romantica, proprio come quella che viene dopo l'Illuminismo. Guardiamoci intorno. L'emozione prende il posto della ragione. La patria come valore prevalente rispetto all’internazionalismo. E poi il leader, il capo, nei confronti del quale scatta un processo di immedesimazione. Nessuno parla più di uomo di Stato, ma tutti invocano il leader, cioè l'espressione romantica per eccellenza, la figura del capo, del trascinatore. Insomma prevalgono meccanismi emotivi, più basati sulla somiglianza che sulla rappresentanza».

Perché Papa Francesco si inserisce con tanta facilità in questa modernità tanto nuova e per molti versi sconvolgente?

«Perché non è europeo. Viene dalla fine del mondo, come dice lui. Pensiamo al tema dell'eguaglianza, alla questione dei poveri. Da noi sono spesso posti in modo retorico. Ma lui non fa così, perché li ha visti da vicino. È vissuto dentro la dittatura, è vissuto con la miseria accanto. Ecco perché lui riesce a trovare un modo nuovo di essere e di proporre un cammino».

Quindi è lui il vero capo della sinistra nel mondo?

«Sbagliato metterla così. Occorre rispetto. Prendiamo il caso Consip. È molto grave se, come assai probabile, un funzionario pubblico di qualsiasi tipo passa a un giornalista materiale che deve restare riservato. Ma non meno grave è come la politica usa tutto ciò nei propri dibattiti, perché questo finisce per essere un uso immorale della questione morale».

Torniamo all'Italia. Come aggiustiamo gli assetti istituzionali della Repubblica? Dure referendum hanno fallito miseramente.

«Non possiamo arrenderci. Il referendum del centro-destra del 2006 impatta e fallisce sul tema del federalismo, che appare troppo costoso al nord e svantaggioso al sud. Altra storia è quella dello scorso dicembre, dove il risultato si spiega con il netto prevalere nel voto dell'avversione al governo e a Matteo Renzi, senza considerare più di tanto il merito delle modifiche proposte. Proprio per questo considero sbagliato il silenzio calato sul risultato dell'anno scorso. Chi ha votato NO dovrebbe comprendere di essere corresponsabile del disordine che abbiamo sotto gli occhi e chi ha condotto la campagna del SI dovrebbe ammettere di aver ecceduto in personalizzazione e anche di aver messo troppi temi in un solo testo. Ma questo è il senno del poi, con tutti i suoi limiti, sia chiaro».

Tornando indietro Lei confermerebbe il suo SI?

«Assolutamente. Ne sono convinto. E quello che accade in questi mesi ne è la prova».

Insomma ci dobbiamo rassegnare?

«Decisamente no. A breve presenteremo noi di Italiadecide una serie di proposte molto concrete per agire sul fronte dei regolamenti parlamentari. Faccio tre esempi. In materia di maxi-emendamenti, conversione dei decreti legge e sfiducia costruttiva si può intervenire per quella via, senza passare dalla modifica costituzionale. Sono riforme di grande portata raggiungibili in questa legislatura».

Tra politica e giustizia ci sarà mai pace?

«Il punto di fondo riguarda il modo di condurre la lotta politica e come funziona l'informazione. Prendiamo il caso Consip. È molto grave se, come assai probabile, un funzionario pubblico di qualsiasi tipo passa a un giornalista materiale che deve restare riservato. Ma non meno grave è come la politica usa tutto ciò nei propri dibattiti, perché questo finisce per essere un uso immorale della questione morale, tema che riguarda anche i media, sia chiaro. Per abbattere l'avversario vale tutto ormai. Si prenda la telefonata tra Renzi e il padre. A un certo punto dice "non fare il nome di mamma": qui i casi sono due. O la telefonata era organizzata sapendo di essere intercettati, ma allora non si capisce quel riferimento, che diventa un autogol. Oppure la telefonata è una telefonata e basta, ma allora non si può dire che è stata confezionata ad arte. Non possiamo continuare ad usare tutto contro tutti anche nel modo più scorretto. Così non se la cava nessuno. Ricordiamoci che le democrazie muoiono sempre per suicidio, mai per omicidio».

In Italia abbiamo esagerato nell'utilizzo delle intercettazioni?

«E l’uso nella battaglia politica che é incivile. Campagne di stampa di giorni e giorni sono assolutamente fuori da ogni logica democratica, che fa scivolare l’informazione verso la diffamazione. E sia chiaro, non è questione di norme. Come diceva Machiavelli, le leggi funzionano se ci sono buoni costumi».

Quale legge elettorale ci serve per uscire dal guado?

«Sono stato eletto in Parlamento con tutti i sistemi. Ma quello che considero migliore è quello che utilizza collegi uninominali, magari non per l'intero numero degli eletti. Dubito però che ci si arrivi. Sento in giro una gran voglia di proporzionale».

Cosa deve fare la sinistra?

«Oggi molti si definiscono di sinistra senza esserlo. Ci sono snodi ineludibili. Il primo è definire un atteggiamento verso l'Europa. Poi chiarire le politiche per le fasce più deboli e per il riconoscimento del merito. Oggi continuiamo ad usare sinistra con categorie vecchie. In qualche modo Barack Obama si è applicato a questo. E lo stesso Macron, nel formare un governo così politicamente composito, ci indica che dobbiamo smontare tutte le impalcature cui siamo abituati».

Un consiglio finale non richiesto a Matteo Renzi?

«La sua missione è riunificare il Paese, in primo luogo nello scollamento tra le generazioni».

Paolo Borsellino, l’uomo e quel mestiere “scottante” di giudice. Intervista con il magistrato Luciano Costantini, che lavorò a Marsala a fianco di Paolo Borsellino di Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino e Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, scrive il 5 Luglio 2017 "La Voce di New York". Il giudice Luciano Costantini, in questa lunga intervista, racconta la figura professionale e umana del collega Paolo Borsellino: "Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare". Il 4 luglio 1992, Paolo Borsellino tenne il discorso di commiato a Marsala. Era andato via mesi prima per trasferirsi a Palermo come procuratore aggiunto ma la festa di commiato fu preparata, dai colleghi, a Luglio. Per ricordare quell’evento, qualche settimana fa, abbiamo contattato il Dr Luciano Costantini che fu collega del giudice ed era presente in quell’occasione.   Ne è nata un’intervista in cui ci ha parlato dei suoi ricordi privati. Una lunga conversazione che ha toccato più punti sulla vita del Giudice Borsellino: dalla professione alla famiglia, dal metodo investigativo all’amicizia con il collega Giovanni Falcone, dalle delusioni all’ironia, dalla paura al coraggio. E tanti aneddoti inediti come la telefonata che gli fece il Presidente Francesco Cossiga nel 1991 o l’accusa a Vincenzo Geraci di essere il  “Giuda” che tradì il suo amico Giovanni nella votazione al Csm, nel gennaio 1988, o ancora la paura, nel 1992, di villeggiare a Villagrazia. Ne esce un quadro che ci fa comprendere ancora di più chi fosse Paolo Borsellino ed allo stesso tempo ci fa rimpiangere, per l’ennesima volta, la perdita dell’Uomo, così buono, giusto ed onesto.

Luciano Costantini, classe 1962, dal 1991 al 1994 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Marsala (TP) con applicazioni alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Dal 1995 al 2004 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Pistoia con applicazioni alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze. Dal 2005 al 2015 ha svolto le funzioni di giudice presso il tribunale di Pistoia prima nella sezione civile e dal 2007 nella sezione penale. Dal 29 settembre 2015 è presidente della sezione penale del Tribunale di Siena. Fino al Luglio 2016 ha esercitato le funzioni di Presidente del Tribunale in assenza del titolare. Si è occupato, e si occupa tuttora, di insegnamento, presso l’università di Siena e di Firenze e presso la scuola di formazione forense “Cino da Pistoia” su temi di diritto penale e di procedura penale. E’ anche relatore nel master in tecniche dell’investigazione organizzato annualmente dal dipartimento di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena nella materia delle intercettazioni telefoniche. Dal 2002 tiene docenze periodiche in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro –profili penali- in corsi organizzati da vari ordini professionali della toscana, enti locali e enti privati destinati a professionisti e funzionari pubblici. Costantini ha curato il commento gli artt. 496-524 e 549-567 del codice di procedura penale edito da Cedam nel 2012.

Dottore Costantini, ci racconta quando ha incontrato, per la prima volta, Paolo Borsellino?

“Conobbi Paolo Borsellino alle 7,00 del 2 novembre 1990, quando egli personalmente passò a prendermi all’albergo di Palermo dove alloggiavo. Ero arrivato la sera prima, perché da pochi giorni avevo scelto la prima sede del mio lavoro di magistrato: sostituto procuratore della Repubblica a Marsala. Cioè, la Procura di Paolo Borsellino. Avevo voglia di sapere dove avrei trascorso i prossimi anni della mia vita, ma soprattutto morivo dal desiderio di conoscere Paolo. Immaginate quale fu la sorpresa quando mi disse che lui stesso sarebbe venuto a prendermi per andare insieme a Marsala. Il 1 novembre era festa, e quella sera Palermo era davvero splendida: calda, accogliente e piena di gente come sa essere una grande città del sud. Girare per le sue piazze e le sue strade, respirare quell’aria tiepida di un’estate che laggiù non finisce mai, era il miglior modo per attendere l’incontro dell’indomani. Il giorno dopo sarebbero stati commemorati i defunti e anche questa è una grande festa, laggiù nell’isola: quella notte i morti portano ai bimbi la frutta martorana, e in qualche paese alcune famiglie vanno ancora a banchettare al cimitero con i loro cari. C’è un continuum inscindibile tra vita e morte. Giovanni Falcone diceva che “la vita vale un bottone”. Ed è vero. Ricordo che a Marsala fu ucciso un ragazzo di quattordici anni. Si scoprì subito che gli autori erano stati alcuni suoi amici, entrambi minorenni, e che il movente era stato il furto di un ciclomotore. Ha raccontato uno dei due omicidi che l’amico gli chiese se fosse stato opportuno uccidere quel loro coetaneo che gli aveva rubato il motorino ed egli rispose: “Pi mia”. La stessa cosa che decidere se trascorrere la serata al cinema o al ristorante. “Pi mia, per me è uguale”. La vita non vale niente nell’ignoranza che la mafia coltiva e fa crescere. La cortesia di Paolo di passare a prendermi in albergo mette in risalto una delle sue più grandi doti: l’umiltà. Uno dei più famosi magistrati italiani e del mondo va a prendere l’ultimo degli uditori che si appresta ad iniziare a lavorare nella sua Procura. Paolo aveva con sé l’Alfa Romeo blindata che guidava personalmente, e insieme ci avviammo verso Marsala. Credo che quel giorno Paolo, incallito fumatore, abbia battuto il record di astinenza dal fumo. Era rimasto senza sigarette, e siccome nell’autostrada che collega Palermo a Trapani non esiste né una stazione di servizio né un autogrill, ha dovuto rassegnarsi a non fumare. Nel breve volgere di quell’ora e mezza di viaggio, con la sua affascinante capacità di sintesi, Paolo mi parlò del lavoro, della città, dei colleghi, dei suoi collaboratori e anche di parte della sua vita”.

Paolo Borsellino arriva a Marsala a fine estate del 1986, con una decisione del Csm che in quel momento ribaltava i soliti canoni. Fu preferita la competenza sull’anzianità. Il giudice aveva compreso che bisognava indagare in un territorio fino ad allora lasciato isolato ma che aveva un alto grado di pervasività mafiosa, che oggi conosciamo, basta pensare alla consorteria dei Messina Denaro di Castelvetrano.

“Infatti vi arrivò grazie ad un’illuminata decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che lo nominò privilegiando, per la prima volta, la competenza sull’anzianità. Qualcuno malignò che Paolo voleva essere ricompensato con una “Procura al mare”, ma la frase è ferocemente e gratuitamente perfida. Come ebbe a ricordare proprio Paolo nel discorso tenuto il 4 luglio 1992, nel corso della sua permanenza a Marsala egli il mare lo ha visto solo “attraverso il prisma dei vetri blindati dell’auto” che lo portava da casa (situata all’interno del Commissariato di polizia) all’ufficio. Paolo Borsellino aveva, invece, capito che in quel momento Cosa Nostra non poteva essere combattuta solo a Palermo, ma doveva essere stanata in provincia, là dove l’arretratezza culturale ed economica la rendeva ancora più forte, e quasi inscindibile era il suo legame con il territorio. Quella periferica Procura di una piccola città collocata sul lembo più occidentale della Sicilia arrivò, grazie a Paolo, al centro dell’attenzione nazionale. Per la prima volta si indagò sulla pervasiva presenza di Cosa Nostra nel trapanese, che si scoprì essere una vera e propria roccaforte mafiosa, e spuntarono i primi collaboratori di giustizia dopo Tommaso Buscetta. Il destino di Paolo si incrociò anche con uno dei grandi misteri italiani: la rotta del DC9 dell’ITAVIA, che si inabissò al largo dell’isola di Ustica, fu registrata dal radar di Marsala e Borsellino iniziò indagini che si rivelarono utili per la ricostruzione del fatto”.

Lei è stato a Marsala con Paolo Borsellino da Novembre 1990 a febbraio 1992, quando poi il Giudice si trasferì a Palermo in quella che era la DDA appena nata. Ed ha continuato a vederlo. Quindi lo ha conosciuto in anni che non sono stati sempre sereni, ma che hanno portato anche dei punti critici nella vita del giudice. Ci riferiamo ad esempio all’estate del 1991 quando il settimanale Epoca pubblicò dei verbali di Rosario Spatola resi al dottore Taurisano della Procura di Trapani. Questi verbali contenevano dichiarazioni su politici dell’epoca e per competenza territoriale, le indagini spettavano a Marsala. Il dottore Borsellino apprese dell’esistenza di quelle dichiarazioni proprio con la pubblicazione su Epoca. Borsellino chiese la trasmissione degli atti e nei primi di settembre del 91 fece la relazione al procuratore generale per chiedere un migliore coordinamento nelle indagini di quel territorio onde evitare fatti simili. E per questo caso, oltre al clamore pubblico, il giudice subì anche l’audizione davanti al Csm avvenuta il 10 dicembre 1991. In una parte di essa, esprimeva tutta la sua amarezza con questa frase: “Addirittura, la stampa parlò di camion di documenti che venivano trasferiti da Trapani a Marsala e io fui accusato di essere scippatore e insabbiatore di inchieste, per avere solo chiesto la copia di un verbale! Mi consenta, Presidente, però ognuno di noi ha dei figli, e quando i miei figli leggono sul giornale che il loro padre, che loro ritengono essere Magistrato serio, che fa il suo dovere, diventa uno scippatore e insabbiatore di inchieste, mi consenta che dal punto di vista psicologico qualche cosa se ne risente". Il giudice, come affrontò quei fatti? Ebbe mai ad esprimersi in relazione a quelle vicende?

“Era un sabato di settembre del 1991, ero l’unico dei sostituti non in ferie e, naturalmente, ero di turno. Stavo guardando in tv il giro ciclistico del Lazio e, da poco in Sicilia, avevo il cuore gonfio di nostalgia, che passava appena un po’ quando guardavo luoghi per me familiari. Squillò il telefono cellulare e dall’altra parte c’era Paolo. Mi disse subito: “indovina chi mi ha chiamato?”. Io feci qualche fallimentare tentativo fino a quando Paolo mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quei giorni tutti i media nazionali davano conto di un contrasto insorto tra la Procura della Repubblica di Marsala e quella di Trapani in ordine alla competenza territoriale per le indagini sul rapporto mafia-politica e per cui erano indagati tre parlamentari nazionali residenti ed eletti nel circondario della città libetana. Alla fine la Procura di Trapani cedette e trasmise gli atti a Marsala. Paolo rivendicò con tutta la sua autorevolezza la competenza della sua Procura e per questo ricevette la telefonata di Cossiga. Anche la seconda domanda che Paolo mi rivolse (“Sai cosa mi ha detto?”) ha avuto una mia risposta sbagliata. “Mi ha detto: vada avanti così, Procuratore”. Detta così la frase è di poca importanza, ma chiunque l’avesse ascoltata con le sue orecchie, sarebbe scoppiato in una grossa risata. Infatti, Paolo la pronunciò imitando (male) il presidente. Ora, chi ha conosciuto Paolo sa che egli aveva una marcata inflessione non solo palermitana, ma di palermitano del quartiere della Kalsa. E sentirlo parlare con quella buffa pronuncia che aveva la pretesa di essere sarda era davvero esilarante. All’epoca era ancora in vigore la normativa che prevedeva l’autorizzazione a procedere per i parlamentari e imponeva che, entro un mese dall’iscrizione del nominativo nel registro delle notizie di reato, il Pubblico Ministero chiedesse quella autorizzazione alla Camera di appartenenza.

Paolo iniziò a ritmo serrato le indagini, che conduceva nella sua stanza interrogando tutto il giorno testimoni e indagati. Una sera, al termine della giornata, lo andai a salutare e gli dissi che “si era preso proprio una patata bollente” e lui mi rispose: “Si, è una patata bollente, ma a me piace scottarmi”. La frase mi colpì, ma solo dopo anni ne compresi il significato. Con quelle parole Paolo mi aveva indicato l’essenza intima del mestiere del giudice, che è quella di prendersi la responsabilità delle scelte. Non è altro il lavoro di chi giudica: assumersi la responsabilità di decidere chi ha torto e chi ha ragione. Non so se sia vero quello che Antonio Monda nel suo splendido romanzo Assoluzione affida alle parole dell’avvocato Stella, e cioè che i giudici portano in sé una parte di divinità perché restituiscono l’armonia dell’ordine attraverso l’applicazione del diritto e avvicinano al mistero di Dio, o quanto dice Rusty Sabich nel prologo di Presunto innocente di Scott Turow, e cioè che siamo i burocrati del male e del bene. So solo che la collettività, in nome della quale ogni giorno pronuncio le mie sentenze, mi ha affidato il compito delicato di decidere chi ha torto e chi ha ragione secondo la mia scienza e la mia coscienza, e che questa è una scelta a cui non posso, anzi, non devo, sottrarmi mai. E quanto è più difficile la decisione, tanto è più importante il mio lavoro: non posso decidere di non decidere. Ecco che voleva dire Paolo quando mi disse che non dovevo avere paura di scottarmi le mani con le patate bollenti che maneggio ogni giorno”.

Paolo Borsellino professionalmente, come lo descriverebbe?

“Ci sono alcuni esempi da me appresi direttamente che rivelano le inarrivabili qualità di Paolo come magistrato. Un giorno, parlando dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il discorso cadde sul significato di omertà, lavoro che ha affaticato decine di autorevoli giuristi e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. A un certo punto Paolo mi disse: “Sai cos’è l’omertà? E’ quando io interrogo Paolo Borsellino e gli chiedo se si chiama Paolo Borsellino, e lui mi risponde: questo non glielo posso negare”. Una risposta geniale, che meglio di ogni cosa sapeva spiegare il tratto caratteristico più deteriore della mafia: quello di rifiutare pervicacemente l’autorità dello Stato. In un’altra occasione di fronte a una signora che dirigeva un importante traffico di stupefacenti nella città di Marsala e che tentennava di fronte alla prospettiva di collaborare con la giustizia, Paolo disse: “Signora, si ricordi: nessuno si è mai pentito di essersi pentito con Paolo Borsellino”. L’espressione è divertente, ma contiene molto di più di un motto di spirito. Con quella frase Paolo metteva in gioco tutto sé stesso e l’intera sua autorità dicendo al proprio contraddittore: “Io sono lo Stato. Di me ti puoi, ti devi fidare”. Sì, proprio quello Stato incapace che lo aveva relegato in un penitenziario di una piccola isola perché non era in grado di proteggerlo. E che gli aveva fatto pagare il prezzo del soggiorno. Con quel gioco di parole Paolo Borsellino consegnava all’intera collettività - e, quindi, a tutti noi - la sua autorità, la sua storia ed il suo volto, sì da costringere a quel punto l’interlocutore a scegliere lo Stato perché lui ne era il garante e il rappresentante. E quanto sia importante sforzarsi a essere migliori e più efficienti di Cosa Nostra me ne sono accorto qualche anno più tardi quando, applicato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, mi capitò di assistere al primo colloquio con un mafioso di un piccolo paese della provincia di Trapani che aveva deciso di collaborare. Quando il procuratore gli domandò perché era diventato mafioso, questi rispose in siciliano stretto: “perché quando ero piccolo chi comandava era la mafia”. Quell’uomo esprimeva un concetto tanto elementare quanto inattaccabile: gli uomini stanno tendenzialmente dalla parte di chi vince, di chi è più efficiente. Ed è amaro constatare che in Sicilia troppo spesso e troppe volte lo Stato, in tutte le sue espressioni territoriali, quando si tratta di efficienza, soccombe alla mafia. Questa dote di Paolo di impersonare lo Stato consente di comprendere le ragioni di quella che molti considerano la settima vittima della strage di via D’Amelio. Sette giorni dopo l’eccidio, gettandosi dal balcone di una casa della periferia romana, si è suicidata Rita Atria, figlia di un noto capo-mafia della valle del Belice, che poco tempo prima aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia, svelando fatti importanti riguardanti la sua famiglia e la faida mafiosa che aveva insanguinato per anni le strade di Partanna, suo paese natale. Per la giovane donna l’identificazione di Paolo con lo Stato era così completa che la morte di Paolo ha determinato il crollo dei motivi della sua scelta di vita e il venir meno della sua stessa ragione di esistere. L’autorevolezza di Paolo era così forte che non aveva bisogno di mostrare i muscoli per far rispettare le regole: bastava la forza persuasiva della sua persona. Nella Procura di Marsala c’era un impiegato che la mattina entrava in ufficio in ritardo. Nessuna minaccia di rilievi disciplinari, nessun procedimento iniziato verso quella persona. È bastato a Paolo una mattina mettersi all’ingresso del palazzo di giustizia alle otto con la sua inseparabile sigaretta tra le labbra e salutare l’impiegato ritardatario mentre arrivava. Questi, che era una persona intelligente, capì che non poteva entrare al lavoro dopo il suo dirigente, e da quella mattina il suo orologio tornò a essere puntuale. L’esempio di chi ricopre posizioni di vertice può molto di più di mille sanzioni disciplinari”.

A metà anni 80, Borsellino e Falcone furono alle prese con la preparazione di ciò che poi porterà alla prima sentenza su un maxi processo di mafia. Ed entrambi vengono “deportati “all’Asinara perché nel periodo in cui preparavano l’istruttoria di quel processo, era trapelata una notizia secondo cui erano in pericolo imminente, Cosa Nostra aveva deciso di ucciderli. Il Giudice, raccontandole della sua vita, le parlò mai di quegli anni?

“Nell’estate del 1985 uno Stato inetto deportò lui, Giovanni Falcone e i loro familiari nell’isola dell’Asinara perché stavano redigendo la sentenza ordinanza del maxiprocesso (Abate + 476, mi sembra che ci fosse scritto così sui faldoni allineati che egli custodiva nella libreria della sua stanza) e gli dissero che, siccome rischiavano di essere ammazzati da Cosa Nostra e lo Stato non era in grado di proteggerli e che, se fossero morti, nessuno avrebbe potuto sostituirli nella stesura del provvedimento, dovevano andare in quell’isola sarda dove c’era un penitenziario che poteva ospitarli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in carcere! Alla fine quello Stato incapace e privo di umana riconoscenza richiese ai due giudici il pagamento di una somma di denaro per la loro permanenza lì dentro insieme alle famiglie. Ma il prezzo umano che Paolo sopportò fu ancora più alto: Lucia, la primogenita, era appena adolescente e non voleva abbandonare Palermo in quell’estate in cui i giovani mordono la vita e se la divorano ogni sera. L’allontanamento dei genitori e dei fratelli da Palermo, motivato dal pericolo della loro morte, cagionò alla ragazza un tremendo stress che le procurò una grave malattia, che Paolo fu costretto a rivelare pubblicamente quando Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando lo accusarono di essere “un professionista dell’Antimafia”, ed egli dovette difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Paolo Borsellino messo sotto processo! Ebbene, Paolo parlando del maxiprocesso, rivendicò con legittimo orgoglio che tutte le centinaia di provvedimenti di cattura emessi erano passati indenni al severo vaglio della Corte di Cassazione. La cosa mi colpì, ma non ne compresi appieno la ragione. Solo molti anni e migliaia di processi dopo ho capito il senso di quella frase e il vero significato di quell’orgoglio. E questo ha costituito un insegnamento che porterò sempre con me nella mia vita professionale fino a quando attribuirò torti e ragioni. Paolo poteva ricordare il maxiprocesso e dire che è stato il più importante processo della storia giudiziaria di questo paese, che è stata la più alta risposta dello Stato a Cosa Nostra, che per la prima volta subì l’onta di centinaia di condanne per i suoi più importanti appartenenti. Oppure che in quell’indagine furono sperimentate tecniche innovative, come quella dell’audizione dei collaboratori di giustizia, oppure adottato un rivoluzionario modo di operare dei giudici, come quello del lavoro in pool e della circolazione interna delle informazioni, fino ad allora sconosciute e poi diventate di uso abituale. E, invece, no. Paolo sottolineò solo che quei provvedimenti avevano “retto fino in Cassazione”, come si dice nell’ambiente. Perché questo è il mestiere dei giudici: adottare provvedimenti che siano conformi alla legge. Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare. Qualsiasi deviazione dalla legge, anche per le più nobili finalità, costituisce un’ingiustizia che automaticamente ci indebolisce. Ci sono situazioni in cui si forza il dato normativo per fini non necessariamente illeciti o egoistici: perché si avverte la necessità di contrastare il malaffare, di arrestare il decadimento morale e materiale di questa nostra Repubblica, di dare una risposta all’opinione pubblica toccata da eventi tragici e luttuosi. Sono ragioni rispettabili, ma hanno un valore solo se sono conformi alla legge. Altrimenti sono pericolose e controproducenti: e il magistrato resta nudo. Una delle prime raccomandazioni che mi fece Paolo è stata quella di rispettare la legge, perché, diceva che, non appena chi è tenuto a far rispettare la legge la viola, i criminali lo puniscono. A riflettere bene, una sorta di “concorrenza sleale” che la criminalità non sopporta: solo lei ha il monopolio dell’illegalità, e se il suo contraddittore si azzarda a invaderle il campo, viene punito. Quindi, secondo Paolo, la legge, e solo la legge, è lo scudo che difende i giudici. E, ripensandoci a distanza di venti anni, queste parole mi sono sembrate un triste presagio della sua tragica fine. Da alcuni processi che si stanno ancora svolgendo sembrerebbe che una delle possibili ragioni della morte di Paolo sarebbe stata la sua strenua opposizione a una trattativa tra lo Stato e dei criminali che facevano saltare per aria le autostrade uccidendo onesti servitori di quello stesso Stato. Se così fosse stato davvero, saremmo di fronte a una palese violazione della legge, un vile tradimento del patto che lega lo Stato ai suoi cittadini, una evidente illegalità che, come egli aveva previsto, ha reso debole e inerme Paolo e la sua scorta trucidata il 19 luglio 1992. Con grande amarezza nella lettera di saluto che noi sostituti di Marsala consegnammo a Paolo l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, scrivemmo che in Sicilia lo Stato è contro lo Stato: mi accorgo ora, a oltre vent’anni di distanza, che le nostre preoccupazioni erano purtroppo realtà”.

Nel 1988, Paolo Borsellino, in alcune interviste, denunciò pubblicamente il fatto che Falcone fosse stato silurato, nel gennaio precedente, dal Csm e che questo poi aveva portato ad una nuova organizzazione dell’Ufficio Istruzione, diretto da Antonino Meli".

A causa di quelle dichiarazioni si ritrovò, insieme a Falcone, ad essere sentito, in un’audizione del 31 luglio, dallo stesso Consiglio. Voleva difendere l’amico Giovanni…

“Anche se confinato in provincia, Paolo non perse di vista la dimensione generale del contrasto alla mafia: fu tra i primi a denunciare la pervicace opera tesa a demolire l’esperienza del pool antimafia a Palermo e si rese protagonista di una lucida e coriacea battaglia per difendere il fraterno amico Giovanni Falcone, ormai esautorato dei suoi poteri e clamorosamente estromesso dal pool dopo la decisione del C.s.m. di preferirgli, quale consigliere istruttore, Antonino Meli. Una vicenda incomprensibile, che nella migliore delle ipotesi non ha avuto altro significato che quello di fare un dispetto a Falcone, e che, invece, nel più malizioso sospetto, è stato l’ennesimo cedimento dello Stato a Cosa Nostra. Era il 1988, e con l’entrata in vigore del nuovo codice l’Ufficio istruzione sarebbe sparito, cancellato dalla nuova procedura penale. Sarebbe diventato un reperto archeologico del processo, utile solo per gli storici. Quell’incarico avrebbe perso presto importanza, ma la nomina di Falcone sarebbe stato il più forte segnale di ostilità alla mafia. Paolo difese l’amico con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno, e il 25 giugno 1992, in occasione di un’indimenticabile manifestazione alla biblioteca di Palermo, ricordò pubblicamente l’episodio e disse che nel C.s.m. c’era “un giuda” che aveva tradito Falcone. Si trattava del consigliere Vincenzo Geraci, che prima assicurò il suo voto a Falcone e poi, invece, glielo negò, favorendo così la nomina di Antonino Meli. Successivamente Geraci disse che Paolo non si riferiva a lui quando parlò del “giuda”. Posso smentire Geraci perché ho ascoltato con le mie orecchie quello che Paolo disse a Marsala il 4 luglio 1992: offro una testimonianza autentica. Durante il suo discorso di commiato Paolo polemizzò con chi, in occasione della sua nomina a Marsala, perfidamente disse che in questo modo aveva ottenuto la tanta desiderata “Procura al mare”. Ritornando verso il suo ufficio al termine della cerimonia, un collega gli chiese a chi si riferiva, e Paolo rispose che nel libro I disarmati di Luca Rossi, da poco uscito, tale espressione era stata usata proprio da Vincenzo Geraci. E aggiunse: “L’altra sera alla biblioteca di Palermo l’ho chiamato “giuda” con tutto il cuore. Quando, ero accanto alla bara di Giovanni Falcone, nella camera ardente all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, ad un certo punto mi sono sentito tirare per la toga. Mi sono girato ed era Antonino Meli. L’ho visto così piccolo e dimesso, e, meschino, l’ho perdonato. Ma Geraci no. Lui non lo perdonerò mai”.

Parlaste mai di politica?

“Io ricordo che Paolo non gradì che nell’undicesimo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica del 1992 il gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano votasse per lui, esprimendo 47 voti. E la sua contrarietà fu evidentemente percepita da chi lo aveva votato, se è vero che nei successivi scrutini cessò di esprimere la sua preferenza a Paolo.  Questo nonostante fosse notoria la vicinanza di Paolo alle idee conservatrici. Ma è lo stesso Paolo a farci capire qual era la sua posizione nei confronti della politica. A chi gli chiedeva di che partito fosse, rispondeva che era monarchico. Il consueto ricorso al paradosso, l’ennesima straordinaria esibizione di intelligenza, la solita, fulminante risposta che invita garbatamente l’interlocutore a cambiare domanda perché quella che ha fatto è sbagliata: chiedere ad un giudice qual è il suo orientamento politico significa attentare alla sua indipendenza. Guardo quello che succede oggigiorno e mi chiedo quanti miei colleghi hanno davvero compreso questo insegnamento”.

Borsellino era un uomo molto religioso ed altruista, ricorda episodi che mettessero in evidenza queste sue caratteristiche?

“Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Era profondamente cattolico e un giorno arrivò quasi a spaventarmi. Mi stava accompagnando all’aeroporto di Punta Raisi con l’Alfa Romeo blindata che egli stesso guidava. All’imbocco dell’autostrada a Trapani, Paolo inforcò gli occhiali da sole e si fece il segno della croce. Io lo guardai preoccupato perché quel gesto mi faceva dubitare delle sua capacità automobilistiche. Lui mi rassicurò: mi disse che era credente e in quel modo si raccomandava al suo Dio. Talvolta era, invece, di una ingenuità disarmante. Qualcuno gli ha rimproverato di fidarsi troppo di persone che, invece, si sono rivelate poco affidabili, se non addirittura dei delinquenti. Io voglio, invece, ricordare un episodio che mi ha stupito molto. Mi disse che, per acquistare una farmacia a Palermo, all’epoca, c’era bisogno di un miliardo di lire: una cifra enorme. Aggiunse che voleva comprare una farmacia alla figlia Lucia, che si sarebbe laureata da lì a poco ed io gli chiesi dove avrebbe trovato i soldi. Paolo con grande candore mi rispose che avrebbe venduto la sua casa di via Cilea a Palermo. Io gli obiettai dove sarebbe andato a vivere con Agnese e i figli, e lui mi disse che non ci aveva pensato, ma che avrebbe potuto andare a vivere in una casa in affitto. E con grande tenerezza mi sovviene il ricordo di quando Paolo mi disse che pochi giorni prima era entrato in una farmacia e aveva sentito quell’odore che aveva accompagnato la sua infanzia, quando andava a far visita al padre farmacista. Mi disse che quei profumi a lui così familiari gli avevano fatto sorgere il dubbio di aver sbagliato mestiere, perché anche lui doveva fare il farmacista. Ascoltando quelle parole, io lo avrei voluto abbracciare, perché svelavano un lato intimo della sua persona, che rimane, come tutti, aggrappata allo struggente ricordo della propria infanzia e dei propri genitori”.

Paolo Borsellino dava molta importanza ai media, infatti fu uno dei primi Magistrati a partecipare a programmi televisivi, ma per questo fu spesso attaccato, e accusato, insieme a Falcone, di “protagonismo”.

“Io ebbi la fortuna di occupare la stanza un tempo riservata al dirigente della Procura della Repubblica di Marsala: era accanto a quella del Procuratore, da cui era separata da un corridoio dove si trovava il bagno. Un inequivocabile segno di potere, secondo quanto disse Paolo, che, sarcastico come sempre, mi disse che il segnale più evidente del successo in carriera è quello di avere un ufficio con i servizi igienici esclusivi. In quel corridoio c’era la fotocopiatrice, e un giorno vidi che Paolo fotocopiava un articolo di giornale (mi sembra pubblicato su L’Unità), e, giovane magistrato cresciuto nella convinzione che i giudici dovessero mantenere la massima riservatezza, ne fui sorpreso. Paolo comprese queste mie perplessità e mi disse subito che lui si esponeva mediaticamente perché quello era l’unico modo per difendersi. Attaccato da più parti, e con la sua integrità fisica e morale in pericolo, egli doveva necessariamente trovare nell’opinione pubblica e nella notorietà un alleato che lo proteggesse. E questa, ne sono convinto, è l’unica valida ragione perché un magistrato possa cedere alle (talvolta) irresistibili lusinghe della popolarità che le partecipazioni a trasmissioni televisive o le interviste rilasciate ai giornali garantiscono. In altri termini, Paolo si esponeva per costruire intorno a sé la solidarietà dell’opinione pubblica che gli garantisse quella protezione che le strutture statali non erano in grado di fornirgli. Anche in questo caso ripenso a quei miei colleghi che non perdono l’occasione per apparire in televisione, magari per parlare di processi che stanno trattando e per dire la loro su argomenti che non li riguardano se non nella misura in cui conferiscono a loro la ricercata notorietà. E con rabbia leggo che proprio per giustificare questi atteggiamenti si richiamano a Borsellino e Falcone, dicendo che anche loro rilasciavano interviste o scrivevano libri. Solo che loro lo facevano per difendersi, altri lo hanno fatto per garantirsi un seggio a Strasburgo o trovare un’ospitata nel talk show di successo”.

Insieme al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Giovanni Falcone ed a Rocco Chinnici, Paolo Borsellino fu uno dei primi ad accorgersi dell’importanza della scuola per educare le nuove generazioni (in cui credeva moltissimo) a scelte consapevoli. Oggi molti ragazzi, vedono in Borsellino e Falcone due eroi inarrivabili. E lei, ad un certo punto ha deciso di parlare di Borsellino nelle scuole, dopo anni di riservatezza. Come mai questa scelta?

“Se solo qualche anno fa mi fosse stato chiesto di parlare in pubblico di Paolo Borsellino, avrei rifiutato. Avevo vissuto fino a quel momento il ricordo del mio breve rapporto con Paolo come un fatto esclusivamente privato da custodire gelosamente, una storia solo mia. Poi, il giorno che ho iniziato la mia esperienza all’università di Firenze e il preside della facoltà mi ha chiesto di raccontare agli studenti chi era Paolo, tutto è cambiato. Le parole e le curiosità di quei ragazzi mi hanno fatto capire che, invece, era giusto portare il mio piccolo e personale contributo per far conoscere a tutti chi è stato questo straordinario uomo. E, anzi, proprio l’ascolto delle domande che rivolgevano mi ha fatto comprendere veramente la dimensione di questa eccezionale persona. Debbo confessare che quando sento dire che Paolo è stato un eroe provo un senso di fastidio. E mi sono accorto che è una reazione comune anche ad altri che hanno avuto la fortuna di frequentarlo anche più di me. Perché è una definizione che lo colloca lontano dagli uomini, e, invece, Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana.Parlare di Paolo come un eroe significa collocarlo lontano dagli uomini, renderlo irraggiungibile, e consegnare un alibi a tutti noi: è un eroe, ha doti sovraumane, quindi io non posso fare quello che ha fatto lui. Ma non è così. Posso essere appassionato di bel canto, ma per quanto cerchi di esercitarmi non sarò mai come Luciano Pavarotti. Ho una passione sfrenata per la pittura, ma, nonostante la quotidiana applicazione a colori e tele, non riuscirò mai a emulare Vincent Van Gogh. Tiro calci a un pallone da quando ho iniziato a camminare, mi alleno da una vita, ma non potrò mai raggiungere l’abilità di Maradona: perché questi personaggi così diversi tra loro avevano dei talenti rari. Il buon Dio li aveva muniti di doti di cui sono sforniti tutti gli altri esseri umani. Ma Paolo Borsellino, no. Paolo era un uomo come noi, aveva solo un rigore morale e un senso del dovere che gli hanno fatto vivere un’esistenza giusta, che lo hanno naturalmente condotto a non cedere di fronte all’ingiustizia e ai soprusi. E a ribellarsi. Ma questo lo possiamo fare tutti noi: basta volerlo. Non servono talenti rari. Solo la consapevolezza di essere uomini. A me piace pensare che Roberto Vecchioni quando nella sua splendida canzone “Sogna ragazzo sogna”, ha scritto: “sogna ragazzo sogna quando cala il vento, ma non è finita, quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu”, pensasse proprio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Perché loro hanno sacrificato le loro giovani vite per rendere il mondo migliore. Se proprio mi si chiede di dover descrivere oggi Paolo con un aggettivo, non posso che prendere a prestito quello che suo figlio Manfredi ha scritto nella prefazione di un libro che raccoglieva gli scritti di suo padre, e cioè che Paolo è invincibile. E mi pare che a venti anni di distanza tutta l’attenzione e l’ammirazione che desta questo uomo soprattutto nelle nuove generazioni ci fa dire con grande soddisfazione che Paolo ha vinto. Almeno sul piano personale. Meno positivo è il bilancio del successo degli insegnamenti di Paolo: se guardiamo agli esiti della lotta (?) alla mafia condotta dalla Stato e alla perdurante pervasività della cultura mafiosa nei comportamenti pubblici e privati dei cittadini, il successo sembra ancora lontano”. 

“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Manifestò mai dei sentimenti di paura?

“Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. E devo far fatica a trattenere la commozione quando ricordo che lo sentii dire che lui aveva paura, ma aveva anche il coraggio per superarla. A pensarci bene in questa frase dal contenuto molto laico stava la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, ma anche la convinzione che è solo dalle nostre capacità che dipende il superamento di quei limiti. Tutto il contrario di quella rassegnazione che è la migliore alleata della mafia e delle ingiustizie. Detta poi da chi è nato e vissuto nella terra del Gattopardo dove “tutto cambia per rimanere uguale” e dove ancora trova larga applicazione il proverbio “piegati giunco finché passa la piena”, la frase ha un significato indubbiamente rivoluzionario. E Paolo aveva paura negli ultimi giorni della sua vita. Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto –il 4 luglio 1992, quando venne a salutare tutti i colleghi e i collaboratori di Marsala, da cui tre mesi prima era andato via rapidamente, per dare un taglio brusco e netto ad un legame troppo forte- era un uomo non solo affranto per la perdita dell’amico di una vita, ma anche una persona piena di timore. Non era necessario ascoltare le parole preoccupate del suo discorso, ma bastava vedere il suo sguardo privato della tipica lucentezza per capire che qualcosa lo tormentava. Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene. Ecco perché, più che a un eroe, a me piace paragonarlo a uno di quei personaggi della letteratura dell’antica Grecia che erano consapevoli del loro tragico destino e, nonostante ciò, l’affrontavano. E visto che ho avuto sempre una simpatia per Ettore, mi piace poter dire che, così come Ettore sapeva che doveva soccombere contro Achille, e tuttavia questo non gli ha impedito di varcare le rassicuranti porte Scee per sfidarlo, così Paolo era consapevole di essere ormai un obiettivo di Cosa Nostra, ma il suo senso del dovere, la sua assoluta integrità intellettuale, la consapevolezza di rappresentare lo Stato lo hanno spinto a continuare fino all’ultimo giorno nel lavoro di una vita. Con una sola, ma non secondaria differenza: che Ettore sfidava un guerriero leale come Achille con il supporto di tutti i troiani, mentre Paolo era isolato davanti a un nemico composito, di cui era parte anche qualcuno che avrebbe dovuto essere al suo fianco e che, però, si è mescolato ai suoi avversari”.

Il rigore morale, filo conduttore di tutta la vita di Paolo Borsellino, è stato trasmesso alla famiglia stessa, alla signora Agnese ed ai figli. Lei ha definito la famiglia Borsellino “L’ultimo regalo di Paolo…”

“Il 5 maggio del 2013 è morta Agnese, la donna che ha accompagnato Paolo nella sua vita. Agnese era una donna minuta, con lo sguardo dolce, e un fisico apparentemente fragile. Ma dopo la morte del marito si è trasformata in una donna di acciaio: ha riunito intorno a sé i tre splendidi figli e insieme ci hanno confezionato l’ultimo regalo di Paolo: la sua famiglia. Non è passato inosservato il comportamento della famiglia di Paolo nei venticinque anni successivi all’eccidio di via D’Amelio: mai una polemica, mai un innalzamento dei toni, mai una gratuita ricerca di visibilità, ma una costante affermazione della fiducia nello Stato e nel rispetto delle legge. Anche quando fatti inquietanti e situazioni opache hanno circondato la vicenda della strage del 19 luglio 1992, Agnese e i suoi figli hanno affidato ai mass media dichiarazioni in cui ribadivano la loro incrollabile fiducia nelle istituzioni e nella magistratura, dimostrando che la vera giustizia è solo quella che passa attraverso le sentenze dei giudici: come avrebbe fatto Paolo”.

La signora Agnese, nel suo libro testamento Ti racconterò tutte le storie che potrò parla del marito come di un eterno fanciullo, che si emozionava anche con piccole cose ed amava tanto i bambini.

“Ricordo ancora le occasioni conviviali in cui ci riunivamo con le nostre famiglie: poteva capitare che qualche carabiniere ci offrisse una cena a base di cacciagione o che qualche collega mettesse a disposizione la sua casa di campagna per un pranzo domenicale. C’erano anche i figli piccoli dei giudici o dei sostituti che correvano, giocavano, ridevano e piangevano: facevano quell’allegra confusione tipica della loro età. Paolo si avvicinava a loro, e con quel tono da falso cattivo, gli diceva che, se avessero continuato a disturbare, se li sarebbe mangiati. E dopo una breve e studiata pausa, aggiungeva: “Crudi!”. I bambini spaventati scappavano e Paolo se ne rimaneva lì a ridere divertito. Il ricordo più struggente è, però, legato un episodio che ha visto come protagonista una bimba. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo, alla fine di una giornata di lavoro, mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano, tra le isole Egadi e lo Stagnone, e la serata di primavera inoltrata faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con i capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma lo stupore cessò quando, alla fine della serata, seppi chi era quella bimba. Era l’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare su di lei, obbligandola a ricordare un fatto, comunque, traumatico, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Qualche estate fa ho incontrato di nuovo quella bambina che ora è diventata una giovane donna. Mi ha raccontato che l’ultima volta che aveva visto Paolo, lui le aveva promesso una bambola che, purtroppo, non fece in tempo a donarle. Quei criminali che hanno premuto il telecomando che ha fatto esplodere l’auto imbottita di tritolo hanno distrutto qualcosa anche dentro quella bambina dalle codine bionde. Vorrei che tutti lo ricordassero così Paolo, affettuoso e premuroso, con quel lampo negli occhi e quel sorriso raggiante che riscaldava come un abbraccio”.

Che insegnamento professionale le ha lasciato e quanto sono attuali i valori in cui credeva Paolo Borsellino?

“Personalmente quello che oggi più mi stupisce è la straordinaria attualità del suo insegnamento, che talvolta mi arriva così, all’improvviso. Dopo ventisette anni di carriera ancora mi capita di imbattermi in alcune situazioni che sollecitano delle riflessioni e che mi ricordano quello che ho ascoltato da lui. E solo in quel momento mi accorgo della profondità di certe sue parole”.

Se potesse, oggi, dirgli qualcosa, qual è la prima frase che le sovviene?

“Che la sua morte non è stata inutile perché venticinque anni dopo tanti giovani guardano a lui e a Giovanni Falcone come a degli esempi da imitare. In altri termini questi due uomini alimentano la speranza di chi crede ancora in un mondo giusto”.

Intervista a cura di “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” e “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su “L’espresso". Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro. 23 maggio 1992. Ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Capaci. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare dai mafiosi sotto l'autostrada. L'esplosione viene segnalata alle sale operative di polizia e carabinieri che inviano sul posto uomini e mezzi. Queste sono le loro conversazioni radio, che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo nel tragitto fino all'ospedale. Dove perderanno la vita. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco». «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta». «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità». «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti. La drammatica testimonianza di Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti che si trovavano sulla terza auto blindata che seguiva quella del giudice Falcone e della scorta, scrive Lirio Abbate il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell'autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci. L’esplosione impatta sulla prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggia il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Nella prima auto ci sono gli agenti della Polizia di Stato Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani mentre in quella che segue immediatamente dopo ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede però nel sedile posteriore. Falcone aveva preferito mettersi lui alal guida con accanto la moglie. La potente deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l'auto del magistrato. Appena dietro c'è la terza blindata del corteo in cui c'erano i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono all'attentato. I tre poliziotti dopo l'esplosione scendono dall'auto e cercano di dare aiuto al magistrato, alla moglie e all'autista. Nonostante le ferite riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere e per questo è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Come racconteranno Corbo, Capuzza e Cervello, Falcone, Morvillo e Costanza erano vivi. La giudice Morvillo respirava, ma priva di conoscenza, mentre il dottor Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli chiedono i soccorritori. Dal luogo dell'attentato dunque, Giovanni Falcone e la moglie escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione, mentre Costanza ricoverato con la prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apriva il corteo, nell’immediatezza dell'esplosione non c'era nessuna traccia sull'autostrada, tanto che i primi soccorritori pensano in un primo momento che fosse riuscita a sfuggire alla deflagrazione e che sarebbe corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma viene ritrovata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri completamente distrutta. È in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre poliziotti morti. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l'attentato vengono così ricostruiti dai tre poliziotti che sono sopravvissuti alla strage di Capaci.

Angelo Corbo: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d'aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l'esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far si' che c'era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all'autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c'era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e uscita dall'abitacolo della macchina. Invece il dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l'altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c'era stato anche un cercare di spegnere questo principio d'incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L'autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell'abitacolo della macchina».

Gaspare Cervello: «Dopo il rettilineo, diciamo, all'inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un'esplosione che neanche il tempo di finire un'espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioè se erano vivi; l'unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c'era il terriccio dell'asfalto che proprio copriva la macchina; c'era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l'unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: "Giovanni, Giovanni", però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l'ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l'autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: "Ormai tutti e tre non ce l'hanno fatta", mentre la macchina davanti, non l'ho vista... Ho pensato che ce l'avevano fatta, ce l'avevano fatta, che erano andati via... ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo dare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima».

Giuseppe Costanza: «Io l'ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: "Lunedì mattina", io gli dissi: "Allora, arrivato a casa cortesemente mi da' le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: "Cosa fa? Così ci andiamo a ammazzare". Questo è l'ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: "Scusi, scusi". Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c'è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perché la marcia era rimasta inserita era la quarta».

Paolo Capuzza: «Io ero rivolto, diciamo, un po' nella sedia della parte destra e guardavo un po' sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un'esplosione ed un'ondata di caldo è arrivata, ed in quell'attimo mi sono girato nella parte anteriore dell'autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l'asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l'autista abbia sterzato l'autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all'autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l'autovettura del magistrato. Mentre eravamo all'interno dell'autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioè non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiché siamo usciti dall'autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l'M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall'autovettura e per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c'era davanti all'autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c'erano delle fiamme ed abbiamo preso l'estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l'autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c'era più il vano motore e... ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come... poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». 

Falcone, un ricordo personale di Gianfranco Turano su L’Espresso" del 23 maggio 2017.

Sabato 23 maggio 1992 intorno alle 18.30 circa ero a casa mia a Milano. Stavo per compiere 30 anni e uno di matrimonio. Mia moglie era incinta ed ero tornato da poco da New York dove ero rimasto un mese per lavoro a seguire eventi vari, come le primarie che avrebbero portato alla Casa Bianca Bill Clinton nel novembre successivo. In quei giorni di una primavera gelida sulla costa nordorientale degli Stati Uniti, anche le presidenziali passavano in secondo ordine rispetto al processo che si svolgeva al tribunale di Brooklyn contro John Gotti, capo della famiglia Gambino e figura di riferimento di Cosa Nostra italoamericana. The Dapper Don, il “don elegante” perché indossava orrendi completi traslucidi di grandi marche italiane, attirava le folle. I fotografi non avevano accesso all'aula, a differenza di stelle del cinema come Mickey Rourke. Post e New York Times pubblicavano soltanto i disegni del capomafia e del suo principale accusatore, Sammy “the bull” Gravano, l'underboss che lo stava incastrando dopo essere diventato collaboratore del Fbi. La condanna all'ergastolo di Gotti, il 2 aprile 1992, era il completamento di un percorso iniziato negli anni Ottanta quando un magistrato italoamericano, Rudolph Giuliani, aveva scatenato l'offensiva dello Stato contro le cinque famiglie di New York con il sostegno politico del governatore Mario Cuomo. Per la prima volta dopo anni l'ufficio del District Attorney del Southern New York e la polizia federale avevano lavorato fianco a fianco con i giudici italiani. Il pool di Palermo, come era chiamato, aveva inviato più volte negli Usa il suo uomo di punta, Giovanni Falcone, tanto che fra il giudice italiano e Giuliani, che diventerà sindaco nel 1994, era nata un'amicizia. Quel sabato 23 maggio 1992 a Milano il processo a Gotti, con i suoi aspetti “cinematic” e la calca di cronisti sulle scale del tribunale di Brooklyn in attesa dei protagonisti e delle star di Hollywood, era lontano. Da quando a febbraio era stato arrestato Mario Chiesa, in Italia si parlava poco di crimine organizzato e molto di tangenti. I principali capimafia, Totò Riina e Bernardo Provenzano, erano latitanti da anni. La camorra sembrava in ritirata con Raffaele Cutolo in galera. La parola 'ndrangheta non aveva cittadinanza sulla stampa nazionale, nonostante una guerra da 700 morti finita nel 1991 con l'omicidio del giudice Antonino Scopelliti, accusatore in Cassazione del maxiprocesso di Palermo. L'unico motivo per accendere la televisione in un pomeriggio di primavera era seguire le elezioni al Quirinale dove il presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, era dato come favorito.

Il 23 maggio si era tenuto lo scrutinio numero 15, vinto inutilmente da Giovanni Conso con 235 voti, insufficienti all'elezione. Ma in tv non c'era il resoconto dei cronisti parlamentari. C'era la bomba di Capaci.

Roma, giugno 1991. Avevo conosciuto Giovanni Falcone a giugno del 1991. Non era stato semplice. Al tempo lavoravo al Mondo e il Mondo non era più il settimanale che era stato con Mario Pannunzio, Ernesto Rossi ed Eugenio Scalfari. Era diventato un periodico specializzato in economia e finanza. Una piccola parte della redazione, autodenominata pomposamente “Costituenda Sezione Potere” per una fondamentale incapacità a prendersi sul serio, coltivava l'ambizione di tornare allo Statuto Pannunziano e a temi come i comitati d'affari o l'intreccio fra politica e corruzione che erano stati la caratteristica del primo Mondo. Era stato individuato anche un feticcio che simboleggiava il nostro ideale. Ea un vecchio divano abbandonato in una stanza nella sede milanese della Rizzoli a Crescenzago dopo un trasloco da chissà quale ufficio. Lo avevamo ribattezzato il divano di Pannunzio, anche se non aveva mai avuto l'onore di accogliere il nostro nume tutelare. Nel nostro Mondo, quando si parlava di Falcone, non si parlava di Giovanni ma di Giuseppe, direttore generale della Cassa depositi e prestiti. Però Tangentopoli aveva mostrato che, giornalisticamente, l'approccio della “Costituenda sezione potere” era quello giusto. Bisognava investigare gli intrecci del potere a partire dall'economia e da lì interpretare la politica. Era il metodo delle inchieste “vecchio Mondo”. Ma era anche il metodo Falcone, fra i primi investigatori a seguire la pista dei flussi finanziari fra Italia e Stati Uniti. In cima a tutto questo, c'era un elemento di interesse privato in atti d'ufficio. Volevo conoscere Giovanni Falcone perché era il mio eroe. Conosco quella frase sulla sfortuna del paese che ha bisogno di eroi. Sarò un paese sfortunato. Falcone per me, nato e cresciuto in Calabria, era l'uomo che combatteva contro quello che odiavo. Del giornale me ne importava fino a un certo punto. Del presunto scoop ancora meno. Era proprio che volevo vederlo in faccia. Diciamo che volevo farmi un regalo di matrimonio. Anche se avevo meno di trent'anni, avevo già imparato che in un giornale, quando vuoi fare passare un argomento un po' eccentrico rispetto alla linea principale, bisogna fare un percorso piuttosto delicato. Devi convincere i tuoi capi in parallelo con la cattura dell'oggetto di cronaca. Questo è rischioso perché se convinci l'intervistato e i capi ti dicono di no fai una brutta figura con l'intervistato che, in quel caso, era il mio eroe. Ma se non convinci prima l'intervistato, è più facile che i capi ti dicano di no. Falcone aveva i suoi amici fra i cronisti, è ovvio. Ma erano colleghi più anziani di me che lo avevano seguito soprattutto a Palermo fin dai tempi del maxiprocesso o della collaborazione con Giuliani per Pizza Connection.

A febbraio del 1991 Falcone aveva lasciato la Sicilia e si era trasferito a Roma, chiamato alla direzione affari penali dal Guardasigilli Claudio Martelli. Era successo un putiferio. L'eroe di una generazione era stato accusato nella migliore delle ipotesi di carrierismo, nella peggiore di collaborazionismo visto che alla guida di quel governo c'era Belzebù in persona, mafiologicamente parlando, cioè Andreotti. Ma l'altro tormento di un cronista di settimanale è quello di trovare un “taglio” agli argomenti originale rispetto a quanto scrivono i quotidiani. Il mio taglio era parlare con Falcone dell'idea, sostenuta da lui, di costituire una superprocura per la lotta alla criminalità organizzata. Per quanto considerassi sacrilego dubitare della rettitudine di Falcone, come alcuni facevano, nel superiore interesse della Nazione ritenevo utile fare trapelare il mio parere sulla superprocura, che era – ahilei – negativo. Agganciare Falcone non era facile. L'aiuto decisivo venne da un giudice che conoscevo, Livia Pomodoro, in seguito presidente del tribunale di Milano e amica di Falcone. Fu lei a garantire e a mettermi in contatto con il ministero. Fissammo l'appuntamento per lunedì 17 giugno. Nei giorni immediatamente a ridosso dell'intervista, si diffuse la voce che sotto le finestre dell'ex giudice in via Arenula si era mostrato con insistenza un mafioso noto di cui non venne rivelato il nome. La circostanza fu interpretata come un'intimidazione. Ma l'appuntamento restò. Presi l'aereo a Milano armato dei miei appunti in cui portavo argomentazioni micidiali contro la Superprocura e di un registratore portatile con audiocassetta, come usava. Per me era insolito. Da pagano animista ritengo di essere odiato dagli oggetti tecnologici e ricambio il sentimento. Anche in quell'occasione la tecnologia si mostrò all'altezza. Mentre ero in attesa fuori dalla porta di Falcone negli uffici del ministero, provai il registratore più volte. Aveva smesso di funzionare. Iniziai a pensare che mi avessero sabotato mentre ero fuori a cena la sera prima e che avessero infilato un ordigno nel registratore. Sapevo di essere paranoico ma non ero meno paranoico per questo. Dopo avere buttato il registratore nel bagno del corridoio, la porta si aprì e iniziò l'intervista. Per i primi minuti ero nel panico, una scena di paralisi fantozziana senza precedenti. Recuperai il controllo pescando due oggetti dotati di valenza animistica positiva, ossia la biro e il taccuino per prendere appunti, e si entrò nel merito delle questioni. Giovanni Falcone aveva un carisma straordinario e un'intelligenza così evidentemente superiore da poterti convincere anche senza le argomentazioni che pure utilizzava fino a sgomberare il terreno dialettico da ogni ragionevole dubbio. Era quel tipo di persona capace di fare cambiare idea all'interlocutore in base a un'autorevolezza innata. Era una sorta di ipse dixit personificato e possedeva quel livello di intelligenza che è una forma di bellezza in sé. Dopo un'ora, inutile dire, ero stato trasformato in un sostenitore fanatico della superprocura che, ancora più inutile aggiungere, doveva essere guidata da lui.

Milano, giugno 1991. Fatta l'intervista, tornai in redazione a Milano per scrivere il pezzo dalle note prese a penna. Non avevo mai mostrato in anticipo i testi delle interviste a nessuno fino a quel momento e non l'ho mai fatto nei 25 anni successivi. Se uno non mi ritiene capace di riportare fedelmente il suo pensiero e le sue parole, non ha senso che mi parli. Ma un eroe merita un'eccezione e lui era giustificato dalle difficoltà del momento. Mezza Italia era pronta a metterlo in croce per una virgola fuori posto. Parlo di virgole a ragion veduta. Nei due giorni di intervallo fra l'incontro e la stesura dell'articolo, Falcone mi chiamò decine di volte sul fisso di redazione per revisionare il pezzo fin nella punteggiatura. Fu così maniacale che compresi che mi stava mettendo alla prova. E un poco sì, mi stava anche sfottendo. Mentre i superiori mi tiravano da una parte perché consegnassi la versione definitiva per la tipografia, lui continuava a suggerire piccole correzioni, qualche sinonimo e, la fissazione dell'ultimo momento, i punti e virgola. Lì ebbi il mio sussulto di orgoglio. Detesto i punti e virgola. Diedi la mia disponibilità a introdurli mentendo con intenzione. Poi, eroe o non eroe, li tolsi tutti. A rileggere il pezzo venticinque anni dopo, riemergono gli eterni problemi del budget della giustizia. Affiorano fossili di polemiche come quella sui giudici ragazzini. «Non può durare a lungo», diceva Falcone, «una situazione in cui i problemi più difficili vengono affidati a coloro che, per età, sono i meno adatti ad affrontarli». E poi lo scontro sulla figura del pubblico ministero: «Indipendenza non significa arbitrio o separazione totale dai poteri dello Stato... Non è più possibile che ogni magistrato agisca sulla base delle sue personali vedute sul modo di svolgere le indagini, di scegliersi i collaboratori. Così non si tratta di indipendenza ma di anarchia». Oppure gli slogan: «Sì alle maxinchieste, no ai maxiprocessi». O ancora il dibattito sul codice Vassalli, introdotto da poco. E un riferimento a un certo modo di combattere i reati che si stava affermando con Tangentopoli: «Il problema vero è quello di ottenere prove contro i boss mafiosi attraverso le indagini. Un paese che mette al centro della lotta alla criminalità le misure di prevenzione è un paese poco democratico». Solo a una domanda Falcone non rispose. Riguardava l'intimidazione del mafioso che passeggiava avanti e indietro sotto le sue finestre per dirgli che Cosa Nostra non lo aveva dimenticato soltanto perché si era trasferito a Roma. Che Cosa Nostra aveva amici a Roma. Al rifiuto della risposta aggiunse un gesto con la mano a significare che non era troppo impressionato. Che le amicizie di Cosa Nostra nei palazzi di Roma gli erano note.

Palermo, maggio 1992. Lunedì 25 maggio 1992, un giorno e mezzo dopo l'attentato contro Falcone e la sua scorta, sono sceso dall'aereo a Punta Raisi e sono salito su un taxi per andare a intervistare sulla strage il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo. Era Bruno Siclari, che nel mese di ottobre sarebbe diventato il primo procuratore nazionale dell'antimafia prevalendo su Agostino Cordova, la bestia nera dei massoni. Dall'aeroporto la macchina è andata veloce sull'autostrada per qualche minuto. Quando il traffico ha rallentato, si è sentito l'odore, chilometri prima di Capaci. L'esplosivo era rimasto nell'aria. Il calore della primavera lo aveva preservato. La circolazione sempre più lenta è passata al doppio senso alternato e, dopo qualche minuto, sul lato sinistro della macchina è apparsa la fossa, tre o quattro metri sotto il livello della strada. A quaranta ore dal massacro, la puzza della bomba toglieva il fiato. Il tassista si è fatto il segno della croce e siamo passati, in processione con gli altri automobilisti che avanzavano a passo d'uomo per guardare. A palazzo di giustizia il lutto era dovunque, come le particelle di esplosivo in autostrada. Ho fatto l'intervista con Siclari e da lì in poi non ricordo niente, neanche di essere ripassato dal cratere per tornare a Punta Raisi. Quel giorno, il 25 maggio, si è tenuto lo scrutinio numero 16 per le elezioni al Quirinale. Con 672 voti Oscar Luigi Scalfaro è diventato presidente della Repubblica, quinto e ultimo del dopoguerra per il partito della Democrazia Cristiana. La Prima Repubblica finiva. Il ricordo dei suoi eroi continua.

"Ho tollerato le accuse in silenzio". Le parole di Giovanni Falcone, tratte da lettere e libri del giudice ucciso, scrive il 23 maggio 2012 "L'Espresso".

Lettera di Giovanni Falcone al CSM, Palermo, 30 luglio 1988, ora in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti/L’Unità, Roma, 2007, pp. 88-90. Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia. […] Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta. 

Da "Cose di Cosa nostra", in collaborazione con Marcelle Padovani, 1991, edizione del maggio 2004, p.8'2-83 e p.170-171. Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. […] Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia […] Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito […] Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. 

Da "Interventi e proposte" (1982-1992), Sansoni editore, pp.304-305. Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di "emergenza", in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali […].

Lettera a Giovanni Falcone di Alessia Randazzo pubblicata il 23 maggio 23 2017 su "Telejato". La lettera di Alessia Randazzo. "Dottore Falcone, venga, si accomodi, scusi il disordine, il caffè è già sul fuoco! Le ho raccolto due gelsi dall’albero, quest’anno è carico, stracolmo! Mi deve perdonare se l’accolgo in pigiama ma so che, per questo 25° anniversario, di gente in grande spolvero, ne vedrà tanta. Ieri, allo svincolo di Capaci, in quel tratto che fu oleandri e lamiera, ho visto sventolare bandiere nuove; alcuni operai stavano allestendo un palchetto per le Autorità all’altezza del cunicolo che imbottirono di tritolo quella primavera, solo che questi uomini, ieri mattina, li ho visti distintamente… quelli invece…non li vide nessuno… Mi trova dunque in abiti di casa, le persone come me ci tengono a non confondersi con quelli che si presenteranno con l’espressione blu-istituzionale e la camicia bianco-legalità. Come se Lei non lo sapesse poi che, sotto a quegli abiti, ci sono sempre le stesse scarpe! Quelle che a certuni, tra una retata e un’altra, ci vengono strette!!! Non so se ha saputo di quest’ultima inchiesta sulla corruzione a Trapani! Scoperta l’ennesima rete di rapporti con politici di un certo polso e di una certa cilindrata – Rolex e Mercedes per l’esattezza – che avrebbe favorito un imprenditore locale del settore marittimo. Peccato per loro che una dirigente regionale abbia informato la Procura dell’ennesimo sistema di pressioni e favoritismi e che nella rete dei magistrati ci siano finiti tutti a beccafico, corruttori e corrotti! Poi per carità, la prudenza è d’obbligo e qui c’è in gioco l’indotto delle feste a Panarea ma non mi stupirei se l’unico a pagare le spese di questa storia fosse il povero passeggero Ulisse, spesso fermo in una banchina a scrivere quell’Odissea che è raggiungere le Eolie e le Egadi per chi ci abita! Tuttavia dottore Falcone, facciamolo un plauso alla dirigente regionale che ci ha dimostrato che, per quanto la miopia continui ad affliggere fortemente i siciliani, di cataratta (almeno di quella) possiamo guarire! Vogliamo parlare del teatrino Pif – Crocetta sui disabili? O Lei si schifiò come ‘a ‘mmia e per paladini della legalità ci teniamo Orlando e Rinaldo, che forse è meglio? Anche perché del paladino Maniaci Pino e della bella “Angelica” Saguto più niente si è saputo! Dottore Falcone l’ha vista la nuova serie? Quella del Commissario Maltese? Una “Piovra” di seconda mano, un incrocio tra Lei e il Commissario Cattani, che dopo aver assistito ai traffici mafia-politica all’aeroporto di Birgi, scopre che il più pulito degli uomini dello Stato ha la rogna. Quando lo sappiamo tutti che, in questa terra, la realtà supera sempre la fiction. E di gran lunga. Modestamente, senza pagare il canone in bolletta noi c’abbiamo… Il signor Fazio, quello delle note cantine, che avrebbe favorito gli intrallazzi di Ustica Lines; Il signor Scelta, manager dell’aeroporto di Palermo, che smaltiti cannoli e bustarelle, invece di preoccuparsi di chi pilota gli aerei avrebbe pilotato gli appalti per il restyling dell’aerostazione; Il signor Fiumefreddo, manager dell’esattoria regionale, che consegna su un vassoio d’argento denunce di corruzione ed evasione fiscale a politici eminenti in diretta nazionale! Dottore Falcone, mi dica Lei se io, con un cast d’eccezione come questo, non lo faccio il triplo dello share del Commissario Maltese!!! E comunque. Quest’anno non posso dirle molto altro, ché siamo in campagna elettorale e qui si deve convincere la gente che il cambiamento è vicino. Noterà che i candidati alla guida di Palazzo delle Aquile, non hanno quella naturale sfrontatezza con la quale Ciancimino, ai tempi suoi, consegnò la città alla mafia. Ma, stia tranquillo, che anche questa volta possiamo confidare in qualche strappo al piano regolatore, su una buona parola alla formazione, su un accordo per la gestione dei rifiuti, sul progetto “Pastafrolla”, finanziato dalla Comunità Europea, per il ripristino di strade e autostrade e soprattutto su un servizio capillare di rifornimenti di cocaina a domicilio, ché i professionisti a Palermo sono molto impegnati e non ne hanno, tempo di fare la spesa! Dottore Falcone – badi bene – nessuno di noi ha mai creduto che la mafia uccida solo d’estate, né che sia stata decapitata. Ha visto stamattina in via D’Ossuna? Lo sappiamo bene, in cuor nostro, che rimane un cancro inoperabile e che il 41 bis non è che la sua chemioterapia, in qualche modo ti fa sperare di sconfiggerlo ma nulla può, fino in fondo, contro le sue metastasi. Dottore Falcone, si accenda la sua sigaretta e mi ascolti, che però una cosa bella ogni tanto gliela voglio dire! L’ho vista per la prima volta quest’anno, passeggiando per le strade di questa Capitale della Cultura che le ha dato i natali, l’ho sentita nelle parole nuove della gente, l’ho incrociata negli occhi incantati di migliaia di turisti, l’ho maturata nella mano tesa di un siciliano verso un migrante, l’ho toccata nel gesto di un bambino che buttava la carta delle patatine nella spazzatura, l’ho ascoltata al Teatro Massimo, l’ho incontrata nel tram col biglietto obliterato, l’ho letta negli scritti social dei miei concittadini, me l’hanno rimandata gli oleandri a Capaci, l’ho avvertita nella dignità di chi non si piega e denuncia, l’ho ammirata nel senso delle istituzioni del dottore Di Matteo e la sento, presente, mentre torno a consegnarle nuovamente il grazie della sua terra. Ci stiamo rialzando dottore Falcone! Da soli. Spontaneamente, e in tanti. E’ per questo che abbiamo di nuovo motivo di temere. Ma non siamo più disposti a farci pestare come i gelsi che cadono dagli alberi a primavera. Per questo glieli ho raccolti, perché, per una volta, le rimanga in bocca il sapore dell’onestà, della gratitudine per quell’esempio e il gusto pieno di un orgoglio ritrovato. Con tutto il rispetto per l’anniversario blindato in mondovisione, credo che non potessimo scegliere per Lei, per Francesca, per Antonio, per Rocco e per Vito, bomboniera più bella di questa". Alessia Randazzo

Corteo verso l’Albero Falcone: sequestrati gli striscioni agli studenti di Garibaldi e Cannizzaro, scrive il 23 maggio 2017 Angelo Scuderi su “Il Gazzettino di Sicilia”. Un’operazione nostalgia che rimanda ai cortei degli anni ’70. La Polizia che strappa gli striscioni ai manifestanti non si vedeva da un po’, forse mai nel giorno del 23 maggio. I ragazzi del Garibaldi e del Cannizzaro di Palermo avevano due striscioni che raccontavano ciò che il Movimento studentesco sottolinea da anni: Falcone vittima dell’isolamento, le commemorazioni del 23 maggio troppo in stile passerella. E così lo striscione del Garibaldi recitava “Non siete Stato voi, siete stati voi”; quello del Cannizzaro replica “Il corteo siamo noi, la passerella siete voi”. Apriti cielo, già in via Duca della Verdura il primo “contatto” tra gli agenti della Digos e i ragazzi del Garibaldi, poi all’ingresso in via Notarbartolo il sequestro definitivo di entrambi gli striscioni. Come dire, nel giorno di Falcone il dissenso non è consentito. Anche se pacifico, ironico e civile.

“Stragi e autostragi”: di Marco Travaglio del 24 Maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".  (di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Cosa direste se, dopo la strage di Manchester, qualche pezzo grosso dello Stato, della politica, delle forze dell’ordine e dei servizi segreti britannici si mettesse al lavoro non per scoprire e punire tutti gli esecutori, i complici e i mandanti della mattanza, ma per coprirli facendo sparire le loro carte e quelle degli inquirenti, lasciandoli fuggire pur avendoli sottomano, depistando le indagini con falsi colpevoli, lasciando incustoditi i loro covi a beneficio dei compari, intimidendo o facendo ammazzare i testimoni e magari aprendo una trattativa Stato-Isis per addolcire il trattamento carcerario ai detenuti, smantellare le più importanti leggi antiterrorismo del Paese, screditare, isolare e punire i magistrati che indagano sull’immondo mercimonio? No, perché è esattamente quello che è accaduto in Italia durante e dopo le “auto-stragi” del 1992 a Palermo e del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Eppure i rappresentanti di quello stesso Stato che 25 anni fa negoziò con Cosa Nostra sulla pelle di decine di vittime innocenti continuano a commemorarle con orge di retorica e lacrime di coccodrillo. Il massimo dell’autocritica è la solita, trita polemica sulla mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione o della Procura nazionale antimafia, o sulla diffidenza che accompagnò la sua opinabilissima scelta di collaborare col governo Andreotti. Sui mandanti o i complici istituzionali e dunque occulti delle stragi, sugli artefici della trattativa Stato-mafia che le moltiplicò e sui depistaggi per coprire le tracce, silenzio di tomba – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 24 maggio 2017, dal titolo “Stragi e autostragi”.

Ieri, in un’intervista al Fatto, il Pg di Palermo Roberto Scarpinato ha messo in fila una serie di fatti documentati e inoppugnabili, unendo poi i puntini di un disegno che dà i brividi a chiunque voglia dargli un’occhiata. Non furono uomini dell’Antistato, ma del cosiddetto Stato, ad avvertire i killer mafiosi dei programmi di Falcone nel terribile weekend dell’Addaura. A rovistare nei file del suo computer al ministero della Giustizia subito dopo la sua morte. A firmare i comunicati della “Falange armata” per rivendicare e depistare ogni attentato. A essere informati in tempo reale della strategia stragista pianificata da alcuni superboss in un casolare di Enna sullo scorcio del 1991, senza far nulla per contrastarla, anzi. A spedire i carabinieri del Ros dal mafioso Vito Ciancimino per avviare una trattativa con Riina e poi con Provenzano piegando lo Stato al ricatto mafioso; a mandare al macello Borsellino, nemico irriducibile di ogni patteggiamento, in via D’Amelio meno di due mesi dopo Capaci.

E furono sempre uomini dello Stato, non dell’Antistato, a inviare un emissario per sorvegliare il caricamento del tritolo sull’autobomba (forse gli “infiltrati” che la moglie del pentito Santino Di Matteo, intercettata, pregò il marito di non nominare mai dopo il rapimento del figlio Giuseppe, poi ucciso e sciolto nell’acido). A trafugare l’agenda rossa del giudice dal teatro ancora fumante dell’eccidio; a confezionare subito dopo un falso colpevole, Scarantino, da dare in pasto ai pm per nascondere i veri colpevoli e i loro complici o mandanti esterni. A non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto, lasciando che gli indisturbati picciotti di Provenzano lo ripulissero di ogni carta e traccia. A decidere la revoca del 41-bis per 334 mafiosi detenuti un anno dopo la tormentata approvazione del decreto sul carcere duro.

A lasciarsi sfuggire nel ’93 Bagarella, inscenando un gran casino attorno al suo nascondiglio nel Messinese per farlo scappare, e poi Provenzano a Mezzojuso nel ’96. Ad avvertire Cosa Nostra che il boss confidente che aveva localizzato Provenzano, Luigi Ilardo, custode di preziosi segreti sugli apparati deviati dello Stato, stava per collaborare con la giustizia e mettere a verbale le sue accuse, per farlo eliminare appena in tempo. E ancora – aggiungiamo noi – a svuotare il 41-bis, a chiudere le supercarceri di Pianosa e Asinara, a depotenziare la legge sui pentiti, ad abolire addirittura (per un anno) l’ergastolo per gli stragisti, proprio come Riina aveva chiesto nel “papello”, ad avviare campagne politico-mediatiche contro i pm antimafia (da Caselli e il suo pool protagonista dei processi su mafia e politica a Di Matteo e agli altri magistrati impegnati tuttoggi nel processo sulla trattativa) e contro tutti i più efficaci strumenti di lotta alla mafia: i pentiti, i testimoni di giustizia, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (ideato da Borsellino nell’ordinanza del maxiprocesso-ter), la custodia cautelare e le intercettazioni.

Naturalmente l’agghiacciante denuncia di Scarpinato è caduta nel vuoto, essendo il muro di gomma l’arma migliore usata dal potere contro le verità indicibili. Ora, immaginiamo che opinione si farebbe dell’Italia uno straniero che vi sbarcasse per la prima volta e leggesse i quotidiani e ascoltasse i tg e i dibattiti televisivi di questi giorni, tutti dedicati a quei mascalzoni dei pm e all’obbrobrio delle intercettazioni. Penserebbe: che strano, di solito sono i mafiosi, i killer, i rapinatori, gli scafisti, i trafficanti di droga, armi e carne umana che parlano solo di come sfuggire a quei cornuti dei magistrati e di quegli stronzi degli inquirenti, di come levarseli dai piedi e farla franca, prima di aprire bocca, si guardano intorno, evitano i telefonini e parlano sottovoce per scansare le cimici; invece in Italia tutte queste cose le dicono e le fanno i politici, che negli altri Paesi hanno preoccupazioni diverse, anzi opposte. Si domanderebbe il perché di questo bizzarro fenomeno e come potrà mai il nostro Stato combattere lo stragismo jihadista. E si risponderebbe: vuoi vedere che in Italia governa la criminalità organizzata? Risposta esatta.

Giovanni Falcone 25 anni dopo. Scarpinato: “Una verità a brandelli. Interessi politici oscuri tramano ancora”. Il Procuratore generale di Palermo: "Ancora ombre. Gli amici di Roma e la minaccia a Di Matteo". Intervista di Marco Travaglio del 23 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".

Roberto Scarpinato, lei dov’era il 23 maggio 1992, quando esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta?

«Alla Procura di Palermo, dove ero entrato un anno prima nel pool antimafia».

Oggi, come ogni anno, anzi di più perché siamo al quarto di secolo, su Capaci si abbatte la solita cascata di lacrime e retorica. A che punto siamo nella ricerca della verità su quella strage e sulle altre del biennio orribile 1992-’93?

«In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali».

Forze criminali di che tipo?

«Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”».

Traduzione?

«Insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come instrumentum regni e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica».

Come fa a dirlo?

«Questa convergenza di interessi criminali la rivelò per primo Elio Ciolini, un ambiguo personaggio implicato nelle indagini per la strage di Bologna, legato al mondo dei servizi segreti, della massoneria e dell’eversione nera. Nel 1992 era in carcere a Bologna e il 4 marzo e il 18 marzo, poco prima che si scatenasse l’inferno, anticipò ai magistrati che nel marzo-luglio del ’92 sarebbe stato ucciso un importante esponente della Dc, sarebbero state compiute stragi e poi si sarebbe distolto “l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”. Tutti quegli eventi puntualmente si verificarono: il 12 marzo ’92 fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia; il 23 maggio fu consumata la strage di Capaci; il 19 luglio quella di via D’Amelio; poi – sempre come Ciolini aveva anticipato – la strategia stragista si spostò al Centro-Nord con le mattanze di Milano e Firenze e gli attentati a Roma. Tutte azioni rivendicate da comunicati a nome della “Falange Armata”, sigla di un’organizzazione eversiva che serviva appunto a distogliere l’opinione pubblica dal pericolo mafioso. Ma Ciolini non fu l’unico ad avere la “sfera di cristallo” che gli consentì di rivelare con così largo anticipo l’unitarietà e il respiro strategico della lunga campagna stragista».

Chi altri sapeva tutto in anticipo?

«Il 21 e il 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa “Repubblica”, vicina ai servizi segreti, pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un bel “botto esterno” per giustificare un voto di emergenza che avrebbe sparigliato i giochi di potere in corso per la elezione del nuovo presidente della Repubblica. Anche questo evento puntualmente si verificò il 23 maggio: il botto esterno di Capaci azzerò le manovre per portare alla presidenza della Repubblica il senatore Giulio Andreotti e contribuì all’elezione dell’outsider Oscar Luigi Scalfaro».

All’epoca si pensava a una serie di fatti criminali isolati, che invece facevano parte di un unico piano molto articolato e a lunga gittata.

«Molti collaboratori di giustizia ci hanno confermato in seguito che un selezionato numero di capi della Commissione regionale di Cosa Nostra, riuniti alla fine del 1991 in un casolare della campagna di Enna, avevano discusso per vari giorni quel complesso progetto politico che stava dietro alle stragi. Un progetto che fu tenuto segreto ad altri capi e ai ranghi inferiori dell’organizzazione, ai quali venne fatto credere che le stragi servivano solo a scopi interni alla mafia, cioè a costringere lo Stato a scendere a patti, garantendo in vari modi impunità e benefici penitenziari».

E invece?

«E invece – come la Dia evidenziò già nel 1993 – dietro quella campagna si celavano menti raffinate e soggetti esterni il cui ruolo attivo emerge anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo 25 anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli».

Per esempio?

«Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della Giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura».

Da Falcone si passa poi a Borsellino, appena 57 giorni dopo.

«Chi era il personaggio non appartenente alla mafia che, come ha rivelato il collaboratore Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage di via D’Amelio, assistette alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta? Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi».

Altri pezzi mancanti su via D’Amelio?

«Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, in un colloquio intercettato il 14 dicembre ’93, poco dopo il rapimento del loro figlio Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Quell’intercettazione è agli atti del processo, ma quegli “infiltrati” è stato impossibile identificarli e assicurarli alla giustizia».

Andiamo avanti.

«Chi è in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino trafugata, con una straordinaria e lucida tempistica, pochi minuti dopo l’immane esplosione di via D’Amelio? Su quell’agenda è noto che Paolo aveva annotato i terribili segreti intravisti negli ultimi mesi di vita. Segreti che l’avevano sconvolto e convinto di non avere scampo, perché – come confidò alla moglie Agnese – sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso. Chi erano questi “altri”? L’elenco delle domande che sinora non hanno avuto risposta disegna i contorni di un iceberg ancora sommerso che né le inchieste parlamentari né i processi sono mai riusciti a portare alla luce, per una pluralità di fattori che si sommano e delineano un quadro inquietante».

Possibile che i magistrati che indagano da 25 anni non siano riusciti a fare luce su tutto questo?

«E come si fa quando vengono sottratti ai magistrati documenti decisivi per l’accertamento di retroscena occulti? Ho già accennato alle carte di Falcone e all’agenda di Borsellino, episodi che si inscrivono in una lunga tradizione di carte rubate sui misteri d’Italia: dalla sparizione delle bobine con gli interrogatori di Aldo Moro nella prigione delle Br al trafugamento dei documenti segreti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa dopo il suo assassinio. Ma penso anche alla miniera di tracce documentali custodita nella villa di via Bernini a Palermo, dove Salvatore Riina aveva abitato negli ultimi anni della sua latitanza».

La famigerata, mancata perquisizione del covo da parte del Ros.

«Si impedì ai magistrati di perquisire l’abitazione di Riina immediatamente dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993: ci assicurarono che il luogo era strettamente sorvegliato giorno e notte, mentre in realtà fu abbandonato poche ore dopo quella stessa assicurazione, lasciando campo libero a squadre di “solerti pulitori” che ebbero agio per diversi giorni di far sparire ogni cosa, smurando persino la cassaforte e ridipingendo le pareti per eliminare eventuali tracce di Dna».

Chi è in possesso da 24 anni di quei documenti e che uso ne ha fatto?

«Decine di mafiosi, anche boss di prima grandezza, hanno collaborato con la giustizia. Certamente più di molti uomini delle istituzioni. Purtroppo tacciono ancora tanti boss che sanno tutto: i fratelli Graviano, Santapaola, Madonia e altri capi detenuti. E anche alcuni collaboratori danno l’impressione di sapere molto più di quel che dicono, ma di autocensurarsi. E penso anche ai silenzi prolungati e all’amnesia generalizzata di alcuni esponenti delle istituzioni, che solo con il forcipe delle indagini penali si sono decisi, a distanza di anni, a rivelare brandelli di verità».

Si intravede, dalle sue parole, un grande armadio dei segreti indicibili, delle carte trafugate, dei ricatti incrociati ai piani alti di quello che chiamiamo “Stato”. Un circuito di “verità parallele” che deve restare inaccessibile a voi magistrati e a noi cittadini.

«Le faccio ancora un esempio. Quali erano i segreti sul coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi e omicidi eseguiti dalla mafia che Giovanni Ilardo, capomafia legato ai servizi segreti e alla destra eversiva, aveva promesso di rivelare ai magistrati pochi giorni prima di essere assassinato il 10 maggio 1996, proprio mentre si apprestava a mettere a verbale le sue dichiarazioni iniziando a collaborare? Lo stesso Ilardo era stato il primo a indicare Pietro Rampulla, anch’egli mafioso ed estremista di destra, come l’artificiere della strage di Capaci, che infatti sarebbe stato poi condannato con sentenza definitiva».

Intanto il tempo passa, la polvere si accumula, le carte ingialliscono, le memorie evaporano, i protagonisti invecchiano o muoiono portandosi i segreti nelle rispettive tombe. Non resta che seppellire quelle domande, sperare nella selezione naturale e alzare le braccia in segno di resa?

«Alcuni eventi recenti, ancora in corso di verifica processuale, sembrano dimostrare che purtroppo questa non è solo una tragica storia del passato. Per esempio le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, capo dell’importante mandamento di Resuttana, membro di una famiglia mafiosa implicata in stragi e delitti eccellenti del passato e vecchia amica di apparati deviati delle istituzioni. Racconta Galatolo che alla fine del 2012 il capo latitante di Cosa Nostra, Messina Denaro, protagonista della stagione stragista del 1992-’93, ha ordinato l’omicidio del pm Nino Di Matteo, impegnato nelle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, con un’autobomba. Galatolo ha dichiarato che sia lui sia altri capi erano rimasti colpiti dal fatto che l’identità dell’artificiere messo a disposizione da Messina Denaro, doveva restare ignota a tutti, compresi i capi di Cosa Nostra. Una circostanza che, ancora una volta, contrastava palesemente con le regole mafiose e indicava la partecipazione anche in quel progetto stragista di soggetti esterni, portatori di interessi criminali convergenti con quelli della mafia. Prima che Galatolo iniziasse a collaborare rivelando l’episodio, un esposto anonimo aveva già messo al corrente la magistratura che Messina Denaro aveva ordinato una strage su richiesta di suoi “amici romani” per interessi politici che andavano oltre quelli di Cosa Nostra».

Quindi lei non si arrende?

«Continuare a ricercare la verità è un dovere non solo istituzionale, ma anche morale. Il modo più autentico per onorare la memoria, per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato e alla morte di tante vittime innocenti le cui vite sono state inghiottite nei gorghi tumultuosi di quello che Giovanni Falcone definì “il gioco grande del potere” una guerra sporca giocata con tutti i mezzi nel “fuori scena” della storia».

Perché Giovanni Falcone vive ancora oggi. Dal giorno dell’attentato il giudice ha cominciato a rinascere, a diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Sino a essere, con Paolo Borsellino, punto di riferimento di chi crede in una giustizia capace di schiacciare la sopraffazione e la mentalità mafiosa. Per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su "L'Espresso". Giovanni Falcone ha iniziato a rinascere proprio su quel cratere dell’autostrada squarciata 24 anni fa da cinquecento chili di tritolo fatti esplodere dai mafiosi. C’è voluta questa strage, con il pesante sacrificio umano che si è trascinata, per scuotere le coscienze. E far cambiare idea non tanto ai mafiosi ma a quella pletora di nemici, pubblici e privati, che il dottor Falcone ha avuto durante la sua carriera. E a quei siciliani che continuavano a ripetere fino a quel momento: tanto si uccidono fra di loro i mafiosi. Magistrati e professionisti, politici e borghesi, che hanno attaccato il dottor Falcone in vita, dopo la sua morte come per un incantesimo hanno iniziato a dire che erano tutti amici di “Giovanni”, che stimavano “Giovanni” e che gran magistrato era “Giovanni”. Dopo la sua uccisione il dottor Falcone sembrava di colpo aver conquistato più amici. Anche e soprattutto fra i nemici. 23 maggio 1992. Ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Capaci. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare dai mafiosi sotto l’autostrada. L’esplosione viene segnalata alle sale operative di Polizia e Carabinieri che inviano sul posto uomini e mezzi. Queste sono le loro conversazioni radio, che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo nel tragitto fino all’ospedale. Dove perderanno la vita. Che strana è la vita di questo uomo-magistrato che durante la sua carriera si è dovuto confrontare prima contro i mafiosi, che hanno cercato in più occasioni di ucciderlo, poi contro una maggioranza di suoi colleghi che proprio perché erano maggioranza lo mettevano in minoranza quando Falcone chiedeva di poter andare a ricoprire altri incarichi dove avrebbe potuto mettere a frutto l’esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Poi contro i politici che difendevano gli interessi dei mafiosi. E poi contro i veleni di “palazzo”. Non si è fatto mancare nulla. La gente, che però non era una maggioranza, lo sosteneva. Ma i corvi avevano sempre la meglio. Ma una giustizia arriva sempre. Per tutti. Sono però tutte storie dimenticate. La strage ha fatto dimenticare – non a tutti – queste cose. Ma il dottor Falcone proprio da quell’attentato di Capaci ha iniziato a rinascere. A diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Oggi Giovanni Falcone è il punto di riferimento, come lo è anche Paolo Borsellino, di chi crede in una giustizia che può schiacciare la sopraffazione mafiosa con i loro clan e i loro affiliati. Ma anche la mentalità. Per questo Giovanni Falcone ancora oggi vive. E per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto. I magistrati di Caltanissetta dopo aver istruito diversi processi ai mandanti ed esecutori della strage, ancora oggi si trovano a puntare il dito su altri responsabili che fino adesso erano rimasti fuori dalle indagini e grazie alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia è stato possibile individuare. Come pure il latitante Matteo Messina Denaro che per 24 anni è rimasto lontano dalle indagini e adesso i pm nisseni hanno provato il suo coinvolgimento, insieme a Totò Riina, come mandante dell’attentato. Il lavoro di Falcone dava fastidio a Cosa nostra, e per questo è stato ucciso. I pm di Caltanissetta escludono l’intervento di soggetti esterni alla mafia nell’esecuzione della strage di Capaci. Lo ha voluto ribadire poche settimane fa il pm Stefano Luciani durante la requisitoria del nuovo processo per la strage. “Abbiamo diverse dichiarazioni generiche sull’intervento di soggetti esterni, in particolare componenti dei servizi. Dichiarazioni che arrivano da persone estranee a Cosa nostra o da chi era ai piani bassi dell’organizzazione, ma nessuno di coloro che stava ai piani alti della mafia e che poi ha deciso di collaborare con la giustizia, come ad esempio Giovanni Brusca, ha mai parlato dell’intervento di esterni nell’esecuzione della strage. E allora cosa dovremmo fare? Teorizzare un enorme complotto che mirava a tappare la bocca a questi collaboratori?”, ha detto il magistrato Luciani. “Ci stiamo occupando di un fatto che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese, a livello di ipotesi si può dire tutto, ma quando dobbiamo andare sul concreto dobbiamo agire sulla base degli elementi raccolti. Sono stufo di sentire dire che questo ufficio tiene la polvere nascosta sotto il tappeto. Si è parlato anche del coinvolgimento di Giovanni Aiello (ex agente di polizia reclutato dai Servizi indicato come “faccia di mostro” – nella foto a sinistra – n.d.r.). Abbiamo sentito molti testi, ma riscontri sicuri non ne sono arrivati. I suoi familiari hanno detto di non sapere che collaborasse con i servizi e quando ad alcuni testi è stato chiesto di descriverlo sono stati commessi errori”. La Procura di Caltanissetta, che dal 2008, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, sta cercando di riscrivere la verità sui due attentati di Capaci e di via D’Amelio, ha messo insieme gli elementi raccolti individuando mandanti ed esecutori materiali rimasti per lungo tempo impuniti. Falcone intanto risorge. Commento tratto dal settimanale L’ Espresso

Cisterna: «Dopo Capaci pagò solo il leale Cordova e non i nemici di Falcone». Intervista di Giulia Merlo del 24 Maggio 2017, su "Il Dubbio".

«Il suo avversario per la nomina a Superprocuratore divenne l’unico capro espiatorio di quanto dovevano sciacquare i panni nel nuovo assetto politico». «La commemorazione al Csm ha avuto uno straordinario valore simbolico, perchè ha segnato la distanza tra i giudici di oggi e quelli che allora sedevano su quegli scranni». Alberto Cisterna, ex viceprocuratore nazionale antimafia e una lunga carriera da magistrato in Calabria, racconta l’eredità di Giovanni Falcone, ma anche le trame di chi prima della strage di Capaci lo isolò e oggi lo esalta.

Come ha affrontato la magistratura i momenti immediatamente successivi la strage di Capaci?

«La strage avviene nel momento particolarmente delicato della procedura di nomina del Procuratore nazionale antimafia. Una nomina condizionata da polemiche roventissime, visto che molta parte della magistratura italiana, in modo silente o palese, contrastava l’idea di vedere a quell’incarico Giovanni Falcone. Dopo Capaci, quella stessa magistratura si trovò di fronte al problema di riposizionarsi in modo credibile, pur dopo aver contrastato aspramente Falcone».

E come si concluse la contesa?

«Di questa difficoltà di certa magistratura fece ingiustamente le spese il procuratore Cordova, leale competitor di Falcone, il quale venne accantonato. Quasi che i magistrati italiani, eliminandolo, volessero pulirsi la coscienza. Cordova aveva tutti i requisiti per ricoprire l’incarico ed è singolare che sia stato travolto lui, ma non quelli che invece con Falcone polemizzavano. Cordova fu il capro espiatorio di quanti dovevano sciacquare i panni nel nuovo assetto politico e istituzionale che quell’evento tragico ha determinato».

Che cosa ha provocato questa avversione nei confronti di Falcone?

«Sentimenti banali, ma non per questo meno violenti, come l’invidia e il timore. All’epoca Falcone era uno dei magistrati più noti al mondo e nessun nano o ballerina poteva fargli ombra, ma a preoccupare era che, insieme a lui, emergesse anche un nuovo modello di magistrato. Ciò che si intendeva contrastare, oltre alla sua persona, era anche il suo approccio, tutto incentrato sulla professionalità e lontano dagli approdi correntizi, dalle tutele istituzionali, dai comparaggi palesi o occulti».

Il timore era che fosse troppo autonomo?

«Il suo essere così focalizzato sul metodo era un aspetto inviso a moltissimi. Se questo suo approccio fosse passato, la stessa magistratura avrebbe rischiato di diventare qualcosa di diverso e forse non gradito ai più».

Alla cerimonia di commemorazione al Csm, la sorella Maria Falcone ha detto esplicitamente quanto quell’Aula abbia ferito Giovanni.

«Un’istituzione come il Csm cammina sulle gambe degli uomini. Io trovo giusto e anche ammirevole che si sia deciso di commemorare Falcone in quell’aula, con uno straordinario valore simbolico. Chi rappresenta oggi le istituzioni ha deciso di segnare un punto di distanza da qualunque torto Falcone abbia subito dagli uomini che rappresentavano le istituzioni allora».

Pochi sono stati quelli che hanno fatto autocritica.

«Quelli che lo hanno contrastato in buona fede hanno tutti successivamente riconosciuto di essersi spinti troppo in là, ma la loro percentuale non è elevata. Gli altri sono rimasti silenti e hanno fatto finta di nulla, confidando sul fatto che questo è un Paese che dimentica facilmente. La giustizia ha fatto molti passi avanti per individuare le responsabilità della strage, mentre il versante delle responsabilità politiche dentro e fuori la magistratura ha il conto ancora in rosso».

La sua eredità di magistrato è il cosiddetto “Metodo Falcone”: in cosa consiste?

«Oggi il metodo Falcone è l’unico ad esistere, per ciò che riguarda la lotta alla mafia. Il metodo si fonda su una estrema attenzione al fenomeno della criminalità organizzata nella sua dimensione non soltanto criminale e delittuosa, ma anche in quella economico- finanziaria e istituzionale. All’epoca la magistratura si muoveva ancora con metodologie di indagine basate sul rapporto della polizia giudiziaria e sui confidenti, in maniera parcellizzata. Falcone è stato il primo a porre al centro dell’indagine la sconfitta della mafia: prima tutte le indagini cercavano i colpevoli di omicidi o estorsioni, lui invece puntava alla sconfitta del fenomeno criminale. Le sue indagini erano un ciclo continuo di investigazioni, in modo da costituire una continua erosione del potere mafioso».

Una delle accuse che gli vennero mosse è di non aver dato adito alle dichiarazioni di un pentito contro Andreotti.

«La componente fondamentale dell’atteggiamento di Falcone è stata la prudenza nel valutare le dichiarazioni dei collaboratori, soppesandole e comprendendone la valenza giudiziaria. Lui ha soppesato le carte e poi le ha messe da parte. D’altra parte, basta vedere gli esiti dei processi a carico di quelle persone: tutti assolti. Ecco, se lo si vuol tacciare di prudenza, gli si può contestare che non abbia prodotto assoluzioni. Ma non credo fosse quello il suo compito».

E’ stato quindi fumo mediatico?

«Guardi, allora si è fatto dei pentiti e oggi si fa delle intercettazioni un uso spesso puramente mediatico. Finiscono nel circuito frasi e illazioni che non hanno alcuna possibilità di essere portate in un aula di giustizia, ma vengono comunque messe nel ventilatore del fango. Falcone ha insegnato a non fare queste cose e la sua attenzione è sempre stata rivolta alla qualità giudiziaria e non mediatica del materiale raccolto».

Il maxiprocesso fu la vittoria dello Stato sulla mafia. Che cosa rimane ai magistrati di oggi?

«E’ indimenticabile la frase di Paolo Borsellino detta a Falcone, dopo la conferma della sentenza: «Abbiamo vinto e forse anche troppo». Questa la frase segna la moralità del giudice, che ha timore di aver ottenuto un risultato al di là del merito del processo. Quale dei protagonisti della vita giudiziaria di oggi lo direbbe mai oggi? Eppure la coscienza di Falcone e Borsellino faceva avere loro paura di sbagliare, anche col peggiore dei mafiosi».

Alberto Di Pisa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Girolamo Alberto Di Pisa (Pietrasanta, 1º ottobre 1943) è un magistrato italiano. Nel 1971 è stato pretore a Castelvetrano e poi a Palermo. Sostituto procuratore della Repubblica al tribunale del capoluogo siciliano, dal 1982 fece parte del Pool antimafia, ideato da Rocco Chinnici per tutti gli anni 80, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso di Palermo. È stato anche procuratore generale aggiunto a Palermo. Fu, suo malgrado, uno dei protagonisti della vicenda del "Corvo di Palermo": il giudice fu condannato nel 1992 in primo grado a un anno e sei mesi perché nel 1989 l'Alto commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica indicò fosse sua l'impronta digitale lasciata su uno dei messaggi anonimi di accuse inviati ai magistrati Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala e Pietro Giammanco, al capo della polizia Vincenzo Parisi e al questore Gianni De Gennaro. Nel frattempo nel 1989 Di Pisa era stato trasferito d'ufficio a Messina e dopo la condanna sospeso dal servizio. È stato assolto definitivamente nel dicembre 1993 "per non aver commesso il fatto". Anni dopo Di Pisa dichiarò che le sue impronte furono falsificate per coprire il pentito Totuccio Contorno. Viene nominato dal CSM procuratore della Repubblica di Termini Imerese nel 2003 e nel 2008 di quella di Marsala, che era stata guidata da Paolo Borsellino. Nel 2010 e nel febbraio 2015 gli sono stati inviati messaggi di minacce insieme a proiettili. Lascia la magistratura per limiti d'età il 31 dicembre 2015.

"FALCONE MI DISSE CHI ERA IL CORVO", scrive Attilio Bolzoni. Non si sono guardati nemmeno per un momento, non si sono scambiati neanche un freddo saluto di cortesia. Si sono trovati per la prima volta faccia a faccia dopo un lungo anno di misteri. Dentro l'aula di un tribunale. Uno imputato, l'altro testimone dell'accusa. Al processo del Corvo è sfilato il primo teste, l'alto commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica. E la sua deposizione rilancia in grande stile il giallo delle lettere anonime, le lettere senza firma della più infuocata tra le estati palermitane. Tra tanti non ricordo e qualche non saprei di troppo Sica ha abilmente difeso la sua strategia nell' operazione impronte. Ha indicato Falcone come suo primo informatore nell' intrigo delle lettere, ha scaricato sul Sismi le responsabilità tecniche di qualche vero o presunto pasticcio chimico, ha lanciato messaggi in codice al questore Gianni De Gennaro sul caso Contorno. Quasi quattro ore di botta e risposta al Tribunale di Caltanissetta, quasi quattro ore di ricostruzione di un affaire ancora avvolto nelle nebbie e nei veleni. Ma la quarta udienza del processo al sostituto procuratore della Repubblica Girolamo Alberto Di Pisa ha riservato altre sorprese. La difesa s' è scatenata, ha giocato tutte le sue carte trovando mezze conferme perfino negli sbiaditi ricordi e nelle avare dichiarazioni dell'alto commissario. I misteri del Corvo sono chiusi tutti in una settimana dell'estate 1989, quella che va dal 13 al 20 di luglio. Una settimana decisiva finita con una lunga notte dove è cominciata la storia del Corvo di Palermo. Il 13 luglio due ufficiali del Sismi dicono a Sica che ci sono sospetti sul magistrato palermitano Di Pisa, che è probabilmente lui l'autore di quelle lettere che accusano uomini dello Stato di gestire in maniera troppo disinvolta i pentiti. Su due buste ci sarebbero le sue impronte. Non è vero non risulta niente Ma ecco due giorni dopo il maggiore Giovanni Lombardi del Cis (il Centro di investigazioni scientifiche dei carabinieri) che informa l’alto commissario: Non è vero, non risulta niente. E' il 15 luglio. Passano altri due giorni e Sica incarica il giudice Francesco Misiani, suo collaboratore, di telefonare a Palermo per dire a Falcone che la pista Di Pisa è sfumata, che servono altri accertamenti. Il colpo di scena c' è nella notte tra il 20 il 21 luglio: l'impronta attribuita al giudice Di Pisa sembra adesso più nitida. Un' impronta non rilevata più sulle due buste ma sul retro di una lettera. Fino all' alba del 21 luglio Sica assiste alle operazioni dei chimici nei sotterranei di Forte Braschi. Negli atti del processo non risulta però alcuna nota di servizio del Sismi sugli esami eseguiti quella notte nei laboratori. Neanche una breve comunicazione, un foglio, uno straccio di documento. Nulla. E al procuratore di Caltanissetta, qualche giorno dopo la notte dei misteri, è arrivata non un'impronta rilevata sulla lettera ma un ingrandimento fotografico. L' impronta originale era svanita. Coperta da una macchia rossastra, una macchia provocata, pare, da una reazione chimica intorno alla quale si giocherà probabilmente tutto il processo. Il testimone Sica ha fornito la sua versione sul giallo delle lettere rispondendo a undici domande del pubblico ministero Ottavio Sferlazza e a quarantaquattro domande dell'avvocato della difesa Gioacchino Sbacchi. Spesso Sica ha rispedito i quesiti al mittente, qualche volta ha spiegato che solo il mio segretario può rispondere, in un paio di occasioni ha precisato che solo il Sismi è in grado di spiegare. Su un punto però l'alto commissario non s' è tirato indietro. Ha ricordato con precisione date e circostanze, ha riaperto una guerra con il giudice Giovanni Falcone. Chi ha messo Sica sulle tracce del giudice Di Pisa? Come poteva sospettare un giudice quale autore di quelle infamie scritte su lettera anonima? La telefonata di Contorno Ecco cosa ha detto Sica al processo di Caltanissetta. Chiede l'avvocato Sbacchi: Come maturò l'idea di prelevare le impronte al giudice Di Pisa?. Sica: Per confrontarle con quelle della lettera. Ancora l'avvocato Sbacchi: Sulla base di quali elementi o informazioni venne l'idea di questo confronto? Sica: Nei giorni precedenti alla rilevazione delle impronte ricevetti nel mio ufficio il giudice Falcone il quale dava grande importanza alla individuazione dell'autore degli anonimi, precisando che riteneva, anzi era sicuro, che si potesse identificare con Di Pisa... Valutata l'indicazione confidenziale ritenni così di eseguire i consequenziali accertamenti.... Una ricostruzione esattamente contraria a quella fatta da Falcone nel suo interrogatorio al magistrato. Sica dice che non ne sapeva niente e che fu informato da Falcone. Falcone sostiene che Sica già sapeva. Un altro pezzo dell'audizione del teste Sica scava nei misteri della cattura del pentito Contorno. Chiede sempre l’avvocato Sbacchi: Quando ha saputo che Contorno era in Italia?. Risponde Sica: Contorno venne nel mio ufficio... piu' spontaneamente che su mia richiesta... mi voleva parlare di alcuni problemi legati alla sua protezione, poi non ho più avuto contatti con lui. E ancora: Ricevetti solo una telefonata dalla Criminalpol, da Gianni De Gennaro, che mi disse che non era il caso che parlassi con Contorno perché era stata intercettata la telefonata del pentito a me indirizzata. Mi disse che non era opportuno che io intrattenessi dei collegamenti con lo stesso.... L'avvocato Sbacchi: De Gennaro le disse perché non era opportuno?. Sica: Non lo esplicitò. Le ragioni a me comunque sembravano chiare. Sbacchi: De Gennaro le chiarì la presenza di Contorno in Sicilia?. Sica: Io rimasi francamente stupito che il pentito fosse a Palermo, mi parve strano... De Gennaro mi spiegò che Contorno era libero di andare dove voleva e che aveva solo l'obbligo di telefonare un paio di volte la settimana. Sbacchi: Le risulta che fu intercettata una telefonata tra Contorno e De Gennaro?. Sica: Assolutamente no... io mi sono totalmente disinteressato della vicenda. Sbacchi: Sul pentito Contorno venne esercitata una certa vigilanza?. Sica: Lo ignoro, certamente non da parte del mio ufficio. ATTILIO BOLZONI, La Repubblica" 18 ottobre 1990.  

La giustizia dei rumori. Il giudice Falcone cercava la giustizia delle verità, molti dei suoi “eredi” invece…, scrive Giuseppe Sottile il 18 Maggio 2017 su “Il Foglio”. Da un lato c’è la giustizia delle verità; verità nude, secche, ossificate dal tempo e dalla pazienza, provate, dibattute, e poi fissate in sentenze pronunciate a nome del popolo italiano ed emesse al di là di ogni ragionevole dubbio. Dall’altro lato c’è la giustizia dei rumori, delle chiacchiere, delle urla e delle piazze; la giustizia dei teoremi e dei processi amministrati non dal rigore dei codici ma dai titoli dei giornali. Da un lato c’è Giovanni Falcone, il giudice antimafia straziato il 23 maggio di venticinque anni fa nell’attentato di Capaci. Dall’altro lato ci sono molti dei magistrati che sono venuti dopo, quelli che puntualmente lo ricordano e lo citano, quelli che confidenzialmente preferiscono chiamarlo Giovanni e che sul suo sacrificio hanno costruito una retorica buona per tutti gli azzardi e tutte le petulanze.

Cominciamo dal 1989, quando la piazza dell’antimafia dura e pura – la piazza dove troneggiavano il sindaco Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – chiedeva a gran voce di impiccare al cappio della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella vasta fetta della Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. Mani espertissime e menti raffinatissime lanciarono dentro il palazzo di giustizia una trappola ammiccante e ruffiana. Fecero sapere a Falcone che nel carcere di Alessandria c’era un pentito, Giuseppe Pellegriti, pronto a dichiarare che dietro gli omicidi eccellenti degli ultimi anni – quelli di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa – c’era proprio lui: il torvo, opaco e maleodorante Salvo Lima. Ma il giudice Falcone non ci cascò. Volò ad Alessandria, interrogò Pellegriti, cercò i riscontri e quando verificò che dietro il siparietto c’era soltanto fuffa, tornò rapidamente a Palermo e nello spazio di due giorni incriminò Pellegriti per calunnia. L’antimafia militante, ovviamente, non sopportò l’oltraggio. Si trasformò in sinedrio e gli scaricò addosso una raffica di insulti, il più tenero dei quale fu “venduto”.

Cominciamo dal 1989, quando il magistrato ucciso a Capaci smascherò il pentito che indicava Salvo Lima come mandante. Quelli che sono venuti dopo di lui, quelli che si definiscono eredi o addirittura allievi prediletti quale giustizia hanno contrapposto a quella che Falcone amava costruire con le prove e con i riscontri? Hanno preso Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e lo hanno trasformato in una “icona dell’antimafia” da portare in pellegrinaggio in tutti i talk-show dove i conduttori politicamente più impegnati, da Michele Santoro a Marco Travaglio, erano pronti tessere le lodi di un magistrato, Antonio Ingroia, che non si accontentava più delle verità scritte nelle sentenze, ma voleva andare oltre, molto oltre, fino al buco nero delle complicità e dei misteri che, dalla strage di Portella della Ginestra in poi, hanno ammorbato e pesantemente condizionato la vita della Repubblica. Solo che Ciancimino, come si è visto dopo, non raccontava verità ma castronerie che nessuno ha voluto o saputo arginare. Certo, nessuno nega che alla fine Massimuccio è finito pure lui sotto scopa per calunnia, come Pellegriti. Ma è altrettanto vero che con le sue temerarie ricostruzioni è stato costruito un processo – quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra – che da quattro anni si trascina stancamente davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Arriverà un brandello di verità? In questi quattro anni sono successe tante cose: Antonio Ingroia, il procuratore che ha imbastito la mastodontica inchiesta, forte del successo mediatico ha tentato la discesa in politica ma, dopo avere collezionato un flop pari solo alla sua ambizione, ha trovato riparo in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta; Massimo Ciancimino, invece, è finito in galera non tanto per le calunnie ma perché, mentre confidava a Ingroia le scelleratezze mafiose apprese dal padre, nascondeva in casa una quantità tale di tritolo da fare saltare in aria un intero palazzo. Eppure, nonostante le imprese di Ingroia e Ciancimino abbiano fatto crollare la credibilità delle accuse, c’è ancora un’antimafia chiodata che non vuole rassegnarsi all’evidenza e che cerca, con l’aiuto di una piazza sempre bene orchestrata, di trasformare il processo sulla Trattativa in un pozzo nero dentro il quale affogare non solo l’onore dello Stato, ma anche e soprattutto la vita di quei due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni maledetti del sangue e delle stragi, arrestarono Totò Riina, boss di tutti i boss, e lo seppellirono dentro il carcere a vita.

Fine gogna mai. Basta confrontare la durata dei processi di ieri e di oggi per capire che serve una coraggiosa riflessione. E’ un’antimafia testarda e impietosa quella che soffia sul fuoco di questo processo: Mori, ex comandante del Ros, è ormai un imputato di professione che per quasi vent’anni è passato da un processo all’altro, sempre assolto. Ma vent’anni di gogna non sono bastati; perché Ingroia alla fine del 2012 l’ha tirato dentro la Trattativa e lo ha calato in un supplizio che non si sa nemmeno quanto potrà durare: a occhio e croce, visto che dovrà ancora concludersi il giudizio di primo grado e visto che dopo bisognerà aspettare le sentenza d’appello e quella della Cassazione, il calvario potrà dirsi concluso attorno al 2023. E’ una giustizia da tempi lunghi quella che, dopo Falcone, macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni e sputtanamenti, rancori e fanatismi. Il motivo è semplice: i tempi lunghi moltiplicano le chiacchiere, amplificano i rumori, dilatano i sospetti e lasciano intatta quella confusione rintronante dentro la quale, alla fine della fiera, si insabbia – lentamente, inesorabilmente – lo stato di diritto. Sul numero di Panorama che potrete trovare in edicola sin da oggi, Riccardo Arena, autorevole cronista giudiziario di Palermo, presenta una puntuale analisi sulla durata dei processi, almeno di quelli sui quali tanto si è detto e scritto. E lo fa con dei raffronti che dovrebbero quantomeno spingere a una seria riflessione non solo il ministro della Giustizia o Commissione parlamentare antimafia, ma anche e soprattutto il Consiglio superiore della magistratura.

Nei processi che non finiscono mai un ruolo centrale spetta ancora a Massimo Ciancimino, il pataccaro della Trattativa. Il primo raffronto è quello relativo ai pentiti truffaldi e impostori che, pur di salvare la propria pelle, non hanno esitato a imbrogliare le carte e a crocifiggere chiunque si trovasse ad attraversare la loro strada. Per smascherare Giuseppe Pellegriti, il giudice Falcone impiegò due giorni. Per smascherare Vincenzo Scarantino, il picciotto che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per il massacro di Paolo Borsellino e poi scarcerate senza nemmeno tante scuse, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato ventitré anni lungo i quali si sono snodati tre processi, con le corti e i pm tutti concordi nell’assegnare fiducia a Scarantino, più volte pentito di essersi pentito e mai creduto quando ritrattava.

Il secondo raffronto parte dal maxi processo, quello che assegnò alla mafia la più devastante sconfitta e condannò all’ergastolo non solo i padrini della “cupola” ma anche i boss e i picciotti dei singoli mandamenti, da Riina a Bernardo Provenzano, da Michele Greco a Leoluca Bagarella. “Se il maxi processo – scrive Arena – venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986 - 30 gennaio 1992) il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse”. L’esempio più clamoroso è quello di Marcello Dell’Utri: la procura di Gian Carlo Caselli gli puntò gli occhi addosso a metà degli anni Novanta, la sentenza che lo ha portato al carcere di Rebibbia è arrivata diciassette anni dopo. Un record. Che comunque non chiude i suoi conti aperti con la giustizia: l’ex manager Fininvest infatti è, assieme ai generali Mori e Subranni, tra gli undici imputati della Trattativa e, nella migliore delle ipotesi anche la sua vicenda potrà chiudersi non prima del 2023.

E' una giustizia dai tempi lunghi quella che macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni, sputtanamenti e rancori. Fine gogna mai, verrebbe da dire. E verrebbe da dirlo anche per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino che per tredici anni è stato imputato di concorso esterno ed è stato definitivamente assolto; però, quando già pensava di godersi la vecchiaia senza più salire e scendere le scale dei tribunali, ecco arrivare l’incriminazione per la Trattativa, finita anche questa in una sentenza di assoluzione emessa dal giudice del rito abbreviato ma puntualmente impugnata dai rappresentanti dell’accusa. Se non ci saranno altri intoppi pure per Mannino la fine, se mai fine ci sarà, non potrà arrivare prima del 2023. Altro che giustizia delle verità. Si dichiarano tutti figli e allievi di Falcone ma hanno trasformato molte aule del Palazzo di giustizia in altrettante stanze della tortura. Che Dio ce ne scampi.

Giovanni Falcone, la memoria tradita. A celebrarne la concretezza dell'azione ci sono troppi professionisti dell'antimafia, protagonisti di indagini infinite e processi inconcludenti, scrive il 22 maggio 2017 Riccardo Arena su Panorama. "Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto, senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza, significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità". Nella tutt'altro che sterminata pubblicistica che porta la firma di Giovanni Falcone, questo passaggio di Cose di Cosa nostra (pagina 155 dell'undicesima edizione Bur del 2010) è sempre, sistematicamente sfuggito a tanti magistrati, soprattutto a quelli che, specie dopo la sua morte, hanno amato, con vezzo ingiustificatamente amicale, chiamare il giudice ucciso a Capaci semplicemente "Giovanni". Il povero "Giovanni" è stato così trasformato, suo malgrado, assieme all'altro incolpevole "Paolo", cioè Borsellino, assassinato in via D'Amelio, in un fiume di parole e di retorica (altrui) e di pubblicistica (altrui), che ha fatto fortuna sui loro nomi, nell'arco di 25 anni, per fini di carriera, potere, denaro. E oggi, a parte il diluvio della retorica, di quella lezione, del cosiddetto metodo Falcone, rimane poco. Falcone applicò alla lettera, pagandolo a carissimo prezzo, ciò che pubblicò, la prima volta nel 1991, nel libro scritto con Marcelle Padovani, in quella poco famosa e spesso saltata a pie' pari pagina 155, forse riferita anche alla vicenda che nel 1989 prima gli era costata il fuoco amico (si fa per dire) di Leoluca Orlando, di Alfredo Galasso e dell'antimafia dura e pura dell'epoca: le pseudoconfessioni del falso pentito Giuseppe Pellegriti su Salvo Lima mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Con coraggio e determinazione, andando controcorrente, in un momento in cui la piazza invocava la testa dell'eurodeputato dc, pur beccandosi insulti di ogni genere ("venduto" fu il più gentile), il giudice spiccò immediatamente un mandato di cattura contro Pellegriti. E i suoi eredi cosa hanno saputo fare? Le castronerie di Massimo Ciancimino, ad esempio, non sono state mai realmente arginate: è vero che anche il figlio di don Vito è finito in carcere per calunnia, dopo avere realizzato un falso patente quanto marchiano, ma il processo sulla Trattativa Stato-mafia è nato e si regge in gran parte sulle sue dichiarazioni strampalate. "Massimuccio", pubblicamente e discutibilmente abbracciato, in via D'Amelio, dal fratello del povero Borsellino, Salvatore, ha dipinto il padre, l'ex sindaco mafioso del sacco edilizio di Palermo, Vito Ciancimino, quasi come un "amico" - pure lui! - di Falcone. L'altro esempio evidente di queste distorsioni è Vincenzo Scarantino, il falso pentito che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all'ergastolo per la strage di via D'Amelio e poi scarcerate dopo quasi vent'anni di carcere duro con tante scuse. Lui merita un capitolo a parte: per adesso basta ricordare che se Falcone impiegò un paio di giorni a sbugiardare Pellegriti, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato 18 anni, per cominciare, rimettendo in libertà i condannati, e ventitré per smascherare con una sentenza un picciotto di borgata come Scarantino, che peraltro più volte aveva ammesso di avere mentito. Far parlare Falcone, oggi, sarebbe scorretto. E allora meglio dare la parola ai numeri: se il maxiprocesso venne imbastito e avviato nell'arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986-30 gennaio 1992), il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse, portando fin quasi ai giorni nostri, ad esempio, la condanna definitiva di Marcello Dell'Utri. Certo, qualcuno dice che condannare la mafia militare è più semplice di ingabbiare i cosiddetti colletti bianchi: ma ditelo a Falcone e Borsellino, che era facile, tra il 1985 e il 1986, portare alla sbarra 475 persone a Palermo, con corti d'assise formate da giudici togati e popolari siciliani e, dopo tre processi, ottenere 12 ergastoli e 258 condanne, per 1576 anni complessivi di carcere. Il processo Andreotti (un solo imputato, assolto e in parte salvato dalla prescrizione) è durato più di nove anni, Contrada (condannato a dieci anni, con bacchettata postuma nel 2015 della Corte europea dei diritti dell'uomo alla giustizia italiana) dal 1994 al 2007, Carnevale (assolto) nove anni, Mannino (assolto) 13 anni, Dell'Utri (record) 17 per sette anni di carcere. La tecnica dei processi infiniti fa sì che Dell'Utri e Mannino di professione facciano gli imputati: l'ex manager Fininvest, pur essendo stato definitivamente scagionato per i fatti avvenuti dal 1992 in poi (la politica, la nascita di Forza Italia, la discesa in campo di Berlusconi, secondo la Cassazione non furono condizionati da Cosa nostra), e l'ex ministro, assolto dall'accusa di concorso esterno, sono oggi di nuovo sotto processo per la trattativa, assieme all'ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde Mario Mori, pure lui da oltre vent'anni sotto processo e finora sempre assolto. Processo che non sfugge alla regola dell'infinito applicato alla giustizia ed è ben lungi dalla conclusione del primo grado di giudizio. L'unico personaggio "eccellente" condannato a Palermo in tempi celeri, e per fatti successivi al 1992, è l'ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che ha già scontato la pena: i suoi inquisitori si chiamavano Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Maurizio De Lucia. Hanno fatto tutti carriera, più o meno velocemente. Ma lontano da Palermo, città che come poche riesce a riconoscere da lontano e a cannibalizzare i magistrati che sanno il fatto loro. Giovanni Falcone, che costruì e vinse il "maxi", non fece carriera nella magistratura: molti suoi colleghi lo vedevano come il fumo negli occhi, gli mettevano i bastoni fra le ruote. L'incarico più prestigioso, giunto oltre la soglia dei cinquant'anni, fu quello di procuratore aggiunto della Repubblica: strada sbarrata per il posto di consigliere istruttore, trombato alle elezioni al Csm, fino all'approdo al ministero della Giustizia, grazie al lungimirante Claudio Martelli, e tra gli insulti del solito fuoco amico. Antonio Ingroia, che, avendo affrontato due soli processi degni di nota - Contrada e Dell'Utri, entrambi vinti - ha una percentuale del 100 per cento di successi, ha poi messo su il processo sulla trattativa e immediatamente dopo ha lasciato, per tentare la scalata alle stanze che contano, fondando un movimento politico e candidandosi premier. La sua parabola, conclusa come boiardo in una società regionale, in cui è riuscito persino a farsi indagare dai suoi stessi ex colleghi, dimostra che la magistratura non possiede gli anticorpi neppure per frenare una più che resistibile ascesa come questa. Così il "lavoro sporco", il processo, il cui successo - nella vicenda trattativa - per l'accusa è tutt'altro che certo, lo fanno gli altri suoi ex colleghi, a cominciare da Nino Di Matteo, magistrato costretto a vivere scortato come un capo di Stato, molto più protetto di Falcone, per via di minacce e piani di morte via via raccontati dai pentiti, ma ormai isolato all'interno del suo stesso gruppo inquirente, molto più disincantato sulla trattativa, e protagonista di frequenti attriti con il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. Questo è il Paese delle verità celate, occultate, negate: da piazza Fontana al sequestro Moro fino a Capaci e via D'Amelio, alle stragi di Roma, Firenze e Milano. È un Paese che cerca, ma non trova, giustizia. Dopo le stragi di mafia, ad esempio, la ricerca dei mandanti occulti non si è mai fermata: cinque procuratori della Repubblica di Caltanissetta, quattro di Palermo e altrettanti capi della Direzione nazionale antimafia, compreso l'attuale presidente del Senato, Piero Grasso, hanno sempre sostenuto di voler andare oltre le responsabilità degli esecutori materiali, puntando a individuare i mandanti esterni. Venticinque anni dopo non sono stati ancora trovati, eppure non si può certo dire che non siano stati cercati, anche indirettamente: l'emblema è l'inchiesta dell'allora pm Roberto Scarpinato chiamata "Sistemi criminali", smisurato contenitore che, dopo costosissime e poco proficue indagini tra mafia, Gladio, politica, massoneria e Servizi (ovviamente deviati), ha portato ad una solenne e monumentale archiviazione. E anche a Caltanissetta, Vincenzo Scarantino ha potuto raccontare quel che ha voluto, nel processo per la strage di via D'Amelio. Disonesto, forse, o forse convinto a suon di botte: mille volte ha ritrattato e non è stato creduto; andava bene solo quando accusava. Per sconfessarlo si è dovuto attendere nel 2008 un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza: Scarantino è stato così fatto passare come vittima di non meglio precisati poteri forti, che lo avrebbero costretto a mentire. Ma chi lo costrinse? Archiviate le indagini sugli agenti "torturatori", è rimasto un unico presunto "puparo", il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, che offre un vantaggio enorme ai propri detrattori: è morto. Nessun sospetto invece sui circa 40 magistrati che, nei tre gradi di giudizio, non si accorsero che Scarantino era un balzano mentitore, e nemmeno dei più furbi. Fra di loro c'era anche il giovanissimo Di Matteo e la più navigata Anna Palma, di recente divenuta avvocato generale, cioè vice del Procuratore generale di Palermo, Scarpinato. Falcone, tacciato di essere a turno comunista, democristiano, socialista, fu accusato di mille cose (il Corvo delle lettere anonime cercò di "mascariarlo" per gli omicidi attribuiti al pentito Totuccio Contorno, Orlando disse che teneva le prove nei cassetti sulle collusioni tra mafia e politici) ma, al di là dei veleni, contro di lui non ci fu mai nulla di nulla. Non altrettanto limpida può dirsi l'antimafia delle deviazioni e delle scorciatoie di oggi, quella che ha gestito i beni confiscati: amava definirsi vicina a "Paolo", Silvana Saguto, la ex presidente della sezione misure di prevenzione, accusata di avere approfittato del ruolo e della posizione di simbolo dell'antimafia per depredare i patrimoni mafiosi. Casi estremi ma per niente marginali, dato che sono coinvolti altri quattro giudici: le tentazioni di sfruttare la facciata antimafia sono forti e si è passati dalla Palermo espugnata come la Sagunto del cardinale Pappalardo alla Palermo della Saguto. Città bizantina e spagnola, il capoluogo siciliano, in cui le famiglie delle vittime della strage di Capaci sono... capaci di litigare fra di loro proprio alla vigilia del venticinquennale. Maria Falcone, titolare unica del copyright della memoria e dell'immagine di Giovanni, ha accettato che i resti del fratello venissero accolti dal Pantheon dei palermitani, il tempio di San Domenico; Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Falcone, morta con lui, non ha accettato la separazione delle salme e ha ritirato il cognome dalla Fondazione Falcone. È proprio vero che pure da morto, per Falcone il peggior nemico è il fuoco amico, ovviamente amico.

Fissata l'udienza di rinvio a giudizio di Saverio Masi per calunnia e diffamazione. L'ex capo scorta del Pm Di Matteo era superteste del processo Stato-mafia e, come Massimo Ciancimino, un "eroe dell’Antimafia", scrive il 24 maggio 2017 Anna Germoni su Panorama. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palermo, Lorenzo Jannelli, ha fissato l'udienza per il rinvio a giudizio per diffamazione e calunnia, di Saverio Masi, l’ex capo scorta del pm Antonino di Matteo, magistrato di punta dell’inchiesta Stato-mafia. Il militare figura proprio come superteste della pubblica accusa. Masi, Carabiniere con alle spalle una condanna definitiva della Cassazione del 24 aprile del 2015, a sei mesi di reclusione per tentata truffa e falso, risulta come numero 54 nella lista della Procura di Palermo, nel processo Stato-mafia, per aver denunciato i suoi superiori gerarchici per averlo ostacolato nella cattura dei boss Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Per questi fatti, a Palermo si era aperto un dossier, con querele e controquerele da parte delle parti offese, che la Procura aveva deciso di archiviare. Singolare richiesta di archiviazione, visto che tra le firme dei magistrati che optarono per chiudere il caso, anche i togati che invece nel processo Stato-mafia, lo chiamarono come testimone per avvalorare l’impianto accusatorio re la sua "attendibilità specchiata". Anche la procura di Roma, aveva già chiesto il rinvio a giudizio per il Masi, accogliendo la tesi delle parti offese, tutti alti ufficiali dell’Arma, "lesi nella loro reputazione", dopo che il legale del militare, anche costui rinviato a giudizio, aveva convocato a Roma, una conferenza stampa per dare enfasi e clamore mediatico ai fatti. Su questa vicenda era entrato a gamba tesa più volte proprio il magistrato Di Matteo che addirittura il 6 settembre del 2014, polemizzando, attraverso le agenzie di stampa, contro la procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, aveva dichiarato: “Continuo a nutrire piena fiducia nel maresciallo Masi. Se mai, personalmente, mi sembra singolare che mentre come è noto a Palermo, si cerca di verificare la fondatezza delle sue denunce, un’altra autorità giudiziaria incrimini per diffamazione gli autori delle suddette denunce”. Il gip di Palermo, Vittorio Alcamo, creando notevole imbarazzo ai magistrati che stanno conducendo l’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, il 29 marzo scorso, ha chiesto l’imputazione coatta per Masi e Fiducia. Ventidue pagine al vetriolo, ricostruite meticolosamente dal punto di vista analitico, storico, temporale, che hanno bollato il Masi, come “inattendibile, calunniatore e diffamatore”. Un vero e proprio boomerang per i quattro togati impegnati nel processo Stato-mafia, visto che il militare era stato eretto a "eroe dell’Antimafia" dalla società civile e anche dai media: Il Fatto Quotidiano, aveva chiesto una petizione in suo favore, chiamando a raccolta i suoi lettori. In prima fila Marco Travaglio. Non solo, il militare di scorta del pm Di Matteo, girava tutta l’Italia per summit e convegni sulla legalità, parlando del processo in corso, sul quale lui doveva testimoniare, con teorie “fantasiose e prive di ogni fondamento processuale” solo allo scopo di suggestionare il pubblico, ignaro delle carte giudiziarie. “C’è qualcosa ancora di più assurdo in questo processo, dichiarava, chi suggerì di compiere gli attentati del 27 e 28 luglio 1993 ai danni delle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro? Dobbiamo tenere presente la coincidenza che fossero i nomi di battesimo di Giovanni Spasolini e Giorgio Napolitano”. Tutto lecito? Tutto normale? Ora dopo l’imputazione coatta del gip, due pubblici ministeri che conducono il processo Stato-mafia, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, il 21 aprile scorso, insieme ai colleghi Pierangelo Padova e Francesco Grassi, hanno dovuto chiedere il rinvio a giudizio proprio di quel teste, ritenuto altamente “attendibile”, per le ipotesi di diffamazione e calunnia. Saverio Masi, dopo l’imputazione coatta disposta dal giudice Alcamo, ora per la Procura di Palermo risulterebbe reo di incolpare “sapendoli innocenti” gli “Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri”: Giammarco Sottili, Gianluca Valerio, Vincenzo Nicoletti, Francesco Gosciu, Fabio Ottaviani, Michele Miulli. Il gip del tribunale di Palermo, Lorenzo Jannelli, letta la richiesta per fissare l'udienza del rinvio a giudizio dei magistrati, l’ha accolta il 23 maggio del 2017 e fissato l’udienza per il 4 ottobre prossimo. Il “metodo Falcone” a Palermo purtroppo viene applicato da pochissimi magistrati. Così “se non si hanno prove inconfutabili, senza la ragionevole probabilità di vincere è immorale…così si scredita la giustizia” diceva Giovanni Falcone al Csm, il 15 ottobre del 1991.

Falcone e il suo rapporto con Andreotti. Perché, 25 anni dopo la strage di Capaci, non si può ricordare il magistrato ucciso dalla mafia senza raccontare molte cose che quasi nessuno ricorda, probabilmente per dimenticanza, scrive Paolo Cirino Pomicino su “Il Foglio” il 24 Maggio 2017. Il venticinquesimo anniversario della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i suoi giovanissimi agenti di scorta è stato giustamente ricordato da tutte le maggiori autorità del paese, a Roma come a Palermo, e da tantissimi intellettuali ed opinionisti così come da molte manifestazioni pubbliche. Lo ricordiamo anche noi avendo avuto il privilegio di conoscerlo perché venne a svolgere le funzioni di direttore degli affari penali presso il ministero di Giustizia guidato da Claudio Martelli nel governo del "noto mafioso" Giulio Andreotti. L’onore che sento di dovergli dare per quel che ha dato al paese è innanzitutto raccontare molte cose che quasi nessuno ricorda, probabilmente per dimenticanza! Giovanni Falcone a metà del 1989 avvertì il governo Andreotti tramite il ministro Mannino di cui era buon amico (Mannino addirittura scrisse un articolo sul giornale di Sicilia) che stavano per scadere i termini di carcerazione preventiva per i mafiosi del maxi processo che aveva attivato insieme a Paolo Borsellino. Andreotti a tarda sera varò su proposta di Giuliano Vassalli, ministro di grazia e Giustizia, il famoso decreto con il quale venne raddoppiato il periodo di carcerazione preventiva per gli imputati di associazione mafiosa. A tale decreto si oppose in parlamento con una violenza verbale inusitata visto l’argomento, Luciano Violante a nome dell’allora partito comunista di Achille Occhetto ritenendo che quei mafiosi potevano essere controllati anche fuori dal carcere (sarebbe utile leggere lo stenografico parlamentare per comprendere molte cose). Naturalmente il decreto passò con il solo voto del centrosinistra e i mafiosi rimasero in carcere (se il ricordo non ci tradisce qualcuno era già uscito e fu riarrestato la stessa notte) e così il lavoro di anni di Falcone e Borsellino non fu vanificato. Naturalmente vi sono atti parlamentari che hanno cristallizzato i comportamenti di ciascuno e gettano ancora oggi un ombra lunga sui racconti che si fanno della lotta alla mafia. A guardarci bene molti di quelli che oggi ricordano con commozione enfatica Giovanni Falcone lo hanno criticato e osteggiato negli anni a cavallo tra gli anni ottanta e novanta quando, ad esempio, la sinistra politica e giudiziaria gli impedì di guidare la direzione nazionale antimafia, una sua creatura fortemente sostenuta e decisa dal governo Andreotti nel 1991 quando lo stesso Falcone si era già trasferito da alcuni mesi al ministero della giustizia con Claudio Martelli. Il rapporto tra Falcone ed Andreotti, peraltro, era molto intenso tanto che già nel febbraio 1989 Falcone, accompagnato da Salvo Lima, si recò nello studio di Andreotti in piazza in Lucina per spiegargli il motivo per cui aveva inquisito il pentito Pellegriti che aveva indicato proprio in Lima il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella tentando così di inquinare le indagini. Di questo incontro fummo testimoni oculari e lo testimoniammo in uno dei processi Andreotti a Palermo. È strano che Falcone non sapesse che Andreotti fosse mafioso come poi sostennero Caselli e Violante!! O forse sapeva che non lo era come poi spiegarono i magistrati giudicanti. Ma andiamo avanti nel ricordare qualche altra cosa che molti non dicono o non ricordano (a volte la memoria è così fragile!!!). Quasi tutti gli assassini di Falcone sono usciti dal carcere (alcuni come Calogero Ganci e Mario Santo di Matteo già prima del duemila) grazie ai programmi di protezione il cui lassismo negli anni novanta fu tale che il Parlamento a furor di popolo fece nel 2001 una legge per cui i mafiosi pentiti dovevano almeno scontare un quarto della pena e se condannati all’ergastolo almeno dieci anni. Intanto però moltissimi erano già usciti tanto che nel 2005, sulla scorta di una nostra interrogazione in commissione antimafia, riuscimmo con molta fatica ad avere il numero di quanti erano stati scarcerati sulla base dei programmi di protezione dal 1993 al 2005. Erano circa diecimila tra mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti, un numero da capogiro che nessuno ricorda mai pur avendo negli anni dato a molti i documenti che lo testimoniano. Se oggi ricordiamo queste cose ed altre ancora non lo facciamo per polemiche retrodatate ma solo per amore di verità e per evitare che, come spesso ricordava Leonardo Sciascia, non si faccia dell’antimafia una sorta di professionismo da quattro soldi come pure hanno dimostrato in questi ultimi anni alcune indagini giudiziarie. Ma ricordiamo questi episodi anche perché il ricordo di Falcone non si esaurisca in una ripetitiva liturgia per alcuni finanche ipocrita e si trasformi, invece, in un fulgido esempio di lotta seria per la legalità in cui magistrati inquirenti siano sempre ossessionati, come diceva Falcone, dal valore della prova della colpevolezza ma anche dell’innocenza, come ordina peraltro la legge della Repubblica, senza cedere mai alla tentazione del pregiudizio e meno che meno a quella della notorietà e del protagonismo. Politica e giustizia hanno bisogno di trovare una nuova e più alta alleanza per combattere il malaffare mafioso e di ogni altro tipo e non fanno il bene del paese quelli che un giorno sì ed un altro pure ci spiegano in televisione o sulla stampa quanta sia pessima la politica o quanti falsi facciano gli inquirenti. L’eredità di Falcone è proprio questa, un’alleanza forte e decisa tra politica e giustizia consente di colpire al cuore la criminalità senza lasciare sul terreno morti e feriti di persone innocenti. Falcone questa alleanza la praticò incessantemente ai livelli più alti e fu ucciso come lo fu Borsellino e fu un disastro per il paese i cui effetti devastanti ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Cirino Pomicino svela verità nascoste e la storia sulle stragi di mafia. Un agghiacciante articolo-documento di Cirino Pomicino sulle stragi di mafia. “Violante Enzo Scotti, Arlacchi, su Capaci e via D’Amelio giocano con l’oblio del tempo”. “Non ci sto” di Scalfaro non legato ai fondi neri Sisde ma alla trattativa mafia-stato.  L’accordo fu tra mafia e una parte della politica con servizi italiani e stranieri. Falcone Stava indagando sull’uscita dalla Russia di ingenti somme di denaro del Kgb, scrive Paolo Cirino Pomicino per il “Secolo XIX” il 7 agosto 2009. In queste settimane siamo stati travolti da un effluvio di interviste sulle stragi di via D’Amelio e di Capaci in cui morirono Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, piene di ricordi sbiaditi che non fanno onore alla verità storicamente accertata. Luciano Violante, Enzo Scotti, Pino Arlacchi, Oscar Luigi Scalfaro giocando nell’oblio del tempo hanno detto cose che non stanno né in cielo né in terra. A cominciare dal famoso «Non ci sto» scalfariano legato ieri ai fondi neri dal Sisde e oggi, invece, collegato al rifiuto di una trattativa tra mafia e Stato. La riapertura delle indagini della Procura di Caltanissetta sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ha dato il via a una sarabanda di ricordi falsi, naturalmente in buona fede, che rischiano ancora una volta di allontanare la verità che molti sanno e che per paura non dicono diventando così complici di chi tradì la Repubblica a cavallo degli anni Novanta. Per consentire a ciascuno dei lettori di farsi una propria opinione è bene ricordare i fatti storicamente accertati:

1) sono stati sempre noti i collegamenti negli anni ’89-‘93 tra alcuni gradi dei servizi italiani e stranieri e alcuni mafiosi. Dal rapporto riservato e non autorizzato con Totuccio Contorno del prefetto Domenico Sica e del capo della Criminalpol Gianni Di Gennaro, agli uomini che visitarono nel carcere inglese di Full Sutton il mafioso Francesco Di Carlo per chiedergli indicazioni sui possibili killer per uccidere Giovanni Falcone sino al rapporto con Vito Ciancimino del generale de i carabinieri Mario Mori. Mentre nel primo e nel terzo caso i rapporti possono inquadrarsi in un lavoro di intelligence per colpire la mafia, nel secondo caso, quello del pentito Di Carlo, gli obiettivi erano di natura mafiosa;

2) nel settembre del 1989 il decreto legge Andreotti-Vassalli allunga il periodo di carcerazione preventiva agli imputati di associazione mafiosa. Il vecchio Pci con Violante fa una tremenda requisitoria contro il governo e vota contro;

3) alla fine dell’estate del ‘90, secondo gli accertamenti del pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, c’è un contatto tra alcuni capi mafiosi (Totò Riina o Bernardo Provenzano) e un non meglio identificato agente istituzionale per discutere della reazione stragista alla legislazione antimafia dell’epoca;

4) nello stesso anno, Francesco Di Carlo riceve nel carcere inglese di Full Sutton un agente dei servizi siriani, tal Nazzar Hindaw, insieme a quattro persone, tre mediorientali e un italiano. Questi gli chiesero di indicare qualcuno che poteva aiutarli a uccidere Giovanni Falcone. Di Carlo fece il nome di Antonino Gioè, che infatti partecipò alla strage di Capaci, fu arrestato e un mese dopo fu trovato impiccato nel carcere di Rebibbia;

5) il 23 dicembre ‘91 viaggiano casualmente sullo stesso volo Roma-Palermo Luciano Violante e Giovanni Brusca, già all’epoca noto mafioso;

6) tre mesi dopo il piemontese Luciano Violante fu capolista a Palermo del vecchio Pci nelle elezioni politiche del 1992 e in quella occasione nasce il movimento della Rete di Leoluca Orlando, che prende in Sicilia il 9% salvo a sparire qualche tempo dopo;

7) il 5 marzo 1992 c’è l’omicidio di Salvo Lima;

8) il 17 marzo 1992 Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno, allerta le prefetture di tutta Italia preannunciando un piano di destabilizzazione istituzionale. Questo piano prevedeva attacchi mafiosi e indagini giudiziarie su tutti i leader dei partiti di governo. Quarantotto ore dopo Scotti si rimangia tutto davanti alle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato;

9) il 23 maggio 1992 Falcone e la sua scorta saltano in aria;

10) ai primi di luglio ‘92, uno scritto anonimo inviato a tutte le autorità descriveva tutto ciò che poi sarebbe accaduto nei mesi successivi sugli attacchi mafiosi, sulle indagini di Tangentopoli e sull’impunità dei mafiosi pentiti;

11) il 19 luglio ’92 Borsellino e la sua scorta saltano in aria in via D’Amelio;

12) nel settembre ‘92 a casa Scotti, non più ministro, il capo della polizia Vincenzo Parisi e il capo di stato maggiore dell’arma dei carabinieri, generale Domenico Pisani, confermarono al neoeletto segretario della Dc Mino Martinazzoli la veridicità dell’informativa del marzo precedente per la quale lo stesso Scotti prima aveva allertato le prefetture e poi ne aveva smentito il valore;

13) nel gennaio del ‘93 viene arrestato Totò Riina;

14) nella primavera del ‘93 arrivano le bombe mafiose di Milano, Firenze e Roma e subito dopo i programmi di protezione incominceranno a scarcerare mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti (oltre 3 mila nei dieci anni successivi) così come aveva previsto il documento anonimo del luglio ‘92.

Ultimo dato da ricordare. Pochi giorni dopo la sua morte, Giovanni Falcone doveva incontrare, come è documentato da un telex alla Farnesina, Valentin Stepankov, procuratore generale di Mosca che indagava sull’uscita dalla Russia di ingenti somme di denaro nella disponibilità del Kgb, molti agenti del quale gironzolavano indisturbati per mezza Europa.

Questi alcuni fatti. Adesso un’opinione, una considerazione e un consiglio. 

L’opinione. La tenaglia fra stragi mafiose (Falcone, Borsellino) e inchieste giudiziarie sui finanziamenti ai partiti di governo ha scansioni temporali e obiettivi troppo simili per non immaginare un “oggettivo” coordinamento tra di loro che produsse effetti devastanti sul sistema politico italiano. L’accordo, infatti, non fu tra mafia e Stato, ma tra mafia e una parte della politica con l’aiuto di uomini deviati dei servizi italiani e stranieri e delle forze dell’ordine come si leggeva sul documento anonimo del luglio 1992 che Violante imputò ai carabinieri (se fosse vero, ancora una volta l’Arma avrebbe tentato di aiutare la Repubblica).

La considerazione. È molto strano che solo dopo 17 anni Violante dichiari che Ciancimino voleva parlare con lui come gli avrebbe detto il generale Mori. È vero il contrario. Fu Violante a chiedere a Mori di voler sentire alcuni mafiosi tra cui Ciancimino, come dimostrano i verbali del 29ottobre 1992, nell’ambito dell’indagine mafia-politica. Violante era presidente dell’Antimafia e capogruppo Dc in quella Commissione era Vincenzo Scotti.

Il consiglio. Le forze politiche abbiano un sussulto di orgoglio e varino una Commissione parlamentare di inchiesta su quegli anni in cui la Repubblica fu tradita e certi servitori dello Stato, come Falcone e Borsellino, pagarono con la vita la lealtà verso la nostra democrazia. E si faccia presto perché annusiamo sotto vento che è in preparazione un altro furibondo attacco alle istituzioni che presiedono alla legalità repubblicana con complicità attive e omissive impensabili e di cui presto torneremo a parlare.

Il Travaglio di Marco che offende Falcone, scrive Roberto Puglisi Giovedì 11 Novembre 2010 su "Live Sicilia". Scrive Marco Travaglio su "Il Fatto": Non c’era bisogno di scomodare lui per dire che Falcone era un uomo giusto e per questo fu vilipeso in vita e beatificato post mortem: tutte cose ampiamente risapute. Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati: cioè di quei personaggi (magistrati, ma non solo) che oggi rappresentano una pietra d’inciampo per il regime e proprio per questo, come Falcone, vengono boicottati, screditati e infangati appena osano sfiorare certi santuari". E' appena una delle frecce avvelenate lanciate oggi da Marco Travaglio a Roberto Saviano. Ed è la più importante, quella che reca le tracce di un ragionamento da sabotatori. Premessa logica e necessaria: lo scibile dei possibili interventi civili è vasto, perché vastissime sono le fratture nella storia o nella cronaca italiana. Scegliere un argomento non comporta dunque lo scatto automatico dell'accusa di omissione nei confronti di tutto il resto. Ci pare che l'operazione culturale di Roberto Saviano sia stata tutt'altro che semplice. Di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si parla, di solito, con altri accenti. Sono ormai figure coperte dal sudario della retorica di Stato, fondi di magazzino. Non c'è quasi mai - nel frastuono della gioiosa marcia funebre anniversaria - una riflessione lucida sui loro tempi. Abbiamo gli eroi. Non abbiamo più gli uomini. Saviano questa riflessione l'ha compiuta. Ci ha mostrato un contesto di diffidenza e di antipatia nei confronti di Falcone. Noi lo sapevamo, qualcun altro avrà fatto un balzo sulla sedia. Cose risapute da chi? Dai generosi e rumorosi ragazzi deportati alle manifestazioni in via D'Amelio e a Capaci? Dalle ignare maestre che li accompagnano e che sono l'involontario mastice di una scrittura distorta dei fatti gradita ai cantori ufficiali? E anche se fosse, ripeterle, secondo noi, avrà giovato a molti. Lo scrittore di Gomorra ha affondato il bisturi nell'ipocrisia e ne ha tratto una lezione attualissima sui rapporti tra politica, consenso e magistratura. "Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati", si legge. Come se il recupero della verità valesse di più per i vivi e non fosse una luce preziosa ovunque. Come se i morti "santificati" (da chissà quale Papa) dovessero subire il silenzio che - fatalmente - scolorisce contorni e contenuti. Sono morti, sono meno importanti nella gerarchia dell'attualità antiberlusconiana. Amici adepti del Travaglismo, non è un'offesa? Per noi, invece, i morti sono cari e utili per la comprensione del paesaggio che ci regalano, anche se non ci sono più. E certi morti, come Giovanni Falcone, hanno ancora un respiro più forte di taluni vivi...Ma poi cosa si vuole? Dopo tanta melassa si intende forse negare al giudice Falcone un racconto finalmente schietto e popolare, una trama finalmente leale e "da prima serata" dei suoi anni, delle sue difficoltà e delle sue amarezze? E' un'operazione che somiglia davvero all'ultima offesa a un magistrato che di stimmate ne subì fin troppe questo sottrargli, per interposta e stucchevole polemica, l'esatta misura. E' come volere condannare Falcone all'assenza perpetua di memoria, inserendolo nel listone degli argomenti "già trattati" che nulla possono dirci. O eroe di plastica, o cenere. O cartone animato del giustizialismo o l'oblio. Scrive ancora l'inquieto giornalista: "Il fatto che Falcone   sia un martire cristallino della lotta alla mafia non significa che non abbia mai sbagliato in vita sua. Il suo primo progetto di Superprocura (assoggettata al governo) disegnato con Martelli suscitò la rivolta di centinaia di magistrati, Borsellino compreso". Abbastanza vero. Tuttavia, questo tagliente giudizio postumo rende più solida una nostra vecchia idea: la vita e le opere di Giovanni Falcone e le battaglie di Marco Travaglio non staranno mai dalla stessa parte.

Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi. Uno dei principali motori dell'ostilità contro il magistrato, che nella vita collezionò tante sconfitte, fu l'invidia. Contro di lui giochi di potere e strumentalizzazioni, scrive Roberto Saviano il 23 maggio 2017 su "La Repubblica". «Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide. A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette». Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato, disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone, perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita. Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole, alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone, che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita. Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che sono un morto che cammina». Falcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro. Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare. Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio, un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come la mafia. Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.

Giovanni Bianconi. L'assedio Troppi nemici per Giovanni Falcone. 2017. «Per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese?» Giovanni Falcone. Tragico e coinvolgente, L'assedio ci riporta a uno dei periodi piú bui della nostra Repubblica, eppure, nonostante tutto, non è la cronaca di una sconfitta: racconta la straordinaria avventura dell'uomo che, con la sua azione, ha segnato il declino di Cosa nostra. A venticinque anni dall'attentato di Capaci, Giovanni Bianconi ricostruisce, attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti, l'ultimo periodo della vita di Giovanni Falcone. Un'indagine nella Storia, che rivela la condizione di accerchiamento in cui si è trovato il giudice palermitano, stretto tra mafiosi, avversari interni al mondo della magistratura e una classe politica nel migliore dei casi irresponsabile. E individua coloro che, nascosti dietro il paravento del «rispetto delle regole», lo contrastarono, tentarono di delegittimarlo e lo isolarono fino a trasformarlo nel bersaglio perfetto per i corleonesi di Totò Riina. «Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio - prolungato nel tempo, proveniente da più parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme - diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone - certamente il più capace magistrato italiano - fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all'interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il più bravo e il più preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l'associazione criminale».

E il cerchio si strinse su Falcone. Nel saggio «L’assedio» (Einaudi), Giovanni Bianconi ricostruisce i giorni della strage di Capaci e denuncia le manovre che isolarono il magistrato ucciso dalla mafia, scrive Aldo Cazzullo il 24 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «Sui giornali del 30 gennaio 1992 i titoli più vistosi annunciano che i presidenti degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica, George Bush e Boris Eltsin, hanno concordato un disarmo bilaterale che dovrebbe portare al taglio di circa 2.500 testate nucleari. In Algeria c’è grande preoccupazione per gli attacchi militari sferrati dalle fazioni integraliste islamiche; in Somalia la guerra civile ha già provocato decine di migliaia di morti e folle di profughi ancora più numerose. In Italia i partiti affilano le armi. Andreotti lascia Palazzo Chigi con l’idea di trasferirsi al Quirinale dove Cossiga sta per chiudere il suo settennato…». Uno aspetta i libri di Giovanni Bianconi anche per ricordarsi chi era, e cos’era il nostro Paese. Ad esempio il suo bellissimo racconto del caso Moro, Eseguendo la sentenza (Einaudi), comincia con la sera prima del rapimento, quando la Juventus supera i quarti di Coppa dei Campioni superando l’Ajax ai rigori. Altri libri hanno ricostruito tasselli mancanti al complesso e doloroso mosaico della storia italiana del dopoguerra: A mano armata sulla storia dei Nar e di Giusva Fioravanti; Ragazzi di malavita sulla banda della Magliana; L’attentatuni, scritto con Gaetano Savatteri, sulla strage di Capaci. Libri che hanno ispirato romanzi, film, serie tv, che sono entrati a far parte della cultura materiale italiana, senza che l’autore ambisse a salire sul palcoscenico, badando a conservare sempre il rigore e la precisione ben noti al lettore del «Corriere», e anche quel sorriso ironico appena accennato familiare a chi lavora con lui. Ora, con la stessa tecnica già applicata all’assassinio di Moro, Bianconi ricostruisce, sempre per Einaudi, il caso Falcone: L’assedio, da ieri in libreria. Una scrittura incalzante, tutta fatti, che racconta quasi giorno per giorno i mesi in cui si gioca la vita del magistrato simbolo della lotta alla mafia. Quel 30 gennaio 1992 Giovanni Falcone è attratto in particolare da un articolo pubblicato a pagina 7 del «Corriere della Sera». È un reportage di Corrado Stajano da Palermo, «l’unica città al mondo dove sono stati assassinati tutti gli uomini dello Stato». Su quei «delitti eccellenti» Falcone ha indagato a lungo. Ha raccolto il testimone da alcuni di loro: Rocco Chinnici, Ninni Cassarà. Quel giorno da Palermo arrivano nuovi segnali di guerra: quattro o cinque persone sono sparite, segno che la pax mafiosa è finita. Falcone ormai è basato a Roma. Collabora con il ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli. Quel giorno, dopo una settimana di camera di consiglio, i giudici della Corte suprema di Cassazione dovrebbero emettere la sentenza che conferma o distrugge il maxiprocesso. «Per Falcone stanno per concludersi dieci anni di lavoro e di vita». Nelle stesse ore, Andreotti scandisce a Montecitorio il discorso di fine mandato per il suo governo e la legislatura. Un’epoca si chiude. La Camera ha appena fatto in tempo ad approvare la legge che istituisce la Procura nazionale antimafia, la «Superprocura» che Falcone ha immaginato e finalmente realizzato, per la cui guida è ora il candidato naturale. Da qui parte il racconto di Bianconi. Il verdetto della Cassazione sarà una vittoria per Falcone, che chiama subito due alleati, Piero Vigna e Paolo Borsellino. Poi brinda con un gruppo di amici: Pietro Grasso, Giannicola Sinisi, Livia Pomodoro, Liliana Ferraro. E li avverte: «Il difficile viene adesso. Perché ci sarà una reazione». Il giorno dopo, in Sicilia, Totò Riina incontra Mariano Agate, capo del mandamento di Mazara del Vallo, a casa di un altro mafioso, Mimmo Biondino. Nasce così la trama che porterà all’assassinio di Falcone, poi a quello di Borsellino, quindi alla stagione del terrore mafioso, delle bombe di Roma, di Firenze, di Milano. Nello stesso tempo, altri uomini tessono un’altra trama, per impedire a Falcone di diventare superprocuratore antimafia. Qualcosa del genere era già accaduta quattro anni prima: Antonino Caponnetto aveva lasciato Palermo dopo aver ricevuto assicurazione che il suo erede sarebbe stato Falcone; ma il Csm si era spaccato e aveva deciso infine di premiare Antonino Meli, «quasi del tutto a digiuno di processi di mafia, ma entrato in magistratura sedici anni prima di Falcone» annota Bianconi. Che riferisce il commento di Falcone: «Mi avete crocefisso. Perché mi avete inchiodato come bersaglio. Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché hanno avuto la dimostrazione che non mi vogliono neanche i miei, cioè i magistrati». Subito dopo, quando il governo deve indicare il nuovo alto commissario antimafia, non sceglie Falcone ma Domenico Sica, che l’autore definisce «pubblico ministero romano noto per le sue inchieste sul terrorismo e le trame più disparate, tra P2 e servizi segreti “deviati”, tenute aperte — all’apparenza — più per condizionare qualche potere che per arrivare a risultati concreti». Poi viene la bomba contro Falcone nella villa affittata all’Addaura, che non scoppia, ma scatena feroci ironie. Intervistato in tv da Corrado Augias, lui ammonisce: «Abbiamo tanti segnali che ci fanno temere che possano accadere delle cose spiacevoli nel prossimo futuro. Di più non posso dire». All’anagrafe di Palermo, la data di nascita di Giovanni Falcone fu registrata il 20 maggio 1939. Ma in famiglia s’è sempre saputo che era venuto al mondo due giorni prima. Ed è il 18 maggio 1992, un lunedì, a Palermo, prima di partire per Roma, che Falcone brinda con Borsellino. «Caro Giovanni, mi hai fregato. Tu sei riuscito a superare i 52 anni. Complimenti, ti invidio molto. Io non so se ci riuscirò» gli dice l’amico. Le ultime pagine del libro, quelle in cui tutto precipita, non si possono sintetizzare. Si possono, si devono leggere, rabbrividendo, piangendo, riflettendo su quanto possa essere generoso e crudele, eroico e vigliacco questo nostro Paese.

“Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le cose non dette e quelle non fatte” una ricostruzione analitica degli eventi partendo dalla personalità di Falcone e Borsellino, scrive Paolo Campanelli su “Il Corriere del Giorno" il 24 maggio 2017. Sarzana non risparmia alcun passaggio esaminando interrogativi e nodi insoluti, dalle critiche e dagli ostracismi subiti da Falcone e Borsellino all’interno e nelle adiacenze della magistratura e della politica, alle lettere anonime, agli ostacoli frapposti dalla politica per impedire che Falcone desse spinta propulsiva alla Procura Nazionale Antimafia. Ore 17,58 del 23.5.2017, la Camera dei Deputati si è fermata in un minuto di raccoglimento in perfetta sincronia con il 25° Anniversario della Strage di Capaci, nella gremitissima Sala della Regina, per la presentazione del libro “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le cose non dette e quelle non fatte” di Carlo Sarzana di Sant’Ippolito edito da Castelvecchi. Dopo il saluto introduttivo del questore della Camera, Stefano Dambruoso vi sono stati interventi di Donatella Ferranti, presidente commissione giustizia, Renato Balduzzi, membro del Consiglio Superiore della Magistratura, Giuseppe Di Gennaro, primo presidente onorario corte cassazione, già procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Palermo, Carlo Palermo, magistrato, Umberto Rapetto, ex-generale della Guardia di Finanza, Luca Tescaroli, sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Roma. L’Autore, ex Presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione, ha condiviso con Falcone, oltre ad una lontana parentela, numerose esperienze professionali. Il libro si colloca molto lontano dalla apologia delle vittime illustri, e non deve essere scambiato per un ennesimo tassello della melassa celebrativa in stile televisivo; al contrario, tende coraggiosamente verso una ricostruzione analitica degli eventi partendo dalla personalità di Falcone e Borsellino, nel contesto della politica giudiziaria di quel periodo, fino ai tragici eventi: “Bisogna avere il coraggio di riscrivere la storia, al di là dei capi di imputazione, che danno una immagine parziale di un quadro che oggi ci dovrebbe essere chiaro” sostiene l’autore. Sarzana non risparmia alcun passaggio esaminando interrogativi e nodi insoluti, dalle critiche e dagli ostracismi subiti da Falcone e Borsellino all’interno e nelle adiacenze della magistratura e della politica alla malevolenza nei confronti di personaggi troppo esposti, alle mancate investigazioni sulla cancellazione delle memorie elettroniche e sulla manipolazione dei documenti informatici, alle lettere anonime, agli ostacoli frapposti dalla politica per impedire che Falcone desse spinta propulsiva alla Procura Nazionale Antimafia. Questa analisi, come precisa l’autore ha la funzione di consegnare alle future generazioni gli interrogativi irrisolti perché non sia dimenticato quel 23 maggio 1992, quando alle ore 17.58, in corrispondenza dello svincolo autostradale di Capaci, esplosero 500 kg di tritolo che provocarono uno degli eventi più sconvolgenti della storia del nostro Paese, perché, come conclude Sarzana, “il futuro è dei giovani, che hanno bisogno di chiarezza”.

Ecco l’articolo su Repubblica di Sandro Viola che a gennaio 1992 si scagliò contro Falcone accusandolo di essere un “guitto televisivo”, scrive “Il Corriere del Giorno" il 23 maggio 2017. Giuseppe D’Avanzo invece qualche giorno dopo sullo stesso giornale prese le difese del giudice antimafia: “Non ha mai avuto una vita facile”.

Giovedì 9 gennaio del 1992: in quel periodo il quotidiano la Repubblica fondato e diretto da Eugenio Scalfari vendeva circa 750mila copie di media al giorno, quando all’interno della pagina dei commenti apparve un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” firmato da Sandro Viola, giornalista di origine tarantina, per lungo tempo una delle “firme” di punta del quotidiano romano. Oggetto del commento a dir poco velenoso scritto da Viola era proprio il giudice antimafia. La ragione? La sua esposizione mediatica. Delle parole durissime, violente, offensive che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritornano alla memoria di chi non può e non deve mai dimenticare. Un articolo, introvabile scomparso dall’archivio online di Repubblica, che in queste ore è oggetto di discussione sulla Rete. Ma sinora nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore dei nostri giorni di poter farsi un’idea. Sandro Viola definiva Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione se ci è consentito dirlo ci sembra molto ingiusta nei confronti di chi ha sacrificato un’intera vita, la sua famiglia pur di fa celebrare il famoso maxi-processo a “Cosa nostra” a Palermo, per colui che, come ancora oggi testimoniano i suoi colleghi magistrati, applicò nuove tecniche d’indagine e nuovi metodi di lavoro per affrontare una guerra legale-giudiziaria alla società mafiosa.  Viola non sapeva quello che scriveva: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato” e non glielo perdoneremo mai. Non contento Viola accusava Falcone di essere diventato una specie di “esternatore”, addirittura paragonandolo all’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, scrivendo su Repubblica: “Egli è stato preso infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”. Secondo il giornalista tarantino, Giovanni Falcone aveva perso il suo equilibrio, ed addirittura sosteneva che avrebbe dovuto lasciare la magistratura per le sue rubriche che apparivano sulle pagine dei giornali. Secondo Viola: “in nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. Il delirio “giornalistico” di Viola così proseguiva “Quel che temo, tuttavia è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Dopodichè non contento, il giornalista si concentrò alla demolizione, del libro-intervista a Falcone  ‘Cose di cosa nostra’ scritto dalla giornalista francese Marcelle Padovani che finì anche lei nel veleno di Viola che scrisse : “Scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi“. Viola, pur non potendo negare che Giovane Falcone era un “valoroso magistrato” si chiedeva “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista non riusciva a capire la lungimiranza della “missione” di Falcone che aveva intuito da magistrato l’importanza, la necessità di spiegare ad una platea molto più ampia i danni collaterali ad una mentalità mafiosa. Trasmettere questo messaggio ai giovani come un “credo”, una “fede” per proteggere le nuove generazioni siciliane dal fascino di un potere basato sulla cultura dell’omertà e della morte.

Ma qualche giorno dopo, un vero “giornalista di razza” come Giuseppe D’Avanzo probabilmente il migliore cronista giudiziario e di inchieste che la stampa italiana abbia mai avuto, riferendosi a Giovanni Falcone, scrisse sulle pagine dello stesso quotidiano ben altro: “Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”. Viola invece non merita alcun commento, anche perchè lui per il nostro Paese non ha sacrificato la sua vita.

Quel giudice che cercava le prove sotto un costante "fuoco amico", scrive Riccardo Arena su "Live Sicilia" del 23 maggio 2017. «Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto, senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza, significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità». Nella tutt’altro che sterminata pubblicistica che porta la firma di Giovanni Falcone, questo passaggio di Cose di Cosa nostra (pagina 155 dell’undicesima edizione Bur del 2010) è sempre, sistematicamente sfuggito a tanti magistrati, soprattutto a quelli che, specie dopo la sua morte, hanno amato, con vezzo ingiustificatamente amicale, chiamare il giudice ucciso a Capaci semplicemente «Giovanni». Il povero «Giovanni» è stato così trasformato, suo malgrado, assieme all’altro incolpevole «Paolo», cioè Borsellino, assassinato in via D’Amelio, in un fiume di parole e di retorica (altrui) e di pubblicistica (altrui), che ha fatto fortuna sui loro nomi, nell’arco di 25 anni, per fini di carriera, potere, denaro. E oggi, a parte il diluvio della retorica, di quella lezione, del cosiddetto metodo Falcone, rimane poco. Falcone applicò alla lettera, pagandolo a carissimo prezzo, ciò che pubblicò, la prima volta nel 1991, nel libro scritto con Marcelle Padovani, in quella poco famosa e spesso saltata a pie’ pari pagina 155, forse riferita anche alla vicenda che nel 1989 prima gli era costata il fuoco amico (si fa per dire)di Leoluca Orlando, di Alfredo Galasso e dell’antimafia dura e pura dell’epoca: le pseudoconfessioni del falso pentito Giuseppe Pellegriti su Salvo Lima mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Con coraggio e determinazione, andando controcorrente, in un momento in cui la piazza invocava la testa dell’eurodeputato dc, pur beccandosi insulti di ogni genere («venduto» fu il più gentile), il giudice spiccò immediatamente un mandato di cattura contro Pellegriti. E i suoi eredi cosa hanno saputo fare? Le castronerie di Massimo Ciancimino, ad esempio, non sono state mai realmente arginate: è vero che anche il figlio di don Vito è finito in carcere per calunnia, dopo avere realizzato un falso patente quanto marchiano, ma il processo sulla Trattativa Stato-mafia è nato e si regge in gran parte sulle sue dichiarazioni strampalate. «Massimuccio», pubblicamente e discutibilmente abbracciato, in via D’Amelio, dal fratello del povero Borsellino, Salvatore, ha dipinto il padre, l’ex sindaco mafioso del sacco edilizio di Palermo, Vito Ciancimino, quasi come un «amico» - pure lui! - di Falcone. L’altro esempio evidente di queste distorsioni è Vincenzo Scarantino, il falso pentito che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per la strage di via D’Amelio e poi scarcerate dopo quasi vent’anni di carcere duro con tante scuse. Lui merita un capitolo a parte: per adesso basta ricordare che se Falcone impiegò un paio di giorni a sbugiardare Pellegriti, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato 18 anni, per cominciare, rimettendo in libertà i condannati, e ventitré per smascherare con una sentenza un picciotto di borgata come Scarantino, che peraltro più volte aveva ammesso di avere mentito. Far parlare Falcone, oggi, sarebbe scorretto. E allora meglio dare la parola ai numeri: se il maxiprocesso venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986-30 gennaio 1992), il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse, portando fin quasi ai giorni nostri, ad esempio, la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri. Certo, qualcuno dice che condannare la mafia militare è più semplice di ingabbiare i cosiddetti colletti bianchi: ma ditelo a Falcone e Borsellino, che era facile, tra il 1985 e il 1986, portare alla sbarra 475 persone a Palermo, con corti d’assise formate da giudici togati e popolari siciliani e, dopo tre processi, ottenere 12 ergastoli e 258 condanne, per 1576 anni complessivi di carcere. Il processo Andreotti (un solo imputato, assolto e in parte salvato dalla prescrizione) è durato più di nove anni, Contrada (condannato a dieci anni, con bacchettata postuma nel 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo alla giustizia italiana) dal 1994 al 2007, Carnevale (assolto) nove anni, Mannino (assolto) 13 anni, Dell’Utri (record) 17 per sette anni di carcere. La tecnica dei processi infiniti fa sì che Dell’Utri e Mannino di professione facciano gli imputati: l’ex manager Fininvest, pur essendo stato definitivamente scagionato per i fatti avvenuti dal 1992 in poi (la politica, la nascita di Forza Italia, la discesa in campo di Berlusconi, secondo la Cassazione non furono condizionati da Cosa nostra), e l’ex ministro, assolto dall’accusa di concorso esterno, sono oggi di nuovo sotto processo per la trattativa, assieme all’ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde Mario Mori, pure lui da oltre vent’anni sotto processo e finora sempre assolto. Processo che non sfugge alla regola dell’infinito applicato alla giustizia ed è ben lungi dalla conclusione del primo grado di giudizio. L’unico personaggio «eccellente» condannato a Palermo in tempi celeri, e per fatti successivi al 1992, è l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che ha già scontato la pena: i suoi inquisitori si chiamavano Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Maurizio De Lucia. Hanno fatto tutti carriera, più o meno velocemente. Ma lontano da Palermo, città che come poche riesce a riconoscere da lontano e a cannibalizzare i magistrati che sanno il fatto loro. Giovanni Falcone, che costruì e vinse il «maxi», non fece carriera nella magistratura: molti suoi colleghi lo vedevano come il fumo negli occhi, gli mettevano i bastoni fra le ruote. L’incarico più prestigioso, giunto oltre la soglia dei cinquant’anni, fu quello di procuratore aggiunto della Repubblica: strada sbarrata per il posto di consigliere istruttore, trombato alle elezioni al Csm, fino all’approdo al ministero della Giustizia, grazie al lungimirante Claudio Martelli e tra gli insulti del solito fuoco amico. Antonio Ingroia, che, avendo affrontato due soli processi degni di nota - Contrada e Dell’Utri, entrambi vinti - ha una percentuale del 100 per cento di successi, ha poi messo su il processo sulla trattativa e immediatamente dopo ha lasciato, per tentare la scalata alle stanze che contano, fondando un movimento politico e candidandosi premier. La sua parabola, conclusa come boiardo in una società regionale, in cui è riuscito persino a farsi indagare dai suoi stessi ex colleghi, dimostra che la magistratura non possiede gli anticorpi neppure per frenare una più che resistibile ascesa come questa. Così il «lavoro sporco», il processo, il cui successo - nella vicenda trattativa - per l’accusa è tutt’altro che certo, lo fanno gli altri suoi ex colleghi, a cominciare da Nino Di Matteo, magistrato costretto a vivere scortato come un capo di Stato, molto più protetto di Falcone, per via di minacce e piani di morte via via raccontati dai pentiti, ma ormai isolato all’interno del suo stesso gruppo inquirente, molto più disincantato sulla trattativa, e protagonista di frequenti attriti con il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. Questo è il Paese delle verità celate, occultate, negate: da piazza Fontana al sequestro Moro fino a Capaci e via D’Amelio, alle stragi di Roma, Firenze e Milano. È un Paese che cerca, ma non trova, giustizia. Dopo le stragi di mafia, ad esempio, la ricerca dei mandanti occulti non si è mai fermata: cinque procuratori della Repubblica di Caltanissetta, quattro di Palermo e altrettanti capi della Direzione nazionale antimafia, compreso l’attuale presidente del Senato, Piero Grasso, hanno sempre sostenuto di voler andare oltre le responsabilità degli esecutori materiali, puntando a individuare i mandanti esterni. Venticinque anni dopo non sono stati ancora trovati, eppure non si può certo dire che non siano stati cercati, anche indirettamente: l’emblema è l’inchiesta dell’allora pm Roberto Scarpinato chiamata «Sistemi criminali», smisurato contenitore che, dopo costosissime e poco proficue indagini tra mafia, Gladio, politica, massoneria e Servizi (ovviamente deviati), ha portato ad una solenne e monumentale archiviazione. E anche a Caltanissetta, Vincenzo Scarantino ha potuto raccontare quel che ha voluto, nel processo per la strage di via D’Amelio. Disonesto, forse, o forse convinto a suon di botte: mille volte ha ritrattato e non è stato creduto; andava bene solo quando accusava. Per sconfessarlo si è dovuto attendere nel 2008 un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza: Scarantino è stato così fatto passare come vittima di non meglio precisati poteri forti, che lo avrebbero costretto a mentire. Ma chi lo costrinse? Archiviate le indagini sugli agenti «torturatori», è rimasto un unico presunto «puparo», il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, che offre un vantaggio enorme ai propri detrattori: è morto. Nessun sospetto invece sui circa 40 magistrati che, nei tre gradi di giudizio, non si accorsero che Scarantino era un balzano mentitore, e nemmeno dei più furbi. Fra di loro c’era anche il giovanissimo Di Matteo e la più navigata Anna Palma, di recente divenuta avvocato generale, cioè vice del Procuratore generale di Palermo, Scarpinato. Falcone, tacciato di essere a turno comunista, democristiano, socialista, fu accusato di mille cose (il Corvo delle lettere anonime cercò di «mascariarlo» per gli omicidi attribuiti al pentito Totuccio Contorno, Orlando disse che teneva le prove nei cassetti sulle collusioni tra mafia e politici) ma, al di là dei veleni, contro di lui non ci fu mai nulla di nulla. Non altrettanto limpida può dirsi l’antimafia delle deviazioni e delle scorciatoie di oggi, quella che ha gestito i beni confiscati: amava definirsi vicina a «Paolo», Silvana Saguto, la ex presidente della sezione misure di prevenzione, accusata di avere approfittato del ruolo e della posizione di simbolo dell’antimafia per depredare i patrimoni mafiosi. Casi estremi ma per niente marginali, dato che sono coinvolti altri quattro giudici: le tentazioni di sfruttare la facciata antimafia sono forti e si è passati dalla Palermo espugnata come la Sagunto del cardinale Pappalardo alla Palermo della Saguto. Città bizantina e spagnola, il capoluogo siciliano, in cui le famiglie delle vittime della strage di Capaci sono... capaci di litigare fra di loro proprio alla vigilia del venticinquennale. Maria Falcone, titolare unica del copyright della memoria e dell’immagine di Giovanni, ha accettato che i resti del fratello venissero accolti dal Pantheon dei palermitani, il tempio di San Domenico; Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Falcone, morta con lui, non ha accettato la separazione delle salme e ha ritirato il cognome dalla Fondazione Falcone. È proprio vero che pure da morto, per Falcone il peggior nemico è il fuoco amico, ovviamente amico.

In memoria di Giovanni Falcone e degli immemori. Un certo modo di cercare la verità sulle stragi di Capaci e via D'Amelio offende gli stessi Falcone e Borsellino, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" il 23 Maggio 2016. Le ipotesi storico-critiche sono legittime. Anzi. Solo che sono cosa diversa dalle imputazioni. Passare direttamente dalle une alle altre è pretenzioso e, soprattutto, inutile. I fatti sono noti, ma è sempre bene ricordarli. Proprio oggi che è un giorno di memoria e di memorie. E, forse, anche di immemori. A corrente alternata, ma con sostanziale continuità, a cominciare dall’inchiesta “Sistemi criminali”, aperta da Giancarlo Caselli a ridosso del suo insediamento quale Procuratore della Repubblica di Palermo, negli ultimi venti e più anni un’ipotesi ha aleggiato, e forse tutt’ora aleggia, sulla strage di Capaci e su quella di Via D’Amelio: che non siano state solo crimini di Mafia, e che su di esse si siano spese losche quanto altolocate convergenze. Da allora si cerca una sentenza che queste ipotesi avvalori. E, da allora, la ricerca risulta vana. In questa ricerca si sono spesi a turno, e quasi ossessivamente, alcuni gruppi editoriali. Nuovi e meno nuovi. Con varie propaggini e coordinazioni anche in ambito televisivo.  Ora, non è che le ipotesi storico-critiche non siano legittime. Anzi. Solo che sono cosa diversa dalle imputazioni. Passare direttamente dalle une alle altre è pretenzioso e, soprattutto, inutile. Sicchè, a proposito dell’odierno anniversario della strage di Capaci, si possono fare delle considerazioni. Solo per ricordare alcuni “corsi e ricorsi storici”, e per nutrire così, come si diceva un tempo, lo spirito critico. Leoluca Orlando, Sindaco di Palermo. Nel corso di una “storica” diretta televisiva, accusò Falcone di insabbiare le indagini sui delitti Mattarella, La Torre e altri, vale a dire sui c.d. delitti politico-mafiosi. La diretta era di Santoro. L’incauta invettiva si alimentava del rancore suscitato in quegli ambiti dall’incriminazione per calunnia mossa da Falcone a carico di un collaboratore che aveva accusato Lima di essere mafioso. Anziché prendere atto delle decisione dell’autorità giudiziaria (cioè di Falcone) si preferì l’insinuazione. Le cose peggiorarono quando Egli decise, accettando la proposta del socialista Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, di assumere il ruolo di Direttore generale degli Affari Penali. Nel Gennaio del 1992, quattro mesi prima di essere ucciso, La Repubblica lo accusò, con un articolo dal titolo “Falcone, che peccato” a firma di Sandro Viola, non proprio l’usciere di Piazza Indipendenza, di “febbre da presenzialismo”; di essere perciò dominato “dal più indecente dei vizi nazionali” (cioè il presenzialismo); aggiungendo irridente che, al punto in cui era giunto spinto da questo terribile vizio, forse Falcone “non potrebbe placarsi con un paio di interviste l’anno”; e che, anche dalle pagine del suo “Cose di Cosa Nostra”, si avvertiva “l’eruzione di una vanità…come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis e dei guitti televisivi”; concludendo indignata (attributo della Casa) che “nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. Così Repubblica. Questa è un’opinione, per carità. Magari “un filino” infelice, ma è un’opinione. Ma non solo il Gruppo-Espresso-Repubblica.

Il 12 marzo 1992, l’Unità pubblica un editoriale a quattro colonne “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perchè”. Firma Alessandro Pizzorusso, che scrive: “Il principale collaboratore del ministro non dà più garanzie di indipendenza…se nella vicenda attuale le sue qualità professionali non dovessero essere premiate come meritano, ciò non sarebbe dovuto solo alla malvagità del fato o a subdole iniziative dei suoi avversari”. Pizzorusso non era un semplice magistrato, in quel periodo, ma il membro laico, eletto dal Pci, del Consiglio Superiore della Magistratura. L’articolo non era isolato: ma esprimeva un’azione corale e convinta, diciamo così. Lo scopo era isolare, non solo politicamente, Falcone, ed impedirgli di essere designato come c.d. Superprocuratore.

Corrado Augias, a Falcone in studio disse: “Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…”.

Il 2 dicembre 1991 l’intera magistratura aveva scioperato: “contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura”, scrisse Liana Milella. Giacomo Conte, che assunse funzioni anche di Giudice Istruttore nello stesso Ufficio di Falcone e Borsellino, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura “quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti”. Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come “una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura”, dunque si prospettava un “disegno di ristrutturazione neoautoritaria”.

E molti altri, de cuyo nombre no quiero acordarme. Non è questo però il punto. Nè certi aggettivi, così corrivamente ricorrenti.

Persino Paolo Borsellino, in una famosa lettera, firmata anche da numerosi altri Colleghi (fra i quali Caselli e Caponnetto) sottoscrisse una critica: “Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze”.

Il punto è che se tutto fosse stato pulito, come fu per Borsellino, per esempio, se quelle opinioni su Falcone fossero state limpide si potrebbe oggi forse ridiscuterne, oppure no, chi lo sa. Ma una circostanza rende opache quelle uscite. L’articolo di Repubblica è stato cancellato dagli archivi di “Repubblica”, come ogni altro di quel periodo che si poneva in termini analoghi su Falcone. Gli altri, sono reperibili, ma con difficoltà. Inoltre, e soprattutto, le critiche così cariche e verbose non hanno mai condotto ad una memoria costante di quei conflitti. Ad una seria valutazione delle reali ragioni di quell’animosità. Che erano di ordine politico-ideologico; di potere. Falcone è con Craxi: questo, in compendio, il senso di questa lunga teoria di anatemi. Qualche mese dopo, sarebbe scoppiata Mani Pulite, e Craxi ne sarebbe stato il maggior bersaglio. In questi anni, qua e là, due righe, giusto per mettere a posto gli archivi, e poter sostenere, in contesti distratti e superficiali, di aver “riconosciuto l’errore”; ma un adeguato riconoscimento dell’astiosità ideologica, del metodo maledicente o ostile, quello mai. Forse perchè, quello stesso metodo, sarebbe stato utile negli anni a venire. Da qualche tempo si avverte un certo “garantismo di ritorno”, infìdo e pernicioso, nella misura in cui confida nell’altrui dabbenaggine. Perciò la memoria abbia anche un effetto diserbante. Si coltiva l’oblio per raccogliere potere. Lo fanno in molti. Pure questa è un’ipotesi, naturalmente.

Ogni 23 maggio i giornali commemorano l’assassinio di Giovanni Falcone, ma quest’anno si sono mossi con anticipo perché ricorre il 25ennale, scrive di Filippo Facci il 21 maggio 2017. Un quarto di secolo, tuttavia, non è bastato a far riporre la faziosità più smaccata neppure a personaggi che potrebbero permetterselo: Gian Carlo Caselli sul Fatto Quotidiano ha elencato una serie di boicottaggi ai danni di Falcone prima che fosse ucciso: e ha citato Lino Jannuzzi, Salvatore Scarpino, Ombretta Fumagalli Carulli, il Giornale di Napoli, il Giornale di Sicilia, il Giornale e basta, tutti con una caratteristica: non essere di sinistra, diciamo così. E sta bene, è tutto vero: ma è l’intera storia, dottor Caselli? Come si fa a non ricordare quando il Csm gli preferì un collega per la nomina a consigliere istruttore? Come si fa a non citare Leoluca Orlando, che accusò Falcone di voler proteggere Andreotti e che, durante una puntata di Samarcanda, disse che il giudice teneva imboscati dei documenti sui delitti eccellenti? Come si fa a non citare, due mesi prima che Falcone saltasse in aria, il corsivo dell’Unità scritto da un membro pidiessino del Csm e titolato «Falcone non può fare il superprocuratore»? La stessa Unità, poco tempo prima, aveva titolato «Falcone preferì insabbiare tutto». Poi ci sono i dubbi di Magistratura democratica, la malfidenza del Pool di Milano raccontata da Ilda Boccassini, un sacco di cose: fanno parte di tutta la storia, perché raccontarla a metà? Quanto tempo dovrà ancora passare? “Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho commesso e ordinato oltre 150 delitti, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta”. Parole di Giovanni Brusca, il mafioso che esattamente 15 anni fa, il 23 maggio 1992, fece saltare in aria Giovanni Falcone e tutta la sua scorta. Brusca ha messo queste cose messe a verbale e nel 1999 le ha pure raccontate al collega Saverio Lodato. “Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato”. Non erano i soli. Sin da quando giunse a Palermo nel 1978, chiamato dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, Falcone fece poco per rendersi simpatico. A Palermo era stato appena assassinato il giudice Cesare Terranova, e “mafia” era una parola che si pronunciava ancora malvolentieri. “Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982” racconta Brusca: “Non tramontò mai il progetto di uccidere Falcone, di eliminare lui e tutti i nostri avversari: quelli che ci avevano tradito, quelli che erano stati amici e ci erano diventati nemici, e mi riferisco agli uomini politici che spesso si trinceravano dietro lo scudo dell’antimafia per rifarsi una verginità. Per esempio quelli che ormai realizzavano tutto ciò che chiedeva Falcone: le sue leggi, i suoi provvedimenti, le sue misure restrittive. Giulio Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi: Salvo Lima e Ignazio Salvo sono stati uccisi per questo”. Falcone non era simpatico neppure ai vicini di casa. Alcuni condòmini del giudice, in via Notarbartolo, stesso stabile dove ora c’è “l’albero Falcone”, scrissero al Giornale di Sicilia nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Dopo l’apertura del maxiprocesso nell’aula bunker, nel febbraio 1986, Ombretta Fumagalli Carulli, purtroppo sul Giornale, giunse a scrivere così: “Il vero nodo del contrasto sta in un fenomeno allarmante che solo ora, dopo le notizie intorno alle coperture date da Falcone al costruttore Costanzo, comincia a essere percepito”. Così, quando il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo comminò 19 ergastoli, le polemiche non calarono: tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio, 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. Cominciarono a voltargli le spalle in tanti. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco e aveva inaugurato una cosiddetta “primavera di Palermo” che auspicava un certo gioco di sponda tra procura e istituzioni, anzi “una sinergia” come aveva detto Falcone stesso. Durerà fino all’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani, ma Falcone fiutò subito la calunnia: Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Andreotti. Fu durante una puntata di Samarcanda che Orlando scagliò l’accusa: Falcone ha una serie di documenti sui delitti eccellenti, disse, ma li tiene chiusi nei cassetti. Accusa che verrà ripetuta a ritornello da molti uomini del movimento di Orlando: Carmine Mancuso, Nando Dalla Chiesa e Alfredo Galasso. E’ di quel periodo, peraltro, un primo e sottovalutato attentato a Falcone: il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia, circa la bomba ritrovata nella casa al mare di Falcone, all’Addaura, scriverà così: “I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità”. E la voce circolò. Così, quando Falcone accettò l’invito del ministro della Giustizia Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse non potè che aumentare. L’obiettivo di Falcone era creare strumenti come la procura nazionale antimafia, ma in sostanza fu accusato di tradimento. Si scagliò contro di lui il Giornale di Napoli: “Dovremo guardarci da due «Cosa Nostra», quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma”. Così Sandro Viola su Repubblica: “Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura… s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi”. L’Unità, due mesi prima che Falcone saltasse in aria, fece scrivere un corsivo al membro pidiessino del Csm Alessandro Pizzorusso: “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché”. E’ la stessa Unità che poco tempo prima aveva titolato così: “Falcone preferì insabbiare tutto”. Cosa Nostra aveva già deciso di saldare il conto: la Cassazione, infatti, il 30 gennaio aveva confermato gli ergastoli del maxiprocesso. Mentre Roma discuteva su come impedire la nomina di Falcone, Giovanni Brusca stava facendo dei sopralluoghi sull’autostrada Palermo-Punta Raisi. Poi, a macerie fumanti, il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua all’inchiesta Mani pulite resterà uno degli episodi più disgustosi della storia del giornalismo italiano. Piero Colaprico, su Repubblica, definì Antonio Di Pietro “il Falcone del Nord”, e inventò che “si è saputo solo ieri che Falcone seguiva da vicino l’inchiesta sulle tangenti, ma adesso una tonnellata di tritolo ha spezzato per sempre il suo contributo all’indagine milanese”. L’Unità scrisse: “A Milano i magistrati hanno considerato la strage anche un avvertimento per quanti vogliono smascherare i signori di Tangentopoli”. Solo Ilda Boccassini, e gliene si faccia onore, ebbe la forza di urlare nella aula magna del Tribunale di Milano, rivolta ai colleghi di Magistratura democratica: “Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”. Due giorni dopo la strage di Capaci, su l’Unità, anche Piero Sansonetti ebbe un sussulto di dignità: “Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Giovanni Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo. Forse è il cavallo di Troia. E così abbiamo giudicato la sua scelta tattica una sorta di abbandono. Siamo stati faziosi”. E’ la sola autocritica, in quindici anni, messa nero su bianco da sinistra. Dopodiché fare la nostra parte, strattonare Falcone a nostra volta, tutto sommato sarebbe facile anche per me. Basterebbe ricordare di quando l’Unità (12 marzo 1992) spiegava che Falcone non doveva fare il procuratore antimafia, mentre La Repubblica esaltava Leoluca Orlando. E’ facile, strattonare Falcone. Quando si riparlerà di separazione delle carriere, rilanceremo l’articolo de La Repubblica (3 ottobre 1991) in cui Falcone si diceva favorevole a una riforma in questa direzione; quando ci sarà da sostenere l’inesistenza del Terzo livello mafioso, ritroveremo l’articolo della Stampa (30 luglio 1989) in cui Falcone lo riteneva inesistente; per le critiche alla politicizzazione della magistratura ci soccorrerà un’intervista a Falcone de La Stampa (6 settembre 1991) mentre per le critiche alle correnti del Csm ci basterà ancora La Repubblica (20 gennaio 1990) e insomma: nello schifo a cui è ridotto il giornalismo, fare la mia parte sarà un attimo.

Prima di Capaci, scrive Filippo Facci il 23 maggio 2013 su "Il Post". C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte dai vicini di casa di Giovanni Falcone (in via Notarbartolo, dove ora c’è «l’albero Falcone») che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e il timore che un attentato potesse coinvolgerli. C’erano gli articoli di Vincenzo Vitale, Vincenzo Geraci, Lino Iannuzzi, Guido Lo Porto, Salvatore Scarpino e Ombretta Fumagalli Carulli (Giornale di Sicilia, Giornale, Il Roma, Il Sabato) che in tutti i modi possibili attaccarono il maxiprocesso che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. Ha raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta». Poi, il 16 dicembre 1987, quando la Corte d’assise comminò a Cosa Nostra 19 ergastoli, ci furono gli attacchi democristiani e socialisti che giunsero ad accusare Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino non migliorò le cose. Poi, il 19 gennaio 1988, mentre tutti attendevano la nomina di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo, ci fu lo sfregio del Csm che gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità: i consiglieri di destra e di sinistra votarono tutti contro di lui a eccezione di Giancarlo Caselli. Dirà Francesco Misiani, storico esponente di Magistratura democratica: «Falcone non fu compreso a sinistra, lui che era l’unico che aveva percepito realmente la mafia come un’articolazione dello Stato». Tra gli affossatori di Falcone si distinse Elena Paciotti, futuro presidente dell’Associazione magistrati nonché europarlamentare Ds. Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra: parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Per Falcone fu una delegittimazione terribile, proveniente dai livelli più alti: di lì in poi i nemici spunteranno come scarafaggi. Poi ci fu il primo attentato, quello dell’Addaura: era il 20 luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in affitto. Verso mezzogiorno la scorta ritrovò in spiaggia una borsa con 58 candelotti di esplosivo. Al di là di una rinnovata e fumosissima inchiesta della Procura di Caltanissetta, sull’attentato si è già espressa la Cassazione il 19 ottobre 2004: condanne varie (a 26 anni per Totò Riina, tra altri) e responsabilità attribuita a Cosa Nostra, punto. Le pagine della Cassazione mettono nero su bianco anche quello che viene definito «l’infame linciaggio» di Falcone, che in buona sostanza fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Gerardo Chiaromonte, comunista e defunto presidente dell’Antimafia, scrisse che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». La sentenza della Cassazione fa anche altri nomi: tra questi i giudici Domenico Sica, Francesco Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori: chi più e chi meno, misero tutti in dubbio un attentato che in molti cercarono di derubricare a semplice avvertimento. Poi, appunto, ci fu il voltafaccia orribile di Leoluca Orlando, che abbiamo già raccontato domenica scorsa: il sindaco di Palermo s’inventò che Falcone proteggeva Andreotti e disse pubblicamente, soprattutto a Samarcanda di Michele Santoro, che il giudice teneva nascosta nei cassetti una serie di documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovrà addirittura discolparsi davanti al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Cossiga, Falcone ne uscì in lacrime. Poi ci fu Falcone che decise di accettare l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli per dirigere gli Affari penali al Ministero. L’obiettivo del magistrato – la creazione di nuovi strumenti come la procura nazionale antimafia – gli valse l’accusa di tradimento e megalomania da parte degli stessi ambienti che oggi commemorano Falcone come un vessillo di loro proprietà. Non aiutò che Falcone – come dimostra il libro La posta in gioco, interventi e proposte, da poco ristampato – si dimostrasse disponibile a discutere di separazione delle carriere dei magistrati e indisponibile invece a sostenere l’esistenza di un fatidico terzo livello mafioso. Scrisse amaramente Gerardo Chiaromonte ne I miei anni all’antimafia: «Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Claudio Vitalone che faceva da tramite». Furono i suoi colleghi a scagliarsi per primi contro Falcone. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse efficacemente la cronista Liana Milella, ai tempi amica del magistrato. Giacomo Conte, già componente del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura», dunque si prospettava un «disegno di ristrutturazione neoautoritaria». La vera coltellata fu però la pubblica lettera – indirizzata teoricamente al Guardasigilli – che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi in data 23 ottobre 1991. Poi c’erano i giornalisti, c’erano gli articoli del Giornale di Napoli: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». C’era Raitre con Corrado Augias, che si rivolse a Falcone ospite in studio: «Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…». C’era Repubblica con questo incredibile commento di Sandro Viola del 9 gennaio 1992: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera… Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi a uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico… non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo, non ne faccia la sua professione definita, abbandonando la magistratura. Scorrendo il suo libro-intervista, s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. La fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini del suo libro». E c’era l’Unità con Alessandro Pizzorusso, 12 marzo 1992: «Falcone superprocuratore? Non può farlo… Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia». Sul Resto del Carlino, nello stesso giorno, si giunse a sostenere che secondo il Csm «la sua fama di magistrato antimafia è semplicemente usurpata». Poi, purtroppo, contro Falcone c’era persino la mafia. Ha raccontato Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone, scritto con Saverio Lodato nel 1999: «Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta… Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982». I vicini di casa, i colleghi magistrati, persino gli amici, poi i giornalisti, persino i mafiosi. Parrà strano, ma dopo tutto questo, e prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone era ancora vivo.

25 anni dalla strage di Capaci, l’antimafia è più divisa che mai. Dopo 25 anni dall’uccisione del giudice Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Il fratello di Montinaro, caposcorta di Falcone: “L’antimafia di facciata esiste. Il problema vero è riuscire a smascherarla”, scrive Lidia Baratta il 23 Maggio 2017 su “L’Inkiesta”. Venticinque anni fa, 23 maggio del 1992. Sulla Fiat Croma marrone, la prima delle tre che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesco Morvillo, viaggiano tre agenti della scorta. Vito Schifani guida, Antonio Montinaro è seduto accanto, Rocco Dicillo dietro. Alle 17:58 la loro auto è la prima a saltare in aria all’altezza dello svincolo di Capaci. Mille chili di tritolo che fanno volare la Croma marrone dall’altra parte dell’autostrada, in un campo di ulivi. Mentre la Croma bianca, su cui viaggia Falcone con la moglie e un agente di scorta, si disintegra. Si salvano tra le lamiere Giuseppe Costanza, l’autista seduto dietro nell’auto del giudice, e gli altri agenti della Croma azzurra. Sono feriti, ma vivi. Sulla strada si apre un buco “come il cratere di un vulcano”, dicono. Davanti a quel buco, a quella colonna di fumo nero che si alza da Isola delle Femmine, la città di Palermo stavolta non rimane con le mani in mano. Dai balconi sventolano le lenzuola (i lenzuoli) bianche in segno di protesta, per differenziarsi da quella atrocità. È il seme dell’antimafia come la conosciamo oggi. Cinque anni prima Leonardo Sciascia aveva profetizzato l’esistenza dei “professionisti dell’antimafia”. Ma le stragi del 1992 segnano la data di nascita di una nuova spinta nella società civile. Tre anni dopo nascerà Libera. E da lì comitati, fondazioni, associazioni, movimenti che portano i nomi delle vittime di mafia. Ma 25 anni dopo, mai come in questo momento, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Le associazioni intanto si sono moltiplicate. Solo quelle iscritte nei registri di comuni e delle regioni oggi sono circa 2mila. Ma molti di quelli che erano diventati miti dell’antimafia, colpo dopo colpo, negli ultimi anni sono caduti a suon di inchieste. Come Silvana Saguto, la magistrata accusata di corruzione nella gestione dei beni confiscati; Rosy Canale, condannata per aver sperperato i denari delle donne di San Luca; Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo condannato per concussione in primo grado. E poi ancora le indagini su Pino Maniaci, su Adriana Musella e la sua gerbera gialla, e persino su un paladino dell’antimafia come Antonello Montante. Da casi come questi è nata anche una spaccatura interna alla stessa Libera, quando Franco La Torre, figlio di Pio, ha fatto notare durante un’assemblea l’assenza di prese posizione dell’associazione sulle indagini. Poco dopo La Torre verrà «cacciato con un sms». La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’antimafia attira denari. Attorno alla lotta alla mafia girano soldi, e non pochi, tra libri, fondi pubblici, elargizioni di ogni tipo e costituzioni di parte civile. Solo lo stanziamento a disposizione del Programma operativo nazionale (Pon) legalità per il Sud ammonta a oltre 377 milioni. E dove ci sono i soldi nascono i veleni. Rosy Canale con i soldi destinati alla lotta alla ‘ndrangheta ci aveva comprato due macchine e prenotato le vacanze. Il fondatore dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta Claudio La Camera è stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver usato i fondi dell’antimafia anche per acquistare oggetti di modellismo, sottraendo fino a 434mila euro di soldi pubblici. La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’ultimo botta e risposta di accuse riguarda Addiopizzo. In un audio circolato in Rete, Andrea Cottone, Cinque stelle fuoriuscito da Addiopizzo, critica l’uso dei fondi pubblici del candidato sindaco dei Cinque stelle di Palermo Ugo Forello, che ha presieduto l’associazione fino all’anno scorso. Cottone descrive un «circuito meraviglioso» per il quale «si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna». Poi Addiopizzo si costituisce parte civile, e come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi «e se li liquidano loro stessi». Nell’audio si parla anche della gestione definita «poco trasparente» dei fondi del Pon Sicurezza, e del presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia nei collegi difensivi degli imprenditori stessi (una doppia presenza che era già stata denunciata in commissione antimafia nel 2014). Addiopizzo ha smentito e ha annunciato di procedere per vie legali. Dietro le manifestazioni, le marce e gli striscioni, a venticinque anni da Capaci l’antimafia insomma è più divisa che mai. Persino la famiglia Morvillo ha scelto da poco di ritirare il proprio cognome dalla Fondazione Falcone, diretta da Maria Falcone, dopo la separazione della salma del giudice da quella della moglie. Ma la decisione di prendere le distanze sarebbe dovuta, come ha raccontato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, anche alla scarsa attenzione che la fondazione avrebbe dedicato alla figura della sorella in tutti questi anni. E per la prima volta, dopo 25 anni, i nomi di Giovanni e Francesca Falcone cammineranno separati. In un clima di spaesamento e divisioni, si cercano punti di fermi nell’antimafia, nomi di cui non dubitare. Si cerca una di tracciare una riga netta tra l’antimafia vera e quella “di facciata”. Non per forza collusa (ci sono pure i personaggi che di giorno marciano contro i criminali e di giorno ci fanno affari), ma diventata ormai un “brand” per costruirsi una carriera e organizzare dibattiti con tanto di gettoni di presenza. In nome di persone uccise dalle mafie, come ha denunciato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, si organizzano anche progetti da 250mila euro l’uno. Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare. L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. Tra i più critici oggi c’è proprio Brizio Montinaro, fratello di quell’Antonio Montinaro che il 23 maggio del 1992 saltò in aria sulla Croma marrone che precedeva Falcone. La sua stessa famiglia in questi anni si è divisa sul senso da dare all’impegno antimafia. Da una parte la vedova di Antonio Montinaro, Tina, che negli anni ha fondato diverse associazioni (l’ultima si chiama Quarto Savona Quindici) e che fa su e giù per l’Italia per portare la testimonianza di quello che resta del relitto dell’auto su cui viaggiava suo marito. A fine anni Novanta Tina Montinaro attaccò aspramente quello che definiva un trattamento economico eccessivo dei collaboratori di giustizia, poi intraprese una battaglia contro il giudice tutelare di Palermo Antonino Scarpulla, che l’aveva criticata per la “sovraesposizione” dei due figli (uno dei quali Montinaro l’aveva chiamato Giovanni, proprio come Falcone). E fu anche al centro delle polemiche quando accettò la cittadinanza onoraria del comune di Salemi guidato da Vittorio Sgarbi, poi sciolto per mafia. Accanto a lei milita una delle sorelle Montinaro, Matilde, che a Calimera, il paese d’origine della famiglia in provincia di Lecce, ha fondato un’associazione, Nomeni, in cui però nessuno dei fratelli risulta tra i soci. Dall’altro lato ci sono le altre sorelle di Montinaro, Anna e Donatina, e Brizio, fratello maggiore di Antonio, che per molti anni ha deciso di restare in silenzio, evitando telecamere e interviste, ma partecipando spesso a incontri e dibattiti nelle scuole. «Se c’è la speranza di poter solleticare la riflessione e la spinta verso un mondo migliore ciò può avvenire solo intervenendo sulle giovani generazioni», spiega. In questi anni in tanti hanno contattato Brizio, che di mestiere fa l’architetto, per partecipare a dibattiti e tagli di nastri di strade e piazze dedicate a Falcone e Borsellino. «Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare», racconta. «L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. E di questo ti puoi accorgere solo dopo aver conosciuto meglio promotori e partecipanti. Anche nelle nostre famiglie di vittime di mafia c’è chi si fa prendere la mano più dall’apparire che dall’essere». Da due anni, Brizio Montinaro ha deciso persino di non partecipare più neanche alle giornate della memoria di Libera. Non segue le iniziative della cognata né quelle della sorella. E lui stesso in occasione dei 25 anni dalla morte di suo fratello ha scelto di fare il “giro largo” dalle manifestazioni ufficiali. «Sarò in Sicilia tra scuole e università, e quest’anno anche in Calabria, per portare avanti a modo mio la memoria di Antonio e delle stragi», racconta. Con lui ci sono il movimento della Agende Rosse, Scorta Civica e anche Alfredo Morvillo, appena fuoriuscito dalla Fondazione Falcone. A due giorni dal 23 maggio, si sono ritrovati davanti alle tombe di Francesca e Antonio al cimitero dei Rotoli di Palermo. Mentre la cognata Tina Montinaro sarà a Palermo per riportare a casa la Croma blindata su cui viaggiavano gli agenti della scorta di Falcone in quel 23 maggio del 1992. Che ha cambiato tutti. Persino l’antimafia.

Il presidente del Maxiprocesso non invitato alle celebrazioni del venticinquennale. Sarà a Marina di Libri, scrive Piero Melati il 23 maggio 2017 su Facebook. Dicono le agenzie di stampa, e lui conferma, che il presidente del Maxiprocesso a Cosa Nostra Alfonso Giordano non è stato invitato alle cerimonie ufficiali di celebrazione del venticinquennale. Era invece presente a Roma, al Consiglio superiore della magistratura, su invito dello stesso CSM, alla seduta di desecretazione di tutte le carte riguardanti il fascicolo del giudice Falcone. I motivi per i quali il presidente del Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello non è stato invitato non sono noti. Ricordo solo sommessamente che il presidente Giordano accettò l'incarico di presiedere il Maxi dopo otto rifiuti da parte di altrettanti colleghi. Giudice a latere, si ricorderà, era il presidente del Senato Pietro Grasso. Fu al presidente Giordano che il capo di Cosa Nostra Michele Greco si rivolse, prima che la corte entrasse in camera di consiglio per emettere la storica sentenza, per augurargli "la pace eterna". Se vorrete, il presidente Giordano potrete ascoltarlo domenica 11 giugno alle ore 20 all'orto botanico di Palermo, alla manifestazione Marina di Libri, alla presentazione in esclusiva per Marina del mio volumetto "Giorni di mafia" (Laterza) che verrà presentato da Matteo Di Gesù, Giuseppe Di Lello e (spero tanto, se non ha altri impegni) Gioacchino Natoli. Avendo seguito il Maxiprocesso di Palermo per L'Ora, e avendo visto all'opera per mesi quasi ogni giorno il presidente Giordano (senza il cui coraggio il Maxi corse il rischio di non essere neppure celebrato, quantomeno da un giudicante del tribunale di Palermo) mi sono sentito in dovere di invitarlo come ospite d'onore. Questo avevo a disposizione e questo ho fatto. Non immaginavo però che, oltre l'antimafia della rimozione dei fatti, esistesse anche quella della rimozione fisica delle persone e delle loro storie.

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni". Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie". In un libro il racconto del suo dramma, scrive Salvo Palazzolo il 10 aprile 2017 su "La Repubblica".  "Al risveglio, dopo l'esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992". Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. "No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me". L'uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. "Mi misero a fare fotocopie", racconta. "Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio". In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d'oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. "Non certo come autista - dice - non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale". Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. "E che cosa ero stato io se non un militare? - sbotta - nell'auto blindata di Giovanni Falcone c'era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c'era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna". Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l'uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. "Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio", sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. "Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell'organizzazione di un servizio delicato come quello dell'autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato". Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. "C'eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l'arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all'aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. "Strano", penso. "Non ha il suo computer". Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l'hanno trovato vuoto, ma questo l'ho saputo molto tempo dopo". È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell'ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. "Quel pomeriggio - ricorda Costanza - Falcone è alla guida, accanto c'è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: "Ecco il resto che le dovevo". Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: "Aveva un pensiero - dice - non poteva aspettare più". Era sereno, Giovanni Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. "La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l'abbia voluto fermare". Presto, l'auto dell'ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. "Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia - spiega Costanza - non possiamo dimenticare".

L'autista di Falcone: «Io, sopravvissuto ma dimenticato dallo Stato». Giuseppe Costanza: «Il nostro Paese dimentica troppo facilmente. Non mi avevano invitato nemmeno alle commemorazioni». Le ultime parole che l'autista Giuseppe Costanza disse a Giovanni Falcone furono: «Così ci ammazziamo». Gliele disse mentre il magistrato – quando c’era sua moglie Francesca si metteva lui al volante – mandava l'auto come un razzo tra Punta Raisi e Palermo. Una profezia che si autoavvera: un secondo dopo, alle 17.59 del 23 maggio 1992, saltavano per aria. «Quando mi risvegliai ero all'ospedale. Qualcuno disse: avevamo già ordinato la sesta bara, quella per te. Seppi così che ne erano morti cinque, ma che tra loro ci fosse Falcone non lo credevo. Pensavo: lo dicono per questioni di sicurezza». E invece. Giuseppe Costanza e Giovanni Paparcuri, l’autista di Chinnici, sono amici. Ad accomunarli qualche acciacco, gli occhi tristi, il rancore e una serie di coincidenze cabalistiche che Paparcuri cerca di spiegarmi, ma io non capisco. Dei due Costanza è quello incazzato, non versa una lacrima, ride nervoso quando dice: «Questo nostro è un Paese strano: emotivo e facile a dimenticare», e qualche anno fa si è incatenato davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo perché si ricordassero di lui, perché non dovesse subire l’umiliazione di essere allontanato dalle pubbliche commemorazioni giacché nessuno aveva pensato di invitarlo, e senza biglietto non si entra. La sua commemorazione più importante se l’è celebrata da solo, appena uscito dall’ospedale: «La prima cosa che ho fatto è stata farmi accompagnare a Capaci. Sentivo che, se non l’avessi fatto subito, non avrei mai più avuto il coraggio di passare di lì». Come se il problema fosse solo quello, come se invece non fosse che adesso, a 62 anni, quest’uomo dice: «Sopravvivere è stata una condanna, per me e per chi mi è stato accanto. I miei figli, allora ragazzini, che sono dovuti diventare uomini da un giorno all’altro perché io, il loro padre, mi sono trasformato nell’ombra di me stesso». La milza che non c’è più, l’intestino spappolato, la mandibola spezzata e il naso rotto non sono nulla in confronto a quel non volere più niente che come una nebbia gli ha avvolto la vita. Non voler più niente tranne una cosa: che qualcuno si ricordi che Giuseppe Costanza è vivo. «La sorella di Falcone, in tutti questi anni, non mi ha mai cercato. Se l’ho cercata io? No, e perché dovrei? Chi c’era a Capaci: lei o io?». Andiamo a fare le foto al mare. C’è tanfo di immondizia e, accanto, una scena surreale: un bellissimo cavallo delle corse clandestine che fa il bagno, tenuto per le briglie dal suo fantino, che invece del cap porta un casco da moto. Tra uno scatto e l’altro Costanza mi dice: «Paparcuri, che è un buono, le avrà detto che lui rifarebbe tutto. Lo so, perché ne parliamo spesso, parliamo sempre delle stesse cose. Io per un verso dico no e per l’altro dico sì. Il no lo dico se penso allo Stato, che a parte i soldi non mi ha dato niente. Ma se invece mi concentro sul ricordo del dottor Falcone, la risposta cambia. Rischiava la vita ogni giorno e aveva bisogno di persone di cui si fidava per fare il suo lavoro. Aveva bisogno di me». (Articolo pubblicato sul numero 21 di Vanity Fair del 5 agosto 2009)

Capaci 25 anni dopo: parla lʼautista di Falcone sopravvissuto allʼattentato, scrive TGCom24 il 23 maggio 2017. Ai microfoni di Tgcom24 le rivelazioni di Giuseppe Costanza: "La verità che è stata ricostruita non è sufficiente. Con Falcone vivo avremmo forse sconfitto la vera Mafia, non quella di chi spara". Alle ore 17, 56 minuti e 32 secondi di sabato 23 maggio 1992 un cratere si apre sull'autostrada che collega l'aeroporto di Punta Raisi con Palermo. All'altezza dello svincolo di Capaci, 572 chili di esplosivo vengono attivati a distanza e spazzano via le tre auto su cui viaggiano il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta. Muoiono il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Sopravvivono all'attentato gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l'autista giudiziario Giuseppe Costanza. Tgcom24 ha intervistato quest'ultimo, rimasto a lungo lontano dai riflettori, in occasione del venticinquesimo anniversario della strage e dell'uscita del volume "Stato di abbandono" (Minerva Edizioni, con Riccardo Tessarini). Quel pomeriggio Giuseppe Costanza è a bordo della stessa auto su cui viaggia il giudice, ma non al posto del conducente. Falcone quel giorno ha voglia di guidare e si è messo al volante, con la moglie seduta al suo fianco. Una deroga al protocollo che avviene spesso, una deroga che costa la vita al nemico numero uno della Mafia e che al contrario salva quella dell'autista giudiziario. Venticinque anni dopo Costanza mette insieme i ricordi di quel periodo e le sue valutazioni personali: "Da quando Falcone abitava a Roma si sentiva tranquillo, camminava anche senza la scorta. Io stesso gli avevo fatto preparare un'auto per la Capitale, per potersi muoversi liberamente. Anche altri magistrati facevano come lui, credo senza autorizzazione visto che dopo l'attentato di Capaci nessuno di loro ha più guidato personalmente l'auto. Quando Falcone non andava in giro da solo, guidavo io, e lui si sedeva davanti. Questo perché il clima era tranquillo, non c'era la tensione di quando viveva a Palermo".

Perché allora colpire Falcone durante una breve trasferta a Palermo e perché farlo in maniera così vistosa, quando si trova insieme agli uomini della scorta?

"Quella mattina mi telefonò alle 7 di mattina per dirmi del suo arrivo. La scorta che rimase vittima veniva raggruppata al momento, non era dedicata, dall'84 al 91 a seguirlo costantemente siamo stati in pochi. Di solito aveva una scorta organizzata al momento con gli uomini disponibili. Ne è prova il fatto che sulla macchina sulla quale viaggiava lui non voleva forze dell'ordine: sulla sua auto non è mai salito un poliziotto. La settimana prima dell'attentato, venendo a Palermo, mi aveva fatto una comunicazione importantissima. Mi disse: "È fatta, sarò il procuratore nazionale anti mafia". E mi invitava a prendere il brevetto di pilota perché avremmo dovuto muoverci con un piccolo elicottero, un Mosquito. A qualcuno però, questo scenario fece paura, Falcone con la nuova carica che stava per ricoprire era pericoloso. Dopo il fallito attentato all'Addaura (il 21 giugno 1989, ndr) stava collaborando con dei magistrati elvetici e stava facendo indagini su diversi conti cifrati in Svizzera. Ritengo che l'attentato di Capaci sia stato un depistaggio per colpire l'uomo e addossare la colpa alla cosiddetta Mafia. Il problema è allora un altro: capire di quale Mafia stiamo parlando... Hanno addossato la colpa alla delinquenza locale, hanno preso la manovalanza, ma la mente credo che si debba ancora scoprire".

Perché allora uccidere poco dopo anche Paolo Borsellino?

"È stato fatto saltare in aria per lo stesso motivo: perché stava subentrando a Falcone. Troppi fatti collimano e vanno in questa direzione. Venne a trovarmi in ospedale e mi disse che stava seguendo le stesse indagini di Falcone e che a quel punto sarebbe stato lui il procuratore nazionale anti mafia. Questa è stata la sua condanna". 

Ha trascorso otto anni con il giudice Falcone. Come lo ha conosciuto e quali funzioni ha ricoperto per lui? Quale rapporto avevate sviluppato?

"Conobbi Falcone nel 1984 quando facevo ancora il parrucchiere. All'epoca non sapevo chi fosse. In quel periodo l'aria a Palermo era irrespirabile, gli omicidi continui e tutti di persone eccellenti: dal giudice Chinnici (che aveva inventato il Pool antimafia e che conoscevo perché veniva a fare la barba nel mio negozio), al commissario Ninni Cassarà, passando per il magistrato Gaetano Costa. Quanti morti ho visto a Palermo... Nel 1984 venni chiamato dal dottor Falcone: mi fece alcune domande personali, ma di fatto aveva già tutte le riposte, aveva fatto controlli sulla mia storia. Mi chiese di fargli da autista. E per otto anni feci da suo autista e referente a Palermo: gli organizzavo gli spostamenti e comunicavo con la sua scorta".

Qual è il suo ricordo del Falcone uomo?

"Con noi era una persona normale, quando rivestiva la sua carica era inavvicinabile. Non permetteva a chicchesia di chiedergli una cortesia perché cortesie e favori non ne faceva. Dimentichiamoci che Falcone possa aver fatto qualche favore, era refrattario. Se qualcuno si permetteva di chiedergli un favore, cambiava ufficio, cambiava strada, troncava il discorso. Mi diceva sempre che chiedere favori è controproducente perché prima o poi c'è da ricambiarli, si è in debito quindi non ne chiedeva e non ne faceva. La Mafia non è solo quella che spara, ma è quella che ti fa i favori e poi ti ricatta per riaverli indietro. Il fatto che dopo 25 anni da Capaci non si sia costituito di nuovo il pool antimafia è molto grave. Si dice che le idee di Falcone camminano sulle nostre gambe, ma non è così: sono rimaste solo parole".

Dopo il 23 maggio 1992 si è detto più volte che lei è sopravvissuto per miracolo, per una serie fortuita di coincidenze, perché il dottor Falcone aveva voluto guidare e andare davanti con la moglie. Si è sentito in colpa per essere sopravvissuto?

"Mi hanno fatto sentire in colpa. Sono vivo sicuramente perché guidava lui, ma se avessi guidato io sarebbero morte altre quattro persone. Oltre me sono sopravvissuti altri tre agenti che stavano dietro la mia macchina. Lui guidava come un cittadino comune, noi autisti professionisti, invece, guidiamo tallonandoci parallelamente e così facendo, avremmo occupato tutte e tre le corsie della strada. In quel caso tutte e tre le auto sarebbedro finite contemporanemente sul punto dell'esplosione. L'attentato era fatto per Falcone, ma tecnicamente gli esecutori hanno sbagliato perché non pensavano che alla guida ci fosse lui stesso".

La sua vita dopo il 23 maggio 1992 è stata stravolta. A quali funzioni è stato adibito? Perché nel libro si è definito "abbandonato"?

"Quando ripresi servizio dopo la strage non sapevano cosa fare di me. Tecnicamente ero un dipendente civile del Ministero della giustizia, nello specifico ero conducente di automezzi speciali. Non essendo più idoneo alla guida, mi hanno messo a fare fotocopie e a portare questo e quello, salvo poi degradarmi a portiere, sempre presso il tribunale a Palermo. Vedendo che nessuno aveva voglia di ascoltare la mia versione dei fatti, nel '94 mi sono incatenato alla cancellata di Palazzo di giustizia con il cartello "Vittima della mafia e dello Stato": mi sono dovuto mortificare per attirare l'attenzione. Volevo dire: sono vivo ma perché allora vengo emarginato? Adesso a 70 anni sono in pensione e vado nelle scuole a raccontare i fatti. Perché si faccia luce, perché i ragazzi sappiano una verità che non è mai emersa. Ora si cominciano a vedere certi atteggiamenti: quello che io racconto a qualcuno inizia a interessare... Vediamo cosa emergerà da queste mie dichiarazioni. Non posso fare nomi, ma sono convinto che si debbano individuare altri soggetti diversi dalla manovalanza che ha organizzato la strage".

Lei ha ammesso che avrebbe preferito morire quel 23 maggio e almeno vedersi riconosciuto l'onore che è spettato alle vittime...

"Non è del tutto corretto. Ho detto che avrei preferito morire al posto di Falcone. Con lui vivo avremmo forse sconfitto la Mafia. La vera Mafia, non quella di chi spara. La verità che è stata ricostruita non è sufficiente. Siamo stati depistati. Sono stati arrestati dei latitanti che erano a casa loro: Totò Riina venne scoperto dopo l'attentato. Ma se un latitante è ricercato e poi lo trova nel suo territorio vuol dire che prima non si era voluto guardato nella sua zona, che qualcuno lo proteggeva. Dopo l'attentato è stato arrestato. Qualcuno doveva pagare. Ha ricevuto ordini di compiere l'attentato e lo realizzato, ma la mente..."

A che punto siamo nella lotta alla Mafia? Cosa Nostra è ancora potente?

"La lotta non è finita. I mafiosi stanno aspettando tempi migliori, vivono nell'ombra e stanno modificando la loro natura. La mafia è ovunque. Non bisogna più pensare che sia confinata a Palermo o alla Sicilia. Quella mentalità c'è dappertutto, non per nulla Falcone puntava il dito contro certi colletti bianchi e proprio per questo è stato ucciso: non era tollerabile che continuasse a indagare in questo ambito".

Falcone 25 anni dopo: i siciliani hanno visto e hanno ragione. L’Anniversario sul palco, la morte sulla strada. Come sempre in Sicilia, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri su "La voce di New York" il 22 Maggio 2017. L’omicidio a Palermo di un uomo d’onore “di spicco”, Giuseppe Dainotti, alla vigilia delle celebrazioni per i 25 anni della Strage di Capaci in cui furono assassinati il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini di scorta, scuotono la retorica, e scoprono un vuoto grave, anzi gravissimo. Naturalmente, nessuno sa niente. E non nel senso in cui certo facile sussiego, certo impavido senso civico conto terzi, certa aneddotica da cabaret di quart’ordine, di fronte ad un omicidio in Sicilia, sempre allude, e spesso accusa, censura, disprezza. Nessuno sa niente dell’omicidio di Giuseppe Dainotti, uomo d’onore di rango, secondo quanto assicurano sentenze definitive, (condannato all’ergastolo per l’omicidio, nel 1983, del Capitano dei Carabinieri di Monreale, Emanuele Basile), perché gli investigatori che ancora possiedono arnesi del mestiere: fiuto, qualche contatto, occhio vigile e analisi di luoghi, tempi e modi dell’azione, come si dice propriamente, sono al lavoro da poche ore, e perciò, ammesso che abbiano un’idea, la tengono per sè. Ma una cosa noi la sappiamo già, il giorno prima del venticinquesimo anniversario della Strage di Capaci: e più che saperla, la sentiamo. Il grumo allo stomaco è tornato. Quello. Si può sperare che sia tornato per poco: ma è tornato. Una memoria criminosa antica; due colpi, asciutti, “puliti”, sparati da uno scooter, o forse una motocicletta, ad un obiettivo che andava in bici; in pieno giorno, in pieno centro, risuonano sordi e ridestano cupe inquietudini fra le donne e gli uomini che vivono in Sicilia. E’ possibile che l’imminente ricorrenza sia solo una coincidenza, oppure no. Certo amplifica, e il clamore supplementare, o segna precise volontà, ignote, e perciò, preoccupanti; o segna indifferenza, quindi ritrovata sicurezza: e sarebbero ancora più preoccupanti. Chi osserva, per ora rimane (e ce ne sarebbe comunque d’avanzo) di fronte ad un interrogativo di metodo, diciamo. Quel grumo allo stomaco subito avvertito (per chi lo ha avvertito) suggerisce che l’Apparato Antimafia ha ragione? Che l’estensione di indagini e di processi in direzioni sempre più rarefatte, alla ricerca di “aree” incruente, ma ritenute perniciose quanto le prime (e anzi più); che l’assidua dedizione a campi d’intervento storico-investigativo; la diffidenza sistematica verso le forme e i modi della politica democratica, costantemente stimate (cioè disistimate) a rischio di essere possedute, e soggiogate da forze vaste quanto indefinite, sia la giusta via? O, invece, quel grumo, ci dice che l’Apparato Antimafia, proprio in quanto fattosi Apparato, ha torto; che la fissazione di priorità, auto qualificate culturali, all’insegna di conflittualità di tipo bellico: presentate come “attività”, “fenomeno”, “presenza”, e non come azione delittuosa, volta a volta attaccata ad una traccia empiricamente riconoscibile, e sostenibile da un ragionamento, non estenuata in assidue sublimazioni ermeneutiche, in sintassi per pochi, in linguaggio veritativo cifrato e incontrollabile, di cui potersi solo “fidare” o “non fidare”, rispetto al quale potersi dire solo “fedeli” o infedeli”, ha torto? Temo che quel grumo dica che l’apparato Antimafia, così come si è venuto configurando dopo le Stragi, abbia torto. Torto marcio. Non ci si deve illudere. Gli uomini e le donne che vivono in Sicilia hanno visto; pure se quello che hanno visto non interessa (non si vuole che interessi) i talk show, gli “esperti”, i cultori di una omertà di Stato su cui, invece, ogni velo non è mai di troppo. Hanno visto i maneggi, parentali, amicali, “relazionali”, sui sequestri, sulle confische, nati nei Palazzi di Giustizia: a Palermo, ma non solo. Hanno visto portatori di Nomi nobili della Repubblica, come Franco La Torre, figlio di Pio, espulso per SMS dall’Alma Mater dell’associazionismo antimafia, Libera, dire, quanto a Palermo, a quelle Misure di Prevenzione, di cui poco i suoi associati avevano sentito: “si sturino le orecchie”. Hanno visto noti esponenti “Antiracket”, come Roberto Helg, già Presidente della Confcommercio, prendere quello che non dovevano. Vedono tutt’ora altri e nuovi esponenti di un qualche altro “Antiracket”, intesservi rigoglio professionale, vigoroso e giovanile slancio politico. Hanno visto processi, come il Borsellino uno e bis, infliggere la pena dell’ergastolo ad imputati che erano innocenti, perché la delazione, nei secoli sfuggente e infida, è diventata oggetto di “gestione”, delegata come materia seriale e protocollare a burocrazie potenti e sempre in grado di rendersi impersonali, inafferrabili, di fronte a responsabilità, a scelte, ad errori. Hanno visto investigatori di prim’ordine, che si sono calati nella palude per noi, andando in avanscoperta in anni bui, quando agire nei quartieri non comportava indennità speciali, ma solo rischi, finire dileggiati, additati, anche formalmente, alla collettiva riprovazione, come traditori: e se non morti tragicamente, assolti una volta, accusati, una seconda; e assolti una seconda, accusati una terza, e così consumare un’irriconoscenza costruita su equivoci sorti, probabilmente, da suggestioni liceali mal digerite: che ignorano Eschilo e leggono Ciancimino. Hanno visto le loro sofferenze anonime, quelle stesse ridestate da quel grumo di nuovo addensatosi oggi, alimentare un basso mercimonio paraletterario, diritti d’autore, intrattenimento, predicatori lustri di soldi facili, ammantati di barbette hipster, che parlano o scrivono di Zia Lisa (Palermo), di Fortino (Catania), di valle dello Jato, di Madonie, perché lo leggiucchiano sull’I-Pad: ma sempre saccenti, sempre sicuri di poter spiegare la mafia, i livelli, gli scambi, gli appalti, l’economia, tutto immancabilmente criminale, come in un fumetto mal riuscito. Perché loro sanno, e gli altri no. E mai fermarsi a discernere quanto, in una faticosa e complessa transizione storica ad una libertà di negozi e di merci, dopo otto secoli di latifondo (formalmente estinto solo nel 1950), imporrebbe di distinguere, di graduare, e non di appiattire sotto un’unica sferza: intollerante, comoda, pigra, vile e sterilizzante. Hanno visto, le donne e gli uomini che vivono in Sicilia; e hanno sentito gli spari di stamattina; e hanno paura. E molti non andranno alla “Commemorazione del quarto di secolo”; perché non si fidano più di chi pretende di insegnargli a stare al mondo, ingrassando per questo: impinguandosi, di carriere, di stipendi e trattamenti di quiescenza, di parcelle e consulenze principeschi. In nome della legge, e della legalità: vecchi, immarcescibili arnesi del Palazzo, lui eslege, e sopraffattore. Hanno visto. E si sentono ad un passo dall’essere, dal ritornare ad essere considerati, come sempre, per naturale privilegio, tutti mafiosi o mezzi mafiosi, tutti omertosi o mezzi omertosi; e così, senza indennità speciali, generosamente ammessi a vivere da eterni alunni somari dell’altrui civiltà. Non si fidano più degli Apparati prepotenti, ciarlatani, e che non chiedono mai scusa. E hanno ragione.

I troppi "amici" del dottor Falcone, scrive il 24 maggio 2017 Giovanni Paparcuri su “La Repubblica”. Giovanni Paparcuri - Collaboratore informatico del giudice Giovanni Falcone. Avanti. Mi è stato chiesto di scrivere un mio ricordo sul dottore Falcone e su cosa è cambiato dopo la sua morte e quella del dottore Borsellino. Ci sarebbero tanti ricordi, ma voglio dare un significato a quella parola “Avanti”, che uso come titolo per questo mio pensiero. "Avanti" era la password che usava il dottore Falcone per il suo pc, e quando mi diede la sua fiducia confidandomela, per me è stato molto importante: il dottore Falcone si fidava di me. Per tanti anni ho sempre cercato di dare un significato alla fiducia che mi aveva concesso, oggi forse l’ho trovato. Come è mio solito non sono ipocrita, né faccio uso di retorica, quindi devo dire, purtroppo, che dopo venticinque è cambiato poco o niente. Forse l'unica nota positiva è la voglia di legalità che vedo in molta gente onesta. Abbiamo anche conquistato la libertà di parlare liberamente di mafia e antimafia (quella vera, cioè senza ipocrisia e retorica). Libertà che non c'era nel passato, anche per mancanza di coraggio. Comunque, perché dico che è cambiato poco? Basta fare un piccolo elenco di alcune indagini e/o arresti per corruzione, per mafia, per malaffare.

- Il presidente degli imprenditori siciliani, Antonello Montante, che sarebbe sotto inchiesta per reati di mafia da parte della procura di Caltanissetta;

- Episodi di corruzione con la complicità di un magistrato ed una cancelliera del Tribunale di Latina;

- Altre vicende di corruzione di un commissario della polizia municipale di Palermo, tale Vivirito;

- Il caso della giudice Saguto;

- Mafia capitale;

- Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, condannato per estorsione;

- Pasta e legumi per i bisognosi usati come ricatto elettorale o venduti;

- La vergogna dei ponti che cedono, i viadotti chiusi, la Sicilia che è divisa in due;

- Una figuraccia mondiale. Il cluster bio-mediterraneo gestito dalla Sicilia sporco, deserto e allagato. Così si è presentato, nel giorno di debutto dell'Expo, il grande padiglione che riunisce 11 Paesi dell'area mediterranea;

- Mafia: collaboratore rivela, boss volevano uccidere il pubblico ministero Paci;

- Indagine di Riscossione Sicilia, dossier consegnato alle procure. Ecco i nullatenenti con aereo e yacht, ottocento evasori, un miliardo di euro spariti;

- La lite delle parti civili. L'antimafia che ama la "roba";

- Una villa in cambio di fondi Ue: indagato l'ex presidente dell'Ars Cascio;

- Vecchi mafiosi, già arrestati negli anni scorsi, una volta scontata la pena, sono tornati a comandare nel loro territorio;

- Pregiudicati per reati non di mafia, che aspettano di fare il salto di qualità: vogliono diventare mafiosi anche loro;

- Arrestata presidente antiracket Salento;

- eccetera eccetera.

I paladini, quelli che predicano bene ma razzolano male.  Ci voleva l’arresto del Presidente Roberto Helg per scoprire apertamente che certa antimafia non è vera antimafia? E poi, in questi anni ho assisito - nel nome di Falcone e Borsellino - ad una gara per dimostrare che uno è più antimafioso dell'altro. Esibendo teorie e nascondendosi dietro ipocrisie, spacciando "verità non vere", organizzando complotti, sferrando attacchi, processi in piazza, alimentando polemiche, un tifo da stadio per sostenere sottoscrizioni. Ci sono stati abbracci con personaggi discutibili, si scrivono libri che non si basano su fatti veri, talk show gridati, fiction dove il cattivo diventa super eroe, gruppi, associazioni, striscioni, cortei, passerelle che non hanno nulla a che vedere con la vera antimafia. Per non parlare poi di quelli che si paragonano ai giudici Falcone e Borsellino, o di quelli che con dei fotomontaggi pensano di accattivarsi simpatie o consensi, paragonando il loro sorriso a quello di quei grandi magistrati. Ma non capiscono che non è così che si possono portare avanti le loro idee. Ci vogliono fatti e non stupidi slogan. Il dottore Falcone era una mosca bianca, ficcatevelo in testa. Giorgio Petta, “vecchio” giornalista siciliano, mi ha detto di non avvilirmi e che se dipendesse da lui, in tutti questi convegni che si organizzano leggerebbe i Promessi Sposi, perchè proprio attraverso i personaggi di questa opera ci renderemmo conto che non è cambiato nulla. Infatti uno dei temi più importanti è la giustizia, a partire dell'impedimento di fare sposare Renzo e Lucia. Mosso dalla curiosità ho letto qualcosa, e in effetti devo dire che Giorgio Petta aveva ragione. Attraverso quei personaggi de I Promessi Sposi si racconta bene anche la situazione attuale, il collasso delle istituzioni civili. In parole povere ho ragione: non cambia nulla. Però dico che non abbandono, né possiamo abbandonare la lotta per un'Italia migliore. Perché, per sconfiggere le mafie, bisogna innanzitutto recidere la cultura mafiosa. E' questo il vero problema: fronteggiare la contiguità con il malaffare. È una sfida difficile ma bisogna andare sempre avanti, il dottore Falcone andava sempre avanti, è andato sempre avanti nonostante tutto e tutti. Non scrivo nulla delle sue amarezze a proposito di quello che gli è capitato intorno, né scrivo nulla sui pseudo amici e collaboratori che negli ultimi venticinque anni si sono moltiplicati a dismisura. Su quel periodo posso dire soltanto: è vero che quei giudici erano soli, ma noi collaboratori, i veri collaboratori, non li abbiamo mai lasciati soli e loro lo sapevano. Concludo scrivendo ancora una volta la password “AVANTI”. Era questo il significato per la quale l'aveva scelta: andare avanti, nonostante le minchiate, la retorica, l’ipocrisia.

Antimafia Connection.

Senza la mafia, cosa sarebbe l’antimafia?

Falcone diceva: “segui i soldi e troverai la Mafia”.

Ora avrebbe detto: “fai Antimafia e troverai i soldi...” 

Le storture di un sistema sinistroide che si inventa l’espropriazione proletaria illegittima di beni privati ed il foraggiamento statale di Onlus per mantenere amici e parenti, nascondendosi dietro la demagogia della legalità.

Lunga intervista-inchiesta al dr Antonio Giangrande per capire in esclusiva con verità indicibili cosa si nasconda dentro un apparato di sistema e dietro la liturgia delle ricorrenze. Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore controcorrente che sull'argomento ha scritto “Mafiopoli. L’Italia delle Mafie”; “Massoneriopoli. Mafia e Massoneria”; “Castopoli. Mafia, Caste e Lobbies”; “Usuropoli e Fallimentopoli; ed infine “La Mafia dell’Antimafia.”.

Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un fine conoscitore della materia?

«Anni di studi, approfondimenti e ricerche per guardare il risvolto nascosto della medaglia. Per questo posso dire che la parola antimafia è lo specchio per gli allocchi, per subornare gli ingenui per fare proselitismo politico e speculazione economica. La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!). L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà».

Dr Antonio Giangrande, le scuole non la invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Come se lo spiega?

«In un mondo dove sono tutti ciottiani e savianiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità».

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Cosa ha da dire?

«Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti»

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

«E' difficile cambiare la situazione, tenuto conto degli interessi in campo. "I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati”. Lo ha detto Maria Falcone in un'intervista a Soul, il programma-intervista di Tv2000, condotto da Monica Mondo. E dietro la coperta giudiziaria c’è la speculazione. Libera. Gli attivisti dell'associazione creata da Don Ciotti promuovono il riuso sociale dei beni confiscati alla mafia. Alcuni di loro gestiscono in prima persona aziende agricole e agriturismi nati su terreni che un tempo erano nelle mani dei più potenti boss di Cosa nostra».

Come si diventa associazione antimafia?

«Scrive Federica Angeli l'8 settembre 2014 su "La Repubblica", Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti". Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie"».

Prendono e non dichiarano. Quanto è grande quest'arcipelago dei No Profit antimafia?

«Non profit: i tanti Don Ciotti che battono la Mafia Spa, scrive Marco Crescenzi l'1 settembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Il settore non profit è più forte economicamente e “fattura” più delle Mafie (leggi l’accurata trattazione e le fonti citate da Mario Centorrino e Pietro David in Il fatturato di Mafia Spa, Lavoce.info, ilfattoquotidiano.it. Vedi anche Bankitalia 2012), con un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro con un’incidenza del 4,3% sul Pil (2012), simile a quello agricolo e in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che attestavano tale cifra a 38 miliardi. Una economia “civile” e partecipativa, con una occupazione in aumento negli ultimi 20 anni che impiega stabilmente oltre 1 milione di persone – superiore al 3% degli occupati in Italia, prevalentemente giovani, prevalentemente donne, al nord come al sud. Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari. Il non profit è quindi un potente motore culturale e di economia civile. E’ sul territorio, può controllare il territorio. In ogni caso, come diceva Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". Già camminare...Pensi che per farvi fare i cento passi che separavano la casa di Peppino Impastato all'abitazione del suo carnefice, l’antimafia si fa pagare 60 euro. 60 centesimi a passo…In questo modo Falcone e Borsellino si rivolterebbero nella tomba e questo ti fa rimanere l’amaro in bocca.».

L’amaro in bocca?

«Sì. Perché c’è in atto un accanimento mediatico/politico atto ad instillare nei ragazzi delle scuole la convinzione che l’antimafia di sinistra è portatrice di verità e legalità e chi non è antimafioso come loro, allora si è mafiosi. E tutta questa propaganda è sostenuta dai contribuenti italiani».

Lei che conosce tutto il materiale probatorio, spieghi come fa la lotta politica a speculare sul fenomeno mafioso.

«Sin dalla morte di Falcone e Borsellino si è tentato di tenere fede ai loro insegnamenti: segui i soldi…troverai la mafia. Il fatto è che proprio l’ingordigia dei soldi ha fatto degenerare i buoni intenti. E si sono inventati tutti i tipi di sistemi per fare cassa, dietro il paravento della lotta alla mafia.

Costituzione delle ONLUS. Tante scatole cinesi vuote che però fanno capo ad associazioni di rilevo sostenuti da media e sinistra. Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno. Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione, usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai. D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico.

Le Onlus e la speculazione sui migranti. Migranti: le Ong tra volontariato e business. Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle "sorellastre" governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio 2017 su "Panorama". Le parole di Zuccaro all'Antimafia. Il 9 maggio 2017 Zuccaro, procuratore di Catania, è stato convocato in Commissione Antimafia. "È sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l'aurea di onnipotenza", ha detto. "Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali", ma "c'è una massa di denaro destinata all'accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative". Appunto. Mafia Capitale, Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori in cui la "cupola" era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine, membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull'immigrazione, al telefono spiega: "Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare i flussi". Il braccio destro di Carminati: "Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?" Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". I clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c'è il centro d'accoglienza più grande d'Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive Gianfrancesco Turano l'11 aprile 2013 su "L'Espresso". Cantone e migranti: nei Cara bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell'autorità anti corruzione in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati ospitavano migranti in cantine. Considerare l'accoglienza un'emergenza è ridicolo, è questione di organizzazione", scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su "La Repubblica". "Quello per il Cara di Mineo "ci sembrò un bando costruito per escludere la concorrenza", era "il classico bando costruito su misura", addirittura "mancava soltanto che indicassero anche il nome del vincitore" e "quando sollevammo i dubbi ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l'ipotesi di commissariamento del Cara di Crotone". Lo ha detto il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. "Attualmente il bando è ancora commissariato, non ce n'è uno nuovo", ha aggiunto facendo un quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli per evitare situazioni "patologiche" e la necessità di controlli ". Parla con puntualità, del lavoro fatto dall'Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato "che il settore servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato da interessi. 'Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all'affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d'Europa. Le accuse: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila euro in un anno per "assistenza spirituale", scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci il 15 maggio 2017 su "La Repubblica". Don Scordio, da eroe antimafia alle manette. Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti, scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Quando Gratteri elogiava don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su "Vita". Il magistrato che ha lanciato l'operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone nell'ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e 'ndrangheta nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all'ex governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.

La gestione dei beni confiscati. Beni che spesso sono stati illegittimamente sottoposti a confisca e mai restituiti. Libera, da gestione dei beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio", scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia. Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica. Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca».

Ma è la mancanza di fondi economici per operare a far sì che l’antimafia tende a delinquere per sostenersi? Cosa si inventa l’apparato di sinistra per sostenere l’antimafia per speculare economicamente e politicamente sulla mafia?

«L’antimafia è un pozzo senza fondo dove la politica di sinistra arraffa a mani basse. Pioggia di milioni sull’antimafia. Non sono i valori morali che li spingono, ma quelli monetari. Ed i migranti sono uno strumento per arraffare ancora di più. Antimafia s.p.a. Gli espedienti di approvvigionamento economico sono: I Pon Sicurezza, la gestione dei beni confiscati, i finanziamenti alle Coop, i finanziamenti privati e pubblici, il 5Xmille. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L’Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose»».

Vediamo per favore le voci d'incasso. Una per una?

«I PON SCUOLA. Punto forte del proselitismo antimafioso di sistema. Il regime elargisce fondi per far parlare, nelle aule ai ragazzi ingenui, oratori omologati e conformati. L’antimafiosità non si può permettere di inculcare nei giovani la verità sullo stato delle cose e farli evolvere nel futuro. Per gli “onesti” di sinistra bisogna crescere automi, affinchè ideologie vetuste siano sempre contemporanee. Quanto costa la scuola d'antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì 16 Giugno 2016 su Live Sicilia. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso, il tema del “seguire i soldi” torna d'attualità, tra le polemiche, quando si parla d'antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui s'è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all'antimafia “scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali. La commissione Antimafia dell'Ars, ad esempio, ha avviato un'indagine sui contributi statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura in questi anni per capirne meglio l'utilizzo. Un'indagine “per verificare i contributi pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l'utilizzo dei fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente Nello Musumeci. Ma anche l'Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni per scandagliare il variegato mondo dell'antimafia. Tra le altre audizioni quella del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo e all'antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”. Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell'interno. E poi dal Ministero dell'istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell'audizione ha spinto il Ministero dell'Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta nel dettaglio l'attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all'anno. Destinati a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell'Interno, tra le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l'Antimafia istituzionale vuole vederci chiaro sull'ombra del business che si è affacciata sull'antimafia dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo in certi casi le sembianze della holding, dell'ufficio di collocamento o magari della claque per l'icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro destinato all'antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell'Istruzione, che sul tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare generalizzazioni. I soldi alle scuole. In totale per l'anno scolastico appena concluso il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi, 3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti quindi è di circa 3mila euro per progetto. L'anno precedente per questa stessa voce c'era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole siciliane che quest'anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità, che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti. Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali (per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere). I bandi. A questi 3 milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un'orchestra che coinvolge i bambini delle aree a rischio dell'hinterland catanese), l'Auser di Augusta e l'Acmos (7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d'azzardo all'interno di beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest'anno il contributo alla Fondazione Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro. I protocolli d'intesa. Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d'intesa sottoscritto dal Miur con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest'anno oltre a Palermo erano coinvolte altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”, ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa 20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l'iniziativa di Libera, ndr) che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi, sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d'Italia – spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione - per portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi il messaggio della legalità arriva più forte grazie all'accostamento di queste figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone alla società. Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione, inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all'Autorità Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all'Anm. Sulla base di queste carte d'intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere dei costi: il Miur nella sua lettera all'antimafia allega a titolo d'esempio la convenzione con l'Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”, progetto che ha un costo di 35mila euro.

I PON SICUREZZA. La pioggia di milioni sull'Antimafia. Ecco i fondi del Pon Sicurezza, scrive Domenica 17 Luglio 2016 Salvo Toscano su "Live Sicilia". Seconda puntata del viaggio sui finanziamenti destinati all'antimafia. La fetta più grossa è quella gestita dal ministero dell'Interno. Una valanga di soldi. Che innaffiano il prato sempre verde dell'antimafia. Un campo diventato ricco negli ultimi anni. Grazie a diverse fonti di finanziamento. Tra le quali spiccano le ingenti risorse del Pon sicurezza gestito dal ministero dell'Interno. Che in questi anni ha finanziato con quelle somme, oltre a diversi interventi per potenziare la sicurezza del territorio, anche, indirettamente, la galassia dell'antimafia organizzata, quella dell'associazionismo. Con le ingenti risorse del Pon, infatti, oltre a campetti da calcio e piscine, si sono finanziate iniziative legate all'utilizzo dei beni confiscati, vini, cartoni animati, botteghe della legalità, fiere. Un mese fa avevamo intrapreso il viaggio nel vasto mondo dei soldi dell'antimafia partendo da quelli erogati dal ministero dell'Istruzione. La seconda puntata si affaccia ora su risorse ben più cospicue. Quelle, saldamente nelle mani del ministero dell'Interno guidato da Angelino Alfano, del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza. Per il quale è in rampa di lancio la nuova programmazione settennale. Per questa nuova tornata in ballo ci sono 377 milioni di euro. A tanto ammonta la dotazione del Pon Legalità 2014/2020, che è stato presentato nel marzo scorso. Un tesoro che sarà gestito dal Viminale. Così come quello ancora più cospicuo della precedente programmazione. Ottenere informazioni dal ministero dell'Interno sul tema non è stato facile. Sono state necessarie un paio di email, altrettante telefonate e una lunga attesa per riuscire a sapere, alla fine, dall'ufficio stampa che le informazioni sul Pon si possono trovare sul sito Internet del Pon (sicurezzasud.it). Punto. Un flusso di informazioni menofluido rispetto al ministero dell'Istruzione che ha messo tempestivamente a disposizione di Livesicilia in tempi stretti tutti i dettagli delle somme stanziate per le iniziative su legalità e antimafia che coinvolgono gli studenti (leggi l'inchiesta). Per le ben più abbondanti somme gestite dagli Interni, che hanno distribuito a soggetti istituzionali una pioggia di finanziamenti destinati anche al variegato universo delle sigle "legalitarie" e antimafia, bisogna quindi districarsi tra i tanti documenti pubblicati sul ricco sito Internet del Pon Legalità 2007-2013. Il programma ha portato in dote per Calabria, Campania, Puglia, Sicilia addirittura 852 milioni, tra fondi europei e nazionali. L'ultimo rapporto annuale di esecuzione pubblicato è quello relativo al 2013. Al 31 dicembre di quell'anno il totale delle spese ammissibili certificate sostenute dai beneficiari del Programma, che sono tutti soggetti istituzionali, ammontava a poco meno di 500 milioni, che corrispondono al 58% della dotazione finanziaria complessiva. Gli ultimi rilevamenti della scorsa primavera, scriveva a marzo il Sole24Ore, davano gli impegni di spesa all'86,3 per cento, un po' indietro rispetto alla media dei fondi strutturali. I fondi sono destinati a finanziare una serie di voci legate alla legalità, tra cui anche quelle che mirano a tutelare la sicurezza dei cittadini o quelle che puntano a “realizzare iniziative in materia di impatto migratorio” (ad esempio a Ragusa a marzo di quest'anno sono partite le attività all’interno del Centro Polifunzionale d’informazione e servizi per migranti finanziato dal Pon con un importo di 1.950.000 euro) o ancora quelle rivolte ai giovani per diffondere la cultura legalità. Per questa voce, ad esempio, è stato varato negli scorsi anni un programma specifico rivolto alla Sicilia con un milione e mezzo a disposizione, che ha finanziato tra l'altro il progetto “In campo per la legalità” per creare un cento di aggregazione giovanile a Catania (oltre 800mila euro l'investimento), due centri analoghi sui Nebrodi a Torrenova e San Fratello (nel locale che ospita la biblioteca intitolata al nonno di Bettino Craxi), la manutenzione straordinaria di un campo polifunzionale e della piscina comunale di Racalmuto (372mila euro, l'impianto non è ancora entrato in attività) e nello stesso comune dell'Agrigentino la “valorizzazione e ampliamento della capacità ricettiva del teatro comunale "Regina Margherita" (intervento effettuato ma il teatro ancora non funziona perché mancano una serie di misure sulla sicurezza della struttura). Tra le attività realizzate nel 2012 il rapporto mette in evidenza la partecipazione ai campi estivi nei beni confiscati di Libera, la partecipazione al Prix Italia, la partecipazione con uno stand alle celebrazioni del 23 maggio a Palermo. Sempre nel 2012 è stato finanziato con poco meno di 100mila euro un progetto per dare vita a un centro di aggregazione giovanile a Lentini (Siracusa) per contrastare fenomeni di dipendenza. Tra i beneficiari istituzionali dei finanziamenti c'è l’Ufficio del Commissario straordinario antiusura ed antiracket, che sostiene la galassia di associazioni antipizzo proliferate negli ultimi anni in giro per l'Italia. Sul sito del Viminale l'ufficio del Commissario antiracket ne accredita 120, e quasi la metà ha sede in Sicilia. Una per esempio ha visto la luce nel 2014 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel paese d’origine di Matteo Messina Denaro. Un battesimo sostenuto dal Pon attingendo alle ricchissime risorse messe a disposizione per questo genere di iniziative. Nel giorno del battesimo dell'associazione di Castelvetrano ne nasceva un'altra a Ragusa e pochi mesi prima ne erano sorte altre due, a Vittoria e Niscemi. Per il solo progetto “Consumo critico antiracket: diffusione e consolidamento di un circuito di economia fondato sulla legalità e lo sviluppo” c'è un tesoretto da un milione e mezzo: beneficiario è l’Ufficio del Commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura in partenariato con l’associazione Addiopizzo. È attingendo a questi fondi ad esempio che si finanzia la Fiera del consumo critico di Palermo. Ma gli interventi finanziati nell'ambito del Pon spaziano da quelle relative al vino prodotto sui beni confiscati e gestiti da Libera Terra alla coproduzione di un cartoon sulla vita di Padre Puglisi. E ancora al riutilizzo dei beni confiscati. Come quello nel centro storico di Corleone un tempo appartenente alla famiglia Provenzano in cui nel 2010 è stata inaugurata la Bottega della Legalità, dove commerciare i prodotti delle cooperative che lavorano nei terreni confiscati alla mafia. Per l'inaugurazione si fecero vedere a Corleone i ministri Alfano e Maroni, vertici delle forze dell'ordine, sottosegretari e l'immancabile Don Ciotti. Ora si apre la stagione dei nuovi fondi. La prima dopo la crisi d'immagine dell'antimafia organizzata, che proprio sull'utilizzo dei ricchi fondi di cui ha beneficiato ha collezionato pagine imbarazzanti. Tanto da attrarre su di sè l'attenzione delle commissioni Antimafia di Roma e Palermo.

Hanno il monopolio e dettano legge. Le ultime parole famose. Parla il leader della Fai: "La normativa per costituirle non va bene". Il Commissario straordinario: "Alcune non ci convincono. C'è chi ci marcia". Antiracket, rischi truffe per le associazioni. Grasso: "I controlli sono insufficienti", scrive Francesco Viviano l'1 novembre 2007 su "La Repubblica". "Alcune associazioni antiracket non ci convincono molto e sono sotto osservazione". La traduzione di questa affermazione, fatta dal Prefetto Raffaele Lauro, Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura, è che attorno ad alcune di queste associazioni "c'è chi ci marcia". Perché il business è davvero grosso. Basti pensare che tra gennaio ed agosto scorso il Commissario straordinario antiracket ha erogato 17 milioni e 431 mila euro per le vittime dell'usura e del racket. Ma c'è un altro dato che fa riflettere. Sempre da gennaio ad agosto scorso, più della metà delle domande presentate da "vittime" del racket e dell'usura, sono state respinte. Su 214 richieste, 111 hanno avuto risposta negativa. Non solo ma alcune associazioni antiracket sono nel mirino delle magistratura. Un esempio per tutti, quella di Caltanissetta il cui presidente, Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere per un ammanco di 100 mila euro dalle casse dell'associazione. E la Procura ha avviato un'indagine indagando Mario Rino Biancheri. Il boss Antonino Rotolo, per esempio, nelle conversazioni intercettate dalla polizia, suggeriva ad un estorto di iscriversi all'antiracket così non avrebbe avuto problemi. 

Tano Grasso, che sta succedendo dentro e fuori le associazioni antiracket? I fondi fanno gola a molti e qualcuno ci specula sopra. E' così? 

"Il punto è che è inadeguata la normativa per il riconoscimento delle associazioni; oggi la norma prevede che cinque o sei persone si mettono assieme e fanno un'associazione purché non abbiano precedenti penali e chiedono il riconoscimento in prefettura". 

Qual è il ruolo delle associazioni e quali "vantaggi" hanno? 

"Nel sud Italia sono 80, complessivamente circa 200 e chi ottiene il riconoscimento viene iscritto nell'albo prefettizio e questo consente di accedere a dei fondi per iniziative e progetti. Però il problema è che l'associazione antiracket è una cosa delicatissima perché è una struttura che dovrebbe gestire la speranza e la sicurezza delle persone perché sono nate per garantire la sicurezza. Tutti quelli che hanno denunciato non hanno mai subito un atto di rappresaglia". 

Ma, come teme il prefetto Lauro, c'è qualcosa che non va in alcune associazioni? 

"Ripeto, la norma per la loro costituzione è assolutamente inadeguata, non basta un controllo formale sui requisiti personali, un'associazione ha senso solo se tu muovi le denunce, li accompagni dalle forze dell'Ordine e li assisti in tribunale". 

Invece? 

"Io posso parlare per quelle che aderiscono alla Fai (Federazione Antiracket Italiane) di altre non so anche se ho sentito dire che alcune associazioni, almeno fino ad ora, si occupano di fare convegni ed altre attività... Bisogna vedere cosa fanno le associazioni, quante costituzioni di parte civile hanno fatto, quante persone hanno fatto denunciare. Sono elementi di valutazione importantissime". 

Ci sono associazioni che fanno pagare un po' troppo l'iscrizione agli associati, alle vittime del racket, alcune anche 400 euro. 

"Le associazioni che aderiscono alla Fai sono composte tutte di volontari e le nostre fanno pagare quote veramente minime, dai 10 ai 30 euro ma tutti i servizi sono gratis e molte nostre associazioni non navigano certo nell'oro. La Fai, per esempio, ha un bilancio di 5-6 mila euro l'anno". 

Il rischio della truffa c'è? Ci sono vittime od associazioni che non sono del tutto trasparenti? Il numero delle richieste di risarcimento da parte di presunte vittime che è stato respinto dal Commissario per l'Antiracket è superiore di quelle accolte. Questo lascia pensare che non tutto è perfettamente in regola. 

"Il rischio della truffa potrebbe esserci ma il controllo, e lo dimostrano appunto le richieste di risarcimento respinte, è minimo". 

Ma la realtà è un'altra. Palermo, un audio scuote i 5 stelle: "Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo". Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L'ira del candidato: "Solo falsità", scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l'8 maggio 2017 su "La Repubblica". Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso ("Un fantasma che muove tutte queste persone"), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di "un circuito meraviglioso" per il quale "si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna". Poi Addiopizzo si costituisce parte civile "e viene difesa da quell’altro". Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi "e se li liquidano loro stessi". "Geniale", commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. "Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare", dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: "Noi rappresentiamo un involucro da riempire", commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. "È un fatto molto grave", ancora Nuti. "Siamo stati scalati", fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: "Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze". Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto il 19 gennaio 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra. 

Corte dei Conti di Napoli indaga sull'assegnazione «arbitraria» di fondi Ue ad associazioni antiracket. Presunte violazioni nel trasferimento di circa 13,5 milioni a favore di poche associazioni antiracket che sembrano aver ricevuto i fondi senza un bando pubblico. Alcune delle associazioni escluse avevano già denunciato in una lettera alla Cancellieri la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, scrive Angela Camuso il 14 gennaio 2014 su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull'amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. Un'inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all'arresto della presidente dell'associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell'ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l'indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l'acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell'associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell'associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c'è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l'attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l'avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell'associazione antiracket. 

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE. Le convenzioni con il Viminale ed i fondi elargiti dal PON-Sicurezza sono parametrati a seconda degli obbiettivi raggiunti e richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Da qui le storture e la speculazione sui procedimenti penali attivati dalle associazioni antimafia per poter godere dei benefici: più denunci più incassi dal Fondo POR e dalle relative costituzioni di parte civile nei processi attivati.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE. Da Wikipedia. Il PM anticamorra Catello Maresca e il prefetto Giuseppe Caruso hanno duramente criticato le attività di Libera, sostenendo che esse, aldilà della parvenza di legalità e onestà, siano semplicemente mirate alla spartizione dei proventi che derivano dal sequestro dei beni mafiosi. Secondo alcuni infatti, Libera si è trasformata da associazione antimafia a holding economica che gestisce bilanci milionari, progetti e finanziamenti in regime di monopolio. Anche il modo con cui vengono amministrati i beni sottratti alla mafia è stato criticato per la sua scarsa trasparenza e per il fatto che i progetti vengono vinti dalle solite associazioni legate a Libera. Questa cosiddetta Holding economica ha i suoi contatti politici e sindacali a sinistra. E da sinistra si attingono maggiormente i proventi del 5xmille anche su intervento dei CAF o in base ad una massiccia campagna promozionale mediatica e di visibilità. L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. Libera, Bilancio Consuntivo al 31/12/2015: 5 per mille € 700.237».

Come si spendono i soldi ricevuti dallo Stato e pagati dai contribuenti italiani?

«La giornalista Alessia Candito, sotto scorta e minacciata dalla 'Ndrangheta, ha pubblicato sul Corriere della Calabria la contabilità dal 2011 al 2014 dell'associazione della Musella, legata al Liceo Piria di Rosarno, salito alle cronache nazionali grazie al libro "Generazione Rosarno" di Serena Uccello. Nell'articolo della Candito si parla di "Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza". E si conclude scrivendo che: "Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti, ma che in quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti"».

Come si può concludere questa lunga intervista-inchiesta?

«Che l’antimafia può deviare in palesi illegalità. Ma è il loro mantenimento legale che dà da pensare e riflettere su come l’illegalità si purifichi in base all’ipocrisia generale. Non è che non bisogna combattere la mafia. Il problema è che è marcio il Sistema. Per speculare, inoltre, non bisogna vedere la mafia dove non c’è e criminalizzare un intero popolo: il meridione in Italia; l’Italia all’estero. Alla fine bisogna dire una cosa. L’antimafia deve essere di Stato. Se lo Stato abdica è volontariato. Il volontariato se tale è, necessariamente deve essere gratuito. Ergo: non vi può essere volontariato di Stato».

MAFIA ONLUS.

Falcone diceva segui i soldi e troverai la Mafia.

Ora avrebbe detto fai Antimafia e troverai i soldi... 

La morte di Falcone nelle parole di Borsellino. La bozza integrale degli appunti scritti dal giudice per la morte del suo fraterno amico, scrive Anna Germoni il 19 maggio 2017 su Panorama 

"Palermo, Veglia 20 giugno 1992. Percorso da dove è nato Falcone (piazza Magione) a dove ha concluso con l’ultimo saluto la sua esistenza terrena (S. Domenico).  Percorso che attraversa parte significativa di questa città degradata e disperata che tanto non gli piaceva, che gli cagionava sentimenti di ripulsa e avversione per lo stato in cui era ridotta e si andava riducendo. Città che proprio per questo, perché tanto non gli piaceva, egli amava e amava profondamente, proprio come nel famoso detto di Josè Antonio Primo de Rivera “nos queremos Espana porque no nos gusta” (amiamo la Spagna perché non ci piace). Si, egli amava profondamente Palermo proprio perché non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto “dare”, per lui e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo ha avuto ed ha il significato di dare ad essa qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa appartiene. Lavorare a Palermo, da magistrato, questo intento, fu sempre, fin dall’inizio, nei propositi di Giovanni Falcone anche durante le sue peregrinazioni professionali nell’est e nell’ovest della Sicilia. Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo, dopo lungo esilio provinciale, proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua terrificante potenza (morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa). Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo, e non solo nelle tecniche d’indagine, ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte (perché prive o meno appesantite dai condizionamenti dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col “male”), a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone e di tutti noi che lo affiancavamo quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice (simile affermazione è anche di Di Pietro). Significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la forza di essa. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sembrò sopravvenire il fastidio e l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini. Insofferenza legittimante il garantismo di ritorno che ha finito per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia (nuovo codice) o hanno fornito un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsene. In questa situazione Falcone va via da Palermo. Non fugge ma cerca di ricreare altrove le ottimali condizioni del suo lavoro. Viene accusato di essersi troppo avvicinato. Viene accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. Lavora incessantemente per rientrare in condizioni ottimali in magistratura per fare il magistrato indipendente come lo è sempre stato. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto a parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto anzi il dovere sacrosanto di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Molti cittadini (ed è la prima volta) collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso alla morte di Falcone, di sua moglie, degli uomini della scorta. Sono morti per noi, abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo – gioiosamente - continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere. Rispettando le leggi anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro). Collaborando con la giustizia. Testimoniando i valori in cui crediamo anche nelle aule di giustizia. Accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo."

"I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Molti di loro non sono stati leali mentre alcuni gli sono stati davvero amici come Chinnici, Caponnetto, Guarnotta, Grasso, Ayala". Lo ha detto Maria Falcone in un'intervista a 'Soul', il programma-intervista di Tv2000, condotto da Monica Mondo. Il programma va in onda domenica 21 maggio 2017 alle ore 12.15 e alle 21.30, alla vigilia del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci del 23 maggio 1992, quando Falcone venne ucciso assieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. "Tanti furono gli attacchi e le sconfitte - ha aggiunto Maria Falcone - tanto che fu chiamato il giudice più trombato d'Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo. Ma il fatto stesso che i giovani continuino a vedere in lui l'esempio di un uomo che ha saputo sacrificare la sua vita per il bene comune, pure non essendo un fervente cattolico ma un laico che credeva nell'amore del prossimo, è bello ed emozionante". "Giovanni - ha proseguito Maria Falcone - si è inventato tutto nella lotta alla mafia; quando lui è arrivato a Palermo la mafia sembrava quasi non esistesse, non se ne faceva nemmeno il nome; i vari uomini politici non la nominavano, la Chiesa non la conosceva".

Falcone diceva segui i soldi e troverai la Mafia.

Ora avrebbe detto fai Antimafia e troverai i soldi... 

Cantone e migranti: nei Cara bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell'autorità anti corruzione in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati ospitavano migranti in cantine. E le nuove norme, il decreto Minniti, per evitare "patologie" nel settore: appalti divisi per consentire concorrenza e la necessità di controlli successivi sulle presenze. Avanza l'idea di creare albi di fornitori per evitare presenze mafiose e sottolinea: "Il volontariato, le cooperative sociali per il nostro paese rappresentano un vanto, macchiato da interessi estranei. Considerare l'accoglienza un'emergenza è ridicolo, è questione di organizzazione", scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su "La Repubblica". "Quello per il Cara di Mineo "ci sembrò un bando costruito per escludere la concorrenza", era "il classico bando costruito su misura", addirittura "mancava soltanto che indicassero anche il nome del vincitore" e "quando sollevammo i dubbi ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l'ipotesi di commissariamento del Cara di Crotone". Lo ha detto il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. "Attualmente il bando è ancora commissariato, non ce n'è uno nuovo", ha aggiunto facendo un quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli per evitare situazioni "patologiche" e la necessità di controlli ". Parla con puntualità, del lavoro fatto dall'Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato "che il settore servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato da interessi. Abbiamo svolto accertamenti, per poi mettere in campo regolamentazione, da casi specifici trovare regole per evitare di ripetere cose patologiche". Come l'idea di istituire albi di fornitori delle strutture "per evitare la presenza di organizzazioni mafiose perché hanno ora buon gioco a mettere i loro interessi nel settore". E ricorda i casi di sfruttamento degli immigrati, avrebbero dovuto essere ospiti, studiare, imparare l'italiano e invece lavorano per pochi euro decine di ore nei campi sfruttati dai caporali. Cantone parla partendo da un punto fermo: "Considerare ancora un'emergenza mi sembra ridicolo. L'accoglienza è un problema di organizzazione bisogna prevedere strumenti che ne consentano una gestione a regime. I contratti quadro, ad esempio, non comportano spese per la pubblica amministrazione, possono essere azionati quando necessario". E racconta il lavoro fatto, i controlli. "Il 25 febbraio 2015 ci chiesero un parere sul Cara di Mineo da parte concorrente escluso.  Verificammo che il bando era stato costruito per evitare concorrenza, ci mancava che ci scrivessero nome del vincitore, fatto su misura. Indicammo subito al Cara l'esistenza di questa patologia, verificammo fuoco di sbarramento, una vera resistenza del Cara che si rifiutò di revocare il bando dove ci fu un’unica offerta con un ribasso del 1 per cento". Da quella esperienza nasce l'idea di individuare regole, una di queste è la divisione degli appalti che consente concorrenza vera. Nel 2016: prime linee guida per affidamenti a cooperative sociali, "rappresentano per il nostro settore un vanto, ma ci sono rischi di patologie che con gli enti del terzo settore non hanno nulla a che fare. I due problemi fondamentali sono la struttura del bando, e secondo l'assenza reale meccanismi di controllo visto che i pagamenti vengono fatti su base migranti ospitati". E così racconta della gestione centro di accoglienza Castel nuovo di porto a Roma, dove venne fatta dalla finanza un'ispezione a sorpresa scoprendo che la rendicontazione degli ospiti era fatta su autodichiarazione. "Con problemi sulla verifica dei soggetti assistiti e con la procura a sottolineare problemi a fare le verifiche". Prendendo spunto da indagini procura Napoli, Cantone parla di "Ala di riserva, una onlus assolutamente falsa, messa su da un pregiudicato aveva utilizzato soldi per comprare beni in Montenegro e utilizzava sottoscale e cantine per ospitare i migranti. Gli appalti erano stati dati senza controllo preventivo successivo e nessuna gara nel 2013. Forse perche spesso chi ti dà la soluzione del problema è benvenuto senza farsi molti domande su come lo fa". Tra le domande dei senatori, Cantone ringrazia Minniti: " nel decreto la divisione in lotti è diventato strutturale, strumento utilissimo per evitare patologie, plaudo al decreto che mette punti fermi specifici ma ci sono ancora problemi sulla fase successiva. La fantasia dei truffatori è fervida". E sul Cara di Crotone è chiaro: L'Anac "si attiverà per valutare se ci sono i presupposti per un commissariamento. Bene ha fatto il ministro" dell'Interno Marco Minniti a disporre un'ispezione al Cara, di cui l'Anac, chiederà di avere i risultati".

Migranti, inchiesta sulle Ong: la sinistra cerca di insabbiare. Colpo di spugna sui legami con i trafficanti di uomini. La commissione Difesa: "Nessuna indagine in corso a carico sulle Ong", scrive Sergio Rame, Martedì 16/05/2017 su "Il Giornale". "Non vi sono indagini in corso a carico di Organizzazioni non governative in quanto tali ma solo un'inchiesta della procura di Trapani che concerne, tra gli altri, singole persone impegnate nelle operazioni". Il documento conclusivo approvato all'unanimità dalla commissione Difesa del Senato, impegnata in una indagine conoscitiva sul contributo dei militari italiani al controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e sull'impatto dell'attività delle Organizzazioni non governative, è di fatto un colpo di spugna sulle accuse lanciate dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che ha ipotizzato legami tra le Ong e i trafficanti di esseri umani con un chiaro disegno di "destabilizzare economicamente" l'Italia. Legami che, come ha confermato anche Frontex, hanno portato a un incremento degli sbarchi. Tra gennaio e aprile di quest'anno, oltre la metà (50,36%) dei migranti è stata soccorsa e salvata in mare da privati. Eppure per le Ong "integrate" nel sistema di soccorso in mare agli immigrati, che prendono d'assalto le nostre coste, la commissione Difesa del Senato si limita a chiedere che vengano elaborate "forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa". In particolare, si legge nella relazione pubblicata oggi, "si dovranno adottare disposizioni che obblighino le Ong interessate a rendere pubbliche nel dettaglio le proprie fonti di finanziamento, cosa che alcune di loro già fanno, oltre che i profili e gli interessi dei propri dirigenti e degli equipaggi delle navi utilizzate, spesso a noleggio - continua la commissione di Palazzo Madama - anche altri indicatori sono da tenere in debita considerazione, quale la collaborazione con le autorità italiane". Nei quattro mesi in questione le navi mercantili hanno salvato 5.698 migranti (15,64%), le navi delle Ong 12.646 (34,72%). La percentuale di migranti salvati dalle navi delle Ong era già cresciuta dal 13,17% del 2015 al 26,24% dell'anno scorso. Nel documento la commissione di Difesa chiede che d'ora in poi l'intervento di polizia giudiziaria sia "contestuale" al salvataggio. "Al fine di non disperdere preziosi dati - sottolinea la Commissione presieduta dal piddì Nicola Latorre - ed elementi di prova utili per perseguire i trafficanti di esseri umani, sarebbe opportuno adeguare l'ordinamento italiano o comunque prevedere modalità operative tali da consentire l'intervento tempestivo della polizia giudiziaria contestualmente al salvataggio da parte delle Ong. Parallelamente - continua - occorrerebbe potenziare la forza e gli strumenti investigativi, favorendo ad esempio l'intercettazione dei telefoni satellitari". "In nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né peraltro desiderabile, la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali e sovranazionali". Secondo la commissione Difesa, invece, "i privati, se opportunamente inseriti in un contesto saldamente coordinato dalle autorità pubbliche (nel caso, dalla Guardia costiera, ndr) possono fornire un apporto significativo e costruttivo". Vengono così archiviati i sospetti e le accuse mosse nelle scorse settimane dal procuratore Zuccaro che, di fatto, chiedeva le intercettazioni satellitari e la presenza della polizia sulle navi delle Ong per avviare un'inchiesta seria sull'emergenza immigrazione. Inchiesta che, però, la sinistra non vuole in alcun modo.

Migranti: le Ong tra volontariato e business. Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle "sorellastre" governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio 2017 su "Panorama". “Quando si parla di Organizzazioni non governative, è difficile riconoscere quelle serie ed affidabili da quelle con finalità criminali”. È lapidaria la professoressa Angela Del Vecchio, docente di Diritto Internazionale e Giurisprudenza all’Università Luiss di Roma. “Si fa molta confusione e spesso non è chiara la differenza ong e le Organizzazioni Governative internazionali”.

La definizione. “Le Organizzazioni governative, come l’Onu o la Fao, sono "governate" dagli Stati e si sviluppano in ambito internazionale. Anche le Ong crescono e si sviluppano nelle società internazionali ma non sono governative, bensì gestite da privati. Le Ong hanno uno statuto, proprio come una società, si basano in uno Stato e sviluppano delle “sezioni” presso altri Paesi. Ad aderire a queste sezioni sono privati cittadini che vogliono condividere le finalità di quella Organizzazione non governativa e svolgere un’attività comune. Prendiamo ad esempio, Medici senza Frontiere o Emergency. Queste sono Ong che lavorano in ambito internazionale e hanno sezioni in tutti i Paesi del Mondo”.

Le differenze. "Non tutte le Ong, però, sono uguali", specifica Del Vecchio. "Medici senza Frontiere o Emergency per il Diritto Internazionale sono considerate attori della Comunità internazionale per la loro importante e riconosciuta attività in tutti i territori di guerra, ma non sono comunque soggetti della comunità internazionale come invece le Organizzazioni governative".

Le zone oscure. Al fianco di Ong serie ed affidabili come MsF o Emergency "possono esistere numerose altre organizzazioni non governative con finalità non proprio umanitarie" spiega Del Vecchio. "Occorre premettere che una imbarcazione di una qualsiasi Ong può navigare tranquillamente nel Mediterraneo: non deve richiedere alcuna autorizzazione. Essendo di proprietà di un privato può solcare le acque di qualsiasi mare come accade per uno yacht di grandi dimensioni. In base al Diritto della Navigazione, però, una qualsiasi imbarcazione deve prestare soccorso a chiunque si trovi in mare in situazione di pericolo, salvarlo e trasportarlo in sicurezza nel porto più vicino. Ecco che è semplice comprendere come Ong criminali si possano avvicinare e confondere con altre Ong oneste che operano davanti alle coste libiche e prestare soccorso ai migranti.”

L'ipocrisia cattocomunista, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Queste non sono, come scritto ieri da qualcuno, «le mani della mafia sulla pelle degli immigrati», anche perché la mafia le mani le ha sempre e ovunque circoli denaro. Queste sono le mani sugli immigrati della gioiosa macchina dell'accoglienza e delle porte aperte che sull'immigrazione ha intascato, e intasca, centinaia e centinaia di milioni. Cioè di quella lobby cattocomunista che ha bollato di razzismo chiunque - noi per primi - in questi anni ha chiesto regole e paletti, messo in dubbio regolarità e trasparenza dei soccorsi. Queste sono le mani sui migranti di una certa politica al di sopra di ogni sospetto e invece vicina, troppo vicina, a cardinali e ad Angelino Alfano che come ministro degli Interni avrebbe dovuto controllare e vigilare le organizzazioni umanitarie cattoliche come la Misericordia. Questi sono i responsabili dello scacco allo Stato messo in atto a Capo Rizzuto, nel più grande centro di prima accoglienza del Paese. Poi c'è anche la mafia, che tutto dispone. E nel tempo ha disposto anche di un prete leader dell'accoglienza, Edoardo Scordio e di un politico, Leonardo Sacco, uomo di Dorina Bianchi, parlamentare alfaniana, e legato alla famiglia Alfano (propose anche di affidare uno di questi centri a un parente del ministro che non aveva alcuna competenza specifica).

I verbali di questa inchiesta che ha portato all'arresto di oltre sessanta persone sono un manuale di malaffare e smascherano i presunti angeli dell'accoglienza. Quelli che in tv chiamano i profughi «fratelli migranti» con la faccia contrita ma che al telefono parlano di loro come i «negri da spellare». La domanda da farsi non è «perché la mafia», ma «perché le confraternite cattoliche», «perché le coop rosse». Cioè perché il sistema solidale si è alleato con le cosche, affamato di soldi e privo di scrupoli come e più di loro. Le cooperative sono parenti stretti dei partiti di centro e di sinistra. E allora forse oggi capiamo perché gli ultimi governi non hanno fermato, anzi hanno agevolato, un flusso migratorio incondizionato: soldi, tanti, maledetti e subito. Adesso però basta. E si può fare, come dimostra il fatto che a fine mese durante il G7 di Taormina è stato elaborato un piano per vietare gli sbarchi in Sicilia. Trump, Macron e soci non devono essere disturbati o infastiditi durante il loro soggiorno. E noi chi siamo? Opto per un G7 permanente.

Migranti: quali sono gli interessi delle mafie secondo Zuccaro. Gli appetiti dei clan e la proposta di polizia sulle navi delle Ong. Ecco le parole del procuratore di Catania all'Antimafia e le repliche, scrive il 10 maggio 2017 Panorama. Con gli ultimi due naufragi del fine settimana, che secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha provocato 245 morti o dispersi, sale a 1.300 il bilancio delle vittime in mare nel 2017 nel tentativo di raggiungere l'Italia. Sul tema caldo dei migranti, torna il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che, in audizione alla Commissione Antimafia, punta il dito contro gli interessi delle organizzazioni mafiose, attratte dalla massa di denaro destinata all'accoglienza. "Sono loro l'obiettivo delle indagini, non le Ong", ha specificato il pm. Presso la Procura di Catania è infatti in corso un'inchiesta conoscitiva, che era stata citata dal Movimento 5 Stelle sollevando un veemente clima di sospetto contro l'operato nel Mediterraneo delle Organizzazioni non governative. Ma andiamo con ordine. 

Cosa avevano detto il M5S e Zuccaro. Il 21 aprile è partito l'attacco grillino contro "l'oscuro ruolo delle Ong" che operano per salvare i migranti in mare. Luigi Di Maio aveva definito le navi delle organizzazioni umanitarie dei "taxi del Mediterraneo". Prima alla Stampa, quindi andando in tv, il magistrato Zuccaro aveva confermato le accuse grilline, parlando di "contatti diretti" tra i trafficanti di uomini che stanno in Libia e alcune Ong, che potrebbero addirittura essere finanziate dai trafficanti stessi con l'intento di destabilizzare l'economia italiana. Nel suo mirino non ci sarebbero Ong consolidate come Save the Children e Medici senza frontiere, ma quelle di più recente fattura come la maltese Moas. Sul fronte politico, da destra e sinistra si era aizzato un fuoco incrociato di accuse e difese sull'operato delle Ong nel Mediterraneo. Il 3 maggio, durante un'audizione davanti alla commissione Difesa del Senato, Zuccaro aveva rilanciato i suoi sospetti. E aveva parlato di "appetito" delle mafie che puntano a intercettare "il denaro erogato per l'accoglienza".

Le parole di Zuccaro all'Antimafia. Il 9 maggio Zuccaro è stato convocato in Commissione Antimafia. "È sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l'aurea di onnipotenza", ha detto. "Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali", ma "c'è una massa di denaro destinata all'accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative". Il procuratore ha ribadito che sui legami tra trafficanti e Ong c'è "un'ipotesi di lavoro", non prove. Ha parlato di segnalazioni, da parte di Frontex e della Marina, di travalicamenti dei confini delle acque libiche e contatti telefonici tra persone operanti sulle navi di alcune Ong e la terraferma libica. Per questo "c'è il sospetto di contatti tra trafficanti e alcune Ong: è dunque necessario consentirci di fare le indagini per dare corpo ai sospetti o smentirli". Ha nuovamente specificato di non "voler sparare nel mucchio": le Ong "fanno un'opera di supplenza straordinariamente meritevole, ma sono in grado di selezionare il tipo di flusso migratorio? No, è l'Italia, come gli altri Stati europei, ad avere il diritto di fare questa selezione. La gestione dei flussi non può appartenere alle Ong".

La proposta di Zuccaro. La soluzione secondo Zuccaro? Già lo aveva proposto, ora lo ha ribadito: far salire la polizia giudiziaria sulle navi, per bloccare gli scafisti e risalire a chi gestisce il traffico. "Se a bordo delle navi delle Ong ci fossero delle unità di polizia giudiziaria sarebbe stato ad esempio possibile assicurare subito alla giustizia i trafficanti che nei giorni scorsi hanno ucciso un giovane migrante, subito prima di essere soccorso, solo per non essersi voluto togliere il cappellino. Con la polizia sulle navi i trafficanti sarebbero in galera". L'idea però non piace ad alcune Ong. La tedesca Jugend Rettet, attiva con una sua nave nel Mediterraneo, scuote la testa: "Contravverrebbe alla nostra missione, non ne vediamo le ragioni". Ascoltata il 9 maggio di fronte alla commissione Difesa del Senato ha spiegato da dove arrivano i suoi finanziamenti: "Donazioni da parte di privati, nonché di organizzazioni piccole e medie senza fini di lucro. Nessun finanziatore influenza il nostro lavoro a livello operativo". Il 10 maggio saranno ascoltati in Commissione Difesa del Senato il procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio e il pm Andrea Tarondo, titolari dell'inchiesta che, a differenza di quella catanese, è in fase avanzata.  A seguire sarà ascoltata l'Ong tedesca Sea Watch, nel Mediterraneo con due navi.

'Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all'affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d'Europa. Le accuse: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila euro in un anno per "assistenza spirituale", scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci il 15 maggio 2017 su "La Repubblica". Il Cara di Crotone, uno dei più grandi d'Europa era in mano alla 'ndrangheta. Da dieci anni. Su 103 milioni di euro di fondi Ue, che lo Stato ha girato dal 2006 al 2015 per la gestione del centro dei richiedenti asilo di Crotone, 36 sono finiti alla cosca degli Arena. Questo racconta l'ultima inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, in base alla quale questa mattina sono state fermate 68 persone, molte appartenenti appunto al clan Arena. Agli arresti sono finiti anche Leonardo Sacco, presidente della sezione calabrese e lucana della Confraternita delle Misericordie, organizzazione che da dieci anni gestisce il Cara di Isola Capo Rizzuto, ed il parroco del paese, don Edoardo Scordio, entrambi accusati a vario titolo di associazione mafiosa, oltre a vari reati finanziari e di diversi casi di malversazione, reati aggravati dalle finalità mafiose. Secondo quanto emerso dalle indagini condotte dai carabinieri del Ros, guidati dal generale Giuseppe Governale, in collaborazione con i finanzieri della Tributaria di Crotone, Sacco avrebbe stretto accordi con don Scordio, parroco di Isola di Capo Rizzuto e tra i fondatori delle Misericordie, per accaparrarsi tutti i subappalti del catering e di altri servizi. Grazie a Sacco la 'ndrangheta sarebbe riuscita a mettere le mani sui fondi girati dal governo non solo per la gestione del Cara calabrese e di due Spraar aperti nella medesima zona, ma anche per quella dei centri di Lampedusa. Un affare da 30 milioni di euro: i cibi da preparare, gli operatori chiamati a lavorare nel centro, le lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Tutto in mano ai clan. In tale quadro, una somma consistente veniva distribuita indebitamente al parroco della Chiesa di Maria Assunta, a titolo di prestito e pagamento di false note di debito: solo nel corso dell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale che avrebbe reso ai profughi, ha ricevuto 132 mila euro. Don Scordio, ritenuto il gestore occulto della Confraternita della Misericordia, è emerso quale organizzatore di un sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi, riuscendo ad aggregare le capacità criminali della cosca Arena e quelle manageriali di Leonardo Sacco al vertice della citata associazione benefica, da lui fondata. Sotto la lente degli investigatori la Quadrifoglio srl di Pasquale Poerio, cugino del presidente della ditta 'la Vecchia Locanda' che fino al 2011 si occupava del catering per i migranti ospiti del Cara. Un contratto rescisso in fretta e furia quando i contatti del presidente Antonio Poerio con uomini della 'ndrangheta locale hanno indotto la prefettura a sospendere il certificato antimafia alla società. A sostituirla - e forse non a caso - con quella del cugino. Ma questi non sarebbero gli unici rapporti "imbarazzanti" del presidente Sacco. Per gli investigatori, non è per nulla casuale che il capannone della protezione civile della Misericordia sia quello un tempo appartenuto a Pasquale Tipaldi, uomo di spicco del clan Arena ucciso nel 2005, e oggi ancora in mano ai suoi parenti. Rapporti che per lungo tempo Sacco sarebbe riuscito a tenere sotto traccia, mentre non esitava a mostrarsi in compagnia di politici e uomini delle istituzioni. Considerato vicino alla parlamentare Dorina Bianchi, come alla famiglia dell'attuale ministro degli Esteri, Angelino Alfano, qualche anno fa Sacco è finito nell'occhio del ciclone per aver indicato Lorenzo Montana, cognato del fratello di Alfano, per dirigere la struttura di Lampedusa. Un incarico che l'uomo, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, dunque senza esperienza per quel ruolo, non ha ricoperto per molto. Si è dimesso poco dopo a causa delle polemiche. Anche in Calabria però Sacco ha sempre goduto di stima, protezione e potere, tanto da entrare - in quota politica - all'interno del Cda della società che per lungo tempo ha gestito l'aeroporto di Crotone. L'inchiesta "Johnny" del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e dell'aggiunto Vincenzo Luberto ha scoperto che proprio l’elevato flusso di finanziamenti pubblici riservati all’emergenza migranti ha finito per costituire la principale motivazione della pax mafiosa tra le cosche Arena e Dragone contrapposte ai Nicoscia e Grande Aracri che, nel primo decennio del 2000, si erano rese protagoniste di un cruento conflitto degenerato in numerose uccisioni e scontri a fuoco. La faida, infatti, cessava proprio quando andava a regime il sistema di drenaggio di denaro pubblico derivato dagli appalti per la gestione del centro accoglienza e le risorse venivano così spartite tra le famiglie mafiose.

Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno. Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione, usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai. D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico. Continuano ad analizzare il fenomeno dal punto di vista di Cantone e Travaglio, quello dei politici corrotti, della normativa sugli appalti sempre più folle che, nell’illusione di aggirare le infiltrazioni mafiose, serve solo a far impazzire gli imprenditori che vorrebbero lavorare onestamente e si trovano sommersi da mille scartoffie e controlli tanto asfissianti quanto inutili a combattere la mafia. E se invece lo analizzassimo per una volta dal lato dei mafiosi? Forse allora capiremmo che il problema non è la mafia che si infiltra, ma proprio l’appalto pubblico in sé. Il mafioso in fondo è un imprenditore, un soggetto che organizza un’attività per trarne un profitto, con la sostanziale differenza dell’assenza di morale legata allo sprezzo del pericolo di essere punito per le attività illecite. Da qui l’enorme avidità che lo porta a lucrare con ampi margini di profitto nel breve periodo, riducendo al minimo le spese, fornendo beni e servizi di pessima qualità e ottenendo così il massimo del guadagno, anche perché sa di farla per lo più franca in Italia. Quanto durerebbe sul libero mercato un imprenditore del genere? Lo spazio di un appalto privato. Per quel poco che ancora conta la reputazione nell’asfittica economia italiana, sarebbe ben difficile che un cliente privato non si accorgesse subito che lo stanno fregando con materiali scadenti o con lavoratori incapaci. Magari eviterebbe di fargli causa, che in Italia ormai non serve a nulla, ma quanto meno interromperebbe il rapporto, bloccherebbe i lavori e i pagamenti, eviterebbe di tornare a fornirsi da lui e spargerebbe la voce. Non sono mica fessi i mafiosi, non se la rischiano sul mercato. Ecco perché fanno affari con lo Stato e le amministrazioni pubbliche. Là c’è il più alto tasso di irresponsabilità di chi ha in mano il denaro, proprio perché non gestisce i suoi soldi, ma i nostri. Perciò il modo definitivo e più rapido di combattere le infiltrazioni mafiose sarebbe molto semplicemente quello di eliminare gli appalti pubblici. Tout court. Ma al di là di questa banale evidenza, che sfugge ai più, il dato più significativo degli arresti di ieri per il Cara di Crotone non è che fosse in mano alla ‘ndrangheta, ma che ci sia ancora qualcuno che si stupisce. Sono appalti pubblici, tanto quanto gli altri. Anzi, ancora più lucrosi, perché con la scusa dell’emergenza continua e sistematica vengono affidati con ancora più facilità, con meno finti controlli e soprattutto con ampi margini di guadagno facile. E se le mafie ci si infiltrano è una garanzia che i guadagni siano alti, altrimenti non ci perderebbero nemmeno tempo. Ecco, semmai io mi indignerei proprio di questo, non che i mafiosi si infiltrino, che in fondo fanno il loro sporco mestiere e non hanno mai avuto l’ipocrisia di negarlo, ma che lo stesso margine di guadagno lo abbiano le onlus, quelle organizzazioni che per statuto, per legge e per denominazione dovrebbero essere senza scopo di lucro. Ci hanno sfrantumato le orecchie con la loro carità pelosa, hanno un regime fiscale ridicolo, pontificano a destra e a manca, ci fanno la morale, ci tacciano di razzismo ogni minuto, demonizzano chiunque osi mettere in dubbio la loro attività che spacciano per beneficenza, pretendono di insegnarci la bontà, il disinteresse, l’altruismo, ma non sono altro che prenditori di denaro pubblico. Come mafiosi qualsiasi si infiltrano negli appalti per lucrare con il margine di guadagno maggiore possibile nell’ultima delle mangiatoie statali ancora disponibili. Che abbiano almeno la compiacenza di risparmiarci la loro ipocrisia smisurata.

"Ai negri tre euro e 50 A Sacco e al prete 400mila in contanti". Gli affari dei clan nelle telefonate degli arrestati "Pane secco tutti i giorni. La frutta? Era marcia", scrive Chiara Giannini, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Che affari, gli immigrati. Le creste sul cibo, i fondi per l'accoglienza che piovono a milioni, gli appalti e i subappalti. Controllava tutto, il clan. Isola Capo Rizzuto era il dominio. E il Cara - il più grande d'Europa - una gallina dalle uova d'oro. È il 16 novembre 2015. Antonio Poerio, socio occulto del Quadrifoglio (società che gestisce il catering del Cara) è al telefono con un non meglio identificato Vincenzo. Si parla di cibo. Cibo che sarebbe meglio buttare.

Vincenzo: «eh Antò, si stanno lamentando che il pane tutti i giorni è duro. La frutta non è buona che entrano i marocchini e noi dobbiamo cacciarli fuori... O glielo dici tu o ci litigo».

Poerio: «Ma chi è che si lamenta?»

V: «Rossana e come ti chiami tu Eugè chi è che sta dicendo dice che devo cacciare i marocchini? Lo vedi qua gridano cosa devo fare prendo e me ne vado o ci litigo e ammazzo qualcuno».

Altra intercettazione, ancora Antonio Poerio. Il dialogo con due interlocutori (C e M) finisce sul guadagno che si può ricavare dalle macchinette che distribuiscono cibo, snack e dolci. Alimenti da pochi euro. Ma il punto è un altro: da un lato ci sono i guadagni dei malavitosi. Dall'altro, i pochi spiccioli in mano agli ospiti del Cara.

C: «C'è n'è molto guadagno con queste macchinette qua?»

A: «Ci guadagni il doppio... Tu, una busta di patatine la paghi 20 centesimi e la cinquanta o sessanta centesimi... quanto ci guadagni? Una Cocacola sai quanto costa in lattina? 20 centesimi ... quindici, venti».

C: «E al bar la vendono un euro e cinquanta».

A: «Lascia stare che quelle del bar costano un po di più di queste qua... e tu la vendi ottanta... certe cose dolci Marì... quei tronchetti di brioche».

M: «Sì».

A: «Di trecento grammi... quelli li paga a settantacinque... ottanta... una cosa di queste... due euro».

M: «Nel campo?»

A: «Sì».

M: «E i negri dovrebbero comprarseli... I negri... gli toccano due euro e cinquanta o tre euro e cinquanta il giorno... tre e cinquanta... hanno una scheda loro... prima glieli doveva dare la misericordia tutte queste cose... adesso pure glieli deve dare la Misericordia... pero' là una volta gli arrivavano è un bordello... la prefettura ogni volta faceva un bordello... come se non gliene davano... adesso invece una volta che ti carichi la scheda... poi tu vai e te la scarichi la scheda... e ti prendi quello che vuoi... la scheda del telefono... la cosa... e quindi... possono spendere quel... quanto vogliono... quanto vuoi... tre euro e cinquanta al giorno... però sull'appalto se lo gestiva la Misericordia... loro quanto comprano, devono vendere... non ci deve essere...».

A: «Guadagno».

M: «Guadagno... invece questi qua... alla misericordia gli fatturano già finito... guadagni hai capito...».

A: «Ahhh».

M: «Quindi la misericordia è pulita... per i fatti suoi... cosa guadagna la misericordia? Lo sponsor della squadra... centoquarantamila euro... centoventi... cento... centoquarantamila euro l'anno... ieri mi ha detto a me... Tonino vedi tu quanto ti devo dare ... la cosa... gli ho detto Leonà... tu a me vedi alla fine... come guadagni... poi ti regoli sul guadagno... come dici tu ... come dici tu ... vabbè».

In una conversazione tra Francesco Cantore e Antonio Poerio i due discutono delle spettanze di lavoro di Paola, compagna del primo, che lavorava al Centro di accoglienza. Cantore è preoccupato del fatto che la compagna potesse essere licenziata. La donna, infatti, era in malattia da molto tempo e voleva che Poerio intervenisse in suo favore, assieme a Leonardo Sacco. Mica facile, però. Poerio accampa qualche scusa. C'è la crisi economica, dice. Ma una strada si trova sempre. Ed è la strada che conduce ai palazzi del potere. Spuntano nomi di politici. E una foto con il ministro Alfano.

A: «Il problema qua l'hai visto come ti fanno?»

F: «Ehh...»

A: «Ti fanno demoralizzare... ti fanno demoralizzare».

F: «Il coso là, l'Espresso...».

A: «Ehh, hai visto?»

A: «'Sti figli di puttana».

F: «Ormai i processi li fanno solo i giornalisti».

A: «Ma sono 10 anni, ma... 10 anni, no?»

F: «A quella Raggi (il sindaco di Roma, ndr) gli stanno facendo tante di quelle cose».

A: «Uhh, poverina a quell'altra cazza di ragazza».

F: «La miseria... i giornalisti».

A: «Ma quelli lo fanno, glielo fanno apposta... allora come?»

F: «Ma comunque va, speriamo bene... tutto passa».

A: «Eh, ma qua ogni anno ci attaccano a noi».

A: «No, il problema è che ora ci saranno le elezioni prossimamente».

F: «Eh».

A: «Se non sono questo anno saranno l'anno che viene, quindi...».

F: «eh, quindi...».

A: «Ad Alfano (il ministro degli Esteri, ndr) lo vogliono proprio buttare a terra».

F: «Sì, sì».

A: «Ma vedi che non è che teniamo la fotografia con Totò Riina».

F: «E infatti».

A: «Io tengo la fotografia con un Ministro... ma chi cazzo non la vorrebbe una fotografia con un Ministro, scusa?»

F: «Eh, eh, eh, scusa...»

A: «Ma onestamente con un Ministro della Repubblica».

F: «Allora Di Pietro (l'ex ministro e magistrato, ndr), coso, non aveva fotografie con 'ndranghitisti e cosi?!».

A: «No ma io non è che ce l'ho».

F: «Ehe...».

A: «Io ce l'ho con un Ministro compà ma stiamo coglioneggiando? E poi dove ce l'ho sta condotta macchiata?».

F: «Ma poi scusa un poco, un Ministro...».

A: «Una cazza di pistola fradicia di merda io tenevo...».

F: «Ma poi un Ministro... oppure una persona normale... quando parla con una persona gli deve chiedere la carta d'identità e tutto?».

A: «No aspetta... noi a quella cosa, a quella cena che siamo andati, prima di andare, dieci giorni prima abbiamo mandato i nostri documenti... la loro... il loro ufficio accertano chi sono io, chi è quello, quello e quell'altro».

F: «Evidentemente non c'era niente».

A: «E hanno visto che io ero buono... ch ... ma lo vedi che lui neanche replica? Il Ministro... che cazzo gliene frega a lui?!».

F: «Sì».

A: «Lo attaccano tutti i giorni a tutti i cazzi... guarda ora stavo leggendo del padre di Renzi (l'ex premier, ndr)».

F: «Ah, sì ora».

A: «Lo hanno fatto per influenza... meh denunciato per influenza...e influenza di che? Ha una febbre? Perché dato che era influente può darsi che andavi là e andava là».

La gestione del campo - si legge ancora dalle carte - è un pozzo di guadagni. Così tanti che è possibile «girare» 400mila euro in contanti nelle tasche giuste. Ne parlano Antonio Frustaglia e Angelo Muraca.

M: «no, come mi chiamano gli dico... quei quattrocentomila euro dove li hai messi? A Leonardo Sacco e al prete (Don Edoardo Scordio, ndr). Se li dovevano dividere loro. Glieli ho presi liquidi e glieli ho dati a loro».

La sporca storia della 'ndrangheta e del Cara di Isola Capo Rizzuto. Don Edoardo Scordio, quel prete antimafia che riciclava in Svizzera i soldi destinati all’accoglienza migranti, scrive Patrizia Vita il 16 maggio 2017 su “L’eco del Sud". Che i migranti fossero un affaire da centinaia di milioni di euro per chi se ne occupa, è cosa risaputa da tempo. Bando a questioni umanitarie, di dovere, c’è un fiume di denaro che scorre impetuoso sulla gestione della loro accoglienza. Quello che, nonostante tempi che non assolvono nessuno, stupisce ancora un po’ è che dietro l’inchiesta della DDA di Catanzaro, indagini affidati ai Ros dei Carabinieri, ci sia un prete considerato Antimafia. Antimafia sino a ieri, quando don Edoardo Scordio, parroco della Chiesa dell’Annunziata di Isola Capo Rizzuto, è stato arrestato, accusato di avere gestito a proprio uso e consumo il flusso di denaro destinato all’accoglienza, in pratica di farsi pagare l’assistenza spirituale ai migranti. L’arresto è scattato nell’ambito di una operazione che ha scardinato un sistema in mano alla ‘Ndragheta, in particolare al clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Le accuse a carico dei 68 indagati, a vario titolo, sono: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Secondo i Ros, “il Cara di Sant’Anna e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Con don Scordio è stato arrestato anche Leonardo Sacco, gestore del centro Cara, uno dei più grandi d’Europa, con una disponibilità di 1216 posti.

Ma chi è don Edoardo Scordio? Molto amato dalla sua comunità, negli anni ’80 il parroco divenne noto per la sua lotta alla ‘ndragheta’. Famose le sue omelie in piazza contro il crimine organizzato. Non c’era funerale di vittime di agguati mafiosi nel quale, alto, non si levasse il suo sdegno contro chi aveva perpetrato quel vile attacco alla vita umana. Poi, posero un ordigno sotto la sua vettura e, probabilmente, fu la fine della sua battaglia al crimine organizzato. Chi è, per l’accusa, don Edoardo Scordio? Un ‘mammasantissima’, affiliato al clan Arena, che aveva allungato le mani sul Cara di Isola capo Rizzuto. Su oltre duemila pagine dell’ordinanza della “operazione Jonny’, sugli affari del clan Arena con la Misericordia dell’Isola di Capo Rizzuto emerge la figura di Don Edoardo Scordio. Insomma, per gli inquirenti, quel battagliero parroco di paese che durante le processioni badava bene che non sfilassero personaggi in odor di mafia, lui con la mafia era un tutt’uno, capace di gestire un ingente flusso di denaro – quasi 32 milioni di euro sui 100 stanziati da parte del ministero dell’Interno dal 2006 – per un centro di accoglienza per richiedenti asilo che fruttava parecchio. Per l’accusa, inoltre, don Scordio riciclava il proprio denaro in Svizzera, dove vive suo fratello.

Così parlò Leonardo Sacco. "Non Santo" ma vicino alla santità, anche Leonardo Sacco, governatore della ‘Misericordia’: “Abbiamo i nostri limiti e i nostri difetti e commettiamo i nostri errori. Non siamo immacolati, puri e santi, però cerchiamo almeno di portare avanti quello che ci viene affidato e di utilizzare i soldi che lo Stato mette a disposizione per la gestione di questi centri nel modo più corretto possibile in un territorio difficile”. Sacco così parlava audito dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione nel luglio 2015.

Tutti gli interessi della Misericordia. Non solo di accoglienza migranti si occupa l’associazione finita nel mirino della magistratura. Oltre alla gestione del Cara di Sant’Anna, dei centri di Lampedusa e dei centri Sprar Oasi del Mediterraneo e Oasi dello Ionio, l’associazione si è ramificata in vari settori: scuole, turismo, centri anziani e disabili, più una partecipazione all’aeroporto di Crotone. Un impero da quasi 20 milioni di euro, sul quale adesso sono accesi i riflettori della DDA di Catanzaro, con al centro un parroco antimafia.

Don Scordio, da eroe antimafia alle manette. Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti, scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale".  Uno che si chiama Scordio non deve avere la memoria tra le sue virtù. E quindi può permettersi di trasformarsi, per pura dimenticanza, da paladino antimafia a «don» colluso con la cosca. Don Edoardo Scordio, arrestato ieri nell'operazione della dda sul Cara di isola Capo Rizzuto trasformato in bancomat del clan Arena. E’ un settantenne occhialuto, dal sorriso timido ma contagioso. Un rosminiano convinto, superiore e parroco della Chiesa di Maria Assunta (altrimenti detta Ad Nives) a Isola Capo Rizzuto, a cui fu spedito esattamente quarant'anni fa dal profondo Nord con il compito di «ricostruire il tessuto sociale del territorio», come lui stesso raccontò a UnoMattina nell'ottobre del 2011. Uno che negli anni Ottanta, l'età dell'oro della criminalità organizzata, si dava da fare per guarire il suo territorio infetto dal virus della ndrangheta. Fiaccolate, omelie, prese di posizioni dure. Un curriculum specchiato che lo portò nel 2004 a licenziare un «decalogo della libertà dalla ndrangheta» che fece epoca. Tra gli articoli: rifiutare la regola dell'onore offeso da lavare con il sangue, evitare qualsiasi patto di sangue, non prestare il proprio nome per intestazioni fittizie. Il manualetto gli consentì anche di appuntarsi al petto la medaglia più pregiata, quella della vittima di un'intimidazione, un bell'ordigno piazzato davanti casa sua. Non esplose, ma il messaggio fu chiaro e ne fece una specie di apprendista martire. Leggete quello che scrisse di lui Avvenire nel non lontano 2011: «Nel 1977 arriva a Capo Rizzuto un rosminiano, padre Edoardo, che sceglie, con pericolo della vita, di sfidare platealmente la mafia anno dopo anno, mese dopo mese, per insegnare ai ragazzi che anche in Calabria si può crescere liberi. Egli fa capire che il sopruso e la violenza si possono combattere solo con una denuncia forte e decisa e continuato a farlo attraverso le sue omelie». Un eroe. Un uomo. Un prete. Coraggioso. Che però non tutti amavano in quell'angolo di Calabria. Molti denunciavano le sue frequentazioni con i mammasantissima della zona, alcuni ricordavano quel funerale celebrato per Carmine Arena detto «Cicalu», assassinato nel 2004 a colpi di kalashnikov e di lanciarazzi Rpg7 da un commando di un clan rivale. Qualcuno andava indietro con la memoria fino al 1996 e alle nozze di Raffaella Arena, figlia del boss Nicola, finite invece che con il lancio del bouquet con un blitz dei carabinieri a caccia di latitanti tra gli invitati. Altri trovavano quanto meno riprovevole che don Scordio avesse ricevuto nel solo 2007 ben 132mila euro dalla società di gestione del Cara come rimborso spese per servizi di «assistenza spirituale». Lo stipendio di un amministratore delegato della misericordia.

Quando Gratteri elogiava don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su "Vita". Il magistrato che ha lanciato l'operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone nell'ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e 'ndrangheta nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all'ex governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.

Incipit del capitolo VI di “Funerali e Matrimoni” dal libro Acqua Santissima- la chiesa e la ‘ndrangheta: storie di potere silenzi e assoluzioni”: «Se feste e processioni servono per garantire ai clan legittimazione e consenso sociale, i funerali rappresentano il giusto tributo a boss e picciotti, ricordati più come benefattori che come criminali». Seguono i racconti dell’ultimo saluto ad alcuni dei nomi più in vista delle ‘ndrine calabresi: fra gli altri quello del crotonese Luigi Vrenna («i suoi funerali vengono officiati nella chiesa di san Francesco da due preti fra cui un cugino del boss» o quello di Girolamo “Mommo” Piromalli «celebrato nella chiesa parrocchiale si Sant’Ippolito in piazza Duomo a Gioia Tauro». Continua il libro, riferendosi alla benevolenza con alcuni religiosi avevano celebrato i funerali dei capo clan: «Non tutti però si comportavano alla stesso modo. Chi per esempio? «Don Pino Demasi, vicario generale della diocesi di Oppido Palmi e referente territoriale di Libera» che «prendendo atto delle disposizioni del questore che decide di vietare lo svolgimento dei funerali in forma pubblica, non fa entrare in chiesa, neanche per la benedizione, la salma di Domenico Alvaro, detto Micu u Scagghiuni, boss di Sinipoli, morto il 26 luglio 2010 nel suo letto all’età di 85 anni».

Il 29 agosto 2001 esplode una bomba carta sotto le finestre di don Edoardo Scordio…Don Scordio noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre intorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani ad ispirare il film “Il coraggio di parlare di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso. Qualche pagina più in là. «Stessa tempra di don Demasi, dimostra molto prima, a Isola Capo Rizzuto, don Edoardo Scordio, parroco della chiesa dell’Assunta. In occasione dell’omicidio di Domenico Maesano, avvenuto il 9 ottobre del 1988, non perde l’occasione di bacchettare i presenti: “Invece di vedervi qui, spettatori muti e rassegnati oltre che schiavi delle bravate e della tirannia delle famiglie che hanno comodamente preso assoluto possesso di questo territorio, sarebbe stato tanto nobile e dignitoso vedervi radunati in piazza magari solo con un cartello con scritto NOI NON CI STIAMO”. Ancora da Acqua santissima: «Il 29 agosto 2001 esplode una bomba carta sotto le finestre di don Edoardo Scordio…Don Scordio noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre intorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani ad ispirare il film “Il coraggio di parlare di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso». Acqua santissima è uscito per Mondadori il 29 ottobre del 2013. A firmalo il giornalista, saggista Antonio Nicaso e il magistrato Nicola Gratteri, entrambi considerati a ragione fra i massimi esperti di 'ndrangheta nel mondo. Nicola Gratteri, come noto, nella veste di procuratore capo della Direzione Distrettuale Antimafia sta coordinando l’operazione Jonny che ha portato al fermo di don Scordio e di Leonardo Sacco, rispettivamente correttore e governatore della Misericordie di Isola Capo Rizzuto, forse il maggiore gruppo di volontariato ispirato da Scordio. Così il comunicato emesso dalla questura di Crotone (qui la versione integrale): «…Più specificamente è stato documentato come la cosca Arena, attraverso l'operato di Sacco Leonardo – governatore dell'associazione di volontariato "Fraternità di Misericordia" di Isola di Capo Rizzuto, nonché presidente della Cofraternita Interregionale della Calabria e Basilicata - si sia aggiudicata gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per la gestione dei servizi - in particolare quello di catering - relativi al funzionamento del centro di accoglienza richiedenti asilo "Sant'Anna" di Isola di Capo Rizzuto e di Lampedusa, affidati in sub appalto a favore di imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di 'ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all'accoglienza dei migranti. In particolare, le indagini hanno documentato come le società di catering riconducibili ai cugini Poerio Antonio e Fernando, nonché a Muraca Angelo, dal 2001 abbiano ricevuto, inizialmente con la procedura dell'affidamento diretto e successivamente in subappalto, la gestione del servizio mensa del centro di accoglienza isolitano la cui conduzione era stata ottenuta dall'associazione di volontariato "Fraternità di Misericordia": sino al 2009 in via d'urgenza, in ragione dello stato di emergenza dovuto all'eccezionale afflusso di extracomunitari che giungevano irregolarmente sul territorio nazionale;

dal 2009 a seguito di tre gare d'appalto vinte. Al riguardo, le indagini hanno evidenziato come l'organizzazione criminale, al fine di neutralizzare le interdittive antimafia che nel tempo avevano colpito le proprie società' di catering, avesse provveduto più volte a mutamenti della ragione sociale e dei legali rappresentanti delle aziende controllate, proprio per mantenere inalterato il controllo della filiera dei servizi necessari al C.A.R.A. E' stato pertanto documentato l'imponente flusso di denaro pubblico percepito dalle imprese riconducibili alla cosca nell'arco temporale 2006 - 2015 per la gestione del CARA di Isola di Capo Rizzuto, pari a 103 milioni di euro, dei quali almeno 36 milioni di euro utilizzati per finalità diverse da quelle previste (quelle cioè di assicurare il vitto ai migranti ospiti nel centro) e riversati invece, in parte nella c.d. "bacinella" dell'organizzazione per le esigenze di mantenimento degli affiliati, anche detenuti, e in parte reimpiegati per l'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento in favore del sodalizio. Le ingenti somme da destinare all'organizzazione mafiosa venivano fatte confluire alla cosca sia con ripetuti prelievi in contante dal conto della "Misericordia" e delle società riconducibili agli indagati, sia attraverso erogazione di ingenti somme a fini di prestito, sia ancora attraverso pagamenti di inesistenti forniture, false fatturazioni, acquisto di beni immobili per immotivate finalità aziendali. In tale quadro, una somma consistente veniva distribuita indebitamente al sacerdote, don Scordio Edoardo, parroco della Chiesa di Maria Assunta, a titolo di prestito/contributo e pagamento di asserite note di debito: solo nel corso dell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale che avrebbe reso ai profughi, ha ricevuto 132 mila euro. In particolare, don Scordio, gestore occulto della Confraternita della Misericordia, è emerso quale organizzatore di un vero e proprio sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi, riuscendo ad aggregare le capacità criminali della cosca Arena e quelle manageriali di Leonardo Sacco al vertice della citata associazione beneficala lui fondata…».

Sul centro di accoglienza crotonese "dieci anni di malaffare" gestiti dalla cosca Arena. Ecco i personaggi coinvolti: dal manager "amico" dei potenti al parroco avido, scrive il 16 maggio 2017 Panorama. C'è una cosca potente e storica della 'ndrangheta del crotonese, gli Arena. E poi c'è il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) più grande d'Europa, capace di ospitare 1.216 migranti, quello del paese crotonese di Isola Capo Rizzuto. Il risultato è un film già scritto? Il Cara diventa il "bancomat della mafia" e agli ospiti viene servito "cibo per maiali" (per lo meno a quei fortunati che riescono a ricevere qualcosa da mangiare). 

Complici: il giovane manager che amava farsi fotografare coi potenti d'Italia, di destra e di sinistra (Renzi, Berlusconi, Alfano, papa Benedetto incluso), e il prete che più che buon pastore era un avido lupo. Ovvero Leonardo Sacco, governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, e don Edoardo Scordio, parroco della Chiesa di Maria Assunta. Questa la lorda trama ricostruita dall'inchiesta Jonny (dal nome di un maresciallo del Ros stroncato da un male incurabile mentre stava indagando), che all'alba del 15 maggio ha portato al fermo di 68 persone della cosca Arena, tra cui Sacco e don Scordio. Il Cara di Isola Capo Rizzuto ha vissuto "dieci anni di malaffare", come ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. È stato gestito in modo mafioso dalla famiglia Arena, generando uno spaccato talvota "raccapricciante". Più pulp di una pellicola di Tarantino. Fino al 2006 il Cara era gestito dal Comune di Isola Capo Rizzuto, ma alla scadenza del bando il Comune, guidato da tre commissari straordinari dopo lo scioglimento per infiltrazione mafiosa, non partecipò ulteriormente. Fu allora che subentrò la Misericordia locale, che avrebbe stretto un patto sporco con la cosca Arena.  La 'ndrina si sarebbe aggiudicata gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Su 103 milioni di euro erogati dallo Stato dal 2006 al 2015 per il Cara di Isola Capo Rizzuto, la 'ndrangheta ne avrebbe distratti almeno 36 milioni, usati per finalità ben diverse da quella originaria di assicurare il vitto ai migranti del centro. Soldi, soldi, soldi, impiegati nell'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento, tanto che, soltanto il Ros, ha sequestrato beni per 70 milioni di euro, tra i quali un ex convento, alberghi e società di viaggio, auto di lusso e barche. Dai filmati e dalle intercettazioni ambientali risulta che al Cara il cibo non bastava per tutti e quello che c'era era di pessima qualità: "Spesso era quello che solitamente si dà ai maiali", ha denunciato Gratteri. 

Il ruolo di Leonardo Sacco. Pedina centrale di questi affari nerissimi Leonardo Sacco, imprenditore legato ad ambienti politici di vari schieramenti, in passato anche vicepresidente nazionale della Misericordia. In qualità di governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, avrebbe permesso agli Arena di inserirsi nel business, consentendo a ditte create ad hoc di aggiudicarsi gli appalti non solo per il Cara di Isola Capo Rizzuto ma anche per quello di Lampedusa. In queste trame viscose gli Arena erano comunque in buona compagnia: anche altre cosche si spartivano i soldi. Il Cara è stato strumento di pace, sì, della pax mafiosa siglata nel 2004 da 'ndrine che fino a poco prima si combattevano a colpi di bazooka. "Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia", ha detto il comandante del Ros Giuseppe Governale. "La 'ndrangheta presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i propri interessi". 

Il ruolo di don Scordio. Un altro "prescelto" sarebbe stato don Edoardo Scordio, gestore occulto della Misericordia. Più ancora di Sacco, sarebbe stato l'organizzatore di un vero e proprio sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi. Secondo gli inquirenti avrebbe riunito in sé le capacità criminali degli Arena e quelle manageriali di Sacco. A lui, solo nel 2007, sono andati 132 mila euro: si trattava di soldi destinati all'acquisto di giornali per i migranti, ma visto che i giornali si deteriorano - questa la sua giustificazione - meglio destinarli a proprio conto per servizi di assistenza spirituale. Secondo le accuse don Scordio avrebbe anche avuto la capacità di riciclare denaro in Svizzera grazie al fratello che vi risiede. "Questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra", le parole di Governale. "Abbiamo documentato centinaia di migliaia di euro per il prete, che aveva un ruolo importante", ha aggiunto Gratteri, secondo cui "quella dei preti conniventi è una situazione a macchia di leopardo". 

Crotone, il business della ‘ndrangheta sulla pelle dei migranti. Arrestati il governatore della Confraternita Misericordia e il parroco di Isola Capo Rizzuto. Il clan Arena sarebbe entrato nella gestione del Cara più grande d’Europa attraverso la Confraternita, che gestisce un business milionario, anche in un immobile confiscato, scrive Lidia Baratta il 15 Maggio 2017 su "L’Inkiesta”. Isola Capo Rizzuto era diventata l’isola del tesoro per la Confraternita Misericordia. Un tesoro nascosto tutto nel Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Crotone, il Cara più grande d’Europa. In grado di attirare milioni di euro di fondi Ue. E anche le attenzioni della ‘ndrangheta, che dal 2006 al 2015 solo con il business dei migranti a Crotone avrebbe incassato 36 milioni di euro. Secondo l’ultima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, la potente cosca Arena aveva ormai in mano la gestione dell’hub per l’accoglienza crotonese attraverso la testa di ponte della Confraternita Misericordia, che da dieci anni gestisce la struttura da 1.216 posti. L’ipotesi è che il clan si sia infiltrato nel settore aggiudicandosi gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione, «affidati a favore di imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di ‘ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all’accoglienza dei migranti». Tra le 68 persone finite agli arresti nell’operazione “Jonny”, ci sono Leonardo Sacco, presidente della sezione Calabria e Basilicata della Confraternita, e anche il parroco del paese, don Edoardo Scordio, storico fondatore della Misericordia, entrambi accusati di associazione mafiosa. Sacco avrebbe stretto accordi con Scordio per accaparrarsi i subappalti del catering del centro. Chiesa e impresa andavano a braccetto nel nome dell’accoglienza dei migranti. «Cinquecento migranti dovevano pranzare, ma al campo arrivavano 250 pasti», ha spiegato procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri. «I restanti migranti o mangiavano la sera o addirittura non mangiavano. E tutto questo mentre il prete, Sacco e i loro amici si ingrassavano e compravano auto di lusso, appartamenti e barche». Il Centro di accoglienza e la Misericordia erano ormai «il bancomat della ‘ndrangheta». Già nel 2013 sulla struttura era stata aperta un’indagine proprio sui numeri dei pasti consegnati al centro di accoglienza. Dai registri veniva fuori che il Cara ospitava 1.600 persone, ma nei furgoni del catering c’erano meno della metà dei pasti. Dichiarando presenze maggiori – avevano ipotizzato gli inquirenti – nelle casse arrivavano maggiori profitti. E anche stavolta sarebbero stati i pasti il grimaldello per fare soldi. Secondo gli inquirenti, Sacco poteva contare sulla ditta “La Vecchia Locanda”, che fino al 2011 gestiva l’appalto della fornitura di pasti nel centro di accoglienza, salvo poi perderlo quando la prefettura ritirò il certificato antimafia per i contatti sospetti del presidente Antonio Poerio con la ’ndrangheta. La commessa poi era passata nelle mani della ditta del cugino di Poerio. Gli investigatori hanno calcolato un totale di 2,8 milioni distratti, con finalità che non avrebbero a che fare con l’accoglienza dei migranti. Un business milionario, quello della Misericordia, che sul territorio dà lavoro a circa 280 persone. La Fraternita ha un bilancio da 17 milioni di euro, a cui vanno aggiunti i ricavi della Miser.Icr, l’impresa sociale controllata al 100%, più che raddoppiati dal 2014 al 2015: da 800mila euro circa nel 2014 a oltre 2,2 milioni di euro nel 2015. E tutto “grazie” ai migranti stipati nel Cara. Secondo gli investigatori, l'affare veniva però spartito tra diverse famiglie mafiose della zona, tanto che il sospetto è che l’apertura del Cara undici anni fa abbia portato anche alla pax mafiosa tra chi prima non esitava a spararsi addosso. La struttura del Cara si trova proprio di fronte all’aeroporto di Crotone, che la stessa Misericordia ha contribuito a salvare erogando un contributo di circa 50mila euro, siedendo anche nel cda. Ma non è l’unica diversificazione negli investimenti, visto che la Misericordia nel 2014 ha acquisito anche la squadra di calcio del paese, la Polisportiva ICR, appena promossa in D, presieduta da Leonardo Sacco e gestita in passato dagli Arena. La Fraternita gestisce pure quattro progetti Sprar, una struttura per adulti e tre per minori non accompagnati. Oltre a un micronido, una materna, e scuole elementari e medie. E persino un centro per disabili, in un immobile confiscato guarda caso proprio al clan Arena. A capo dell’impero c’è Leonardo Sacco, una figura in grado di tessere relazioni su diversi livelli, fino addirittura al Papa. Le indagini degli inquirenti su di lui sarebbero partite da una fotografia che lo ritrae al battesimo del figlio di un membro del clan Arena in veste di padrino. Non solo. Come aveva raccontato L’Espresso, Sacco comparirebbe anche in una riunione del clan Arena del 2005. Ma il suo album fotografico con personalità di spicco è più che variegato. La sua faccia è ritratta in una fotografia con l’attuale ministro degli Esteri Angelino Alfano, che Sacco stesso ha postato sul suo profilo Facebook. Pochi mesi dopo quella foto, la Misericordia ha vinto con procedura negoziata l’appalto per il centro di accoglienza di Lampedusa. E a gestirlo era stato chiamato Lorenzo Montana, cognato di Alessandro Alfano, fratello di Angelino, che si dimise poco dopo a seguito delle polemiche. Non solo. Sacco si è fatto fotografare con Matteo Salvini, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e persino con il Pontefice. Le conoscenze di Mr Misericordia non avevano colore politico.

Misericordia, così i clan hanno guadagnato 100 milioni col business dell'accoglienza. L'inchiesta della procura antimafia di Catanzaro e del Ros dei Carabinieri svela come la 'ndrangheta ha avuto in mano la gestione del centro per migranti più grande d'Europa. Dalle intercettazioni i retroscena di un impero fondato sull'emergenza. Con Leonardo Sacco ras nazionale del settore, scrive Giovanni Tizian il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Per la 'ndrangheta sono semplicemente «negri». Termine razzista, che ricorre spesso negli atti dell'inchiesta antimafia sui signori dell'accoglienza. Un lessico dispregiativo dietro il quale, però, si nasconde uno dei più grossi affari della mafia calabrese. Un business da oltre 100 milioni di euro, puliti e col timbro dello Stato. A Isola Capo Rizzuto, provincia di Crotone, i migranti sono roba loro. Un affare da gestire in famiglia, che qui si chiama Arena. Così Leonardo Sacco è diventato il ras nazionale del settore gestendo per oltre 10 anni il più grande hub dell'accoglienza d'Europa. Sacco è il governatore della Misericordia di Isola, già vicepresidente nazionale della confraternita che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco è inoltre presidente regionale della medesima associazione. Uomo di potere, relazioni e, ipotizzano gli inquirenti, di mafia. Il suo book fotografico comprende varie personalità della politica: da Matteo Renzi ad Angelino Alfano, passando per Matteo Salvini. Nulla di penalmente rilevante, ci mancherebbe, sono solo scatti durante eventi pubblici. Tuttavia sono utili per comprendere il personaggio Sacco. Mr Misericordia è tra i 68 fermati dell'inchiesta “Jonny” coordinata dalla procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e condotta dal Ros dei Carabinieri- il reparto comandato dal generale Giuseppe Governale- e dalla Guardia di Finanza di Catanzaro per quanto riguarda tutto il filone tributario. Insieme a Leonardo Sacco, indagato per associazione mafiosa, è finito nella rete degli inquirenti anche il parroco don Edoardo Scordio, il fondatore della locale Misericordia, anche a lui il procuratore aggiunto dell'antimafia Vincenzo Luberto contesta il reato associativo. Nell'elenco degli arrestati c'è, poi, l'imprenditore Antonio Poerio, che, secondo i detective del Ros, è una delle pedine centrali del sistema messo in piedi dalla Misericordia di Isola. «Il Centro di accoglienza e la Misericordia sono il bancomat della ‘ndrangheta», ha spiegato ai giornalisti durante la conferenza stampa il generale del Ros Governale. Un quadro agghiacciante, quello emerso dall'inchiesta dei suoi uomini. La cosca Arena avrebbe scelto Sacco, il cavallo su cui puntare per spartirsi l'affare del secolo. «Su 100 milioni di euro, 32 sono andati alla cosca Arena. Pensate che il prete, solo in un anno, ha percepito 150mila euro per l’assistenza spirituale dei migranti» ha detto invece il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto. «Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra», aveva le idee chiare Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme all'allora ministro degli Interni Angelino Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa ormai ingiallita del 2007 firmata dai carabinieri del Ros veniva già indicato come in contatto con una famiglia della ’ndrangheta locale, gli Arena. Dopo molti anni, nel 2016, Poerio continuava a esprimersi alla stessa maniera: «ai negri gli toccano due euro e cinquanta al giorno». Utilizzava parole di disprezzo per i migranti, salvo poi lucrare sulla loro pelle. Fino al 2011 Poerio con la sua impresa - la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl, che fornisce i pasti anche nel centro di Lampedusa. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Pasquale è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. «Ma vedi che non è che teniamo la fotografia con Totò Riina» dice un Antonio Poerio molto preoccupato per la pubblicazione sull'Espresso della foto insieme al ministro Alfano, «Io tengo la fotografia con un Ministro ... ma chi cazzo non la vorrebbe una fotografia con un Ministro, compà ma stiamo coglioneggiando? E poi dove ce l'ho sta condotta macchiata?» si chiede Poerio. Le cimici piazzate dagli investigatori del Ros registrano lo sfogo di Poerio dopo la pubblicazione a febbraio scorso dell'articolo sul settimanale. Lo stesso imprenditore fornisce alcuni particolari di quell'evento a cui ha partecipato con Leonardo Sacco: «Noi a quella cosa, a quella cena che siamo andati, prima di andare, dieci giorni prima abbiamo mandato i nostri documenti ...il loro ufficio accertano chi sono io, chi è quello, quello e quell' altro». Il suo interlocutore risponde, sereno, «evidentemente non c'era niente», un assist per Poerio che aggiunge: «E hanno visto che io ero buono». In realtà su Poerio già allora, era il 2014, c'era più di qualche indizio sull'opacità delle sue frequentazioni. Monopolio dell'accoglienza gestito per anni in regime di emergenza, con chiamata diretta, quindi. Poi, però, Sacco è rimasto sulla scena anche quando la prefettura si è decisa a scegliere i gestori del centro con i bandi pubblici. Prima e dopo, c'è sempre il gruppo di Mr Misericordia. Chi doveva controllare? Su questo punto è probabile che le indagini proseguano. Nel decreto di fermo i magistrati si soffermano su alcune intercettazioni che riguardano la commissione aggiudicatrice, l'organo, cioè, che ha dato il via libera alla Misericordia di Sacco & Co. In alcuni dialoghi emerge il terrore per un eventuale assegnazione ad altre organizzazioni che non fossero la Misericordia. «Gli avvocati della Misericordia come esco fuori mi ammazzano», avrebbe riferito un componente della commissione in una delle riunioni riservate in prefettura. I pm aggiungono: «Il processo decisionale o meglio i commissari “locali” - a differenza di quelli provenienti da fuori regione – hanno paura o peggio, risultano condizionati dalle interferenze dei gestori la Misericordia». C'è un altro episodio inquietante, che ha per protagonista sempre Leonardo Sacco. A detta dei Poerio, Mr Misericordia era stato a Roma e qui aveva appreso dell'esistenza di un'informativa su di loro, ma era certo del fatto di aver neutralizzato le investigazioni. Tuttavia per sicurezza, Antonio Poerio «invitava Fernando a prendere sempre più le distanze dagli Arena, nel senso dio evitare contatti diretti con esponenti della criminalità organizzata isolitana». «Spendevano pochissimo attesa la qualità e la quantità del cibo che propinavano agli extracomunitari, gonfiando i costi per il tramite di fatturazioni per operazioni inesistenti la somministrazione del vitto sia stata realmente inferiore a quella rendicontata e chiesta a pagamento» si legge nel decreto di fermo. Dalle telecamere posizionate dalla guardia di finanza all'interno dei locali del centro di accoglienza è emerso che «i quantitativi somministrati giornalmente sono inferiori al numero ordinato-previsto dalla Convenzione, in quanto molte volte i contenitori delle pietanze venivano interamente svuotati nel corso della distribuzione che normalmente non avveniva nei confronti di tutti i migranti presenti, tanto che, in alcuni casi, gli utenti ancora in fila rimanevano senza mangiare. In rare occasioni, le pietanze rimaste venivano “diligentemente” ricoperte e riportate con i furgoni presso le cucine, per un probabile reimpiego il giorno successivo». Non solo, dalle intercettazione tra un dipendente del centro di accoglienza e la vicedirettrice, Caterina Ceraudo, si capisce che la qualità del cibo fornito ai migranti è di pessima qualità. I due parlano di pollo «minuscolo, piccolo, brutto» e che il problema è stato «ammucciato» (nascosto) perché, in sostanza, ai subfornitori «non gliene frega niente». E ancora: «il pollo con cattivo odore, diciamo va bene? A me mi è capitato solo oggi e non ti dico: gli ospiti stavano facendo di nuovo la rivolta... a calci e... vabbè... ho rimediato che sono andato di là e mi sono fatto fare le cotolette». Oppure: «il pollo mezzo crudo». L’indagine comunque continua. «Ancora non siamo appagati» ha avvertito il procuratore Nicola Gratteri che ha sottolineato come più avanti «si vedranno i rapporti di Sacco con altri pezzi delle istituzioni».

Chi è Leonardo Sacco, l'imprenditore dell'accoglienza che imbarazza Alfano. Un imprenditore che ha creato il suo impero con i centri di accoglienza. Avvicinando il ministro e famiglia. Ma gli investigatori sospettano che sia legato ai clan calabresi, scrive Giovanni Tizian il 9 febbraio 2017 su "L'espresso". C’è un’inchiesta antimafia che fa tremare i signori dell’accoglienza. Descrive nei dettagli le origini di un impero fondato sul business dei migranti. Con la ’ndrangheta protagonista, infiltrata nelle pieghe dell’emergenza. Pronta a lucrare sulla pelle dei rifugiati. Un crinale, quello dell’accoglienza, in cui si intersecano interessi diversi. Capi bastone, imprenditori e politici. Ognuno con un ruolo ben determinato. Ecco perché l’indagine sull’accoglienza dell’antimafia di Catanzaro fa paura a molti. E crea imbarazzo a quei politici, ministri, sottosegretari e prefetti che negli ultimi anni hanno avuto a che fare con Leonardo Sacco, il governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, satellite calabrese della storica Confraternita delle Misericordie, che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco ha ricoperto peraltro la carica di vicepresidente nazionale della Confraternita. Ora è presidente della federazione Basilicata-Calabria, che partecipa al Consorzio “Opere di Misericordia”. L’indagine in realtà va avanti da tempo. La prima informativa reca la data del 2007. Sono trascorsi dieci anni. Un’eternità, che ha permesso al sistema su cui il Ros dei Carabinieri aveva acceso un faro di sopravvivere serenamente e di continuare a fare incetta di appalti, da Crotone a Lampedusa. Sacco può contare su amicizie trasversali, dal centrosinistra al centrodestra. Nel tempo ha costruito una rete di rapporti diplomatici con le istituzioni che si occupano dell’emergenza immigrazione. Sacco è tante cose. Imprenditore di successo, spazia fino al noleggio di imbarcazioni. Manager della solidarietà. Presidente della squadra di calcio locale che milita in Eccellenza. Ma mister Misericordia è soprattutto un personaggio abile nel tessere relazioni istituzionali. Per capire meglio la sostanza di questi rapporti è utile ricordare un’immagine scattata nel febbraio di tre anni fa alla convention dei vertici calabresi del partito del Nuovo centrodestra convocata a Cosenza. In quell’istantanea c’è Leonardo Sacco in posa con il ministro Angelino Alfano, all’epoca numero uno del Viminale. Il ministero con competenza diretta nell’emergenza sbarchi. All’evento era presente anche Giuseppe Scopelliti: un mese dopo sarà condannato in primo grado e darà le dimissioni da presidente della Regione. Quella sera con Leonardo Sacco, al fianco di Alfano, c’era anche un sorridente Antonio Poerio, che fino al 2011 ha gestito il servizio catering all’interno del centro di accoglienza crotonese. Fino a quando la prefettura non gli ha revocato la certificazione antimafia. Poerio è l’imprenditore che il Ros già nel 2007 definiva in contatto con alcuni personaggi del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Qualche mese dopo la foto di rito tra Alfano, Sacco e Poerio, l’associazione Misericordia ottiene un’importante commessa. La prefettura di Agrigento, con procedura negoziata e d’urgenza, gli affida la gestione del centro di prima accoglienza di Lampedusa. Per dirigere la struttura viene scelto Lorenzo Montana. Travolto, però, dalle polemiche per la sua parentela con il fratello del ministro dell’Interno. Infatti la moglie di Alessandro Alfano è la figlia di Montana. Messo alle strette il prescelto ha poi deciso di rinunciare all’incarico. Ora, però, l’Espresso è in grado di ricostruire la vicenda. Fu la Misericordia a fare il suo nome, come Montana stesso ha ammesso. Risulta tuttavia che il curriculum del suocero di Alfano junior non fosse adatto a quel ruolo. Lui, in fondo, proveniva dall’Agenzia delle Entrate e con l’immigrazione non aveva mai avuto a che fare. Ma il dato rilevante è un altro: quella nomina e la successiva bufera mediatica hanno mandato su tutte le furie il prefetto Mario Morcone, capo dell’Immigrazione del Viminale, che con Leonardo Sacco è in contatto continuo. I bene informati riferiscono di un Morcone decisamente irritato per la mossa ritenuta un vero azzardo. E di un Leonardo Sacco che avrebbe persino sollecitato l’intervento della sottosegretaria ai Beni culturali Dorina Bianchi. Con l’obiettivo di far capire ad Alfano che non era sua intenzione metterlo in difficoltà con la nomina di Montana. L’episodio è tra quelli che gli investigatori dell’antimafia stanno rileggendo alla luce di quella sbiadita informativa di dieci anni fa, in cui il nome di Sacco e Poerio veniva accostato al potente clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Dorina Bianchi, 50 anni, è molto vicina al ministro fresco di nomina agli Esteri. La storia politica della parlamentare è costellata da cambi di casacca: in quindici anni sette partiti. Democristiana di base con alcune puntate nel centro sinistra, Pd incluso, per poi tornare a destra, Pdl prima e Ncd dopo con il collega Alfano. Bianchi è in ottimi rapporti con il governatore Sacco. La parlamentare d’altronde è di Crotone. E qui ha corso come candidata a sindaco nel 2011. Era la parentesi berlusconiana. Il Cavaliere in persona chiuse la campagna elettorale della sottosegretaria. Non bastò, perché perse al ballottaggio. Dorina l’alfaniana, tuttavia, si è distinta anche per un’altra battaglia che stava molto a cuore a Leonardo Sacco: l’aeroporto di Crotone. Sacco, infatti, è stato nel Cda della società di gestione. Per questo nell’onorevole Bianchi ha sempre cercato un appoggio, anche solo per sollecitare l’intervento dell’allora ministro Ncd Maurizio Lupi. Che in effetti volerà nel crotonese per rassicurare gli interessati. Insomma, Sacco aveva trovato in Bianchi una chiave per parlare ai ministri della Repubblica. Eppure, per quanto il governatore calabrese della Misericordia cercasse di presentarsi come un paladino della legalità, organizzando convegni sulla mafia insieme a illustri ospiti, le ombre e i sospetti sulla sua figura erano noti da tempo. Dicevamo della trasversalità politica di Sacco. Ha, infatti, ottimi rapporti con alcuni Democratici renziani. Alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato alla presidenza della Regione, ha fatto il tifo per Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo Calabro di rito renziano e membro dell’Assemblea nazionale del Pd assai quotato tra gli eletti del giglio magico. Il governatore dell’accoglienza ha poi avuto la grande fortuna di conoscere Matteo Renzi, poco prima che diventasse premier. Era il 2012 e Sacco, ai tempi numero due della Confraternita, ha incontrato l’allora sindaco di Firenze durante un evento pubblico sul volontariato. Alle buone relazioni politiche, si aggiungono poi quelle col mondo cattolico ed ecclesiastico. L’enfant prodige dell’accoglienza calabrese è l’allievo di don Edoardo Scordio: il parroco fondatore della Misericordia di Isola, e in contatto con i vertici dei padri Rosminiani, ordine a cui appartiene il sacerdote. Tornando al rapporto dei detective di dieci anni fa, dal contesto descritto dai carabinieri del Ros poco o nulla è cambiato. Fatta eccezione per qualche sigla aziendale. Di quell’informativa dettagliata, tuttavia, si sono perse le tracce. Già allora gli investigatori gettavano un’ombra inquietante sulla gestione del centro di accoglienza crotonese. L’ipotesi mai tramontata è che il clan Arena di Isola Capo Rizzuto si fosse inserito nel business dell’accoglienza. Grazie proprio alla fornitura dei pasti all’interno della struttura dello Stato. Non deve sorprendere, del resto questa ’ndrina è dotata di uno spiccato fiuto per gli investimenti di nuova generazione. È accaduto, per esempio, con il boom delle energie alternative. Gli Arena hanno riempito di pale eoliche le campagne circostanti, in combutta con società estere. Il capostipite è il boss Nicola Arena. Il nipote, Carmine, fu ucciso nel 2004 a colpi di bazooka mentre si trovava nella sua auto blindata. Le nuove leve continuano a dettare legge. Che siano pale eoliche, rifiuti o immigrati, agli imprenditori delle cosche interessa relativamente. Per il semplice fatto che dove girano quattrini il clan locale mette il naso ed entrambe le mani. Nel documento investigativo del 2007, letto dall’Espresso, un’intercettazione rafforza il sospetto che i boss abbiano mangiato una fetta della torta milionaria dell’affare: «Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra». Il sistema lo spiegava Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme ad Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa del Ros già veniva indicato come in contatto con una famiglia della ’ndrangheta locale. Fino al 2011 con la sua impresa - la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Pasta, patate, riso, pollo e verdure entravano nel centro a bordo dei mezzi targati Vecchia Locanda. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Insomma, l’affare è rimasto in famiglia. Tuttavia l’azienda di Pasquale gode di referenze molto in alto: la società Quadrifoglio, infatti, aveva stipulato con la prefettura una convenzione per fornire il servizio di mensa ai poliziotti della questura crotonese. Un curriculum, perciò, al dì sopra di ogni sospetto. Il titolare, Pasquale Poerio, è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Due anni fa Sacco, rispondendo a un articolo pubblicato sull’Espresso definiva l’associazione che rappresenta «il braccio dello Stato» nell’accoglienza. Al pari, in pratica, dei colossi legati a Comunione e liberazione e di Legacoop che hanno trasformato l’accoglienza in un business, come mafia Capitale ha insegnato. Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria. Un tempo Crotone era la Torino del Sud, oggi di quell’industrializzazione sono rimaste solo le scorie velenose. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’ indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Si sarebbe potuto evitare se solo quel fascicolo col timbro del 2007 avesse avuto una fortuna diversa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. E poi ci sono le due gare vinte. L’appalto del centro crotonese, 12 milioni e mezzo, e quello di Lampedusa, 4 milioni all’incirca, da dividere con la Croce Rossa. Quest’ultimo è stato assegnato nell’ottobre scorso: a gestirlo sarà il raggruppamento formato da Croce Rossa e Consorzio Opere di Misericordia, struttura della confraternita di cui fanno parte solo alcune realtà territoriali, tra queste la federazione Basilicata-Calabria presieduta da Leonardo Sacco. Il direttore, questa volta, non ha parenti ingombranti e proviene dalla Croce Rossa. Non vale per il catering: fornito sempre dalla Quadrifoglio, come del resto, è avvenuto negli anni scorsi, a partire dal 2014 quando a Lampedusa lavorava soprattutto la Misericordia di Capo Rizzuto. Nella forma nulla da eccepire: Il subappalto è previsto nel capitolato d’appalto. Tutto nella norma, dunque, se non fosse per quel filo che lega Lampedusa al lato più oscuro di Isola Capo Rizzuto.

I clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c'è il centro d'accoglienza più grande d'Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive Gianfrancesco Turano l'11 aprile 2013 su "L'Espresso". A Isola Capo Rizzuto, pochi chilometri a sud di Crotone, hanno inventato l'economia delle tre P. Pecore, pedoni e parchi eolici. Le pecore ci sono sempre state, a zonzo per i pascoli del Marchesato, terre fra le più belle di Calabria. I parchi eolici sono nati per sfruttare il vento dello Jonio e sono di due tipi. Quelli con le pale ferme non sono più pigri degli altri. Sono sequestrati per mafia in quanto proprietà della cosca principale della zona, gli Arena, avversari dei Grande Aracri di Cutro e dei Nicoscia, anche loro di Isola. La terza p è quella dei pedoni ed è segnalata dai cartelli stradali disposti lunga la statale 106 "Jonica". L'Anas li ha piazzati su disposizione della Prefettura di Crotone dopo i primi incidenti stradali. I pedoni, emigranti afgani, pakistani, nordafricani, escono dal centro di accoglienza di Sant'Anna e marciano verso sud, dov'è il centro di Isola Capo Rizzuto, o verso nord, in direzione di Crotone. Uomini e donne, giovani e anziani, si buttano lungo una strada che è già tra le più pericolose d'Italia per andare a lavorare nei campi di finocchio vicini oppure come parcheggiatori abusivi o venditori di giocattoli sotto i portici di piazza Pitagora nel centro del capoluogo. Molti vanno semplicemente a fare la spesa, con regolare carrello, al Lidl o al Pam di Isola Capo Rizzuto. L'andirivieni dura dalle prime ore del mattino, quando i migranti si presentano alla sbarra del centro Sant'Anna, dove c'è il posto di blocco delle forze dell'ordine, fino alle 22 quando scatta l'ultimo termine per il rientro. A Sant'Anna c'è l'hotel del clandestino più grande d'Europa: 1.500 posti che sfioreranno i 2 mila con l'arrivo imminente della bella stagione e la ripresa degli sbarchi. Soltanto i 1.500 che vivono nel Cda-Cara (centro di accoglienza e centro di accoglienza per richiedenti asilo) hanno il permesso di tentare l'avventura lungo l'asfalto della 106. I 120 ospiti della palazzina in cemento grigio costruita accanto al Cara, che è il Cie (centro di identificazione ed espulsione), sono detenuti a tutti gli effetti. Come tali, possono muovere poco l'economia. Non possono lavorare fuori, devono mangiare quello che mandano le mense Quadrifoglio e Vecchia Locanda di Isola e non possono organizzare grigliate di carne cotta sui tombini in ghisa delle fogne, come fanno i colleghi liberi del Cda-Cara. Possono però ribellarsi, come è accaduto lo scorso ottobre, quando alcuni di loro sono saliti sul tetto del Cie e hanno lanciato il possibile addosso agli agenti prima di essere arrestati, processati per direttissima e assolti, il 12 dicembre 2012, perché hanno agito per legittima difesa della loro dignità e - si legge nella sentenza del tribunale di Crotone - sono costretti a vivere tra «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli». Insomma, dentro una struttura «al limite della decenza». Vista dal marciapiede opposto della Statale 106, l'ex area dell'aeroporto militare di Crotone sembra una fabbrica più che una galera. Ma una funzione non esclude l'altra. Il business dei pedoni vale una ventina di milioni di euro all'anno, fra i costi diretti e l'indotto. Non poco per un zona che dovrebbe essere a vocazione turistica ma che dal turismo incassa sempre meno. Né potrebbe essere diversamente visto che le strade sono piene di spazzatura e il mare, come ormai in tutta la regione, è inquinato. L'aeroporto civile di Sant'Anna, costruito proprio di fronte al centro di accoglienza, è stato abbandonato dall'Alitalia e riaprirà a giugno grazie a qualche compagnia charter allettata con contributi pubblici. Previsti i voli dalla Russia piazzati dal governatore Giuseppe Scopelliti in tutta la regione, un collegamento con Torino e forse, misteri dei tour operator, con Santorini. Ma sulle prospettive del rilancio un albergatore locale si spiega con lucidità ragionieristica: «I russi per 42 euro al giorno vogliono il latte di gallina. Mi conviene tenermi questi a 50 euro». "Questi" sono i 220 poliziotti, finanzieri, carabinieri e soldati che si dividono sui quattro turni di sorveglianza al centro Sant'Anna. Hanno una diaria per vitto e alloggio di 50 euro che significa un esborso annuale di oltre 4 milioni in sole spese vive, senza considerare straordinari e altre indennità. Le forze dell'ordine sono distribuite nei vari alberghi e residence della zona fino a Crotone. Nessuno sembra avere pensato a utilizzare caserme o i tanti immobili sequestrati alla criminalità organizzata. Qualche risparmio c'è stato. Mantenere i pedoni della 106 costa quasi la metà dopo l'ultima gara d'appalto triennale che a novembre la Prefettura ha di nuovo assegnato alla Confraternita della Misericordia di Isola Capo Rizzuto in versione spending review. La onlus ha vinto con un consistente ribasso d'asta che ha portato il costo giornaliero di un migrante da 34,5 a 22 euro, pacchetto all inclusive per un esborso complessivo di 22 milioni di euro più Iva fino alla prossima scadenza del 2014. 

Se questa somma sia sufficiente e come sia gestita, lo racconta l'esodo dei migranti intorno all'ora in cui arrivano i pasti. La gente esce senza nemmeno aspettare il pullman-navetta che collega il Cara-Cie con i due centri abitati più vicini. I controlli sulle forniture, ossia cibo ma anche vestiario, coperte, schede telefoniche, sono impossibili, così come resta nel vago il numero dei presenti a Sant'Anna. I poliziotti interpellati durante l'inchiesta de "l'Espresso" hanno parlato di 1.200 persone al Cara e di una sessantina reclusi nel Cie al momento. Tutto è piuttosto vago ed elastico. Inoltre molti che da Sant'Anna sono usciti per tentare la sorte altrove in Italia devono tornare nel Marchesato per questioni burocratiche. L'anagrafe di Isola è competente per fornire il certificato di residenza che, a sua volta, è indispensabile per chiedere il permesso di soggiorno. Per i documenti dei migranti senza fissa dimora è stato predisposto un indirizzo unico, via Francesco Scerbo Vittime della Mafia, una strada virtuale che porta il nome di una tragedia vera. Scerbo era un giovane di 29 anni ammazzato per errore nel marzo del 2000 in un bar di Isola. I killer miravano a Franco Arena. La processione continua di migranti verso Isola è gestita da due uomini. Il primo è don Edoardo Scordio, parroco a Isola Capo Rizzuto dal 1985 nonché guida spirituale e strategica della Confraternita da lui fondata nel marzo di 25 anni fa. Il suo carisma è abbinato a un decisionismo da manager. Per questo in paese lo odiano o lo amano. I sostenitori lo raffigurano come un benefattore nella lotta contro i due mostri della zona, disoccupazione e 'ndrangheta, ed enumerano i rapporti cordiali con magistrati come Piero Luigi Vigna o gli ultimi due capi della Protezione Civile Franco Gabrielli e Guido Bertolaso. Per i detrattori invece don Scordio è una via di mezzo fra don Luigi Verzè, il fondatore del San Raffaele, e don Giovanni Stilo, sacerdote della Locride noto per le sue frequentazioni torbide con i potenti della zona. E se è vero che don Edoardo ha partecipato sei mesi fa al funerale dell'ex superprocuratore antimafia Vigna a Firenze, dove è la sede nazionale delle Misericordie, è anche vero che ha celebrato la funzione in memoria di Carmine Arena "cicalu", membro del clan dominante di Isola assassinato nel 2004 a colpi di kalashnikov e di lanciarazzi Rpg7 da un commando dei Nicoscia. Come scrive Gianfranco Manfredi nel libro "Atlante delle mafie", don Scordio ha celebrato nel 1996 il matrimonio di Raffaella Arena, figlia del boss Nicola. Nozze di gran lusso con 1.700 invitati al club Le Castella purtroppo terminate con un blitz dei carabinieri alla ricerca di latitanti. Il braccio operativo della Misericordia di Isola è Leonardo Sacco, 33 anni, che frequenta la Misericordia da quando ne aveva 9 e dalla parrocchia sperduta del Marchesato ha saputo scalare i vertici nazionali della confraternita fino a diventarne vicepresidente. Il governatore, come lo chiamano qui, ha un ottimo rapporto con l'altro governatore, il presidente della Regione Giuseppe Scopelliti, e soprattutto con la sua vice, la crotonese Antonella Stasi, nominata numero due della giunta calabrese senza dovere affrontare seccanti competizioni elettorali. Sacco - don Scordio docet - non smette di sottolineare il timbro di legalità delle operazioni economiche della Misericordia, anche quando la Misericordia - don Verzè docet - si è dotata di una società di capitali, la Miser Icr impresa sociale. Nel bilancio della Miser si parla di lotta alla 'ndrangheta, di «prevenzione alle infiltrazioni mafiose ovunque ve ne sia il rischio» e si sottolinea che «tutti i lavoratori dipendenti impiegati nella gestione dei Centri di accoglienza devono ottenere il gradimento della Prefettura di Crotone che li sottopone a un accurato screening». Lo stesso vale per i fornitori impegnati nell'appalto da 22 milioni di euro per il Cda-Cara-Cie di Sant'Anna. Ma poiché non di sola misericordia vive l'uomo, Sacco si è organizzato un'impresa per conto suo. Si chiama Sea Lounge e gestisce da due anni un paio di barche per i turisti estivi nonché alcuni servizi legati al Santuario di don Scordio, in particolare l'albergo e il centro congressi. Anche se il turismo in Calabria va male, la Sea Lounge va bene e in breve tempo ha messo insieme circa 1 milione di ricavi. Sacco condivide la Sea Lounge con due socie, Aurora Cozza e Lanatà. Le due signore e i loro mariti, i cugini Antonio e Fernando Poerio, gestiscono anche il catering del Sant'Anna con Quadrifoglio e Vecchia Locanda. Di recente i Poerio hanno lasciato le due imprese alle mogli e si sono messi da parte perché i loro certificati penali presentano qualche criticità: associazione a delinquere semplice, Iva non pagata, falsa fatturazione e, nel caso di Antonio, una condanna in giudicato per detenzione e fabbricazione illegale di arma da fuoco. Oltre a fare affari con fornitori che dovrebbe controllare, Sacco e la Misericordia stanno comprando dovunque nella zona: una quota nella società di gestione dell'aeroporto, una partecipazione nel giornale "Il Crotonese" e varie proprietà immobiliari a Crotone e a Isola. Il fiore all'occhiello è il Santuario della Madonna Greca, una sorta di San Giovanni Rotondo in miniatura voluto da don Scordio e completo di albergo con centro congressi dedicato al beato Antonio Rosmini. L'area, costruita a partire dal 1991, include un Aquarium di proprietà della Provincia ma gestito dalla Misericordia e da un centro sportivo con piscina, campi da tennis, calcio e anfiteatro che sarà inaugurato nel prossimo maggio grazie a un finanziamento di 1,5 milioni di euro. Tutto questo, ovviamente, sfugge ai pedoni che migrano lungo la Statale 106 tra Isola e Crotone. Qui in molti li vedono come un problema, li chiamano "nigri". E invece sono quelli che fanno girare quel poco di economia della zona. La prova? C'è un progetto per allargare il centro di accoglienza fino a 4 mila posti. La Misericordia di Isola è pronta alla nuova sfida.

'Ndrangheta, la cosca Arena: chi è e cosa controllava. Clan storico attivo nelle province di Catanzaro e Crotone, secondo le indagini aveva le mani sul centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, scrive il 15 maggio 2017 Panorama. La gestione dei migranti toccata dalle mani sporche della 'ndrangheta. Uno dei centri di accoglienza più grandi d'Europa, il Cara di Isola Capo Rizzuto, era controllato dalla cosca Arena, secondo le indagini che hanno portato al fermo di 68 persone. Tra queste anche il parroco del paese crotonese. Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza, su disposizione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, ha assestato un blitz. Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture e altri reati di natura fiscale, tutti aggravati da modalità mafiose. 

Chi è la cosca Arena. Gli Arena sono una 'ndrina, ovvero una cosca malavitosa della 'ndrangheta. Clan storico e potentissimo, è al centro di articolati traffici illeciti nelle province di Catanzaro e Crotone. Il suo boss Fabrizio Arena è stato arrestato nel 2010 dopo un anno di latitanza. Da decenni al centro delle vicende criminali nel crotonese, la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto aveva imposto la sua assillante presenza anche sull'area ionica della provincia di Catanzaro con estorsioni a tappeto ai danni di esercizi commerciali e imprese anche impegnate nella realizzazione di opere pubbliche. Secondo l'indagine denominata "Jonny", gli Arena agivano nella zona direttamente attraverso i propri affiliati, oppure tramite fiduciari nominati responsabili della conduzione delle attività delittuose o anche attraverso la messa "sotto tutela" di cosche alleate.

Cosa controllava la cosca Arena. Oltre alle tradizionali dinamiche criminali legate alle estorsioni, esercitate in maniera capillare sul territorio catanzarese e crotonese, la cosca Arena coltivava ingenti interessi nel mondo del gioco e delle scommesse. Ma, soprattutto, da oltre un decennio controllava a fini di lucro la gestione del Centro di accoglienza per migranti di Isola Capo Rizzuto (Crotone). Tramite Leonardo Sacco, governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, che gestisce il Cara di Isola Capo Rizzuto, la cosca sarebbe riuscita ad aggiudicarsi gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Gli appalti venivano affidati a imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di 'ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all'accoglienza dei migranti. Tra i fermati ci sono lo stesso Sacco e il parroco di Isola Capo Rizzuto, don Edoardo Scordio.

Secondo gli inquirenti, dal 2006 al 2015 le imprese riconducibili alla cosca Arena avrebbero avuto accesso a 103 milioni di euro per la gestione del Cara di Isola di Capo Rizzuto, dei quali almeno 36 milioni utilizzati per finalità diverse da quelle previste (cioè assicurare il vitto ai migranti ospiti nel centro). I soldi sarebbero invece stati riversati in parte nella cosiddetta "bacinella" dell'organizzazione, per le esigenze di mantenimento degli affiliati, in parte sarebbero stati usati per l'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento.  "Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia", ha detto il comandante del Ros Giuseppe Governale. Le somme per gli Arena venivano acquisite con ripetuti prelievi in contante dal conto della Misericordia e delle società riconducibili agli indagati oppure con l'erogazione di ingenti somme a fini di prestito o tramite pagamenti di forniture inesistenti, false fatturazioni, acquisto di beni immobili per immotivate finalità aziendali. Don Scordio, sacerdote della Chiesa di Maria Assunta, avrebbe ricevuto indebitamente a titolo di prestito-contributo e pagamento di note di debito ben 132mila euro solo nell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale presso i profughi. 

Cos'è il Cara di Isola Capo Rizzuto. Il Centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Isola Capo Rizzuto è uno dei più grandi d'Europa. Attivo dal 1999, accoglie i richiedenti asilo, rifornendoli di vestiti, cibo e alloggio, in attesa che venga definito il loro status giuridico. "Il Cara di Isola Capo Rizzuto era diventato una miniera di denaro per la cosca che, grazie alla complicità del responsabile dell'ente che gestiva il centro, già vicepresidente delle Misericordie, controllava appalti e forniture dirottando nelle casse della famiglia i fondi comunitari destinati ai profughi", dice la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi. "L'imponente operazione contro il clan Arena è un importante risultato nella lotta contro la 'ndrangheta e le infiltrazioni mafiose nella gestione dei migranti". 

'Ndrangheta, gli affari dei Piromalli nel mercato ortofrutticolo di Milano. Gli interessi della 'ndrina calabrese anche sul porto di Gioia Tauro e sul commercio di olio negli Stati Uniti, scrive Nadia Francalacci il 26 gennaio 2017 su Panorama. La potentissima cosca calabrese dei Piromalli avrebbe gestito e controllato il mercato ortofrutticolo di Milano, una rete di distribuzione di prodotti oleari negli Stati Uniti e, ovviamente, il porto di Gioia Tauro da dove transitavano frutta, verdura, olio e soprattutto tonnellate di droga. Antonio Piromalli, 45 anni, figlio di Giuseppe, uno degli esponenti storici della ‘ndrina calabrese della Piana di Gioia Tauro e arrestato questa mattina, avrebbe esercitato un controllo sistematico, direttamente dalla sua abitazione nel cuore del capoluogo lombardo, di tutte le attività imprenditoriali legate all’importazione, distribuzione e commercializzazione dei prodotti destinati al mercato ortofrutticolo di Milano. Sarebbe stato lui a determinare prezzi, quantità e varietà di prodotti da “far arrivare” sulla piazza milanese. Non solo, attraverso un imprenditore italoamericano, Antonio Piromalli, sarebbe riuscito ad infiltrarsi anche nel tessuto economico statunitense attraverso la distribuzione di olio e di prodotti affini nella città di New York. A ricostruire gli affari sporchi della ‘ndrina egemone sul mandamento tirrenico della provincia di Reggio Calabria e con diramazioni in Lombardia, Nord Europa, Stati Uniti e Australia, sono stati i carabinieri del Ros che questa mattina hanno arrestato 33 persone, tra boss e gregari, accusate a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, intestazione fittizia di beni, autoriciclaggio e tentato omicidio. Le indagini dei Ros hanno documentato il controllo delle attività del traffico di droga all'interno dello scalo portuale calabrese ma soprattutto la penetrazione della cosca nel tessuto economico ed imprenditoriale legato al settore agroalimentare. La movimentazione dei generi alimentari destinati al mercato ortofrutticolo milanese, infatti, veniva gestita dal boss Antonio Piromalli attraverso i suoi gregari e affiliati con i quali comunicava attraverso i “pizzini”. Ma dove finiva il fiume di denaro “sporco” gestito dalla cosca? Le risorse di provenienza illecita, sia quelle reperite in Italia che quelle provenienti dagli Usa, venivano reimpiegate dal boss Antonio Piromalli, in società di abbigliamento, collegate a noti marchi francesi ma anche in imprese attive nell'edilizia e nella gestione di strutture alberghiere.  Infatti, l'inchiesta ha messo in luce anche la partecipazione della cosca nel progetto di realizzazione di un centro commerciale a Gioia Tauro, all'altezza dello svincolo autostradale della Salerno-Reggio Calabria.  Gli interessi illeciti nel settore agroalimentare con l'infiltrazione nel mercato ortofrutticolo di Milano e la rete di distribuzione di prodotti oleari negli Usa facente capo ad un imprenditore italoamericano organico alla cosca Piromalli, sono la punta di un iceberg del business della criminalità organizzata nell'agroalimentare che vale circa 16 miliardi di euro all'anno. Solo questa mattina con l’operazione denominata “Provvidenza”, i militari del Ros hanno sequestrato beni per un valore di oltre 40 milioni di euro riconducibili alla cosca Piromalli.

L'impero del male del clan mafioso Piromalli. È la più potente e misteriosa cellula della 'ndrangheta calabrese: i suoi tentacoli raggiungono Stati Uniti e Sudamerica attraverso insospettabili personaggi in grado di investire in settori strategici. Ecco come ha fatto a diventare così forte partendo da Gioia Tauro, scrive Giovanni Tizian l'11 maggio 2017 su "L'Espresso". Olio d'oliva e agrumi nei grandi magazzini degli Stati Uniti d'America. Arance e clementine fino in Romania, Danimarca e Francia. Rifiuti e produzione di biogas in Ecuador. Materie prime, tecnica e ingegno made in Calabria. Con una buona dose di soldi pubblici per sostenere le imprese. Intraprendenza di cui andare orgogliosi, se non fosse per la regia occulta che dirige questi business. Perché purtroppo la mano nera che muove questi affari, ipotizzano gli inquirenti, è quella della famiglia Piromalli di Gioia Tauro, l'alfa e l'omega del crimine organizzato calabrese. A questo si somma un dato ancora più allarmante. Le aziende coinvolte e gli uomini considerati vicini al clan hanno ottenuto negli anni diversi milioni di euro di finanziamenti comunitari e nazionali per quanto riguarda il settore agricolo. E intercettato importanti stanziamenti per portare avanti progetti industriali in Sudamerica. Dopo anni di quiete la cosca ritenuta tra le più potenti è finita nel mirino del Ros - il reparto dei carabinieri guidato dal generale Giuseppe Governale - e della procura antimafia di Reggio Calabria con a capo Federico Cafiero De Raho. La sequenza è stata impressionante. Due operazioni nel giro di pochissimo tempo, numerosi arresti e buona parte del patrimonio societario finito sotto sequestro. Ma ciò che colpisce di più è la mappa aggiornata dei nuovi business in cui è coinvolta la 'ndrina Piromalli. "Provvidenza" è il nome in codice dell'operazione, divisa in più filoni. «Con la provvidenza, chiama le cose con il nome suo», è la frase pronunciata dal giovane boss Antonio Piromalli, alludendo al fatto che l'alto tenore di vita assicurato alla famiglia non dipendeva certo dalla provvidenza, appunto, né dallo stipendio da insegnante della moglie, ma dagli investimenti oculati fatti dal padrino. Una riflessione catturata dalle cimici degli investigatori. Per capire chi è Antonio Piromalli è utile citare una seconda intercettazione ambientale: c'è chi lo paragona a Papa Francesco per la notorietà di cui gode nel milieu mafioso non solo calabrese e per l'autorità che rappresenta. In effetti i Piromalli sono «uomini di pace». Le armi le usano il meno possibile, solo se strettamente necessario. La Calabria resta il punto fermo nella strategia dei conquistadores di Gioia Tauro. Qui c'è la testa dell'organizzazione, che non si lascia sfuggire gli affari più ghiotti. Così nel target del clan è finito il Consorzio ortofrutticolo produttori agrumicoli meridionali, Copam. Una sigla a portata di mano per Antonio Piromalli. Si trova, infatti, al confine tra la piana di Gioia Tauro e l'Aspromonte. Precisamente a Varapodio, paese di 2 mila abitanti della provincia di Reggio Calabria. Il Copam è tecnicamente una OP, organizzazione di produttori. Uno dei più grandi e importanti della Calabria con associati anche in Sicilia. I soci risultavano 39 fino al giorno della prima retata contro i Piromalli. II detective del Ros hanno scoperto che Antonio Piromalli aveva all'interno del consorzio una forte influenza. L'uomo fidato di don Antonio all'interno di Copam si chiama Rocco Scarpari, pure lui indagato nell'inchiesta Provvidenza. Chi è Scarpari? Innanzitutto un imprenditore, titolare del 25 per cento di Copam, oltre che di altre quote in piccole aziende agricole calabresi e siciliane. Per i carabinieri del Ros, però, è «un imprenditore colluso» con la cosca di Gioia Tauro. Affermazione condivisa dal giudice per le indagini preliminari che ha confermato le ipotesi investigative degli inquirenti. Pm che ipotizzano peraltro «la diretta riconducibilità del Consorzio alla cosca attraverso l’operato di Scarpari, già presidente del medesimo e che tuttora utilizza la casella di posta elettronica intestata al vertice del consorzio». Scarpari non ricopre più quella carica, ma di fatto, scrivono i militari del Ros è «nelle sue mani. Peraltro, tale gestione veniva segnata da continue malversazioni ed appropriazioni indebite. In questo senso metteva la Copam a disposizione di Antonio Piromalli, consentendogli di usufruirne a suo piacimento, ponendo in essere una serie di atti di gestione nell’interesse del capo cosca ed in danno della stessa cooperativa». Se questo è il profilo disegnato da chi indaga, c'è un aspetto ancora tutto da chiarire. E riguarda la mole di denaro pubblico, soprattutto fondi Ue, incassato dal Consorzio e da società legate a Scarpari. L'Espresso ha letto i decreti di approvazione dei programmi operativi della Regione Calabria con cui sono stati autorizzati gli stanziamenti. Così è stato possibile ricostruire parte del flusso di denaro affluito nelle casse del consorzio sospettato di legami con i Piromalli. Per l'anno 2016, ad esempio, a fronte di un «valore della produzione commercializzata» Copam ha ricevuto poco più di 834 mila di aiuto comunitario. L'anno prima su quasi 17 milioni di «produzione commercializzata» ha ottenuto all'incirca 800 mila euro. Nel 2013 su 9 milioni di produzione messa in commercio ha incassato 475 mila euro di aiuto europeo e aiuto finanziario nazionale. Infine, per il 2012, tra sostegno comunitario e nazionale ha ricevuto 580 mila euro. In cinque anni, in pratica, il totale è di oltre 2 milioni e mezzo. A questo conteggio vanno aggiunti i soldi finanziati da Agea, l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che nel 2014 ha dato a Copam 526 mila euro più qualche spicciolo. E l'anno successivo oltre un milione di euro. Sempre Agea ha distribuito finanziamenti anche ad altre società in passato legate a Rocco Scarpari, ma in confronto a quelli percepiti da Copam sono briciole. A marzo, un mese dopo i primi arresti dell'operazione Provvidenza, la procura di Reggio Calabria ha notificato dei decreti di perquisizione per una vicenda apparentemente slegata dagli interessi dei re di Gioia Tauro. Tuttavia nell'inchiesta ancora in corso condotta dai carabinieri delle politiche agricole emerge proprio il flusso anomalo di denaro pubblico confluito nel consorzio Copam. Indagine che vede coinvolti alcuni funzionari del settore agricoltura della Regione Calabria. Insomma, una pista che riporta nel regno dei Piromalli. Lì dove tutto è cominciato, a Gioia Tauro. Raccontare i Piromalli vuol dire riavvolgere il nastro della storia criminale italiana degli ultimi 50 anni. Sono gli artefici, infatti, della nuova stagione nella 'ndrangheta calabrese. Con loro inizia la sistematica penetrazione nell'economia legale dei capitali sporchi delle 'ndrine. Gli esperti definiscono questo cambio di passo il salto di qualità della 'ndrangheta. Passaggio storico, siamo negli anni'70, che coincide con lo stanziamento di una pioggia di miliardi pubblici per la provincia di Reggio Calabria. Un'immagine di questo potere granitico ci riporta al 25 aprile 1975. Quando l'allora ministro per la Cassa del Mezzogiorno, Giulio Andreotti, si recò a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V centro siderurgico, e dell'annesso porto, finanziato con i miliardi del pacchetto Colombo, istituito per compensare la provincia di Reggio Calabria dopo lo spostamento del capoluogo di regione a Catanzaro. Andreotti giunto a Gioia Tauro venne portato all'Euromotel per un caffè di benvenuto. A porgergli la tazzina fu Gioacchino Piromalli, figlio del vecchio patriarca don Mommo. Tuttavia lo stabilimento siderurgico non venne mai realizzato, nonostante fossero già stati spesi moltissimi denari. Ciò che rimase di quel progetto fu il porto, che negli anni a seguire avrebbe conquistato fette importanti di mercato. Fino a diventare uno dei importanti di Transhipment del Mediterraneo. Hub che doveva rappresentare un volano di sviluppo per tutta l'area ma che è sempre stato ostaggio delle cosche locali, Piromalli in primis. E diventato, poi, principale scalo di arrivo della cocaina trafficata dalla 'ndrangheta. Centinaia di faldoni ingialliti raccontano l'epopea dei gerarchi della famiglia Piromalli. Esperti di massoneria e potere, raffinati impresari del crimine, abili ricattatori, con un senso per la politica fuori dal comune. In passato sono stati registrati persino contatti, incontri veri e propri, con l'ex senatore Marcello Dell'Utri. C'era il marchio dei faccendieri dei Piromalli, per esempio, nel tentativo di truccare le schede degli elettori italiani del Venezuela durante le elezioni del 2008. Un'inchiesta esplosiva, questa, scomparsa dai riflettori e ormai destinata all'archiviazione. Insomma, più che un clan un vero impero del Male, che ha ridefinito i confini del regno. Gioia, Roma, Milano, New York, Quito, Caracas. Coordinate geografiche di una multinazionale del crimine. L'undici febbraio '79 a Gioia Tauro una marea umana sfila per il paese. È il funerale di don Mommo Piromalli, il capo supremo della Piana. Una corona di fiori si distingue tra le altre: «Gli amici del New Jersey». Oggi Gioia e l'America non sono state mai così vicine. C'è un filo diretto con il porto calabrese, certo. Ma non si tratta solo di grandi navi cargo che dai porti statunitensi attraversano lo Stretto di Messina e raggiungono lo scalo di Gioia Tauro. C'è molto di più. La colla che tiene insieme terre così distanti è il denaro, il business. I magistrati di Reggio Calabria seguendo Antonio Piromalli, i suoi affari dentro Copam e all'interno dell'ortomercato di Milano, si sono trovati davanti a un personaggio italo-americano di nome Rosario Vizzari. Un imprenditore, Vizzari, che vive e lavora tra il New Jersey e New York. A lui fanno capo numerose società made in Usa, la più importante è la Global freight services Inc., accreditata, peraltro, presso la “Food and Drug amministration” per il settore del trasporto. In pratica fa import export e la sua attività è “omologata” dal governo Usa che impone uno standard preciso nel packaging della merce da spedire. È titolare, inoltre, della Avant Garde Sales & Marketing inc, società di un certo peso. Tanto da interloquire con la Regione Basilicata. Dopo la retata contro i Piromalli, infatti, i giornali locali hanno raccontato di quel viaggio effettuato nel dicembre 2015 da una delegazione della Regione con in testa il presidente Marcello Pittella. Tra le tappe i locali della Avant garde (8 mila metri quadri di capannoni a Ramsey New Jersey). C'è persino una foto che ritrae il politico e l'imprenditore accusato di essere il prestanome dei Piromalli. «Poi comunque gli ho fatto vedere come lavoriamo», Vizzari ha informato subito il capo bastone Antonio Piromalli della visita, «insomma il lavoro che facciamo... Lui che andava guardando capannoni, non capannoni... “Ma qua”, disse. “Ma qua è tuo?” Gli dissi: “Si... qua tutto mio è!”». Un vero insospettabile, Vizzari. Che il Ros dei carabinieri lo descrive così: «Dotato dai vertici della cosca di grande autonomia oltreoceano, attesa la sua ventennale residenza in America e la salda rete di contatti in suo possesso, tra Boston, Chicago, Miami, e naturalmente New York, ricevute le indicazioni del caso curava l’introduzione delle ingenti quantità di prodotti nel circuito della grande distribuzione degli Stati Uniti». Piromalli, Vizzari e consorzio Copam, avevano in ballo un grosso affare per le mani. L'importazione negli Stati Uniti di partite di olio d'oliva. «Ha detto che prende altre 52 mila bottiglie», spiegava Vizzari al telefono con il boss Piromalli, aggiungendo che tutta la merce in magazzino è stata venduta, suscitando l'entusiasmo del padrino di Gioia: «Ma davvero?». Chi indaga e ascolta, però, è convinto che dietro tale commercio ci sia qualcosa di illegale, una truffa sulla qualità dell'olio. La vendita dell'olio, di scarsa qualità come ammettono gli stessi indagati intercettati, avveniva con un meccanismo ben preciso. Il fornitore della materia prima avrebbe venduto a Copam che a sua volta lo avrebbe girato a Vizzari l'Americano. A mediare questi passaggi, sostengono gli investigatori sarebbe stata la P&P, società di Piromalli. Vizzari, in pratica, varrebbe continuato a comprare l’olio a 2,63 euro, mentre il boss conservava inalterati i suoi guadagni per le vendite in America. E inoltre avrebbe trattenuto dal fornitore mezzo euro per ogni litro venduto a Vizzari. L'olio importato con le società di Vizzari finiva così nei supermercati degli Stati Uniti. Nelle carte dell'inchiesta ci sono i nomi dei colossi della grande distribuzione americana. Da Wallmart a Costco. La prima, per esempio, è la multinazionale statunitense, fondata da Sam Walton nel 1962. «È il più grande rivenditore al dettaglio nel mondo. Considerata la terza catena commerciale americana, la nona nel mondo» annotano i militari del Ros. Vizzari assicurava a Piromalli di essere in grado di rifornirli non solo di olio “Bel frantoio”, questo il marchio, ma anche di arance, mandarini e limoni prodotti dal consorzio calabrese in mano al clan. L'imprenditore calabro-americano è in contatto con vari intermediari in grado di piazzare i prodotti delle 'ndrine sugli scaffali dei colossi statunitensi. Uno di loro è stato invitato persino in Calabria per valutare di persona la qualità della filiera produttiva. Contattato da L'Espresso subito dopo la notizia dell'indagine a suo carico, Vizzari ha preferito non commentare. Dal profumo delle olive e della zagara ai miasmi dei rifiuti in Ecuador. Cambia il settore, mutano Paese e protagonista, ma ciò che resta e fa da sfondo sono i legami con la famiglia di Gioia Tauro. Questa volta è un avvocato a conquistarsi la scena. Si chiama Giuseppe Luppino. Negli anni '90 è stato, per un brevissimo periodo, nella società di gestione dell'Aeroporto dello Stretto. Poi per sette anni, fino al 2008, ha ricoperto il ruolo di presidente del consiglio d'amministrazione nella Piana Ambiente, società partecipata dai comuni dell'area che si occupava di raccolta dei rifiuti. Luppino è secondo due collaboratori di giustizia un professionista nell'orbita delle cosche e persino un massone. I pentiti lo accusano di essere legato a entrambe le cosche che hanno dominato insieme la Piana per cento lunghi anni: i Piromalli e i Molè, uniti da un'alleanza secolare, poi interrotta bruscamente. I Molé sono stati a lungo considerati il braccio militare dei primi. L'avvocato non è né indagato né è stato coinvolto nell'inchiesta Provvidenza. La sua figura è, però, presente negli atti dell'indagine. Il nome Luppino, infatti, compare nei verbali dei pentiti che indicano il Venezuela e l'Ecuador come basi degli interessi dell'avvocato. E in effetti da alcuni documenti consultati da L'Espresso emerge il grande business legale di Luppino: rifiuti e impianti biogas con una società dell'Ecuador controllata fino a due anni fa una seconda azienda con sede a Padova, la Gasgreen Group, del gruppo Rossato, leader nel settore dei rifiuti. Della Gasgreen italiana Luppino è stato consigliere dal 2011 al 2015. Nello stesso periodo tra i consiglieri compariva anche Sandro Rossato, indagato per mafia, poi assolto nel 2008, e sei più tardi finito di nuovo in una nuova inchiesta antimafia della procura di Reggio Calabria sul sistema dei rifiuti nella città dello Stretto. I ristoranti in Germania, le pale eoliche in Serbia, le discoteche in Romania, la movida a Malta, i soldi in Svizzera. E poi i traffici di coca che passano da Olanda e Spagna. I clan italiani si sono internazionalizzati. Mentre le armi per combatterli restano spuntate. L'italiana Gasgreen ha avuto per molti anni il controllo, 67 per cento di quote, della società dell'Ecuador Gasgreen S.A. Il restante 33 per cento, risulta da documenti ufficiali governativi dell'Ecuador, è stato a lungo in mano proprio a Luppino. Poi nel 2014 inizia la dismissione delle quote che facevano capo all'azienda padovana. Titolare del 98 per cento diventa la Ingepa Panama SA del gruppo spagnolo Ingeconser, mentre l'avvocato di Gioia possiede il 2 per cento e ricopre la carica di presidente. La società ha un capitale sociale di oltre 2 milioni di dollari. E continua a lavorare per il pubblico. Numerosi, infatti, i contratti stipulati con l'Empresa publica de gestion integral de residuos solidos, in pratica l'ente pubblico di Quito che si occupa di rifiuti. A partire dal 2010 Gasgreen Sa si è occupata del trattamento del biogas prodotto nella discarica di El Inga, 53 ettari di buche a 39 chilometri dalla capitale ecuadoregna, dove arrivano 2 mila tonnellate al giorno di spazzatura varia. Inoltre il 22 agosto 2016 ha tagliato un altro ambizioso traguardo: una centrale di produzione elettrica a biogas di 5 MW. Un progetto approvato dal «Consejo sectorial de la producion», una sorta di commissione interna al ministero della «Produccion, Empleo y Competitividad». Valore dell'investimento di poco superiore ai 6 milioni di dollari, ripartito tra Gasgreen, 55 per cento, e il restante 45 per cento tra non meglio precisati «finanziamenti locali e stranieri». I documenti ufficiali dell'accordo indicano un preciso cronoprogramma degli investimenti: nel 2015 i primi 2 milioni di dollari, l'anno successivo un'altra quota e nel 2017 lo stanziamento finale di 1 milione e 227 mila dollari. Nell'atto di approvazione viene sottolineato anche che la centrale permetterà di assumere fino a 20 persone e che per questo motivo alla società saranno concessi forti sgravi fiscali, anche sulle importazioni. Gli affari sudamericani dell'avvocato che i pentiti accostano al clan Piromalli vanno avanti da moltissimo tempo. I boss pentiti sostengono che lì può contare su amicizie importanti. Dichiarazioni tutte da verificare. Di certo, invece, c'è che Luppino è attivo nel settore rifiuti in Ecuador almeno dal 2010. Da quando, cioè, anche la Gasgreen padovana dei Rossato ha iniziato a operare in una delle discariche più grandi del Paese sudamericano. «Greengas, buenos dias», risponde una ragazza molto gentile alla sede centrale della società a Quito. Chiediamo se l'avvocato Luppino è lì, «no, è all'estero, torna tra un mese». Chiediamo allora il cellulare, «certo...». Purtroppo, però, neppure tramite cellulare siamo riusciti a parlarci. Volevamo chiedere all'avvocato Luppino come è nata l'idea dell'investimento a Quito e capire come mai proprio quello Stato. E, infine, come risponde alle accuse dei pentiti. Ma nel distretto della capitale ecuadoregna ci sono tracce di personaggi legati alla 'ndrangheta fin dal 2005. Anche loro emigrati col pallino dei rifiuti. In un'informativa del Ros - in cui viene citato di nuovo Sandro Rossato al tempo in affari con gli uomini della cosca Alampi (accusa dalla quale poi è stato assolto) - il principale esponente di questo clan si vantava al telefono degli ottimi rapporti con l'amministrazione ecuadoregna dell'epoca (la telefonata è di 12 anni fa) e aggiornava il suo interlocutore sulla riunione avuta il giorno prima con il ministro dell'Ambiente. Sette anni dopo quell'intercettazione un uomo della stessa famiglia, Valentino Alampi, verrà arrestato proprio in Ecuador, dove era latitante e dove gestiva delle attività economiche legate al settore ambientale. Insomma, che affare l'Ecuador.

Mafia, i Laudani nei Lidl e tra i vigilantes del tribunale di Milano: Le mani del clan Laudani su supermercati Lidl e vigilantes del Tribunale di Milano. Ecco le carte dell'inchiesta mafia e Lidl: citati consiglieri e sindaci, scrive il 16 maggio 2017 Affari Italiani. Operazione Security. Facebook53TwitterGoogle+LinkedInFlipboard

Milano, le mani della mafia su supermercati e vigilantes del tribunale di Milano: 15 ordinanze di custodia cautelare, commissariate 4 sedi Lidl. Polizia di Stato e Guardia di Finanza hanno eseguito ieri 15 misure cautelari e due fermi tra la Lombardia e la Sicilia nell'ambito di una indagine contro le attività criminali della famiglia mafiosa catanese dei Laudani coordinata dalla Dda di Milano. In particolare, secondo quanto si è appreso, sono state poste in amministrazione giudiziaria quattro direzioni generali della società di grande distribuzione Lidl, cui afferiscono circa 200 punti vendita. Destinatarie delle misure sarebbero anche alcune società del consorzio che ha in appalto tra le proprie attività commerciali, anche la vigilanza privata del Tribunale di Milano. Si tratta di società che forniscono i vigilantes del Palagiustizia. Nell'operazione sarebbero emersi stretti rapporti tra alcuni dirigenti delle società coinvolte e messe in amministrazione giudiziaria, e alcuni personaggi ritenuti appartenenti alla famiglia dei Laudani. Nel corso dell'operazione, il gip del tribunale di Milano, su richiesta della Dda, ha emesso 15 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti a vario titolo accusati di far parte di un'associazione per delinquere che ha favorito gli interessi, in particolare a Milano e provincia, della famiglia mafiosa catanese dei Laudani. Altri due fermi di indiziato di delitto sono stati eseguiti a Catania. All'interno delle carte dell'inchiesta, oltre 300 pagine, sono citati anche esponenti politici: sindaci e consiglieri comunali di Milano. Secondo i magistrati "Elia Orazio e Palmieri Domenico, con il ruolo di associati, soggetti già facenti parte della pubblica amministrazione sanitaria e provinciale che, entrati in quiescienza, sfruttano, a pagamento, le proprie relazioni con esponenti del comune di Milano, di sindaci e assessori". Nei guai è finita anche Giovanna Afrone, poiché "in concorso con persone non identificate, prometteva a Palmieri Domenico di affidare alle imprese di Micelotta appalti del comune di Milano a fronte dell'impegno di Palmieri (destinatario della remunerazione di € 1000 mensili da parte di Micelotta, Politi e Alecci) di farle ottenere un posto di lavoro presso il settore bilancio della Provincia di Milano nonché il trasferimento della cugina al settore informatico del Comune di Milano". I nomi di politici citati nelle carte dell'inchiesta sono quelli di Graziano Musella e Franco D'Alfonso. Per entrambi non c'è alcun addebito né alcuna ipotesi di reato, né ovviamente sono indagati. I militari del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Varese e personale della Squadra mobile di Milano hanno eseguito ieri l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Milano, su richiesta della Dda nei confronti di 15 persone, accusate di far parte di un'associazione per delinquere che ha favorito gli interessi, in particolare a Milano e provincia, della famiglia mafiosa catanese dei "Laudani" o "Mussi i ficurinia". Commissariate le società di sorveglianza privata del Tribunale di Milano con i loro 600 lavoratori, assume la gestione della multinazionale tedesca della grande distribuzione Lidl in quattro delle dieci direzioni generali italiane da cui dipendono 214 supermercati e 4 centri logistici in 6 regioni. GLI APPALTI - La presunta associazione per delinquere smantellata oggi dalla Dda di Milano avrebbe ottenuto "commesse e appalti di servizi in Sicilia" da Lidl Italia e Eurospin Italia attraverso "dazioni di denaro a esponenti della famiglia Laudani", clan mafioso "in grado di garantire il monopolio di tali commesse e la cogestione dei lavori in Sicilia". Gli arrestati, inoltre, avrebbero ottenuto lavori da Lidl Italia "in Piemonte" attraverso "dazioni corruttive". Lo si legge nell'ordinanza cautelare. Tra i provvedimenti adottati il "commissariamento di alcuni filiali della catena di supermercati Lidl, per cui è stata accertata collusione di funzionari che erano a libro paga e si facevano corrompere". Tra le società coinvolte un consorzio che gestisce la sicurezza a Palazzo di Giustizia a Milano. Il passaggio di denaro è stato spiegato dal sostituto procuratore Paolo Storari: "Qualcuno emetteva le fatture false, che venivano pagate. A questo punto i soldi venivano restituiti, naturalmente con una commissione perchè nessuno fa niente per niente. L'imprenditore si trovava allora con una liquidità che in parte usava per i propri scopi personali, in parte teneva per alimentare il circolo di corruzione e traffico di influenze e in parte dava ai Laudani per i loro scopi". Le indagini hanno seguito proprio questo flusso di denaro "documentando viaggi verso Catania con i soldi" che poi servivano alla famiglia Laudani per le proprie attività come ad esempio il sostentamento dei carcerati. Va ricordato che i Laudani sono una "famiglia storica di Catania" e possono considerarsi il "braccio armato di Nitto Santapaola", ha sottolineato Boccassini. La fase investigativa è dunque alle "battute finali" e "si procederà con la richiesta di rito immediato". Secondo il gip di Milano, esisteva uno "stabile asservimento di dirigenti Lidl Italia srl, preposti all'assegnazione degli appalti, onde ottenere l'assegnazione delle commesse, a favore delle imprese controllate dagli associati, in spregio alle regole della concorrenza con grave nocumento per il patrimonio delle società appaltante". E' quando si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giulio Fanales nell'ambito dell'inchiesta che ha portato al commissariamento di 4 direzioni generali italiane della multinazionale tedesca per presunte infiltrazioni mafiose. Gli ambiti entro cui sarebbero maturati i contatti con esponenti delle cosche sono, spiega il gip, quelli "dell'organizzazione della logistica presso i magazzini ove è custodita la merce di natura non alimentare, l'allestimento di nuovi supermercati, il rifacimento di negozi preesistenti, le manutenzioni periodiche o le riparazioni occorrenti in caso di guasti improvvisi e di altri eventi accidentali". Nel provvedimento viene chiarito anche come la mafia, attraverso "dipendenti a libro paga", sarebbe riuscita ad aprirsi un varco all'interno della multinazionale. "Il dipendente a libro paga - si legge nell'ordinanza - trascorso un certo tempo esce dalla Lidl Italia srl per essere assunto da una delle società facenti capo agli odierni indagati. Tale movimento da un lato allontana i sospetti dalla sua persona, dall'altro consente l'avvicinamento, proprio ad opera dell'ex dipendente, di un ulteriore dirigente, destinato a sostituirlo quale referente dei corruttori all'interno della Lidl". "Una volta bandita la gara - questo sarebbero stato il modo di operare degli indagati - il dirigente rivela agli indagati l'ammontare delle offerte avanzate dalle imprese concorrenti, sì da rendere loro possibile la presentazione di un'offerta leggermente inferiore, destinata a risultare vincente". In cambio, i "corruttori versano nelle mani del dirigente una somma in contanti, con cadenza periodica. L'importo di ogni dazione viene commisurato in percentuale sull'ammontare del fatturato, maturato nel periodo precedente, derivante dall'affidamento degli appalti ottenuti in virtu' dell'accordo corruttivo". Un sistema che avrebbe "azzerato la concorrenza nell'acquisizione di beni e servizi a favore delle imprese controllate dagli associati, con il conseguente grave danno patrimoniale in pregiudizio della società". "Con particolare riferimento alle articolazioni di Lidl Italia presenti nel nord, la precisa censura che il collegio ritiene di muovere alla società riguarda l'assenza di efficaci meccanismi di controllo interno". Lo scrivono i giudici della sezione di prevenzione del Tribunale di Milano, presieduti da Fabio Roia, nel provvedimento con cui commissariano le direzioni generali di Volpiano (Torino), Biandrate (Novara), Somaglia (Lodi) e Misterbianco (Catania) "limitatamente ai settori riconducibili alla ristrutturazione / rifacimenti, alla logistica e alla sicurezza" per un periodo di sei mesi. Dall'indagine svolta dai pm della Dda milanese Ilda Boccassini e Paolo Storari, è emersa, sintetizzano i giudici nel loro decreto, l'esistenza di una presunta "associazione a delinquere aggravata dalla finalità di agevolazione di sodalizio mafioso e di riciclaggio" che avrebbe mantenuto "contatti continuativi con dirigenti e organi apicali di Lidl Italia spa, finalizzati all'ottenimento di commesse nel settore dei lavori di ristrutturazione delle filiali, della logistica e della vigilanza". Una delle società, la SecurPolice si era aggiudicata un appalto anche per la sicurezza dell'Expo. Ciò che è "mistificante" secondo il capo della Dda Milanese è "ritenere che non sia un disvalore la promessa di vantaggi anche minimi, o di poche centinaia di euro". Dall'indagine della procura di Milano emerge infatti che le fatture false non ammontavano mai a cifre esorbitanti: "Se si fa una fattura falsa da 500mila euro salta all'occhio. Se invece sono tante piccole no. Ed è in questo modo che agivano per evitare di incappare in controlli" ha spiegato poi il sostituto procuratore Paolo Storari che ha coordinato le indagini. Di corruzione "polverizzata" ha parlato Boccassini "che deriva da un abbassamento della soglia" di attenzione sul fenomeno. Secondo la numero uno della direzione distrettuale antimafia milanese "è qualcosa di ancora più inquietante" per la capillarità. C'erano poi dei facilitatori: "Ex pensionati che agivano nelle pubbliche amministrazioni e in passato appartenevano a sindacati. Erano loro che sapevano a chi rivolgersi" ha raccontato Boccassini e "venivano pagati anche mille o 2mila euro al mese per procurare questi contatti" ha spiegato Storari, in aggiunta. Il reato ipotizzato in questo caso è quello di traffico di influenze". Le due persone arrestate in Sicilia nell'ambito dell'inchiesta condotta a Milano sul clan catanese dei Laudani, sono Enrico Borzì e Vincenzo Greco, indagati per associazione mafiosa. In corso, nel Catanese, perquisizioni e interrogatori. Notificato anche alla direzione generale della Lidl di Misterbianco uno dei quattro provvedimenti di commissariamento, limitatamente ai settori riconducibili alla ristrutturazione/rifacimenti, alla logistica e alla sicurezza, per un periodo di sei mesi. Tra gli indagati nell'ambito dell'indagine su presunte infiltrazioni mafiose condotta dalla Dda di Milano, "emergono le figure degli imprenditori Luigi Alecci, Giacomo Politi ed Emanuela Micelotta che gestiscono un consorzio di cooperative operative nel settore della logistica e che sono i referenti al nord della famiglia mafiosa dei Laudani, un clan radicato a Catania con una lunga tradizione di delitti di sangue". Lo scrivono i giudici della sezione di prevenzione del Tribunale di Milano. I tre "gestiscono di fatto un consorzio di società cooperative, formalmente amministrate da prestanome, che commettono una serie di reati di carattere tributario, tra cui l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, e che, dopo un breve periodo, sono messe in liquidazione". Ai Laudani "vengono corrisposte periodicamente somme di denaro finalizzate non solo al mantenimento delle famiglie dei boss detenuti, ma anche all'ottenimento di commesse in realtà imprenditoriali, come la Lidl" con la quale "i rapporti risultano in essere da diversi anni". Diverse le modalità con cui si sviluppano i rapporti tra i componenti della presunta associazione e il personale direttivo della Lidl: "al nord tramite accordi corruttivi tra gli indagati e personale dirigenziale della Lidl", "mentre a sud le commesse vengono ottenute tramite l'interessamento della famiglia mafiosa dei Laudani, cui gli indagati corrispondono somme di denaro". Nessuna "buona fede" per i pm e per il Tribunale può essere invocata dai vertici di Lidl "che non solo percepiscono denaro per assegnare lavori in favore degli indagati (in particolare Piemonte e Lombardia) ma intrattengono, in via diretta o indiretta (questo allo stato non è noto) rapporti con soggetti appartenenti alla famiglia mafiosa dei Laudani in grado di orientare le scelte di Lidl nella scelta degli appaltatori di servizi". Per i giudici ci sono quindi i presupposti per un commissariamento di sei mesi "in relazione al livello di infiltrazione allo stato accertato". Non è la prima volta che il clan dei Laudani viene beccato con le mani nella grande distribuzione, come nell'operazione scattata oggi a Milano. Più di dieci anni fa un'inchiesta della procura distrettuale antimafia di Catania aveva inguaiato Sebastiano Scuto, il "re" dei supermercati Despar in Sicilia, fondatore di Aligrup, colosso della distribuzione alimentare con un oltre duemila dipendenti. E' ritenuto dai magistrati un prestanome dei Laudani tanto da essere condannato in primo e secondo grado, prima a quattro anni e otto mesi e poi a 12 anni. Nei suoi confronti recentemente la Cassazione ha annullato con rinvio il secondo grado e restituito solo in parte il suo patrimonio. E' Giovanna Rosaria Maria Afrone la dipendente del Comune di Milano arrestata (ai domiciliari) con l'accusa di traffico d'influenze nell'ambito dell'inchiesta della Dda che ha portato anche al commissariamento di 4 direzioni di Lidl Italia. Nelle sue vesti di 'responsabile del Servizio gestione contratti trasversali con convenzioni centrali di committenza', Afrone si sarebbe messa "permanentemente" al servizio di alcuni componenti della presunta associazione a delinquere che avrebbe commesso vari reati tributari e tenuto rapporti con una cosca catanese. In particolare, Afrone, "in concorso con persone non identificate", avrebbe promesso a Domenico Palmieri (arrestato) "di affidare alle imprese di Micelotta (altro arrestato) appalti del comune di Milano a fronte dell'impegno di Palmieri di farle ottenere un posto di lavoro presso il settore bilancio della Provincia di Milano nonchè il trasferimento della cugina" al Comune di Milano. La dipendente comunale avrebbe garantito alle imprese riconducibili agli indagati "l'assegnazione di plurimi appalti, per contratti di servizio di durata temporanea, da parte del Comune di Milano, ciascuno per un importo complessivo compreso entro euro 40.000, sempre tramite procedure di affidamento diretto". Tra gli impegni da lei assunti anche quello di garantire "un appalto per la pulizia di tutte le scuole gestite dal Comune di Milano", sempre sotto la soglia dei 40mila euro (entro la quale non si deve procedere a una gara). "Il pubblico ufficiale - questa l'immagina utilizzata dal gip - sembra condurre per mano i suoi corruttori, nei meandri degli appalti pubblici e delle complicate regole che li governano". E' grazie a personaggi come Giovanna Rosaria Maria Afrone, responsabile del servizio gestione contratti trasversali con convenzioni centrali di committenza del Comune di Milano, che i siciliani sarebbero riusciti a "penetrare" negli appalti pubblici lombardi. A "facilitare" gli appalti ci sarebbero stati ex dipendenti pubblici, come Orazio Elia, che aveva lavorato nel settore ospedaliero, e Domenico Palmieri, ex dipendente della Provincia di Milano, e tuttora sindacalista con delega al rapporto con le istituzioni. Elia sarebbe stato "stipendiato" mensilmente dal sodalizio criminale. Alessandro Fazio, "gestore di numerose società e titolare anche di appalti pubblici, tra cui il servizio di vigilanza presso il Tribunale di Milano" risulta dalle indagini "in costanti rapporti con esponenti della famiglia mafiosa dei Laudani". Lo scrivono i giudici del Tribunale di Milano sezione misure di prevenzione nel provvedimento con cui commissariano in parte Lidl Italia. Il giudici spiegano che "da tempo, Fazio corrisponde denaro" a persone vicine al clan "riuscendo a ottenere commesse nel settore della vigilanza da parte di importanti società (tra cui Lidl) presenti anche in Sicilia". Alessandro Fazio e il fratello vengono considerati dai pm tra i capi della presunta associazione a delinquere vicina alla mafia. Riguardo alla sua attività di gestore di fatto della Securpolice Servizi Fiduciari, la società che si occupa della vigilanza privata del Palazzo, Alessandro Fazio viene accusato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, quale amministratore con l'aggravante della finalità di agevolare attività delle organizzazioni di tipo mafioso. "Quello che oggi va tutelato sono i 600 dipendenti delle società che devono continuare a lavorare nonostante i loro datori di lavoro siano stati arrestati". Così il procuratore aggiunto Ilda Boccassini commentando l'operazione Security, che ha coinvolto diverse aziende tra cui la "Securpolice Group scarl" di Cinisello Balsamo che opera nel settore della sicurezza e della vigilanza, e che gestiva anche le guardie giurate del Palazzo di Giustizia di Milano. La società sarà commissariata per un anno se il gip convaliderà il decreto. Almeno due milioni e mezzo di euro l'ammontare dei patrimoni derivanti da reati fiscali che i magistrati di Milano sono riusciti a sequestrare preventivamente e d'urgenza in questa fase. La "Securpolice Group scarl" di Cinisello Balsamo, che fornisce servizi a strutture pubbliche e private, in particolare presso catene di supermercati su tutto il territorio nazionale, è gestita - secondo quanto emerge dalle carte della Dda - da Alessandro e Nicola Fazio, siciliani d'origine "ma qui da una vita e naturalmente puliti altrimenti non avrebbero potuto partecipare alle gare" ha sottolineato Boccassini. Proprio i due fratelli erano collegati a Orazio Salvatore Di Mauro, organico dei Laudani, che se ne era servito per "infiltrarsi nel tessuto economico lombardo". I Fazio erano sollecitati da Luigi Alecci, considerato "la figura di riferimento del sodalizio, in grado di gestire e mediare i rapporti tra gli imprenditori" e "concorrevano ad inviare, per il tramite dell'affiliato Enrico Borzi', somme di denaro contante in Sicilia destinate al sostentamento economico delle famiglie dei detenuti appartenenti alla famiglia mafiosa Laudani". In Lombardia i referenti erano anche Giacomo Politi ed Emanuele Micelotta". Una ricevuta per attestare i versamenti alle cosche. Se ne parla nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato a 15 arresti su richiesta della Dda di Milano. "Ai familiari dei detenuti - scrive il gip Giulio Fanales - che ricevevano aiuti economici dal clan mafioso Laudani veniva richiesto dal "cassiere" della cosca di sottoscrivere "una ricevuta". Parte dei "versamenti alla cosca mafiosa" da parte degli arrestati, che facevano affari al nord, finiva alle famiglie dei detenuti del clan. Il denaro, si legge nel provvedimento, "viene da un indagato portato in Sicilia e da costui consegnato nelle mani del cassiere del clan, Borzi' Enrico". Il cassiere "tiene un apposito registro, in cui vengono indicati i riferimenti dei versamenti in ingresso (nominativi, date e importi relativi alle somme introitate) ed i riferimenti dei pagamenti in uscita (nominativi, date e importi relativi alle somme corrisposte)". Al familiare del detenuto, "beneficiario del versamento, il cassiere richiede la sottoscrizione di una ricevuta". Denaro e voti in cambio della modifica dei vincoli urbanistici necessari per la costruzione di un campo da tennis e di un parco giochi. C'è anche questo episodio che vede protagonista Angelo Antonio Di Lauro, consigliere comunale del comune di Cinisello Balsamo, indagato per traffico d'influenze. Tre degli arrestati nell'inchiesta della Dda di Milano sulle presunte infiltrazioni al nord del clan mafioso dei Laudani gli avrebbero promesso "somme di denaro allo stato non determinate nonchè voti in occasione delle prossime elezioni amministrative quale prezzo della mediazione illecita di Di Lauro verso un assessore al comune di Cinisello (allo stato non meglio identificato)". Ciò perchè quest'ultimo "contribuisse a modificare i vincoli urbanistici esistenti su una villa di rilevanza storica" nel Comune perchè poi potessero "costruire su quest'area campi da tennis" e un "parco giochi".

'Ndrangheta, il codice delle regole interne. Tutti i "Canoni" ovvero usi, riti e norme dell'organizzazione mafiosa più potente al mondo, scrive Nadia Francalacci il 28 aprile 2017 su Panorama. Il boss latitante Marcello Pesce, arrestato dalla Polizia il primo dicembre del 2016, aveva attivato un sistema aziende e società intestate a prestanomi, attraverso le quali esercitava il pieno controllo del trasporto di merci su gomma. L'inchiesta "Recherche 2" della Squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco di Roma che ha portato all’arresto di 20 affiliati alla cosca del boss Pesce, ha ricostruito tutti gli affari e i traffici di droga gestiti dalla ‘ndrina rosarnese. La cosca gestiva anche un traffico di sostanze stupefacenti con soggetti delle province di Cosenza, Vibo Valentia e Catania. Tra le aziende sequestrate questa mattina e riconducibili a Marcello Pesce anche la Getral, Le Tre Stagioni, Azienda Agricola Rocco Pesce. Noi abbiamo ricostruito i “codici d’onore” dell’organizzazione mafiosa considerata tre le più potenti al mondo con l’aiuto del Generale dell’Arma dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, per moltissimi anni Vice Comandante del Ros e autore del libro “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”.

Battesimo di "una locale". La 'Ndrangheta, in linea generale, apra una "locale" in ogni paese dove è presente una Caserma dei Carabinieri. "...in un paese dove non c'è una caserma dei Carabinieri non si può aprire una locale perchè la 'ndrangheta è un corpo rivale". Questo quanto scrive il generale Angelosanto nel suo libro, facendo riferimento ad un verbale del boss Antonino Belnome. Non si tratta solo di un atteggiamento antagonistico, ma gli ndranghetisti voglio raggiungere una diffusione capillare sul territorio al pari dei carabinieri. La "locale" è una tipica espressione gergale 'ndranghetista - scrive il militare - e prende il nome della locale di provenienza. Non viene infatti indicata la "locale di Torino" bensì, ad esempio, la "locale di Natile (di Careri) a Torino". "Questo è indicativo di un processo di colonizzazione e del rapporto di dipendenza-subordinazione dalle locali madri della Calabria".

I pagamenti alla mamma di Reggio. A conferma della dipendenza delle locali e dell'unitarietà della struttura 'ndranghetista, la "locale" distaccata effettua dei pagamenti, una sorta di tributo alla "mamma di Reggio Calabria". "I versamenti alla mamma del crimine avvengono annualmente- spiega Angelosanto nel suo libro - solitamente in occasione del raduno che si svolge a Polsi il 3 settembre".

La Riunione dei Polsi. Il generale dei Carabinieri scrive: "La riunione al santuario dei Polsi che si svolge ogni prima domenica di settembre, rappresenta la massima espressione del vertice di comando della 'ndrangheta. Al Santuario dei Polsi si riuniscono tutti i capi dei locale e a questa riunione di forma il "crimine". Ogni anno viene effettuato un nuovo banco e vengono nominati i referenti in ogni paese". Durante l'operazione dei Ros denominata "Il crimine", i militari filmano al santuario dei Polsi, il cosiddetto giuramento a "circolo formato".

Il tribunale e la trascuranza. "La 'ndrangheta cerca di preservare il prestigio dei suoi appartenenti - spiega Angelosanto- l'affiliato non "sbaglia" mai semmai commette una mancanza, una svista che prende il nome di "trascuranza". A conferma dell'unitarietà dell'organizzazione criminale, esiste un "tribunale" ovvero un'autorità preposta al giudizio degli errori.  

Integralismo 'ndranghetista. "In Calabria non si affilia mai così per così, non si affilia mai un napoletano o un siciliano, sono cose rare, rarissime. Si è rigidi nelle regole anche con i nostri figli, questo ci differenzia", riporta il generale da un verbale del boss Belnome. Ogni persona o ogni località "non calabrese" viene trattata con diffidenza.

La copiata. Sono i nomi dei solidali che un compartecipe deve ricordare in quanto sono coloro che lo hanno affiliato o che gli hanno conferito un avanzamento di grado, attribuendogli una "dote" superiore, viene scritto del testo “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”. "La copiata viene indicata al momento dell'investitura o del rito di conferimento o di passaggio da un grado all'altro ed è costituita da una terna di nomi che per un affiliato di una locale diversa da quella di appartenenza, rappresenta un codice di autentificazione e riconoscimento".   

Società minore o società di sgarro. All'interno della gerarchia 'ndranghetista c'è la cd. "società maggiore" che è quella che ha potere decisionale e di relazione con le altre organizzazioni criminali. Poi c'è quella cosiddetta "minore" composta da un Capo giovane da quale dipende un Puntaiolo e un Picciotto di giornata. Allo sviluppo dell'organizzazione, però, si è avuto anche uno sviluppo di nuovi gradi e regole: Contrasto onorato: sono soggetti che non appartengono all'ndrangheta ma di cui ci si può fidare e che potrebbero entrare a farne parte; Giovane d'onore: è data per diritto ai discendenti maschi di appartenenti allacosca e che potrebbero farne in parte in futuro. Non è un grado ma un riconoscimento che potrebbe esprimere un concetto di potenzialità che deriva iure sanguinis; Picciotto: è la prima dote che un "contrasto" può acquire entrando a far parte della ndrangheta. Questo grado può essere concesso solo al 14 anno di età; Camorrista: è la seconda dote della gerarchia. Si può essere battezzati camorristi senza essere stati prima picciotti. C'è però, il “camorrista semplice", il 'camorrista di fibbia' quando può convocare una riunione, il “camorista formato” quando può sostituire il capobastone del proprio locale; Sgarrista: sono la colonna portante della ndrangheta. Esiste lo “'sgarrista di sangue” e lo “sgarrista definitivo”.

Società maggiore o santa. La "Santa" è una formazione compartimentata interna della stessa 'ndrangheta- scrive il generale Angelosanto - secondo le indicazioni di molti collaboratori di giustizia, è nata a metà degli Anni '70 in seno all'organizzazione e ne fa parte chi ha il grado di santista che è uno dei gradi apicali della gerachia 'ndranghetista".

I gradi della società maggiore: - Il santista: è il primo grado; il “vangelista”: colui che ha prestato fedeltà all'organizzazione ponendo la mano su copia del Vangelo; il quartino: grado successivo al vangelista; il trequartino: grado successivo al quartino; padrino o quintino: grado apicare che uno 'ndranghetista può raggiungere. E' attribuito a pochi soggetti. 

Le cariche nella società minore. Il capo giovani è colui che comanda la società minore. Ed è l'unico che può emntrare in contatto con esponenti della società maggiore. Il puntaiolo deve vigilare sul comportamento dei giovani affiliati e riferisce al Capo giovani. Il picciotto di giornata è colui che fa girare le "novità" tra i componenti della società minore.

Le cariche della società maggiore. Il capo bastone è il responsabile della locale e ha capacità decisionale autonoma; il mastro di giornata è il portavoce del capo bastone, tramite lui gli affiliati ricevono le notizie e le informazioni. Il Contabile è colui che è preposto alla gestione dei proventi delle attività illecite e provvede al mantenimento economiche delle famiglie bisognose. Il Crimine, invece, è colui che è responsabile della pianificazione ed esecuzione delle azioni delittuose.

Sorella d'omertà. "E' rappresentata dalla donna che è legata in qualche modo all'uomo d'onore- scrive Angelosanto - le donne non fanno alcun giuramento di fedeltà alla ndrangheta perchè il loro primo dovere è quello di essere fedeli al proprio uomo". "Se viene riconosciuto loro questo titolo, queste hanno il compito di dare assistenza ai latitanti, di far circolare le 'masciate, mantenere i contatti tra detenuti e l'organizzazione esterna".

Spogliato. "Nel gergo dello 'ndranghetista - specifica il generale Angelosanto- è l'affiliato espulso dall'organizzazione, ovvero provato della veste o della camicia che simbolicamente, il battezzato indossa al momento dell'affiliazione". Lo spogliato viene sottoposto a processo del loro tribunale. "Questo organismo è composto dal capo società che funge da giudice, dal crimine che rappresenta l'accusa e dalla "carità" che ha funzioni di difesa del reo".  Il boss latitante Marcello Pesce, arrestato dalla Polizia il primo dicembre del 2016, aveva attivato un sistema aziende e società intestate a prestanomi, attraverso le quali esercitava il pieno controllo del trasporto di merci su gomma. L'inchiesta "Recherche 2" della Squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco di Roma che ha portato all’arresto di 20 affiliati alla cosca del boss Pesce, ha ricostruito tutti gli affari e i traffici di droga gestiti dalla ‘ndrina rosarnese. La cosca gestiva anche un traffico di sostanze stupefacenti con soggetti delle province di Cosenza, Vibo Valentia e Catania. Tra le aziende sequestrate questa mattina e riconducibili a Marcello Pesce anche la Getral, Le Tre Stagioni, Azienda Agricola Rocco Pesce. Noi abbiamo ricostruito i “codici d’onore” dell’organizzazione mafiosa considerata tre le più potenti al mondo con l’aiuto del Generale dell’Arma dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, per moltissimi anni Vice Comandante del Ros e autore del libro “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”.

Non solo ‘Ndrangheta.

Mafia Capitale, Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori in cui la "cupola" era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine, membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull'immigrazione, al telefono spiega: "Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare i flussi". Il braccio destro di Carminati: "Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?" Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Per la “cupola” di Roma l’emergenza immigrati era una miniera d’oro: i fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco e il sodalizio criminale ipotizzato dagli inquirenti fa in modo che parte di questi finanziamenti finisca nelle tasche delle cooperative amiche. Gli inquirenti lo chiamano “Sistema Odevaine“: “La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo riconducibile a Buzzi si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari firmata dal gip Flavia Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla P.A.”. Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici “che si dividono il mercato”. E il mercato dei fondi statali per i centri di accoglienza per gli immigrati è immenso. Gli inquirenti parlano della “possibilità di trarre profitti illeciti immensi (…) paragonabili a quelli degli investimenti illeciti realizzati in altri settori criminali come lo smercio di stupefacenti. Le intercettazioni parlano chiaro. Al telefono con Pierina Chiaravalle, Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa “29 giugno” e braccio operativo dell’organizzazione, domanda: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”.

Buzzi: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. Il centro del sistema è Luca Odevaine. Ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e capo della polizia provinciale di Roma, “Odevaine è un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati”, scrivono i pm. Perché è così importante la sua figura? “La qualità pubblicistica di Odevaine risiede nell’essere appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione” e al contempo è “esperto del presidente del C.d.A. per il Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza”», ente che soprintende alla gestione del C.A.R.A. di Mineo”. Un’intercettazione in cui Odevaine parla con il suo commercialista fotografa il suo ruolo: “Avendo questa relazione continua con il Ministero – spiega l’ex vice capo segreteria di Veltroni – sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… (inc.) le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…”. 

Odevaine: “Sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…”

Odevaine è ben pagato, secondo Salvatore Buzzi. Parlando con Giovanni Campennì, il braccio operativo dell’organizzazione spiega: “Mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col PD, poi con la PDL ce ne ho tre e con Marchini c’è… c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ndr) quindi va bene lo stesso… lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese… ed io ne piglio quattromila”. Il piatto è ghiotto anche nella sola città di Roma e la cupola è talmente potente da deviare in sede di bilancio pluriennale risorse in favore delle strutture di accoglienza. Gli inquirenti sottolineano la “capacità del sodalizio indagato, di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione del bilancio pluriennale 2012/2014 e relativo bilancio di assestamento di Roma Capitale, avvalendosi degli stretti rapporti stabiliti con funzionari collusi dell’amministrazione locale, al fine di ottenere l’assegnazione di fondi pubblici per rifinanziare “i campi nomadi”, la pulizia delle “aree verdi” e dei “Minori per l’emergenza Nord Africa”, tutti settori in cui operano le società cooperative di Salvatore Buzzi”.

Buzzi: “Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell’ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta”. Carminati: “E allora vai a battere co’ questi”. All’epoca dei fatti alla guida del dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute del Comune di Roma (che gestisce la questione immigrati) c’era Angelo Scozzafava, con il quale la “cupola” aveva ottimi rapporti: “Le indagini hanno evidenziato l’ipotesi di una remunerazione dell’attività funzionale di costui da parte di gruppo criminale  – scrivono gli inquirenti – con la promessa dell’assegnazione di un appartamento in una cooperativa” perché “Scozzi” come lo chiamano i sodali, “si fa promotore di attività a favore del gruppo presso altri organi dell’amministrazione comunale, per spingere su finanziamenti a favore del campo nomadi“. Ma dopo le elezioni comunali del 2013 le cose cambiano: il 14 giugno 2013 Buzzi raccontava al telefono a Carminati di trovarsi al Campidoglio “in giro per i Dipartimenti a saluta’ le persone”. La decisione veniva accolta favorevolmente accolta dall’ex Nar che riteneva necessario “vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades…adesso”. A quel punto Buzzi raccontava la difficoltà di muoversi nell’ambito della nuova situazione politica romana in quanto in quel momento “solo in quattro sanno quello che succede e sono nell’ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta”, e Carminati rispondeva in maniera eloquente: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi, amico mio”.

Roma, inchiesta Mafia Capitale: "Immigrati e rom rendono più della droga", le intercettazioni che svelano il business, scrive il 3 Dicembre 2014 Franco Bechis su "Libero Quotidiano”. Da ieri a Tor Sapienza sanno chi debbono ringraziare per tutto quel che è accaduto in questi mesi. Ha un nome e un cognome: Luca Odevaine. Era il vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni quando era sindaco di Roma. Poi è stato nominato dall’Unione delle province italiane al tavolo del ministero dell’Interno che coordina l’emergenza immigrati. Un funzionario pubblico di area Pd di alto livello, che presiedeva pure una fondazione, la Integra/Azione, che si occupava di mediazione culturale con gli immigrati. Che però era al servizio di quella che la procura di Roma ha definito la «Mafia Romana»: riceveva per i favori al sodalizio, e in particolare per quelli fatti all’imprenditore Salvatore Buzzi - a capo di un vero impero travestito da coop che viveva sul business degli zingari e dell’immigrazione - un regolare stipendio in nero di 5 mila euro al mese. E in più soldi legati alle operazioni straordinarie che avrebbero portato vantaggi economici a Buzzi & c. Perché bisognerebbe fare conoscere agli abitanti di Tor Sapienza l’alto ex collaboratore di Veltroni? A spiegarlo è lo stesso Oldevaine durante un colloquio del 27 marzo 2014 con un collaboratore di Buzzi, il re della gestione immigrati. «Ah... lo Sprar a Roma...», sospira lui. Sprar è sigla che sta per «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Si è aggiunta proprio durante l’operazione «Mare nostrum» alle tante sigle dell’emergenza immigrazione. Quel sistema serviva proprio ad affrontare le nuove emergenze, in particolare i flussi che arrivavano dalla Siria e dalla Libia in guerra: le migliaia di rifugiati richiedenti asilo. Nuova manna per Buzzi e la mafia romana, che già avevano approntato i loro «centri di accoglienza» per siriani e libici. «Ah, lo Sprar a Roma», sospirava dunque l’ex vicecapogabinetto di Veltroni, «I posti Sprar che si destinano ai comuni in giro per l’Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al Ministero (inc.) immigrazione (inc.) ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 (omissis) per cui si sono presentati posti per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n’hanno almeno un migliaio». Tradotto in parole povere: a Roma erano destinati 250 rifugiati. Ma il funzionario di area Pd corrotto li ha fatti lievitare fino a 2.500 posti, in modo che almeno mille finissero nelle case accoglienza di Buzzi e della mafia romana, prendendo da loro la percentuale concordata. Un business quello dei rifugiati, degli zingari e degli immigrati. Che nasce quando alla guida di Roma c’era Gianni Alemanno (era Buzzi ad avere costruito le nuovi sedi per i rom che l’allora sindaco sgomberava dai vari campi), e prosegue e prospera quando in Campidoglio sale Ignazio Marino. Non era un problema il cambio di maggioranza, tanto che Buzzi viene intercettato a primavera 2013 proprio sotto elezioni, e confida a un amico: «e se sbagli investimento, se punti sul cavallo sbagliato... mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono... col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è... c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ndr) quindi va bene lo stesso... lo sai a Luca quanto gli do? 5mila euro al mese…». Costa un po’ la corruzione. Però il business dei campi rom e dell’accoglienza dell’immigrato o del rifugiato rende assai di più. Ancora una volta è Buzzi a dare un’idea chiara, intercettato in un colloquio con la sua collaboratrice Piera Chiaravalle. «Lo sai quanto ci guadagno sugli immigrati?», chiede l’imprenditore - cooperatore all’amica. E insiste, ripetendo tre volte: «Tu... tu c’hai idea? Tu c’hai idea? Tu c’hai idea?». Lei obietta: «Perché su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi!». E Buzzi insiste: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh.». Piera si arrende: «Non c’ho idea...». L’imprenditore la gela: «Il traffico di droga rende di meno... E allora!». In altra occasione Buzzi torna a fare capire quanto si trasformi in banconote fruscianti per lui potere inviare siriani, libici, tunisini, iracheni, rom a Corcolle e Tor Sapienza. In questo caso è nella sua Audi con un amico a chiacchierare. E spiega: «Noi quest’anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi… gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». Annotano gli inquirenti: «L’attività investigativa svolta ha evidenziato che la gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo riconducibile a Buzzi si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo, alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione. Un’attività rendicontata da Buzzi a Carminati (Massimo Carminati, ex Nar in collegamento con la Banda della Magliana, ndr), che mostra un diretto interesse nelle vicende, a dimostrazione ulteriore del suo essere shareholder dei soggetti economici riconducibili al primo». Si guadagna con rom e immigrati. E ci guadagnano anche i politici, che prendono la loro stecca. Ma fa parte del business, sostiene Buzzi, che confidava a Carminati la sua filosofia: «Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c’ho una cena da ventimila euro pensa...». Franco Bechis

Mafia Capitale, 44 arresti. Spunta il tariffario dei migranti. I carabinieri del Ros hanno eseguito 44 arresti tra Lazio, Abruzzo e Sicilia. Coinvolti politici da destra a sinistra. Tra le attività il business dei migranti, scrive Luca Romano, Giovedì 4/06/2015, su "Il Giornale". Nuovo capitolo dell’inchiesta "Mondo di Mezzo" della procura di Roma e dei carabinieri del Ros: 44 arresti in Sicilia, Lazio e Abruzzo per associazione per delinquere e altri reati. Ventuno gli indagati a piede libero. Il blitz dei carabinieri è scattato all’alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania ed Enna. Nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, si ipotizzano a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Perquisizioni a carico di altre 21 persone indagate per gli stessi reati. I provvedimenti riguardano gli sviluppi delle indagini su "Mafia Capitale", il gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. Secondo gli investigatori, gli accertamenti successivi a quella tornata di arresti hanno confermato "l’esistenza di una struttura mafiosa operante nella Capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministrativi ed imprenditoriali locali". In particolare le indagini avrebbero documentato quello che per gli inquirenti è un "ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d’imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori". Tra gli arresti del Ros c’è anche Luca Gramazio, accusato di partecipazione all’associazione capeggiata da Carminati, che avrebbe favorito sfruttando la sua carica politica: prima di capogruppo Pdl al Consiglio di Roma Capitale ed in seguito quale capogruppo Pdl (poi FI) al Consiglio Regionale del Lazio. In carcere anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, l’ex assessore alla Casa del Campidoglio, Daniele Ozzimo. I Ros hanno posto in arresto anche i consiglieri comunali Giordano Tredicine, Massimo Caprari e l’ex presidente del X Municipio (Ostia), Andrea Tassone. Le indagini evidenziano la "centralità, nelle complessive dinamiche dell’organizzazione mafiosa diretta da Massimo Carminati, di Salvatore Buzzi", già coinvolto nella prima fase dell’inchiesta e ritenuto "riferimento di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate". Ampio, secondo gli investigatori, l’ambito di azione di Buzzi e delle imprese che a lui facevano riferimento: "Accoglienza dei profughi e dei rifugiati, raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti, manutenzione del verde pubblico" e altri settori oggetto di gare pubbliche, come ad esempio "i lavori connessi all’emergenza maltempo a Roma e le attività di manutenzione delle piste ciclabili". Secondo gli inquirenti Luca Odevaine (nella veste di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale) sarebbe stato in grado di garantire consistenti benefici economici ad un "cartello d'imprese" interessate alla gestione dei centri di accoglienza, determinando l'esclusione di imprese concorrenti dall'aggiudicazione dei relativi appalti". Come già avvenuto nel primo filone dell'inchiesta, spuntano le intercettazioni. "... Altre cose in giro per l’Italia ... possiamo pure quantificare, guarda... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va beh... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...". È Luca Odevaine, in una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, a prospettare quello che il gip Flavia Costantini definisce "un vero e proprio tariffario per migrante ospitato". Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della "Cooperativa 29 giugno" e spiega: "Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so' almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so' 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...". Sulla nuova ondata di arresti è intervenuto il sindaco di Roma, Ignazio Marino: "Credo che la politica nel passato abbia dato un cattivo esempio ma oggi sia in Campidoglio che in alcune aree come Ostia abbiamo persone perbene che vogliono ridare la qualità di vita e tutti i diritti e la dignità che la Capitale merita". E ancora: "Sono estremamente orgoglioso e felice del lavoro del procuratore Pignatone che, dal suo punto di vista e per la sua area di lavoro, sta svolgendo lo stesso tipo di compito che noi stiamo facendo dal punto di vista amministrativo".

Ndrangheta, quando don Scordio attaccava don Luigi Ciotti: “Colonizzatore piemontese”, scrive RaiNews il 16 maggio 2017. Quando don Edoardo Scordio parlava di don Luigi Ciotti come “colonizzatore piemontese” e di Libera come “cosa mastodontica che viene da fuori”. Libera a Isola Capo Rizzuto non ci doveva proprio arrivare, era questa la convinzione di don Edoardo Scordio, il parroco che da ieri si trova in stato di fermo con l’accusa di associazione mafiosa. La Dda di Catanzaro gli attribuisce un ruolo di primissimo piano nell’Operazione Jonny, eseguita da 500 uomini di carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia e che ha portato al fermo di 68 persone. Edoardo Scordio per anni ha parlato di “colonizzatore piemontese” quando si riferiva a don Luigi Ciotti fino al punto che il fondatore di Libera fu costretto a rispondere. E lo fece in aula di tribunale quando fu sentito come teste della difesa nel processo contro l’ex sindaco Carolina Girasole (poi assolta da tutte le accuse), una che, invece, lottò come un leone per portare Libera a Isola Capo Rizzuto. In quella occasione don Luigi Ciotti appena sedutosi sul banco dei testimoni e declamate le sue generalità precisò: “Io sono veneto e vivo in Piemonte, ma non sono piemontese come sostiene qualcuno”. Ma c’è di più. Il parroco di Isola Capo Rizzuto in questa intervista, rilasciata alla collega Raffaella Cosentino per il documentario “Terre impure” sosteneva: “La ‘ndrangheta a Isola Capo Rizzuto è quasi scomparsa grazie al nostro associazionismo” (video di RaiNews). Quando don Scordio attaccava don Ciotti e Libera per i beni confiscati alla mafia "La 'ndrangheta a Isola Capo Rizzuto è quasi scomparsa grazie al nostro associazionismo", diceva un anno fa in questa intervista inedita don Scordio, parroco oggi accusato di aver ricevuto 130mila euro per "assistenza spirituale" ai migranti. La procura lo accusa di essere il gestore occulto del Centro di Accoglienza su cui ci sarebbero le mani della cosca Arena. L'operazione, chiamata 'Jonny', ha portato ieri in carcere 68 affiliati accusati di associazione mafiosa e altri reati. ​Vediamo un estratto dal documentario inedito "Terre Impure", della giornalista della Tgr Sicilia Raffaella Cosentino.

È lunga la strada che porta al riscatto. L’arresto del parroco di Isola Capo Rizzuto don Edoardo Scordio fa riflettere: pesa ancora in Calabria un rapporto malato tra un pezzo della chiesa e la società mafiosa, scrive Gian Antonio Stella il 16 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Non è stata una sorpresa, purtroppo», sospira don Luigi Ciotti alla notizia dell’arresto del parroco di Isola Capo Rizzuto don Edoardo Scordio, che secondo gli investigatori sarebbe coinvolto nel business del Centro di accoglienza di «Sant’Anna» pesantemente «infiltrato» dalla ‘ndrangheta e si sarebbe messo in tasca tre milioni e mezzo di euro. Era da tempo che il prete, uscito più volte allo scoperto rivendicando la gestione delle terre sottratte alla mafia e al clan degli Arena, si sfogava pubblicamente contro «la colonizzazione piemontese». Cioè contro il fondatore di Libera. Meno ancora ha stupito il coinvolgimento di Leonardo Sacco, governatore della «Misericordia» locale. A dispetto dell’impegno di uomini come l’allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini o delle dure parole del Papa, che quasi tre anni fa spiegò che gli ‘ndranghetisti «sono scomunicati» perché «la ‘ndrangheta è adorazione del male e disprezzo del bene comune», pesa ancora in Calabria un rapporto malato tra un pezzo della chiesa e la società mafiosa. E non parliamo solo di un passato in cui certe comunità parrocchiali regalavano al prete una pistola o certi parroci facevano sette figli con la perpetua senza che il paese osasse contestare la sua autorità. Né di sacerdoti d’un tempo come don Giovanni Stilo, sul quale scrisse pagine indimenticabili Corrado Stajano raccontando dello scontro con un altro prete, don Natali Bianchi, che avrebbe testimoniato al processo che dopo aver raccolto voci sulla centralità di don Stilo «come elemento mafioso» si rivolse al vescovo. E quello gli disse «che se anche in passato don Stilo aveva coltivato certi legami ora stava cercando di liberarsene. Mi disse anche di non parlare troppo di queste cose: avrei potuto rischiare la vita». Ancora pochi anni fa il parroco veneto che dopo aver fatto a lungo il missionario in luoghi difficili come la sudafricana Soweto era stato mandato a Platì per «convertirla» raccontava di aver trovato i registri non aggiornati da anni e di essere rimasto scioccato perché tanti parrocchiani si calcavano il berretto in testa entrando in chiesa per sottolineare che loro non se lo toglievano manco davanti a Dio. Per non dire dei rituali «inchini» durante le processioni. Tra le ultime quella di Oppido Mamertina, dove la «vara» si fermò tre anni fa, per rendere omaggio al boss, davanti alla casa di Giuseppe Mazzagatti… Ecco, l’arresto di don Edoardo Scordio ricorda che la strada del riscatto è ancora lunga lunga…

Già, perché Don Ciotti è diverso….

Libera. Gli attivisti dell'associazione creata da Don Ciotti promuovono il riuso sociale dei beni confiscati alla mafia. Alcuni di loro gestiscono in prima persona aziende agricole e agriturismi nati su terreni che un tempo erano nelle mani dei più potenti boss di Cosa nostra.

Non profit: i tanti Don Ciotti che battono la Mafia Spa, scrive Marco Crescenzi l'1 settembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Il settore non profit è più forte economicamente e “fattura” più delle Mafie (leggi l’accurata trattazione e le fonti citate da Mario Centorrino e Pietro David in Il fatturato di Mafia Spa, Lavoce.info, ilfattoquotidiano.it. Vedi anche Bankitalia 2012), con un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro con un’incidenza del 4,3% sul Pil (2012), simile a quello agricolo e in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che attestavano tale cifra a 38 miliardi. Una economia “civile” e partecipativa, con una occupazione in aumento negli ultimi 20 anni che impiega stabilmente oltre 1 milione di persone – superiore al 3% degli occupati in Italia, prevalentemente giovani, prevalentemente donne, al nord come al sud. Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari. E’ quindi un vero peccato che il settore abbia sempre avuto dai governi precedenti, dai media e nell’opinione generale molta meno attenzione rispetto all’economia criminale: con maggiore supporto sarebbe stata in grado di batterla definitivamente sul suo stesso terreno – culturale, territoriale, occupazionale. Al fianco dei tanti giornalisti, magistrati, uomini di chiesa e professionisti ‘puliti’ ugualmente e comunemente impegnati. Quando si pensa e si parla di non profit, dobbiamo ricordarci due cose. La prima, è che il non profit è una infrastruttura valoriale civile ed economica ad altissima diffusione territoriale, che intercetta soprattutto i giovani e le donne, molti diversamente abili – i soggetti ritenuti (a torto) i più ‘deboli’. Il non profit è quindi un potente motore culturale e di economia civile. E’ sul territorio, può ‘controllare’ il territorio. Come spiega Gianfranco Marocchi, Presidente del Consorzio Idee in Rete (500 cooperative diffuse anche nei territori ad alta densità mafiosa, con 400 milioni di euro di fatturato): “Non stupiscono le minacce ad una delle figure guida del settore. Cose del genere sono accadute a molte cooperative sociali, perché queste riescono a costruire una socialità alternativa che taglia le gambe alla criminalità – la quale vive proprio sul controllo del territorio. Quando la mafia vede organizzazioni che fanno crescere i giovani con valori, progetti e prospettive di vita diverse, l’organizzazione criminale si sente minata nelle sue basi più profonde. Stanno crescendo, anche grazie al non profit, una generazione ed una economia diverse”. La rappresentazione ‘naif’ che i media danno del non profit come ‘bravi ragazzi volontari’ e bandierine arcobaleno al vento, non solo è falsa, ma è anche molto dannosa: allontana i giovani migliori dal considerarlo una seria prospettiva professionale: ‘economia’, ‘carriera’, ‘impresa’, ‘impiego’ retribuito. La Mafia da tempo si combatte anche a colpi di progetti sociali ed imprenditoriali innovativi: non a caso Gianfranco è anche Direttore di un Master ‘impegnato’ come quello in Imprenditoria ed Innovazione Sociale, uno sforzo comune per dare competenze, prospettive progettuali e di start up ‘sociale’ in situazioni complesse. La seconda cosa da ricordare è che tanta gente ci rischia la vita (guadagnando poco): sempre Gianfranco Marocchi ci ricorda casi come quello dell’Associazione Comunità Progetto Sud di Lamezia, trovatisi una mattina con la macchina con i freni rotti che corre in discesa contro un albero; gli spari contro i vetri dell’edificio espropriato alla famiglia locale (sempre a Lamezia), o in Sicilia alla Cooperativa San Giuseppe, a cui sono stare bruciate le ambulanze. Episodi meno noti ma purtroppo non infrequenti. E per questo, a mio avviso, il non profit è la scelta di maggiore “senso” tra l’emigrazione giovanile al sud (+ 400% negli ultimi 10 anni – dati Almalaurea – ma con trend in netto aumento) e la contaminazione mafiosa. Le mafie sono una peste orrenda, ma è curabile: il miglior antidoto è l’economia civile. Di Don Ciotti, per fortuna vitali e più combattivi che mai, ce ne sono migliaia, meno noti ma ugualmente impegnati. Anche volendo, una qualsiasi azione violenta contro uno di noi non farebbe che rafforzare gli altri, far incazzare e scendere in campo altre migliaia di giovani come quelli che passano dal volontariato all’impresa sociale, che creano start up sociali, consorzi, filiere di produzione e distribuzione, partenariati produttivi e creativi come quelli con Slow Food e con Coop, manager ‘sociali’ come quelli che si formano nella nostra Scuola. Le mafie non devono temerne e combatterne uno, ma centinaia di migliaia, sempre più culturalmente emancipati e professionalmente preparati. Credo proprio per loro che sia una battaglia persa in partenza. In ogni caso, come diceva Falcone «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».

Sì…a 60 cent di euro a Passo. Ecco quanto costa l'accompagnatore di AddioPizzo travel per farvi fare i cento passi che separavano la casa di Peppino Impastato all'abitazione del suo carnefice...Con quei soldi avrebbero dovuto inserire anche un paio di scarpe...

I Professionisti dell'Antimafia...Cazzo come sfidano la mafia...

Si legge dal loro sito web. Addio Pizzo Travel.

Mission. Una nuova frontiera del viaggiare responsabile: il turismo pizzo-free, a sostegno di chi ha detto no alla mafia.

Bellezza e impegno. Vi offriamo una terra dallo straordinario patrimonio culturale, artistico e ambientale e la possibilità di conoscere le persone, i luoghi e le storie più significativi del movimento antimafia. Vogliamo mostrare ai viaggiatori il volto più autentico e genuino della Sicilia, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Vogliamo restituire dignità alla nostra terra e dare visibilità a un popolo che sta lottando per il cambiamento. Vogliamo coinvolgere i nostri ospiti in questa esperienza e trasmettere loro lo stesso nostro entusiasmo.

La scelta pizzo-free. I fornitori a cui ci appoggiamo per i nostri tour non pagano il pizzo. Sono i titolari di alberghi, B&B, ristoranti, aziende agricole e agenzie di trasporti che hanno fatto una scelta coraggiosa di ribellione alla mafia. Alcuni di loro lavorano su terreni confiscati ai boss di Cosa nostra. Chi viaggia con noi sceglie strutture ricettive certificate da Addiopizzo e tour al 100% pizzo-free. Sceglie di contribuire allo sviluppo di un circuito di economia pulita. Sceglie di sostenere con una donazione le realtà del volontariato impegnate in prima linea nel sociale. Sceglie di non lasciare nemmeno un centesimo alla mafia. Si dimostra così che stare dalla parte della legalità, oltre ad essere giusto da un punto di vista etico, può essere anche conveniente.

La quota solidale. Sosteniamo tramite donazioni le associazioni no profit impegnate nel sociale e coinvolte attivamente nei nostri tour: il Comitato Addiopizzo onlus, Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato a Cinisi, Libera, il Centro Sociale San Francesco Saverio, il Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato".

Da dove veniamo: il Comitato Addiopizzo. Il nostro tour operator nasce dal Comitato Addiopizzo come ulteriore declinazione della strategia del consumo critico contro il pizzo, applicata al settore del turismo. Il Comitato Addiopizzo è un movimento antimafia nato nel 2004 da un gruppo di giovani intorno a uno slogan: un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità. Opera dal basso con una strategia inedita: il consumo critico contro il pizzo. I cittadini sostengono con i propri acquisti i commercianti che non cedono alle richieste estorsive e che si sono apertamente schierati contro la prepotenza mafiosa. Addiopizzo sprona la società ad assumere un deciso impegno per il cambiamento e promuove una rivoluzione culturale collettiva contro la mafia.

Cento passi sulle orme di Peppino. Fra Cinisi e Terrasini per ripercorrere la storia di Peppino Impastato, il giovane attivista che si ribellò alla mafia, dentro e fuori le mura di casa. Giornalista, attivista politico, animatore culturale, ambientalista, hippy, poeta: Peppino Impastato era tutto questo. Sebbene cresciuto in una famiglia mafiosa, osò rompere con la cultura del clan rappresentata dal padre, denunciare i crimini e gli abusi di Cosa nostra, e persino sbeffeggiare via radio il potente boss Gaetano Badalamenti. Questo tour è un invito a conoscere Peppino Impastato: una figura affascinante, un’icona dello spirito inquieto della giovinezza.  Ad ascoltare la sua storia dalla viva voce di chi lo ha conosciuto.  A ripercorrere insieme i “cento passi” che separavano la sua casa da quella del suo carnefice. Possibilità di cenare presso la pizzeria Impastato, di proprietà dei familiari di Peppino o presso Pizzeria La Stazione, location del film "I Cento Passi". ​Autorizzazione n° 54/S9-TUR del 04/05/2016.

Visita i luoghi che raccontano la straordinaria esperienza di Peppino Impastato. Ascolta la sua storia dalla viva voce di chi lo ha conosciuto. Percorri simbolicamente i "cento passi" resi celebri dal film di Marco Tullio Giordana. Scopri i colori e le forme inusuali della costa di Terrasini. In questo tour visiterai:

Cinisi. Il paese in cui visse Peppino Impastato, giovane attivista che si ribellò alla mafia fuori e dentro casa sua, e che fu per questo assassinato nel 1978. A lui è dedicato il bellissimo film ''I Cento Passi''.

Terrasini. Pittoresco paese di pescatori, la sua costa frastagliata offre una serie ininterrotta di vedute suggestive su cale, spiagge e torri.

Durante questo tour potresti incontrare: Giovanni Impastato. Fratello minore dell'attivista ucciso dalla mafia nel 1978, è fra i fondatori di "Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato". La sua voce accorata e sincera racconta il conflitto di chi ha vissuto la mafia e l'antimafia all'interno delle mura domestiche, e la successiva battaglia nel nome della verità.

€ 60 a persona. Sono previsti riduzioni per gruppi e minorenni. La quota comprende:

accompagnamento da parte del mediatore culturale;

quota solidale Comitato Addiopizzo.

La quota non comprende: trasporti, assicurazione, quanto non indicato ne "la quota comprende".

Su richiesta è possibile prenotare i trasporti o effettuare il tour con la formula "bici+treno".

Addiopizzo Travel soc. coop. Arl

Lo scandalo dei beni sequestrati alla mafia e il ruolo della Massoneria, scrive Riccardo Gueci il 29 Ottobre 2015 su “La Voce di New York". Tutti sapevano come veniva gestita la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ma nessuno parlava. E il motivo è semplice: perché dietro questo grande affare c’è la Massoneria. I grandi 'numeri' della holding di don Ciotti, Libera: chi guadagna sulle lucrose vendite dei prodotti agricoli di questa associazione antimafia? Sull’indegna questione che ha investito la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo vanno in scena le sceneggiate di tanti protagonisti. Il primo è un esponente del mondo politico. A recitarla è l'onorevole Claudio Fava, membro autorevole della Commissione parlamentare Antimafia. Salvo Vitale – come riportato nella pagina Facebook di Riccardo Compagnino – riprende una dichiarazione del deputato di Sinistra Ecologia e Libertà nella quale si legge: “C'è un punto di cui nessuno ci ha mai parlato, ovvero che il marito della presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, avesse una preziosa consulenza con lo studio del commercialista che si occupa della gran parte dei beni sequestrati”. A questa dichiarazione, Salvo Vitale, con la serenità di chi sa il fatto suo, ribatte: “A parte il fatto che Cappellano Seminara è un avvocato e non un commercialista, non è giusto, né corretto che tu faccia questa affermazione”. E, nel far trasparire che egli con quel deputato ha avuto una qualche frequentazione, continua: “Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi (presidente della Commissione Antimafia, ndr) per 'tutelare' l'immagine di un settore della Procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del Prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c'era sotto, hai abbassato il capo, dicendo che bisognava intervenire, ma forse eri distratto”. Vitale prosegue nella sua replica affrontando un aspetto che, con tutta probabilità, è quello di maggiore rilevanza economica e sociale di questo andazzo affaristico-massonico: il fallimento di aziende, anche quelle sequestrate a gente che è risultata estranea agli affari di mafia. Questa serie di fallimenti ha concorso a determinare l'impoverimento dell'economia di Palermo e della sua provincia, che già di suo non è mai stata prosperosa. “Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura – aggiunge Vitale – cosa peraltro ripetuta dal giudice Morosini – sarebbe stato più utile per la storia che ti porti appresso chiedere di far pulizia all'interno di essa, anche perché la fiducia dei cittadini non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto, quando bisogna far pulizia in casa. Bastava guardare a Villa Teresa (Villa Santa Teresa, clinica privata confiscata all’ingegnere Michele Aiello ndr) – dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Andrea Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili – per renderti conto che la signora Saguto Silvana, il signor Caramma Elio, suo figlio, e il signor Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti sulla lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla signora Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E, invece, non si è fatto niente. E' facile dire che non sapevamo…è difficile crederci”. In sostanza, il deputato di Sel e vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia ha recitato la sua sceneggiata e Vitale con dovizia di particolari e di argomenti l'ha recensita a dovere. Fin qui l'arringa di Vitale. Ma c'è un'altra fonte di notizie che va tenuta in debita considerazione ed è quella di Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la testata che per prima ha sollevato il caso. Maniaci è stato intervistato dal nostro Giulio Ambrosetti “per conoscere qualche dettaglio in più e le sue valutazioni sul caso” ed ha avuto modo di annotare alcune sue valutazioni assai interessanti. In particolare su quanto riportato in un articolo del Giornale di Sicilia che rende noti alcuni stralci delle intercettazioni telefoniche tra la dottoressa Silvana Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dove si fa riferimento all'impresa Calcestruzzi. Pino Maniaci, saggiamente, precisa: “Quando si parla di Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere (del Tribunale di Palermo ndr) amministra almeno dodici aziende di calcestruzzo”. Quindi l’affondo: “La dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera. Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire le associazioni antimafia e antiraket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”. Ad una seconda domanda generica sulle associazioni antimafia, “parliamo un po' di Libera e di Addiopizzo”, Pino Maniaci puntualmente fa rilevare che “sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta 5/6 euro, un vasetto di caponata 5 euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Sull'argomento ho chiesto un parere a don Ciotti. Ma non ho avuto risposte”. Le tirate moralistiche di don Luigi Ciotti le dobbiamo considerare anch'esse sceneggiate? “Poi c'è la questione legata ai sequestri. Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge – relatore il parlamentare Davide Matello, del PD, da sempre vicino a Libera – prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”. E sempre a questo proposito, che risulta essere uno dei temi più delicati del sistema delle confische, Maniaci prosegue nel ricordare come in alcune vicende che hanno visto tante imprese avere avuto riconsegnate le loro aziende dopo il sequestro, svuotate di ogni attività, al limite del fallimento. Con questa procedura “è stata distrutta buona parte dell'economia di Palermo e della sua provincia”. Ed aggiunge “sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”. E ricorda la vicenda dell'impresa Niceta che con tutta probabilità chiuderà i battenti: “Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa 50 dipendenti e ne hanno assunti 24. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici del solito giro. L'ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare le teste lasciando il corpo non serve a nulla. A che serve mandare via Virga se poi i coadiutori, nominati dallo stesso Virga, restano?”. E continua: “Dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti”. Fin qui l'intervista a Pino Maniaci. C'è poi un'altra sceneggiata, che sa di paradosso. Stavolta la limitiamo al massimo. La dottoressa Saguto, poverina, a causa del magro stipendio che le passa lo Stato per il suo lavoro di magistrato, si era ridotta a contrarre un debito con il supermercato – sequestrato alla mafia – dove faceva la spesa per sfamare la famiglia. Ed addirittura secondo un articolo apparso sul Giornale di Sicilia, la poverina non aveva i soldi per pagare la bolletta della luce. Le cronache ci consegnano questo quadro, al netto delle intercettazioni telefoniche che riguardano giudizi del tutto gratuiti sui figli di Paolo Borsellino, il magistrato fatto saltare con la sua scorta in via D'Amelio nel 1992, delle quali ci intratterremo in seguito. Queste cronache ci inducono a sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda il sistema gerarchico del Tribunale di Palermo. Se la Sezione Misure di prevenzione procede al sequestro di beni per i quali la stessa ‘macchina’ della Giustizia ha escluso la provenienza mafiosa, non c'è in quel sistema gerarchico qualcuno che faccia presente che quel sequestro è illegittimo? La ragione di questa 'assenza' è dovuta ad un potere occulto, che anche i ciechi e i sordi sanno fare capo alla Massoneria. Infatti, tutti gli uffici del Tribunale, specialmente Civile e in parte del Lavoro, sono largamente infiltrati dal potere massonico. Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Nel giro è compresa larga parte dell'avvocatura. La cosa non è nuova, basta ricordare quello che è accaduto al dottor Alberto Di Pisa quando, sull'argomento, si 'permise' di esprimere qualche opinione. Ricordate la vicenda del “corvo”? Da allora non è cambiato nulla. Anzi! Non va trascurato il fatto che molto spesso tra la Massoneria e la mafia è esistita una intesa molto stretta. Infatti, tra sette segrete ci si intende più facilmente e si possono curare affari molto lucrosi se si opera di comune accordo. Intanto quelle aziende, affidate alle 'cure' di amministratori di fiducia vengono distrutte e, talora, riconsegnate ai legittimi proprietari semi fallite e con le maestranze licenziate. Con il bel risultato di avere provocato sia un danno all'economia, sia un contributo in più alla disoccupazione. Il secondo fa riferimento alle perplessità manifestate da Pino Maniaci a proposito di Libera, l'associazione creata dal don Luigi Ciotti per amministrare, attraverso un sistema di cooperative, i beni immobili, specialmente terreni agricoli confiscati alla mafia. Maniaci fa riferimento ai prezzi proibitivi dei prodotti agricoli di queste cooperative e di averne chiesto inutilmente le motivazioni a don Ciotti. E rileva che ormai Libera è una vera e propria holding. A proposito di tale questione va ricordato che le cooperative agricole, promosse da Libera, che gestiscono i terreni agricoli confiscati alla mafia sono finanziate con le risorse finanziarie europei dei PON, cioè dei Piani Operativi Nazionali, sezione fondi strutturali europei per la sicurezza. In definitiva quelle cooperative hanno i costi di gestione coperti dai fondi europei e, spesso, utilizzano locali di vendita dei loro prodotti anch'essi confiscati alla mafia. Non solo. Per l'uso dei terreni agricoli non pagano nulla, ancorché in affidamento. Il capitale investito dai loro soci è di entità simbolica. In sostanza, gestiscono soltanto utili. In presenza di queste condizioni irripetibili in nessuna parte del mondo, non si capisce la ragione economica del perché i loro prodotti abbiano questi prezzi proibitivi destinati al consumatore di reddito medio alto. A chi vanno questi ragguardevoli profitti? Un’indagine su costi, ricavi e investimenti delle cooperative di Libera non sarebbe del tutto fuori luogo. Il terzo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Secondo quanto riferito dalla dottoressa Silvana Saguto, l'organo di autogoverno dei magistrati ha invitato tutti coloro che sono implicati nelle vergognose vicende ricordate in precedenza a chiedere il trasferimento. Questo è un punto delicato per la credibilità della Magistratura che rischia di farla apparire una corporazione al di sopra e al di fuori della legge che vale per tutti gli altri cittadini italiani. La questione, invece, è molto semplice: la dottoressa Saguto, nell'ambito dei suoi compiti d'istituto, ha compiuto quegli atti che le vengono addebitati? Allora: se quegli atti si configurano non conformi alla deontologia professionale o, addirittura, come reati, la dottoressa Saguto e i suoi complici vanno licenziati in tronco alla stregua di qualsiasi altro lavoratore che non svolga i compiti che gli sono assegnati con la dovuta correttezza. In questo caso nella condizione del licenziamento dovrebbe figurare pure il divieto perenne ad entrare in un'aula di qualsiasi Tribunale italiano, neanche come avvocato. Il congresso del sindacato italiano dei magistrati, ove volesse darsi un minimo di dignità, dovrebbe discutere di deontologia e di valori etici nell'esercizio della professione per dare più forza e credibilità alla funzione del magistrato.

*Riccardo Gueci è un dirigente pubblico in pensione. Cresciuto nel vecchio Pci, non ha mai dimenticato la lezione di Enrico Berlinguer. Per lui la politica non può essere vista al di fuori della morale (Berlinguer, grande leader del Pci, a proposito della gestione del potere in Italia, parlava infatti di "Questione morale").  Per noi Gueci commenta i fatti legati alla politica estera e all'economia. Oggi affronta il tema delle polemiche che stanno accompagnando la gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Tema che affronta da una particolare angolazione: quella economica, per l'appunto. Sottolineando il ruolo che nell'economia siciliana – spesso in modo occulto – viene svolto dalla Massoneria.

PIOGGIA DI MILIONI SULL’ANTIMAFIA (FAI E LIBERA). PON SICUREZZA, GESTIONE DEI BENI CONFISCATI, FINANZIAMENTI ALLE COOP.

Palermo, un audio scuote i 5 stelle: "Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo". Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L'ira del candidato: "Solo falsità", scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l'8 maggio 2017 su "La Repubblica". Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso ("Un fantasma che muove tutte queste persone"), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di "un circuito meraviglioso" per il quale "si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna". Poi Addiopizzo si costituisce parte civile "e viene difesa da quell’altro". Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi "e se li liquidano loro stessi". "Geniale", commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. "Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare", dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: "Noi rappresentiamo un involucro da riempire", commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. "È un fatto molto grave", ancora Nuti. "Siamo stati scalati", fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: "Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze". Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.

Libera, da gestione beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio". Nando Dalla Chiesa: "Non è vero", scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia.

Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica.

Gli uomini d’oro – Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss.

Una holding da 5 milioni – In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca. “Non so a che titolo Maresca abbia detto queste cose: holding dell’antimafia? Non esiste. Da anni si dice che l’antimafia si spacca ma invece il movimento antimafia scoppia di salute. Anche il dato che Libera occupi militarmente uno spazio in monopolio non corrisponde al vero”, dice Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera. “Si fa un gran parlare di finanziamenti che in certi casi sono davvero ridicoli, si parla di grandi numeri ma quanti dipendenti fissi ha davvero Libera? - continua il sociologo –  La verità è che mentre il movimento antimafia continua  a crescere nelle scuole è scoppiata questa ‘moda’ di sparare sul mondo dell’antimafia, su Libera negli ultimi tempi, un copione già ampiamente visto negli anni ’80, purtroppo”.

L’Antimafia indaga sull’antimafia – “Libera per la gestione dei beni confiscati non riceve contributi pubblici. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”, ha invece spiegato lo stesso Don Ciotti alla commissione Antimafia. Il nodo fondamentale, manco a dirlo, è rappresentato dai beni confiscati a Cosa nostra, quel tesoro da trenta miliardi che Libera, in effetti, non gestisce direttamente (se non in qualche caso): è un fatto, però, che una grossa fetta della ricchezza sottratta ai boss mafiosi è assegnata a cooperative e associazioni che fanno tutte parte della galassia di don Ciotti. E sono le stesse associazioni e coop che quindi vincono i bandi, presentano progetti e ricevono finanziamenti per gestire quei beni. L’ultimo esempio? Il Pon Sicurezza da 1,4 milioni di euro per migliorare la gestione dei beni vinto dal Consorzio Sviluppo e legalità, che raggruppa alcune cooperative antimafia della provincia di Palermo. È a questo che riferiva Maresca nel suo j’accuse? E non sarebbe stato a questo punto il caso di sentire anche il pm a Palazzo San Macuto? Da dicembre, infatti, i parlamentari dell’Antimafia sono impegnati in un’indagine quasi paradossale: approfondire limiti e contraddizioni del vasto insieme che negli ultimi anni si è auto posizionato in prima fila nella lotta per la legalità. Come dire che se il 2015 passerà alla storia come l’annus horribilis dell’antimafia il 2016 potrebbe essere invece l’anno zero di quello stesso mondo che negli ultimi dodici mesi è finito divorato da indagini, veleni e polemiche al vetriolo.

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L’Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi.

In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia».

Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”.

Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti.

Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa».

Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici.

Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto.

Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».

L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime.

Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito.

Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non.

Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato.

A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea.

E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

Quanto costa la scuola d'antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì 16 Giugno 2016 su Live Sicilia. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso, il tema del “seguire i soldi” torna d'attualità, tra le polemiche, quando si parla d'antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui s'è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all'antimafia “scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali. La commissione Antimafia dell'Ars, ad esempio, ha avviato un'indagine sui contributi statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura in questi anni per capirne meglio l'utilizzo. Un'indagine “per verificare i contributi pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l'utilizzo dei fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente Nello Musumeci. Ma anche l'Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni per scandagliare il variegato mondo dell'antimafia. Tra le altre audizioni quella del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo e all'antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”. Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell'interno. E poi dal Ministero dell'istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell'audizione ha spinto il Ministero dell'Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta nel dettaglio l'attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all'anno. Destinati a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell'Interno, tra le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l'Antimafia istituzionale vuole vederci chiaro sull'ombra del business che si è affacciata sull'antimafia dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo in certi casi le sembianze della holding, dell'ufficio di collocamento o magari della claque per l'icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro destinato all'antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell'Istruzione, che sul tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare generalizzazioni.

I soldi alle scuole. In totale per l'anno scolastico appena concluso il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi, 3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti quindi è di circa 3mila euro per progetto. L'anno precedente per questa stessa voce c'era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole siciliane che quest'anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità, che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti. Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali (per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere).

I bandi. A questi 3 milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un'orchestra che coinvolge i bambini delle aree a rischio dell'hinterland catanese), l'Auser di Augusta e l'Acmos (7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d'azzardo all'interno di beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest'anno il contributo alla Fondazione Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro.

I protocolli d'intesa. Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d'intesa sottoscritto dal Miur con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest'anno oltre a Palermo erano coinvolte altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”, ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa 20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l'iniziativa di Libera, ndr) che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi, sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d'Italia – spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione - per portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi il messaggio della legalità arriva più forte grazie all'accostamento di queste figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone alla società.

Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione, inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all'Autorità Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all'Anm. Sulla base di queste carte d'intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere dei costi: il Miur nella sua lettera all'antimafia allega a titolo d'esempio la convenzione con l'Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”, progetto che ha un costo di 35mila euro.

La pioggia di milioni sull'Antimafia. Ecco i fondi del Pon Sicurezza, scrive Domenica 17 Luglio 2016 Salvo Toscano su "Live Sicilia". Seconda puntata del viaggio sui finanziamenti destinati all'antimafia. La fetta più grossa è quella gestita dal ministero dell'Interno. Una valanga di soldi. Che innaffiano il prato sempre verde dell'antimafia. Un campo diventato ricco negli ultimi anni. Grazie a diverse fonti di finanziamento. Tra le quali spiccano le ingenti risorse del Pon sicurezza gestito dal ministero dell'Interno. Che in questi anni ha finanziato con quelle somme, oltre a diversi interventi per potenziare la sicurezza del territorio, anche, indirettamente, la galassia dell'antimafia organizzata, quella dell'associazionismo. Con le ingenti risorse del Pon, infatti, oltre a campetti da calcio e piscine, si sono finanziate iniziative legate all'utilizzo dei beni confiscati, vini, cartoni animati, botteghe della legalità, fiere. Un mese fa avevamo intrapreso il viaggio nel vasto mondo dei soldi dell'antimafia partendo da quelli erogati dal ministero dell'Istruzione. La seconda puntata si affaccia ora su risorse ben più cospicue. Quelle, saldamente nelle mani del ministero dell'Interno guidato da Angelino Alfano, del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza. Per il quale è in rampa di lancio la nuova programmazione settennale. Per questa nuova tornata in ballo ci sono 377 milioni di euro. A tanto ammonta la dotazione del Pon Legalità 2014/2020, che è stato presentato nel marzo scorso. Un tesoro che sarà gestito dal Viminale. Così come quello ancora più cospicuo della precedente programmazione. Ottenere informazioni dal ministero dell'Interno sul tema non è stato facile. Sono state necessarie un paio di email, altrettante telefonate e una lunga attesa per riuscire a sapere, alla fine, dall'ufficio stampa che le informazioni sul Pon si possono trovare sul sito Internet del Pon (sicurezzasud.it). Punto. Un flusso di informazioni menofluido rispetto al ministero dell'Istruzione che ha messo tempestivamente a disposizione di Livesicilia in tempi stretti tutti i dettagli delle somme stanziate per le iniziative su legalità e antimafia che coinvolgono gli studenti (leggi l'inchiesta). Per le ben più abbondanti somme gestite dagli Interni, che hanno distribuito a soggetti istituzionali una pioggia di finanziamenti destinati anche al variegato universo delle sigle "legalitarie" e antimafia, bisogna quindi districarsi tra i tanti documenti pubblicati sul ricco sito Internet del Pon Legalità 2007-2013. Il programma ha portato in dote per Calabria, Campania, Puglia, Sicilia addirittura 852 milioni, tra fondi europei e nazionali. L'ultimo rapporto annuale di esecuzione pubblicato è quello relativo al 2013. Al 31 dicembre di quell'anno il totale delle spese ammissibili certificate sostenute dai beneficiari del Programma, che sono tutti soggetti istituzionali, ammontava a poco meno di 500 milioni, che corrispondono al 58% della dotazione finanziaria complessiva. Gli ultimi rilevamenti della scorsa primavera, scriveva a marzo il Sole24Ore, davano gli impegni di spesa all'86,3 per cento, un po' indietro rispetto alla media dei fondi strutturali. I fondi sono destinati a finanziare una serie di voci legate alla legalità, tra cui anche quelle che mirano a tutelare la sicurezza dei cittadini o quelle che puntano a “realizzare iniziative in materia di impatto migratorio” (ad esempio a Ragusa a marzo di quest'anno sono partite le attività all’interno del Centro Polifunzionale d’informazione e servizi per migranti finanziato dal Pon con un importo di 1.950.000 euro) o ancora quelle rivolte ai giovani per diffondere la cultura legalità. Per questa voce, ad esempio, è stato varato negli scorsi anni un programma specifico rivolto alla Sicilia con un milione e mezzo a disposizione, che ha finanziato tra l'altro il progetto “In campo per la legalità” per creare un cento di aggregazione giovanile a Catania (oltre 800mila euro l'investimento), due centri analoghi sui Nebrodi a Torrenova e San Fratello (nel locale che ospita la biblioteca intitolata al nonno di Bettino Craxi), la manutenzione straordinaria di un campo polifunzionale e della piscina comunale di Racalmuto (372mila euro, l'impianto non è ancora entrato in attività) e nello stesso comune dell'Agrigentino la “valorizzazione e ampliamento della capacità ricettiva del teatro comunale "Regina Margherita" (intervento effettuato ma il teatro ancora non funziona perché mancano una serie di misure sulla sicurezza della struttura). Tra le attività realizzate nel 2012 il rapporto mette in evidenza la partecipazione ai campi estivi nei beni confiscati di Libera, la partecipazione al Prix Italia, la partecipazione con uno stand alle celebrazioni del 23 maggio a Palermo. Sempre nel 2012 è stato finanziato con poco meno di 100mila euro un progetto per dare vita a un centro di aggregazione giovanile a Lentini (Siracusa) per contrastare fenomeni di dipendenza. Tra i beneficiari istituzionali dei finanziamenti c'è l’Ufficio del Commissario straordinario antiusura ed antiracket, che sostiene la galassia di associazioni antipizzo proliferate negli ultimi anni in giro per l'Italia. Sul sito del Viminale l'ufficio del Commissario antiracket ne accredita 120, e quasi la metà ha sede in Sicilia. Una per esempio ha visto la luce nel 2014 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel paese d’origine di Matteo Messina Denaro. Un battesimo sostenuto dal Pon attingendo alle ricchissime risorse messe a disposizione per questo genere di iniziative. Nel giorno del battesimo dell'associazione di Castelvetrano ne nasceva un'altra a Ragusa e pochi mesi prima ne erano sorte altre due, a Vittoria e Niscemi. Per il solo progetto “Consumo critico antiracket: diffusione e consolidamento di un circuito di economia fondato sulla legalità e lo sviluppo” c'è un tesoretto da un milione e mezzo: beneficiario è l’Ufficio del Commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura in partenariato con l’associazione Addiopizzo. È attingendo a questi fondi ad esempio che si finanzia la Fiera del consumo critico di Palermo. Ma gli interventi finanziati nell'ambito del Pon spaziano da quelle relative al vino prodotto sui beni confiscati e gestiti da Libera Terra alla coproduzione di un cartoon sulla vita di Padre Puglisi. E ancora al riutilizzo dei beni confiscati. Come quello nel centro storico di Corleone un tempo appartenente alla famiglia Provenzano in cui nel 2010 è stata inaugurata la Bottega della Legalità, dove commerciare i prodotti delle cooperative che lavorano nei terreni confiscati alla mafia. Per l'inaugurazione si fecero vedere a Corleone i ministri Alfano e Maroni, vertici delle forze dell'ordine, sottosegretari e l'immancabile Don Ciotti. Ora si apre la stagione dei nuovi fondi. La prima dopo la crisi d'immagine dell'antimafia organizzata, che proprio sull'utilizzo dei ricchi fondi di cui ha beneficiato ha collezionato pagine imbarazzanti. Tanto da attrarre su di sè l'attenzione delle commissioni Antimafia di Roma e Palermo.

Hanno il monopolio e dettano legge. Le ultime parole famose.

Parla il leader della Fai: "La normativa per costituirle non va bene". Il Commissario straordinario: "Alcune non ci convincono. C'è chi ci marcia". Antiracket, rischi truffe per le associazioni. Grasso: "I controlli sono insufficienti", scrive Francesco Viviano l'1 novembre 2007 su "La Repubblica". "Alcune associazioni antiracket non ci convincono molto e sono sotto osservazione". La traduzione di questa affermazione, fatta dal Prefetto Raffaele Lauro, Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura, è che attorno ad alcune di queste associazioni "c'è chi ci marcia". Perché il business è davvero grosso. Basti pensare che tra gennaio ed agosto scorso il Commissario straordinario antiracket ha erogato 17 milioni e 431 mila euro per le vittime dell'usura e del racket. Ma c'è un altro dato che fa riflettere. Sempre da gennaio ad agosto scorso, più della metà delle domande presentate da "vittime" del racket e dell'usura, sono state respinte. Su 214 richieste, 111 hanno avuto risposta negativa. Non solo ma alcune associazioni antiracket sono nel mirino delle magistratura. Un esempio per tutti, quella di Caltanissetta il cui presidente, Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere per un ammanco di 100 mila euro dalle casse dell'associazione. E la Procura ha avviato un'indagine indagando Mario Rino Biancheri. Il boss Antonino Rotolo, per esempio, nelle conversazioni intercettate dalla polizia, suggeriva ad un estorto di iscriversi all'antiracket così non avrebbe avuto problemi. 

Tano Grasso, che sta succedendo dentro e fuori le associazioni antiracket? I fondi fanno gola a molti e qualcuno ci specula sopra. E' così? 

"Il punto è che è inadeguata la normativa per il riconoscimento delle associazioni; oggi la norma prevede che cinque o sei persone si mettono assieme e fanno un'associazione purché non abbiano precedenti penali e chiedono il riconoscimento in prefettura". 

Qual è il ruolo delle associazioni e quali "vantaggi" hanno? 

"Nel sud Italia sono 80, complessivamente circa 200 e chi ottiene il riconoscimento viene iscritto nell'albo prefettizio e questo consente di accedere a dei fondi per iniziative e progetti. Però il problema è che l'associazione antiracket è una cosa delicatissima perché è una struttura che dovrebbe gestire la speranza e la sicurezza delle persone perché sono nate per garantire la sicurezza. Tutti quelli che hanno denunciato non hanno mai subito un atto di rappresaglia". 

Ma, come teme il prefetto Lauro, c'è qualcosa che non va in alcune associazioni? 

"Ripeto, la norma per la loro costituzione è assolutamente inadeguata, non basta un controllo formale sui requisiti personali, un'associazione ha senso solo se tu muovi le denunce, li accompagni dalle forze dell'Ordine e li assisti in tribunale". 

Invece? 

"Io posso parlare per quelle che aderiscono alla Fai (Federazione Antiracket Italiane) di altre non so anche se ho sentito dire che alcune associazioni, almeno fino ad ora, si occupano di fare convegni ed altre attività... Bisogna vedere cosa fanno le associazioni, quante costituzioni di parte civile hanno fatto, quante persone hanno fatto denunciare. Sono elementi di valutazione importantissime". 

Ci sono associazioni che fanno pagare un po' troppo l'iscrizione agli associati, alle vittime del racket, alcune anche 400 euro. 

"Le associazioni che aderiscono alla Fai sono composte tutte di volontari e le nostre fanno pagare quote veramente minime, dai 10 ai 30 euro ma tutti i servizi sono gratis e molte nostre associazioni non navigano certo nell'oro. La Fai, per esempio, ha un bilancio di 5-6 mila euro l'anno". 

Il rischio della truffa c'è? Ci sono vittime od associazioni che non sono del tutto trasparenti? Il numero delle richieste di risarcimento da parte di presunte vittime che è stato respinto dal Commissario per l'Antiracket è superiore di quelle accolte. Questo lascia pensare che non tutto è perfettamente in regola. 

"Il rischio della truffa potrebbe esserci ma il controllo, e lo dimostrano appunto le richieste di risarcimento respinte, è minimo". 

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto il 19 gennaio 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra. 

Corte dei Conti di Napoli indaga sull'assegnazione «arbitraria» di fondi Ue ad associazioni antiracket. Presunte violazioni nel trasferimento di circa 13,5 milioni a favore di poche associazioni antiracket che sembrano aver ricevuto i fondi senza un bando pubblico. Alcune delle associazioni escluse avevano già denunciato in una lettera alla Cancellieri la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, scrive Angela Camuso il 14 gennaio 2014 su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull'amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. Un'inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all'arresto della presidente dell'associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell'ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l'indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l'acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell'associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell'associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c'è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l'attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l'avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell'associazione antiracket. 

Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta. A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”. E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”. Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.

Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli l'8 settembre 2014 su "La Repubblica", parteggiando per le sigle antimafia sostenute dalla sinistra. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.

Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti.

Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.

Gli inganni dell'antimafia. Nel composito -  e talvolta oscuro -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE.

Le convenzioni con il Viminale ed i fondi elargiti dal PON-Sicurezza sono parametrati a seconda degli obbiettivi raggiunti e richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Da qui le storture e la speculazione sui procedimenti penali attivati: più denunci più incassi dal Fondo POR e dalle relative costituzioni di parte civile nei processi attivati.

L'ANTIMAFIA ED IL BUSINESS DELLE PARTI CIVILI.

Antimafia, la lezione ancora attuale di Sciascia, scrive Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo aver oltrepassato il metal detector faccio il mio primo ingresso nell’aula bunker di Via Uccelli di Nemi a Milano. L’aria condizionata non c’è e quella naturale filtra dai finestroni protetti dalle inferiate. Quando il caldo diventa insopportabile, nell’interminabile attesa dell’arrivo dei detenuti, gli agenti di guardia spalancano le porte di sicurezza. Ma più le ore passano più la temperatura sale e l’aria si fa più afosa.  Nel frattempo la tribuna riservata al pubblico, alle spalle della zona in cui sono sistemati i banchi della difesa, si riempie dei familiari dei detenuti venuti ad assistere al processo. Sono naturalmente un po’ teso: mi devo costituire parte civile per l’associazione nazionale antiracket di cui faccio parte in un processo di ‘ndrangheta. Ero arrivato la notte prima e non avevo chiuso occhio. Ma non sento la stanchezza, anche se per un attimo ho temuto di non essere all’altezza dell’incarico. Quando decisi di entrare a far parte dell’associazione nazionale antimafia e di difendere le vittime di usura e di estorsione non lo feci per una questione economica. Decisi di rendermi utile, come una qualunque persona che si sente di mettersi all’opera per un fine sociale. Non chiesi mai un rimborso spese per l’attività svolta per conto dell’associazione o delle vittime né utilizzai quella strada per la mia personale carriera. A Milano, durante il processo “Infinito”, l’avvocato di un boss di ‘ndrangheta mi accusò non tanto velatamente di essere uno di quei “professionisti dell’antimafia” che faceva parte di un’associazione dedita al “turismo giudiziario”. Mi venne data l’opportunità di replicare ovviamente. Il collega aveva inoltre sollecitato la mia memoria. Quando uscì l’articolo di Leonardo Sciascia dal titolo "I professionisti dell’antimafia" sul Corriere della Sera era il 10 gennaio 1987 ed io avevo appena 11 anni. Ancora la mia adolescenza non era “distratta” dalla lettura dei quotidiani. Di quello che narrò lo scrittore siciliano de ‘Il giorno della civetta’ ne sentii parlare negli anni successivi anche per le differenti analisi e i più disparati utilizzi che ne fecero giornalisti e uomini politici. In molti non capirono, o fecero finta di non capire, il senso di quell’articolo. Sciascia, che del fenomeno mafioso era profondo conoscitore quando scriveva di “professionisti dell’antimafia” intendeva riferirsi a coloro che usavano l’antimafia per costruirsi una carriera in politica o in magistratura. Ma poiché Sciascia in quell’articolo evocò l’assegnazione di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala, superando nella graduatoria colleghi più anziani di lui ma che non si erano mai occupati di processi di mafia, fece un esempio che lo espose a molte critiche. C’è chi credette, erroneamente, ad un attacco personale al magistrato ucciso nell’agguato mafioso di Via D’Amelio qualche anno più tardi, e non glielo perdonò. Ma la chiave di lettura dell’articolo di Sciascia, che non riguardava il caso di Borsellino, era un’altra e, nonostante siano trascorsi ben trent’anni, oggi è ancora attuale: c’è chi usa l’antimafia per fini esclusivamente personali, per cercare un consenso per sé nella logica di una assoluta autoreferenzialità. In un’intervista che rilasciò qualche giorno dopo l’uscita del tanto contestato articolo, su Il Messaggero Sciascia ritornò ancora sull‘argomento: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”.

L'antimafia e le parti civili. "Mancano all'appello i boy scout", scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Fra ieri e oggi oltre cento richieste di costituzione di parte civile in due processi per mafia, a Palermo. Accanto alle parti offese, come le vittime del pizzo, proliferano enti e associazioni. E cresce il malcontento fra le vecchie organizzazioni antiracket e gli avvocati degli imputati. “Signor giudice, non ci resta che aspettare la costituzione dei boy scout”. La battuta (mica tanto) dell'avvocato Giuseppe La Barbera, pronunciata davanti al giudice in un'affollatissima aula, centra il cuore della questione. E cioè il proliferare delle partici civili nei processi di mafia. Era accaduto ieri nel dibattimento Apocalisse (riguarda i clan mafiosi di Tommaso Natale, Resuttana, Partanna Mondello, San Lorenzo, Acquasanta, Pallavicino e Zen) e si è ripetuto oggi in quello denominato Reset contro le cosche della provincia: Bagheria, Villabate, Ficarazzi e Altavilla Milicia. È arrivata una valanga di richieste di costituzione di parte civile: più di cento. Per la stragrande maggioranza si tratta di associazioni, enti e Comuni che, ogni volta sempre di più, affollano le aule di giustizia. Ritengono di essere stati “danneggiati” dai reati che sono stati commessi e chiedono di partecipare ai dibattimenti accanto o assieme alle parti offese. Parti offese, giusto per chiarire, sono i commercianti vittime di estorsione che hanno trovato la forza di denunciare. A proposito di estorsioni è stata l'associazione Addiopizzo, presenza costante nei Tribunali dall'anno della sua costituzione, il 2004, ad accendere le polveri. A scagliarsi contro il proliferare “di carovane di associazioni e organizzazioni che sgomitano e scalpitano per costituirsi parte civile nei processi di mafia ed estorsioni”. Il senso della questione lo ha riassunto un altro legale che difende un imputato di mafia, l'avvocato Jimmy D'Azzò: “Esprimiamo solidarietà alle parti offese, se ritengono di avere subito un danno è giusto che si costituiscano, ma bisogna mettere un freno. Ci sono associazioni che davvero svolgono un ruolo nel territorio, ormai riconosciuto e storicizzato, ma ce ne sono altre che hanno un mero ruolo di facciata. Si presentano in aula senza nemmeno conoscere il processo”. Accanto a realtà note come Addiopizzo, Libero Futuro, Fai, Ance, Confindustria, Centro Pio La Torre, Confesercenti, Confcommercio, Confindustria, nei due processi di ieri e oggi hanno chiesto di costituirsi parte civile, tra gli altri, il sindacato di polizia Mp, l'”Associazione antimafia Antonino Caponnetto”, “Obiettivo legalità”, Codici, “Forum delle associazione antiusura”, “Associazione Paolo Borsellino” ed altre ancora. Per carità, saranno i giudici per le udienze preliminari Sergio Ziino e Roberto Riggio a stabilire chi merita di stare nel processo, ma la considerazione della classe forense non può passare in secondo piano: “È impensabile che un imputato, magari chiamato a rispondere di un singolo reato - ha aggiunto D'Azzò - debba risarcire cinquanta parti civili”. Entrando nel merito giuridico, per diventare attori del processo come parti civili bisogna rispondere a precisi requisiti che dovrebbero impedire la violazione del principio di parità fra le parti. Non è roba da poco visto che diventare parte civile significa entrare in contraddittorio con il giudice, il pubblico ministero e il difensore dell'imputato, significa portare prove e citare testimoni, nominare consulenti tecnici, chiedere il sequestro conservativo dei beni e, in ultima istanza, impugnare le sentenze. Insomma, un ruolo delicato che va, o almeno dovrebbe andare, ben oltre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno. Ed invece troppo spesso si assiste al sacrificio del ruolo di attore del processo sull'altare dei soldi da incassare, siano essi per i danni o per le spese legali, attingendo al fondo per le vittime di mafia. Perché, sia chiaro, quasi mai sono gli imputati condannati a pagare il conto. Torniamo ai requisiti. Due su tutti, almeno quando si parla di enti o associazioni. Primo: l'ente collettivo deve essere riconosciuto dalla legge e deve essere stato costituito prima della commissione del reato. Secondo: l'ente deve avere come finalità la tutela dell'interesse (collettivo o diffuso) leso dal reato e non scopo di lucro. Requisiti scontati? No, visto le improbabili richieste che a volte giungono ai giudici. In principio fu, nel 1994, l'Associazione commercianti e imprenditori di Capo d'Orlando (A.C.I.O.), a chiedere o ottenere per prima la costituzione di parte civile contro alcuni mafiosi di Tortorici. Poi, è diventato un fenomeno in espansione fino alle valanghe di costituzioni dei giorni nostri. Di recente, a dire il vero, i giudici sono diventati più critici e selettivi. Insomma per un Comune dove regnano i clan è facile dimostrare di avere subito un danno di immagine, oppure che la presenza mafiosa abbia mortificato lo sviluppo delle attività produttive o del turismo. Impresa ardua se sei un'associazione che si è limitata ad organizzare un convegno sul tema della legalità. Impresa ardua, ma non impossibile. E i no, a volte pronunciati dai giudici, non costituiscono un deterrente. Si va in aula e si alza la mano.

L'antimafia che fa la roba, scrive Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. Una discussione sui risarcimenti, sulle parti civili, sui processi, focalizza - forse senza volerlo - il vero tema da approfondire. L'antimafia che fa la roba, cioè: i soldi. L'antimafia che fa la roba, che mette a profitto il suo essere ovviamente antimafiosa, non è più suggestione, ma certificazione in carne e ossa. Intendiamoci, non c'è niente di illegittimo, di illegale, di assurdo: quanto alla moralità, ognuno la misuri col proprio metro. Qui si racconta semplicemente un fenomeno. Che è stato descritto da fonte insospettabile e autorevole, il presidente di Addiopizzo, Daniele Marannano: uno che da anni è presente sul territorio e perciò conosce cose e persone. “E' un tema ormai ricorrente e imbarazzante quello della carovane di parti civili – così parlò Marannano, secondo le cronache, a proposito del processo 'Apocalisse' contro le cosche di San Lorenzo – che affollano i processi di mafia ed estorsione, associazioni antimafia e anti-tutto che ci piacerebbe incontrare quotidianamente sul territorio accanto ai commercianti e agli imprenditori che scelgono la strada della denuncia e non solo in un'aula di giustizia per chiedere di diventare parte di un processo senza averne a volte alcuna legittimazione”. Si tratta soprattutto di soldi. Di meccanismi che possono spalancare lo scrigno di cospicui risarcimenti. E fa benissimo Marannano a precisare che esistono dei criteri, delle regole. A margine, si staglia il vero profilo, la sostanza che non è consigliabile mostrare troppo in pubblico, per non esporla ai pruriti moralistici di cui certi antimafiosi sono maestri, ma solo quando è in gioco la vita degli altri. Ecco l'antimafia che fa la roba – legittimamente – che ha stampato i volti di Falcone e Borsellino sulle banconote, per scopi senz'altro orientati al bene comune. Perché la questione è tutta qui: se questa roba che si fa sia coerente con lo spirito più genuino dell'antimafia. Se sia corretto che il "prosciutto al gusto di antiracket" acquisisca un maggiore valore commerciale del prosciutto che non ha nulla da dichiarare. Se sia naturale che intorno ai saldissimi principi sia venuto su un circo di soggetti più o meno qualificati con un vero e proprio marketing del martirio al seguito. Se sia logico che un processo diventi una sacra mangiatoia; e non parliamo del risarcimento alle vittime, ma di una filiera di attori protagonisti, di aiutanti, di comparse, di passanti dell'ultima ora che si presentano, ognuno per ricevere il suo pezzo d'oro. E' giusto che l'antimafia faccia la roba, o la passione civile dovrebbe essere gratis come il sangue versato? Pensiamo ai volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sopra una banconota, poi cerchiamo una risposta.

L'anomalia dell'associazione antiracket di Marsala: "Ampliamo gli orizzonti...", scrive TP24 l'8/07/2016. Si definiscono un gruppo di amici, “quattro pazzi”, che vogliono diffondere “la cultura antimafia”. Si definiscono “trasparenti”, anche se nessuno ha mai detto il contrario. E quelle strane, e inopportune costituzioni di parte civile nei processi in tutta Italia, quelle sono un semplice “ampliare gli orizzonti”. E’ la strana associazione antiracket e "antimafie" Paolo Borsellino onlus di Marsala. Una creatura che nasce dalla trasformazione dell’associazione antiracket di Marsala, una associazione antimafia che, con il suo dominus, l’avvocato Peppe Gandolfo, gira in lungo e in largo i tribunali di tutta Italia lanciandosi nel business del momento per l’antimafia: la costituzione di parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Una associazione nata a Marsala che si fionda sul processo “Mafia Capitale”, sul processo “Aemilia” quello sulle 'ndrine in Emilia Romagna, che tenta il colpaccio anche al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Una stortura per l’antimafia, quella concreta, quella sul territorio di sudore e di studio, di fatiche e di cultura. Loro, i responsabili dell’associazione marsalese hanno tentato di spiegare le cose, qualche giorno fa, in una conferenza stampa praticamente deserta di giornalisti. Il caso dell’associazione lo ha trattato diverse volte Tp24.it ed è stato raccontato anche da Giacomo Di Girolamo in “Contro l’Antimafia”. L’associazione antiracket di Marsala un bel giorno, tempo fa, decide di cambiare nome. L’antiracket e Marsala stanno stretti, i processi sull’usura sono pochi in città, e scarseggiano quelli contro le cosche locali. Allora ci si attiva per “ampliare gli orizzonti”. Proprio così lo chiama il processo di trasformazione il professore di educazione artistica alle medie Enzo Campisi, colui che si definisce “artefice della trasformazione”. Si pensa ad una rivoluzione dello statuto, a cominciare dal nome. Non si chiamerà più associazione Antiracket di Marsala, ma “Associazione Antiracket e Antimafie Paolo Borsellino Onlus”. Tutto quadra. Le mafie, non più la mafia, consente di far rientrare nella lista i processi contro le ‘ndrine di tutta Italia, o le associazioni criminali ibride, come Mafia Capitale. Spuntano sedi fittizie. In Piemonte, a Roma, a Bologna. Quando non c’è neanche quella di Marsala. “La nostra è una associazione molto modesta che ha l’ambizione di crescere nel tempo, allora proposi un cambio di passo. Restare limitati a Marsala sembrava stretto per la voglia di comunicare la cultura antimafia”. Campisi spiega così l’attraversamento dello Stretto. Ad esempio l’associazione si è costituita parte civile al processo “Aemilia” sulla ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Il primo step del processo, quello con il rito abbreviato scelto da alcuni imputati, si è concluso con l’ammissione di parte civile per l’associazione marsalese e il riconoscimento di un “ristoro” di 20 mila euro. Più il pagamento delle spese legali: 7 mila euro per il legale di fiducia dell’associazione, ossia lo stesso Peppe Gandolfo. “Ma non abbiamo ancora ricevuto questi soldi”, dice il direttivo dell’associazione. Non ancora, quindi. Ma cosa fa, cosa ha fatto in Emilia Romagna l’associazione guidata da Antonino Chirco, presidente "per caso" da un paio d’anni. Quali sono state le attività sul territorio emiliano tali da giustificare la costituzione di parte civile, e quali sono stati i danni provocati all’associazione dalle ‘ndrine? Insomma cosa è stato prodotto in questi anni? Poco o nulla, a giudicare dalla risposta: “Ci siamo estesi dove avevamo persone vicine. E’ ridicolo fare una guerra tra i poveri e voler distruggere una attività antimafia. Abbiamo cercato di creare dei gruppi di studenti per crescere lentamente. Abbiamo deciso di costituirci parte civile dove avevamo un gruppo di studenti a noi vicini”. Quindi a Bologna c’è un gruppo di studenti, che si incontra, ogni tanto, non è dato saperlo, e che ha deciso di costituirsi parte civile in un processo nato da inchieste e per fatti precedenti alla nascita stessa della sede emiliana dell’associazione. Buono a sapersi. Nel favoloso mondo dell’antimafia succede questo.  Ma qual è il senso, giuridico, logico, di buon senso, di onesta intellettuale di costituirsi parte civile a dei processi che nulla hanno a che vedere con una associazione marsalese? “Se non lo fanno i siciliani a schierarsi contro le mafie in tutta Italia lo devono fare i genovesi. O i bergamaschi?” dice Campisi. “Ci sentiamo in dovere di dire ci siamo. Poi sta al magistrato se è pertinente la nostra costituzione. Sono i magistrati come Nino Di Matteo che ci esaminano”. In realtà Nino Di Matteo, e magistrati come lui, non c’entrano nulla, dato che è un magistrato non giudicante, che ha curato la parte inquirente del processo trattativa Stato-Mafia, in cui tra l'altro l'associazione di Gandolfo e il suo gruppo di amici si è costituita parte civile senza essere ammessa. Per il presidente Chirco, però, sollevare domande, sull’opportunità di queste costituzioni di parte civile nei processi extra marsalesi, senza aver svolto nessuna attività sul territorio, è il frutto di “farneticazioni”.  “Abbiamo organizzato diversi incontri nelle scuole, sia in Piemonte che in Sicilia” e poi, attività di spicco, quella di partecipare alle manifestazioni delle Agende rosse. Perchè? “Per rafforzare i magistrati del processo sulla trattativa Stato-mafia”. Insomma, un tormentone. L'associazione però nasce come antiracket. Qui invece pare una versione ridotta e casereccia di Libera. E quanti sono gli imprenditori, i commercianti, che in questi anni sono stati assistiti dall'associazione dalla denuncia al processo? Per l'avvocato Peppe Gandolfo sarebbero una quindicina, in 14 anni di attività.  Ma senza dati alla mano. Il presidente Chirco fa capire che negli ultimi anni non è stato assistito nessuno. “Se non si presenta nessuno per denunciare, abbiamo un numero verde. E una sede che si trova nel comando dei vigili urbani di Marsala, ma una vittima non verrà mai al comando”. Anche perchè la sede è sempre chiusa. “No, qui non si fa vedere mai nessuno, solo quando c'è qualche riunione, ma non vengono mai”, ci dicono dalla stazione dei vigili urbani di via Del Giudice. “Nessuno denuncia perchè non si sente protetto dallo Stato” dicono i responsabili dell’associazione. L’associazione antiracket, c’è da dire, che in questi anni è stata anche una sorta di comitato elettorale per l’avvocato Giuseppe Gandolfo. All’interno ci sono quasi tutti i suoi fedeli sostenitori che lo hanno seguito nella campagna elettorale del 2012, quando si candidò sindaco, e poi lo hanno seguito nella “moda” dell’adesione al movimento 5 Stelle di Marsala. Una convivenza mai serena con il gruppo storico dei 5 Stelle. Anche per le notizie che arrivavano dall’associazione. La trasformazione, dicevamo, è avvenuta un paio di anni fa. L’antiracket di Marsala negli anni si è costituita parte civile in diversi processi, e tutti i soldi accumulati nei vari risarcimenti non si sa che fine abbiano fatto. Spariti nel nulla, come conferma lo stesso Chirco: “Negli anni passati è stata usata come bancomat”.  Ma da chi? E perché?  E ora che si fa? “Abbiamo deciso di rendere trasparenti i nostri bilanci e pubblicarli sul nostro sito”. Peccato che il sito non sia ancora online. In tutto ciò non è mai stato prodotto alcun documento, alcuno studio sulla presenza della malavita organizzata a Marsala e nella provincia di Trapani. E poi le attività. Tutto è antimafia, tutto è legalità, tutto giustifica la presenza nelle aule dei tribunali, e il nome di Paolo Borsellino nell’intestazione apre la pista a progetti di legalità e a sovvenzioni pubbliche. “Abbiamo restituito i soldi che ci ha dato la Regione, siamo stati gli unici”, dice ancora Gandolfo. Altre iniziative? “Abbiamo accompagnato i ragazzi in discoteca per sensibilizzarli a non usare alcolici”. Ecco, l’antimafia sobria e astemia, quella che fa paura alle ‘ndrine. Intanto negli ultimi tempi qualcosa è accaduto: l'associazione ha attaccato alcuni manifesti in città.  Un po’ nei bar, un po’ nei panettieri. C'è poi uno striscione, un banner, che fa il giro d'Italia e che era presente alla prima udienza del processo Aemilia a Bologna come, in posizione strategica, su un balcone, ai funerali del maresciallo Silvio Mirarchi, un mese fa, davanti la chiesa madre, a tiro di telecamera. Non chiamatelo esibizionismo, è “ampliare gli orizzonti”. 

Sei sgradito a Libera di Don Ciotti? Allora fai giornalismo “mafioso”. Ignoti penetrano nello studio di un avvocato vicino a Libera e frugano tra le carte. La reazione dell'associazione antimafia, scrive Giacomo Di Girolamo il 10 Dicembre 2016 su "La voce di New York". Libera, l'associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio dell'avvocato Rando al "linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità". Il riferimento è ad un paio di articoli pubblicati su un quotidiano di Modena diretto da Giuseppe Leonelli. Qualche giorno fa è successo un episodio spiacevole. Ignoti sono entrati nello studio di Enza Rando, noto avvocato, numero due di Libera, che rappresenta l’associazione di Don Luigi Ciotti in diversi processi alla criminalità organizzata in Italia.  Tra venerdì 25 e sabato 26, Novembre delle persone sono entrate nel suo studio legale a Modena mettendo mano a carte e fascicoli, ma senza portare via quasi niente. Indagano polizia e Procura, l’episodio è preoccupante, l’avvocato Rando merita tutta la solidarietà di questo mondo. E’ una professionista seria e stimata. Tuttavia, dato che siamo dalle parti dell’antimafia, e di un certo modo di intenderla, non posso non notare alcune circostanze. Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio di Rando al “linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità”. “Linciaggio mediatico”, “manipolatori della verità”. Espressioni forti e un po’ fuori luogo, se mi posso permettere (e chissà che non venga considerato “linciaggio” anche questo mio pensiero). Perchè parole così fanno capire che c’è stata chissà quale campagna denigratoria, su mezzi potentissimi, con verità distorte ad arte.  Le espressioni di Libera sono state poi seguite poi da alcuni commenti di esponenti locali del Pd (di cui Libera a Modena e provincia rappresenta, da quello che ho visto nei miei giri emiliani, una specie di longa manus…) che parlano di “campagna diffamatoria”. Giusto per metterci il carico da undici. A meno che non mi sia perso qualcosa (e ciò non andrebbe sicuramente a vantaggio dell’efficacia della “campagna denigratoria…” di cui sopra), in realtà il riferimento è ad un paio di articoli (ma quale linciaggio…) che questa estate sono stati pubblicati sul quotidiano di Modena, Prima Pagina, diretto da Giuseppe Leonelli. Proprio Leonelli aveva sollevato alcuni dubbi circa i tanti incarichi che ricopre l’avvocato Enza Rando, pubblicando da bravo giornalista, anche i relativi compensi: 25mila euro dalla Regione Emilia Romagna per il ‘Testo unico’ su mafia e dintorni, 20.400 euro da Sorgea nel 2014, 96mila euro dalla Provincia di Modena nel 2010 e 25mila euro nel 2013, 49mila euro dal Comune di Nonantola. Oltre a percepire 51mila euro all’anno come membro del cda della Fondazione Crmo. Fa senso che si parli di “linciaggio” o di “diffamazione” (e che a farlo sia tra l’altro un avvocato, Rando, che dalle accuse di diffamazione difende i giornalisti vicini a Libera), quando in realtà Leonelli ha solo messo ordine tra gli incarichi della numero due di Libera. Nulla di che. Non sono soldi rubati, anzi, sono soldi, tanti, sicuramente strameritati. Tuttavia il numero e la qualità degli incarichi, unito al ruolo che l’avvocato di Libera ricopre in diversi processi e nella stessa associazione antimafia di Don Ciotti potrebbe far venire il dubbio della “opportunità” della commistione di tutta questa roba insieme. E’ linciaggio dirlo? Sulla vicenda anche i Cinque Stelle hanno presentato un’interrogazione alla Regione Emilia Romagna.  Ma l’unica risposta, al momento, è stata che, il referente provincia di Libera a Modena, tale Maurizio Piccinini, ha definito il giornalista Leonelli “oggettivamente al fianco delle mafie”. Attenzione all’avverbio: oggettivamente.  Le parole sono importanti. Oggettivamente: cioè senza ombra di dubbio, senza tema di smentita, come è vero che la mattina oggettivamente il sole sorge e oggettivamente tramonta, si è “oggettivamente al fianco delle mafie” per aver sollevato i dubbi su Libera e Rando. Non solo. Leonelli, senza tanti giri di parole, è in maniera strisciante ritenuto il mandante morale delle intimidazioni subite da Rando negli ultimi giorni. Si può andare avanti così? Oggi Prima Pagina non c’è più. Il giornale ha chiuso, come sta accadendo purtroppo a tante piccole voci libere in giro per l’Italia. Leonelli rimane un bravo giornalista, ma disoccupato. Sarebbe stato giusto che Libera, che tanto si spende per i giornalisti “amici” in note di solidarietà, costituzioni di parte civile, diverse forme di tutela, avesse spesso due parole per quel giornale, e per quel giornalista, che di fatto ha subito, da Libera e dal Pd, lo stesso trattamento fatto di accuse e offese, che io, tanto per dire, solitamente ricevo da ben altri ambienti, quando mi occupo di mafia. Si dice sempre che quando muore un giornale è una grave perdita per la comunità, che le mafie vogliono il silenzio, che una voce libera (l minuscola) è fondamentale per la legalità. Sono alcune delle frasi di circostanza che nei miei anni di frequentazione di Libera (L maiuscola) e dintorni mi avranno ripetuto certe volte. Evidentemente, non è così per tutti. Siccome, poi, basta un mezzo insulto su Facebook, una piccola insinuazione, un insulto sguaiato, a fare scattare la macchina di solidarietà intorno ad un giornalista “antimafia”, mi chiedo se anche Leonelli non debba avere qualche tipo di solidarietà, dall’Ordine dei Giornalisti, da strutture come Ossigeno per l’informazione, per il trattamento che ha subito. Perché se fossero stati gli ambienti vicini all’avvocato di un mafioso a parlare di “campagne denigratorie”, eccetera, ci sarebbero state le prese di posizione di Ordine dei Giornalisti e associazioni varie, le fiaccolate, la classica lettera dei parenti delle vittime di mafia e l’ashtag pronto all’uso #siamotutti… Invece nessuno ha parlato. Oggettivamente. Nessuna solidarietà al povero Leonelli. Per ora, ha la mia. Lui come Enza Rando. Hanno entrambi la mia solidarietà. E più di tutti ce l’ha la povera signora ragione. Ormai si è persa, nel labirinto del fanatismo dell’antimafia.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE.

Da Wikipedia. Il PM anticamorra Catello Maresca e il prefetto Giuseppe Caruso hanno duramente criticato le attività di Libera, sostenendo che esse, aldilà della parvenza di legalità e onestà, siano semplicemente mirate alla spartizione dei proventi che derivano dal sequestro dei beni mafiosi. Secondo alcuni infatti, Libera si è trasformata da associazione antimafia a holding economica che gestisce bilanci milionari, progetti e finanziamenti in regime di monopolio. Anche il modo con cui vengono amministrati i beni sottratti alla mafia è stato criticato per la sua scarsa trasparenza e per il fatto che i progetti vengono vinti dalle solite associazioni legate a Libera.

Questa cosiddetta Holding economica ha i suoi contatti politici e sindacali a sinistra. E da sinistra si attingono maggiormente i proventi del 5xmille anche su intervento dei CAF o in base ad una massiccia campagna promozionale mediatica e di visibilità.

L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto.

Libera, Bilancio Consuntivo al 31/12/2015: 5 per mille € 700.237.

La Cisl rinnega Gino Strada e don Ciotti «Stanno con Landini, basta 5 per mille». Una nota dei metalmeccanici Fim vieta di devolvere il 5 per mille a Emergency e Libera, scrive Nadia Muratore, sabato 11/04/2015 su "Il Giornale". Basta 5X1000 ad Emergency e a Libera. Lo ha deciso la Fim Cisl di Torino e del Canavese che non lascerà più devolvere il contributo dei suoi 12mila e 500 iscritti alle due associazioni, perché, come spiega il segretario torinese della Fim, Claudio Chiarle, in una lettera indirizzata alla presidente di Emergency, Cecilia Strada, e al rappresentante legale di Libera Davide Pati: «Abbiamo sempre lasciato liberi i nostri associati di scegliere a chi devolvere il 5X1000, perché il nostro sindacato ha nel suo dna l'idea che chi aderisce alla Fim sia un uomo o una donna liberi di fare le sue scelte politiche, sociali, religiose senza condizionamenti da parte nostra. Questo si chiama autonomia dai partiti, rispetto del pensiero politico e religioso altrui». Ma adesso le due associazioni sono finite nel libro nero. Quello che non va giù al presidente Chiarle è la loro adesione alla «Coalizione sociale», lanciata dal segretario Fiom Maurizio Landini che, sempre secondo il segretario torinese fa venir «meno lo spirito con cui, in piena autonomia e libertà, avete costruito il progetto della vostra associazione e con cui molti nostri iscritti versavano il 5X1000 a Emergency o Libera. Preso atto di questo vostro cambiamento e come vi dicevo in precedenza, la Fim di Torino e Canavese aderisce e supporta economicamente progetti di solidarietà con Ong territoriali e nazionali a cui, stante la vostra adesione alla Coalizione sociale, d'ora in poi daremo indicazione ai nostri iscritti di versare il 5X1000». Un attacco diretto e una presa di posizione forte, che gli iscritti al sindacato dei metalmeccanici della Cisl, pare abbiano apprezzato e condiviso, facendo così venir meno a Libera ed Emergency, un bel po' di denaro, visto che, sempre per ammissione dello stesso Chiarle, erano numerosi a firmare a favore delle due associazioni umanitarie. Ha apprezzato un po' meno, invece l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che a stretto giro di posta ha già replicato senza celare il malcontento e così, probabilmente dopo essersi fatta due conti in tasca, è arrivata anche a smentire di aver teso la mano al movimento creato dal leader della Fiom. Il coordinatore nazionale di Libera, Enrico Fontana, ha infatti precisato al «caro segretario Chiarle» di essersi stupito per la decisione presa dal sindacato torinese perché, «come ha ribadito a più riprese in interviste pubblicate da diversi giornali il nostro presidente don Luigi Ciotti - scrive Fontana - e come è stato sottolineato in un documento del nostro ufficio di presidenza, Libera non ha aderito ad alcuna Coalizione sociale. Se questa è la motivazione per cui intendete non segnalare più ai vostri iscritti la nostra associazione come possibile destinataria del 5x1000, è davvero priva di fondamento». E poi, lascia una porta aperta, spiegando che da Libera avrebbero «potuto fornirle tutti i necessari chiarimenti prima che venisse assunta una decisione che ci auguriamo possa essere rivista alla luce di questa risposta». Tutto tace, invece da Emergency ma tanto il segretario Chiarle non pare intenzionato a cambiare idea.

Il 5 per mille: troppi micro-enti, ingerenze dei CAF e beneficiari di dubbio impatto sociale. Gli elenchi dei beneficiari 2014 da poco pubblicati (in ritardo) rivelano sempre le stesse criticità: le influenze nelle scelte dei contribuenti, e i legami con corporazioni o formazioni politiche. Una nota positiva: finalmente distribuito l’intero ammontare devoluto, senza tagli di bilancio, scrive Ida Cappiello il 25 aprile 2016 su "La Repubblica". Nel pieno della campagna del mondo non profit sul cinque per mille, le liste dei beneficiari 2014, pubblicate dall’Agenzia delle Entrate con i soliti due anni di ritardo, danno uno spaccato interessante del Terzo Settore italiano, visto che ormai parliamo di circa 50mila organizzazioni iscritte, divise in sei categorie: volontariato, ricerca scientifica, ricerca sanitaria, promozione culturale e paesaggistica, sport dilettantistico e Comuni. Nel 2014, gli italiani hanno destinato al non profit 480 milioni di euro, cifra che da quest’anno sarà realmente distribuita, perché il tetto di spesa pubblica per il 5x1000 è stato alzato a 500 milioni nel 2015, quando l’istituto del 5x1000 è stato stabilizzato. Negli anni passati il tetto troppo basso faceva sì che le organizzazioni ricevessero sempre meno di quanto i contribuenti avevano destinato. La selezione degli enti è soltanto formale. Soldi ben “spesi”? Difficile stabilirlo con beneficiari così numerosi e così eterogenei, nei quali si insinuano molti enti la cui missione benefica è quanto meno opinabile, come ha fatto rilevare a più riprese anche la Corte dei Conti. Di certo la selezione dei beneficiari è molto generosa, ammettendo da anni oltre il 90% degli iscritti (nel 2014, 44.377 su 49.971). E non potrebbe essere diversamente, visto che a valutare i requisiti per essere ammessi è l’Agenzia delle Entrate, che applica criteri puramente formali non avendo nessun elemento per valutare il merito delle organizzazioni. Il mondo del volontariato: le criticità nella spartizione. Osserviamo da vicino la platea delle associazioni di volontariato, la più rappresentativa del terzo settore con 37904 beneficiari, poco meno di tre quarti di tutti gli enti ammessi al 5 per mille. Innanzitutto, la torta è divisa in modo molto squilibrato: quasi il 20% della raccolta totale, circa 66 milioni su 333, va alle prime dieci organizzazioni (su un totale di 37904!). Segno che le organizzazioni più strutturate e influenti vengono privilegiate, probabilmente a prescindere dal loro impatto sociale. Cinque per mille 2014: le prime 10 associazioni di volontariato.

Emergency: 13.896.002,29. Medici senza Frontiere: 9.774.725,95. AIRC: 8.488.133,75. AIL: 6.776.524,67. Unicef: 6.131.277,43. Lega del Filo d'Oro: 4.653.489,61. Ospedale pediatrico Meyer: 4.181.083,19. ACLI: 4.181.083,19. Save the Children: 3.988.526,10. AUSER: 3.834.065,48. Totale primi 10 enti Volontariato: 65.904.911,66. Totale Volontariato: 332.877.367,18.

Risorse persino all'Aeronautica e ai notai. All’opposto, oltre 1200 associazioni non hanno ricevuto nemmeno una firma; 1700 meno di dieci firme, 13000 meno di 100. Difficile pensare che queste organizzazioni abbiano un impatto sociale di qualche entità. Tra le stranezze, l’accesso al 5x1000 di organizzazioni che sembrano beneficiare solo i propri soci, come l’Ente previdenziale dei medici, l’Arma aeronautica o la Fondazione del Notariato, che tra l’altro raccolgono somme cospicue perché evidentemente gli associati hanno redditi di rispetto. Come caso estremo cito l’associazione Quartiere di Porta Crucifera ad Arezzo, che con 54 firme ha raccolto 55mila euro! La pesante ingerenza dei CAF nelle scelte dei contribuenti. Non è stato poi ancora risolto il problema delle ingerenze dei CAF, i centri di assistenza fiscale, nelle scelte dei contribuenti. Nonostante recenti indagini dell’Agenzia delle Entrate abbiano confermato il “pilotaggio” delle scelte dei contribuenti assistiti da alcuni CAF verso le onlus a loro stessi collegate o in alcuni casi addirittura la “correzione” della scelta a proprio favore, la situazione non è molto cambiata: ad esempio, le ACLI o il Movimento Cristiano Lavoratori, due delle realtà collegate ai CAF sotto osservazione, continuano a occupare saldamente le prime posizioni, portando a casa rispettivamente 4 e  2,2 milioni di euro e tallonando ong come Unicef o Save the Children.

Le procedure per le onlus sono ancora da semplificare. L’iscrizione al 5 per mille è relativamente semplice. “I problemi sorgono nel caso di anomalie o casi particolari, quando diventa un’impresa eroica riuscire a contattare il referente giusto” dice Carlo Mazzini, consulente al non profit. “Questo perché le competenze sono frazionate tra otto diversi enti: cinque ministeri, la presidenza del Consiglio, il Coni e l’Agenzia delle Entrate. Ognuno ha tempi e procedure diverse”. Infine sono ancora troppo lunghi di pubblicazione degli ammessi e successivamente i tempi di pagamento, che arrivano fino a tre anni.

Come funziona il 5 per mille. Il 5 per mille è una percentuale delle imposte che i contribuenti italiani possono destinare a organizzazioni non profit, firmando un apposito modulo nella dichiarazione dei redditi. E’ stato introdotto nel 2006 dal governo Berlusconi in nome del principio di sussidiarietà, sposato dal centrodestra, in base al quale il privato sociale può efficacemente gestire funzioni di welfare pubblico. Il 5 per mille viene tolto dalle imposte comunque dovute, quindi non costa niente al contribuente, così come l’8 per mille alle Chiese e il 2 per mille dei partiti politici e da quest’anno della cultura. Dal 2015 il fisco ha riunito tutte le scelte possibili in una sola scheda del modello 730 o Unico. Se non si presenta la dichiarazione dei redditi, si può ugualmente destinare il 5 per mille (calcolato ad esempio sull’imposta già trattenuta in busta paga) consegnando la scheda compilata e firmata al commercialista o al CAF; però questa possibilità è sfruttata pochissimo, e anche per questo la metà dei contribuenti non destina nulla.

Le attività che si possono sostenere. Le categorie di enti sono sei: volontariato, ricerca scientifica, ricerca sanitaria, Comune di residenza, associazioni sportive dilettantistiche ed enti privati di promozione culturale e paesaggistica, in quest’ultimo caso però senza poter scegliere con il codice fiscale. Ogni ente può concorrere in diverse categorie: ad esempio un’associazione di volontariato può essere anche culturale, o sportiva. La scelta naturalmente è libera. Ci sono tre possibilità: scegliere un’organizzazione specifica, firmando e indicando il codice fiscale nel riquadro che si riferisce al settore di attività. Oppure scegliere solo il settore, nel qual caso il cinque per mille andrà ripartito tra tutte le non profit iscritte in quel settore in proporzione alle scelte espresse. Solo per i beni culturali non si può indicare un codice fiscale, per cui è lo Stato a scegliere (un aspetto molto contestato). Se non si firma nulla, lo Stato trattiene per sé il 100% dell’imposta, a differenza dell’8 per mille dove il gettito non devoluto è ripartito in base alle scelte espresse.

Il sospetto è che molti cittadini mancano sappiano a chi danno il 5 per mille e ora anche la Corte dei Conti vuole vederci chiaro. Si calcola che il “tesoretto” così accumulato valga mezzo miliardo. E dire che il meccanismo era stato denunciato da Stefano Livadiotti in un libro di otto anni fa…scrive Maurizio Belpietro per “Libero Quotidiano” il 29 settembre 2015. Anni fa, Stefano Livadiotti, giornalista dell'Espresso con la passione di scovare privilegi e misfatti, scrisse un libro raccontando i trucchi del sindacato per fare soldi. Fra tanti sistemi, nel volume se ne raccontava uno che riguardava il 5 per mille. Nel capitolo si spiegava come i centri di assistenza fiscale vicini alle confederazioni fossero riusciti a lucrare sulla quota Irpef che ogni contribuente può decidere di destinare ad associazioni di volontariato e di ricerca. «Se la percentuale di italiani che indica un beneficiario del 5 per mille in media si assesta intorno al 55%, nel caso di chi si rivolge ai centri di assistenza fiscale di Cgil, Cisl e Uil si arriva all' 80 per cento», scrisse il collega. Livadiotti si incaricò anche di seguire le piste, ovvero di conoscere i beneficiari di tanta generosità, scoprendo che spesso chi presentava la dichiarazione dei redditi tramite Caf donava il 5 per mille a un'associazione legata allo stesso al Caf. Insomma, con una mano gli uffici del sindacato compilavano il 730, con l'altra incassavano. Una montagna di soldi, non spiccioli. Già nel 2007, anno in cui Livadiotti mandò in stampa la sua inchiesta, la somma superava i 400 milioni, ossia una bella torta di fondi pubblici che finivano spartiti fra le organizzazioni vicine al sindacato. All' epoca il giochino del 5 per mille era provvisorio, ma il governo Prodi si incaricò di renderlo stabile e l'incarico di scrivere le regole definitive fu affidato a chi il sindacato lo conosceva bene, ossia il senatore Giorgio Benvenuto, ex segretario della Uil. C'è da stupirsi dunque se oggi, a otto anni di distanza dal libro-denuncia di Livadiotti, si scopre che secondo l'Agenzia delle Entrate quasi il 9 per cento delle donazioni del 5 per mille è irregolare e quasi sempre a favore delle associazioni vicine al Caf che compila la denuncia? Ovvio che no, siamo nella regola delle truffe annunciate. Con una sola differenza rispetto al passato, ovvero che nel frattempo la cifra accantonata per le associazioni di volontariato è cresciuta fino a raggiungere il mezzo miliardo. Cinquecento milioni in cui la parte da leone la fanno le organizzazioni vicine agli stessi Caf. L' Agenzia delle Entrate ha scoperto che in molti casi sono i funzionari del centro ad aggiungere la donazione, spessissimo all'insaputa del contribuente. A spingere l'Agenzia a veder chiaro nella faccenda è stata la Corte dei Conti, la quale s' era un po' insospettita di fronte a tanta generosità a senso unico. Certo, bisogna riconoscere che per i controlli c'è voluto un po' di tempo: dalla denuncia di Livadiotti ad oggi fanno otto anni e ancora non è sicuro che ora la mangiatoia sia stata chiusa definitivamente. Probabilmente no, perché in Italia lo spreco è per sempre, mentre darci un taglio è molto difficile. Una montagna di miliardi certo non facile da trovare nel bilancio pubblico, perché sprecare è più facile che risparmiare. Quando si regalano soldi pubblici infatti non protesta nessuno, ma anzi, come nel caso dei Caf, c' è chi ringrazia per la donazione. Al contrario, quando si impugnano le forbici, c' è sempre chi strilla e un governo a caccia di voti, che magari pensa di avvicinare l'ora delle elezioni, non ha certo intenzione di inimicarsi gli elettori. Risultato: nonostante ci sia chi usa i centri di assistenza fiscale come un bancomat, è difficile che il governo ci metta mano, rivedendo la legge.

Sindacati, le mani sul 5 per mille. Dietro il grande potere sindacale c’è anche un’enorme disponibilità economica. Ora ancor più cospicua con l’introduzione del contributo alle onlus. Dove, nonostante una legge del 1997…scrive Carlo Puca il 26 luglio 2007 su "Panorama". A Trapani, in piazza Ciaccio Montalto 27, c’è il Centro elaborazione studi europei e territoriali. Altrimenti detto Ceset, si dichiara ufficialmente una onlus, cioè una «organizzazione non lucrativa di utilità sociale». Insomma, una di quelle meritevoli associazioni che producono volontariato o ricerca scientifica senza fini di lucro. Il Ceset ha ottenuto un clamoroso exploit nelle dichiarazioni dei redditi per il 2005: 7.304 persone lo hanno scelto per devolvere il 5 per mille dalla propria dichiarazione dei redditi. Se si considera che la città ha 70 mila abitanti, circa il 30 per cento dei contribuenti trapanesi ha premiato il Ceset per le sue ricerche europee e territoriali, purtroppo sconosciute a internet. Il Centro ha invece un presidente conosciuto: si chiama Mario Tessitore e di mestiere fa il sindacalista. Più precisamente è segretario cittadino della Cisl. E guarda caso la sede trapanese del Caf, il centro di assistenza fiscale cislino, è sempre in piazza Montalto 27, negli stessi uffici del Ceset (o viceversa). Psicologicamente, si tratta di un classico caso di sdoppiamento della personalità (giuridica). Penalmente, sia chiaro, non c’è nulla di rilevante. Amministrativamente, il caso è invece al vaglio dell’Agenzia per le entrate, che ha inserito il Ceset tra le onlus «non validate», cioè prive per il momento di tutti i requisiti richiesti. Forse basterà un’autocertificazione, forse no, a risolvere il problema di Tessitore. Certo è che non si tratta di spiccioli. Da un primo calcolo di Carlo Mazzini, grande esperto di legislazione non-profit, sarebbe «intorno ai 25 euro il valore di ogni preferenza espressa con il 5 per mille». Un tesoro che sindacati e sindacalisti hanno puntato. D’altronde parliamo di una Triplice sindacale che fa la cresta con le organizzazioni europee, dichiarando circa 3 milioni di associati in meno rispetto ai 10,5 milioni dell’Italia. Il motivo? Risparmiare sulle quote d’iscrizione alla Ces, la Confederazione europea dei sindacati, parametrate al numero degli iscritti. Non bastavano poi gli introiti già noti, tra convenzioni con i Caf (85 milioni di euro l’anno, 14,33 euro per dichiarazione dei redditi), i finanziamenti ai patronati (lo 0,226 per cento dei contributi versati dai lavoratori), la gestione dei fondi pensione, le società di servizi. Non bastava il privilegio di poter secretare i bilanci (i sindacati non hanno l’obbligo di pubblicazione). Non bastano, infine, i denari che i confederali fanno spendere allo Stato per difendere le loro minoranze, pensionati e dipendenti pubblici, come ha denunciato per ultima il ministro Emma Bonino. Ci volevano pure i denari del volontariato. Eppure, la legge parla chiaro: i sindacati non sono onlus. Il decreto 460 del 1997 li esclude tassativamente dalle agevolazioni fiscali previste per ong, associazioni e ricerca scientifica. E la Finanziaria 2005 li esclude ugualmente dalla possibilità di godere del 5 per mille. Ma usciti dalla porta della legge, Cgil e Cisl sono rientrate per la finestra delle associazioni a loro collegate, utilizzando uno straordinario mezzo di propaganda e pressione come i Caf. D’altra parte, tranne la Uil di Luigi Angeletti, tutti i gestori di Caf hanno capitalizzato. Le Acli di Andrea Oliviero hanno raggiunto quota 228.829 preferenze, il Movimento cristiano lavoratori di Carlo Costalli è arrivato a 109.748. E nei centri di assistenza fiscale la percentuale di italiani che versano il 5 per mille sale fino all’80 per cento, rispetto alla media nazionale del 60. L’Arci, che ha 1 milione di iscritti ma non ha Caf, ha raccolto la miseria di 10.500 indicazioni. Per il presidente Paolo Beni la causa è evidente: «La competizione con chi conta su Caf e patronati è squilibrata». Ma Acli e Mcl non sono sindacati, quindi non sono esclusi dal decreto del 1997, a differenza di Cgil e Cisl, scese in campo utilizzando metodi perlomeno discutibili. Come quelli segnalati dal settimanale Vita, la bibbia del non-profit. Il suo direttore Riccardo Bonacina è il padre «giornalistico» del 5 per mille. Pur difendendo la legge, ha pubblicato le lettere di chi si è scontrato con l’ostilità dei Caf. I metodi utilizzati sono diversi. Il più denunciato è l’esclusione selettiva, e va spiegato. Per la donazione diretta del 5 per mille, deve tassativamente essere indicato il codice fiscale dell’associazione. Ma il sistema informatico dei Caf sindacali ne «riconosce» soltanto alcuni: quelli delle loro onlus di riferimento e, per evitare problemi «politici», quelli di grandi associazioni come per esempio Airc e Unicef. Così vengono automaticamente tagliate fuori migliaia di piccole associazioni territoriali o, secondo le accuse, realtà sgradite. È capitato anche all’associazione Luca Coscioni: «Il software dei Caf non accetta il nostro codice fiscale» hanno lamentato gli amici di Emma Bonino, casualmente avversaria dei sindacati. Per i quali non valgono soltanto i casi limite delle associazioni fai-da-te come il Ceset. Basta guardare alle classifiche ufficiali del 5 per mille. L’Auser (associazione per l’autogestione dei servizi e la solidarietà), costola del sindacato pensionati Spi-Cgil, ha ottenuto 184.143 preferenze, il secondo posto (dietro l’Anpas) nel settore del volontariato e il quinto in assoluto, comprese ong e ricerca. Per il presidente Michele Mangano il risultato è buono ma non eccezionale: nel 2007 l’obiettivo è di 200 mila preferenze, considerato che «in molte regioni i nostri associati hanno preferito devolvere il 5 per mille ai servizi sociali dei comuni». Un’opzione esercitata soprattutto nelle regioni rosse. Ma siccome da quest’anno la scelta a favore dei municipi è abolita, e le regioni rosse sono fortemente sindacalizzate, c’è da scommettere che il tetto di 200 mila verrà ampiamente superato. Sempre di area Cgil è la Federconsumatori promossa dal sindacato di Guglielmo Epifani: è fuori dalla top ten, ma pure ha ottenuto 13.638 adesioni. Al nono posto nel volontariato, con 22.037 devoluzioni accertate, c’è l’Anolf, associazione di immigrati cislina. Meglio ancora è andato l’Iscos, l’istituto sindacale per la cooperazione allo sviluppo, arrivato a quota 25.948. Di diretta emanazione della Cisl sono anche l’Ente turistico sociale italiano (1.625 preferenze) e l’Adiconsum, i cui 15.766 fan dovranno attendere: l’associazione di consumatori cislina è temporaneamente parcheggiata tra i «non validati». Poco male per il sindacato di Raffaele Bonanni. La campagna pressante sul 5 per mille, lanciata tra aprile e maggio del 2006, ha trovato sfogo soprattutto nell’Anteas, associazione nazionale terza età attiva per la solidarietà, classificatasi quinta nel volontariato con 70.439 preferenze. Sul sito, l’Anteas si descrive come «associazione ispirata dalla Fnp-Cisl», i pensionati del sindacato cattolico. Poi, sempre online, c’è un po’ di storia: «Anteas è nata nel 1996. Nel 2003 è stato varato il nuovo statuto associativo per consolidarne la crescita, all’insegna della solidarietà». Crescita e solidarietà: ma proprio nel 2003, quando si è cominciato seriamente a parlare di 5 per mille. Un’ennesima casualità. Ora però il fato vuole che Stefano Zamagni, presidente prodiano dell’Agenzia per le onlus, stia mettendo mano al regolamento d’attuazione del 5 per mille. Dice Zamagni: «Il mercato delle donazioni è oligopolistico. Serve più equilibrio tra piccoli e grandi. E ci vuole il rating etico». Sì, ci vuole. Alla faccia del destino cinico e (soprattutto) baro. 

ANTIMAFIA. COME SPENDE I SOLDI E COME CERCA DI FARE AFFARI...

Fatemi credere ancora nell'Antimafia. Solo una volta. Una volta sola. Scrive Francesco Trotta il 16.02.28. "La lotta dell’uomo contro il potere, è la lotta della memoria contro l’oblio" scrive Milan Kundera. Partiamo da una semplice osservazione: noi siamo memoria. Siamo memoria storica. Partiamo da qui. Per ricordarci che anche quello che comunichiamo oggi è memoria. Perché qualcuno –ne basta uno, uno solo– prima o poi ci leggerà. O vedrà cosa abbiamo fatto. Riaffermare questo concetto, banale, melodrammatico o veritiero che sia, senza voler dilungarsi oltre in pensieri etici e morali stancanti che assomigliano a ramanzine o facili scorciatoie, e legarlo ad azioni concrete non è cosa da poco. Specialmente se si agisce con e per un alto ideale, che nell'Italia di oggi è anche sinonimo di lotta alle mafie. Lottare contro le mafie inizialmente è stato prerogativa, quasi esclusiva, della magistratura. È la cosiddetta antimafia ufficiale. Nata in uno dei poteri dello Stato, di quello stesso Stato che con le mafie percorre spesso le medesime strade. La quale viene calata dall'alto sul territorio locale. Ma vi è un'altra antimafia, quella che parte dal basso all'interno di un territorio circoscritto, chiamata oggi "sociale", che per sua natura avrebbe il potenziale per essere strumento più forte di quell'antimafia giuridica – essendo essa legata al giudizio arbitrario di una persona che comunque fa parte di un sistema di potere. L'antimafia sociale invece è sentimento, unione di intenti prima ancora di applicazioni di leggi e norme. Se queste due forze e facce dell'antimafia lavorassero verso gli stessi obbiettivi con lo stesso alto spirito, potremmo star certi che le mafie farebbero un po' meno paura. L'unione tra queste due realtà, inoltre, si realizza –o dovrebbe farlo– in quei beni confiscati e sottratti al crimine organizzato, che oggi sono un patrimonio unico nel suo genere per l'Italia. Rappresentavano il potere mafioso in un dato territorio e oggi potrebbero essere non semplicemente avamposti di legalità ma nuovi prototipi di sviluppo culturale ed anche economico. Sogni. Ad oggi sono pochi e poco valorizzati questi progetti di rigenerazione sociale. I fatti parlano di altro. Parlano di magistrati e giudici disonesti. Parlano di casi come quello che ha coinvolto Silvana Saguto, della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che avrebbe favorito una ristretta cerchia di amici, amministratori giudiziari –il Dott. Cappellano Seminara su tutti– e altri professionisti dell'antimafia. Parlano dell'antimafia di facciata, che ha la sua massima espressione in Rosy Canale, leader del Movimento delle donne di San Luca, in Calabria, condannata dalla giustizia per aver usato a scopo personale le ingenti somme di denaro destinate a progetti sulla legalità. Parlano di uno scontro tra l'antimafia giuridica e quella sociale, già comunque frazionata al suo interno. Esempio ne è la diatriba tra il giudice della Dia di Napoli, Catello Maresca, e l'associazione Libera di Don Ciotti e Nando Dalla Chiesa, già duramente colpita dalla fuoriuscita di Franco La Torre, figlio di quel Pio, padre putativo della legge che permette il sequestro e la confisca dei beni alle mafie. Dopo più di vent'anni –la rete dell'associazionismo antimafioso è nata all'indomani delle stragi di Capaci e via D'Amelio– sembra insomma che si sia irrimediabilmente compromesso quel sogno di un'unione di intenti antimafiosi che coinvolgesse più soggetti. Da ultimo –ma siamo sicuri che non sarà l'ultimo– il caso di "Riferimenti – il Coordinamento della Gerbera Gialla" di Adriana Musella, figlia dell'imprenditore Gennaro, ucciso da un'autobomba nel lontano 1982. 

La giornalista Alessia Candito, sotto scorta e minacciata dalla 'Ndrangheta, ha pubblicato sul Corriere della Calabria la contabilità dal 2011 al 2014 dell'associazione della Musella, legata al Liceo Piria di Rosarno, salito alle cronache nazionali grazie al libro "Generazione Rosarno" di Serena Uccello. Nell'articolo della Candito si parla di "Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza". E si conclude scrivendo che: "Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti, ma che in quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti".

Adriana Musella, ovviamente, ha reagito pubblicamente, ad iniziare dal suo profilo Facebook, costantemente aggiornato, in cui ha ricevuto molti attestati di affetto e solidarietà, come quello illustre della Fondazione Antonino Caponnetto, di cui "Riferimenti" è un socio fondatore. La Musella si è dichiarata pronta a rispondere per iscritto (prima annunciando una conferenza stampa, poi annullandola) a quelle che lei reputa essere accuse latenti e dubbi suscitati dall'articolo. Lei stessa pochi giorni prima dello scoppio dello scandalo aveva rilanciato la notizia della consegna di un bene confiscato a Limabdi alla sua associazione (per un progetto conosciuto come "Università dell'antimafia") e, al contempo, di una possibile campagna denigratoria nei suoi confronti. In altre parole, che ci fosse una regia occulta mirata a delegittimare il suo lavoro e il suo impegno. "Ma non mi farò infangare ulteriormente. La mia famiglia ha già pagato e un altro morto sarebbe davvero troppo. Le carte sono a disposizione di tutti così come le avevo messe a disposizione della persona che ha scritto. Le manifestazioni con migliaia e migliaia di studenti sono diventate parate, gli spettacoli, uno strumento di delegittimazione, magliette e fiori offerti in dono, (chi legge dei presidi, insegnanti o studenti a noi vicini in tutta Italia può testimoniarlo) fonte di addebito morale". E infine la volontà di querelare le testate giornalistiche che "hanno pubblicato notizie e titoli con precise modalità delegittimanti nei confronti della sottoscritta, della propria famiglia e del Coordinamento Riferimenti".

Perché tirare in ballo presunte presenze oscure? Quello che si è voluto trasformare in uno scontro, ma che nei fatti è giornalismo, ci riporta al Medioevo dell'antimafia. È bene chiarire che ancora non risulta ci sia alcuna indagine giudiziaria a carico di Adriana Musella, alla quale ad oggi non è stato addebitato alcun tipo di reato.

Ci sarà invece, probabilmente, un attacco, anche sul piano giuridico, nei confronti di Alessia Candito e del suo giornale. La sua inchiesta però, ci porta ad un altro problema. Osserviamo a malincuore querele – o minacce di farle – nei confronti di chi fa il proprio mestiere, per di più se impegnato a denunciare mafie e mala politica. Non vogliamo sapere che fine abbia fatto quel diritto alla libertà di stampa, tanto urlato quando fa comodo e quanto mai ostaggio di interessi personali in certe occasioni. Ma non vorremmo dover pensare che certi "eroi" in Italia non si debbano, né si possano toccare. Si muore per molto meno, in molti modi. 

Un altro eccellente esempio a riguardo è stato la querelle Pantano-Pecora, in cui il giornalista aveva scritto di Aldo Pecora, leader del Movimento "Ammazzeteci Tutti", e della sua vecchia residenza nel palazzo del capo-mafia Longo, notizia mai smentita dall'interessato e ripresa poi da Federica Angeli per un'inchiesta sul lato oscuro dell'antimafia per L'Espresso. Dalla gestione del denaro pubblico, elargito alle associazioni antimafia in Italia (verso cui si dovrebbe procedere ad un monitoraggio) al fatto che dentro le associazioni lavorino figli e parenti di o che le stesse associazioni siano un viatico per la carriera politica. L'antimafia ormai è un potere. Un brand. Un calderone infernale. 

Con l'idea di non voler delegittimare nessuno, ricordiamo un altro diritto, molto meno "alto" rispetto alla libertà di stampa, quello di avere chiarezza. Di sapere come stanno le cose. Per non "sporcarci" oltre. L'antimafia oggi assomiglia al diritto alla libertà di stampa: bandiera al vento e vento fatto dagli aliti di molti, troppi individui.

Vi prego, fateci credere ancora nell'antimafia. Solo una volta. Una volta sola. Senza prese per il culo. Non ne abbiamo bisogno. Francesco Trotta – Cosa Vostra

Reggio Calabria, indagata la presidente dell’associazione antimafia Riferimenti – Gerbera Gialla. Adriana Musella accusata di appropriazione indebita dalla procura di Reggio Calabria. "Non mi sorprende, avendo sollecitato io stessa l'accertamento della verità". Non è la prima volta che un’associazione della legalità finisce nel mirino dei magistrati, scrive Alessia Candito il 29 marzo 2017 su "La Repubblica". Adriana Musella a un convegno sull'antimafia Un nuovo ciclone si abbatte sul movimento antimafia. La presidente dell’associazione Riferimenti – Gerbera Gialla, Adriana Musella, è indagata per appropriazione indebita dalla procura di Reggio Calabria. Al vaglio dei magistrati ci sono i fondi negli anni versati da diversi enti pubblici e secondo l’ipotesi investigativa utilizzati in modo non del tutto consono e conferente. Al riguardo, nei giorni scorsi Musella è stata interrogata per oltre due ore dal dal pm Sara Amerio e dal procuratore aggiunto Gerardo Dominjianni. "C’è stato un interrogatorio e Musella ha risposto. Adesso esamineremo la documentazione prodotta in quella sede" conferma il procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Ma anche la diretta interessata che questa mattina su facebook ammette "è in atto un'indagine a mio carico", pur sostenendo che "non mi sorprende, avendo sollecitato io stessa l'accertamento della verità" dopo la pubblicazione di una serie di articoli riguardanti le attività dell’associazione. E conclude: "La mia coscienza è tranquilla e continuerò a lavorare come ho sempre fatto. Spero di poter superare questa ulteriore prova che la vita mi riserva". Non è la prima volta che un’associazione antimafia finisce nel mirino dei magistrati. È attualmente indagato per concorso esterno Antonello Montante, vicepresidente di Confindustria nazionale con delega alla legalità e presidente di quella siciliana, ex paladino dell’antimafia, finito nel mirino della procura di Caltanissetta, che gli contesta di aver avuto rapporti con esponenti anche di spicco di Cosa Nostra nissena fin dalla metà anni '80. È invece sotto processo Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato, anche lui un tempo noto nome dell'antimafia, ma per i pubblici ministeri Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, responsabile di aver estorto soldi ai sindaci di Borgetto e Partinico. In cambio del denaro, Maniaci avrebbe smesso di mandare in onda servizi sulle due amministrazioni comunali. Anche in Calabria gli esempi non mancano. Rosy Canale, leader del movimento “Donne di San Luca” è stata condannata a 4 anni per aver acquistato vestiti e borse di marca, mobili, viaggi e anche un'automobile con i soldi versati da enti e fondazioni per la sua associazione. È stato invece rinviato a giudizio ed è attualmente sotto processo Claudio La Camera, leader dell'associazione reggina Museo della ‘ndrangheta. La Camera è finito davanti ai giudici per utilizzo improprio di fondi pubblici destinati alla lotta alle mafie, ma secondo la procura di Reggio Calabria utilizzati per scopi personali, falsità ideologica e altri reati. Per i magistrati, la sua associazione avrebbe beneficiato di finanziamenti per centinaia di migliaia di euro grazie ai rapporti tra La Camera e alcuni componenti della precedente giunta regionale guidata da Giuseppe Scopelliti.

Le Iene servizio di Gaetano Pecoraro: come spende i soldi un’associazione antimafia. Nella puntata de Le Iene di mercoledì 12 aprile 2017, andata in onda, su Italia 1, Gaetano Pecoraro continua le sue inchieste dedicate alle associazioni antimafia. Questa volta, la iena, ha voluto dedicare un servizio alla “famosa” Gerbera Gialla, un’associazione antimafia che pare aver sperperato molti soldi pubblici. La dottoressa Adriana Musella, presidente del sodalizio, è indagata dalla procura di Reggio Calabria. La iena ha intervistato la giornalista che ha pubblicato l’articolo sulle presunte spese dell’associazione Gerbera Gialla. Non è la prima volta che un’associazione della legalità finisce nel mirino dei magistrati. La presidente dell’associazione Riferimenti – Gerbera Gialla, Adriana Musella, è indagata per appropriazione indebita dalla procura di Reggio Calabria. Al vaglio dei magistrati ci sono i fondi negli anni versati da diversi enti pubblici e secondo l’ipotesi investigativa utilizzati in modo non del tutto consono e conferente. Gaetano Pecoraro ha cercato e trovato la dottoressa che ha cercato di difendersi.

Adriana Musella e la testa piccola dei calabresi, scrive Antonio Leonardo Montuoro su "Mediterraneinews". Non sparo sulla Croce Rossa. Ed in questo momento Adriana Musella, leader della associazione privata “Riferimenti”, è sotto tiro. Una brava giornalista calabrese – Alessia Candito – si è messa a spulciare i rendiconti dell’Associazione che ha ricevuto negli ultimi 4 anni più di 400.000 euro di sovvenzioni da Enti pubblici per sostenere la sua azione antimafia. Non discuto le iniziative...io auspico che vengano moltiplicate…discuto che vengano fatte con i soldi pubblici. Io dal 1973 ad oggi ho promosso non so quante manifestazioni per la legalità…personalmente e con associazioni alle quali appartengo. Tutto con i miei o con i soldi personali degli associati…altrimenti il volontariato e l’impegno rischiano di diventare un business…e comunque facilmente attaccabile. E così è stato…perchè la Musella con quei soldi – pubblici – ci ha pagato i parenti – che, per carità – ci hanno lavorato…i ristoranti….perchè non si vive di sola aria…gli alberghi perchè un letto ed un tetto lo devi pur avere….le magliette pubblicitarie perchè così il messaggio diventa più efficace. Alla fine tutto sarà considerato regolare perchè “Riferimenti” è una associazione privata e se chiede ed ottiene soldi è perchè trova credito o perchè è ben introdotta nei padroni della borsa. Detto questo Adriana non si deve adirare se una giornalista calabrese si mette a chiedere conto. E nessuno ha il diritto di chiamarla pivella…come l’Adriana ha fatto…sotto l’incalzare del solito pirata de  “Le Iene”…che contestava le varie  voci della spesa…rivelate dalla Candito. Ma la cosa che mi ha un pò incuriosito – indignato no, non ne vale la pena – è la interlocuzione con il giornalista che la esasperava. Adrianuccia, seppur salernitana, è più calabrese di me, ha detto: “lei ha la testa piccola dei calabresi…” ….Vabbò…..succede….che dobbiamo dire?  HA RAGIONE !…se non avessimo avuto la testa piccola…non avremmo certo perso  il nostro tempo con una Associazione familiare che va avanti con i soldi dei Calabresi …per consentirle di offenderli.

Legali di Adriana Musella: grave e illegittimo attacco mediatico, scrive "Il Parlamentare" il 13 aprile 2017. I Legali di Adriana Musella: nessun fatto specifico è stato contestato in sede di interrogatorio in Procura. Contro di lei "manifestazione esteriore di una cultura dell’odio". Adriana Musella è Presidente dell’Associazione “Riferimenti” che da oltre 25 anni promuove nel mondo della Scuola e non solo, la cultura dell’Antimafia Sociale. Nei mesi scorsi la Musella, promotrice di centinaia di eventi simboleggiati dalla “Gerbera Gialla”, il fiore divenuto simbolo dei giovani Antimafia, ha portato a termine una operazione unica nella storia. All’interno del bene confiscato alla famiglia Mancuso di Limbadi che le cronache giudiziarie dicono essere tra le più note famiglie di ‘ndrangheta a livello internazionale, Adriana Musella che ne ha ricevuto l’affidamento da parte del Ministro dell’Interno, vi ha istituito le fondamenta di una “Università dell’Antimafia” già sta operando con successo attraverso una serie di seminari patrocinati anche dal mondo accademico. Contestualmente e per uno strano paradosso, con tempismo a dire poco svizzero, la Musella, come testimoniato dalle cronache, è stata fatta oggetto di attacco mediatico da parte di alcuni organi di stampa in Calabria. La virulenza degli stessi, in verità, ha destato molti sospetti in chi si occupa di comunicazione e di diritto. Oggi, dopo circa un anno, le Iene si occupano del caso ma qualcosa non va. Se ne accorge la rete dei social che incita alla prudenza. Prontamente intervengono gli Avvocati del Presidente di “Riferimenti” Giovanna Fronte e Carlo Morace che con una analisi dettagliata che fa immaginare un’acquisizione di prove in merito a tutto quanto dichiarato, indipendentemente dai fatti, annunciano querele.

LA NOTA DEI LEGALI GIOVANNA FRONTE E CARLO MORACE

"Quali legali della Sig.ra Adriana Musella, a seguito al servizio andato in onda ieri sera durante la trasmissione “Le Iene” e riguardante una intervista risalente a più di un anno fa, e alle correlative successive notizie giornalistiche, si ritiene di dovere fare alcune considerazioni. E’ in atto un illegittimo attacco mediatico nei confronti della nostra assistita finalizzato a farla apparire colpevole in assenza non si dica di una sentenza, ma finanche di una qualsivoglia accusa contestata alla stessa dalla Procura della Repubblica.  E’ sintomatico di ciò l’abbinamento inquietante tra la diffusione, alcuni giorni orsono, di notizie giornalistiche in tempo reale su un interrogatorio reso presso la Procura della Repubblica, atto di indagine riservato, e la divulgazione solo oggi di un servizio realizzato dalle “Iene” datato di un anno e che va contestualizzato alle notizie allora apparse su un noto quotidiano “on line” calabrese a firma della giornalista Alessia Candito. E’ ovvio che il riferimento ai Calabresi effettuato dalla sig.ra Musella, nel mentre veniva incalzata e irrisa nel corso della intervista “sui generis”, non voleva essere generalizzante. Adriana Musella in quel momento ha voluto fare riferimento soltanto a chi ostinatamente e capziosamente la aveva pubblicamente additata senza il rispetto della persona, di regole deontologiche, di un qualunque contraddittorio, che non può certamente svolgersi in modo regolare attraverso risposte a campagne stampa diffamatorie.  Peraltro, è emblematica di un certo modo di fare giornalismo la circostanza che solo alla fine della trasmissione “Le Iene”, in più parti tagliata proprio nelle risposte della sig.ra Musella e che largo spazio ha dato alla giornalista Candito, si è dato atto che l’intervista era datata e ciò è avvenuto contestualmente alla enfatizzazione dell’esistenza oggi di indagini. Queste ultime, peraltro, generate dalla iniziativa di un anno fa della nostra assistita, proprio a dimostrazione della sua buona fede, iniziativa finalizzata a rispondere alla aggressione mediatica appena iniziata rivolgendosi all’unica Autorità riconosciuta da chi crede nella giustizia, ossia il Procuratore della Repubblica. Va da ultimo detto che il tentativo becero di fare apparire Adriana Musella colpevole prima ancora di qualunque accusa nei suoi confronti (nessun fatto specifico è stato contestato in sede di interrogatorio in Procura), di creare avversione da parte dei cittadini, di dipingerla quale persona riprovevole, ergendosi addirittura a censori e moralizzatori senza che tale compito sia stata da alcuno assegnato, è la manifestazione esteriore di una cultura dell’odio, alimentata attraverso il correlativo linguaggio dell’odio che viene diffuso in una società che alcuni hanno interesse a non rendere moderna ed inclusiva, ma al contrario piena di steccati e muri divisori. Sul rapporto e sul legame tra la Calabria e Adriana Musella si dimentica (ma è dimenticanza?) che la stessa ha sposato due reggini, ha due figli nati e residenti a Reggio Calabria, città che non ha abbandonato nonostante la barbara uccisione del padre ad opera della ‘ndrangheta. Si agirà a tutela della nostra assistita nelle sedi più opportune." Avv. Giovanna Fronte, Avv. Carlo Morace.

I soldi dell'antimafia finiti in viaggi e magliette. Tra il 2011 e il 2014 un fiume di risorse delle casse di Riferimenti, associazione presieduta da Adriana Musella, è stato utilizzato per acquistare beni e servizi poco attinenti con iniziative finalizzate al contrasto ai clan. Con la "benedizione" del consiglio regionale, scrive Giovedì, 25 Febbraio 2016 Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza. Il Corriere della Calabria ha avuto accesso a contabilità e bilanci del Coordinamento nazionale Riferimenti, documenti elaborati e depositati dall'associazione antimafia dal 2011 al 2014. In quegli anni, l'associazione non poteva di certo lamentare mancanza di fondi ma, tra spese e fatture, quelle che raccontano di attività antimafia sul territorio sembrano ben poche. Eppure, in quegli anni nelle casse di Riferimenti di soldi ne sono arrivati. E tanti.

Solo nel 2011, enti pubblici, associazioni e privati cittadini versano nelle casse dell'associazione circa 270.028 euro. Altri 18.552 euro – di cui 12.496 offerti dalla Provincia di Reggio Calabria – arrivano dalla vendita di materiale e raccolta fondi. Andrà così anche l'anno successivo, quando enti e associazioni iniettano nelle casse di Riferimenti più di 126mila euro, mentre altri 3.050 arrivano da vendite e raccolte fondi. In totale, si tratta di quasi 400mila euro, che nel giro di 24 mesi vengono messi in mano a chi si ripromette di costruire una cultura antimafia in Calabria e non solo, ma nel medesimo lasso di tempo non registra neanche un singolo versamento da una tessera soci. A fronte di ciò nessun particolare attivismo, al di là di sporadici incontri nelle scuole e qualche convegno istituzionale o la "settimana bianca dell'antimafia" in Folgaria. Eppure ci sono una serie di soggetti – pubblici, ovviamente – che dimostrano di credere nelle attività dell'associazione, tanto da inondarla di quattrini. Nel 2011 il Miur finanzia un progetto in un'unica scuola campana per oltre 80mila euro, altre decine di migliaia vengono raccolti – senza vincolo – fra enti di ogni ordine e grado, quasi 40mila ce li mette la Regione Calabria, ma il campione di generosità è sicuramente il consiglio regionale calabrese, che in quattro tranche versa la bellezza di 129.989 euro. Un impegno finanziario gravoso, giustificato in larga parte dal protocollo firmato nel dicembre del 2010 dalla presidente di Riferimenti con il consiglio regionale all'epoca guidato da Francesco Talarico, nell'anno uno dell'era Scopelliti.

Il governatore è reduce da un'estate e un autunno infuocati dalle polemiche seguite all'esecuzione dell'operazione Meta, che porterà in manette gli uomini del direttorio della 'ndrangheta reggina, insieme a imprenditori e prestanome. Tra gli indagati in quel medesimo fascicolo ci sono però anche alcuni dei suoi uomini di riferimento, ma soprattutto dalle carte di indagine emergono fatti definiti non penalmente rilevanti, ma di certo imbarazzanti per Scopelliti. È il caso della sua partecipazione al ricevimento organizzato il 15 ottobre del 2006 dai fratelli Barbieri, processati e condannati come imprenditori dei clan, per festeggiare i cinquant'anni di matrimonio dei genitori. Al banchetto si fanno notare anche picciotti e boss di 'ndrangheta, fra cui il numero uno dei clan di San Procopio, Cosimo Alvaro. Insomma, per il governatore – tirato anche in ballo da diversi pentiti – la 'ndrangheta è in quel periodo un argomento sensibile. Sarà per questo che ha dato mandato al "suo" presidente del Consiglio di autorizzare quel protocollo?

Palazzo Campanella si impegna a versare 65mila euro l'anno per «favorire, anche attraverso percorsi didattico-educativi, l'acquisizione di comportamenti rispettosi della legalità democratica e della convivenza civile, soprattutto nelle zone ad alto rischio criminalità», ma anche «produrre e diffondere nelle scuole strumenti didattici di sensibilizzazione utili a sollecitare la riflessione sul valore della vita per promuovere e diffondere la cultura della legalità e della non violenza», come pure «organizzare, oltre la giornata regionale antimafia della Gerbera Gialla (...) anche convegni di approfondimento tenuti con il contributo di testimoni, storici, magistrati, rappresentanti istituzionali e delle forze dell'ordine». E – puntuali – i fondi arrivano. Ma nel rendiconto presentato a fine anno, tanto nel 2011 come negli anni successivi, finiscono spese che poco sembrano aver a che fare con gli intenti del protocollo.

Nei tre anni successivi, la parte del leone la fanno non meglio specificate spese di tipografia, per un totale di 60.290 euro. Non è dato sapere con precisione cosa Riferimenti abbia stampato in quegli anni con l'intento di costruire il "percorso antimafia" concertato con Palazzo Campanella, ma di certo si sa che l'associazione ha puntato molto sui calendari, come su un libro – "Vittima di mafia, nome comune di persona" – scritto in ricordo dell'ingegnere Gennaro Musella dalla figlia Adriana, oggi presidente di Riferimenti, e da Salvatore Ulisse Di Palma, per sua stessa definizione «medico – cardiologo, scrittore per amore». Un testo agiografico, che bolla la mancata riapertura dell'inchiesta sull'omicidio Musella – archiviata per mancanza di prove dal pool che in quegli stessi anni avrebbe chiuso inchieste storiche come Olimpia, Croce Valanidi, Santa Barbara – come espressione della potenza del sistema. Su che basi? Puntando sulle ipotesi formulate dalla figlia di Musella, oggi presidente dell'associazione che ne celebra la memoria, che nessuna Procura sembra mai aver preso in considerazione, né all'epoca, né dopo. Ma tant'è. Tanto il libro, come i calendari, sono stati poi comprati in gran numero dal Consiglio regionale e da altri enti che hanno versato contributi all'associazione. Dal 2011 al 2013, la Regione Calabria – puntualmente ad aprile – ha provveduto a staccare un assegno da tremila euro per i calendari. Di libri invece ne ha comprati cento, per la modica cifra di 5mila euro. In generale, enti e scuole in quegli anni hanno approvato finanziamenti per l'acquisto di materiali la cui produzione è stata finanziata da altri enti.

Notevole dal 2011 al 2013 è anche il budget messo a disposizione dal consiglio regionale finito in fiori e magliette. Per omaggi floreali e addobbi, in tre anni l'associazione ha speso 11mila euro circa, mentre per le magliette da distribuire nelle giornate della Gerbera gialla sono andati via 23.061,61, più circa 4.890 di targhe. Anche per pranzi e cene, di rappresentanza e no, non si è badato a spese. In conto alla regione finiscono infatti 7.222 euro. Fra questi, ci sono 2.000 euro spesi alla Locanda di Molinara, ristorante di cui non viene indicata l'ubicazione, e i 1500 euro pagati nel 2011 al ristorante i Tre farfalli, all'epoca di proprietà del cognato della presidente, Salvatore Neri. Un'altra fattura del medesimo importo, emessa nella stessa data dal medesimo ristorante, verrà invece addebitata a un altro ente.

Ma oltre ai talenti da ristoratore, Neri deve essere stato considerato fondamentale nei progetti con le scuole di Riferimenti, se è vero che per tutti gli anni di durata del protocollo verrà regolarmente retribuito con 2mila euro, più vari rimborsi spese. Sempre di rimborsi, ma solo di modesta entità, deve essersi accontentata la sorellastra della presidente, Elisabetta Musella, che nel coordinamento figura anche come tesoriera. Un ruolo importante invece, deve aver avuto il figlio della presidente, Francesco Tortorella, che nel giro di tre anni incassa circa 16mila euro. Di questi, 10.900 arrivano nel 2011, ma qui c'è un giallo. Insieme a lui vengono pagati – molto meno – anche gli altri due docenti scelti per i laboratori di cinema, fotografia e illustrazione creati nell'ambito del progetto Zep presso la scuola media F. Sorace Maresca di Locri. Peccato però che quel progetto godesse di un suo autonomo finanziamento – erogato dalla giunta e non dal Consiglio. Per decreto della Regione Calabria, fra il marzo 2010 e il maggio del 2011, sono finiti nelle casse di Riferimenti 76.160 euro, destinati alle "zone educazione prioritaria".

Per anni, il consiglio regionale ha finito per finanziare anche le utenze e i tributi di Riferimenti. In conto a Palazzo Campanella finiscono infatti 5.902,99 euro di cellulari, 2.112 di telefono fisso, 844,79 di energia elettrica e persino due rate della Reges (società di riscossione tributi del Comune di Reggio), pari a 176,4 euro.

Una menzione a parte merita la Gerbera Gialla del 2013 – teoricamente culmine del percorso antimafia costruito durante l'anno – che per quell'anno ha voluto proporre ai reggini la versione musical di "Vittima di mafia-nome comune di persona", il testo in memoria di Gennaro Musella. Lo spettacolo è stato messo in scena dall'associazione MagicamenteMusical di Napoli, retribuita con 4500 euro da Riferimenti, quindi omaggiata per il medesimo spettacolo con "aiuti" di istituzioni di ogni ordine e grado. A maggio del 2013, lo spettacolo viene portato in riva allo Stretto e per l'occasione non si bada a spese. Per le "giornate" di quell'anno si mettono sotto contratto – a spese del consiglio regionale, ovviamente – una società di organizzazione e allestimento eventi (1.064,8 euro), una che fornisce hostess (774,4 euro), un service audio (968 euro) e un servizio foto e riprese (400). Non mancano le spese per ristoranti (625 euro), hotel (1.420) e viaggi (1.320). Alla fine tutto termina con un siparietto che ha del surreale. MagicamenteMusical, finanziata da Riferimenti per mettere in scena lo spettacolo, verrà premiata dalla stessa Riferimenti con il premio Gerbera Gialla per l'impegno civile. Tutto rimane in famiglia insomma, ma anche quella targa verrà messa in conto al consiglio regionale.

Ma queste non sono le uniche spese che – quantomeno sulla carta – sembrano stridere un po' con l'obiettivo primario del protocollo. In conto a Palazzo Campanella infatti finiscono anche non meglio precisate ritenute d'acconto per quasi tremila euro: taxi, alberghi e ristoranti a Latina e a Roma, 118 euro di servizi postali per la spedizione dei calendari venduti, spese in negozi di telefonia ed elettronica, come 1.778,95 spesi all'Apple Store di Roma Est e i 45 euro spesi alla Protel, centro di assistenza e riparazione per cellulari.

Certo è che le anomalie non si limitano alle spese messe in conto al consiglio regionale. Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti, ma che i quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti. Presumibilmente tutti sono serviti alle attività dell'associazione, ma occorrerebbe legarle in qualche modo alla costruzione della cultura dell'antimafia. La cosa non sempre risulta facile, come nel caso degli oltre 2mila euro spesi all'Ikea di Milano, dei 141,94 lasciati a Zara home a Roma. Allo stesso modo i quasi seimila euro di spesa relativi alla gestione di un'auto nel 2011. Si tratta di 500 euro pagati alla Vadalà Officina Meccanica il 23 dicembre 2011, cui si aggiungono 1.328,61 versati il 21 ottobre 2011 all'autocarrozzeria 2M Sas di Reggio Calabria, più le 288 (più 73 di hotel, si legge nella contabilità) pagate il 20 luglio. In più ci sono 225,88 di bollo, e presumibilmente 1.175,00 di assicurazione, voce che compare in contabilità orfana di specifica sul possibile oggetto o soggetto assicurato. Inoltre, la suddetta macchina deve essere rimasta parcheggiata almeno due volte all'aeroporto di Napoli e un bel po' a Reggio Calabria, se è vero che in contabilità risulta una fattura di 450 euro emessa per la ReggioParking. L'associazione ha una propria vettura inserita fra quei beni durevoli che compaiono in rendiconto per un valore pari a circa 60mila euro? Non è dato sapere né è specificato. Alla medesima auto sembrano però riferibili anche due voci relative a una contravvenzione del 2007 – pari a 339,89 euro – e la relativa mora (666,58 euro). E tutto – posto che dai bilanci non appaiono altre forme di ingresso o il versamento di quote associative – è stato pagato con fondi pubblici. Alessia Candito

Calabria: il Corriere “denuncia” le spese della Musella mentre lei fonda l’Università Antimafia, scrive Teresa Pittelli il 25 Febbraio 2016 su “L'esuberante". Teresa Pittelli. Giornalista professionista, redattrice di ItaliaOggi, ho collaborato con La Stampa, MF, Diario, CalabriaOra e Regione Calabria. Moglie&mammax4, ho realizzato che al settore materno-infanzia-adolescenza occorre corretta informazione. E così ho unito la passione-reporter all'impegno familiare per informare, raccontare, divertire e confrontarci! Lo notizia lanciata stamattina dal Corriere della Calabria, a firma di Alessia Candito, parla di “magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è difficile spiegare la continenza”. Le spese alle quali la penna del Corriere fa riferimento sono quelle di una delle associazione antimafia per eccellenza in Calabria, Riferimenti, guidata da Adriana Musella. Riportando i dati desunti dal resoconto contabile dell’associazione per gli anni 2011-2014, ai quali spiega di aver avuto accesso, la testata on line calabrese mette in risalto l’afflusso considerevole di fondi, circa 400 mila euro nel giro di due anni, dei quali la parte del leone sono quelli erogati dal consiglio regionale della Calabria con circa 130 mila euro, oltre a quelli del Miur per 80 mila, più contributi e donazioni varie di enti e privati. Una mole di denaro che secondo il Corriere avrebbe potuto forse essere spesa meglio per costruire il percorso di cultura della legalità, alla base della firma della convenzione con palazzo Campanella nell’era Scopelliti, visto che tante spese, secondo la critica del Corriere, sembrerebbero addebitabili a hotel e ristoranti, rimborsi o compensi a familiari che prestano attività per l’associazione, organizzazione di eventi. Il Corriere fa le pulci anche a come sono stati spesi i fondi dell’associazione in occasione della giornata della Gerbera gialla 2013, che rappresenta un momento clou dell’attività del Coordinamento “Riferimenti”. Ma proprio ieri, poche ore prima che l’articolo del Corriere facesse il giro del web, la Muselle era a Vibo alla presenza del prefetto Carmelo Casabona per ricevere ufficialmente le chiavi degli immobili confiscati alla cosca Mancuso, considerata la più’ potente al mondo della ‘ndrangheta calabrese. Il bene è stato ristrutturato dal ministero dell’Interno per ospitare, su un progetto che l’associazione coltivava fin dal 2008, con vicende che hanno visto la Musella anche oggetto di minacce, un piccolo campus destinato alla pedagogia della prevenzione, comunemente conosciuto come “Università dell’antimafia”. Nella stessa giornata, a Cosenza, la Musella è stata insignita del Premio Artemisia per la Resistenza Antimafia tra Memoria ed Impegno Civile per l’affermazione della Legalità nel corso dell’incontro promosso dal Rotary Club Montalto Uffugo Valle Crati. Un simbolo della lotta alla criminalità e alla mentalità mafiosa apprezzato anche a livello nazionale, Adriana Musella con la sua associazione, dalle quali si attendono ora eventuali repliche. E nel frattempo il web si divide tra sostenitori e ammiratori della paladina antimafia, che sottolineano il fatto che spese di rappresentanza e varie siano all’ordine del giorno per chi si occupa di legalità a livello regionale e nazionale, e chi invece prende atto con stupore della notizia di stampa, in attesa di eventuali riscontri da parte delle autorità contabili e giudiziarie.

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi su "L’Inkiesta" il 13 Maggio 2016. I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand.

«Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia.

Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni.

Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”.

Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia».

Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti.

Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa».

Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici.

Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto.

Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».

L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia.

Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime.

Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato.

A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea.

La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

"Quando l'antimafia cerca di fare affari", Le Iene tornano a Caltanissetta. Il capoluogo torna nell'occhio del ciclone. Ad accompagnare gli inviati della nota trasmissione di Italia Uno il giornalista nisseno Giampiero Casagni. Caltanissetta ancora una volta nell'occhio del ciclone. Dopo il caso dei disabili e dell'ormai ex assessore Gianluca Miccichè Le Iene tornano in città questa volta per occuparsi del primo palazzo costruito dall'antimafia. L’inchiesta di Gaetano Pecoraro e Massimo Cappello ci mostra come i patrimoni sequestrati e confiscati a persone sospettate di avere legami con la mafia vengono gestiti dal sistema dell’antimafia in modo poco trasparente e a tratti inquietante. Ad accompagnare gli inviati il giornalista nisseno Giampiero Casagni. 

Vi raccontiamo la storia di una storia. Al centro di essa Giampiero Casagni, giornalista con la vocazione per l’inchiesta. Il suo racconto sul cosiddetto Palazzo della Legalità di Caltanissetta, anticipato in parte sul mensile messinese “109”, è diventato un tema di grande rilievo condiviso con una platea nazionale. Le Iene, in onda su Italia1, hanno infatti ricostruito una vicenda che ha dell’incredibile, fatta di beni sequestrati a 2 aziende e gestiti dallo stesso curatore, di investimenti al confine della legalità, di incarichi attribuiti a parenti di primo e secondo grado. Una vicenda che, grazie all’imbeccata di Casagni e all’abilità della redazione delle Iene, è divenuta una godibilissima docufiction.

Le Iene servizio di Gaetano Pecoraro: “Quando l’Antimafia cerca di fare affari”. Nella puntata de Le Iene di domenica 2 aprile 2017, Gaetano Pecoraro, ha dedicato un servizio dal titolo “Quando l’Antimafia cerca di fare affari” alla vicenda legata all’azienda Di Vincenzo sequestrata dallo Stato. In particolare, la iena ha scoperto di come i procuratori giudiziari hanno fatto affari dietro il cosiddetto Il palazzo della legalità. Quell’area però pare che sia stata stimata quasi il doppio di quanto vale realmente. Pecoraro ha incontrato il dottor Collovà. Durante il servizio a Le Iene di domenica 2 aprile 2017, Gaetano Pecoraro ha scoperto che Collovà prende due compensi. Su questo, però la iena sorvola. L’avvocato è invece un noto legale, parente di Collovà. Nei lavori di progettazione del Palazzo della legalità anche il figlio di Collovà. Altro compenso per la perizia, firmata da un fratello di un notissimo magistrato siciliano, Teresi, giudice antimafia. Di Vincenzo è stato assolto. I suoi beni sono stati sequestrati.

Quanto costa la legalità. La storia di Elio Collovà. La vicenda del “palazzo della legalità” di Caltanissetta e gli affari dell'antimafia, scrive Massimo Bordin il 6 Aprile 2017 su “Il Foglio”. Collovà è un cognome da romanzo e infatti la storia del dottore commercialista Elio Collovà è molto interessante. Il nostro personaggio è assai considerato come amministratore giudiziario dall’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo, che come ricorderete ha avuto recentemente notevoli traversie giudiziarie. In questa storia lo scenario si sposta da Palermo a Caltanissetta dove c’è un altro personaggio chiave, Pietro Di Vincenzo, costruttore e per lungo tempo presidente della Confindustria locale, ruolo da cui venne spodestato dal giovane imprenditore Antonello Montante, in nome del rinnovamento e soprattutto della antimafia. Infatti Di Vincenzo ebbe seri guai giudiziari e venne condannato a dieci anni in un processo dove l’accusa fu sostenuta dal procuratore generale Roberto Scarpinato. Poi la sentenza fu ribaltata e Di Vincenzo uscì assolto. Nel frattempo fu indagato per mafia Montante e dopo due anni l’indagine ancora non è chiusa. A Di Vincenzo fu sequestrato un ingente patrimonio e qui torna in scena il dottore Collovà che se ne vide affidata dal tribunale la amministrazione. Tanti soldi, coi quali Collovà decise una iniziativa imprenditoriale. Comprata un’area in centro città ci costruisce un palazzo da 50 appartamenti. Lo chiama “il palazzo della legalità”. Finché arrivano “Le Iene” che mostrano in un loro servizio, ripreso solo da Tele Jato e Radio Radicale, che la legalità è molto costosa, vuoi per la cifra dell’intera operazione, tutta in perdita per ora, vuoi per quella, circa dieci milioni, delle consulenze utilizzate. Fra i consulenti, liquidato con circa 700 mila euro, l’architetto Mario Teresi, fratello del dottore Vittorio Teresi, procuratore aggiunto della Dda palermitana, impegnato nel processo trattativa. Non è una bella storia?

Collovà e l’antimafia delle sinergie, scrive il 4 aprile 2017 Salvo Vitale su "Telejato". Abbiamo incontrato, nel corso delle nostre inchieste, l’amministratore giudiziario Collovà parlando, dell’azienda agricola Savignano, uno dei più grandi poderi della Toscana, già di proprietà di Giuseppe Piazza e affidato, in amministrazione giudiziaria, così come del resto tutti i suoi beni, a Cappellano Seminara. Nel suo libro Confische spa racconta che, essendo andato in Toscana per una verifica su incarico del tribunale di Palermo, assieme a Cappellano, a bordo di una jeep, girarono per un’intera giornata senza riuscire a circoscrivere l’estensione della proprietà. Collovà era già nelle grazie dell’Ufficio misure di prevenzioni sin dal 1995, allorché gli era stato affidato il sequestro dei beni di Antonino Madonia e successivamente quello di altri mafiosi di spicco, come Noicolò Eucaliptus di Gela, Francesco Paolo Bontade, fratello di Stefano, Marcianò, Inzerillo, Mannino, Marcello Sultano, D’Agati Giovanni Francesco Zummo. A quest’ultimo, assieme a Francesco Civello, veniva sequestrato l’intero capitale il 23.9.2002, in quanto ritenuti prestanomi di Vito Ciancimino legati al re dei costruttori palermitani Vincenzo Piazza, suocero di Ignazio Zummo, figlio di Francesco e uomo della cosca mafiosa dei fratelli Graviano di Brancaccio, al quale in precedenza erano stati confiscati beni per oltre mille miliardi di lire. A Francesco Zummo, arrestato il 28 novembre 2001 per concorso in associazione mafiosa, erano state sequestrate 4 quote societarie di due imprese edili di Palermo (San Pietro Costruzioni srl) e di un’azienda agricola di Terrasini (Agricola Sif sas) intestata a Flora Zummo, figlia di Francesco.

Altro amministratore nominato, Andrea Dara, uno della cupola. Condannato, in primo giudizio a cinque anni, per concorso in associazione mafiosa. Il 15 aprile 2009 Zummo è stato assolto, assieme al figlio Ignazio (condannato a tre anni), alla moglie Teresa Macaluso e alle figlie Sonia, Gabriella e Flora, già assolte dal Gup. I giudici hanno disposto anche la restituzione dei beni che il Gup aveva confiscato: si tratta delle società Quadrifoglio immobiliare, Gardenia e Mec. Gli Zummo sono anche assolti o prescritti dall’accusa di fittizia intestazione di beni, per 13 milioni di euro, in concorso con l’avvocato milanese Paolo Sciumè, il quale avrebbe dato indicazioni per occultare una parte del loro patrimonio in un paradiso fiscale, presso la ArnerBank, alle Bahamas, tramite uno dei suoi fondatori, Nicola Brivetti, molto legato a Berlusconi. Quasi tutti i beni degli Zummo, malgrado le assoluzioni e le disposizioni di dissequestro, sono sempre sotto amministrazione giudiziaria, oggetto di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione. L’amministrazione giudiziaria è passata disinvoltamente da Dara a Elio Collovà e viceversa anche in altri casi, vedasi per esempio il sequestro del Gruppo Immobiliare Gitex e della Romana costruzioni spa fatto il 26.11.2001, della Rovigo Costruzioni, della Immobiliare Quadrifoglio, della Ponte Tresa costruzioni, tutte con sede in Viale Regione Siciliana 7275 Palermo.

Collovà ha una carriera di tutto rispetto, di dottore commercialista, di revisore dei conti, di perito del tribunale sia della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, incaricato di consulenze tecniche e di amministrazioni giudiziarie distribuite tra le procure di Trapani, Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Messina e persino Cuneo. È considerato un autentico “esperto” delle misure di prevenzione, di sezioni fallimentari, di riciclaggio, di illeciti nella pubblica amministrazione, autore di risposte a quesiti e interpelli inoltrati al Ministero delle Finanze, per sette anni revisore dei conti del comune di Palermo e collaboratore della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna.

Parallelamente a quella di Zummo si sviluppa la vicenda di Pietro Di Vincenzo, un imprenditore già presidente di Confindustria Caltanissetta. Arrestato nel febbraio 2002 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Di Vincenzo fu condannato in primo grado e assolto dalla Corte d’appello di Roma nell’aprile del 2008. Più recentemente è stato condannato dal tribunale di Caltanissetta a 10 anni di reclusione per estorsione ai danni dei suoi dipendenti, a cui avrebbe dato meno soldi di quanto risultasse in busta paga. Nella requisitoria al processo d’appello sulla confisca confermata i procuratori generali Roberto Scarpinato e Franca Imbergamo avevano sottolineato la vicinanza di Di Vincenzo con Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra. Grazie alle sue collusioni con Cosa nostra avrebbe ingrossato il suo patrimonio. Accusa respinta dal difensore dell’imprenditore, l’avvocato Gioacchino Genchi: “Non c’è una sola sentenza a confermare l’assunto accusatorio della Procura generale che ritiene illegittima la provenienza del patrimonio”. Nel corso della sua arringa difensiva, Genchi aveva aggiunto: “Di Vincenzo pagava il pizzo, ha subito estorsioni. Sicuramente ha dovuto piegarsi ai compromessi e agli accordi che regolano il mondo dell’imprenditoria. Ha pure pagato il pizzo, ma se è stato sottoposto a estorsioni come si può affermare che era vicino alla mafia? Vi risulta che la mafia faccia pagare il pizzo a chi considera amico?”

I beni di Di Vincenzo, posti sotto sequestro, ammontano a 280 milioni e vengono affidati, nel 2009 ad Elio Collovà il quale ha un colpo di genio, sapendo di potere contare sull’assenso delle procure di Palermo e Caltanissetta che gli hanno dato le amministrazioni Zummo e Di Vincenzo. Crea una nuova azienda, la AG Sinergie, con capitale di 6,4 milioni, nella quale confluiscono i beni di quattro aziende del gruppo Zummo, compra con questi capitali dalla Palmintelli di Caltanissetta, del gruppo Di Vincenzo, un’area di 5.400 m.q. al centro di Caltanissetta, con rispettiva concessione edilizia rilasciata, ottiene da Banca Nuova un prestito di 9 milioni e affida i lavori alla Di Vincenzo spa. Collovà afferma, in un’intervista, che si tratta di un’operazione di 24 milioni di euro. C’è lavoro per una parte dei 500 operai della Di Vincenzo, per la costruzione di quello che ampollosamente viene definito il palazzo della legalità e tutti, giornalisti, politici, magistrati, imprenditori, si mettono a decantare questa operazione “geniale ed unica nel suo genere in tutta Italia”, cioè “l’antimafia che diventa imprenditrice“, i risvolti positivi che ricadono sull’occupazione, sull’economia e persino sull’assetto urbanistico, per una così intelligente operazione di sinergia tra due imprese confiscate. Ma proprio sulle cifra c’è qualcosa che rimette in discussione tutto il “sano e intelligente” operato di Collovà, a partire dalla vendita “a se stesso”, in quanto amministratore sia del gruppo che vende che del gruppo che acquista: la valutazione del terreno della Palmintelli è stimata in 6 milioni 400 mila euro, ma in realtà, chi ha seguito il servizio de Le Iene del 2 aprile si è reso conto che, secondo gli intermediari intervistati, quell’area valeva meno della metà. All’atto della costruzione sono state rilevate alcune situazioni abnormi alle quali nè postiglione, prefetto Nazionale dell’Agenzia Beni Sequestrati e Confiscati, nè lo stesso Collovà, che si è prestato all’intervista, hanno saputo rispondere. Primo fra tutti il doppio incarico di Collovà e quindi la doppia retribuzione di amministratore giudiziario e di presidente del consiglio di amministrazione della AG Sinergie. Il solo Collovà, nei sette anni di amministrazione giudiziaria avrebbe incassato 2 milioni di euro, ma la totalità dei compensi si aggira sui 10 milioni e comprende retribuzioni per incarichi dati a parenti, allo stesso figlio e all’architetto Teresi, fratello del noto magistrato, per i cui servigi sarebbe stata liquidata una parcella di 697 mila euro. Siamo al solito nodo della “famiglia”, di cui in Italia non si può fare a meno e per la quale tutto si può fare. Intanto gli appartamenti sono stati messi in vendita al doppio del prezzo di mercato e nessuno li acquista, mentre i circa 500 operai che ruotavano intorno alle imprese di DI Vincenzo sono in mobilitazione o disoccupati. Nel 2009, all’atto del sequestro la famiglia Passere aveva stipulato un contratto d’acquisto, sperando di prendere possesso della sua proprietà e scoprendo poi, che, in nome della legalità di cui si era fidata, il loro appartamento era occupato da un funzionario della DIA. Alla fine si è arrivato al solito assurdo giudiziario: assoluzione penale, sia per Zummo che per Di Vincenzi, e conferma della confisca preventiva dei beni.

NOTA: La presenza del fratello del procuratore Teresi in questa vicenda ha lasciato l’amaro in bocca al direttore di Telejato, Pino Maniaci che da anni si occupa di beni sequestrati e confiscati: “Teresi ha affermato, alla conferenza stampa in cui annunciava la mia incriminazione, di non avere bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci. Avremmo preferito che non avesse bisogno neanche dell’antimafia di tutti coloro che dell’antimafia hanno fatto una fonte d’introiti di gran lunga superiori al valore delle prestazioni effettuate e che li mandasse sotto inchiesta per truffa, false attestazioni e altro. Purtroppo diventano elementi processuali i 50 euro chiesti al sindaco di Partinico e non il milione e centomila euro liquidato a Cappellano Seminara per le prestazioni a Villa Teresa, e non quello delle parcelle liquidate da Cappellano a Lorenzo Caramma, marito della Saguto, che sommate approssimativamente per difetto si aggirano sui 170 mila euro. Per non parlare delle parcelle di tutti i quotini i petali della margherita Saguto, dello stesso Collovà e dell’architetto Teresi. Se proprio dobbiamo dirla in siciliano, non è vero che la legge è uguale per tutti: c’è cu a pigghia nt’o culu e c’è cu futti”.

LE TRATTATIVE DEGLI ANTIMAFIOSI.

La farsa di Palermo, scrive Piero Sansonetti il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La grande stampa nazionale ha deciso di risolvere il problema tacendo, o scrivendo solo qualche riga. Un po’ per pudore, un po’ probabilmente per imbarazzo. Come si fa a riferire delle fantasiosissime requisitorie che in questi giorni vengono pronunciate al processo di Palermo – quello sulla trattativa stato mafia – senza riderne un po’ o senza chiedersi come sia possibile che nella solennità di un aula di tribunale vengano lanciate accuse folli, e senza il briciolo di un briciolo di un briciolo di prova, verso personaggi che hanno avuto una grande rilievo nella storia recente dell’Italia? Non sembra più neanche un processo, sembra la ribalta di uno spettacolo trash, dove tutti tirano palle di fango. Perciò la maggior parte dei direttori ha deciso di glissare. Perché le possibilità sono solo due: o fai finta di niente, vista la assoluta inattendibilità delle cose che vengono dette; oppure t’indigni e chiedi che qualcuno intervenga. Purtroppo, a occhio e croce, nessuno è in grado di intervenire. E così ieri abbiamo sentito un Pm dire che Riina è stato venduto da Provenzano agli inquirenti. In particolare al generale Mori e probabilmente al capitano Ultimo, che lo catturò. Il Pm ha detto che la cattura di Riina è stata una vergogna per l’Italia. E ha finito per mettere sul banco degli imputati i giudici, che hanno già ampiamente assolto Mori da questa accusa, e anche l’ex procuratore di Palermo Caselli, che ancora recentemente ha sostenuto che la cattura di Riina è stata la salvezza per il paese. Poi i Pm hanno indicato l’ex presidente della Repubblica Scalfaro come responsabile, a occhio e croce, del reato di alto tradimento. E con lui il ministro Conso, il ministro Mancino e qualcun altro. Indizi? Prove? No: «Fidatevi di noi». Davvero non c’è nessuna possibilità che qualche autorità intervenga, interrompa questo scempio della storia e del diritto, e disponga, se serve, anche un po’ di aiuto psicologico per i Pm?

Il processo Stato-mafia finisce in farsa, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il pm Di Matteo chiede sei anni di galera per Mancino, 12 per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e zero per il boss Brusca. Se volete leggere questo articolo dovete mettervi nello stato d’animo di chi non si stupisce di niente. Altrimenti lasciate stare. I Pm del processo di Palermo (il famoso processo sulla presunta trattativa Statomafia) hanno chiesto una novantina d’anni di galera per alcuni degli imputati. Tra i quali un paio di mafiosi e una decina tra esponenti della politica e dell’arma dei carabinieri. Cinque anni li hanno chiesti per il giovane Ciancimino, Massimo, figlio di Vito (ex famigerato sindaco di Palermo), accusato di calunnia contro gli altri imputati. La sua testimonianza, giudicata calunniosa, è in realtà l’unico puntello alle tesi dell’accusa (ma questa cosa naturalmente fa un po’ sorridere, o sobbalzare, l’osservatore poco informato – non è l’unico non sense prodotto dal processo). Poi hanno chiesto 15 anni per il generale Mori, 12 per Marcello Dell’Utri e 6 per l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Non hanno potuto chiedere anni di galera per l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, perché nel frattempo è morto, ma nelle loro requisitorie lo hanno più volte indicato come il capintesta di tutta la congiura. Naturalmente è molto complicato qui dirvi di quale congiura si tratti. Perché i Pm ne hanno delineate almeno un paio e tra loro in netta contraddizione. Basta dire che al vertice del gruppo criminale, secondo le requisitorie, ci sarebbero stati lo stesso Scalfaro e Berlusconi. Capite? Scalfaro e Berlusconi, cioè i due personaggi più lontani tra loro di tutto lo scenario politico degli anni novanta. Del resto i Pm hanno mostrato una conoscenza molto superficiale di quello scenario politico, e dunque non c’è molto da stupirsi che possano confondere la sinistra Dc con Forza Italia e cose del genere. Tuttavia l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non sta neanche nelle richieste cervellotiche, o nell’osservazione che non c’è uno straccio di prova a carico degli imputati, e neppure nel fatto che si chiedano pene per delitti che altri processi (a Mori stesso, all’on Calogero Mannino e ad altri) hanno già accertato non esistere. L’aspetto più preoccupante è l’impostazione dell’accusa. Leggete qui con quali parole il Pm Di Matteo (che ora è diventato uno dei procuratori nazionali antimafia) ha spiegato il senso del processo: «Questo è un processo che punta a scoprire livelli più alti e causali più complesse. Legati non a un fatto criminoso ma a una strategia più ampia».

Che vuol dire? Vuol dire che i Pm di Palermo (o quantomeno Di Matteo, non sappiamo se gli altri si dissociano da questa idea) ritiene che il suo compito non sia quello di perseguire i reati ma di stabilire, con la sua autorità, la verità storica, e poi di sanzionare questa verità con delle esemplari punizioni. In questo modo Di Matteo aggira l’ostacolo principale di questo processo, e cioè il fatto che non c’è uno straccio di prova dei reati contestati agli imputati. Dice Di Matteo, in sostanza: «E che io devo stare lì col misurino a vedere se c’è qualche reato? Io sto più in alto: a me interessano le grandi strategie». Per dirla con parole ancora più semplici, il Pm dichiara in modo esplicito che quello di Palermo non è un processo penale ma un processo politico. Veniamo al merito della vicenda. Dunque, questo è un processo che è stato avviato dieci anni fa, il dibattimento va avanti da cinque anni, si riferisce ad avvenimenti di 26 anni fa, nessuno è in grado di stabilire quanto sia costato ai contribuenti. La tesi dell’accusa è che quando la mafia, all’inizio degli anni novanta, alzò il tiro sullo Stato, compiendo stragi, uccidendo magistrati, leader politici e comuni cittadini, ci fu un pezzo dello Stato (pezzo di governo, pezzo dei carabinieri e pezzo dei servizi segreti) che si adoperò per cercare di frenare queste stragi, ed evitare nuovi morti, trattando con i vertici mafiosi. Scambiò la fine delle stragi con alcuni benefici carcerari, compresa l’abolizione del 41 bis. Il punto però è che non esiste nessun indizio che questa trattativa ci fu. Anche perché nei processi paralleli a questo di Di Matteo e degli altri Pm palermitani, sono piovute assoluzioni. Il generale Mori, ad esempio, è stato già dichiarato innocente. E così Calogero Mannino, ex ministro, che fin qui è l’unico rappresentante del governo che è stato accusato di aver trattato.

Ora uno si chiede: ma se noi sappiamo che non trattò il governo, non trattarono i servizi segreti, non trattarono i carabinieri, ma che diavolo di trattativa fu? E poi sappiamo anche che nessuno dei benefici indicati dagli accusatori fu concesso. Mancano i protagonisti del reato e manca il bottino. Voi capite che sembra una commedia surreale. Ma è più surreale ancora perché assieme all’accusa verso lo Stato (e fondamentalmente verso la sinistra Dc) di avere trattato con la mafia, c’è anche l’accusa a Dell’Utri (e quindi a Berlusconi) di avere fatto la stessa cosa, ma, sembrerebbe, con un intento opposto. Perché l’accusa immagina i berlusconiani che trattano con la mafia per destabilizzare la Dc, la quale intanto tratta con la mafia per stabilizzare. C’è da diventare pazzi. Sembra una farsa. Una farsa, però, fino a un certo punto. Oltre il quale diventa davvero un dramma. E un po’ indigna. Indigna per esempio il modo nel quale è stato trattato l’ex presidente del Senato. Nessuno al mondo riesce a capire di cosa sia accusato Nicola Mancino, 86 anni, prestigiosissimo leader democristiano, più volte ministro, ex presidente del Senato. Dicono che non si ricordi di un incontro che forse ha avuto con il magistrato Borsellino, prima che Borsellino fosse ucciso dalla mafia, e che non si ricordi nemmeno di una telefonata di Claudio Martelli, che l’avrebbe messo in guardia su alcuni comportamenti dei Ros che non lo convincevano. Embé?

Si tratta di cose avvenute un quarto di secolo fa. E nessuno sa se l’incontro e la telefonata ci furono oppure no. E comunque, anche se ci furono, furono episodi normalissimi che non c’è nessun bisogno di nascondere. Eppure i magistrati chiedono che Mancino trascorra sei anni in carcere. Qui c’è poco da scherzare. C’è da avere seriamente paura. Qualche Pm una mattina si sveglia e ha il potere, sulla base di nulla, di riempire di fango un padre della democrazia italiana, e di chiedere, con arroganza, che sia sbattuto in carcere. E per di più questo Pm confessa bellamente che lui non cerca reati, ma “strategie più complessive”. Siamo sicuri che non esistano le condizioni per intervenire, da parte delle istituzioni? Sicuri che sia giusto che un magistrato rivendichi che la sua funzione non è quella di accertare i reati ma quella di processare la politica seguendo sue idee e teorie? Diceva Piero Calamandrei: «Non spetta alle toghe giudicare la storia di un paese». Già, Calamandrei. Chissà se i Pm di Palermo conoscono il nome di Calamandrei. Certo che se Calamandrei avesse conosciuto i Pm di Palermo, sarebbe inorridito…

Trattativa Stato-mafia, i pm: "Provenzano vendette Riina ai carabinieri". A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è Vittorio Teresi, scrive il 19 gennaio 2018 "La Repubblica". "L'arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e de Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell'azione dello Stato contro Cosa nostra". La cattura del boss corleonese Totò Riina come snodo della seconda fase della trattativa tra parte delle istituzioni e la mafia è al centro dell'udienza odierna del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, dedicata alla prosecuzione della requisitoria dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è il pm Teresi certo, secondo quanto prospetta l'ipotesi accusatoria, che Riina venne "consegnato" ai carabinieri dall'ala di Cosa nostra vicina a Bernardo Provenzano. Riina, con cui i militari del Ros imputati al processo avevano intavolato un dialogo finalizzato a far cessare le stragi, era ritenuto un "interlocutore" troppo intransigente. Perciò gli si sarebbe preferito Provenzano, fautore della linea della sommersione, e lontano dall'idea del "papello", l'ultimatum che Riina avrebbe presentato allo Stato tramite i carabinieri. Provenzano dunque, dopo le stragi del '92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura del compaesano con la complicità del Ros pretendendo, tra l'altro, che il covo del capomafia "venduto" non fosse perquisito. "Era chiaro che tutto questo doveva essere tenuto segreto - ha spiegato Teresi - E dopo la cattura di Riina e l'uscita di scena anche di Ciancimino le linee dell'accordo sono chiare e si passa ai fatti". "Così come per i carabinieri è fondamentale mantenere il segreto sulla cattura di Riina - ha aggiunto il magistrato - altrettanto è importante, per la mafia, che nulla trapeli sul fatto". La Procura descrive uno Stato diviso in due: da una parte pezzi delle istituzioni pronti a trattare dopo gli attentati a Falcone e Borsellino per "paura e incompetenza", dall'altra un "manipolo" di uomini come l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e l'ex capo del Dap Nicolò Amato, convinti che si dovesse mantenere la linea dura contro Cosa nostra. I timori e l'incapacità di far fronte all'emergenza dunque avrebbero portato alcuni rappresentanti delle istituzioni a piegarsi al ricatto nell'illusione che alcuni cedimenti, come ad esempio, una attenuazione all'odiato 41 bis, potesse far cessare le bombe mafiose. "Non si comprese, ha detto il pm, che la mafia avrebbe letto tutto questo come il segno che si poteva rilanciare come avvenne con gli attentati nel Continente e trattare ancora per ricevere altri benefici". Teresi ha ricostruito tutta la parte dell'impianto accusatorio relativa alle concessioni fatte dallo Stato a Cosa nostra, nel 1993, sulla politica carceraria: dalla sostituzione dei vertici del Dap, come Amato, ritenuto troppo duro e allontanato senza preavviso dal suo incarico, alla revoca del 41 bis nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano a febbraio del 1993, alla nomina al ministero della Giustizia di Giovanni Conso che prese il posto di Claudio Martelli, il politico che, dopo le stragi del '92, aveva istituito il regime carcerario duro per i mafiosi. E ha fatto nomi e cognomi di chi "per paura o incompetenza" avrebbe avallato la politica della distensione: l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l'ex Guardasigilli Giovanni Conso, Aldalberto Capriotti, subentrato ad Amato al Dap e il suo vice Francesco Di Maggio. Sullo sfondo, nella ipotesi dell'accusa, restano entità non precisate che avrebbero consigliato a Cosa nostra la strategia da seguire. "Centri occulti che hanno suggerito alla mafia cosa fare per indurre lo Stato a cedere. Ci fu un'intelligenza esterna che ha orientato i comportamenti di Cosa nostra e si è fatta comprimario occulto dell'azione mafiosa riuscendo ad agire indisturbata perché poteva confidare nella linea della distensione scelta da pezzi delle istituzioni". "Se avesse prevalso la durezza - ha aggiunto il magistrato - nessuno spazio ci sarebbe stato per un dialogo che ha invece rafforzato la mafia e la sua azione terroristica. Se avesse prevalso la durezza, i consiglieri dei mafiosi sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia, ma nel clima di compromesso che ci fu, tutto si è confuso".

Trattativa Stato-mafia: condannati Mori, Dell'Utri e Ciancimino. Assolto Mancino. Dopo la morte del capomafia Totò Riina, erano 9 gli imputati: condannati gli ex vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri, i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, scrive Felice Cavallaro il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Per dire che il processo sulla «trattativa Stato-mafia» era sbagliato, definendo un errore il riferimento al reato di «minaccia a corpo politico dello Stato», erano scesi in campo giuristi di gran fama, a cominciare dal professore Giovanni Fiandaca, il cattedratico di Palermo con il quale studiò e si laureò l’ex pm Antonio Ingroia. E invece la corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, confermando la tesi dell’accusa, ha condannato a pene severissime sia Marcello Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia indicato come gran manovratore della presunta trattativa nel ’94 con il governo Berlusconi, sia i vertici del Ros, gli ufficiali dei carabinieri ritenuti responsabili di sotterranee intese a cavallo delle grandi stragi sfociate nei massacri di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle loro scorte.

Dell’Utri gran manovratore. Una pagina di storia che grazia l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, assolto dal sospetto di una falsa testimonianza, e si rovescia invece su boss e apparati investigativi. Scomparsi Totò Riina e Bernardo Provenzano, scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca, la responsabilità della trama e della stagione di sangue viene attribuita con una pena di 28 anni di carcere soprattutto al cognato di Riina, lo stragista Leolucua Bagarella già in cella, e al boss Antonino Cinà, 12 anni. Ma ad alimentare polemiche sul piano giudiziario e politico è il verdetto che si abbatte sui destini degli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, condannati a 12 anni di reclusione come Dell’Utri, ritenuto il trait d’union fra politica, mafia e apparati, già in cella per un altro processo. Durissima la Corte anche con l’ex colonnello Giuseppe De Donno, otto anni. Stessa pena attribuita a Massimo Ciancimino, il superteste del processo, il rampollo dell’ex sindaco mafioso che con le sue rivelazioni consentì alla Procura di riaprire le indagini, a sua volta accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino jr. può però tirare un sospiro di sollievo perché assolto dall’accusa di associazione mafiosa.

Lo sconforto dei carabinieri. Bisognerà leggere le motivazioni di questa sentenza che arriva dopo 5 anni e sei mesi di processo, ma alla evidente euforia dei magistrati, a cominciare da quella di Nino Di Matteo che rilevò la sostanziale guida del dibattimento dopo la corsa di Ingroia verso la politica, corrisponde la delusione di Mori, De Donno e Subranni. A cominciare da quest’ultimo, anziano e malato: «Andremo avanti, in appello, per contestare una sentenza ingiusta. Le responsabilità che ci attribuiscono non sono state affatto commesse. Ma non posso dire niente, senza leggere le motivazioni...». Dello stesso tono l’amarezza del generale Mori confidata al legale dei tre ufficiali, Basilio Milio, che a sua volta parla di «grande sconforto e sbigottimento», certo però che «la verità è dalla nostra parte». E ai suoi assistiti concede un barlume di fiducia: «Possiamo sperare che finalmente, dopo 5 anni, in appello vi sarà un giudizio. Perché questo è stato un pregiudizio caratterizzato dall’adesione alle istanze della Procura e quasi mai della difesa. Una sentenza dura che non sta né in cielo né in terra perché questi fatti sono stati già smentiti da quattro sentenze definitive».

I supporter di Nino di Matteo. Di opposto parere i cinquanta supporter dei pm raccolti davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli dalle associazioni Agende rosse e Scorta civica, fra grandi applausi per i pm Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi e Nino Di Matteo. Con quest’ultimo incisivo e solenne: «Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. Qualcuno dello Stato ha trattato con Riina e Bagarella e altri stragisti, trasmettendo le richieste, i messaggi di Cosa nostra ai governi. Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico. Le minacce subite attraverso Dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell’Utri aveva veicolato tutto. Ecco perché è una sentenza storica». Una ragione in più perché il meno giovane dei pm, Teresi, affondi con un commento lapidario: «Questo processo e questa sentenza sono dedicati a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia».

Fiandaca e l’accusa sbagliata. La sentenza spiazza uno dei maestri dei pm palermitani, appunto il professore Fiandaca: «Mi aspettavo un esito assolutorio per la difficoltà tecnica di configurare il reato di ‘minaccia a corpo politico dello Stato’, il reato previsto dall’articolo 338 del codice penale. La sua applicazione agli occhi di un giurista di professione -e non sono soltanto io a pensarlo- è sbagliata sotto il profilo di una interpretazione sistematica...». Ed ancora: «La questione è abbastanza tecnica e probabilmente una corte di assise in cui sono presenti i giudici popolari, di solito non molto esperti di diritto, non è la sede più adatta per approfondire questioni di questo tipo... Ma comprendo che il problema era la rilevanza penale della trattativa. E la linea della procura ha vinto, pur persistendo le mie riserve di giurista, convinto che la materia offrirà spunti di riflessione in appello e in Cassazione».

Graziano Nicola Mancino. Come dire che, a un quarto di secolo dai fatti e dopo cinque anni di processo, ci vorrà ancora tempo per un definitivo accertamento della verità giudiziaria. Non per l’unico assolto, Nicola Mancino, coinvolto anche per le sospette telefonate al Quirinale durante la presidenza di Giorgio Napolitano. Rilassato, ma segnato dalle accuse l’ex presidente del Senato: «Relegato per anni in un angolo, posso ora dire di non aver atteso invano. Ma che sofferenza...». Poi una riflessione più generale su questi anni: «Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. La lettura del dispositivo che esclude la mia responsabilità nel processo sulla cosiddetta trattativa ne è una solenne conferma. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo, che tale è stato ed è tuttora...».

Sistemi criminali. Caso Mancino a parte, lo Stato non ne esce bene ed è come se riprendesse forma la vecchia inchiesta sui “sistemi criminali” avviata tanti anni fa dall’allora pm Roberto Scarpinato. Un’inchiesta che teorizzava un presunto golpe che avrebbe visto protagonisti negli anni Novanta, in un tentativo di destabilizzazione del Paese, Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera. Indagine poi archiviata, ma fu allora che si ipotizzò per la prima volta il reato oggi convalidato da una sentenza di primo grado: la violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.

Di Maio ringrazia. Immediati i riflessi politici di una sentenza non a caso commentata con un twitter dal capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, da sempre in contatto con Di Matteo: «La trattativa Stato-mafia c’è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità». Passeranno almeno un paio di mesi per le motivazioni di una sentenza che condanna gli imputati anche al risarcimento in solido dei danni in favore della parte civile della Presidenza del consiglio dei ministri liquidati in 10 milioni di euro. Pagano tutti. Tranne chi ha ha premuto il pulsante della strage di Capaci, Giovanni Brusca, lo stesso che sciolse il piccolo Giuseppe di Matteo nell’acido, ormai pentito. Un quadro complessivo che lascia zone d’ombra, oltre la verità giudiziaria. 

Trattativa Stato-mafia: gli attentati, gli ufficiali, il presunto accordo con i boss. Ecco cos’è, dall’omicidio Lima a Ciancimino. La mafia avrebbe alzato il tiro contro le istituzioni dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso, lo Stato, per fermare l’ondata di sangue avrebbe intavolato un dialogo segreto con i boss. Le fonti di prova (e i punti deboli) del teorema, scrive Claudio Del Frate il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera".

Personaggi e interpreti. Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha fatto «ballare» politica e giustizia in Italia per una ventina d’anni. L’accusa si è mossa sulla base di un «teorema» in base al quale di fronte all’offensiva di Cosa Nostra che insanguinò l’Italia a partire dagli anni ‘90, lo Stato avrebbe risposto cercando un accordo con i capi della mafia. Sul banco degli imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo si sono trovati rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) , Marcello Dell’Utri e i capimafia Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. All’inizio delle udienze nel processo erano accusati anche Totò Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti. Stralciata la posizione degli ex ministri Calogero Mannino (nel frattempo assolto) e Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza).

La rottura: l’omicidio Lima. Il fatto da cui sarebbe scaturita la trattativa viene fissato dai pm di Palermo nell’omicidio dell’europarlamentare Dc Salvo Lima (marzo 1992): ritenuto contiguo ai clan, Lima agli occhi dei boss sarebbe stato ucciso in quanto non più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni. La frattura avviene in particolare dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo. Rotti questi equilibri, la mafia si sarebbe vendicata alzando il tiro contro lo Stato. Tale strategia sarebbe passata attraverso gli omicidi «eccellenti» di Falcone e Borsellino, gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma, tutti attribuiti a Totò Riina e ai suoi complici.

Mannino diede il via alla trattativa? Sempre nel quadro «disegnato» dall’accusa, il primo passo dello Stato verso la mafia viene compiuto da Calogero Mannino: divenuto bersaglio di minacce l’indomani dell’omicidio Lima (gli viene recapitata una corona funebre), l’esponente Dc contatta i vertici dei carabinieri e questi ultimi avrebbero a loro volta avvicinato l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Da qui si sarebbe dipanata la trattativa i cui «segnali» sarebbero stati la revoca del carcere duro per oltre 300 condannati per mafia nel ‘93, la cattura di Riina («venduto ai carabinieri» in cambio della latitanza per Provenzano), l’omicidio Borsellino (ucciso perché contrario alla trattativa) e presunti incontri tra capimafia (ad esempio i fratelli Graviano) ed esponenti della politica. E più avanti un abboccamento per far convergere i voti di Cosa Nostra su Forza Italia attraverso Cinà e Dell’Utri.

Il «papello» mai trovato. Cuore della trattativa sarebbe però il cosiddetto «papello»: un documento fatto recapitare da Riina agli esponenti delle istituzioni (attraverso i carabinieri) con una serie di richieste. Tra esse ci sarebbero state l’abolizione del carcere duro per i mafiosi e del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. In cambio di quelle richiesta veniva promessa una «pax» mafiosa e la cessazione degli attentati. Quel pezzo di carta, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Anzi: una copia messa a disposizione degli inquirenti da parte di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, si è rivelato una «patacca». Costata l’incriminazione allo stesso Ciancimino junior.

Le fonti di prova? I pentiti. Le fonti di prova per questa trama portate dalla procura all’attenzione della Corte sono state essenzialmente le deposizioni dei pentiti. Giovani Brusca in primis, ma anche Salvatore Cancemi, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza. Tutti (ma solo loro) avvalorano il fatto che l’indomani del delitto Lima e degli attentati venne avviato il dialogo tra i carabinieri e i capimafia. Anche alcune sentenze avvalorano l’ipotesi che sia esistito un patteggiamento tra Stato e malavita organizzata ma sempre sulla scorta dei collaboratori di giustizia. Vengono ritenute inoltre rilevanti le intercettazioni in carcere dei colloqui di Totò Riina con un compagno di cella. In particolare una frase («Sono loro che si sono fatti sotto...») che alluderebbe secondo i pm a una volontà dello Stato di avvicinare i capi della mafia per intavolare la trattativa.

I punti deboli dell’accusa. L’impianto dell’accusa, tuttavia, ha subito alcuni colpi che ne hanno messo in dubbio la solidità. Questi colpi sono arrivati in particolare da sentenze «esterne» al processo Stato-mafia ma ad esso connesse. Ad esempio, Calogero Mannino è già stato assolto in primo grado da tutte le accuse: dunque nel suo comportamento non è stato ravvisato alcun «avvicinamento» con le cosche. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: questa avrebbe dovuto essere una delle «monete di scambio» tra la mafia e le istituzioni. E infine era già crollata la credibilità di Massimo Ciancimino, le cui presunte rivelazioni (ad esempio sulla partecipazione di un fantomatico «signor Franco» dei servizi segreti alla partecipazione delle stragi mafiose) sono rumorosamente crollate a dispetto della loro eco mediatica.

Trattativa Stato-mafia, condannati Mori, De Donno, Dell'Utri e Bagarella. Assolto Mancino. La sentenza della corte d’assise di Palermo dopo 5 anni di processo. I giudici accolgono la ricostruzione della procura sulla stagione del 1992-1993. Mancino: "Ho avuto sempre fiducia che a Palermo ci fosse un giudice". Di Matteo: "Sentenza storica". Maxi risarcimento per la presidenza del consiglio: dieci milioni di euro, scrive Salvo Palazzolo il 20 aprile 2018 su "La Repubblica". Condannati gli uomini delle istituzioni e i mafiosi per la trattativa Stato-mafia. Dodici anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, dodici anni per l'ex senatore Marcello Dell'Utri, 8 anni per l'ex colonnello Giuseppe De Donno. Ventotto anni per il boss Leoluca Bagarella. Assolto l'ex ministro Nicola Mancino, perché il fatto non sussiste. Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, è stato invece assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E' scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca. Dopo 5 anni e 6 mesi di processo, 5 giorni di camera di consiglio, ecco il verdetto della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille) nel processo chiamato a indagare sulla terribile stagione del 1992-1993, insanguinata dalle stragi Falcone e Borsellino e poi dagli attentati di Roma, Milano e Firenze. All’ex ministro Mancino era stata contestata la falsa testimonianza; agli altri uomini delle istituzioni, il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, minaccia lanciata dai mafiosi con le bombe. La condanna attribuisce la responsabilità agli ufficiali del Ros per il periodo 1992-1993; a Dell'Utri, per il "periodo del governo Berlusconi". Ovvero, il 1994. I giudici hanno anche stabilito un maxi risarcimento dei danni nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri: 10 milioni di euro. Secondo i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, in quei mesi uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra: la finalità dichiarata era quella di bloccare il ricatto delle bombe, ma per l’accusa gli ufficiali dei carabinieri avrebbero finito per veicolare il ricatto lanciato dai mafiosi, trasformandosi in ambasciatori dei boss. Era questo il cuore dell’atto d’accusa dei magistrati, che nella requisitoria avevano chiesto pesanti condanne. Le motivazioni della sentenza arriveranno fra novanta giorni.

Esulta Mancino, che aveva scelto di aspettare a casa la lettura della sentenza: "Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo, che tale è stato ed è tuttora. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benchè il mio capo di imputazione, che oggi è caduto, fosse di falsa testimonianza". In aula, il pm Nino Di Matteo parla invece di una "sentenza storica". Dice: "Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel '92 e nel '93 qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione". "Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico - dice ancora Di Matteo - le minacce subite attraverso dell'Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell'Utri ha veicolato tutto. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il '92".

LA PRIMA TRATTATIVA. Secondo l'accusa, nel 1992, "i carabinieri del Ros avevano avviato una prima trattativa con l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ‘papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi". Circostanza negata dai carabinieri imputati. Mori ha negato anche di avere incontrato l'ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino, i primi contatti sarebbero stati tenuti da De Donno. La procura riteneva diversamente. E la corte ha accolto la ricostruzione della procura. Durante l'inchiesta "Trattativa" è emerso che un mese dopo la morte di Falcone, l'allora capitano De Donno chiese una "copertura politica" per l'operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l'ex sindaco) al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, che però rimandò l'ufficiale ai magistrati di Palermo. Il 28 giugno, la Ferraro parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: "Ci penso io". E da quel momento, il mistero è fitto. Cosa sapeva per davvero Borsellino? A due colleghi disse in lacrime (un'altra circostanza emersa nell'inchiesta di Palermo): "Un amico mi ha tradito". Chi è "l'amico" che tradì? Resta il giallo.

L'ACCUSA A MANCINO. Sono state le parole dell'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l'ex ministro dell'Interno Mancino. "Mi lamentai con lui del comportamento del Ros", ha messo a verbale l'ex ministro della Giustizia davanti ai giudici di Palermo. "Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino". Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. Lo ha ribadito poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio. E la Corte ha creduto alla sua versione.

LA SECONDA TRATTATIVA. Secondo l’accusa, dopo l'arresto di Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, i boss avrebbero avviato una seconda Trattativa, con altri referenti, Bernardo Provenzano e Marcello Dell'Utri. Mentre le bombe mafiose esplodevano fra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici. "Dell'Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso", hanno accusato i pubblici ministeri. "Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell'Utri e recapitato a Berlusconi". E ancora:

"Nel 1994, Dell'Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l'organizzazione". All’esito di questa seconda trattativa, sosteneva l’accusa, sarebbe stato attenuato il regime del carcere duro.

Trattativa Stato-Mafia: tutti condannati tranne Nicola Mancino. Lo scambio di favori ci fu. Così la corte d'assise palermitana ha espresso condanne da 12 a 28 anni di reclusione per Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Marcello Dell'Utri, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino, scrive Maurizio Tortorella il 20 aprile 2018 su "Panorama". Ci fu veramente la “Trattativa” tra Stato e Cosa nostra? Dopo cinque anni di processo, arriva una risposta, per quanto provvisoria. E la risposta è sì, almeno secondo i giudici della seconda sezione della Corte d’assise di Palermo. Quei giudici, riuniti in camera di consiglio da lunedì 16 aprile, hanno pronunciato il verdetto di primo grado nell’aula-bunker del carcere Pagliarelli, nella periferia a sud-ovest della città: la stessa aula sorda e beige dove per oltre cinque anni, inanellando 212 udienze e intrecciando migliaia di ore nell’ascolto di oltre 200 testimoni (tra i quali, nell’ottobre 2014, l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), si è celebrato uno dei procedimenti penali più difficili, complicati e controversi nella storia d’Italia. Sempre per la prima volta nella storia, del resto, con l’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” la Procura di Palermo ha messo insieme sul banco degli imputati capi mafiosi, alti ufficiali delle forze dell’ordine e uomini delle istituzioni. Attraverso di loro, la Procura ha voluto a tutti i costi processare il “patto illecito” che sarebbe stato ordito nel 1992-93 da pezzi delle istituzioni con i vertici di Cosa nostra, uniti in un inconfessabile scambio: l’organizzazione criminale avrebbe dovuto interrompere la stagione delle stragi (Capaci, Palermo, Firenze, Milano…) in cambio di un allentamento del regime carcerario duro riservato ai boss mafiosi. La Corte d’assise palermitana, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso oggi che quell’accusa avesse un fondamento e per questo ha condannato sette imputati su otto. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che era stato accusato di falsa testimonianza. Per il reato di minaccia e violenza a un corpo politico dello Stato, invece, la Corte ha inflitto 28 anni di reclusione al boss Leoluca Bagarella; 12 anni ad Antonino Cinà, il medico del boss Totò Riina; 12 anni all'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Sono dure anche le condanne inflitte all’ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri Antonio Subranni (12 anni), al suo vice del tempo Mario Mori (12 anni) e all’allora capitano Giuseppe De Donno (otto anni). Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, è stato condannato infine a otto anni di reclusione per calunnia. 

Gli inizi. Tutto era cominciato nel 2008-2009. L’inchiesta sulla “Trattativa” era nata allora, con il diverso nome in codice “Sistemi criminali”, per iniziativa del pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica con fortuna inversamente proporzionale all’intensità degli ideali). A dare il via all’inchiesta di Ingroia era stato proprio uno degli imputati del processo sulla “Trattativa”: Massimo Ciancimino, sedicente depositario delle “verità” che negli ultimi 30 anni si sarebbero accumulate nei rapporti tra mafia, politica e servizi segreti. Ciancimino jr aveva rivelato anche l’esistenza di un documento scritto, il cosiddetto “papello” vergato da suo padre, contenente i termini dell’accordo. Di quel documento, contestato dai periti delle difese, non è però mai stata fornita una versione originale ma soltanto fotocopie. Teste controverso e più volte screditato, Massimo Ciancimino è poi paradossalmente entrato nel processo sulla “Trattativa” cui lui stesso ha contribuito perché accusato di avere calunniato l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Per lo stesso reato di calunnia, peraltro, Ciancimino è già stato condannato (in primo grado) per ben tre volte a Palermo, Bologna e Caltanissetta. E attualmente è in carcere perché condannato per concorso in associazione mafiosa, per riciclaggio di denaro e per detenzione d’esplosivo. Contro le tesi di Ingroia e dei suoi successori, per tutti questi anni gli avvocati degli imputati e i critici dell’inchiesta sulla “Trattativa” hanno sempre sottolineato il carattere ideologico-politico dell’inchiesta, e criticato l’inconsistenza e l’inverosimiglianza delle accuse. Alcuni grandi giuristi e tecnici del diritto penale, come Giovanni Fiandaca, ne hanno addirittura contestato le stesse fondamenta giuridiche, sostenendo che la politica aveva e ha il pieno diritto costituzionale d’intervenire in ogni materia, anche per cercare di fermare le stragi di mafia.

Le richieste. Lo scorso 26 gennaio i quattro pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia avevano concluso le loro requisitorie presentando alla Corte queste richieste di pena per gli otto imputati: 12 anni per i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e altrettanti per Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). I pm avevano chiesto sei anni per l’ex ministro Nicola Mancino e avevano stabilito invece il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, e la Corte d’assise ne ha convenuto. Per Antonio Subranni e per l’allora capitano Giuseppe De Donno la Procura aveva chiesto 12 anni, mentre ne aveva domandati 15 per Mario Mori. Per la calunnia attribuita a Massimo Ciancimino, infine, la Procura aveva chiesto 5 anni. Il procuratore aggiunto Teresi aveva concluso così la requisitoria: “Noi siamo convinti che tutte le tessere che abbiamo ricostruito e abbiamo offerto, dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta, si incastrino in un quadro d’insieme che ha a che fare con i reati contestati. Un quadro nel quale qualche tessera è sporca del sangue delle vittime di quelle stragi. Possiamo dire che la strage di Capaci è una strage consumata per vendetta e per fermare quella grande evoluzione normativa che Giovanni Falcone aveva impresso dal ministero della Giustizia...”. Nel processo, il cui svolgimento in aula era cominciato il 7 marzo 2013, gli imputati inizialmente erano 11. In questi ultimi cinque anni, però, i due boss Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti in carcere, da ergastolani. L’undicesimo imputato, l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, l’unico ad avere scelto il rito abbreviato, è invece stato assolto il 4 novembre 2015 dall'accusa di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato "per non aver commesso il fatto": per lui, all’epoca, la Procura di Palermo aveva chiesto nove anni di reclusione. Nel suo caso, inutilmente. E anche questa incongruenza, probabilmente, peserà sull’inevitabile giudizio d’appello.

Trattativa Stato-mafia, cold case all'italiana. Criticato anche da molti magistrati, il processo è rimasto digiuno di prove. Ormai è solo materiale per film e serie tv (Sabina Guzzanti docet), scrive Claudio Martelli il 9 agosto 2017 su "Panorama". Si chiamano cold case, casi - o delitti - raffreddati, cioè remoti, irrisolti e archiviati. Ogni tanto qualcuno di questi casi che, dopo molto scalpore, lasciò più domande che risposte, riemerge. A risollevarli sono talvolta i parenti delle vittime, più spesso un giornalista o uno sceneggiatore televisivo che, spulciando, trova spunto in qualche vecchio caso. In America ai cold case alcuni distretti di polizia riservano un ufficio: didattica per le teste calde o passatempo sull'orlo della pensione. Invece la tv ne ha fatto una specializzazione, una branca delle serie Crime. Anche in Italia l'archeologia giudiziaria è un'attività fiorente e ha fatto la fortuna di produttori, registi e attori. Di diverso c'è che da noi alcuni magistrati hanno costruito le loro carriere e conquistato la fama dedicando centinaia di indagini e decine di anni di processi sempre agli stessi, pochi, fatti e alle stesse, moltissime, dicerie e supposizioni mai provate. A questo genere appartiene certamente il processo alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Criticato anche da molti magistrati, il processo spettacolare negli annunci è rimasto digiuno di prove e riscontri. Come stupirsi? Alla vigilia del rinvio a giudizio, il pm Antonio Ingroia, che l'aveva imbastito, pensò bene di trasferirsi in Nicaragua per conto dell'Onu. Non prima di aver dato alle stampe un suo libricino intitolato Io so. Chissà l'umore dei colleghi che ereditarono l'indagine nel leggere il seguito di Io so. Testualmente: "Io so ma non lo posso dimostrare". Così è toccato a Nino Di Matteo osare quel che Ingroia aveva fallito. Intanto, in altri processi paralleli, le corti mandavano assolti gli ufficiali del Ros che la Procura di Palermo aveva posto al centro della trattativa, colpevoli di non aver perquisito il covo di Riina e di non aver arrestato Provenzano. Analoga assoluzione ha ottenuto l'ex ministro Calogero Mannino, accusato di essere stato la mente della trattativa. Viceversa è stato sbugiardato e arrestato quel Massimo Ciancimino che la Procura aveva elevato a eroe dell'antimafia. Così, orfano, il processo alla trattativa è diventato materiale per film e serie tv. Sabina Guzzanti ne ha fatto un docufilm e l'ha presentato alla mostra di Venezia. La trama ha lo stesso assunto dell'inchiesta di Palermo e anche la stessa efficacia probatoria. In breve: tra il '92 e il '94 la mafia siciliana delusa dai vecchi partiti che si erano messi a contrastarla cerca nuovi referenti politici e prima ancora che fosse nata e che vincesse le elezioni si affida a Forza Italia tramite Marcello Dell'Utri il quale giace sì in carcere, ma che da questa accusa è stato assolto dalla Cassazione. A febbraio Sabina presenta il suo film a Catanzaro in una serata tutta 5 Stelle. A luglio la Procura replica il copione: stessi pentiti, stesse accuse, stessa trama. Al patto tra Stato e mafia avrebbe aderito anche la 'ndrangheta calabrese "con l'avallo di massoneria e servizi segreti deviati". Il canovaccio originale che "i pm calabresi hanno acquisito e aggiornato" è sempre quello: l'inchiesta sui cosiddetti "Sistemi criminali" di Roberto Scarpinato. L'inchiesta fu archiviata ma i diritti d'autore, non c'è dubbio, sono suoi.

Stato-Mafia, così la sentenza Mannino seppellisce il teorema della trattativa. Il legale di Mori: "Ora serve un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività", scrive Anna Germoni il 7 novembre 2016 su "Panorama". "Questa sentenza è una ulteriore pietra tombale sul teorema della trattativa. Già nel 2013 i giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo, che assolsero il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, demolirono tali fantasie (quelle della trattativa Stato-mafia, ndr) scrivendo 1.322 pagine. Ora ne arrivano altre 500, con l'assoluzione di Calogero Mannino, che mi sembrano anche un atto d'accusa contro alcuni metodi d'indagine in uso a Palermo”. Con queste parole molto dure nei confronti dei magistrati titolari dell'inchiesta Stato-mafia, l'avvocato Basilio Milio, legale dei prefetto Mario Mori, commenta le motivazioni del gup, Marzia Petruzzella, che il 3 novembre del 2015 aveva assolto l'ex ministro Dc, per “non aver commesso il fatto”. Milio aggiunge, “sarebbe ora che ci si interrogasse sulle vere ragioni di tali processi e si avviasse un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività”. Una stoccata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Csm e al sindacato dei magistrati, l'Anm. Calogero Mannino era accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ma aveva scelto il rito abbreviato, mentre il processo principale è in corso a Palermo, con imputati, tra gli altri, Riina, Bagarella, Mori, De Donno e Mancino. Secondo l'accusa, il politico aveva cercato di aprire un canale con i boss temendo per la propria incolumità. Subito dopo il verdetto i pm dichiararono di ricorrere in appello, mentre il procuratore capo Lo Voi, più cauto commentò di voler “valutare dopo le motivazioni”. Ebbene le motivazioni sono arrivate, dopo un anno dalla sentenza di assoluzione. Il giudice per le udienze preliminari, scusandosi per il ritardo del deposito, ha scritto oltre 500 pagine di motivazioni della sentenza, sviscerando e analizzando una mole di faldoni impressionanti, considerando che nel processo in corso sono stati depositati oltre un milione di pagine. La giudice Petruzzella, nelle motivazioni più volte ammonisce i magistrati dell'inchiesta Stato-mafia, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo per l'impianto accusatorio, anzi sarebbe meglio scrivere per l'assenza di impianto accusatorio. E la Petruzzella non va tenera.

Gup contro Pm. La gup scrive: “il procedimento “trattativa” si inserisce nell’alveo di un’altra nutrita serie di indagini (i cui atti sono in parte pure compresi nel fascicolo del Pm), svolte nell’ultimo trentennio soprattutto dalle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, ché, parallelamente alla celebrazione dei processi contro mandanti ed esecutori materiali, via via individuati, hanno sondato se dietro la strategia stragista di quegli anni si annidasse una regia politica occulta. Vi rientrano: l’indagine contro Berlusconi e Dell’Utri, dalla Procura di Caltanissetta, archiviata nel 2002, e quella della stessa Procura, cosiddetta "mandanti occulti bis", archiviata nel 2003, l’indagine della Procura di Palermo denominata “sistemi criminali”, archiviata nel 2001, oltre la già più volte richiamata primigenia indagine “trattativa” della Procura di Palermo iscritta nel 2000 (…) la Procura di Palermo nel 2008 ha continuato invece a privilegiare l’ipotesi della trattativa stato-mafia, secondo l’originaria formulazione (del papello ricattatorio di Riina con la partecipazione alla trattativa di Vito Ciancimino), considerando Massimo Ciancimino una fonte di una qualche “criticità” ma tuttavia suscettibile di sviluppi validi a chiudere il quadro degli interrogativi, che erano rimasti aperti al momento della archiviazione del 2004, soprattutto sull’ipotesi che l’invio della lista di richieste di Riina fosse stata sollecitata da Mori, quale intermediario per conto di una parte istituzionale". Analizzando gli elementi probatori la gup sottolinea la linea “unidirezionale prescelta dal Pm nella lettura della serie di dati di fatto messi in rilievo e posti a sostegno del suo impianto” e che “molti degli elementi indicati dall’organo dell’accusa afferiscono a situazioni in realtà notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero bisogno di essere provate, o persino irrilevanti (quando suscettibili di plausibili letture alternative). E ancora, “la consequenzialità logica di questa analisi del Pm appare molto fragile ed affetta da un evidente vizio di circolarità” (…) “i Pm si sono soffermati ad illustrare il compendio probatorio posto a sostegno della loro complessa rappresentazione accusatoria (..) ma in un’ottica più ampia di quella adottata qui dal Pm (tutti tratti dagli oltre cento faldoni, che compendiano la documentazione dell’indagine e quella affluita nel corso dell’udienza preliminare) il giudice deve restituire a questo processo “la necessaria dialettica, rimasta inevitabilmente frustata dalle caratteristiche del rito abbreviato, unite alla straordinarie dimensioni della documentazione prodotta dalla pubblica accusa, ed acuita, appunto, dalla lettura unidirezionale dei fatti adottata dal Pm”. Il giudice infine nelle ultime pagine delle motivazioni della sentenza assolutoria nei confronti dell'ex ministro Dc, ammonisce i magistrati: “gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, per accertarne il valore probante individuale in base al grado di inferenza dovuto alla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati unitariamente per porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo. Ogni "episodio" va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della "storia" racchiusa nell'imputazione”.

Il "papello" di Massimo Ciancimino. Sul papello ci eravamo già soffermati, anticipando nel 2013 le dichiarazioni della giudice Petruzzelli, non per vaticinio ma per aver analizzato gli atti processuali. Il gup scrive che “l'analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l'assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere sulla corda i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l'attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia". "In particolare - prosegue il gup - sul finire del 2008 il Ciancimino creava abilmente nei pm, che lo interrogavano sulla trattativa tra il padre e i due carabinieri del Ros, l'aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009, dopo averli riempiti di documenti del padre, selezionati a suo scelta e consegnati nei tempi da lui decisi, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando. Non può mancarsi di notare ancora una volta: che l'autore del papello consegnato dal Ciancimino in copia ai Pm non è stato identificato". Il gup elenca tutti i punti oscuri della collaborazione di Ciancimino che, con le sue rivelazioni, ha dato vita a un'indagine già archiviata in passato: come le dichiarazioni sul misterioso signor Franco, 007 che, da dietro le quinte, avrebbe mosso i fili della trattativa. "Non ha fornito alcun dato autentico e utile ad identificarlo", scrive il gup che definisce "defatiganti, dispendiose e del tutto inutili" le ricerche investigative per identificare l'agente dei Servizi. Il giudice ricorda anche il documento falso predisposto da Ciancimino "ai danni di Gianni De Gennaro, all'epoca capo della polizia, e la vicenda dei candelotti di dinamite, fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell'aprile del 2011, per la cui detenzione ha già ricevuto una condanna". Ciancimino "lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale; - scrive il gup - ed è evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall'estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l'autore". "E naturalmente - stigmatizza il giudice - non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale".

La scarsa attendibilità di Giovanni Brusca. Il gup ha anche parole pesanti nei confronti del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. Così scrive: “le sue dichiarazioni a causa della loro farraginosità e delle modalità del loro progredire si rivelano di scarsa attendibilità. È soprattutto l’insieme delle caratteristiche e dei contesti in cui dette dichiarazioni del collaboratore si sviluppano, che impedisce di dar loro peso processuale” soprattutto “quello della retrodatazione dell’invio del papello o il ripensamento su altri aspetti relativi alla cronologia degli eventi, connessi all’avvio e ai fatti seguiti alla medesima trattativa, che in astratto potrebbero considerarsi dovuti a naturali difetti della memoria e di poco conto ai fini della valutazione dalla credibilità del dichiarante, invero nel contesto in cui sono avvenute si rivelano frutto di suggestioni o di scelte personali di Brusca, indotte anche dal ruolo d’eccezione di cui si è sentito investito nei processi”. E ancora la Petruzzelli aggiunge che “da quanto illustrato emerge che l’eccesso di interrogatori in Brusca determinò ad un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenda a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti” e che dai pm “sono state attribuite a Brusca cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere. L’esame degli interrogatori passati in rassegna evidenzia le evoluzioni dichiarative di Brusca, la confusione dei suoi ricordi, soprattutto con riferimento ai tempi degli episodi chiave, e l’innegabile e ingiustificata progressione delle sue accuse, dimostrando “invero di avere sulle situazioni di cui riferisce, su tali temi, delle conoscenze frammentarie e limitate”.

L'opinione su Ciancimino. Giudizio pesante del gup, non solo nei confronti del teste su cui ruota tutto l'impianto accusatorio della “Trattativa”, ma anche nei confronti dei magistrati titolari del processo, “i Pm tra i cento interrogatori documentati di Massimo Ciancimino, hanno indicato come maggiormente organici e significativi (ai quali pertanto il giudice nella sua attività decisoria avrebbe dovuto fare speciale riferimento), solo quattro di essi, espletati tra febbraio e marzo del 2010” e “un’autentica valutazione dell’attendibilità del Ciancimino non potrebbe certo fondarsi sull’esame di quattro dei cento interrogatori cui il medesimo è stato sottoposto nel tempo” ma “al contrario, esaminare il complesso degli interrogatori di Massimo Ciancimino è indispensabile innanzitutto per comprendere cosa abbia determinato la necessità del loro protrarsi per una così lunga durata, considerato che fin dall’inizio il campo dei temi di interesse degli inquirenti era ben delineato (l’esistenza di referenti politici dietro i Ros, quando andarono a trattare con Vito Ciancimino, le date dei loro colloqui, i contatti di Vito Ciancimino con altri, e soprattutto il papello e le circostanze che avrebbero portato alla sua spedizione) e le risposte al riguardo di Massimo Ciancimino rivelavano quali effettive informazioni sarebbe stato possibile trarne, oltre che la sua non linearità”. Il gup spiega che “dalla lettura delle registrazioni integrali degli interrogatori di Massimo Ciancimino, salta agli occhi una sua forte suggestionabilità, con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai Pm” con “una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”.

Nessun ricatto allo Stato. “Gli eventi stragisti del ‘93- così scrive la Petruzzella - possono avere spiegazioni diverse e maggiormente plausibili di quelle sposate dai Pm e non essere stati necessariamente determinati dai contatti che i Carabinieri nel ’92 ebbero con Vito Ciancimino. Le informazioni che ci sono giunte attraverso i mafiosi che sono diventati poi collaboratori di giustizia e la somma dei risultati delle lunghe inchieste sui mandanti occulti delle stragi e sui portatori di “interessi convergenti”, ci rivelano che sullo sfondo di quella azioni ci furono scenari molto più fluidi e dinamiche molto più irrazionali e imprevedibili di quelle della trattativa e del subentrare di Provenzano al posto di Riina, ritenuta dal Pm” e che l'idea di colpire i monumenti “era già dal ’92 presente nelle menti dei Brusca, Bagarella, Messina Denaro e Graviano”. Dunque gli attentati stragisti si conclusero con “con l’attentato a Totuccio Contorno in Toscana, preceduti dalla preparazione del più enigmatico attentato all’Olimpico di Roma. Dopo di che il gruppo si sfaldò, per dissapori tra i suoi membri, dovuti a ragioni di interesse economico e allo scoraggiamento generale, dovuto al fallimento della strategia, dal momento che lo Stato non si era piegato al loro ricatto, i collaboratori di giustizia aumentavano, il maxiprocesso non fu rivisto, la repressione di polizia non cessò, l’indignazione dell’opinione pubblica si acuì”.

Le reazioni. Nicoletta Piergentili Piromallo, difensore di Nicola Mancino, unitamente al legale Massimo Krogh, dopo aver letto le motivazioni della sentenza di assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino, a Panorama.it dichiara che “ tale sentenza esamina i temi processuali evidenziando incertezze e approssimazioni (dell'impianto accusatorio ndr) e che “vengono valutate analiticamente anche le testimonianze dall'accusa nei confronti del ministro Mancino, per ricavarne incongruenze e contraddizioni, viceversa nessuna critica viene espressa all'operato del ministro degli Interni ( di quel periodo ndr). Per questo esprimiamo la nostra piena fiducia nei giudici (della corte d'Assise di Palermo dove il processo è ancora in corso ndr) auspicando una decisione breve”. Francesco Antonio Romito, difensore dell'ex ufficiale dell'Arma Giuseppe De Donno, dichiara: “Nel rispetto della Corte che deve giudicare i coimputati di Mannino mi riduco a poche osservazioni: è davvero onorevole il fatto che giudice si scusi per il ritardo nel deposito delle motivazioni, ma tale lungo tempo è la garanzia di un miglior esame degli atti processuali. Con riserva di approfondire meglio, mi pare di leggere che sotto il profilo del dolo non ci sono neanche quei tanto pallidi quanto ambigui elementi indiziari presenti nella condotta del coimputato Mannino, che, penso, per questo, avrebbe   meritato un'assoluzione con formula più favorevole; se sotto il profilo del dolo non esistono neanche pallidi indizi, l'eventuale appello della Procura ancora più difficilmente potrà sortire un ribaltamento della assoluzione. E ciò conforta ancor più la professione di innocenza dei pubblici ufficiali coimputati nostri assistiti”.

Mancino: «Io distrutto per un teorema. Grazie ai giudici». Parla l’ex ministro dell’Interno assolto al processo per la trattativa Stato-mafia, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". «Si può uccidere con le bombe, ma anche con le parole e loro me l’hanno ammazzato. Se non ci fossimo stati io, mia figlia e i nipotini non so che cosa sarebbe successo». Si commuove Gianna Mancino ripercorrendo questi cinque anni di processo contro suo marito Nicola, l’ex ministro dell’Interno accusato di aver mentito. Ma poi non riesce a contenere la gioia per l’assoluzione e gli passa il telefono.

Presidente Mancino si aspettava questa sentenza?

«Non poteva andare diversamente perché io ho sempre servito lo Stato e ho sempre combattuto in ogni modo la criminalità organizzata esponendomi in prima persona».

Lei è stato assolto ma gli stessi giudici hanno ritenuto che trattativa c’è stata visto che hanno emesso dure condanne nei confronti di chi l’avrebbe condotta.

«Potranno pure averla fatta ma io non ne ho mai saputo nulla. E sono contento perché finalmente questa verità viene riconosciuta dai giudici».

L’ex ministro Claudio Martelli ha raccontato di essersi lamentato con lei, all’epoca al Viminale, proprio perché i carabinieri del Ros erano andati a parlare con Vito Ciancimino. Lei lo ha negato ed è scattata l’accusa di falsa testimonianza.

«La prima volta in cui Martelli ha parlato di questa circostanza ha detto “propendo per Mancino”, solo in seguito è stato più netto, ma dopo aver parlato anche del mio predecessore Vincenzo Scotti. Adesso lo posso ripetere confortato dal giudizio della Corte d’Assise: non ho mai parlato del Ros con Martelli».

Finora non le avevano creduto.

«Ho presentato numerosi esposti nella precedente gestione della procura, ma evidentemente il procuratore di Palermo ha fatto il sordo».

Si riferisce all’ex capo dell’ufficio Francesco Messineo?

«È tutto documentato. E invece loro dicevano che mi ribellavo senza fondamento».

Sta dicendo che c’è stato un accanimento personale?

«Sicuramente c’era malanimo nei miei confronti. Hanno detto che io non avevo coraggio. Io ho sempre stimato Scotti e non dico che non fosse un duro, ma io certamente non mi sono mai piegato a nessuno. E mi sono difeso in ogni modo possibile perché avevo il dovere di farlo anche rispetto alle mie origini umili e ai sacrifici fatti dalla mia famiglia».

Con chi ce l’ha?

«Io sono stato mandato a giudizio su richiesta dei pm. Durante le indagini ci sono stati molti momenti delicati e complicati. Filtravano notizie sul fatto che sarei stato il prossimo indagato. Per me è stato un tormento, anche per il ruolo che ricoprivo».

Era vicepresidente del Csm. Non crede sarebbe stato giusto dimettersi?

«Sarebbe stata una resa e invece, come si vede adesso, avevo ragione. Ma questo ha avuto comunque gravi conseguenze su di me che volevo difendere a tutti i costi lo Stato di diritto anche in questo modo. Sapevo che era un teorema e non potevo cedere. Mi hanno distrutto e ora risorgo. Per questo adesso ringrazio i giudici».

Sua moglie ha raccontato che per questa vicenda lei non ha più chiamato il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

«Lo avevo contattato quando lui era al Quirinale e io al Csm per gli auguri di Natale e poi dopo il discorso del 31 dicembre attraverso la batteria del Viminale. Uscirono le notizie che esistevano le intercettazioni e io mi sono vergognato. Non ho più chiamato».

È stato quello il momento più difficile?

«È stato tutto molto complicato. Ho sempre vissuto con la paura che qualcuno pensasse che avevo fatto qualcosa di male. E invece io non ho mai fatto niente che non fosse al servizio dello Stato».

Il pm Di Matteo: «Messi in evidenza rapporti mafia-Berlusconi politico». Il magistrato e la trattativa tra Stato e Cosa nostra: «Dell’Utri cinghia di trasmissione», scrive Giovanni Bianconi il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". «Finora avevamo una sentenza che metteva in correlazione Cosa nostra con Berlusconi imprenditore, ora ne abbiamo un’altra che per la prima volta la mette in correlazione con il Berlusconi politico». Nino Di Matteo, divenuto il pm simbolo dell’inchiesta e del processo sulla trattativa Stato-mafia, ora in servizio alla procura nazionale antimafia, commenta a caldo il verdetto della corte d’assise.

Da che cosa deriva questa sua analisi?

«La sentenza dice che Marcello Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi, che si era da poco insediato. Non risulta che il governo Berlusconi abbia mai denunciato le minacce subite attraverso Dell’Utri. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il 1992».

Al di là di quella singola posizione, qual è il significato di questa sentenza?

«Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza, lo aveva già stabilito la corte d’assise di Firenze sostenendo che aveva rafforzato Riina nell’idea che la strategia delle bombe fosse pagante. Ciò che emerge oggi è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste mafiose mentre saltavano in aria giudici e cittadini comuni. Abbiamo dimostrato che qualcuno nello Stato aiutò Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica».

Lo dice perché per voi, più volte e da più parti finiti sotto accusa per come avete istruito il processo, si tratta di una rivincita?

«Per noi non è importante avere il consenso, ma che i cittadini sappiano che abbiamo fatto solo il nostro dovere, considerando tutti uguali davanti alla legge. Il lavoro dei magistrati può essere criticato, anche in maniera aspra e perfino cattiva, ma noi siamo stati accusati di perseguire finalità politiche ed eversive, e di fronte a questo nessuno ci ha difeso. Oggi la corte d’assise ha detto che non era così».

Questo verdetto è uno spunto per continuare le indagini ancora aperte sulle stragi di mafia?

«Io credo e spero che oltre ai fatti reati già accertati, le inchieste aperte a Caltanissetta, Firenze e alla Procura nazionale antimafia vadano avanti per stabilire se oltre a quelle dei macellai di Cosa nostra sono configurabili altre responsabilità, ad altri livelli».

Quindi il vostro lavoro non è finito?

«No».

"Sentenza storica dedicata a Borsellino, vittima della trattativa Stato-mafia". Parla l'ex Procuratore Nazionale antimafia Franco Roberti, scrive Maria Antonietta Calabrò il 20 aprile 2018 su "Huffingtonpost.it".  È contento della sentenza di Palermo, Franco Roberti, ex Procuratore Nazionale antimafia che ha seguito passo passo le indagini della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, nell'arco di questi anni, essendo stato nominato dal CSM il 25 luglio 2013, fino al suo pensionamento avvenuto lo scorso 16 novembre 2017.

"Sono lieto che sia stato riconosciuta dalla Corte di assise palermitana la fondatezza dell'impianto accusatorio. La sentenza mi conforta. Laicamente ho sempre sostenuto che fosse doveroso cercare la verità fino in fondo e senza riguardi per nessuno".

Le condanne sono state pesanti. Anche per Marcello Dell'Utri.

"Il punto non è solo vedere le singole posizioni processali o le singole condanne, che potrebbero essere riformate in appello. Leggeremo tra qualche tempo le motivazioni della sentenza. Quello che mi preme sottolineare è che la ricostruzione complessiva di quanto è avvenuto, portata avanti dai pubblici ministeri, è stata confermata dalla sentenza. Questo è un dato molto importante".

Il pm Nino Di Matteo ha parlato di sentenza storica. Condivide?

"Senz'altro: è una sentenza storica, non c'è alcun dubbio su questo".

Perché?

"Perché aiuterà a capire quello che è successo in Italia nei primi anni Novanta. E che tanto pesa ancora oggi sullo sviluppo democratico del nostro Paese. Sono stato io che ho applicato il sostituto procuratore nazionale antimafia Di Matteo, insieme al collega Francesco Del Bene, al processo sulla trattativa Stato-mafia, in modo che anche dopo la sua nomina a Roma potesse continuare il suo lavoro e il nuovo incarico non fosse considerato una fuga da quel processo".

Questa sentenza segnerà veramente la fine della seconda Repubblica come ha dichiarato il leader M5S Di Maio?

"Oggi c'è fame e sete di chiarezza e di verità per permettere all'Italia di andare avanti. Tragedie come quelle di Aldo Moro o le stragi di mafia - con i loro lati ancora oscuri - continuano a pesare sullo sviluppo democratico del nostro Paese. La sentenza di Palermo è fondamentale perché può costituire l'inizio di un percorso di ricerca della verità sulle complicità esterne ai gruppi criminali, ancora non accertate".

Il coordinatore del pool dei pubblici ministeri, Vittorio Teresi ha dedicato questa sentenza a Paolo Borsellino, perché Borsellino?

"Il 18 luglio dell'anno scorso, in occasione della commemorazione davanti al Consiglio superiore della Magistratura del venticinquesimo anniversario della strage di via D'Amelio, ho sostenuto in presenza del Capo dello Stato che la decisione di uccidere Borsellino fu accelerata proprio perché egli sarebbe stato d'ostacolo alla trattativa Stato- mafia, appena avviata dopo la strage di Capaci. Tanto più Borsellino se fosse divenuto Procuratore nazionale antimafia, dopo la morte di Giovanni Falcone. Borsellino era percepito come un macigno sulla strada della trattativa: ecco perché Cosa nostra decise subito di ricorrere ad una nuova strage. Borsellino si sarebbe certamente opposto alla trattativa, da qui la necessità di ricorrere a un secondo clamoroso delitto in così breve tempo".

Basilio Milio: «Se fosse vivo Riina, festeggerebbe». Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". «Sono sbigottito», dice l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale dei carabinieri Mario Mori, al termine della lettura della sentenza del processo sulla trattativa Stato- mafia».

Avvocato, la condanna è pesantissima.

«Aspettiamo di leggere le motivazioni, però è chiaro che 12 anni di carcere non lasciano dubbi sulla decisione della Corte d’Assise di Palermo».

Si aspettava una sentenza del genere?

«Guardi, a favore del generale Mori c’erano già quattro sentenze dove era stato sempre assolto per fatti analoghi».

Allora perché questa condanna?

«Non so proprio darmi una spiegazione».

Forse ci sono stati errori nella linea di difesa?

«Abbiamo fatto tutto quello che bisognava fare. Anche di più. Sotto quest’aspetto non possiamo recriminare nulla.

Nessuna scelta di cui pentirsi, quindi?

«No. E voglio essere anche positivo».

Cioè?

«C’è in me oggi un barlume di contentezza, in un mare di sconforto. Sono contento perché sono consapevole che la verità è dalla nostra parte. Questo è un giorno di speranza. Possiamo sperare che in appello ci sarà un giudizio perché questo é stato un pregiudizio».

Ha delle contestazioni da muovere alla Corte d’Assise di Palermo ed al presidente Alfredo Montalto?

«Non ho intenzione adesso di lamentarmi su come è stato condotto questo dibattimento. Dico solamente che ci sono stati tagliati molti testi e impedito di depositare centinaia di documenti che erano importanti per la difesa».

Quali testi non sono stati ammessi?

«I magistrati Ilda Boccassini, Antonio Di Pietro e Giuseppe Ayala. Strano, no?»

Analogo atteggiamento di chiusura c’è stato nei confronti della Procura?

«La Procura di Palermo in questi anni ha prodotto ogni tipo di documento possibile. E’ stato addirittura depositato tutto il fascicolo personale del generale Mori acquisito al Comando generale dell’Arma dei carabinieri. Senza contare tutte le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss Giuseppe Graviano. Giorni, anzi, settimane di intercettazioni che abbiamo dovuto ascoltare con uno sforzo senza pari».

La Corte d’Assise si è “appiattita” in questi anni di processo sulla Procura?

«La Corte ha quasi sempre aderito alle istanze dei pm e mai alle nostre. I pm di Palermo sono andati anche in Sud Africa per interrogare Gianadelio Maletti (ex numero due del Sid negli anni Settanta, ndr) sui rapporti avuti con Mori quando prestava servizio alle sue dipendenze dal 1972 al 1975».

Mi permetta una riflessione.

«Prego».

Era difficile per chiunque affrontare un simile dibattimento condizionato da una pressione mediatica senza pari. Alcuni giornali hanno sposato per anni le tesi del pm Nino Di Matteo, dal M5S considerato un eroe tanto da essere proposto come ministro in un futuro governo Di Maio.

«Sì, la pressione c’è stata. E’ indubbio. Un circo mediatico messo su da chi sappiamo bene. Però in questo processo non c’era nulla, e dico nulla, che potesse configurare un qualsiasi reato a carico di Mori. Questo è stato un processo senza reato ma con una ben precisa finalità: “mascariare” (sporcare, ndr) il generale quando invece l’Italia intera dovrebbe ringraziarlo. Mori è stato un grande servitore del Paese ed invece è stato perseguitato. E’ una sentenza dura che non sta né in cielo né in terra. E faccio anche una considerazione».

Dica pure.

«Se Totò Riina fosse ancora vivo avrebbe gioito di tutto questo. E io mi sono un po’ vergognato di essere italiano sentendo la condanna a 12 anni per colui che ha fatto arrestare il feroce boss corleonese».

Stravince Di Matteo: assolto il mafioso, punito il nemico dei boss. Accolte le tesi dei pm Di Matteo. Dopo cinque anni, il primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato–mafia si chiude con condanne pesanti, scrive Errico Novi il 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". La trattativa con la mafia ci fu. In due fasi: prima la condussero gli ufficiali del Ros, poi il senatore Marcello Dell’Utri. A dirlo è la Corte d’assise di Palermo, al termine di un processo durato 5 anni, con una sentenza piena di paradossi, e interpretata in modo altrettanto illogico da un festante Nino Di Matteo. Primo: come fanno notare i difensori del generale Mario Mori (Basilio Milio) e del cofondatore di Forza Italia (Giuseppe Di Peri), «mai la Procura di Palermo ha indicato i luoghi e le circostanze in cui gli uomini delle istituzioni avrebbero presentata la minaccia di Cosa nostra ai vertici dello Stato». Eppure boss e “intermediari” sono condannati, con pene che vanno dai 28 anni per Bagarella agli 8 inflitti al colonnello De Donno, per “minaccia a corpo politico dello Stato”. Secondo: i maggiori imputati (sempre i boss e i loro “portavoce istituzionali”) sono condannati anche a risarcire per 10 milioni la presidenza del Consiglio. Cioè, Dell’Utri dovrebbe risarcire Berlusconi. Eppure il pm Di Matteo ha il coraggio di dire che la sentenza «dimostra l’esistenza di rapporti tra la mafia e il Berlusconi politico». È vero che non c’è nulla che abbia senso, nell’emozionata pronuncia di Alfredo Montalto, presidente del collegio. Ma sorprende come gli unici a parlare, doverosamente, di sentenza «assurda» siano i radicali, in un comunicato in cui ricordano che «Mori e i suoi uomini, Totò Riina l’hanno pur sempre arrestato». E invece: Montalto, la giudice a latere Stefania Brambille e i 7 giudici popolari si sono convinti che pezzi di Stato avrebbero trattato con i boss stragisti. Condannato anche il teste chiave, ma non per concorso esterno, ipotesi caduta in prescrizione: Massimo Ciancimino incassa una pena di 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gian- ni De Gennaro, superiore dunque ai 5 anni chiesti dalla Procura. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, sul quale pendeva una richiesta di 6 anni per falsa testimonianza. È la vittoria dei pm palermitani, tutti (tranne ovviamente l’ex aggiunto Antonio Ingroia, dimessosi dalla magistratura) presenti in aula: Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e il succitato Di Matteo. Premiata la tesi di una pressione esercitata prima dai vertici del Ros, fino al 1993, e poi dal braccio destro di Berlusconi, dopo il 1993, affinché fossero accolte le pretese avanzate, a suon di stragi, dalla mafia. Ma come fa notare il difensore del generale Mori. Eppure, come ricorda l’avvocato Di Peri, «c’erano già state precedenti sentenze che avevano respinto le stesse ipotesi per il mio assistito e per gli ufficiali dei Ros: quella sulla mancata perquisizione al covo di Riina e la pronuncia Mori– Obinu». Quei giudizi si rovesciano: la trattativa ci fu. E come detto, in due tempi distinti, con Dell’Utri che avrebbe veicolato le minacce di Cosa nostra, nel breve periodo del primo governo Berlusconi, tra maggio ’ 94 e gennaio ’ 95. «Quell’esecutivo mai denunciò quanto aveva subito», dichiara trionfante Di Matteo. Evidentemente non ha importanza, per lui, il fatto che le presunte richieste non siano mai state accolte in alcun provvedimento. Circostanza che, a voler seguire la sentenza, fa del Cavaliere un eroe dell’antimafia. Di Matteo segue invece la pseudologica delle suggestioni storiografiche: «Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico e si chiarisce dunque che i suoi rapporti con Cosa nostra vanno oltre il ’ 92». Rapporti? Sì, in cui il Cavaliere sarebbe vittima. Quisquilie.

LE CONDANNE. I vuoti logici in parte si giustificano con la mancanza delle motivazioni, che saranno depositate entro novanta giorni. Allora, forse, si comprenderà meglio il senso di alcune difformità fra le richieste dei pm e le condanne inflitte. Nel caso dei boss, è stata dichiara la prevista prescrizione per il reato ascritto a Giovanni Brusca, viene confermata la pena di 12 anni invocata per Antonino Cinà ma è innalzata di molto quella relativa a Leoluca Bagarella: dai 16 anni chiesti ai 28 comminati. Identiche a quanto atteso dalla Procura sono le condanne per Dell’Utri e il generale del Ros Antonio Subranni: 12 anni. Di poco più bassa quella per il generale Mario Mori (12 anni di carcere anziché 15). Il terzo ufficiale dell’Arma, il colonnello Giuseppe De Donno, è punito con 8 anni di carcere contro i 12 richiesti. Mancino come detto è il solo a poter esprimere la propria gioia, affidata all’avvocata Nicoletta Piergentili e alle agenzie: «Sapevo che c’era un giudice a Palermo, è stato smentito il teorema costruito contro di me, ma ho vissuto 8 anni di sofferenza».

I PM E LA REAZIONE DI FI. Tutti e quattro i pm si immergono nella selva di taccuini un minuto dopo la lettura del dispositivo. Vittorio Teresi dedica la vittoria «a Falcone e Borsellino», Tartaglia trova una conferma: «Abbiamo lavorato bene». Nessuno degli inquirenti dà conto però di un vulnus enorme. Di carattere logico, che rende urgentissimo il giudizio d’appello: su quello conclusosi ieri si ha l’impressione di un peso straordinario dei giudici popolari. Il vulnus è nella lunga parte della sentenza legata ai risarcimenti: il più clamoroso ammonta a 10 milioni di euro, da dividersi tra i mafiosi, Dell’Utri e i Ros, e andrà destinato alla presidenza del Consiglio. Cioè a Berlusconi. Che dunque per i giudici è vittima. Di Matteo ribalta tutto: «La Corte intanto ritiene provato il fatto che dopo il rapporto con il Berlusconi imprenditore c’è quello con il politico». Un’interpretazione temeraria che Forza Italia spiega anche «con la partecipazione del dottor Di Matteo alle iniziative dei cinquestelle» e che «sarà oggetto dei necessari passi in ogni sede».

Sentenza grillina sulla Trattativa. La Corte d’assise di Palermo condanna Mori, Subranni e Dell’Utri e apre una nuova stagione di assedio giudiziario contro il Cav. Le sentenze ignorate, il mistero del pataccaro Ciancimino, il trionfo del circo mediatico, i populismo dei giudici popolari, scrive Giuseppe Sottile il 20 Aprile 2018 su "Il Foglio". Chapeau. Il galateo istituzionale insegna che di fronte a una sentenza emessa in nome del popolo italiano non c’è altro da fare che scappellarsi. Dopo cinque anni di discussioni e di polemiche la Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha stabilito che negli anni delle stragi di mafia, alcuni funzionari dello Stato scesero a patti con i boss di Cosa nostra. Magari con la migliore intenzione, che poi era quella di fermare il fiume di sangue. Ma la trattativa ci fu. Ed è bastata questa convinzione per spingere i giudici togati e i giudici popolari a distribuire condanne pesantissime a tutti gli imputati. A cominciare dai due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che tra il 1992 e il 1994 si trovarono nell’inferno di Palermo e, da bravi investigatori, attivarono tutti i mezzi per contrastare il disegno eversivo di Totò Riina e dei sanguinari corleonesi. La sentenza non gli riconosce una sola attenuante e li condanna a dodici anni di carcere. Prima di restare impigliati nel processo istruito dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e sostenuto in aula con particolare forza dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, i due alti ufficiali dell’Arma erano addirittura convinti di dovere ricevere prima o poi una medaglia a nome di tutti gli italiani: perché erano riusciti a fermare la strategia delle bombe; e perché avevano arrestato e sepolto nel carcere duro Totò Riina, il capo dei capi. Invece sono stati costretti per oltre dieci anni a salire e scendere le scale dei tribunali. E pur avendo collezionato assoluzioni nei processi specifici – a cominciare da quello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il boss che secondo il teorema della trattativa avrebbe tradito il capo dei capi, consegnandolo agli sbirri – si sono ritrovati oggi nell’aula bunker del Pagliarelli sotto il maglio impietoso di una condanna difficilmente sopportabile. Ovviamente, i loro avvocati presenteranno appello. Ma ci vorranno almeno altri due o tre anni prima che si possa arrivare a una sentenza di secondo grado. Intanto il calvario si allunga: da qui al 2021, se tutto filerà liscio, avranno collezionato quindici anni di sofferenze, di sospetti, di gogna, di disperazione di morte civile. Né Mori né Subranni sono più dei giovanotti. E quando si è vecchi, annotava Luis de Góngora, “ogni caduta è un precipizio”. Farà i conti con la propria età e con una giustizia senza fine anche Marcello Dell’Utri, l’ex braccio destro di Silvio Berlusconi, in carcere già da quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i giudici di Palermo ha avuto anche lui un ruolo nella Trattativa e ai sette anni precedenti, quelli inflitti per concorso esterno, andranno cumulati altri dodici anni. Fine pena mai. In fondo è andata meglio ai mafiosi. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, sulle cui spalle gravavano già una decina di ergastoli, aggiunge al suo casellario giudiziario un’ulteriore condanna a ventotto anni. Ma il pluriassassino Giovanni Brusca, l’uomo che nel maggio del ’92, premette il telecomando e fece saltare in aria a Capaci il giudice Giovanni Falcone, se l’è cavata alla grande: il reato gli è stato prescritto, forse in virtù del fatto che da quando è stato catturato – con grande clamore e giubilo delle forze dell’ordine – lui ha molto opportunamente abbracciato la professione di “pentito” con un programma a maglie larghe che gli ha consentito anche di godersi un po’ di bella vita. Ma la sorpresa più clamorosa sta nella condanna inferta a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e testimone centrale di tutta la trama accusatoria. Al giovane Massimuccio – già in carcere pure lui per altre ribalderie consumate mentre Ingroia lo elevava al rango di “icona dell’antimafia” e il fratello di Paolo Borsellino lo abbracciava e lo baciava nelle pubbliche manifestazioni – la Corte d’assise ha riconosciuto il ruolo di pataccaro: difatti lo ha condannato a otto anni per le calunnie rivolte all’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro e non per concorso esterno in associazione mafiosa. Dimenticando, probabilmente, un dettaglio: che Massimo Ciancimino era il teste chiave di questo processo. Anzi. Questo processo non si sarebbe potuto imbastire senza le sue clamorose “rivelazioni”. Lui, furbissimo, si era trasformato nel ventriloquo di suo padre e in quanto tale raccontava non solo a Ingroia ma anche a tutti i giornalisti che lo intervistavano gli incontri che il vecchio Don Vito, corleonese e amico di Riina e Provenzano, aveva avuto non solo con il generale Mario Mori, ma anche con il capitano Giuseppe De Donno, anch’egli processato e condannato a otto anni di carcere. Come si dice in questi casi, per chiarire un dubbio bisognerà doverosamente aspettare le motivazioni della sentenza. Intanto però il dubbio resta in piedi: se il principale teste è un pataccaro, su quali elementi i giudici hanno costruito le granitiche certezze che li hanno spinti a formulare condanne così gravi e ferrose? Ciancimino – giudiziariamente parlando, per carità – era stato fatto a pezzi già nel novembre del 2015 dal giudice Marina Petruzzella che con rito abbreviato aveva giudicato e assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato nella trattativa alla stregua di Mori, di Subranni e di Dell’Utri. Le sue dichiarazioni, stando alla valutazioni di Marina Petruzzella, erano da considerare “contraddittorie, confuse, divagatorie e incoerenti”. Eppure quelle dichiarazioni hanno trovato spazio e accoglimento nel maxi processo concluso oggi con sette durissime condanne. (L’unica assoluzione è stata quella dell’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza). Come mai? La credibilità assegnata dalla Corte al pataccaro Ciancimino non è tuttavia l’unico mistero che i giudici dovranno chiarire nel momento in cui si siederanno a un tavolo per scrivere le motivazioni. Bisognerà capire anche per quali ragioni siano stati ignorati i verdetti delle precedenti assoluzioni. Secondo l’impostazione originaria data da Antonio Ingroia la presunta Trattativa tra i boss e alcuni settori, ovviamente deviati, dello Stato si basava su alcuni riscontri, su alcuni fatti strani e inquietanti: primo, Mori e i suoi carabinieri avevano tutti gli elementi in mano per catturare Bernardo Provenzano, il numero di due di Riina, ma non lo hanno fatto per avere in cambio la “soffiata” che li avrebbe portati alla cattura del mammasantissima; secondo, sempre Mori e i suoi carabinieri, dopo avere ammanettato Riina, avrebbero dovuto immediatamente perquisire il covo di via Bernini dove il capo dei capi aveva vissuto la latitanza, ma non lo hanno fatto per consentire ai più stretti complici del boss, come Leoluca Bagarella, di fare sparire tutte le carte, soprattutto quelle che avrebbero potuto portare le indagini ai santi protettori, anche politici, della mafia. Ma questi riscontri, chiamiamoli così, erano stati polverizzati da due sentenze di assoluzione pronunciate dai tribunali chiamati a giudicare, per quei reati, sia Mori che De Donno. Con quale criterio la Corte d’assise li ripesca e li fa propri? Quali solidi argomenti, insomma, hanno spinto il collegio presieduto da Alfredo Montalto a ignorare la sentenza di Marina Petruzzella e i due verdetti dei tribunali che non hanno trovato macchia nel comportamento dei carabinieri? Probabilmente – e non sarebbe il primo caso – una spiegazione andrebbe ricercata nel fatto che, nelle Corti d’assise, un peso non indifferente viene assegnato ai giudici popolari. I quali, per definizione, risentono maggiormente degli umori che pervadono la comunità. Il giudice togato ha un distacco professionale, ha una “terzietà” costruita con i propri studi e lungo la propria carriera. I giudici popolari, no. Hanno assistito e probabilmente assimilato un processo mediatico durato quasi dieci anni. Ricordate Ingroia che, pur di collegarsi con tutti i talk-show e predicare le sue verità sulla trattativa se n’era persino andato in Guatemala? E ricordate Massimo Ciancimino che parlava in nome del padre e denunciava le più improbabili nefandezze di uomini, come Mori o De Gennaro, che invece avevano rischiato la vita pur di arginare la litania dei massacri testardamente voluta da Totò “u’ curtu”, da Bagarella, da Brusca e dagli altri scellerati corleonesi? E ricordate quanti altri giudici e quanti giornalisti si erano accodati al populismo facile della tesi secondo la quale Berlusconi, tramite Dell’Utri, palermitano e amico del boss Antonino Cinà, era sceso a patti con la mafia? E ricordate i riconoscimenti e le cittadinanze onorarie che i magistrati della Trattativa, primo fra tutti Nino Di Matteo, andavano raccogliendo nei comuni piccoli e grandi d’Italia per il semplice fatto di credere nelle accuse che Ingroia e Ciancimino avevano costruito e che altri tribunali avevano invece demolito? Comizi, conferenze, riconoscimenti, associazioni adoranti – come Agende rosse, come Scorta civica – avevano trasformato i pubblici ministeri di questo processo in eroi, in campioni buoni per le piazze soprattutto grilline. E non è certamente un caso che proprio Di Matteo fosse stato indicato da Beppe Grillo come probabile ministro di un eventuale governo a cinque stelle. Potevano i giudici popolari girarsi dall’altra parte? Oggi, dopo la lettura della sentenza il pm Di Matteo si è presa la sua legittima soddisfazione. “Nella nostra impostazione accusatoria, che ha retto completamente, si sostiene che Dell’Utri sia stato la cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo Berlusconi”, ha detto. E così dicendo ha sollevato un altro dubbio. Nella sentenza che quattro anni fa ha spedito in carcere l’ex senatore per concorso esterno era scritto e stabilito che l’imputato aveva mantenuto rapporti con i boss fino al 1992. La sentenza smentisce questo assioma, verificato persino dalla Cassazione, e sostiene che Dell’Utri entra in gioco nel ’93 e continua a mafiare tranquillamente fino al ’94 quando Berlusconi è già a Palazzo Chigi. Su quali prove? Lo diranno, se sapranno dirlo, le motivazioni. Intanto la squadra che fa capo a Di Matteo prepara una nuova stagione giudiziaria. Bisognerà tornare alle stragi, alle trame oscure, ai registi occulti e a tutto il campionario della giustizia populista. Per altri vent’anni, se Dio gli darà vita, Berlusconi non avrà pace.

La sentenza tra politica, circo e populismo giudiziario. Tortora in primo grado fu condannato come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, commenta Di Maio, scrive Massimo Bordin il 21 Aprile 2018 su "Il Foglio". E’ stata una sentenza politica quella di ieri sulla “trattativa”. Da vari punti di vista. C’è un aspetto, diciamo così, tecnico e qui se ne era già parlato un paio di mesi fa, presentandolo come l’unico rischio che la difesa correva: rispetto alle quattro sentenze che hanno assolto Mario Mori su vicende relative alla trattativa, questa di ieri a Palermo è stata pronunciata da una corte d’assise, ovvero è stata l’unica con giuria popolare. Leoluca Orlando, commentando entusiasta la sentenza, ha parlato di verità storica che diviene verità giudiziaria, laddove per verità storica devono intendersi le intere mensole di libri, molti scritti da magistrati, che per una decina d’anni hanno consacrato le tesi dell’accusa prima del giudizio. La verità storica di Orlando si costruisce nelle procure, si ufficializza nelle pubblicazioni dei pm e dei loro addetti stampa e consente al pregiudizio di sostanziarsi in verità giudiziaria grazie a una giuria popolare, nel tripudio in aula del popolo delle agende rosse e della “scorta civica” del dottore Di Matteo. Fosse solo un problema giudiziario saremmo nel campo di un orrore ben noto. Enzo Tortora in primo grado fu condannato a dieci anni come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, quella dei cittadini, ha commentato Luigi Di Maio. Forse precorre i tempi, siamo ancora a Weimar, ma almeno in Germania, un magistrato che trovò il modo di assolvere Dimitrov pure ci fu, quando le cose erano già precipitate e la “Terza Repubblica” si stava già insediando. Ieri ci si è limitati a Mancino.

Stato- mafia: seconda requisistoria: «Niente prove, ma non servono», scrive il 17 Dicembre 2017 "Il Dubbio". Per i magistrati ci sarebbe “un elemento costituito dalle stesse perle di Mori e De Donno alla Corte d’Assise di Firenze”. Davanti alla Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, va in scena la seconda puntata della requisitoria dei pm del processo per la “trattativa” Stato- mafia. È stata la volta di sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che cita in primo luogo l’audizione, il 20 marzo 1992, nelle commissioni parlamentari dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi e del ministro dell’interno, Vincenzo Scotti. “Il decreto sul carcere duro, il 41 bis, – ha detto Di Matteo – nacque esclusivamente sull’asse Martelli- Scotti, ministri della Giustizia e dell’Interno. Fu varato l’otto giugno 1992 anche se la prima vera applicazione avvenne dopo la strage di via D’Amelio. Il clima nel nostro Paese era di scontro totale: il 41 bis era una questione che assillava Cosa nostra ed è su questo terreno che si assiste in quel periodo alla contrapposizione tra due linee: quella della fermezza (Scotti- Martelli) e quella della prudenza dettata dal timore che dopo Capaci, Cosa nostra proseguisse nel suo progetto contro i politici. In quello che Riina ave- va definito la “puliziata dei piedi”, ovvero eliminare i rami secchi, cioè i politici che non avevano rispettato i patti, prima di iniziare un nuovo percorso con nuovi referenti’. ‘ In questo clima arroventato – ha continuato Di Matteo – si inserisce il dialogo, la mediazione o per meglio dire la trattativa – tra il Ros, i suoi massimi vertici, cioè Subranni, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino’. E Vito Ciancimino viene individuato quale ‘ canale privilegiato per avviare la trattativa – ha aggiunto – in virtù dei pregressi rapporti esistenti tra Mario Mori e l’avvocato Ghiron, quest’ultimo divenuto poi legale di Vito Ciancimino’. Il pm traccia lo scenario: ‘ Voglio partire da una elemento di prova acquisito quando nessuno ipotizzava di aprire una indagine sui vertici del Ros e su Vito Ciancimino. Questo elemento di prova è costituto dalle stesse parole di Mori e De Donno davanti alla Corte d’assise di Firenze. Parole chiare – secondo Di Matteo – inequivoche che non lasciano spazio al dubbio sull’esistenza della trattativa”.

Trattativa Stato-mafia, Calenda: "Preoccupano i pm alle riunioni di partito". Il ministro dimissionario contro Di Matteo. Forzisti all'attacco. Di Maio: "Sentenza che fa da spartiacque". L'associazione Rita Atria: "No ai berlusconiani nel governo", scrive Claudio Reale il 21 aprile 2018 su "La Repubblica". "Non conosco i fatti a sufficienza e in mancanza di approfondimento tendo a non commentare sentenze della magistratura. Sul piano della comunicazione magistrati che vanno a riunioni di partito e fanno dichiarazioni che vanno oltre le sentenze mi preoccupano". Il ministro dimissionario Carlo Calenda va all'attacco il giorno dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia e soprattutto sulle polemiche seguite alle dichiarazioni di Nino Di Matteo, che ieri aveva parlato di un verdetto che "sancisce i rapporti col Berlusconi politico". Su Di Matteo piovono soprattutto gli strali forzisti: "A pensar male si fa peccato - dice la deputata Micaela Biancofiore - ma mi sembra perlomeno curiosa la coincidenza della presenza ad Ivrea al convegno dei 5 stelle del pm Di Matteo, con relativa ovazione contro Berlusconi, e il fatto che alla vigilia della sentenza di ieri, sia saltato proprio il governo dato per fatto centro destra-5 stelle. Forse qualcuno sapeva e ha rivelato l'esito della sentenza per impedire la soddisfazione del voto espresso dagli italiani". Le conseguenze, del resto, sono intrinsecamente politiche. "Siamo in un momento del Paese, da ieri, in cui stiamo riscrivendo i libri di storia - dice il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio - È un nuovo futuro. La sentenza di ieri di Palermo è uno spartiacque tra passato e futuro del Paese". "Noi - dice l'associazione Rita Atria - chiediamo che le forze politiche parlamentari, elette in rappresentanza del popolo italiano, isolino politicamente Forza Italia (non ci risulta che all'interno di Forza Italia sia stato aperto un dibattito sulla problematica e quindi riteniamo siano ancora compatti con il loro leader e fondatore), la cui genesi ormai è scritta in due sentenze di due tribunali italiani, e rifiutino come irricevibile ogni proposta di governo che contempli la presenza del partito tra le forze di maggioranza o in appoggio esterno all'esecutivo". "La mia considerazione - commenta il presidente della Lombardia, il leghista Attilio Fontana - è che forse questa sentenza è caduta in un momento non del tutto opportuno. E diciamo che forse sarebbe stato meglio non subordinare scelte politiche a questioni extrapolitiche. Non voglio ventilare nulla, ma dico che casualmente cade male e ora sarà il nostro segretario Matteo Salvini a fare le scelte del caso". Il mondo dell'antimafia, dal canto suo, adesso tira le somme. "Avevamo sempre saputo e sospettato che vi fosse una trattativa tra Stato e mafia - dice Alice Grassi, figlia di Libero, l'imprenditore ucciso dalla mafia per essersi ribellato al racket - Proprio in quegli anni, nel 1991 è stato ucciso mio padre, o lo Stato non aveva gli strumenti o palesemente non interveniva per debellare questo fenomeno. Mio padre in quell'intervista rilasciata a Michele Santoro, a Samarcanda, parla della qualità del consenso. Se era la mafia che condizionava il voto, è ovvio che ci ritrovavamo tra i nostri legislatori la gente che difendeva i 'diritti' dei mafiosi e non della gente perbene". Sulla stessa linea d'onda il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: "I palermitani - dice - lo sanno, lo hanno sempre saputo; oggi grazie al lavoro coraggioso e puntiglioso di alcuni magistrati, ai quali non è mai mancato il sostegno e l'incoraggiamento della società civile e del Comune di Palermo, abbiamo anche le prove confermate da una sentenza: in quegli anni un pezzo importante dello Stato tradì lo Stato e i cittadini per farsi mafia, permettendo alla mafia di farsi Stato".

La crociata di Di Matteo, pm anti Berlusconi e "ministro" dei grillini. Il magistrato attacca il leader azzurro che ha fatto saltare il governo Lega-M5s, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". La solita tempistica della toga. Silvio Berlusconi attacca il Movimento Cinque Stelle e Nino Di Matteo, magistrato antimafia innamorato dei grillini, se la prende con il leader di Forza Italia. Il Cavaliere è colpevole, soprattutto di aver fatto saltare i piani di Luigi Di Maio per un governo Lega-M5s. E venerdì, nel giorno della sentenza di primo grado del processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, è partita la contraerea. Di Matteo ha così argomentato, in merito alla condanna di Marcello Dell'Utri: «Oggi la correlazione con Cosa Nostra non riguarda il Silvio Berlusconi imprenditore ma il Silvio Berlusconi politico». Il magistrato, nell'intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha proseguito: «Dell'Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa Nostra e l'allora governo Berlusconi, che si era da poco insediato». Forza Italia ha annunciato querela, ma quello che desta maggiore sospetto nell'intemerata dell'eroe della trattativa è, appunto, il tempismo. Berlusconi nella stessa giornata aveva stroncato ogni ipotesi di accordo tra il centrodestra e il M5s. E Di Matteo, che per molti sarà pure una specie di santino, di certo non è imparziale. L'amore con i 5 Stelle, dopo anni di abboccamenti reciproci, scoppia ufficialmente a fine maggio del 2017. Il pm della trattativa, sostituto alla Direzione Nazionale Antimafia, va a Montecitorio e partecipa al convegno organizzato dai deputati del Movimento sulle «visioni e questioni della giustizia». Nel parterre ci sono anche Marco Travaglio, giornalista preferito dei grillini, e Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite che Beppe Grillo voleva addirittura come candidato premier. Già allora si parlava di Di Matteo come del possibile Ministro dell'Interno del governo a 5 Stelle. Lui si schermiva: «L'impegno in politica di un pm non mi scandalizza». E a chi gli domandava se volesse sedersi sulla poltrona del Viminale non rispondeva. Né conferme né smentite. Ma si dice che l'operazione non gli dispiacesse affatto. Nel frattempo l'eroe, dopo la dipartita di Antonio Ingroia, a Palermo ha continuato ad occuparsi del processo sulla trattativa. E, all'inizio di novembre dell'anno scorso, ha convinto la Procura di Firenze a riaprire il procedimento sulle stragi del '92-93. Per la toga amica dei 5 Stelle toccava ripartire dalle dichiarazioni del pentito Giuseppe Graviano, che parlavano di Berlusconi come del «mandante» di quelle bombe. Ma la fedeltà grillina e l'ossessione per il Cav non sono bastate per la scalata al Viminale o al Ministero della Giustizia. Luigi Di Maio, nella sua squadra di ministri, ha indicato, rispettivamente, per i due dicasteri la criminologa dell'Università Link Campus Paola Giannetakis e il fedelissimo avvocato siciliano Alfonso Bonafede. Però Di Matteo non ha abbandonato il campo dell'impegno tra le fila pentastellate. Il 7 aprile scorso, a Ivrea durante la kermesse organizzata da Davide Casaleggio, l'intervento del pm è stato tra i più applauditi. In quell'occasione Di Matteo aveva parlato di un «patto tra Berlusconi e la mafia durato 18 anni». Standing ovation del pubblico. Dallo stesso palco la star giudiziaria del M5s si era fatta portavoce del programma di Di Maio sulla giustizia. Dagli «agenti provocatori» anti corruzione fino «all'ampliamento dell'uso delle intercettazioni». Insomma, niente di nuovo sotto le 5 stelle.

Stato-Mafia, sulla trattativa di governo irrompe quella con Cosa nostra, scrive il 21 Aprile 2018 Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Non è solo una decisione storica striata di politico, ammettiamolo. Non è soltanto una bomba sganciata al cuore aritmico delle istituzioni, alla sacralità del «corpo dello Stato», la sentenza della Corte di Assise di Palermo che condanna, assieme ai mafiosi, gli ex vertici del Ros e Marcello Dell' Utri, protesi extraparlamentare di Berlusconi (e che quindi, per sillogismo, condannerebbe moralmente pure Berlusconi...). Dopo anni di processi e migliaia d' imputati, di cadaveri, di fascicoli e riesami, la consacrazione giudiziaria della trattativa Stato/mafia non dà solo corpo a «ai rapporti esterni della mafia con le istituzioni negli anni delle stragi sotto i governi Ciampi e Berlusconi». No. Essa, oggi, letta in controluce, assume quasi la funzione di grimaldello per scardinare lo stallo tra Lega e Cinque Stelle nella formazione del nuovo governo. Quasi un'accelerata, dal tempismo innaturale, per eliminare del tutto Berlusconi dalla pochade delle consultazioni con la coda fra le gambe. Basta scorrere i commenti del Movimento.

«La trattativa Stato-mafia c' è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità», twitta Luigi Di Maio. Ed ecco che gli si accodano gran parte dei Cinque Stelle che contano. Riccardo Fraccaro dice: «Dell' Utri fece da tramite tra Cosa nostra e Berlusconi: politicamente è una pietra tombale sull' ex Cavaliere.

Ora Salvini decida». Carlo Sibilia scrive: «Berlusconi è una persona che deve sparire dalla scena politica nazionale».

Di Battista rincara: «Ora il Caimano sarà ancora più nervoso. Il suo sistema di potere gli sta franando sotto i piedi...».

E il tutto può esser interpretato sia come un invito affinchè la Lega si mondi dal peccato originale arcoriano; sia, soprattutto, come un sotterraneo sostegno a smuoversi verso il Pd. Se la lettura politica della sentenza si basa su una temperie di ammicchi e percezioni, quella giudiziaria è una mazzata. Gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni sono stati condannati a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. A 12 anni, per lo stesso reato, è stato condannato l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell' Utri; a 28 anni, sempre per minaccia a corpo politico dello Stato, il capo mafia Leoluca Bagarella. Per lo stesso reato dovrà scontare 12 anni il boss Antonino Cinà. Otto anni all' ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, per le stesse imputazioni. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo - che con ambigue rivelazioni nel 2008 riaprì il caso che era già stato archiviato per ben due volte- già accusato in concorso in associazione mafiosa e calunnia dell'ex capo della polizia De Gennaro, si è beccato 8 anni. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Assolto, invece (l'unico) dall' accusa di falsa testimonianza l'ex ministro Dc Nicola Mancino, la cui intercettazione con l'ex Presidente Giorgio Napoletano fu oggetto di burrascose polemiche. Oggi la trattativa Stato/mafia è comunque stata acclarata.

E questo nonostante lo scenario storico-politico sia completamente cambiato rispetto rispetto agli anni 90, quando la miccia s' era accesa. Una miccia lunga. Antonio Ingroia, l'ideatore del teorema giudiziario sulla trattativa dello Stato con i boss non è più pm, è diventato un aspirante politico poi trombato e successivamente indagato egli stesso. Il suo successore, il pm Nino Di Matteo, si è trasferito alla Dna a Roma; ed è -guarda caso- considerato un potenziale ministro della Giustizia da molti grillini. I principali imputati boss, Bernardo Provenzano e Totò Riina, sono defunti. Inoltre esistono comunque delle sentenze a latere che ne avevano smontato l'impianto accusatorio: quella, per stralcio, dell'ex ministro Calogero Mannino; o quella del generale Mori, per la mancata cattura di Provenzano. E, se vogliamo, ci sono pure le sentenze di condanna, come quelle che sbugiardano, appunto, il teste chiave, Massimo Ciancimino. Ciononostante, fermo restando che la legge è legge, la tempistica rivela quasi un'efficienza inusitata per la giustizia italiana...di Francesco Specchia

Palermo, trattativa Stato-Mafia parla Mancino: «Nessun accordo, ho detto la verità», scrive Lunedì 16 Aprile 2018 "Il Messaggero". La sentenza è attesa per la fine di questa settimana. Oggi però, nel corso dell'ultima udienza, ha preso la parola l'ex ministro Nicola Mancino. Si è rivolto alla corte d'assise di Palermo che dovrà emettere la sentenza e ha ripetuto quel che da sempre va dicendo: lui la mafia l'ha combattuta senza arretrare mai. Mancino è l'unico imputato del processo sulla cosiddetta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra a rivolgersi ai magistrati prima della camera di consiglio che deciderà le sorti del dibattimento. «Ho sofferto in tutto questo periodo e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità», dice respingendo l'imputazione per cui è finito a giudizio: l'avere mentito davanti ai giudici che processavano il suo attuale coimputato, il generale Mario Mori, per favoreggiamento al boss Bernardo Provenzano. Un giudizio «clone» rispetto a quello in corso sulla trattativa conclusosi con l'assoluzione dell'ufficiale. Il reato che si contesta a Mancino e per cui i pm hanno chiesto la condanna a 6 anni è dunque la falsa testimonianza. Altra cosa rispetto alla minaccia a Corpo politico dello Stato e al concorso in associazione mafiosa contestate agli altri imputati: i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, Massimo Ciancimino, Marcello Dell'Utri, il pentito Giovanni Brusca e gli ex vertici del Ros. Mancino avrebbe detto il falso, negando che l'allora Guardasigilli Claudio Martelli, già nel '92, gli avesse accennato ai suoi dubbi sull'operato dei carabinieri di Mori e sui suoi rapporti con l«ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. «​Non ne abbiamo mai parlato»​, ha sempre detto Mancino, smentendo il collega di governo. «​E non capisco perché tra me e Martelli si debba credere a lui»​, ribadisce oggi. In effetti sulla discordanza tra le testimonianze un tribunale si è già pronunciato, sollevando dubbi forti sulla ricostruzione dell'ex Guardasigilli. Ma questo non è bastato a  salvare l'ex ministro dell'Interno messo, secondo i pm, alla guida del Viminale perché fautore di una linea più soft verso la mafia rispetto al suo predecessore Vincenzo Scotti. Una scelta che, per l'accusa, rientrava tutta nella trattativa intavolata dallo Stato, tramite il Ros di Mori, e fatta di concessioni e impunità ai boss in cambio della fine della stagione stragista. Su un punto, però, Mancino accenna a un'autocritica: a posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D'Ambrosio. Ma ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica, spiega ai giudici ricordando le conversazioni intercettate con l'ex consigliere giuridico del Colle in cui l'ex ministro cercava di evitare il confronto, chiesto dalla Procura, con Martelli. Intercettazioni che, secondo l'accusa, proverebbero il timore di Mancino nell'affrontare davanti al tribunale l'ex collega. «​Per me era un confronto inutile - spiega però - E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l'avocazione dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ma solo il coordinamento dell'azione delle sei procure coinvolte nell'indagine. C'era troppa confusione: basta pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla Procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta»​. Subito dopo la difesa di Mancino la corte entra in camera di consiglio. L'accusa si era congedata con una polemica finale con le difese e i toni tenuti durante le arringhe. Ma gli avvocati non replicano. Il verdetto è atteso nei prossimi giorni: per la procura sarà presente anche Nino Di Matteo, pm storico del processo ora in Dna.

Stato-mafia. Martelli. Condannato chi arrestò Totò Riina, scrive il 21 aprile 2018 agenpress.it. “Sono contento per Mancino assolto, ma non comprendo una responsabilità così grave in capo ai vertici del Ros, giudicata in precedenza in modo totalmente difforme dallo stesso Tribunale di Palermo. Un rompicapo pirandelliano generato da giudizi difformi. Sembravano più robusti gli elementi nell’accusa di aver lasciato libero Provenzano, o non aver perquisito il covo di Riina, ossia un accordo in cambio di sconti di pena o dell’impunità”. Lo dice al Messaggero Claudio Martelli, all’epoca della trattativa Stato-mafia ministro della Giustizia, per il quale è singolare che siano state “rimosse le responsabilità politiche” e riconosciuto il dolo dei vertici del Ros. “Gli ufficiali dei carabinieri condannati sono gli stessi che hanno guidato l’arresto del capomafia per eccellenza, Riina. Suscita sgomento assiemare i birri e gli sbirri, direbbe Manzoni, e solleva interrogativi e perplessità”. Il loro comportamento, afferma, “fu poco chiaro, scorretto. Mai però li ho considerati ufficiali felloni. Ho pensato a un eccesso di potere nello sviluppare indagini in proprio, nel cercare coperture politiche dal ministero della giustizia o dal presidente della commissione parlamentare antimafia Violante, nel non riferire alla Dia, ai magistrati. Mai però ho immaginato che quel comportamento configurasse un reato così grave. Quale sarebbe il corpo politico dello Stato sottoposto a minacce o violenza?”.

Claudio martelli in difesa dei vertici del ros: sono state rimosse le responsabilità politiche, scrive il 21 aprile 2018 Marco Ventura per “il Messaggero”. «Gli ufficiali dei carabinieri condannati sono gli stessi che hanno guidato l’arresto del capomafia per eccellenza, Riina. Suscita sgomento assiemare i birri e gli sbirri, direbbe Manzoni, e solleva interrogativi e perplessità». Per Claudio Martelli, all’ epoca ministro della Giustizia, è singolare che siano state «rimosse le responsabilità politiche» e riconosciuto il dolo dei vertici del Ros. Il loro comportamento «fu poco chiaro, scorretto. Mai però li ho considerati ufficiali felloni. Ho pensato a un eccesso di potere nello sviluppare indagini in proprio, nel cercare coperture politiche dal ministero della giustizia o dal presidente della commissione parlamentare antimafia Violante, nel non riferire alla Dia, ai magistrati. Mai però ho immaginato che quel comportamento configurasse un reato così grave. Quale sarebbe il corpo politico dello Stato sottoposto a minacce o violenza?»

Il governo?

«Quale governo? L’accusa al governo Andreotti regge poco, Mannino è uscito assolto dallo stralcio di processo, e già era paradossale accusarlo di violenza o minaccia all’esecutivo di cui faceva parte. Sono contento per Mancino assolto, ma non comprendo una responsabilità così grave in capo ai vertici del Ros, giudicata in precedenza in modo totalmente difforme dallo stesso Tribunale di Palermo. Un rompicapo pirandelliano generato da giudizi difformi. Sembravano più robusti gli elementi nell’ accusa di aver lasciato libero Provenzano, o non aver perquisito il covo di Riina, ossia un accordo in cambio di sconti di pena o dell’impunità.»

Quali le responsabilità politiche rimosse?

«C’era una pista non trascurabile: le dichiarazioni di Conso, l’ex ministro della Giustizia che mi sostituì nel febbraio ’93, che forse in un eccesso di generosità, forse nell’ intento di non nascondersi chiamando in causa livelli più alti del suo, si assunse la responsabilità confessando d’ aver voluto dare un segnale di disponibilità all’ ala moderata di Cosa Nostra con la revoca a centinaia di mafiosi del regime carcerario del 41bis».

Due pesi e due misure, verso il Ros e verso i politici?

«Mannino era uscito dal processo, Conso è morto, né si può intentare un processo alla memoria di Scalfaro, se ne occuperanno semmai gli storici».

Perché Scalfaro?

«Ci sono alcuni episodi, dalla sostituzione di Scotti con Mancino ministro dell’Interno a quella improvvisa di Niccolò Amato direttore degli Affari penitenziari con un uomo segnalato a Scalfaro dai cappellani delle carceri. Lui li convoca, loro si lamentano della durezza di Amato, lui chiede il nome di un magistrato che lo sostituisca, lo si individua, e Amato viene rimosso. Colpisce che il Presidente si occupi di questo. E che la strategia rigorosa mia, di Scotti e di Falcone, stroncare cupola ed esercito della mafia, sia stata interrotta, il che non ha impedito poi l’arresto di tutti i latitanti… Difficile che Conso, grande giurista ma non esperto di lotta a Cosa Nostra, da solo si fosse immaginato lo stop alle stragi attraverso il 41bis. E che avesse coscienza già nella primavera 93 che esistevano due linee nella Cupola: Riina stragista, Provenzano trattativista».

E la condanna di Marcello Dell’ Utri?

«La sua responsabilità sembra arrestarsi al ’93, prima che il governo Berlusconi si insediasse. Di Maio la butta in politica e così rischia in realtà di buttarla in cagnara, aggiungendo veleni alla partita che si è aperta nel centrodestra. Non mi sembra che Berlusconi sia direttamente coinvolto.»

La verità qual è?

«C’ è stato un brusco cambio di strategia anti-mafia all’ indomani delle mie dimissioni, sapevano che la linea di Conso io non l’avrei mai perseguita anzi l’avrei denunciata. Però ho sempre parlato di responsabilità politiche, ho raccontato la visita del capitano De Donno alla vice di Falcone, Ferraro, in cui chiedevano cose che non dovevano chiedere: la copertura politica a un’indagine fatta in solitudine. Questo mi inquietò, chiesi spiegazioni, ne informai Borsellino, ma mai ho pensato che ci fosse dolo. Sull’altro fronte mi colpisce che le responsabilità politiche affiorate di tanto in tanto siano state tenute in non cale».

Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

È Stato contro la mafia. Chi era per la linea dura. Il caso di Scotti e Martelli, scrive Francesco Bechis su Formiche.net il 22 aprile 2018. Dalle rogatorie dei pm del processo "Stato-Mafia" emerge un volto (buono) della politica che nessuno vuole raccontare: il caso degli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli. La politica esce malconcia, ma non distrutta, dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui vertici dello istituzioni e delle forze armate si sarebbero ritrovati a scendere a patti con Cosa Nostra per porre fine alla stagione stragista del 1992-1993. Una sentenza di primo grado, che dunque lascia intatta la presunzione di innocenza degli imputati: è bene ricordarlo a chi, preso dall’euforia, ha dato per chiusa la fase processuale apertasi nel 2013. Se è giusto sottolineare l’impatto dirompente che la sentenza letta venerdì pomeriggio dal presidente della corte Alfredo Montalto avrà sullo scenario politico italiano, è altrettanto doveroso ricordare che non tutta la politica di quegli anni è finita sul banco degli imputati. Oltre all’ex ministro Nicola Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”, la chiusura della prima fase del processo lascia integra, fra le altre, la figura di due uomini di Stato protagonisti di quella stagione politica che a più riprese sono stati sentiti dai magistrati in questi anni: l’ex ministro dell’Interno democristiano Vincenzo Scotti e l’ex ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli. E in particolare gli atti, le dichiarazioni e le vicende politiche dell’attuale presidente della Link Campus sono state usate come supporto delle tesi accusatorie, confermando la totale estraneità di Scotti e Martelli ai fatti al vaglio dei pubblici ministeri. La lunga requisitoria dei pm ha fatto ampio ricorso alla vicenda pubblica di Scotti, che fu a capo del Viminale dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992. Significativi a riguardo alcuni stralci tratti dall’esposizione degli elementi accusatori da parte del pm Roberto Tartaglia il 14 dicembre del 2017 e del pm Nino Di Matteo il 15 dicembre e l’11 gennaio 2018. Secondo l’accusa tre sono i passaggi che provano la ferrea volontà dell' “asse Scotti-Martelli” nella lotta senza compromessi contro la mafia. Il primo consiste nel “cambio di passo” impresso da Scotti alla politica di contrasto alla criminalità organizzata una volta ottenuto l’incarico agli Interni. Spiega Tartaglia il 14/12: “Cosa Nostra vede in questi tre soggetti e in questi tre poli (Scotti, Martelli, Falcone), l’emblema, l’immagine del cambiamento dell’azione politica […]”. Un cambio di passo che prese forma in una serie di iniziative concrete. Decisivo, ha spiegato Tartaglia, fu il decreto legge n. 60 del 1 marzo 1991 che delegava all’ “interpretazione autentica” del governo il calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare. Un intervento che rimise in carcere 43 imputati mafiosi del maxi-processo che meno di un mese prima erano stati liberati dopo una condanna di primo grado e che il pm nella requisitoria definisce “un segnale devastante per le aspettative di Cosa Nostra”. Rilevanti nella lotta alla mafia furono due riforme giudiziarie introdotte dall’allora guardasigilli: la regola della turnazione nei ricorsi di mafia in deroga del principio di competenza per materia, e infine l’introduzione, il 15 gennaio del 1993, del 41-bis, il regime carcerario duro per i mafiosi la cui paternità ancora oggi Martelli rivendica con orgoglio. Poi il secondo passaggio della requisitoria che sottolinea la linea di fermezza del ministro Scotti con il crimine organizzato: si tratta delle sue prese di posizione pubbliche durante il mandato, dove non mancò mai di mettere al corrente l’opinione pubblica e gli organi dello Stato di un piano “sovversivo” di Cosa Nostra. Riecheggiano ancora oggi le dure parole del titolare del Viminale, a pochi giorni dall’omicidio di Salvo Lima, in un’audizione parlamentare del 17 marzo 1992: “Oggi, dopo questo omicidio, siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni ma a piegarne gli apparati ai propri fini, a condizionarli”. Preoccupazioni ribadite il 20 marzo successivo davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”. L’allora premier Giulio Andreotti definì “una patacca” l’allarmismo del suo ministro, scatenando involontariamente un polverone mediatico che non fu privo di strumentalizzazioni. A dare ulteriore conferma della rettitudine dell’operato di Scotti e Martelli, secondo i pm del processo sulla “trattativa”, ci sarebbe infine la tesi del “golpe bianco”. Nella requisitoria dello scorso 11 gennaio il pm Nino Di Matteo sostiene che la “prima condizione essenziale nel 1992 per portare avanti la linea del dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dalla titolarità del Viminale”. L’avvicendamento del ministro dell’Interno con Nicola Mancino nel giugno 1992, che portò Scotti alla guida della Farnesina (su indicazione del presidente della Dc Ciriaco De Mita) mentre Giuliano Amato entrava a Palazzo Chigi, fu letto da molti come un promoveatur ut amoveatur. Anche l’uscita di Martelli dal Ministero della Giustizia nel febbraio del 1993 attirò gli stessi sospetti. Di Matteo è sicuro che non si è trattato di due semplici avvicendamenti: il pm palermitano l’11 gennaio ha affermato che è stata messa in atto piuttosto una strategia per “liberarsi di chi della contrapposta linea del rigore e delle intransigenza aveva fatto la sua bandiera e lo aveva dimostrato con i fatti”. Chiamato a parlare davanti alla Corte d’Assise di Palermo, Martelli in questi anni ha confermato la tesi della “rimozione forzata” del 1993, dovuta soprattutto, a suo parere, all’introduzione del 41-bis. Scotti invece ha preferito una linea di maggior riserbo, pur avendo manifestato davanti ai giudici le sue perplessità su quel cambio di vertice al Viminale.

Trattativa Stato mafia, anomalo riferimento a Berlusconi nella sentenza, scrive il 21 aprile 2018 Affari Italiani. "Marcello Dell'Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi": così i giudici della corte d'assise, nel dispositivo della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, "circoscrivono" la responsabilità penale di Marcello Dell'Utri. L'ex senatore di Forza Italia, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato condannato a 12 anni. Un dispositivo ritenuto dagli addetti ai lavori "anomalo" perchè la corte non si limita a un riferimento temporale "dopo il '93", ma fa espressamente riferimento a Berlusconi. Anomalia ancora più evidente se si ritiene che per gli altri imputati, i vertici del Ros, condannati per lo stesso reato nel lasso temporale precedente al '93 la formula cambia. E manca completamente il riferimento specifico al premier in carica all'epoca. E tra i politici di Forza Italia c'è chi grida alla sentenza politica, sottolineando la vicinanza tra il pm Di Matteo e il M5s. 

Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi. L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi, scrive Luca Fazzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia. Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare. Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale. Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu » Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine. Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo? Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno», commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni. Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzano polizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza. E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.

"Con me al Viminale li catturammo tutti. Salvini non cada nella trappola del fango". L'ex ministro: "Illazioni ridicole. Berlusconi alla mafia ha fatto un c...o così", scrive Giannino Della Frattina, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". «Trattativa con la mafia? Il governo Berlusconi alla mafia ha fatto un culo così. Che ancora se lo ricordano. Mi scusi il francesismo».

Presidente Roberto Maroni, lei è stato due volte ministro dell'Interno e la prima proprio in quel 1994 toccato dalla sentenza della corte di Assise di Palermo.

«Un primo grado. Aspetterei prima di parlare di teorema confermato».

Cosa ha provato sentendo una sentenza che accusa lo Stato di essere sceso a patti con Cosa Nostra?

«Prima la gioia per l'assoluzione di Nicola Mancino, mio predecessore al Viminale. Un galantuomo».

Mai avuto dubbi?

«Arrivato al ministero mi sono fatto portare dal direttore del Sisde Domenico Salazar i dossier. C'erano quelli sui partiti, quello sulla Lega Nord. E ce n'era uno anche su Mancino».

Il ministro dell'Interno dossierato dai servizi?

«Si figuri se poteva essere lui al centro di una trattativa con la mafia».

Non ha avuto alcun sentore di possibili accordi. Del famoso «papello» con le richieste di Totò Riina?

«Lo escludo. Il capo del Sisde e poi della polizia era Vincenzo Parisi, un uomo che mai avrebbe permesso una cosa simile. Un maestro per me».

Perché è così sicuro?

«Veniva ogni mattina al ministero e quando parlavamo di mafia voleva che scendessimo in giardino. Non c'erano le intercettazioni di oggi, ma lui diceva che era meglio così».

E Berlusconi?

«Garantisco che non solo non si è mai permesso di ostacolare il mio lavoro, ma anzi mi ha sempre spronato a combattere la criminalità organizzata».

All'arresto del camorrista Antonio Iovine nel novembre del 2010, lei parlò di 6.754 mafiosi in manette con il governo Berlusconi con un incremento del 34 per cento.

«Non solo, noi arrestammo 28 dei 30 latitanti più pericolosi».

Quindi non ci fu indulgenza?

«Di più, fummo noi a far diventare legge la proposta di Giovanni Falcone per colpire la mafia nei patrimoni. Oltre 35mila beni sequestrati o confiscati».

Come?

«Prima i beni venivano sequestrati ai mafiosi in quanto pericolosi. Ma in caso di morte o intestazione ai nipotini (come succedeva speso), tutto tornava agli eredi. Noi abbiamo separato la misure di prevenzione personali da quelle patrimoniali. E ha funzionato».

Fu Pietro Grasso, in altri tempi, a chiedere «un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia».

«Mi ha fatto piacere perché le misure di aggressione ai patrimoni mafiosi le ho introdotte io: l'Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati e il Fug, il Fondo unico giustizia che con i soldi della criminalità aiuta le vittime e i testimoni di giustizia».

Importante.

«Abbiamo consegnato alle forze dell'ordine le auto sequestrate. Sa cosa significa polizia e carabinieri in un quartiere mafioso con la macchina che fino al giorno prima era del boss?».

Berlusconi la incitava alla lotta alla mafia o le diceva di frenare?

«Ogni mese facevo una relazione al consiglio dei ministri. E quando nel '94 Berlusconi presentò il governo al senato, io non c'ero e la sinistra mi criticò».

Come mai?

«Ero in Sicilia dove un sindaco aveva trovato una testa di vitello mozzata sulla porta di casa. Berlusconi mi disse di lasciar perdere il Senato e di andare lì. Era la prima volta che vedevano il ministro con il procuratore di Palermo che era Gian Carlo Caselli, i capi di polizia e carabinieri. Altro che trattativa».

Eppure c'è questa sentenza.

«Questi sono i fatti, non opinioni. Quelle le lascio ai professionisti dell'antimafia di Sciascia».

Ora quella trattativa entra in un'altra trattativa, quella per il governo.

«Lo scrivono i giornali, non vedo proprio come possa influire».

Sarà un appiglio per i 5 Stelle.

«Sono cose che danno fastidio, ma sono anni che si dice di Berlusconi e lui è sempre lì».

Il momento è cruciale.

«Io dico a Matteo Salvini di lasciar perdere tutto questo fango buttato in giro. Non cada nella trappola e mantenga salda la guida del centrodestra. Se questa alleanza scompare, a vincere saranno gli altri».

Avesse saputo di una trattativa Stato-mafia, l'avrebbe denunciata?

«Immediatamente».

"Il Cavaliere mi ordinò di attuare il carcere duro contro Cosa nostra". L'ex presidente del Senato: "Mafia colpita con il 41bis reso stabile e i sequestri dei beni", scrive Mariateresa Conti, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Altro che obbedire alle richieste del «papello» di Riina, prima tra tutte quella sull'abolizione del 41 bis, il carcere duro. Altro che avere favorito la mafia con i provvedimenti del governo, come accusa il pm Di Matteo. Renato Schifani, oggi senatore di Forza Italia ma in passato capogruppo e presidente del Senato azzurro, non ci sta. E ricorda, dal 41 bis reso definitivo dal centrodestra alle norme sui sequestri dei beni ai mafiosi. Tutte leggi promosse da Berlusconi.

Senatore Schifani, si aspettava che il pm Di Matteo coinvolgesse Berlusconi nella trattativa Stato-mafia?

«Lo ritengo strumentale sotto il profilo politico e mediatico. Tra l'altro Berlusconi non è stato mai imputato né indagato in questo processo. Ed inoltre la sentenza Dell'Utri, definitiva, esclude ogni rapporto di Berlusconi e di Forza Italia con la mafia. Il pm Di Matteo, assiduo frequentatore di convegni Cinque stelle, si è lasciato andare a dichiarazioni più politiche che giudiziarie. Dando per scontata la colpevolezza di pezzi dello Stato e di Dell'Utri il pm dimentica che i livelli di giudizio sono tre e che quindi nessuna responsabilità penale è ancora acclarata definitivamente».

La condanna di Dell'Utri è pesante, pensa che potrà incidere sulla sua vicenda?

«Non è detta l'ultima parola. Attendiamo che la Cedu si pronunci sulla legittimità della sentenza definitiva di condanna, visto che il caso Dell'Utri è perfettamente assimilabile al caso Contrada, per il quale la Cedu ha stabilito che il concorso esterno non era definito giuridicamente prima del '94».

Berlusconi ha sempre rivendicato l'attività contro la mafia dei suoi governi...

«Per esperienza vissuta, ha ragione. Nel 2002, Dell'Utri era parlamentare e io capogruppo. Mi pervenne dal governo Berlusconi il ddl che prorogava di tre anni il 41 bis, il carcere duro. Sino ad allora si era andati avanti a proroghe, e queste ingeneravano aspettative nella mafia, se ne trova traccia nel papello di Riina. Mi confrontai con Berlusconi e gli chiesi se era d'accordo a trasformare quell'istituto in un modello permanente. Da lui ebbi immediato consenso e il provvedimento fu approvato, al Senato e alla Camera. Fu un passaggio delicato, ci rendevamo conto di cosa significasse per la mafia. In Berlusconi non trovai alcuna titubanza, al contrario ebbi il suo totale sostegno, soprattutto a me che ero siciliano».

Altri provvedimenti?

«L'inasprimento del sequestro dei beni. Nel 2008 abbiamo introdotto una norma più incisiva, che ci ha consentito di combattere la mafia aggredendola di più sui patrimoni. Il mafioso si vede profondamente ferito e colpito quando lo si priva dei beni. L'aggressione ai patrimoni è un'arma più efficace per indebolire il fenomeno mafioso. Il governo Berlusconi è stato coraggioso».

Come nacque?

«Era il 2008, da presidente del Senato ero intervenuto alla Festa della Polizia a Palermo. Nel mio discorso istituzionale avevo detto che ero pronto a recepire suggerimenti per il pacchetto sicurezza Maroni/Alfano. Al termine della cerimonia alcuni inquirenti mi segnalarono l'esigenza di intervenire sulla Rognoni-La Torre perché non si poteva intervenire su alcuni beni dei mafiosi, quelli ereditari e quindi legittimi in sostituzione di quelli illegittimi venduti a terzi. Chiesi un appuntamento all'allora procuratore antimafia Grasso che venne a trovarmi subito e mi disse che si poteva. Così preparai una bozza di emendamento e ne parlai con Berlusconi. Anche in questo caso, pieno via libera. Nacque così il sequestro per equivalente, che per me si chiama Silvio Berlusconi».

Grasso disse che i governi Berlusconi meritavano un premio speciale per le norme antimafia...

«Da Grasso ci dividono le idee politiche, ma fu corretto con noi, le nostre normative antimafia sono senza precedenti».

Questa sentenza è caduta nel mezzo delle trattative per il governo e qualcuno dice che ha favorito i grillini...

«Non cambia nulla. Forza Italia è orgogliosa della propria storia e del proprio leader. Di Maio ha sempre sostenuto di non volersi sedere al tavolo con Berlusconi, e quindi intende trarre dalla sentenza basso e strumentale profitto. Non ha vinto le elezioni e si è assunta la responsabilità di paralizzare il paese con i suoi giochetti da doppio forno. Il centrodestra resta unito perché questa è stata e sarà sempre la sua forza».

Dell’Utri senza scampo: deve morire in cella. Marcello Dell’Utri proprio due giorni fa è rientrato a Rebibbia, dopo due mesi di ricovero per effettuare la radioterapia a causa di un tumore alla prostata, scrive Valentina Stella il 21 Aprile 2018, su "Il Dubbio". «Siamo profondamente delusi e sorpresi: è una sentenza che non ci aspettavamo assolutamente perché eravamo sicuri di aver dimostrato che l’ipotesi accusatoria non aveva alcun fondamento», così ha commentato al Dubbio l’avvocato Francesco Centonze a pochi minuti dalla sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri, accusato di “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario” – art. 338 cp -, a 12 anni di carcere e all’“interdizione perpetua dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena” nel processo sulla Trattativa Stato Mafia. Dell’Utri, secondo l’accusa, si sarebbe fatto “portavoce” delle minacce mafiose presso il governo Berlusconi. «Noi ritenevamo – prosegue il legale – di aver dimostrato contro ogni ragionevole dubbio l’assoluta innocenza di Dell’Utri in questa vicenda. Siamo ansiosi di leggere come i giudici motiveranno questa decisione. Ricorreremo ovviamente in appello». Come possiamo leggere nella memoria difensiva di quasi 300 pagine presentata dall’avvocato Centonze “la tesi della pubblica accusa della formulazione di una minaccia stragista da parte di Cosa Nostra non ha trovato alcun supporto nell’istruttoria dibattimentale. Nessuno dei testimoni della Procura ha mai fatto cenno a messaggi intimidatori da parte dell’organizzazione criminale a Dell’Utri e al Presidente Silvio Berlusconi”. Aspetto ancora più rilevante, evidenziato dalla difesa, è che “all’esito del dibattimento non c’è la prova che Mangano (lo stalliere di Arcore, ndr.) abbia incontrato Marcello Dell’Utri dopo aver ricevuto le indicazione da Giovanni Brusca (ex boss della mafia, poi divenuto collaboratore di giustizia, ndr.) e, anche ammesso che si siano incontrati, in ogni caso, non è stato dimostrato che Mangano abbia effettivamente trasmesso a Dell’Utri il messaggio minatorio”. Intanto Marcello Dell’Utri proprio due giorni fa è rientrato nel carcere romano di Rebibbia, dopo essere stato per circa due mesi ricoverato al Campus biomedico di Roma per effettuare la radioterapia a causa di un tumore alla prostata. Deve scontare ancora un anno e mezzo di detenzione per la condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La situazione giudiziaria alquanto complessa di Dell’Utri comprende al momento anche un ricorso pendente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo attraverso cui, in sintesi, si chiede di applicare quanto già deciso per Bruno Contrada, ossia l’annullamento della sentenza per concorso esterno in associazione mafiosa perché all’epoca dei fatti contestati a Contrada, così come a Dell’Utri, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Lo scorso marzo la seconda sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta aveva rigettato la richiesta di revisione di tale processo, decisione che i legali di Dell’Utri intendono impugnare in Cassazione. Probabilmente la pronuncia della Cedu arriverà dopo l’estate: se la richiesta dei legali venisse accolta l’Italia poi dovrebbe riconoscere l’eventuale accoglimento ottenuto in sede europea; considerando i tempi della giustizia si prevede che Dell’Utri dovrà scontare tutta la pena residua in cella.

Travaglio di bile. Il Fatto vuole dimostrare che Berlusconi è un "delinquente naturale". Ma anche il condannato Travaglio è delinquente, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 20/04/2018, su "Il Giornale". Se le dicono e se le cantano fra loro. Sul Fatto, sono sempre loro, Travaglio o Gomez. E adesso anche Gregorio De Falco. Questa volta Travaglio si è messo in testa di dimostrare che Berlusconi è un «delinquente naturale». Perché delinque, egli dice. Più o meno come lui, condannato a pagare 150mila euro per diffamazione degli onesti magistrati del processo Mori. Numerose sono le condanne di Travaglio. Per accusare Berlusconi, Travaglio e i suoi ricorrono spesso al tema della corruzione di un senatore. Se le sentenze che lo dimostrano sono quelle del caso De Gregorio, stiamo freschi. Conclusioni insensate, basate sulle dichiarazioni di un personaggio palesemente in contrasto con tutto quello che è agli atti del Senato. Ma è inutile dirlo: i Travaglio e i Gomez, innamorati del «delinquente naturale», non ascoltano e non verificano. Perché comprare un senatore che non era più di centrosinistra, non era più nel gruppo di «Italia dei valori», ma era passato, fin dal 2006 (due anni prima della caduta del governo Prodi), nel Gruppo misto, per stare con il centrodestra, che lo avrebbe nominato presidente della commissione Difesa del Senato? Basta leggere gli atti. Solo quando non le critica lui, per Travaglio le sentenze sono infallibili. E se dobbiamo ritenerle tali, anche il condannato Travaglio è delinquente, e per di più recidivo, e per di più contro magistrati. Insomma, l'altra faccia della medaglia di Berlusconi.

La trattativa Stato-mafia c’è stata, forse. E con questo? Scrive Rocco Todero il 21 Aprile 2018 su "Il Foglio". La storiografia più accreditata è da tempo concorde nel sostenere che durante la seconda guerra mondiale il Governo degli Stati Uniti chiese aiuto alla mafia, soprattutto a quella di New York, per tirarsi fuori dalla drammatica situazione che imperversava nello specchio delle acque territoriali americane dove i sottomarini tedeschi, con la probabile complicità di agenti segreti del loro servizio d’intelligence acquartierati dentro il porto della Grande Mela, imperversavano senza trovare ostacolo alcuno nell’affondare decine di navi destinate a trasportare aiuti per sostenere lo sforzo bellico d’Inghilterra e Francia contro Adolf Hitler. Le autorità militari, a torto o a ragione (questo ancora non è chiaro), erano persuasi del fatto che solo coloro che detenevano l’effettivo controllo del porto di New York avrebbero potuto fornire un fondamentale contributo per non rendere vani gli sforzi statunitensi contro l’aggressore tedesco. La trattativa coinvolse gente del calibro di Lucky Luciano, Meyer Lansky, Benjamin Siegel, Joe Adonis e Frank Costello, la cupola della più potente mafia americana allora in attività. I “mangia spaghetti” furono, inoltre, il canale d’informazione principale per l’organizzazione dell’operazione Husky, nome in codice con il quale fu identificato lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia nel luglio del 1943. Lucky Luciano e suoi “compari” riuscirono a fare in modo che i soldati a stelle e strisce trovassero la minore resistenza possibile nell’Isola e potessero beneficiare, già nel momento stesso in cui avessero messo piede sulle spiagge, di una rete di “picciotti” fidati capaci di descrivere a menadito, strade, postazioni nemiche, ed ogni sorta di anfratto. Per i servizi resi durante il conflitto bellico Lucky Luciano (assassino, sfruttatore di prostitute, commerciante di droga, estorsore e corruttore) fu liberato anticipatamente ed estradato in Italia grazie ad un provvedimento firmato da Thomas Edmund Dewey, il procuratore distrettuale della contea di New York che lo aveva fatto condannare ad un pena “non inferiore a 30 anni” qualche anno prima e che era poi divenuto Governatore di quello stesso Stato. Questo squarcio di storia del novecento racconta in tutta la sua drammaticità della fortissima tensione alla quale può essere sottoposto lo Stato di diritto nei momenti più difficili della vita delle liberal democrazie, soprattutto quando esse sono sotto attacco, allorché, cioè, praticare l’eccezione alla regola di diritto potrebbe rappresentare l’unica soluzione per salvare l’intero sistema della convivenza civile. Si tratta di una deviazione dall’ordinario, da quella che dovrebbe essere l’inviolabile regola del “governo delle leggi”, che conduce nel sentiero ambiguo, fosco, e discrezionale del “governo degli uomini”. Non vi è da parte dei rappresentanti del governo complicità col sodalizio criminale, né volontà di rafforzarne il potere e la struttura organizzativa, ma soltanto il desiderio di tentare di evitare mali maggiori in un contesto di grave debolezza istituzionale cui non è possibile porre rimedio repentinamente. Non si assiste nemmeno ad una sospensione della lotta fra il bene e il male, quanto più semplicemente all’individuazione di un pericolo di maggior rilievo da sventare in una situazione di grave svantaggio nei confronti del nemico che potrebbe preludere a guai ben maggiori. Dopo la liberazione di Lucky Luciano le autorità americane ripresero senza indugio la loro battaglia contro la malavita organizzata italoamericana e diedero filo da torcere per anni ad infinite schiere di boss e famiglie mafiose. A Palermo, invece, un Tribunale della Repubblica italiana ci ha fatto sapere che per gli ufficiali dei Carabinieri che avrebbero tentato (ammesso che così sia stato) di fermare la mattanza di politici, giudici, poliziotti ed inermi cittadini, fatti esplodere in aria e ridotti a brandelli sulle autostrade siciliane, in pieno centro cittadino a Palermo o in ogni altra parte d’Italia, può esserci solo il carcere. Nonostante la gravissima debolezza del corpo e dell’anima dello Stato in quei terribili mesi, resa evidente dal caos istituzionale e dalla incapacità di organizzare una risposta investigativa immediatamente idonea a mettere a riparo la vita di rappresentanti delle istituzioni e di ignari cittadini, malgrado il concreto pericolo che la Repubblica crollasse definitivamente sotto i colpi serrati della più spietata organizzazione criminale italiana mai vista, sebbene la lotta alla mafia quegli autori della trattativa non avrebbero poi mai smesso di continuare senza sosta alcuna, il tentativo di far riprendere fiato alle istituzioni democratiche deve essere considerato, secondo i pubblici ministeri ed i giudici della Corte, alla stregua di un crimine ingiustificabile. A nulla vale argomentare che il nemico ti aveva messo oramai il coltello alla gola e che avevi ritenuto necessaria una tregua (e non una resa) per riprendere le forze, non soccombere definitivamente e contrattaccare. A nulla vale sottolineare che anche la pubblica accusa in questo processo sulla presunta trattativa è consapevole che non ci fu mai, nemmeno per un momento, la volontà da parte dei rappresentati dello Stato di concorrere con la mafia nel disegno criminale portato avanti dai corleonesi per più di trent’anni. A nulla serve ricordare che la trattativa (ammesso ci sia stata) avrebbe permesso comunque di assestare un colpo micidiale al Capo dei capi e, da lì a qualche anno, all’intera organizzazione malavitosa. Il fanatismo, infatti, quello massimamente manicheo, quello assolutamente intransigente, quello disumano, ti spiega, con fare censorio e teatrale allo stesso tempo, che non avresti dovuto nemmeno parlare con il nemico (ammesso che tu lo abbia fatto), piuttosto avresti dovuto preferire farti ammazzare dopo avere assistito al disfacimento generale di quello che sarebbe rimasto dello Stato di diritto, soprammobile d’arredo, a quel punto, ad uso e consumo della mafia che avremmo voluto sconfiggere.

Trattativa Stato-Mafia: per sconfiggere il male è giusto trattare. Combattere un Antistato obbliga a infiltrarsi, a promettere e compromettersi. L'Antimafia si basa invece su assurde pretese di purezza. A Palermo i giurati erano indifesi su questo fronte delicatissimo. Ne è uscita una sentenza grillina, scrive Giuliano Ferrara il 2 maggio 2018 su "Panorama". La mafia è un'organizzazione criminale che fa politica, una rete collegata di gruppi territoriali e familiari che combina politica e crimine in mezzo a fumisterie iniziatiche e intimidenti lealtà sostenute dalla violenza. La mafia è grandi reati, piccoli reati, un Antistato medio di insubordinazione e di conformismo ideologico insieme, ruralità e urbanesimo spinti, è annidamento di quartiere, struttura per cosche, cupola dei capi.

Il contrasto è affidato alla legge, la legge è affidata in prima e decisiva battuta agli investigatori specializzati, ai magistrati e all'esecutivo, il governo e gli apparati della forza. Sapevano i giurati di Palermo, che vorrebbero mandare in carcere per sentenza politica i protagonisti del contrasto alla mafia, la consistenza di questi dettagli decisivi? No. Questo è il punto.

L'Italia irriconoscente contro il carabiniere che arrestò Riina. L'Italia unita fece morire Giuseppe Mazzini in clandestinità a Pisa, alla vigilia di un arresto, a Roma già liberata, nel 1872, dopo anni di esilio, elezioni cancellate a norma di legge, galera per il martire e profeta nel carcere militare di Gaeta. E Garibaldi morì nell'esilio autoimposto di Caprera. È un Paese che sa essere irriconoscente, che sa esercitare una sua spavalda ferocia verso i figli maggiori. Non è così strano, per quanto inaudito, che ora voglia tenere in galera per il resto della sua vita il carabiniere che arrestò Riina. Ma per quali ragioni? Purtroppo è tutto molto semplice. Combattere un Antistato vuol dire applicare regole di indagine, a partire dalla raccolta delle informazioni e dalla capacità di infiltrazione e scompaginamento del suo esercito, che discendono dalla cultura politica, gli eterni arcani del machiavellismo. Devi entrare nel male, se necessitato. Per sapere, devi promettere. Per promettere, devi comprometterti. Compromettendoti, in base a un disegno di destabilizzazione e divisione del nemico, sfiori la collusione. Puoi agire quanto vuoi e quanto puoi con i guanti del codice, con le regole della legge e le sue caratteristiche speciali, ma alla fine i risultati importanti si ottengono solo con la decisione politica, delegata al personale militare e della magistratura penale, quelli che poi arrestano il capo dei capi e decapitano la struttura delle cosche.

Per combattere la mafia si deve entrare nel male. Ecco. Il punto è che, se questi sono i termini della lotta titanica tra lo Stato e i suoi nemici, l'Antimafia si basa invece da sempre su un codice moralistico, sulla pretesa che il patto col diavolo, sebbene stipulato entro i confini dello Stato di diritto e del senso comune, sia espressione di purezza, di incorruttibilità di principio, di estraneità reciproca assoluta degli eserciti in guerra. Una pretesa assurda, che apre la via alla calunnia, alla maldicenza, allo spirito critico che tutto nega, e che nel suo travestimento moralistico è una diavoleria, la vera diavoleria. Tutti hanno parlato con i mafiosi, tra coloro che li dovevano combattere per nostro conto, su nostra delega, in nome dello Stato. Lo hanno fatto i Caselli, come i Mori, lo hanno fatto con mafiosi pentiti, con mafiosi interi, dovevano esaminare i margini, che sono sempre un argomento pericoloso, per scompaginare il fronte avversario, dovevano entrare nel male, nei confini di una "trattativa", per far cessare le guerre a suon di bombe, l'assassinio degli alti magistrati, l'eliminazione degli eroi. Avevano alle spalle non già il fantasma evocato per bassa propaganda politica di Berlusconi o Dell'Utri, avevano alle spalle personalità specchiate come Giovanni Conso, Carlo Azeglio Ciampi, e altri investigatori che hanno fatto la storia del contrasto alla mafia, come Gianni De Gennaro, che infatti è in cima alla lista dei calunniati dalla famosa "icona dell'antimafia" e del sistema dei media, quel Massimo Ciancimino alle origini di questo processo e di questa incredibile sentenza. Non potevano fare diversamente, se volevano dare un senso al loro dovere civile. Ma se in una prospettiva moralistica hanno "trattato" con la mafia, in una visione seria, responsabile, giuridica e politica nel senso più alto ed efficace del termine, hanno sconfitto la mafia nella sua stagione culminante, quella delle stragi. E con coraggio, intelligenza, lucidità. Altro che storie.

Una sentenza grillina colpevolista. Al centro di tutto stanno i media, che possono essere la scuola della virtù o il teatro della calunnia, il fomite del venticello che tutto travolge. I giurati di Palermo erano indifesi su questo fronte delicatissimo e decisivo. Dovevano funzionare come imparzialità della legge e del diritto, hanno funzionato come una branca dell'opinione pubblica, e di quella più disinformata, di quella indotta, carezzata e coccolata dalle leggende metropolitane e dai facilismi antimafiosi. Dieci anni di processo e un percorso dibattimentale segnato dalle "lotte", che sono il contrario della azione civile e militare di contrasto alla vera mafia, hanno portato alla formazione di un partito colpevolista che ha interagito con la politica, perfino con le elezioni, con il momentum, il segnacolo o bandiera dei tempi che corrono. Ne è uscita una sentenza grillina, che ha la stessa impronta del mandato d'arresto per Mazzini rifugiato clandestino nella casa di John Brown a Pisa e del bando al generale Garibaldi. Un inaudito pasticcio che solo in anni di dolore repubblicano verrà alfine sanato. Ma tardi. 

(Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Se per sconfiggere la mafia devo trattare, trattativa sia")

Una scommessa sul processo alla Trattativa Stato-mafia. In primo grado, condanna. Ma poi il verdetto verrà rovesciato in Corte d’appello, e alla fine per la Cassazione sarà assoluzione definitiva, scrive Maurizio Tortorella il 16 aprile 2018 su "Panorama". Stamattina la Corte d'assise di Palermo si è ritirata in camera di consiglio per stabilire il verdetto sul primo grado del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. I giudici devono decidere nei confronti dei nove imputati superstiti: boss di Cosa nostra, ex vertici del Ros e politici, accusati di avere tramato per uno scambio tra riduzione delle asprezze del trattamento carcerario riservato ai mafiosi e la fine della stagione delle bombe e delle stragi. Dopo oltre cinque anni di processo, un procedimento imbastito da magistrati dal forte impatto mediatico come Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale a Palermo, come Antonio Ingroia (poi ritiratosi dall’ordine giudiziario per dedicarsi a una sfortunata carriera politica) e come Nino Di Matteo, viene difficile credere che i giudici palermitani smonteranno l’impianto d’accusa. Più facile prevedere, cinicamente, che in Corte d’assise prevalga una sentenza di condanna, sia pure con qualche dubbio nelle motivazioni che seguiranno. I giudici di tribunale potrebbero così lasciare ai loro colleghi d’appello la patata bollente dell’assoluzione in punta di diritto: capita spesso, non sarebbe certo la prima volta…I dubbi, a dire il vero, ci sono tutti. E il principale è questo: si può forse accusare politicamente i carabinieri e i politici imputati di avere fatto passi (anche controversi e difficili) per cercare di bloccare l’escalation delle bombe e per mettere fine a un periodo tra i più drammatici nella storia d’Italia. Ma da qui a contestare loro un reato, uno specifico reato, ce ne passa. La tesi non è peregrina. È stata autorevolmente sostenuta da giuristi illuminati come Giovanni Fiandaca, per questo trasformati dall’antimafia giornalistica in reprobi da censurare. Resta il fatto che la tentazione di rileggere tutte le dinamiche storico-politiche italiane come se la loro chiave di volta fosse da trovare nell’influenza esercitata sempre e comunque da imperscrutabili e onnipotenti poteri criminali riflette una tendenza semplificatrice, frutto di una deformazione professionale, che è tipica della magistratura più impegnata sul fronte dell’antimafia. Scommettiamo?

Trattativa Stato-Mafia: le balle di Spatuzza. Mario Deaglio "rivela" che nel 1997 il killer pentito mise a verbale le sue accuse su Berlusconi e la mafia, e scrive che furono "riscontrate e secretate fino al 2015". Ma non è affatto così, scrive Maurizio Tortorella il 5 maggio 2018 su "Panorama". Il Venerdì di Repubblica rivela questa settimana un clamoroso scandalo giudiziario. L’articolo s’intitola, perentoriamente, “Affaire Stato-mafia, riassunto per i distratti” e racconta una storia pazzesca: che il processo sulla Trattativa Stato-mafia, appena conclusosi a Palermo, è stato fondamentalmente un errore, “un misto di grottesco e surreale” che ha spinto la giustizia su un binario morto, lontano dalla verità. E attenzione, perché l’autore dell’articolo è Mario Deaglio, uno che di cose di Cosa nostra s’intende parecchio. Deaglio, va detto, scrive veramente da Dio, è avvincente. Racconta di un’altra Trattativa tra mafia e politica, totalmente diversa e ben più suggestiva rispetto a quella dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Deaglio rivela che il vero depositario della verità, un pentito siciliano, fu ascoltato in carcere già nel 1997 da due alti magistrati. Il pentito raccontò loro fatti precisi e circostanziati sulle stragi del 1992-93, fatti che chiamavano in campo una precisa forza politica. Ai due alti magistrati, scrive Deaglio, il pentito raccontò “una storia terribile”. E cioè che “l’omicidio Borsellino l’aveva organizzato lui, e così le stragi di Roma, Firenze e Milano (…) Ad organizzare tutto – da un’idea di Marcello Dell’Utri, disse il pentito - era stata la famiglia mafiosa dei Graviano, socia in affari della Fininvest, per facilitare la neonata Forza Italia e per prendere il potere politico”. Che cosa accadde di quell’interrogatorio? Perché per 21 anni quella “storia terribile” è stata tenuta nascosta? Tuffandosi nell’ennesimo mistero d’Italia, Deaglio aggiunge che “tutte quelle rivelazioni vennero riscontrate (cioè verificate e trovate vere, ndr), ma secretate (cioè poste sotto il segreto investigativo, ndr). Solo nel 2015 l’opinione pubblica venne informata del caso, invero piuttosto imbarazzante, ma la questione non suscitò il minimo interesse”. Grande storia, davvero. Però… è meglio fare un po’ d’ordine. Il pentito di cui scrive Deaglio è più che noto alle cronache ed è tutt’altro che un uomo nascosto, o che non ha avuto modo di raccontare quelle presunte “verità”: è Gaspare Spatuzza, uno dei più tardivi e controversi collaboratori di giustizia dell’era moderna. Spatuzza, va detto, ha una storia che veramente travalica il più cupo dramma shakespeariano: accusato di sei stragi e 40 omicidi, ha collezionato numerosi ergastoli e ora si redime avvolgendosi in una specie di crisi mistica. Tra i suoi delitti c'è il peggio della cronaca nera siciliana degli ultimi decenni: dall'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino che fu sciolto nell’acido, all’omicidio di Don Pino Puglisi, fino alla partecipazione alla strage di Paolo Borsellino e della sua scorta. Malgrado questo mostruoso curriculum, Spatuzza è stato però in qualche modo riscattato dalle cronache nostrane. Non perché si sia convertito alla religione, ma perché, dopo essersi pentito nel 2008, ha dichiarato che, creando Forza Italia, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri si trasformarono nei nuovi referenti della mafia nella Seconda Repubblica. Spatuzza ha raccontato anche che le stragi del 1992-93, così come il mancato eccidio all’Olimpico di Roma del 1994, furono di fatto concordate con i vertici di Forza Italia (che in realtà ancora non esisteva): insomma, le stragi mafiose sarebbero state un “favore” nei confronti del partito nascente contro la vecchia guardia politica della Prima Repubblica, che veniva costretta a ritirarsi. Sempre secondo Spatuzza, in cambio Cosa nostra avrebbe avuto il suo nuovo referente politico in Berlusconi e nei suoi accoliti. Il problema è che Deaglio sul Venerdì scrive che Spatuzza consegnò già nel 1997 tutte queste presunte “verità” alla giustizia. E per le sue rivelazioni scelse personaggi di prim’ordine: “Convocò l’allora procuratore antimafia Piero Luigi Vigna e il suo vice Pietro Grasso” scrive Deaglio. Il problema, aggiunge il giornalista, è che “tutte quelle rivelazioni vennero riscontrate, ma secretate”, restando così inutilizzate per troppo tempo. Insomma, insiste Deaglio: c’è stata una vera Trattativa Stato-mafia totalmente diversa da quella di cui abbiamo letto finora; e anche la sentenza di Palermo di due settimane fa “non avvicina ad alcuna verità”.  Perché purtroppo, “la narrazione alternativa sulle stragi, fornita 21 anni fa ai vertici della magistratura italiana, si è intanto persa per strada”. Eppure le cose non stanno proprio così. E anche la storia è un po’ diversa, a partire da alcuni dettagli importanti: l’interrogatorio, infatti, si svolse non nel 1997, ma nel giugno 1998; e Spatuzza non “convocò” affatto i due alti magistrati antimafia, perché furono loro ad andare a sentirlo nel carcere dell’Aquila. Spontaneamente. Ma, soprattutto, il verbale di Spatuzza non fu affatto “secretato”. Né fu nascosto all’opinione pubblica, al contrario di quanto scrive Il Venerdì, ferendo così la memoria di un ottimo, grande magistrato nel frattempo deceduto (Vigna) e anche il buon nome di chi fu il suo successore a capo della Procura nazionale antimafia (Grasso), per poi essere eletto presidente del Senato della Repubblica. In realtà non fu nemmeno stilato un verbale. Perché quello con Spatuzza, in quel momento ancora non collaboratore di giustizia, non fu un normale interrogatorio in carcere, bensì un “colloquio investigativo”. La differenza non è da poco: il “colloquio investigativo” (un contatto con magistrati della Procura nazionale antimafia che per esempio può servire a convincere un mafioso a collaborare con la giustizia) è infatti un atto estraneo alla normale procedura penale. Il colloquio si svolge senza difensore e in modo informale, e se anche viene registrato ne è esclusa la verbalizzazione. Per tutto questo, correttamente, la legge proibisce che gli elementi raccolti in quel modo possano essere utilizzati in ambito processuale. Questo è il vero motivo per cui quel colloquio del giugno 1998 non è mai stato usato in un’aula di giustizia: non perché “fu secretato”, come scrive Deaglio, ma solo perché la legge vieta espressamente che atti di quel genere siano utilizzabili in giudizio. Quanto al contenuto di quel colloquio, vale soltanto la pena di ricordare che le presunte “rivelazioni” di Spatuzza su presunti accordi tra la mafia e Berlusconi sono state ripetute molte altre volte in varie aule di giustizia, ma sono anche state giudicate “infondate”. È stato così soprattutto nelle motivazioni della sentenza (19 novembre 2010) con cui i giudici della seconda sezione della Corte d'appello di Palermo hanno confermato la condanna di Marcello Dell'Utri a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Un capitolo delle motivazioni di quella sentenza è dedicato proprio a Spatuzza, descritto come "uno dei più attivi protagonisti della strategia stragista": le sue dichiarazioni sono state tacciate dai giudici della Corte d’appello di Palermo come "tardive e inattendibili”, oltre che contraddette “dall’assoluta mancanza di qualsivoglia riscontro”. Scrivono i giudici di Spatuzza: “S’impone pertanto di ritenere il contributo che egli ha offerto nel processo sostanzialmente inconsistente, oltre che privo di significativa rilevanza e valenza probatoria”. Già. A volte servirebbe proprio un riassunto per i distratti…

"Sentenza Trattativa, Stato fallito che non protegge i suoi servitori", scrive il 21 Aprile 2018 la Redazione de La Pressa. Stefano Parisi, segretario di Energie per l’Italia: "Politicizzazione del pm Di Matteo, fanno di tale caso uno dei punti più bassi del nostro stato di diritto". “È incredibile come si possa gioire della sentenza di Palermo che condanna dei servitori dello Stato che hanno arrestato Totò Riina e, con la loro azione, inferto dei colpi durissimi alla mafia. Uno Stato che non protegge i suoi servitori è uno Stato fallito. A supporto di questa sentenza non ci sono prove ma solo dichiarazioni di pentiti la cui totale assenza di credibilità è stata già provata”. Lo ha scritto su Facebook Stefano Parisi, segretario di Energie per l’Italia commentando la sentenza di Palermo che condanna Mori e De Donno. Parisi aggiunge: “La spinta mediatica intorno alla presunta trattativa Stato-mafia, la forte ed esplicita politicizzazione del pm Di Matteo, fanno di questo caso uno dei punti più bassi del nostro stato di diritto. I leader politici che in queste ore esultano rappresentano il dramma ultimo che sta vivendo il nostro Paese. Che il neoeletto presidente della Camera dei deputati inneggi a questa sentenza è senza dubbio un fatto molto grave a cui il Parlamento dovrebbe dare una risposta chiara a difesa della nostra democrazia e dello stato di diritto”.

Un amaro processo, la guerra alla mafia. Perché le coscienze non possono tacere, scrive Marco Tarquinio sabato 21 aprile 2018 su Avvenire. "Gentile direttore, quando le armi urlano le coscienze tacciono e, quando la coscienze tacciono, non esistono più né regole né onore ma solo eroi. Me lo diceva sempre mio nonno, combattente in Africa durante la Seconda guerra mondiale, ogni qual volta gli confidavo di voler fare il carabiniere. Ciò, in un periodo in cui più che mai la mafia sparava, metteva le bombe e uccideva innocenti. Poi, un giorno mi sono ritrovato “in guerra” e, solo allora, ho capito che cosa mio nonno volesse dire. Apprendo con grande rammarico della condanna del generale Mori e degli altri carabinieri che hanno operato in contesti in cui «le coscienze erano atterrite dall’urlo delle armi e regole ed onore erano prerogativa solo degli eroi». Di questa storia non posso e non voglio giudicare i fatti e neppure le “carte”, che non conosco, sono sicuro, però, che a volte le carte dicono cose diverse rispetto ai fatti. Così, mi viene ancora in mente un’altra cosa che mio nonno ogni tanto ribadiva: «Nipotino mio, quando sei in guerra e combatti veramente, ti possono succedere solo cose brutte, puoi morire, rimanere ferito o, se proprio sei “fortunato”, essere fatto prigioniero. La differenza però è che, se muori o rimani ferito, indipendentemente da come è successo, vieni ricordato come un eroe, se invece ti fanno prigioniero, rimani semplicemente uno che si è arreso». Io so che il Generale e gli altri carabinieri, dopo lunghi anni di “guerra” alla mafia, stanno ancora combattendo per non essere fatti prigionieri, ai posteri giudicare chi è stato il loro vero nemico, se lo Stato o la mafia. Vincenzo Drosi, maresciallo dei Carabinieri in congedo".

È davvero emozionata ed emozionante, gentile maresciallo Drosi, questa sua lettera sulla prima sentenza nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». E mi ha molto colpito. Di lei so ciò che lei stesso mi dice, e cioè che ha servito nell’Arma, ma anche che è stato posto in congedo prima del previsto a causa di gravi ferite riportate facendo il suo dovere. Ciò che racconta di suo nonno, aiuta ancor meglio me e gli altri amici lettori a capire di che pasta anche lei è fatto e quali ideali l’hanno formata: certamente improntati al quel binomio «disciplina e onore» che la nostra Costituzione propone come misura e stile del servizio reso da quanti esercitano, a ogni livello e con diverso grado di responsabilità, un ruolo pubblico. Tutto ciò mi induce a considerare con ancora più rispetto le sue parole e a fare ogni sforzo per comprendere la sua amarezza. Non conosco abbastanza neppure io le “carte” del processo su quella che abbiamo definito sulla nostra prima pagina di ieri «la malatrattativa» e commentato con il lucido e coraggioso fondo di Danilo Paolini. E quel che so non mi autorizza ad azzardare sul complesso dell’operato dei magistrati giudizi che sarebbero pregiudizi. Ma conosco molti uomini delle Forze dell’ordine e, tra loro, non pochi che vestono la divisa dei Carabinieri. So bene che non sono infallibili, ma so altrettanto bene che le “mele marce” sono la triste eccezione che conferma la regola di una grande pulizia di vita e d’azione e di una generosa fedeltà alla Repubblica (che non è un’entità astratta, ma siamo tutti noi), regola sulla quale gli stessi uomini delle forze dell’ordine sono chiamati a vigilare con speciale attenzione. Per quel che vale, a mia volta sono certo che il generale Mori e gli uomini del Ros oggi condannati continueranno a battersi per dimostrare la giustezza del proprio operato. Conosco, poi, molti dei fatti. E ciò che conosco mi aiuta a rendermi conto che qualcosa di molto serio e poco limpido accadde dietro le quinte degli anni concitati e decisivi della «risposta dello Stato» che seguirono la terribile stagione stragista di “cosa nostra” del 1992-93. Certo accaddero anche cose riprovevoli, come in ogni guerra. Ed è proprio questo che ha mosso un processo giudiziario che ha scosso e inquietato anche me. I lettori sanno che nell’estate del 2012 mentre questa vicenda processuale toccava e coinvolgeva in modo clamoroso importanti personalità e tra esse persone «per bene» che in anni di lavoro ho avuto la possibilità di conoscere, vedere all’opera e stimare, non esitai a dire e scrivere parole ferme e chiare di preoccupazione. E di dissenso. Penso in particolare a come venne investito tramite intercettazioni “impossibili” Loris D’Ambrosio, uomo e magistrato di grande levatura morale e professionale, morto letteralmente di crepacuore. E penso a ciò che ha dovuto vivere in questi anni Nicola Mancino, già ministro dell’Interno e presidente del Senato, ora assolto totalmente dall’accusa di falsa testimonianza. Mancino – da giurista e politico galantuomo qual è – si è difeso “nel processo e non dal processo”, mostrando ancora una volta a non pochi protagonisti di quella che a lungo è stata chiamata «nuova politica» (oggi ormai vecchia e quasi archiviata) che cosa significhi nutrire autentico senso delle Istituzioni anche davanti a una palese ingiustizia aggravata dallo stringersi di una tenaglia politico-mediatica mirata a tagliarti fuori, e con immeritata ignominia, dalla vita pubblica. Un amico molto profondo, che veste a sua volta la toga del magistrato, mi ha consegnato in questi giorni una riflessione che considero molto utile e saggia e sono certo che non si dorrà se la richiamo qui, ora, sia pure un po’ sommariamente. «Se una “trattativa” tra uomini dello Stato e uomini della mafia ci fu, va giudicata politicamente e storicamente. Si potrà dire che è stata un grave errore politico o, al contrario, che fu necessitata. Ma, in ogni caso, non la si potrà chiudere nel “vestitino” di una norma penale. Comunque sia andata, l’elemento psicologico che può aver mosso uomini di Stato a un contatto con uomini della mafia non sarà mai lo stesso dei mafiosi». Di questo sono convinto anch’io. Così come sono consapevole del fatto che ci sono verità storiche (e morali) che non sempre coincidono con quelle che possono essere rincorse e accertate (eppur si deve...) in un’aula giudiziaria. Un ultimo pensiero è per la fulminante frase con cui lei, gentile maresciallo ha aperto la sua lettera. Ne capisco il senso e posso intenderne anche la buona intenzione, ma sono di un’altra scuola. Quando le armi urlano, le coscienze non possono tacere. E questo l’«eroismo», cristiano e civile, che ci è chiesto di vivere con semplicità e tenacia e che motiva ogni resistenza al male, all’ingiustizia, all’indifferenza, alla mafia.

Il giurista che definì il processo sulla trattativa Stato-Mafia una "boiata" non cambia idea dopo la sentenza: "Non andava fatto". Lo studioso di diritto penale Giovanni Fiandaca critico verso l'accusa, scrive il 21/04/2018 "Huffingtonpost.it". Qualche anno fa, in piena bufera mediatica, quando quello sulla trattativa Stato-mafia veniva definito il processo del secolo, usò parole dure, bollando l'atto di accusa della Procura di Palermo come una "boiata pazzesca". Oggi Giovanni Fiandaca, tra i massimi studiosi italiani di diritto penale, non usa la scure, ma ribadisce dubbi e perplessità manifestati da sempre sul lavoro dei pm palermitani dicendo che il processo non si doveva fare. Il commento arriva dopo il verdetto che, invece, ha accolto praticamente in pieno l'impianto dei magistrati condannando a pene pesantissime quelli che sarebbero stati i protagonisti del dialogo tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra negli anni delle stragi: dall'ex generale del Ros Mario Mori, all'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri condannati a 12 anni di carcere. Le critiche di Fiandaca sono tutte in diritto. "Fermo restando che aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza - dice - rimangono invariate le mie perplessità sul reato ipotizzato: la minaccia a Corpo politico dello Stato. Il Governo italiano non è un organo politico ma costituzionale e la tutela degli organi costituzionali è assicurata da un'altra norma del codice penale: l'articolo 289 che, peraltro, è stato modificato nel 2006. La nuova formulazione non parla di minaccia ma di 'atti violenti', ed è questo il motivo per cui la Procura alla fine ha ripiegato sull'articolo 338. Resta il nodo di fondo: la pressione sul governo da parte della mafia e dei concorrenti, ipotizzata dall'accusa, ricade solo nella previsione dell'articolo 289. La scelta del reato dunque è sbagliata". Questioni in diritto complesse che - e questa è un'altra criticità individuata da Fiandaca - troppo spinose per una Corte d'Assise composta da giudici popolari. "Io ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale", dice. La Corte d'Assise come competente a celebrare il processo venne individuata dal gup che dispose i rinvii a giudizio sulla base della ricostruzione della procura che vedeva nell'omicidio dell'erurodeputato Salvo Lima, reato di competenza della corte, uno degli snodi da cui avrebbe preso il via la cosiddetta trattativa. Che quella della Procura sia stata comunque una vittoria a 360 gradi il professore non lo crede. "Ciancimino è stato assolto dal concorso in associazione mafiosa - dice - e Mancino dalla falsa testimonianza: a mio avviso in questo modo vengono meno due punti chiave della ricostruzione. Sono curioso di capire il ragionamento seguito dai giudici". Di una cosa Fiandaca è sicuro. Nonostante il verdetto. Quello sulla trattativa è un processo che non si doveva avviare. "La mia - spiega - è un'opinione condivisa anche da altri giuristi, ma negli ultimi anni sempre meno noi professori e i magistrati ci siamo capiti, nel senso che la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari". "E un problema generale - conclude - che prescinde dal processo trattativa. C'è la tendenza, diventata crescente, di alcuni magistrati a percepire il proprio ruolo come quello di difensori contro il crimine a dispetto del garantismo individuale".

La sentenza di Palermo. C’era una volta il Diritto. La sentenza di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia lascia perplessi, scrive Piero Sansonetti il 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". È una sentenza che lascia perplessi. Dico meglio: lascia un po’ sbigottiti. Per cinque ragioni.

La prima è che non ci sono prove contro gli imputati. Soprattutto contro gli imputati di maggiore valore mediatico: il generale Mori (e i suoi collaboratori) e l’ex senatore Dell’Utri. Non ci sono neanche indizi. La tesi dell’accusa si fonda tutta o su alcune testimonianze giudicate false da questo e da altri tribunali, o sulla parola di qualche mafioso, o su ricostruzioni dei pubblici ministeri molto interessanti ma costruite esclusivamente su ipotesi o sulla letteratura.

La seconda è che prima che si concludesse questo processo se ne erano svolti altri, paralleli e sulle stesse ipotesi di reato, e si erano conclusi tutti, logicamente, con le assoluzioni degli imputati (tra i quali lo stesso Mori e l’on. Mannino). Questa sentenza, nella sostanza, ci dice che sì, probabilmente non ci fu il reato, ma ci sono i colpevoli.

La terza ragione dello stupore è il reato per il quale sono stati condannati gli imputati eccellenti. Il reato si chiama così: «Attentato e minaccia a corpo politico dello Stato». Gli esperti e i professori dicono che nella storia d’Italia questo reato è stato contestato una sola volta. Nessuno però ricorda bene quando. Ma comunque quella volta non fu per minacce nei confronti del governo – ed è di questo che sono accusati Mori e Dell’Utri – perché esiste nel codice un reato specifico, scritto nell’art 289 del codice penale, che prevede appunto l’attentato contro un organismo costituzionale (cioè il governo).

La quarta ragione non è di diritto ma è di buon senso. E sta nella assoluzione (seppure per prescrizione) del capo della mafia (Giovanni Brusca, uno dei boss più feroci del dopoguerra) che sarebbe l’autore della minaccia, contrapposta alla condanna del generale Mo- ri che è forse il militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia ad oggi e che dalla mafia è stato sempre considerato nemico acerrimo.

La quinta ragione del nostro sincero sbigottimento sta nello scenario kafkiano che viene disegnato da questa sentenza. Lasciamo stare per un momento il dettaglio dell’assenza di prove. Cerchiamo di capire cosa l’accusa e la giuria ritengono che sia successo nel 1993- 94. Sarebbe successo questo: la mafia, guidata da Riina avrebbe minacciato lo Stato, prima e dopo le uccisioni di Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Avrebbero chiesto l’allentamento del rigore carcerario con un ricatto: «Altrimenti seminiamo l’Italia di stragi». In una prima fase questa minaccia sarebbe stata mediata sempre da Dell’Utri e Mori, evidentemente con Ciampi e Scalfaro. Questa però è solo la tesi dell’accusa, perché la giuria non ci ha creduto, gli è parsa davvero troppo inverosimile. Poi succede che Mori – evidentemente mentre trattava con lui – arresta Riina assestando alla mafia il colpo più pesante dal dopoguerra. In una seconda fase, dopo gli attentati del ‘ 93 (uno dei quali contro un giornalista Mediaset molto legato a Berlusconi, e cioè Maurizio Costanzo) la minaccia sarebbe stata portata a Berlusconi, che nel frattempo era diventato Presidente del Consiglio, attraverso Marcello Dell’Utri e forse attraverso lo stesso Mori, evidentemente colpito da un fenomeno grave di schizofrenia. Nessuna delle richieste dei mafiosi, però, fu accolta. E questo, in teoria, dimostrerebbe un comportamento rigorosissimo di Berlusconi: uomo davvero incorruttibile. E infatti la sentenza condanna gli imputati a risarcire con 10 milioni la presidenza del Consiglio, cioè Berlusconi. Le richieste mafiose che Dell’Utri, e forse Mori, avrebbero portato a Berlusconi (e forse a Mancino, ministro dell’Interno, che però ha negato, è stato imputato per falso e poi assolto) erano contenute in un “papello” consegnato dall’ex sindaco Ciancimino, così sostiene il figlio dell’ex sindaco che però è stato a sua volta condannato per calunnia (e dunque il papello è falso).

Ma una persona che legge queste cose qui e ha un po’ di sale in zucca, che deve pensare? Beh, probabilmente gli viene in mente un’idea molto semplice: che quello di Palermo sia stato semplicemente un processo politico. E qualche conferma a questo sospetto viene da un paio di elementi. Il primo è che il Pubblico ministero che ha condotto l’accusa fino all’ultimo minuto, si è candidato a fare il ministro coi 5 Stelle, ha partecipato a diversi convegni politici dei 5 Stelle, ha presentato a nome dei 5 Stelle un programma per riformare la giustizia, e, appena emessa la sentenza, ha rilasciato dichiarazioni feroci contro Berlusconi, che oltretutto è parte lesa e non imputato. Possiamo tranquillamente dire che il Pubblico ministero era un uomo politico. Il suo predecessore, quello che avviò il processo (si chiama Antonio Ingroia) ha partecipato recentemente alle elezioni in qualità di candidato premier con una lista di sinistra. Anche questa circostanza (almeno in forma così esplicita) è senza precedenti, credo, in tutti i paesi dell’Occidente. Il secondo elemento sta in tutto quello che ha preceduto il processo. E cioè il processo mediatico, che difficilmente non ha condizionato fortemente la giuria di Palermo. Ho sentito molti commentatori dire che comunque ci sarà un processo di appello, che potrà correggere gli errori del primo grado. Vero. Per fortuna l’impianto della nostra giustizia è solido. Però è difficile digerire l’arroganza del processo di Palermo, e la sua superficialità, e l’ingiustizia palese di alcune condanne, come quella contro il generale Mori. Ed è difficile non considerare il fatto che l’ex senatore Dell’Utri, che sta in cella in condizioni di salute gravissime, difficilmente, dopo questa nuova stangata, potrà sperare di ottenere cure adeguate e di rivedere il cielo senza sbarre. No, non è stata una bella giornata.

Stato-Mafia, Mancino, il legale: «Intercettato per mesi senza essere indagato», scrive il 16 Febbraio 2018 Il Mattino. «Per molti mesi Nicola Mancino è stato intercettato senza neppure essere iscritto nel registro degli indagati». Così, l'avvocato Nicoletta Piergentili proseguendo la sua arringa difensiva al processo sulla trattativa tra Stato e mafia che vede imputato l'ex Presidente del Senato Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. «Le sue parole intercettate - dice ancora Piergentili - provano in ogni caso una linearità di comportamenti e dichiarazioni che si pretende costituiscano prove di accuse contro la falsa testimonianza, mentre non c'è nessuna traccia di quello che sarà la sua tesi. Quello che traspare sono disorientamento, non solo di Nicola Mancino ma anche, e soprattutto, del suo interlocutore, Loris D'Amborsio, poi scomparso prematuramente». D'Ambrosio era il consigliere giuridico dell'ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, morto per un infarto nel luglio del 2012. Secondo la Procura di Palermo dietro quelle conversazioni si celava il tentativo dell'ex ministro di condizionare le indagini. «In modo suggestivo l'accusa ha fatto notare che il cittadino Mancino si rivolgeva a persone di alto rango, persino al Presidente della Repubblica - dice l'avvocato Piergentili, che difende Mancino con il collega Massimo Krogh - ma costoro erano i rappresentanti delle istituzioni a lui più vicine per la carica e il ruolo ricoperto, sono persone che hanno fatto parte del suo mondo, un mondo dal quale è stato spazzato via». E cita alcune intercettazioni: «Colpisce - dice Piergentili - lo stupore del consigliere D'Amborsio, nella telefonate del 25 novembre 2011, quando Mancino lo chiama alle nove di sera per comunicargli che è stato di nuovo convocato per il successivo 6 dalla Procura come persona informata dei fatti. E questo è il motivo per il quale sono state disposte le telefonate». «Nessun dialogo - dice l'avvocato - tra Mancino ed esponenti delle istituzioni, nessuna telefonata parla di quello che si andrà a dire».

L’omicidio Lima è stato il grimaldello per ottenere la giuria popolare. La strategia della procura per andare in Corte d’Assise, scrive il 26 Aprile 2018 "Il Dubbio". Il processo sulla “trattativa” Stato- mafia, conclusosi la scorsa settimana con le pesanti condanne degli allora vertici del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, i generali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, offre all’interprete e all’operatore del diritto argomenti di riflessione sulla disciplina codicistica relativa alla competenza per materia del giudice penale. Il processo “trattativa”, com’è noto, si è celebrato davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Il motivo del radicarsi della competenza davanti alla Corte composta anche da giudici popolari è stato determinato dal fatto che parte integrante della presunta “trattativa” era l’omicidio, avvenuto a Palermo a marzo del 1992, dell’europarlamentare della Dc Salvo Lima. Le difese degli alti ufficiali dell’Arma avevano chiesto di essere giudicati dal Tribunale monocratico in quanto l’articolo 338 del codice penale, rubricato “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, contestato agli imputati, è punito con la reclusione nel massimo di sette anni. Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, aveva invece chiesto di essere giudicato dal Tribunale dei ministri, in quanto il fatto per cui era accusato, la falsa testimonianza, sarebbe stato commesso in ragione dell’aver rivestito la carica di ministro della Repubblica. La competenza veniva contestata dalle difese non soltanto sotto il profilo della composizione dell’organo del giudice, ma anche con riferimento alla competenza territoriale: se una “trattativa” fra lo Stato e la mafia era avvenuta, il luogo di consumazione del reato non poteva che essere Roma, capitale del Paese e sede del Governo. L’omicidio di Lima era per la Procura di Palermo un «dato fondante del castello accusatorio, il primo atto del ricatto che mafia e pezzi delle Istituzioni fecero allo Stato», disse l’allora procuratore aggiunte Vittorio Teresi, esultando per la decisione del presidente della Corte d’Assise Alfredo Moltalto di respingere ogni eccezione presentata dalle difese, sposando appieno le considerazione della Procura e dando dunque il via a luglio del 2013 al dibattimento. Con il senno di poi, un cattivo presagio per gli imputati. Lo stesso Di Matteo, che cinque anni dopo accuserà l’Anm e il Csm di averlo lasciato solo, fu estremamente contento della decisione di Montalo, presidente “di una autorevole Corte d’assise che ha eliminato critiche pregiudiziali all’indagine radicando il processo a Palermo”. La Corte d’assise giudica i reati più gravi e di grande allarme sociale come, appunto, l’omicidio volontario. In virtù del collegamento con l’omicidio di Salvo Lima, la competenza è passata alla Corte d’assise di Palermo, cosi chiamata a giudicare non per tale fatto di sangue ma sul reato, il 338 codice penale, che senza questo filo conduttore sarebbe stato di esclusiva competenza del giudice togato monocratico. Il 338 cp è, come stato ripetuto più volte, un reato rispetto al quale non esiste ampia giurisprudenza e che vede la necessità di definizioni di concetti squisitamente tecnico giuridici come quello delle nozioni di “corpo politico” e di “turbamento”, idonei alla sua configurazione. E’ sufficientemente attrezzato sotto questo aspetto un giudice popolare? Senza contare, poi, il condizionamento mediatico che questo dibattimento ha innegabilmente avuto, con una martellante campagna colpevolista nei confronti degli imputati. Inoltre, bisogna ricordare l’incredibile lunghezza di tale dibattimento che ha, a memoria, ben pochi precedenti in termini di durata nella storia della Repubblica. Oltre 220 udienze in cinque anni costituiscono un vero record per un giudizio di primo grado. Per fare un esempio, il processo alla maxi tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti” nell’indagine Mani pulite, si celebrò in sole 44 udienze ed in meno di un anno. Già questi numeri dovrebbero far riflettere. In Francia è in corso di approvazione una riforma della procedura penale che limita drasticamente il ricorso alle giurie popolari. La sperimentazione è già in atto in alcuni distretti. Da ora in poi saranno di competenza della Corte d’assise solo i reati punibili con l’ergastolo e quelli con gravi casi di recidiva. Sarebbe auspicabile che anche in Italia si aprisse un serio dibattito sulle giurie popolari, per evitare che fattispecie di reato eccessivamente “tecniche” vengano giudicate da persone non del tutto adeguate. Anche sotto l’aspetto che non “appaiano” preparate al ruolo.

Nel 1993 fu la Consulta a revocare il 41bis ai boss. Si opposero soltanto i Ros di Subranni e De Donno, scrive Damiano Aliprandi il 28 Aprile 2018, su "Il Dubbio". Esiste la sentenza della Corte costituzionale citata da Luciano Violante, ovvero quella che avrebbe influenzato l’ex ministro della giustizia Giovanni Conso riguardante la decisione di non prorogare il 41 bis a 334 detenuti. L’altro ieri, durante la deposizione al processo d’appello all’ex ministro Calogero Mannino, assolto in primo grado dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato, Violante ha detto le testuali parole: « Le revoche dei 41 bis ai mafiosi disposte dal ministro Conso nel ’ 93, furono conseguenza di una sentenza della Corte costituzionale che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi» . Ricordiamo che, secondo l’impianto accusatorio (al processo Stato- Mafia), le revoche di diversi provvedimenti di 41 bis decise da Conso sarebbero state uno dei segnali mandati dallo Stato alla mafia a dimostrazione della linea soft scelta nel contrasto ai clan in ossequio alla cosiddetta trattativa e in cambio della fine delle stragi. La sentenza della Consulta c’è stata e Il Dubbio l’ha potuta visionare. È la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 Luglio del 1993. Ricordiamo che il 29 ottobre – quindi 3 mesi dopo la sentenza – lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria inviò un documento in cui si chiedeva a diverse autorità – dalla magistratura alle forze dell’ordine – un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. A questo si aggiunge un altro particolare. Il 30 Luglio del’ 93 – quindi due giorni dopo la sentenza della Consulta – l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e pena ha chiesto un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41 bis direttamente ai Ros. A rispondere fu l’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni – condannato assieme a Mori in primo grado per avere partecipato alla presunta trattativa – che ripose di essere favorevole all’applicazione del 41 bis «per ottenere la recisione dei detenuti interessati dalle loro organizzazioni criminale, nonché la collaborazione di giustizia in favore dell’attività investigativa». Quindi anche questo dettaglio – non di poco conto perché mette in discussione l’accusa nei confronti dei Ros che avrebbero trattato con la mafia – conferma le parole di Conso quando disse di aver agito in solitudine e secondo coscienza. I Ros erano contrari a concedere questo beneficio (se di beneficio si può parlare) ai detenuti. Conso, giurista, ex vicepresidente del Csm e della Corte Costituzionale, ministro tecnico nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, non poteva disattendere ad alcune indicazioni tratte dalla sentenza della Consulta. Da dove aveva attinto l’imposizione di valutazioni individuali? Il passaggio è a pagina 9 del dispositivo: «Misure di tal genere – è bene sottolinearlo – devono uniformarsi anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l’esecuzione deve essere improntata; principi, questi ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (cfr. sent. n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991) nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sent. n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993) – ed implicano anch’essi l’esercizio di una funzione esclusivamente propria dell’ordine giudiziario». Altro passaggio cruciale della sentenza è a pagina 11: «Deve ritenersi implicito – anche in assenza di una previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi generali dell’ordinamento – che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti ( in modo da consentire poi all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti contrari al senso di umanità, e, infine, che debbano dar conto dei motivi di un’eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena». La Corte, pur riconoscendo la costituzionalità dell’applicazione del regime duro, aveva indicato che la modalità di esecuzione del regime rispettasse il diritto di libertà senza reprimerlo in modo assoluto. Fu proprio per garantire, tra gli altri, il rispetto dell’art. 27 della costituzione che la stessa Consulta, con le osservazioni sopra riportate, impose di personalizzare la valutazione nel caso di applicazione del regime del carcere duro, anche in ragione dell’obbligatorietà della motivazione, che avrebbe cosi reso effettivo il diritto del detenuto di richiedere una valutazione dell’autorità giudiziaria. La finalità riabilitativa della detenzione non può essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza. L’allora ministro e uomo di diritto come Conso, non poteva quindi disattendere le indicazioni della consulta.

E ALLORA PERCHÉ NON PROCESSANO I GIURISTI, TUTTI CELEBERRIMI, CHE EMISERO LA SENTENZA NEL ‘ 93? FORSE PERCHÈ SANNO GIÀ COSA RISPONDEREBBERO: «QUESTO È IL DIRITTO, VOSTRO ONORE…»

La storia messa alla rovescia. I Ros dissero no, la Consulta disse sì. La storia messa alla rovescia, scrive Piero Sansonetti il 29 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  Nell’articolo qui accanto, Damiano Aliprandi spiega come andò la decisione di revocare il 41 bis (carcere duro) a 334 detenuti, presa nell’autunno del 1993 dal ministro Giovanni Conso. Quella fu l’unica misura che potesse essere considerata un beneficio ai mafiosi. Quindi se bisogna parlare di trattativa tra Stato e mafia (come ha fatto la sentenza di Palermo) bisogna riferirsi prima di tutto a quella decisione di Conso. Prima però bisogna chiarire chi era Giovanni Conso. Non era un ministro prodotto dai “berluscones” o dai “partiti corrotti”. I “berluscones” ancora non si vedevano all’orizzonte. I “partiti corrotti” boccheggiavano sotto i colpi di Di Pietro. Conso era un giurista di primissimo ordine, e come tecnico era stato chiamato a far parte del governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi. Il quale a sua volta era uno tra gli economisti più prestigiosi di Europa. Conso in realtà era entrato anche nel precedente governo, quello di Giuliano Amato, il 2 febbraio del 1993 per sostituire Claudio Martelli, affondato da un avviso di garanzia del pool di Milano. Conso era stato chiamato proprio per il valore della sua figura, sia sul piano culturale che su quello morale, in un momento di crisi politica devastante, nella quale i partiti, come dicevamo, erano stati rasi al suolo dalla magistratura e dalla stampa. Benissimo: Conso si è sempre assunto la responsabilità di quella decisione. Non ha mai scaricato le responsabilità. Perché la prese? Ci fu una trattativa? No – spiega nel suo articolo Aliprandi, e ha accennato due giorni fa Violante – la decisione fu presa sulla base di una sentenza della Corte Costituzionale depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993. Questa sentenza stabiliva che il 41 bis può essere applicato solo caso per caso, e deve essere motivato adeguatamente. Non può essere deciso in blocco per una categorie di detenuti. Per esempio quelli accusati di mafia. E siccome il 41 bis era stato invece assegnato a quei 334 in blocco, non era valido e non poteva essere rinnovato. Giovanni Conso, in novembre, quando prese la decisione, non poteva fare altro che rispettare la sentenza della Corte. Poi, se volete divertirvi, potete giocare al gioco delle coincidenze con le date. La sentenza dell’alta Corte fu depositata in cancelleria la mattina dopo l’attentato di via Palestro, a Milano (5 morti), esattamente due mesi dopo l’attentato a Firenze (cinque morti). E la decisione di Conso fu operativa qualche giorno dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che, se fosse riuscito, avrebbe provocato decine e decine di morti) che è del 31 ottobre. Ma i processi non si fanno con il gioco delle coincidenze. Poi però ci sono delle cose che non sono coincidenze ma fatti reali. Per esempio è un fatto che i carabinieri del Ros, che oggi sono stati condannati per aver favorito (o addirittura realizzato) la trattativa, furono consultati prima della revoca del 41 bis. Fu chiesto loro: «Siete d’accordo su questa revoca?». Sapete cosa risposero, con una nota firmata dal generale Subranni in persona? Risposero secco: «No». Personalmente nutro moltissimi dubbi sulla legittimità della risposta di Subranni. Il quale disse: niente revoca perché il 41 bis serve per favorire dissociazioni e pentimenti. A me pare che una misura cautelare (come mi dicono sempre sia il 41 bis) non possa essere usata come strumento di pressione sul detenuto, per farlo parlare, confessare, pentire o altro. Ma oggi non è questa polemica che ci interessa. Ci interessano i fatti. Risulta che il governo Berlusconi non fece nulla per favorire i detenuti, risulta che non fece nulla il governo Amato, e risulta che il governo Ciampi prese una misura che era imposta da una sentenza della Corte Costituzionale. Risulta che a questa sentenza si opposero quasi solo i Ros, e cioè i carabinieri che poi sono stati condannati. Capite bene che c’è qualcosa che non va. Se davvero i magistrati di Palermo sono convinti che la trattativa ci fu, dovrebbero forse interrogare i giudici dell’Alta Corte che presero quella decisione. Chi erano? Erano il gotha del diritto italiano. Giuristi del calibro di Francesco Paolo Casavola (che era il Presidente), Ugo Spagnoli, Vincenzo Caianiello, Mauro Ferri, Enzo Cheli, Renato Granata, Cesare Mirabelli, Francesco Greco, Gabriele Pescatore, Fernando Santosuosso. I magistrati dovrebbero, col piglio che ha contrassegnato tutti gli interrogatori a questo processo, chiedere loro: «chi vi spinse a emettere una sentenza che portava benefici ai detenuti sospettati o condannati per mafia». Loro risponderebbero, all’unisono: «Il diritto, signor Pubblico Ministero. Il diritto che in uno stato di diritto vale più di ogni altra cosa».

Mannino: «La mia Dc espulse Ciancimino e fui punito da Cosa Nostra». Intervista con Calogero Mannino: «Nel nono congresso espulsi Vito Cincimino e vinse il rinnovamento: Mattarella, Nicolosi e io». Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 28 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Calogero Mannino è un politico di razza. Esponente di punta della Prima Repubblica, è stato più volte ministro. Arrestato nel 1994 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo nove mesi di carcere, tredici di arresti domiciliari e una trafila giudiziaria estenuante, nel 2010 è assolto definitivamente dalla Cassazione perché il fatto non sussiste. Le traversie giudiziarie non hanno piegato il suo orgoglio di uomo del Sud. Attualmente è titolare di una azienda vinicola a Pantelleria dove produce un eccellente passito. Oltre all’attività imprenditoriale, dal 2012 è di nuovo sul banco degli imputati nel processo trattativa Stato- Mafia.

Onorevole Mannino, la procura di Palermo non molla?

«Nel 2012 ho scelto di essere processato con il rito abbreviato. Rito che si basa solo sugli elementi di prova portati dall’accusa. Ero certo dalla mia innocenza. Nel 2015, sono stato assolto in udienza preliminare per non aver commesso il fatto. La procura, nelle scorse settimane, ha presentato appello. I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. E’ una narrazione “funambolica” che si trascina da anni».

Lei è stato un dirigente della Dc siciliana negli anni in cui Cosa nostra è cresciuta…

«Prima dell’approvazione del disegno di legge La Torre sul 416bis, vorrei ricordare che il tema del contrasto a Cosa nostra è un punto qualificante della mozione presentata dalla Dc alla fine del 1979, poi discussa ed approvata in parlamento il 2 febbraio 1980. In quella mozione si approvavano le conclusioni della Commissione antimafia. I relativi lavori interessarono le due legislature precedenti. Quella mozione era stata scritta da me in rappresentanza del gruppo parlamentare della Dc su incarico dell’allora presidente Gerardo Bianco. In un primo momento questa mozione doveva portare la firma dell’On. La Torre e del gruppo del Pci. Il lavoro di preparazione era stato intenso. Sia da parte mia e di Bianco che da Di Giulio e La Torre per il Pci. Il Pci di Berlinguer aveva, però, poi fatto marcia indietro, sfilandosi dalla politica di solidarietà nazionale. E non sottoscrisse più la mozione. Nel 1980 optò per una propria mozione anche se nel merito condivideva la mozione della Dc. L’atto fondamentale sul piano politico istituzionale con il quale la politica si accingeva ad affrontare Cosa nostra alla fine degli anni ‘ 70 e ‘ 80 è dato dalle proposte contenute nella mia mozione. Dopo il governo Cossiga fu la volta di Forlani e poi di Spadolini. Il 1982 anno tragico: assassinio di Dalla Chiesa e dello stesso La Torre. Fu a quel punto che il governo diede la propria adesione al testo approvando l’introduzione del 416bis».

Tornando alla procura di Palermo, il pool segnò un cambiamento nel forme di contrasto a Cosa Nostra?

«Il pool ha avuto una genesi particolare. Un gruppo di lavoro composto da magistrati della procura della Repubblica e dall’Ufficio istruzione. Giovanni Falcone ebbe il merito di aver avuto l’intuizione investigativa di puntare sui collaboratori di giustizia, con il primo pentito Tommaso Buscetta. E’, però, indiscutibile che questa operazione segnò non solo la storia giudiziaria della lotta alla mafia ma la storia del Paese non si sarebbe potuta realizzare senza il consenso della linea politica assicurata dalla Dc siciliana di quegli anni. Voglio ricordare che nessuno, neanche Salvo Lima, nel 1983 volle i voti di Vito Ciancimino. Al nono congresso regionale della Dc siciliana, l’ex sindaco di Palermo offrì ben 45mila voti. Io espulsi Ciancimino e vinse il rinnovamento. Salvo Lima sconfitto, Vito Ciancimino umiliato. La Dc siciliana sceglieva l’immagine dei quarantenni, Sergio Mattarella, Rino Nicolosi ed io. Chi ha voglia di leggere il libro di Ciancimino junior troverà che questa estromissione avrebbe segnato l’inizio del suo “percorso giudiziario”».

Che ricordo ha di Giovanni Falcone?

«Una mente finissima. Anche se in vita Falcone fu spesso osteggiato. Non superò le votazioni per il Csm. E lo stesso Csm gli negò la responsabilità dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. In pochi giorni il Ministro istituì allora il posto di aggiunto alla procura della Repubblica in modo che potesse avere una posizione di rilevo all’interno dell’ufficio».

Come legge il 1992, l’anno delle stragi?

«Cosa nostra ritenne di dover dare l’ultima battaglia contro lo Stato. Molti dei suo esponenti erano in galera, ma non tutti. Quelli che erano fuori puntavano alla vendetta. Gli episodi stragisti, in coincidenza con i fatti di tangentopoli, determinarono la crisi del sistema politico. Il parlamento venne sciolto e le elezioni, con un sistema elettorale di tipo maggioritario, segnarono la fine della Dc. Nessuno può negare che le stragi di quel periodo segnarono un cambiamento radicale dell’impianto istituzionale. A ciò si devono aggiungere i processi Andreotti e Mannino. Cosa nostra è stato un mezzo per spazzare via un sistema che aveva governato dalla fine delle seconda guerra mondiale. La narrazione giornalistica fornisce, però, un altro quadro».

E veniamo al processo trattativa Stato-Mafia…

«Io non so se c’è stata una trattativa con Cosa nostra. Non so cosa abbiamo fatto gli ufficiali dei Carabinieri, i Generali Mori e Subranni con cui sono coimputato. Dico solamente che il Ros di Mori consegnò al procuratore capo Caselli un finto pentito, Gioacchino Pennino, “il Buscetta della politica palermitana”. Pennino era un medico chirurgo della Palermo bene che aveva fatto fortuna con i casinò in Croazia. Nel marzo del ’ 94 è stato arrestato ed estradato per associazione a delinquere. Decide di collaborare accettando l’estradizione per associazione mafiosa. Pennino si definisce “un vero cataro”. Parla, anzi straparla, e io fui arrestato. I fatti dimostrano che io ero la vittima designata. Per la mia storia non mi vedo come un riferimento in una trattativa. Solo la mia forza d’animo mi sta aiutando a sopportare questo calvario. Certo, a volte penso cosa possa indurre i Pm su queste tesi. Non si rendono conto dell’abbaglio?» 

Mario Mori: breve storia del generale che e colpì al cuore Cosa nostra. Figlio di un ufficiale dei carabinieri, nel ’93 arrestò Totò Riina, scrive Giulia Merlo il 27 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Di Mario Mori, quando lo si incontra, colpisce la fredda serietà. Non alza mai la voce, nemmeno in mezzo al rumore. Si muove secco, dritto come un fuso. Calibrato in ogni affermazione, ricorda spesso che la memoria non l’ha mai tradito ma che, se anche lo facesse, dal 1982 compila ogni giorno un’agenda con nomi e orari e fatti. Un piccolo brigadiere della Dalmazia, con i capelli bianchi e i baffi corti che porta sulle spalle tutto il peso di un nome che è parte della storia d’Italia: per chi lo accusa, è il capo dei servizi deviati che sono scesi a patti con la mafia. Per chi lo difende, è il generale che ha servito lo Stato negli anni più bui della repubblica. Nato nel 1939 in terra di frontiera, a Postumia Grotte, una cittadina «ex Trieste» passata alla Jugoslavia nel 1947, come ogni figlio di un ufficiale dei carabinieri segue gli spostamenti del padre: medie a Trento, liceo a Roma, poi l’accademia militare di Modena e la Scuola di applicazione di Torino. Entra nell’arma nel 1966 e si guadagna presto i gradi di capitano: così arriva al Sid, l’allora servizio segreto militare comandato da Vito Miceli (il generale arrestato nel 1974 per cospirazione contro lo Stato nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, poi assolto nel 1978) e Gianadelio Maletti.

L’ANTITERRORISMO. Dopo qualche anno passato a Napoli, Mori prende servizio a Roma, a capo della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo, il 16 marzo del 1978: il giorno del sequestro di Aldo Moro. La sua sezione opera sotto il Nucleo speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era stato sciolto nel 1976 ma ricostituito in tutta fretta dall’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti. Nei 55 giorni di prigionia è a capo delle indagini ed è in piedi vicino al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, davanti alla Renault rossa, il 9 maggio. Dopo l’uccisione di Moro, sotto la direzione di Dalla Chiesa, il gruppo guidato da Mori mette a segno duri colpi alle Br: prima l’individuazione del covo di via Montenevoso, a Milano, dove furono rinvenute le lettere di Moro e il cosiddetto memoriale, poi, negli anni successivi, gli arresti eccellenti della colonna romana delle Br, come quello di Barbara Balzerani nel 1985. Da Dalla Chiesa, Mori assimila un metodo che utilizzerà poi anche nelle indagini sulla mafia in Sicilia e che pone a fondamento dei principi guida del Ros: conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse: “Sapere il più possibile dell’avversario, far sapere il meno possibile di noi”. Di Mori, il generale Dalla Chiesa nella valutazione finale scrive: “Ufficiale molto serio, molto riflessivo, molto responsabile ha dato nuova conferma di un patrimonio brillante di qualità intellettuali, morali, militari e di carattere. Nel particolare e delicato incarico della lotta frontale alla eversione, ha attinto a piene mani alla sua esperienza ed alla sua qualificata preparazione tecnico- professionale per condurre un’azione penetrante, responsabile, generosa, per offrire una collaborazione permeata di entusiasmo e di spirito di sacrificio e per garantire, con tatto ed efficacia, relazioni proficue con organi paralleli e con la stessa Autorità Giudiziaria. Gli esprimo la mia gratitudine. Rendimento pieno e sicuro”.

ROS. Mori viene mandato in Sicilia nel settembre 1986, durante il primo maxiprocesso alla mafia. L’allora comandante dell’Arma decide di chiamare sull’isola ufficiali di provata esperienza ma senza precedenti di servizio sul territorio, che potessero agire senza condizionamenti ambientali e personali. Così a Palermo arriva un capitano triestino, che non capisce il dialetto siciliano ma che coglie subito lo spirito siciliano: i carabinieri sono come i piemontesi invasori, e per la mafia vale la stessa tecnica usata coi terroristi: bisogna prima di tutto impararne la lingua. Forte di quell’esperienza professionale, nel 1990 Mori torna al comando generale con il mandato di organizzare un nuovo reparto dell’Arma: il Raggruppamento operativo speciale, il Ros. Una struttura che ancora oggi si occupa di contrasto alla mafia e al terrorismo in tutta Italia, derogando alla rigida logica territoriale dei carabinieri. Principale sostenitore del progetto: il magistrato Giovanni Falcone, che Mori aveva conosciuto nei suoi anni in Sicilia. La sede del nuovo reparto diventa la caserma di via Talamo, vicino a Villa Ada a Roma, che era stata occupata a suo tempo dell’Antiterrorismo, e a capo viene nominato il generale Antonio Subranni. Con la carica di comandante di reparto, Mori torna in Sicilia e riprende l’inchiesta “mafia e appalti”, avviata nel suo primo soggiorno sull’isola e che teorizzava il rapporto tra la mafia e il settore economico imprenditoriale. A sostenerlo c’è di nuovo Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, Paolo Borsellino. Entrambi la considerano un salto di qualità nella lotta a Cosa nostra, e Borsellino la ritiene causa scatenante della strage di Capaci. Proprio durante la conduzione di questa inchiesta, tuttavia, sorgono i primi dissapori tra il Ros di Mori e la Procura di Palermo, in particolare a causa delle indagini sulle presunte connivenze tra i boss e una parte della politica del capoluogo. A conferma dei timori di Mori, “Mafia e appalti” si chiude con gli arresti di una serie di imprenditori molto vicini ai vertici di Cosa nostra ma la Procura chiede l’archiviazione delle posizioni dei politici indagati, proprio il giorno dopo la strage di via D’Amelio.

L’ARRESTO DI RIINA. Il boss dei boss di Cosa nostra, Totò Riina, viene arrestato il 15 gennaio 1993 e a Palermo è una giornata d’inverno isolano, 11 gradi e nemmeno una nuvola in cielo. L’indagine che porta alla cattura del capo della più grande organizzazione criminale d’Europa è iniziata nell’infuocata estate del 1992, cioè nella stagione in cui l’aggressività contro lo Stato della strategia mafiosa voluta da Riina ha visto la sua escalation con le stragi di Capaci e di via D’Amelio. In quell’anno, Mario Mori viene nominato vicecomandante del Ros, con responsabilità dell’attività operativa del reparto. Forma così un’unità speciale e a capo nomina Sergio De Caprio, il capitano Ultimo: la peculiarità del gruppo è di operare in modo svincolato dall’organizzazione dei carabinieri per evitare qualsiasi fuga di notizie e limitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Le informazioni iniziano ad arrivare: prima il fatto che Riina si nasconde da qualche parte nel quartiere della Noce, capeggiata dalla famiglia mafiosa dei Ganci. Poi che uno dei figli del boss, Domenico, si reca spesso in un complesso residenziale in via Bernini. La svolta, però, arriva quando viene arrestato a Novara Baldassare Di Maggio, boss che inizia a collaborare col giudice Giancarlo Caselli e racconta del cosiddetto “fondo Gelsomino” dove avvengono le riunioni di Cosa nostra e di due costruttori palermitani favoreggiatori del latitante Riina (già noti ai carabinieri perchè indagati durante l’inchiesta “mafia e appalti”). E’ questa l’informazione chiave: nel complesso di via Bernini risulta un’utenza telefonica intestata a loro. Il 13 gennaio scatta l’operazione: su un furgone “balena”, con impianto per le riprese audiovisive, sono appostati gli uomini di Ultimo e il boss Di Maggio, che riconosce in un’auto che entra nel condominio la moglie di Riina, Ninetta Bagarella. Il secondo giorno di appostamento, a bordo di una Citroen ZX che esce dal complesso residenziale, Di Maggio riconosce un uomo d’onore alla guida e, accanto a lui, Totò Riina in persona. La squadra di Ultimo, coordinata da Mori, fa scattare la trappola pochi chilometri dopo in un motel Agip e cattura entrambi i boss. L’uomo più ricercato d’Italia, l’ultrapotente Riina, è in trappola. Eppure, il generale lo considera il suo più grande rimpianto professionale: «Non ho avuto la forza di aspettare, di andare avanti nel pedinamento, se avessi atteso ancora qualche chilometro prima di dare l’ordine li avremmo presi tutti: seppi poi che Riina si stava dirigendo a una riunione della “commissione” provinciale di Cosa nostra. La correttezza era quella di andare avanti come insegnava la dottrina Dalla Chiesa, ma sentivo idealmente sopra di me il peso del comando generale dell’Arma del ministero dell’Interno e mi mancò il coraggio di attendere». Dalla sua operazione più brillante, prende corpo il primo processo a suo carico. Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra, per aver ritardato la perquisizione nell’ultimo covo di Riina. Il giorno dell’arresto, il magistrato torinese Caselli ha assunto le funzioni di procuratore della Repubblica di Palermo e proprio lui viene convinto da Mori e De Caprio ad aspettare ad entrare nella casa di via Bernini. «Una richiesta assolutamente coerente con la dottrina investigativa e la tecnica operativa dell’antiterrorismo dei Carabinieri, secondo le quali da ogni azione si dovevano ricavare i presupposti per poter proseguire l’indagine con efficacia», ha scritto Mori. In altre parole, se la perquisizione fosse avvenuta immediatamente, tutte le persone che avevano frequentato il covo si sarebbero sentite bruciate. Così si consuma l’ennesima rottura con la procura di Palermo: il Ros di Mori vuole evitare l’intervento e sfruttare la superiorità informativa; i magistrati palermitani subentrati nell’operazione, invece, richiedono un’osservazione costante, incompatibile secondo i carabinieri con il luogo senza venire notati. Così De Caprio sospende l’osservazione con le modalità richieste dai pm, dopo alcuni giorni, e procede alla perquisizione della casa vuota. L’incomprensione porta al procedimento penale: «Il danno e la beffa, perché la responsabilità del ritardo nella perquisizione ricadde esclusivamente su me e De Caprio», ha commentato successivamente Mori. I due carabinieri, però, vengono assolti il 20 febbraio 2006 e i pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino non presentano ricorso in appello. La sentenza conferma che si è trattata di una scelta investigativa legittima e che “l’accettazione del rischio fu condivisa da tutti”.

L’AFFARE PROVENZANO. Dopo l’arresto di Riina, le indagini si spostano sul suo braccio destro Bernardo Provenzano, detto Binnu ‘ u tratturi per la ferocia con cui elimina gli avversari, latitante dal 1964. Un primo tentativo di indagine viene portato avanti grazie alla collaborazione di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi detenuto in America, nel carcere federale di Memphis, ed esponente della cosiddetta mafia tradizionale, uscita perdente dalla guerra contro i corleonesi di Riina e Provenzano. Il boss si fida del maresciallo Nino Lombardo e sembra disposto a qualche forma di collaborazione di giustizia, ma il suicidio di Lombardo in seguito a notizie di una sua presunta collusione con la mafia (pronunciate durante la trasmissione di Michele Santoro da parte del sindaco di Palermo Leoluca Orlando) blocca l’operazione. L’iniziativa del Ros è già però oggetto di maldicenze: in particolare si fa circolare la voce che che i carabinieri volessero favorire il ritorno della vecchia mafia. Chiuso quel tentativo, nel 1996 viene chiesto un impegno operativo del Ros alla Dda di Reggio Calabria e Mori cessa le sue attività in Sicilia, ma il nome di Provenzano (catturato nel 2006) torna, sempre attraverso un’iniziativa della Procura di Palermo. Nel 2008 i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Nino Di Matteo sostengono l’accusa contro Mori e il colonnello Mauro Obinu per aver assecondato la latitanza di Provenzano, col movente di garantire un patto siglato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. La tesi del pm si incrocia con l’inchiesta sulla presunta trattativa Stato- mafia, che negli stessi giorni inizia il suo iter processuale. La linea accusatoria è che “Mori e Obinu, obbedendo a un indirizzo di politica criminale, hanno ritenuto di trovare una sciagurata soluzione nell’assecondare le fazioni più moderate di Provenzano e di Cosa nostra” e ancora che si è trattato di “una scelta sciagurata di politica criminale, e cioè la prosecuzione della latitanza di Provenzano. Allo stesso modo il governo e il Dap assecondarono il dialogo agendo in questa ottica di trattativa”. Secondo i pm, infatti, proprio il mancato arresto di Provenzano fa parte delle clausole del patto tra mafia e istituzioni. All’origine delle accuse ci sono le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che ha sostenuto di avere ricevuto la soffiata da un pentito di un summit nelle campagne di Mezzojuso a cui avrebbe partecipato anche il nuovo capo di Cosa nostra e di essersi visto negare la possibilità di fare un blitz e procedere all’arresto: «Quel blitz non fu possibile perché i vertici del Ros non misero a disposizione i mezzi necessari». In primo grado viene messa in dubbio l’attendibilità del testimone d’accusa, poi indagato per falsa testimonianza, e Mori e Obinu sono assolti con formula piena perché “il fatto non costituisce reato”. Il procuratore generale Roberto Scarpinato fa appello ridimensionando l’imputazione, ma la Corte ribadisce l’assoluzione aggiungendo che “Non può ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiano posto in essere la condotta loro contestata con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano”, ma soprattutto che “le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa”. Per i giudici c’è stata una “omissione” e una “sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo”, ma nulla più. Infine, nel 2016 la Cassazione ritiene inammissibile il ricorso della procura di Palermo. «Avendo la coscienza a posto, sono sempre stato molto tranquillo», è stato il lapidario commento del generale al termine dell’ultimo grado di giudizio.

IL SISDE. I’ 1 ottobre 2001, a meno di un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, Mori viene trasferito da Milano a Roma, per prendere servizio come direttore del Sisde, il servizio segreto civile. E’ il suo ultimo incarico operativo prima della pensione, nel 2006. Mori affronta il nuovo compito con le stesse tecniche imparate nel contrasto con il terrorismo politico e la mafia e, durante gli anni a capo del servizio, mette a segno arresti eccellenti sul fronte internazionale: il primo, quello del boss mafioso Giovanni Bonomo, tra i trenta ricercati più pericolosi e latitante dal 1996, rifugiato all’estero in Costa d’Avorio e catturato in Senegal; poi, la cattura degli assassini del colonnello Antonio Varisco, ucciso a Roma dalle Br nel 1979. «Avevo un debito da saldare nei confronti di un caro amico», ha detto Mori. I membri del gruppo di fuoco erano Prospero Gallinari, Rita Algranati, Alessio Casimirri e Antonio Savasta e gli ultimi tre erano ancora latitanti, in Nicaragua e Maghreb. Non riuscì a catturare Casimirri e Savasta, mentre Algranati, nota come la “compagna Marzia”, venne fermata al Cairo nel 2004, dopo averne seguito gli spostamenti in tutto il nord Africa. Infine, con l’operazione “Tramonto rosso”, fornì alla Digos di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, gli strumenti necessari per sgominare le nuove Br, che stavano progettando l’omicidio del giuslavorista Pietro Ichino, arrestando tutti i membri.

TRATTATIVA STATO- MAFIA. La storia del generale Mori, forse uno degli investigatori più noti nella storia dell’Arma, avrebbe potuto concludersi con la pensione. Invece, dopo i due processi e le due assoluzioni, la Procura di Palermo porta avanti contro di lui un terzo filone di indagine. La tesi richiama in modo diretto quella sostenuta nel processo per il mancato l’arresto di Provenzano e anche i pm sono gli stessi: Antonio Di Matteo, Antonio Ingroia, con Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Del resto, il procuratore capo Scarpinato, che Mori ha conosciuto negli anni Novanta e con il quale da capo del Ros non ha mai instaurato alcun rapporto di fiducia, ha sostenuto più volte che: «C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista». Nel caso del processo sulla Trattativa Stato- Mafia, Mori è considerato l’anello di congiunzione tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, in una trattativa che punta a fermare lo stragismo mafioso “concedendo” una tregua. Tra i punti di questa tregua, proprio la latitanza di Provenzano, capo dei capi succeduto a Riina. Caposaldo dell’ipotesi di una trattativa, secondo la Procura palermitana, è l’incontro tra Mori e l’ex sindaco di Palermo, il democristiano in odore di mafia, Vito Ciancimino, nel 1992. Per la procura, è l’inizio del dialogo con Cosa nostra. Per Mori, Ciancimino è una tra le fonti da sondare per arrestare Riina e del cui contatto non venne allertata la Procura di Palermo, con la quale i rapporti di fiducia si erano molto compromessi dopo l’archiviazione di “mafia e appalti”. «Mi avvalsi delle mie facoltà e decisi di non comunicare alla procura che stavamo tentando di acquisire come fonte Vito Ciancimino», ha spiegato Mori, allora convinto che «non tutti i pubblici ministeri di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». Su questo elemento si fonda l’inchiesta per minaccia a corpo politico dello Stato e la Corte accoglie la tesi della Procura: il capo di imputazione per Mori non è identico a quello su Provenzano per cui è stato assolto dalla Cassazione, perché il fatto storico del mancato arresto nel 1995 viene considerato dall’accusa come conseguenza del dialogo avviato nel 1992 e non è l’oggetto principale. Dopo 5 anni di udienze, nel 2018 il Tribunale di Palermo condanna in primo grado Mario Mori a 12 anni di carcere, quale anello di congiunzione della trattativa, insieme a chi all’epoca dei fatti collaborava con lui nel Ros. Assolve invece per prescrizione il boss Leoluca Bagarella e perché il fatto non sussiste il politico Dc Nicola Mancino. A chi gli domanda come abbia affrontato il processo, di cui ha presenziato ad ogni udienza, Mori risponde secco: «con la testa». E a chi gliene ha chiesto conto prima della sentenza, ha sempre replicato che i processi si discutono nelle aule di tribunale. In attesa della sentenza, ha preso parte a un documentario- intervista dal titolo “Generale Mori, un’Italia a testa alta”, che suscita polemiche dovunque venga presentato, delle quali lui si cura molto poco. Del resto, nella sua biografia “Ad alto rischio” (scritta a quattro mani col giornalista Giovanni Fasanella) ha sintetizzato così il suo stato d’animo: «Se sono amareggiato? No. Conosco la storia del mio paese con tutte le sue anomalie, so che servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati, come abbiamo fatto io e i miei commilitoni, comporta dei rischi». Il rischio, per lui, sono stati vent’anni di processi e la condanna più odiosa: quella per collusione con il sistema mafioso, affrontata con la stessa freddezza di sempre. Infatti, dopo la lettura del dispositivo nell’aula bunker di Palermo, non ha rilasciato alcun commento.

La mafia e Berlusconi: furono loro i mandanti di Di Pietro e Davigo! Scrive Piero Sansonetti il 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio".  Le pensate del Pm Di Matteo. È molto istruttivo leggere le requisitorie o le interviste del dottor Di Matteo, ex Pm palermitano ora passato alla Procura nazionale antimafia. Raramente ci si trovano elementi interessanti dal punto di vista giuridico, ma sono affascinanti le sue teorie politiche o le sue ricostruzioni storiche, sempre molto fantasiose e impreviste. La mafia e il Cav: furono loro i mandanti di Di Pietro e Davigo! L’ultima fatica di Di Matteo è stata la requisitoria pronunciata un paio di giorni fa al famoso processo sulla trattativa stato- mafia. I giornali non ne hanno parlato molto, perché ormai, in realtà, hanno capito un po’ tutti che questa storia della trattativa non sta in piedi. In effetti, nella requisitoria, della trattativa si è parlato poco poco, perché i Pm in tutti questi anni non sono riusciti a trovare uno straccio di prova, e poi perché la maggior parte degli imputati è stata già assolta in vari stralci del processo condotti col rito abbreviato. Di Matteo però si è concentrato su una storia parallela all’ ipotetica e improbabile trattativa: la storia della nascita di Forza Italia, e in particolare del ruolo svolto da Marcello Dell’Utri. Probabilmente perché, date le ultime vicende (il rifiuto da parte del tribunale di sorveglianza della scarcerazione di Dell’Utri per ragioni di salute) Di Matteo ha intuito che il tema avrebbe potuto incontrare l’interesse della stampa, al quale lui non è mai del tutto indifferente. In effetti Il Fatto Quotidiano gli ha concesso un discreto spazio. Con un bel titolo in prima pagina e un titolo ancora più forte in pagina interna. Il titolo di prima dice: «Dopo Capaci, Riina puntò su Dell’Utri e B.». Il titolo interno dice: «Dell’Utri andò dai boss prima di fare Forza Italia». Il racconto di Di Matteo è molto articolato, però è costruito su terribili pasticci di date, e questi pasticci producono effetti davvero strabilianti. E cioè accreditano una ipotesi un po’ grottesca, che è quella contenuta nel titolo di questo articolo: e cioè l’ipotesi che Riina e Berlusconi siano i mandati dell’inchiesta “Mani Pulite” che spazzò via la prima Repubblica. Seguiamo il racconto di Di Matteo. Primo capitolo: attentati della mafia alla Standa di Catania. La Standa apparteneva a Berlusconi. Siamo nel 1990, quasi quattro anni prima della fondazione di Forza Italia. Secondo Di Matteo, dopo gli attentati, Berlusconi mandò Dell’Utri a Catania per trattare con la mafia affinché smettesse di colpire la Standa. Per dimostrare questa sua tesi, Di Matteo non si limita a citare un paio di pentiti (non dei maggiori e comunque senza alcun riscontro) ma cita la famosa intercettazione realizzata nel 2013, nella quale Totò Riina, parlando con un infiltrato al 41 bis, dice tra l’altro che dopo l’attentato qualcuno ( probabilmente Berlusconi) « mandò a quello di Palermo che parlò con uno e si mise d’accordo… questo senatore però poi finì in galera…» . Di Matteo ha commentato: «Lascio a voi capire chi è il senatore che scese e poi finì in galera». Qui si pone un primo problema di date. Perché l’intercettazione di Riina è dell’agosto del 2013, come dicevamo, mentre Dell’Utri finisce in prigione nell’aprile del 2014. Riina aveva la palla di vetro? Potrebbe, in via teorica, esserci una spiegazione, ma non regge molto: in realtà Dell’Utri nel 1995 andò in prigione per qualche giorno per una storia, credo, di falsi in bilancio. Molto improbabile che Riina si riferisse a quell’episodio, poco conosciuto e brevissimo, ma diamolo per buono. Secondo capitolo. Di Matteo racconta il Fatto Quotidiano, che è considerato il giornale di famiglia del Pm – sostiene che il primo contatto di Cosa Nostra con Dell’Utri, dopo Lima, «arriva da Catania, con gli attentati alla Standa, e gli incendi furono decisi dai corleonesi, e fu deliberato di attaccare la Standa per assoggettare Berlusconi e realizzare un nuovo progetto politico». Nasce così Forza Italia, destinata a sostituire la Dc travolta dalla fine della prima Repubblica. Dunque Berlusconi non mandò Dell’Utri per far finire gli attentati, ma per fondare un partito. Qui però c’è un nuovo inguacchio di date. Gli attentati alla Standa avvennero due anni prima del delitto Lima, non dopo. E immaginare che la mafia nel 1990 avesse in mente di sostituire la Dc con Berlusconi è davvero un’impresa difficile, persino per una persona convincente come Di Matteo. Nel 1990 la Dc era ancora fortissima in sella, e il suo declino era assolutamente inimmaginabile. Ma ammettiamo pure che i pasticci di date che rendono molto poco credibile tutta la requisitoria siano semplici incidenti tecnici. Ok. Dunque la mafia e Dell’Utri e Berlusconi nel 1990 e poi “con le riunioni della cupola dell’autunno del 91 che conducono alla formazione di Forza Italia” (cito sempre “Il Fatto”) stabiliscono che è ora di far fuori la Dc. Ma a chi affidano il compito? Chi è che poi, concretamente, si incarica di eliminare la Dc e di radere al suolo la sua Prima Repubblica? Beh, questa risposta è facile: il pool dei magistrati milanesi guidati da Di Pietro e Davigo. Dunque torna la teoria del complotto, che fin qui era stata una esclusiva di qualche ambiente socialista. I socialisti però hanno sempre puntato il dito sugli americani. Ora invece, clamorosamente, si rovescia tutto: Di Pietro e Davigo erano uno strumento nelle mani dei corleonesi, di Dell’Utri e di Berlusconi. E per conto loro agirono aprendo la strada al successo elettorale del cavaliere del 1994. Tutto questo, naturalmente, non ha niente a che vedere con l’ipotesi di una trattativa tra Stato (all’epoca guidato dalla Dc) e mafia, che dovrebbe in realtà essere l’oggetto del processo. Anzi, è una ricostruzione storica che smonta alla radice l’ipotesi della trattativa. La mafia, secondo Di Matteo, se ne fregava della Dc perché stava tramando per andare al potere con Forza Italia, e dunque non aveva nessuna ragione per trattare con la Dc che considerava in estinzione. E dunque? Non so, le conclusioni le lascio a voi. Anche perché il dottor Di Matteo, nella sua requisitoria, si è lanciato in un invettiva contro i giornali “di nicchia” che lo criticano e lo delegittimano. Chiarendo qual è la sua idea “imperiale” sul ruolo e i diritti della magistratura: unica istituzione autorizzata a sfuggire al diritto di critica dei giornali. Persino di quelli di nicchia…

Ingroia: «Berlusconi sa che meriterebbe l’arresto». L’ex pm a un Giorno da pecora su Rai Radio1: «Lui ha una serie di condanne, di fatti penali, politici ed etico morali pesantissimi. E, ciò nonostante, oggi è ancora a controllare la politica del nostro Paese», scrive Franco Stefanoni il 22 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Antonio Ingroia, ex pm tra coloro che interrogarono Silvio Berlusconi e oggi leader della Lista del Popolo, con Giulietto Chiesa, ha parlato, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, di Silvio Berlusconi. Ingroia, dopo tutti i suoi `scontri´ verbali col Cavaliere quando lei faceva il Pm, lo ha più incontrato? «No, è capitato solo che quando si faceva l’ultima campagna elettorale, lui mi fece il gesto delle manette». Un gesto simpatico... «Un gesto simpatico, ma lui sotto sotto lo sa che meriterebbe di essere arrestato». Ancora lo meriterebbe? «Sempre lo meriterebbe», ha detto Ingroia a Un giorno da pecora. Come dovrebbe esser giudicato Berlusconi da Strasburgo? «Lui ha una serie di condanne, di fatti penali, politici ed etico morali pesantissimi. E ciò nonostante, oggi è ancora a controllare la politica del nostro paese». E cosa bisognerebbe fare per sconfiggerlo? «Bisogna abbatterlo politicamente».

Gasparri: «È solo un cacciatore di poltrone». «Ingroia parla come un guerrigliero e dice di arrestare e abbattere Berlusconi. Poi scodinzola davanti a Musumeci, nuovo presidente della Sicilia, per mantenere le immeritate poltrone di sottogoverno che ha preteso da Crocetta. Già stratrombato dagli elettori e sconfitto nei processi intentati a eroici carabinieri, fonda partitini destinati al disastro. Davvero un esempio emblematico dell’Italia peggiore. Rivoluzionario alla radio, si spaccia per cacciatore di Berlusconi, ma si rivela solo un cacciatore di poltrone nelle anticamere di Palermo. Più che la mossa del cavallo ama il salto della quaglia». Lo dichiara in una nota il senatore di Forza Italia e vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri.

Ingroia, torna l'ossessione per Silvio Berlusconi: "Andrebbe arrestato immediatamente", scrive il 23 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Ci sono ossessioni difficili da metabolizzare, come quella dell'ex magistrato Antonio Ingroia per Silvio Berlusconi. Non pago dell'umiliazione elettorale subita con l'omonima lista nel 2013, Ingroia è tornato in pista accanto al giornalista Giulietto Chiesa per lanciare una roboante Lista del Popolo. Il programma del nuovo partito è chiaro già dai primi passi, l'antiberlusconismo è tornato vivo e vibrante come ai tempi d'oro, tanto che Ingroia lo ripropone in una epocale rispolverata a Un giorno da pecora su Radiouno. All'ex magistrato è stato chiesto se avesse mai incontrato Berlusconi. Così ha ripescato quell'incrocio memorabile di qualche anno fa: "È capitato solo quando si faceva l'ultima campagna elettorale, lui mi fece il gesto delle manette". Che il senso dell'umorismo facesse un po' difetto all'ex pm era fatto noto, con il passare del tempo però sembra essere molto peggiorato. Al punto che ricordando quel gesto simpatico, Ingroia ha sparato: "Un gesto simpatico sì, ma lui sotto sotto lo sa che meriterebbe di essere arrestato". Ancora? Gli chiedono in studio, lui non ha dubbi: "Sempre lo meriterebbe". Raddrizza il tiro però quando gli viene chiesto come si dovrebbe fermare uno come il Cav: "Bisogna abbatterlo politicamente". Roba da brividi.

Grasso, la persecuzione di Ingroia. Si può capire l'ex pm quando critica su Repubblica il presidente del Senato, ma a tutto c'è un limite, scrive Massimo Bordin il 5 Dicembre 2017 su "Il Foglio". In fondo Antonio Ingroia, se non giustificare, si può comprendere. Non ci sono solo questioni professionali, ormai antiche ma tutt'ora presenti alla memoria. Il problema è che l’ascesa politica di Pietro Grasso rischia di essere vissuta dall’ex pm dei due mondi come una persecuzione personale. La storia, che ricorda quella di Paperino e Gastone, inizia nel 2013 quando Ingroia si sospende da magistrato per candidarsi a presidente del Consiglio alla testa di un raggruppamento a sinistra del Pd. Fu un disastro di notevolissime proporzioni e mentre Ingroia rimaneva fuori non solo da Palazzo Chigi ma anche da Montecitorio, Grasso entrava a palazzo Madama, eletto nel Pd, e diventava presidente del Senato nel giro di pochi giorni. Ora Ingroia ritenta con una lista bizzarramente battezzata "La mossa del cavallo" senza che nemmeno i circoli degli scacchi se ne siano accorti, mentre Grasso raccoglie ovazioni, titoli di apertura sui giornali e grandi foto, sia pure con Speranza, Fratojanni e Civati che non sono un gran che ma sempre meglio di Giulietto Chiesa. Si può capire dunque l’ex pm quando critica Grasso su Repubblica, è una reazione umana. A tutto c’è comunque un limite, che viene ampiamente superato quando da parte sua si sostiene la necessità di facce nuove in politica e quando, dopo aver comunque perorato la candidabilità dei magistrati si aggiunge che "dovrebbe essere loro vietato di tornare in magistratura dopo aver fatto politica" contando evidentemente sul fatto che tutti si siano dimenticati come si comportò dopo la sua mancata elezione.

Tutti i silenzi sul caso Ingroia. Quando gli indignati tacciono, scrive Salvo Toscano Martedì 19 Dicembre 2017 su "Live Sicilia". Dopo la prima inchiesta un'altra. Ma i professionisti dell'indignazione non se ne sono accorti. C'è qualcosa che colpisce dopo la notizia della nuova indagine per peculato a carico di Antonio Ingroia. Non si sente ma colpisce. È un'assenza pesante, un rumoroso silenzio. Quello dell'esercito dei professionisti dell'indignazione. Quelle truppe di moralizzatori in servizio permanente effettivo pronte a intonare il peana a ogni avviso di garanzia o notizia d'inchiesta finita sui giornali. I cantori devoti delle gesta delle italiche procure, insofferenti verso ogni forma di garantismo, che da quelle parti è sempre per definizione “peloso”, confermano una prassi ben collaudata: si distraggono quando il moralizzatore finisce moralizzato e disinnescano in quel caso l'automatismo della richiesta di dimissioni. Quella che scatta quando sotto la lente d'ingrandimento dei magistrati inquirenti finisce il quisque de populo slegato dalla conventicola dell'indignazione o peggio ancora l'avversario politico da fare a pezzi. E' la parrocchia del mantra degli "impresentabili", che rinfaccia l'avviso di garanzia anche al cugino di secondo grado. Farà lo stesso con l'ex pm oggi politico che alle prossime elezioni battezzerà la sua Lista del Popolo? Vedremo. Per ora tutto tace. Non pervenute le penne fustigatrici, l'antimafia col bollino blu e la politica dell'onestà. Quella che per una Monterosso s'è vestita da sanculotto e che adesso non si fa sentire, vedi alla voce Cinque stelle. E dire che la vicenda presenta delle peculiarità che colpiscono. In particolare la circostanza che per una storia che sembrerebbe analoga, un'inchiesta c'era già stata a carico dell'ex pm. La precedente indagine, giunta alle battute finali come ha ricostruito Riccardo Lo Verso, si concentrava sulle retribuzioni dal 2013 al 2016. Ora i pm indagano sul 2017. La questione riguarda i suoi emolumenti tra stipendi, premi e rimborsi spese, anche per hotel di lusso e noti ristoranti, per l'incarico di sottogoverno attribuitogli da Rosario Crocetta alla guida di Scilia e-servizi. Nel marzo scorso, ricorda Livesicilia, Ingroia era stato pure interrogato dai suoi ex colleghi. L'ex pm, che spera di mantenere il posto dopo il cambio a Palazzo d'Orleans, ha sempre rivendicato la correttezza del suo operato. E sembrerebbe che dopo le prime contestazioni dei suoi ex colleghi, Ingroia abbia ritenuto di tirare dritto – era “una storia totalmente infondata", disse all'epoca, “correggendo” i pm (da quando ha lasciato la toga l'avvocato Ingroia ha dispensato diverse bacchettate ai meno celebri ex colleghi) – finendo così nella seconda inchiesta. Quando forse prudenza, vista l'inchiesta in corso, avrebbe potuto suggerire altra condotta. Ma questa è in effetti una annotazione che spetterebbe ai professionisti dell'indignazione. Se non fossero distratti. 

Trattativa, Travaglio: chi è Stato? La mafia? O tutti gli uomini del Presidente…? Scrive Januaria Piromallo, Giornalista e scrittrice su “Il Fatto Quotidiano”. Travaglio, dicci tu. Chi è Stato? La mafia? O tutti gli uomini del Presidente…? Dopo quasi tre ore di ascolto, a bocca sempre più aperta, ad occhi sempre più sbarrati, di quanto ho sentito sciorinare, con minuzia da archivista, da Marco Travaglio al Teatro Ciro Menotti in una uggiosa domenica milanese, la prima cosa che sono riuscita a pensare è che una residenza estera non è sufficiente. Occorre chiedere asilo politico a un paese (magari alla Corea del Sud, il cui Pil negli ultimi anni cresceva del 10%) che accolga i fuggitivi sgomenti e terrorizzati. Quali siamo noi, dopo una narrazione del genere, che accende un faro su uno dei lati più oscuri, cupi e duraturi della vita del nostro Paese. (Quasi quasi lo chiedo). “E’ Stato la mafia”, è già il titolo volutamente equivoco sembra un’acrobazia pirandelliana, con la voce da pasionaria di Valentina Lodovini, bella e brava (anzi prima brava e poi bella) dovrebbe essere trasmessa a reti unificate, dovrebbe andare nelle scuole, dovrebbe arrivare a qualche Commissione Europea, non dovrebbero più darci la presidenza a turno del Consiglio Ue. Anzi dovrebbero sbatterci a pedate nel sedere anche fuori dal G8. Si distinguono nelle nefandezze, i Ros, reparti operativi speciali dei Carabinieri, che si “fanno sfuggire” per due volte consecutive, prima la perquisizione del covo di Totò Riina, poi la cattura di Bernardo Provenzano, per “sviste” da commedia burlesca, un ex ministro dell’Interno che scambia missive con il presidente della Corte di Cassazione, usando il Quirinale e il suo inquilino come ufficio postale, alti ufficiali dei servizi segreti che rovistano nella cartella di Paolo Borsellino con il suo cadavere ancora “fumante” accanto e fanno sparire la famosa agendina rossa, il capo delle carceri che all’indomani dell’ennesima strage, decide di abolire la carcerazione dura dei mafiosi per “dare un segnale di distensione”. Poveretti se lo meritano. Sinanco, il Presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano, con le sue “inutili testimonianze”, rese in un procedimento dove il codice di procedura penale viene modificato ed adattato in maniera sartoriale alle esigenze della massima carica dello Stato, che pare afflitto, dietro la inutilmente spaziosa fronte, da larghe amnesie. Una carrellata di menzogne, depistaggi, falsità, atroci inganni, coperture, insabbiamenti, omicidi, stragi, non so più che altro aggiungere. Il resoconto, di base documentale, (proveniente da un archivio di carte che sparse occuperebbero un appartamento di qualche centinaio di metri quadrati), offre spunti anche per battute comiche (Berlusconi è stato condannato a un anno di servizi sociali. Vabè a lui la condanna ai vecchietti il supplizio di ascoltare sempre la stessa barzelletta, tanto sono malati di alzheimer). Tale è il senso di vuoto, di tradimento, da farmi dire, a fine spettacolo, che ci faccio ancora qui. Fuori dal teatro ragazzine trepidanti come fossero in attesa di una rockstar per chiedere l’autografo a Travaglio, sono uno spiraglio di luce per le nuove generazioni. Travaglio mette in scena una scellerata, macabra, grottesca canzonatura della istituzioni più sacre della Repubblica, ma non inventata da lui, ma invece perpetrata con lucida meticolosità proprio dalle élite dello Stato. Da fargli esclamare: “Lo scandalo di Watergate, in confronto, è cosa da debuttanti”. Eppure diedero l’impeachment al presidente degli Stati Uniti. Noi invece a Napolitano abbiamo offerto come premio di buona condotta il secondo mandato.

Capitano Ultimo: "La trattativa Stato-mafia? Una pagliacciata". In un'intervista a Panorama parla l'uomo che arrestò 20 anni fa Totò Riina. «L’antimafia? Un business. La trattativa Stato-mafia? Una pagliacciata. Delegittimare lo Stato? Un’azione criminale». Parola del Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, 52 anni, che nel frattempo è diventato colonnello dei carabinieri e vicecomandante del Noe, Nucleo Operativo Ecologico. In un’intervista esclusiva pubblicata da Panorama in edicola da giovedì 24 ottobre l’uomo che il 15 gennaio di 20 anni fa arrestò Totò Riina non risparmia critiche a chi, in nome della lotta alla mafia, ha voluto costruirsi una carriera.  L’ufficiale dell’Arma sostiene pure che «l’ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia è una pagliacciata e che chi rompe il fronte della lotta alla criminalità organizzata fa soltanto il gioco dei boss». Per questo non esita a schierarsi insieme ai suoi uomini a fianco del presidente della Repubblica. E a difendere il suo ex capo Mario Mori dalle accuse di essere complice della mafia: «A Mori va tutta la mia solidarietà. Anche perché la lotta alla mafia non la fanno Giovanni Brusca e i collaboratori di giustizia, ma le persone oneste, i carabinieri, i poliziotti che ogni giorno stanno sulla strada e collaborano con i bravi magistrati». E aggiunge: «La giustizia la fanno le persone e mi sembra che parecchie persone da diversi anni facciano carriera agitando il suo nome (Mori) e usando la loro funzione pubblica per fare politica, scrivere libri, partecipare a convegni, organizzare spettacoli: tutto ciò è gravissimo e non è persecuzione, ma eversione». Ultimo ricorda anche Giovanni Falcone che «negli anni Ottanta, in solitudine e tra mille ostacoli, portava avanti una bella battaglia di civiltà, di dignità e di giustizia». Ma le cose poi sono cambiate: «Tanti suoi colleghi lo odiavano e lo hanno distrutto come uomo e come magistrato. Lo hanno sovraesposto. Lo hanno indicato come bersaglio alla mafia. E Totò Riina ha saputo colpire. In questo senso, si possono considerare i mandanti morali della strage di Capaci» conclude Ultimo.

Paolo Mieli: “La trattativa Stato-mafia comincia con l’Unità d’Italia”, scrive Antonella Sferrazza il 3 novembre 2016 su "I nuovi Vespri". Nel nuovo libro dello storico, nonché ex direttore del Corriere e della Stampa, due capitoli dedicati ai fatti risorgimentali e al Sud Italia. Un tentativo di ripulire la storia da mistificazioni e pregiudizi perché “ad ogni stagione, la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. “Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. “La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Anzi di più. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera de Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali»… “Pezzi di Stato che «non hanno rossore di trattare con i malviventi»”. Comincia così il secondo capitolo del nuovo libro di Paolo Mieli intitolato In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia (Rizzoli, euro20) che in 280 pagine ripercorre eventi storici -non solo italiani -con l’obiettivo di ripulirli da mistificazioni, pregiudizi e strumentalizzazioni. L’ex direttore del Corriere e de la Stampa che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla divulgazione della storia, spiega così il senso del suo ultimo lavoro: “Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Dobbiamo eliminare molte menzogne. Ad ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte. Ogni storico deve muoversi a smentire la versione che ha già in testa, non deve cercare conferme. Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. Insomma, come sempre, Paolo Mieli (tra i pochissimi intellettuali italiani, ricordiamo, a parlare con onestà dei danni prodotti al Sud dal Risrgimento, sotto un video in proposito), si tiene ben lontano dalla palude degli storici ‘salariati’ senza temere “sorprese e delusioni”. “Se vogliamo essere in pace con il passato – dice Mieli- dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva cui siamo legati”. Nel volume si passano al setaccio eventi quali la Rivoluzione francese, la storia di Israele, personaggi come Stalin e Hitler, ma anche i falsi martiri della fede, Cicerone, Lincoln, D’Annunzio, i primi scandali dell’Unità d’Italia per un totale di 27 piccoli saggi. Tornando al secondo capitolo intitolato “La vera trattativa tra Stato e mafia”, Mieli, oltre alle dichiarazioni del parlamentare Brofferio, cita anche La mala setta di Francesco Benigno che descrive come “Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse ancora di più della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato Unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia e camorra a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo”. La storiografia non ha mai voluto approfondire questi nessi, “una reticenza che dai testi dell’epoca è transitata nelle pagine degli storici”. Mieli aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi qualche contatto improprio venne addebitato a Giuseppe La Farina, emissario di Cavour”. Lo stesso avvenne a Napoli con Silvio Spaventa: “Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, a un certo punto venne accusato dalla stampa democratica di usare metodi illegali non troppo diversi da quelli usati dalla famigerata polizia borbonica”. Ma l’uomo simbolo di questa stagione resta Liborio Romano che “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”. E, ancora, il fenomeno del brigantaggio e “l’intento propagandistico di inquadrare in quella categoria tutto ciò che che accadde nel Sud Italia dal 1861 al 1865”. Particolarmente interessanti le parole di Diego Tajani, Procuratore del re a Palermo, secondo il quale, come si legge nel volume, “la mafia è temibile non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò fonte di una rete invisibile di protezione”. Interessantissimo anche il capitolo dedicato alla corruzione – intesa come latrocini- dei nuovi politici dello Stato unitario e della stampa al loro servizio. Così come i successivi che offrono una lettura della storia come non l’abbiamo mai letta e che non esita a fare scendere dal piedistallo personaggi celebratissimi (lo stesso Cicerone pare abbia un tantino ‘abusato’ della storia del proconsole Verre in Sicilia “che era un politico in fase di declino”). Va da sé che il volume è un raggio di sole tra le nebbie che avvolgono in particolar modo la vera storia del Sud Italia e del Risorgimento.

La trattativa tra Stato e mafia comincia nel 1860, con Garibaldi in combutta con mafia e camorra, scrive Ignazio Coppola il 7 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.

Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.

Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.

Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».

L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.

Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga» spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica».

Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.

"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.

I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.

Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca». La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.

"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".

Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...

"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".

Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?

"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".

Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?

"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".

Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?

"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".

Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.

"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".

La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?

"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".

L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?

"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".

L'omicidio Mattarella?

"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".

Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...

"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".

La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?

"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".

Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?

"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".

Ha conosciuto il Capitano Ultimo?

"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".

Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.

Stragi di mafia chi sono i veri mandanti? Grasso riapre il “fascicolo”, scrive Paolo Delgado il 31 gennaio 2017 su "Il Dubbio”. Secondo il presidente del Senato ed ex procuratore Cosa nostra è stata il braccio armato di interessi economici “legati agli appalti pubblici”. Un alone di mistero circonda la fine della prima Repubblica, come del resto molti dei suoi passaggi cruciali. E’ stato il presidente del Senato Piero Grasso, intervistato dal Corriere della Sera, ad aggiungere il suo sassolino di dubbio alla già alta muraglia di sospetti legati alla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra in quella cruciale fase politica. Grasso però pensa a tutt’altro: «S’intuisce che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica; di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali». Più ermetica di così neppure la celebrata prosa di don Binnu Provenzano. E tuttavia, anche senza cadere nelle diaboliche tentazioni della dietrologia imperante, è probabile che qualche ragione il secondo cittadino della Repubblica ce l’abbia. È difficile immaginare che tra la politica della prima Repubblica, nell’anno della sua repentina e del tutto imprevista fine, e la sanguinosa offensiva di Cosa nostra non ci siano state correlazioni, magari periferiche e non determinanti. Già all’epoca del resto, nei palazzi assediati, circolavano voci chissà quanto tendenziose sulla singolare sincronicità tra i due eventi, di fatta assai diversa, che minarono le fondamenta del potere di Giulio Andreotti: l’uccisione di Salvo Lima in Sicilia e il ‘ tradimento’ di Vittorio Sbardella, per amici e nemici ‘ lo Squalo’, nel Lazio. Non erano due capibastone qualsiasi ma i perni del potere andreottiano nel Paese. L’assassinio di Lima e l’improvvisa defezione di Sbardella misero il divo Giulio in ginocchio. Né si può dimenticare che l’anno del declino della prima Repubblica fu anche quello in cui si misero in moto, in seguito alla crisi esplosa nella seconda parte di quell’anno, movimenti economici e finanziari di immensa portata, con l’avvio delle privatizzazioni. Anche senza ridurre don Totò a un braccio armato, è senz’altro possibile che coincidenze di interesse si siano verificate, anche se, come lo stesso Grasso ammette, si tratta al momento solo di fantasia e immaginazione. L’annus horribilis della politica italiana, quello che si sarebbe rivelato come tombale per la prima Repubblica, cominciò 25 anni fa, e iniziò con una vittoria dello Stato: la prima sezione della Corte di Cassazione confermò la sentenza d’appello nel maxiprocesso contro Cosa nostra, istruito dal pool della procura di Palermo a partire dalle dichiarazioni del grande pentito Tommaso Buscetta. Su 474 imputati i con- dannati furono 360. Tra i 19 condannati all’ergastolo c’era il vertice della mafia al potere dopo il golpe dei corleonesi dei primi anni ‘ 80: Totò Riina, Binnu Provenzano, Michele Greco il papa. Quella sentenza diede fuoco alla miccia. Cosa nostra non se l’aspettava. La procura di Palermo la temeva. A presiedere sarebbe dovuto essere Corrado Carnevale, l’Ammazzasentenze. Pignolo e garantista sino all’esasperazione, buttava giù una sentenza dopo l’altra senza mai chiudere gli occhi sui vizietti di forma che molti colleghi ritenevano invece trascurabili. Nell’Italia di quegli anni era famosissimo e circondato da un’aura di sospetto, che si concretizzò infine nel rinvio a giudizio, con tanto di sospensione da carica e stipendio. Assolto in primo grado nel 2000, condannato a 6 anni per concorso esterno l’anno seguente, fu infine assolto con formula piena e senza rinvio dalla Cassazione nell’ottobre 2002. Non se ne accorse nessuno. Restò sospeso altri sei anni. Fu Giovanni Falcone a mettere per primo le mani avanti promuovendo una sorta di ‘ monitoraggio permanente’ sulle sentenze della Cassazione. Una pressione forse inaudita ma efficace: la Corte decise che i processi di mafia sarebbero stati attribuiti a rotazione a tutti i presidenti di sezione e non più solo a quello della prima sezione. Al posto di Carnevale fu Armando Valente a presiedere per la sentenza sul maxi, e forse anche per questo le condanne furono confermate. Riina reagì dichiarando guerra. Non la solita ammazzatina eccellente, ma una guerra totale, su tutti i fronti, non solo colpendo politici e magistrati ma anche sparando nel mucchio. Il primo a cadere fu, meno di due mesi dopo la sentenza, Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia: punito per non aver saputo garantire a Cosa nostra la protezione attesa e forse promessa. Poi fu il turno dei giudici e delle loro scorte, Falcone a Capaci il 23 maggio, Borsellino in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio, e infine, il 17 settembre a essere ammazzato fu Ignazio Salvo, anche lui un perno del potere andreottiano in Sicilia legato a Cosa nostra. Lo stesso Grasso sarebbe dovuto cadere poco dopo. Riina aveva già dato l’ordine. Dovette soprassedere per ‘ problemi tecnici’. La strategia del colpire nel mucchio con le stragi indiscriminate fuori dalla Sicilia iniziò invece solo nel 1993, dopo l’arresto di Riina il 15 gennaio. Gli intrecci tra la vicenda della politica e quella della guerra di mafia sono in alcuni casi oggettivi. Il 25 maggio 1992 l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, dopo uno stallo lunghissimo, fu una conseguenza diretta della strage di Capaci, ma l’offensiva mafiosa contribuì in buona misura a delegittimare una classe dirigente politica già messa in ginocchio da tangentopoli. Nel marzo 1993 la sospensione del 41bis per 140 mafiosi a opera del ministro della Giustizia Giovanni Conso fu quasi certamente una conseguenza dell’offensiva di Cosa nostra, che mirava tra le altre cose proprio a ottenere la soppressione del carcere duro. Ma è probabile che, in vista di elezioni politiche imminenti dalle quali sarebbe uscito il quadro dirigente della nuova Repubblica, le grandi manovre in una regione decisiva come la Sicilia siano andate ben oltre. Solo che, come in tutte le vicende di questo genere che costellano la storia della prima Repubblica il confine tra legittimo sospetto e lavoro di fantasia è tanto labile da rendere obbligatoria massima circospezione. Altrimenti diventa fortissimo il rischio di cadere nella favole fiorite intorno al rapimento di Aldo Moro, confondendo invece di chiarire e rendendo la verità storica non più vicina ma irraggiungibile.

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfranco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha.

Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre.

Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta. «Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano. Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

Quello scambio infame dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti. La nuova indagine della procura di Reggio Calabria potrebbe portare a una svolta. A motivare l'omicidio, una trama eversiva e un patto tra cosche, scrive Giovanni Tizian il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Un omicidio eccellente, ancora irrisolto. Forse il prezzo che i calabresi dovevano pagare a Totò Riina e alla sua Cosa nostra stragista per la mediazione che ha pacificato una città in guerra. Oppure il motivo è un altro? E lo potrà chiarire solo la nuova indagine della procura di Reggio Calabria, che sembra vicina a una svolta. Dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti c’è una trama eversiva. Interessi torbidi, che convergono in un patto criminale tra mafiosi siciliani e calabresi che si è manifestato dieci mesi prima del 23 maggio ’92, giorno della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della scorta. Per l’uccisione di Scopelliti nessun colpevole, solo due processi alla commissione regionale di Cosa nostra, che sono finiti con l’assoluzione in Appello. Alla sbarra erano finiti prima Riina e poi Provenzano. Per questo motivo, visto che i vertici della mafia siciliana sono stati già processati, c’è chi sostiene che la nuova inchiesta possa guardare anche oltre la pista già battuta finora del favore tra mafie. E puntare tutto sulle responsabilità della ’ndrangheta. Un’ipotesi, certo. Restando alle carte, però, numerosi pentiti hanno indicato lo scambio di "cortesie” tra padrini. Oppure il movente è da ricercare nelle parole pronunciate davanti ai giudici dal pentito Umberto Di Giovine. Il collaboratore sostiene che il boss Nino Imerti, a capo della zona in cui è stato ucciso Scopelliti, avrebbe incontrato il giudice nel 1989 subito dopo l’omicidio di Ludovico Ligato intimando al magistrato che se per quel delitto fosse stato indagato il cognato avrebbe ucciso i giudici che si erano occupati dell’inchiesta. Sono più numerosi i pentiti che invece riconducono l’omicidio Scopelliti al favore che la ’ndrangheta ha fatto a Cosa nostra per aver messo fine alla carneficina in riva allo Stretto. La condanna a morte del magistrato calabrese è stata eseguita nel tardo pomeriggio dell’8 agosto ’91 a Villa San Giovanni, in località Piale. Piale, un dettaglio importante. La zona in cui è avvenuto l’agguato, in certi territori, è come un marchio di fabbrica. Qui Scopelliti è stato assassinato dai proiettili di due sicari mentre guidava l’auto sulla strada che l’avrebbe riportato a Campo Calabro, il suo paese di origine alle porte di Reggio Calabria. Città all’epoca insanguinata da un’interminabile guerra di mafia. Mille morti, raccontano le cronache. Numeri da conflitto bellico. Il giudice in quei giorni era inquieto. Nonostante fosse in ferie stava studiando i faldoni del maxi processo a Cosa nostra. Sarebbe toccato a lui sostenere l’accusa nell’ultimo grado del processo istruito dal pool antimafia di Palermo contro la cupola siciliana di Riina e "compari”. «Si era fatto inviare le carte fino in Calabria, poi la sera prima dell’agguato disse a mia madre che avrebbe anticipato la partenza per Roma», ricorda la figlia Rosanna. Il territorio, forse, aveva iniziato a emettere suoni ostili. Rosanna Scopelliti ci confida un altro particolare: il clan di Campo Calabro era d’accordo con la scelta di ucciderlo. Ma contando poco nello scacchiere, ha dovuto accettare la decisione dei vertici provinciali. Dopo l’agguato una telefonata arriva all’Ansa: è la rivendicazione della Falange Armata. La sigla ritornerà puntuale a ogni delitto eccellente, anche nel periodo delle stragi firmate dai Corleonesi. Ventisei anni dopo alla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho non si danno per vinti. E all’orizzonte si intravede un punto di svolta. I magistrati hanno in mano qualcosa di concreto. Due nuovi collaboratori, che avrebbero indicato i presunti assassini. Pentiti che hanno saputo da altri affiliati i nomi dei sicari del magistrato di Cassazione. E non è escluso, al momento, che almeno uno dei due killer si trovi già in carcere, finito nella rete della procura per altre inchieste antimafia. Da qualche mese, poi, una figura di peso dei clan di Villa ha deciso di collaborare. Custodisce molti segreti, dicono i detective che conoscono il suo spessore. A lui sicuramente i pm chiederanno notizie sul caso Scopelliti. Il fascicolo è nell’ufficio del sostituto Giuseppe Lombardo. Che ci siano elementi nuovi, del resto, era chiaro già a metà dicembre. I media locali, infatti, avevano rilanciato la dichiarazione del procuratore capo Federico Cafiero De Raho: «Troveremo chi ha ucciso Antonino Scopelliti». Una frase pronunciata durante la conferenza stampa in occasione dell’operazione "Sansone”, che ha portato in cella i vertici dei clan che controllano Villa San Giovanni. Area strategica, Villa. Governata da due famiglie, un tempo nemiche, ma che dopo la fine della seconda guerra di mafia condividono il territorio in armonia. Una guerra che inizia proprio a Villa nel 1985 con l’attentato al Riina calabrese, Nino Imerti detto il "Nano feroce”. E sempre nel regno degli Imerti termina con l’omicidio del giudice Scopelliti. Un caso? Oppure un messaggio: dove la tragedia aveva avuto inizio deve avere fine. Le chiavi per decifrare con esattezza questo delitto le forniscono le ultime inchieste sul vertice "segreto” della ’ndrangheta. L’impasto che lega pezzi di Stato deviato ai mammasantissima ha un ingrediente indispensabile e inodore: la massoneria. Una cupola, a lungo invisibile, il cui profilo, ora, è impresso in migliaia di pagine di verbali. Il maxi processo per 78 persone, tra cui compaiono avvocati-padrini, boss-imprenditori, sacerdoti collusi e persino un senatore della Repubblica, è vicino. Dagli stessi atti affiorano i dettagli di un’amicizia tra ’ndrine e cosche siciliane, negli anni diventata una sinergia stabile e decisamente pericolosa per la democrazia di questo Paese. Un’alleanza dai tratti, in un certo momento storico, eversivi. Per comprendere le ragioni dell’omicidio Scopelliti è necessario immergersi in queste sabbie mobili della Repubblica dove insospettabili capi mafia stringono la mano di uomini delle istituzioni. E dove la parola d’ordine è trattare. Trattative utili a mantenere l’ordine, a bandire il caos. Per farlo l’organizzazione calabrese sfrutta ogni pedina. Il pentito Antonino Lo Giudice, per esempio, racconta di un complice - colonnello dei carabinieri già condannato per concorso esterno - che nel porto di Gioia Tauro incontrava agenti della Cia, «dove avevano un ufficio». Anche di queste insospettabili particelle è fatto il dna della ’ndrangheta che ha ucciso il magistrato. Ai funerali di Scopelliti c’era anche Giovanni Falcone. Andava ripetendo che il prossimo obiettivo sarebbe stato lui. Una previsione inquietante, soprattutto perché pronunciata dal magistrato che fin dall’inizio aveva visto nel delitto del collega commesso in Calabria qualcosa di enorme. Aveva intuito, Falcone, che esisteva tra Sicilia e Calabria un network tra le due mafie più potenti. Una rete di cosche che parlano dialetti diversi. Disposte, però, a scambiarsi favori, a progettare azioni comuni, a investire insieme. Sinergie criminali. Il pentito Nino Fiume è stato un ingranaggio essenziale della famiglia De Stefano. I padroni di Reggio, la cui storia si intreccia a cinquant’anni di misteri italiani. Sullo sfondo destra eversiva, logge coperte, servizi deviati e capi bastone. I De Stefano sono un clan dall’anima nera, con menti raffinatissime. Fiume è stato uno dei primi, nel 2015, a dare un nome al tavolino comune tra le mafie, che lui chiama "il Consorzio”: «Prendeva le decisioni che riguardavano le azioni criminose più delicate. Per consumare gli omicidi eccellenti si verificavano anche scambi di killer tra le varie strutture criminali consorziate». Ma c’è di più. E lo spiega ai pm calabresi un’altra gola profonda: «Ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Quando Cosa nostra chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti». L’agguato al pm di Cassazione, però, segna un altro punto di svolta. Fino all’8 agosto ’91 la regola generale impediva ai clan calabresi di uccidere uomini delle istituzioni. In cambio gli ’ndranghetisti avrebbero ottenuto aiuto da persone «di un certo livello, che pur essendo esclusi dai poteri legislativi avevano le capacità economiche per poter entrare in determinate situazioni» ha spiegato un altro collaboratore. Questi rispettabilissimi rappresentanti della borghesia cittadina erano coloro che Paolo De Stefano, il "Nero” dello Stretto, chiamava «intoccabili». L’omicidio di Scopelliti, dunque, viola quei patti. Poi, grazie anche al ruolo di alcune toghe «garanti della pax mafiosa», la lacerazione si è ricomposta. Si ristabilivano così gli accordi validi prima della morte del magistrato. Saltati, forse, perché Cosa nostra aveva chiesto un favore. E la ’ndrangheta non poteva rifiutare. Doveva essere riconoscente al gotha mafioso siciliano che si era mosso per portare la pace nella città calabrese. Con Riina, in missione a Reggio nei panni inediti di uomo di pace. Visita avvenuta, dice il pentito Consolato Villani, prima dell’agguato al magistrato. Un’azione eclatante che non trova d’accordo tutti i generali dei clan. Per dirla con le parole di un ex colonnello del crimine, «ad alti livelli bisogna essere amici dello Stato, non nemici». Mafia calabrese e siciliana, dunque, unite nella lotta, negli affari, nella strategia politica. In questo senso anche un altro delitto eccellente fornisce ulteriori tasselli per ricomporre il puzzle. L’assassinio, il 26 giugno ’83, del procuratore di Torino Bruno Caccia. Ucciso su mandato di un capo bastone della ’ndrangheta piemontese, Domenico Belfiore. Diversi collaboratori siciliani dei "Catanesi”, guidati dal gruppo di Jimmy Miano, ammettono di essere stati preallertati dell’imminente agguato al magistrato. Ciò che contava per Belfiore è che gli alleati con cui divideva il territorio torinese sapessero a chi dovevano dire grazie per l’eliminazione del "nemico comune”. E questo fatto, peraltro accertato da un tribunale, conferma quanto rivelato, a distanza di anni, dall’indagine sulla cupola segreta della ’ndrangheta: il capo dei Catanesi-Torinesi, Jimmy Miano, è lo stesso indicato dal pentito Nino Fiume quale membro del "Consorzio”. Accanto a questo, c’è poi una pista - archiviata ma sulla quale la famiglia del giudice difesa dall’avvocato Fabio Repici insiste e chiede nuove verifiche - che conduce al Casinò di Saint Vincent. Il procuratore Caccia stava indagando sul riciclaggio di quattrini mafiosi nella casa da gioco. Un giro di cui anche la ’ndrangheta avrebbe fatto parte. E dove compare un nome, Rosario Pio Cattafi, in passato indagato, e poi prosciolto, con Paolo Romeo, l’avvocato della cupola reggina in quota De Stefano. Un dettaglio ulteriore: l’assassinio di Caccia sarà rivendicato dalle finte Br. Per Scopelliti furono i "falangisti armati” a depistare. In questo senso i delitti Caccia e Scopelliti, gli unici magistrati uccisi dalle cosche calabresi, rivelano molto più di quanto è stato raccontate. C’è poi un ex capo mafia di Messina, Gaetano Costa, al corrente di altri particolari sul patto siglato tra le due mafie: «I legami fra Cosa nostra e ’ndrangheta erano strettissimi. Si arrivò anche a progettare e a dare forma (parliamo del periodo successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la Cosa Nuova, questa serviva anche a inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche». Costa fa i nomi di alcuni padrini col grembiulino. Nomi pesanti: Giuseppe Mancuso e Giuseppe Piromalli. Che è per caratura come dire Riina o Messina Denaro. «La manifestazione più cruenta di questa alleanza è l’omicidio di Scopelliti», conclude. Non tutti dalla sponda calabrese erano, però, d’accordo su come era stata gestita la vicenda. Per questo i clan si spaccano sull’ulteriore proposta di Riina, che invita la ’ndrangheta a partecipare alla mattanza stragista. In Calabria solo tre mammasantissima condividono la volontà suicida, i De Stefano sono tra questi. In due mesi, tra ’93 e ’94, si manifesta qualche timido tentativo. Poi il ritorno alle origini. In silenzio ricostruiscono le basi per il futuro. Mettono in pratica la teoria dell’inabissamento. E abbandonano i Corleonesi al loro destino.  

La lettera dimenticata sugli amici del boss di Cosa Nostra. Un'informativa sulla rete di fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro mai consegnata all'autorità giudiziaria. I personaggi di spicco del trapanese che aiutavano la latitanza dell'ultimo grande capo mafia latitante, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica” il 2 novembre 2016. L'ultimo identikit fatto dalla polizia del latitante Matteo Messina Denaro PALERMO -  Due primari ospedalieri, un commercialista, tre imprenditori, un gioielliere, personaggi potenti ed insospettabili del trapanese, costituirebbero la rete segreta di protezione del capo mafia Matteo Messina Denaro, latitante da 23 anni. Con alcuni di loro, sarebbe andato a cenare abitualmente in un ristorante di Santa Ninfa, sempre armato assieme a tre suoi fidatissimi guardiaspalle perché non voleva farsi catturare vivo. Nomi e cognomi, indirizzi, età e professioni dei favoreggiatori dell'ultimo grande boss di Cosa Nostra sono contenuti in una informativa dei carabinieri da dieci anni, una informativa incredibilmente mai trasmessa all' autorità giudiziaria, rimasta chissà in quale cassetto, e soltanto da poche settimane riapparsa e consegnata alla procuratrice aggiunta Teresa Principato (che coordina il gruppo interforze di carabinieri, polizia e 007 dell' Aisi che danno la caccia a Matteo Messina Denaro) e al sostituto procuratore Nino Di Matteo, pm del processo per la presunta "trattativa" Stato-mafia. Dopo avere fatto terra bruciata attorno al boss, arrestando decine di familiari e di fiancheggiatori delle cosche del trapanese senza però essere riusciti a stanarlo, gli inquirenti puntano ora agli anelli più alti di quella catena che continua a garantire la latitanza di Messina Denaro. E l'informativa, venuta fuori ora, suggerisce nomi di personaggi finora mai finiti nel mirino degli investigatori. Alcuni di loro si sarebbero anche prestati a fare da "postini" che farebbero la spola tra Castelvetrano (il paese del latitante) ed altri centri della Sicilia per fare arrivare o ricevere i "pizzini" con gli "ordini" e le "raccomandazioni" di Matteo Messina Denaro ad altri boss siciliani. Tra i "postini" più attivi due insospettabili, una donna e un pensionato delle ferrovie dello stato. Informazioni fornite da una fonte ritenuta "attendibilissima" - si legge nell' informativa- che suggeriva ai carabinieri di non coinvolgere nelle indagini le forze dell'ordine che allora operavano nella provincia di Trapani per evitare fughe di notizie ed informazioni che sarebbero potute arrivare proprio al boss Matteo Messina Denaro che probabilmente disponeva di qualche "talpa" tra gli investigatori trapanesi. La scottante informativa dei carabinieri che Repubblicaha potuto leggere ha provocato sconcerto e stupore nella Procura di Palermo, che ha avviato una indagine e una serie di accertamenti anche per ricostruire come e perché quell'informativa così importante sia rimasta nascosta per tanto tempo. Le due pagine dell'informativa sono state consegnate nelle settimane scorse alla Procura di Palermo dal generale in pensione dei carabinieri Nicolò Gebbia, che fu tra l'altro comandante della compagnia dei carabinieri di Marsala (che indagava anche su Matteo Messina Denaro) e poi comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Interrogato nei giorni scorsi dal pubblico ministero Nino Di Matteo il generale ha svelato di avere avuto quell'informativa poco prima di lasciare il comando provinciale di Palermo per assumere quello di Venezia e di averla consegnata - ha dichiarato a verbale -  al generale Gennaro Niglio allora comandante della Regione Carabinieri Sicilia, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004 mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Ma da allora di questa informativa nessuno ha saputo più niente. Nell'informativa si fa riferimento a un altro dei misteri siciliani, il sequestro dell'esattore Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, rapito il 17 luglio 1975 dai corleonesi e il cui corpo non è stato mai ritrovato. Il documento inedito svela ora che il suo cadavere sarebbe sepolto in una campagna di proprietà di uno dei favoreggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un sequestro che provocò uno scontro tra i corleonesi e i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (amici dei cugini Salvo) che reagirono uccidendo 17 mafiosi alleati dei corleonesi che avevano partecipato al sequestro di Corleo.  Il generale Gebbia ha anche rivelato di avere appreso che pochi giorni dopo il sequestro di Corleo Nino Salvo telefonò a Giulio Andreotti, a quel tempo Presidente del Consiglio, "ordinandogli" di dare un permesso al boss Gaetano Badalamenti che si trovava al confino nel nord Italia, per rientrare per qualche mese in Sicilia per aiutarlo a liberare il suocero. Il permesso non fu concesso ed i Salvo "si adirarono molto" con Giulio Andreotti.

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate r Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.

Contro i boss in ordine sparso. Gli ultimi fatti di cronaca hanno spezzato il fronte dell'Antimafia. Ecco cosa è accaduto, scrive Lirio Abbate il 20 gennaio 2016 su "L'Espresso". L’antimafia nell’ultimo anno si è disgregata facendo emergere azioni di facciata operate da esponenti della politica, dell’imprenditoria, della magistratura e della società civile. Alla vigilia di Natale il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha fatto appello «al mondo dell’antimafia» sottolineando che «si vedono crepe troppo profonde» e per questo ha voluto lanciare «un grido di dolore» per «una profonda riflessione al proprio interno» per evitare «di prestare il fianco a chi cerca di cavalcare i singoli scandali per delegittimare una lunga storia di riscatto sociale e morale che va invece difesa con orgoglio».

Il presidente degli industriali siciliani Antonello Montante, delegato nazionale di Confindustria per la legalità, è stato indagato per fatti di mafia. I pm, in base alle dichiarazioni di pentiti, lo accusano di aver intrattenuto relazioni con esponenti di Cosa nostra negli anni precedenti alla sua azione di legalità intrapresa con Confindustria Sicilia. Montante si è dichiarato estraneo ai fatti contestati: «Mai avrei pensato di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni». La notizia deflagra nell’antimafia e come le tessere del domino fa cadere altri “paladini” della legalità.

Il giudice Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, viene indagata per corruzione nella gestione dei beni sequestrati. Suscita clamore a Napoli il coinvolgimento nell’inchiesta sui casalesi dell’ex senatore Ds Lorenzo Diana, ex componente della Commissione antimafia: avrebbe fatto ottenere appalti in cambio di favori personali.

Pochi giorni fa il pm di Napoli Maresca ha accusato Libera e don Ciotti. In precedenza c’era stato dentro Libera un polemico addio di Franco La Torre, il figlio del parlamentare ucciso a Palermo, liquidato da don Ciotti via sms dopo le critiche mosse durante un incontro pubblico. Maresca accusa Libera di albergare «persone senza scrupoli» e di aver acquisito «interessi di natura economica». Ciotti ha risposto con la querela: «Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza».

Lettera di Carla Raineri al "Fatto Quotidiano" (pag. 10) 17 febbraio 2017. Rilevo che il Dott. Cantone riferisce nell'articolo del Fatto Quotidiano di mercoledì di essersi recato in Campidoglio su richiesta della Raggi il 24 agosto; anzi di essersi graziosamente "offerto" di andare in Campidoglio con due suoi collaboratori "come avevo fatto in passato con Marino e Tronca". Non so cosa il dott. Cantone abbia fatto ai tempi della consiliatura di Marino, ma mai nel periodo in cui io sono stata al fianco del Prefetto Tronca ho avuto il piacere di vedere il dott. Cantone in Campidoglio. E stupisce davvero una così zelante disponibilità: tre esponenti di Anac, fra cui il vertice in persona, che si precipitano dalla Raggi in un giorno di fine agosto! Tuttavia il Dott. Cantone non ricorda che nelle interviste rese al Sole 24 Ore ed al Corriere in data 7 settembre 2016 riferì di essersi recato in Campidoglio nel primo pomeriggio del 29 agosto e non il 24 agosto come afferma, invece, nella intervista al Fatto dello scorso mercoledì (e le date non sono irrilevanti!), mentre apprendo con sconcerto che a quella riunione, oltre a Frongia, era presente Marra. Ma, evidentemente, il Dott. Cantone non si è preoccupato né in quell`occasione, né successivamente, di acquisire la mia versione, nonostante la decisione riguardasse la mia nomina. Sulla erroneità delle valutazioni effettuate dall'ANAC ha già fatto giustizia il provvedimento della Corte dei Conti; ma il punto principale è che Cantone si è arrogato una competenza che non gli spettava né per legge, né per regolamento, sulla nomina del Capo di Gabinetto ed ha reso il parere con sorprendente rapidità, senza effettuare alcuna istruttoria, disattendendo tutti i precedenti specifici in materia e facendolo consegnare "invia riservata" con un pony express. Sul parere richiesto dalla sindaco su Salvatore Romeo, giova evidenziare che il quesito è stato inoltrato dal Campidoglio all'Anac il 26 agosto; il parere dell'Anac è stato reso il 7 settembre (il mio in 24 h) e la Raggi lo ha poi protocollato 22 giorni dopo, cioè il 29 settembre (mentre quello che mi riguardava lo ha postato su facebook la notte del 31 agosto). Singolare, poi, è il fatto che si concluda con un dispositivo così vago e possibilista che ha consentito di lasciare Salvatore Romeo esattamente al suo posto, seppure con una lieve riduzione del suo stipendio, peraltro neppure sollecitata dall'Anac. Peccato che Cantone non abbia ravvisato nella delibera di nomina di Salvatore Romeo posta alla sua attenzione - come invece io ed altri ravvisammo all`epoca, tanto che non vi apposi il visto - una evidente ipotesi di abuso d`ufficio. Ipotesi ora contestata dalla Procura. Non posso, infine, che compiacermi del sollecito intervento di Anac sul conflitto di interessi rilevato nella nomina di Renato Marra ed auspico che il Presidente Cantone possa riflettere anche sui possibili conflitti di interesse in riferimento agli incarichi di suo fratello, l'avv. Bruno Cantone, che, come è emerso dalle recenti indagini condotte dalla procura di Napoli sul caso Consip di cui ha riferito la stampa, assiste aziende ed imprese partecipanti a gare di appalti pubblici (fra cui la Romeo Gestioni di Alfredo  Romeo) soggette, in quanto tali, alla vigilanza di Anac.

Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...

Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.

«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?

«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».

In che senso?

«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».

Nessuna soffiata alla stampa?

«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».

Oggi sarebbe assolutamente impensabile...

«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».

Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?

«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».

Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?

«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».

Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?

«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».

Diversa ma non sconfitta?

«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».

Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?

«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».

E quindi dove e come germina oggi la mafia?

«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».

Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?

«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».

Vi racconto quel maxi-processo di 30 anni fa, scrive Alberto Cisterna il 15 ottobre 2016 su "Il Dubbio". La lotta a Cosa Nostra: a Palermo andò in scena il capolavoro giudiziario di Falcone. Fu tutto il bene e tutto il male della magistratura. Trent'anni dall'inizio del maxiprocesso di Palermo. Alla sbarra quasi 500 imputati. I rappresentanti ed i gregari dei più importanti mandamenti della mafia siciliana. Un'impresa costata la vita a tanti servitori dello Stato, ed a Falcone e Borsellino tra i primi. Un'impresa osteggiata dentro e fuori la magistratura italiana. I nemici esterni ed interni del maxiprocesso furono tanti e questo resta ancora un capitolo oscuro di una storia che ha ormai i contorni di un'epopea. Portare alla sbarra, tutti insieme, centinaia di mafiosi, mentre si andavano spegnendo nel Paese i bagliori di sangue del terrorismo, era più che celebrare un processo. Era un progetto "politico", lungimirante ed ambizioso, per ribaltare le sorti della Sicilia e spezzare il giogo delle cosche nel Sud che, Falcone riteneva, avrebbero finito per minacciare la democrazia e le sue regole. Negare la natura "politica", ossia etica, della scelta di Falcone e i suoi di sconfiggere per sempre la mafia raccogliendo in un unico processo le dozzine di indagini, prima spezzettate in un nugolo di micro inchieste, equivarrebbe (forse) a negare il nucleo morale più denso del segnale che si voleva dare con quella intuizione così dirompente e innovativa. Sia chiaro nella storia del Paese non erano mancati processi a carico di decine e decine di imputati, anche in Sicilia e soprattutto negli anni '60. Non era in discussione, solo, un dato numerico. Per la prima volta si voleva processare la Mafia e, con essa, coloro che ne facevano parte. Un'operazione che definire solo giudiziaria, ripeto, sarebbe poca cosa. E poiché si doveva far comprendere alla mafia ed alla Nazione la portata di quella rivoluzione, i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi, per far comprendere i risultati delle proprie acquisizioni e per condividere le scoperte costate il sangue di tanti. Ecco la storia del maxiprocesso è, anche, la storia di una relazione nuova, sofisticata verrebbe da dire, tra giustizia ed informazione. I vecchi cronisti di "giudiziaria" vennero poco a poco soppiantati nelle redazioni da un ceto di intellettuali, spesso raffinati, che si votarono a scrivere in modo nuovo della mafia ed elaborarono linguaggi efficaci e mai sperimentati prima. La spiccata prudenza, l'agiografia poliziesca, cedettero il passo ad analisi più profonde e radicali. Le leggi dell'economia, della politica, della sociologia, della cultura vennero indirizzate per sostenere e confermare le tesi di Falcone e del pool. L'esistenza della "Cupola", della piramide mafiosa, il cosiddetto teorema Buscetta costituirono, probabilmente, il primo caso in cui verità sociologiche e comportamentali uscirono dal recinto tecnico e grigio dei processi per spandersi nella società civile come categorie di interpretazione della realtà. Leonardo Sciascia stesso, il più fine ed integro intellettuale del tempo, restò spiazzato da un'operazione che non era solo, e non era più, una buona strategia processuale, ma soprattutto il mezzo per rendere egemone nella società italiana (e non solo) l'interpretazione della mafia e dei suoi meccanismi di potere e sangue. Ci sarà la polemica strumentale, alimentata da alcuni superficiali, dei "professionisti dell'antimafia", e poi cancellata da Giovanni Falcone con la prefazione del suo libro "Cose di cosa nostra" dedicato proprio a Sciascia. Dopo tre decenni non deve essere considerato un caso che le prime due cariche della Repubblica, il presidente Mattarella e il presidente Grasso, abbiano indissolubilmente legato le proprie esistenze a quella stagione. E' forse la vittoria più grande di quella strategia geniale del pool palermitano. Il consenso sociale che si è coagulato su queste vite spese dalla parte dello Stato è la dimostrazione più evidente che non si trattato solo di un maxiprocesso, ma di una fine intuizione "politica", ossia della consapevole realizzazione di un contesto entro cui costruire e sorreggere la convinzione che la mafia sarebbe stata sconfitta anche fuori dalle aule di giustizia. A dispetto di un fatalismo prossimo alla complicità. Di questa enorme eredità restano, come detto, segnali contraddittori. Lo strumento del maxiprocesso è stato man mano piegato ad esigenze particolari, se non personali, per dare lustro a qualche attività di polizia. Per carità cose importanti, ma che nulla hanno a che fare con quella stagione e con quella visione "alta" della società e della magistratura. Lo stesso giornalismo, nel progressivo esaurirsi della parabola straordinaria di un ceto colto e lungimirante, appare, troppe volte, la mera cassa di risonanza di indagini e di atti giudiziari destinati, abbastanza velocemente, ad essere dimenticati. Dopo 30 anni quella lezione "politica" ed etica ha ceduto il passo alla furbizia dei carrierismi e dei protagonismi individuali, mandando in fumo il senso profondo di quell'aula gremita di centinaia di mafiosi sperduti e vocianti. Come in un quadro di Salvador Dalì il tempo di quel processo appare consunto, misurato da orologi non più capaci di stare in piedi, ma solo adagiati, svuotati di senso, su rami spogli ed erosi. Visto dalla prospettiva di questa decadenza utilitaristica lo strumento del maxiprocesso appare desueto, se non addirittura denso di minacce. La bulimia del processo monstre fagocita fatti e persone, adoperando talvolta legami deboli, pregiudizi, feticci ideologici o sociologici (si pensi solo all'appeal mediatico della cosiddetta zona grigia, rimasta priva di apprezzabili conferme processuali). Esattamente l'opposto dell'ambizioso progetto del pool palermitano che puntava al nucleo centrale della mafia evitando di selezionare comportamenti, abitudini, relazioni che erano proprie dell'antropologia siciliana e meridionale in generale. Falcone ed i suoi non immaginavano alcuna contaminazione o contagio dei mafiosi verso un'immaginifica società civile, pura e innocente, preda degli appetiti dei picciotti, ma mostrarono piuttosto di avere sempre ben chiaro il punto di separazione tra la callida collusione e la succube connivenza delle collettività siciliane con la mafia. Ebbero l'ambizione di processare le cosche e non la società palermitana o un indistinto sistema di potere. Per questo, a distanza di 30 anni, appare ancora più opaca la posizione di chi scelse di fermarli o di schierarsi contro. Il maxiprocesso rappresentò una straordinaria manifestazione di forza e di efficienza di una parte della magistratura e delle forze di polizia e questo dovette allarmare non solo la mafia.

Chiedo scusa se parlo male di Falcone e del maxiprocesso..., scrive Tiziana Maiolo il 18 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare: alla sconfitta della Mafia. Il Maxiprocesso di Palermo fu il Maxierrore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l'errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l'ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l'arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta: «per la prima volta si voleva processare la Mafia», con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l'appunto. Va ricordato, solo a parziale comprensione dell'iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente. Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone. È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l'allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa. Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d'appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell'esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica. Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxierrore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa. La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l'anzianità del collega Meli alla presidenza dell'ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull'attività della prima sezione di Cassazione, da cui l'alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica sull'"ammazzasentenze" per sottrarre il maxiprocesso alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente. E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d'appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l'Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l'ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti- Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti.

Martelli: «Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato», scrive Paola Sacchi il 23 maggio 2016 su "Il Dubbio". «Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato». Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione.

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri».

Quanto piacciono le grandi opere alla mafia. I clan hanno lavorato in quasi tutti i cantieri d'Italia. Piccoli e grandi. Da Sud a Nord. Expo, Tav, autostrade. E persino per le opere propedeutiche al ponte sullo Stretto. Una storia italiana che si lega all'inchiesta "Corruzione in corso" su l'Espresso, scrive Giovanni Tizian il 18 novembre 2016. Expo, Salerno-Reggio Calabria, Alta velocità. E persino le opere preliminari per il ponte sullo Stretto. Grandi opere, grandi affari. Per pochi, non per tutti. In questa fortunata cerchia rientrano le aziende delle cosche. E dato che le vie del riciclaggio sono infinite, seguirle conduce spesso a indirizzi che non ti aspetti. In fondo, è ciò che ha fatto la procura antimafia di Roma: sentendo puzza di denaro sporco col timbro dei clan di 'ndrangheta, ha illuminato quei canali ritrovandosi a un certo punto del viaggio nel bel mezzo dei cantieri delle grandi opere italiane. La scintilla dell'ultima inchiesta "Amalgama" è proprio questa, un tremendo puzzo di quattrini lerci che ha portato gli inquirenti sulla pista di un sistema in cui i protagonisti principali della storia sono manager dei più importanti colossi delle costruzioni, ingegneri esperti di direzione lavori, imprenditori che collezionano subappalti nelle grandi opere. Al centro di tutto c'è lei: la signora Mazzetta. Che da Tangentopoli in poi ha subito un'evoluzione costante, fino a trasformarsi in un do ut des fatto non tanto di scambi di denaro liquido, ma di favori in cambio di appalti, consulenze, incarichi. Sull'Espresso in edicola da domenica l'inchiesta "Corruzione in corso" mostra, attraverso documenti inediti, il Sistema che si arricchisce, in maniera illecita, lucrando con le infrastrutture strategiche per il Paese. Riciclaggio mafioso, dicevamo. I clan, nel settore delle costruzioni, hanno sempre detto la loro. Difficile trovare una grande o piccola opera in cui direttamente o indirettamente le imprese dei boss non abbiano lavorato. La storia dei cantieri italiani è costellata di padrini in doppio petto e con la partita iva che si sono inseriti nel business del calcestruzzo. Talmente normale, che anche i media non ci fanno quasi più caso. È notizia di pochissimi giorni fa, per esempio, la retata che ha portato in carcere l'estesa rete di fiancheggiatori del boss di Reggio Calabria Domenico Condello, detto "Micu u pacciu". Un'inchiesta durata alcuni anni che, oltre ad azzoppare il livello militare, ha svelato il network di aziende della galassia Condello. E proprio una di queste ha lavorato - agli atti c'è persino il numero di contratto stipulato - per il consorzio Eurolink, il gruppo di società composto in primis da Salini-Impregilo, Società Condotte d'Acqua e Cmc, che dovrà realizzare il ponte sullo Stretto. Eurolink ha affidato nel 2010 l'esecuzione di alcuni lavori alla cordata costituita da Teknosonda, Calabrese Pasquale e Calabrese Antonio per un valore, stimano gli investigatori, di oltre 1 milione di euro.La commessa riguarda la cosiddetta "Variante ferroviaria di Cannitello", un lavoro propedeutico alla grande opera dello Stretto. Non è raro che aziende sospette riescano a bucare i controlli, insinuandosi persino laddove esistono protocolli antimafia, all'apperenza molto severi, in pratica facili da aggirare. Sempre nella stessa indagine della procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho, il Ros dei carabinieri ha individuato altre imprese legata al clan Condello all'interno dei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. In particolare nel sesto macrolotto, che arriva fino a Campo Calabro. Lo stesso pezzettino al centro delle inchiesta romana "Amalgama" sulle grandi opere. Anche in questo caso il general contractor era composto da Salini-Impregilo e Società Condotte d'Acqua. Se lasciamo la Calabria, direzione Lombardia, Milano, la situazione non migliora. Anzi. Per l'Expo 2015, è stato accertato come la 'ndrangheta abbia realizzato numerosi lavori. Dai padiglioni a lavorazioni legate al maxi appalto della Piastra sulla quale poi sono stati montati i vari stand del mondo. Anche sull'Esposizione universale la magistratura ha indagato. I pm di Milano per quel che riguarda il filone delle tangenti, Reggio Calabria per le infiltrazioni mafiose. Ancora una volta corruzione e mafia si mostrano per quello che sono: due facce della stessa medaglia in un Paese esausto e la cui crescita è bloccata da un mercato che privilegia i furbetti e non i più competenti. Persino nel cantiere militarizzato della Torino-Lione, il Tav che taglierà in due la Val di Susa, le 'ndrine sono riuscite a infilare i propri uomini. Emerge, per esempio, dall'indagine del Ros dei carabinieri e della procura antimafia di Torino. Mafia ad alta velocità, non esattamente una novità. Stesso copione lo ritroviamo nelle tratte Torino-Milano, Bologna-Parma, Napoli-Roma. Imprenditori delle organizzazioni che si sono occupati principalmente di lavorazioni specifiche, movimento terra in particolare ma non solo. Dell'intreccio tra mafie e corruzioni, ne ha di recente parlato la procura nazionale antimafia. Nella sua ultima relazione ha denunciato quanto le organizzazioni mafiose siano ormai dentro i sistemi corruttivi. E che al piombo, i padrini preferiscono la mazzetta quale principale strumento di entrata nei circuiti che contano. Insomma, prima provano a comprare il dirigente, il tecnico, il manager e, in caso di rifiuto, rispolverano i vecchi arnesi del mestiere. Ma è l'inchiesta della procura di Roma coordinata dal pm Giuseppe Cascini che rivela ancora una volta la saldatura tra i due mondi: corrotti e mafiosi sulla stessa barricata. Nelle informative dei carabinieri della Capitale c'è più di qualche indizio. Come per esempio il passaggio in cui Giampiero De Michelis, l'ingegnere dai mille incarichi, detto anche il "Mostro" dai manager dei general contractor, fa riferimento a un suo collaboratore. Tale Pasquale "Lillo" Carrozza. Chi è "Lillo"? È un geometra, «già dipendente della Società Condotte d'Acqua con la qualifica di capo cantiere presso i lavori di costruzione della Salerno-Reggio Calabria. Tratto in arresto dall'antimafia reggina nel 2012 per associazione mafiosa, truffa, frode nelle pubbliche forniture». Ecco cosa dicono di lui De Michelis e un altro intercettato: "Lillo", in pratica, accompagnava alcuni boss della 'ndrangheta in Anas e agli stessi capi bastone forniva le proprie utenze telefoniche per fare chiamte riservate. Ma, stando al racconto dei due, Carrozza era considerato «l'intermediario tra la società Condotte e la 'ndrangheta». De Michelis è un professionista stimato. Non per niente era dentro la società di ingegneria Sintel, di Giandomenico Monorchio, figlio del più noto Andrea, ex ragioniere generale dello Stato, poi in Infrastrutture Spa e ora ingaggiato da Salini Spa come presidente del collegio sindacale. Anche di questo e dei legami tra le varie indagini e personaggi coinvolti nelle grandi opere parlerà l'Espresso.

Tangenti, narcotraffico, pizzo: per l'Italia anche il 2016 è stato un altro anno di mafia. La mafia è ancora viva. Sta bene e continua a comandare su interi territori. Spesso nel silenzio generale. Gli ultimi dodici mesi raccontati attraverso gli eventi che hanno fatto più discutere e quelli meno visibili, scrive Giovanni Tizian il 29 dicembre 2016 su "L'Espresso". Il 2016 è stato un anno di mafia. Come l'anno prima e quello prima ancora. La differenza è che il Paese, oggi, sembra praticamente assuefatto dallo scorrere delle notizie che riguardano le nostre quattro grandi aziende criminali: camorra, 'ndrangheta, cosa nostra e mafia pugliese. L'abitudine crea dipendenza: così la convivenza con il potere criminale è diventata la normalità. Nell'accettazione di ciò che normale non è, abbiamo perso di vista i danni reali alle persone, alle cose, all'ambiente, che le cosche provocano con i loro business. Non sempre ci sono i morti ammazzati, anche se questi non mancano, a ricordarci che le mafie sono vive e vegete. Spesso si tratta di imprenditori strozzati dall'usura, dal pizzo, o cittadini disperati per le perdite alle slot machine. Spesso, insomma, i corpi dilaniati di questa eterna guerra contro le cosche non si vedono, ma esistono eccome. Certo, il sangue sul marciapiede fa più effetto che il fallimento di imprenditori onesti che non hanno accettato di pagare tangenti e per questo sono rimasti fuori dai giochi dei grandi appalti. Un mondo dove troppe volte ritroviamo aziende partner delle organizzazioni mafiose. Oppure pensiamo ai giornalisti che quotidianamente vengono intimiditi durante il loro lavoro. Anche nell'anno che sta finendo non sono mancati sindaci, assessori, parlamentari arrestati per complicità con le cosche. Così come tanti altri municipi sono stati sciolti per il condizionamento dei boss: l'associazione Avviso Pubblico ne ha contati 213 dal 1991 a oggi. Molte volte queste notizie non le abbiamo lette perché relegate alle pagine locali dei quotidiani di provincia. Ecco, messi assieme questi eventi forniscono il quadro inquietante di quanto ancora il Paese sia ostaggio dei clan. Organizzazioni criminali che, come ha sottolineato all'inizio del 2016 il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, utilizzano sempre di più la corruzione come metodo per imporsi nel mercato. La mazzetta strumento delle cosche, al pari delle pistole. Mafie, in particolare la 'ndrangheta, che oltre a corrompere e a infettare l'economia sana, continuano a essere leader nel narcotraffico in Europa. Questi fatti e i numeri impressionanti di operazioni, arresti, sequestri e confische (nell'ultimo anno solo la Dia di Reggio Calabria ha sottratto beni per il valore di 1 miliardo) dovrebbero proiettare la questione in cima all'agenda del governo. Ma siamo certi che neppure nel 2017, la lotta alle mafie sarà tema di discussione. Né da parte della maggioranza né della minoranza.

QUARTO GATE. Il 2015 è agli sgoccioli quando scoppia la prima vera grana giudiziaria in casa Cinquestelle. Deflagra in Campania, a Quarto, dove da sei mesi l'amministrazione è pentastellata. Tutto parte da un tentativo di estorsione ai danni del sindaco Rosa Capuozzo. L'autore indagato dalla procura antimafia di Napoli è un consigliere comunale grillino, Giovanni De Robbio, sotto inchiesta per voto di scambio, aggravato dall'aver agevolato il clan di camorra Polverino. De Robbio avrebbe minacciato il sindaco Capuozzo lasciando intendere alla collega del movimento di essere a conoscenza dell'abuso edilizio nell'abitazione del marito. Perché il segreto rimanesse tale avrebbe chiesto l'affidamento della gestione del campo di calcio a imprenditori da lui segnalati nonché la nomina di assessori, funzionari e di un consulente. Se i fatti emergono alla fine dicembre, la valanga di polemiche continuerà per mesi. Dal Pd al centrodestra un unico coro: dimissioni e commissariamento. Nel frattempo il consigliere De Robbio era stato già espulso dal movimento per aver violato il codice etico. E da lì a poco Beppe Grillo avrebbe levato il simbolo dalla giunta di Quarto. La sindaca, interrogata dai pm ma non indagata, ha spiegato che le pressioni di cui è stata vittima non le ha mai denunciate per salvare il Comune. Quarto in passato era stato sciolto per infiltrazioni della camorra. Uno dei 213 Comuni chiusi per mafia dal 1991. Nel 2016 i consigli comunali sciolti sono stati ben sei. Storie rimaste sotto traccia, piccoli paesi di cui nessuna parla e dove la democrazia è stata sospesa per l'ingerenza delle mafie.

AEMILIA. L'undici gennaio si è alzato il sipario sul maxi processo alla 'ndrangheta emiliana. Settantuno imputati hanno scelto il rito abbreviato. Processati nell'aula allestita alla fiera di Bologna, l'unica in grado di ospitare così tanti imputati. È un momento storico per l'Emilia Romagna, che per la prima volta è costretta a confrontarsi con la dimensione reale del fenomeno mafioso. Un'infiltrazione che in trenta e passa anni è diventato radicamento. Clan, cioè, che hanno scelto la regione più ricca d'Italia come base stabile dei propri affari. Alla sbarra boss, gregari, professionisti, politici e imprenditori. La cosca sotto accusa è quella dei Grande Aracri, originaria di Cutro, provincia di Crotone. L'abbreviato si è concluso con quasi tutte condanne. Destino diverso per i due politici: uno assolto, l'altro prescritto. Il 23 marzo, invece, inizia a Reggio Emilia il dibattimento del maxiprocesso: 143 imputati, centinaia di testimoni chiamati dall'accusa e dalle difese. E numerosi pentiti da ascoltare. Il processo è ancora in corso. Il 20 aprile, in seguito all'inchiesta da cui sono scaturiti i processi alla 'ndrangheta Emiliana, è stato sciolto il consiglio comunale di Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. È il primo municipio dell'Emilia a subire un provvedimento di questo tipo. È sempre in questo periodo che spunta un nuovo collaboratore di giustizia, Pino Giglio, che con le sue aziende lavora da anni tra Modena e Reggio Emilia. Arrestato con l'accusa di far parte del clan Grande Aracri, ha deciso di vuotare il sacco. Dichiarazioni che hanno riempito pagine e pagine di verbali, molti dei quali ancora top secret.

IL PALADINO. Il 22 gennaio scattano le perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità di Confindustria. La notizia dell'indagine sul capo degli industriali siciliani era stata data un anno prima da Repubblica: «C'è un pezzo grosso dell'Antimafia dell'ultima ora che è finito sotto inchiesta per mafia» scrivevano Attilio Bolzoni e Francesco Viviano. Uno scoop che he aperto per la prima volta uno squarcio nel muro di ipocrisia dell'antimafia di facciata. Nel capo di incolpazione la procura di Caltanissetta contesta a Montante: «Per avere concorso nelle attività dell'associazione mafiosa mettendo in modo continuativo a disposizione in particolare di Vincenzo e Paolino Arnone (consigliere e reggente della famiglia mafiosa di Serradifalco, ndr) la propria attività imprenditoriale consentendo al clan di ottenere l'affidamento di lavori e commesse anche a scapito di altri imprenditori, nonché assunzioni di persone segnalate dagli stessi, ricevendone in cambio il sostegno per il conseguimento di incarichi all'interno di enti e associazioni di categoria, la garanzia in ordine allo svolgimento della sua attività imprenditoriale in condizioni di tranquillità, senza ricevere richieste di estorsioni e senza il timore di possibili ripercussioni negative per l'incolumità propria e dei beni aziendali, nonché analoghe garanzie per attività riconducibili a suoi familiari e a terzi a lui legati da stretti rapporti». Delitto che Montante avrebbe commesso a partire dal 1990.

LA MONTATURA. «Forse non siamo stati chiari. Lo Sporting Locri va chiuso». La minaccia ricevuta dall'allora presidente della squadra di calcio a 5 femminile, che milita nella massima serie, aveva fin da subito attirato l'attenzione dei media. Peraltro lo stesso presidente Ferdinando Armeni, d'accordo con tutta la dirigenza, aveva annunciato l'azione più eclatante: ritiro della squadra, causa intimidazioni in stile mafioso. Locri è una piccola realtà, uno di quei luoghi, purtroppo, che pochi conoscono se non per fattacci di cronaca. Così il drammatico annuncio ha provocato una reazione di solidarietà a catena. Mondo dell'antimafia mobilitato, federazione calcio con Carlo Tavecchio pronto a intervenire per salvare quel gruppo che in effetti si era dimostrato essere una vera sorpresa nel panorama sportivo. Una realtà di grandi speranze per il territorio che suo malgrado è finita stritolata in una montatura orchestrata ad arte. I riflettori sul caso di spengono a gennaio, dopo la partita contro la Lazio. Tra il pubblico, oltre a cronisti di tutta Italia, c'era anche Carlo Tavecchio. Attestati di solidarietà, retorica antimafia e sermoni sulla legalità, per poi scoprire che in realtà la 'ndrangheta in questa vicenda non c'entra proprio nulla. Anzi, la procura di Locri ha chiesto l'archiviazione ad aprile. Il procuratore di Locri Luigi D'Alessio ha definito una montatura tutta la vicenda.

NARCOITALIA. Nel 2016 inizia il processo Columbus. Alla sbarra i narcos delle 'ndrine calabresi. L'indagine dell'antimafia reggina e dei poliziotti dello Sco ha svelato la nuova piazza affari della cocaina: New York. E qui che la 'ndrangheta con i suoi uomini tratta le partite di droga con i cartelli colombiani e messicani. Nella Grande Mela le cosche calabresi sono le prime interlocutrici delle famiglie siciliane, che rappresentano la cosa nostra americana, ben raccontata in decine di pellicole cinematografiche. Nel frattempo il flusso di polvere bianca non si è arrestato. Nei porti di Gioia Tauro ma anche in quelli di Rotterdam e Anversa, i narcos calabresi continuano a fare arrivare tonnellate destinate al mercato europeo. È sufficiente leggere le brevi sui sequestri settimanali per capire di che numeri parliamo: solo nel porto calabrese e solo nel 2016 sono stati bloccati 1500 chili. Una tonnellata e mezzo, tutta questa droga venduta al dettaglio può produrre profitti per miliardi di euro. Non solo coca. Il Gico della guardia di finanza di Palermo in un'operazione che dura ormai da due anni è riuscito a tracciare il flusso del traffico di hashish dal Marocco. Un traffico che riguarda sia cosa nostra e che la 'ndrangheta. In tre anni sono state intercettare 120 tonnellata di hashish, il cui valore complessivo al dettaglio è stimabile in circa 1,2 miliardi di euro. Il sospetto è che dietro al traffico internazionale di hashish ci possano essere gruppi della jhiad.

PASCOLI CRIMINALI. «E’ stato un agguato sono stato bloccato mentre tornavo da una manifestazione a Cesarò. A un tratto abbiamo trovato dei grossi sassi sulla strada. Neanche il tempo di capire cosa è successo che siamo stati crivellati dalle pallottole. Un uomo della scorta si è buttato su di me, e a salvarci la vita è stato il vice questore Manganaro che per caso era dietro di noi su una volante. Sparando ha messo in fuga gli assalitori». È il racconto che Giuseppe Antoci fa a Repubblica, nelle ore successive all'agguato subito sui Nebrodi. Lui, presidente del parco dei Nebrodi, non ha dubbi: «Sono certo di chi siano i mandanti, sono i mafiosi dei Nebrodi ma anche la 'ndrangheta, perché il protocollo che abbiamo messo in atto qui in Sicilia sarà applicato anche in Calabria». Già da tempo Antoci vive sotto scorta. I clan di quelle zone lo vogliono morto. La sua colpa? Far rispettare la legge in un'area dove la legge l'ha sempre imposta la mafia. La mafia dei pascoli, per la precisione. Quelle cosche, cioè, che sugli ettari ottenuti in maniera illegale incassavano pure finanziamenti europei. Con i protocolli firmati da Antoci oltre 5 mila ettari sono stati sottratti ai boss, e sono arrivate i primi provvedimenti delle prefetture per bloccare i mafiosi che volevano inserirsi nel business.

INVISIBILI. Il 15 luglio è un giornata particolare. Il the day after della strage di Nizza per mano dell'Isis e il giorno del tentativo di colpo di Stato in Turchia. Intanto è in quelle ore che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene l'arresto della componente “riservata” della 'ndrangheta. Chi sono costoro? Uomini dei clan, alcuni dentro le istituzioni altri esterni ma in grado di condizionarle. Sono gli invisibili, così li definiscono alcuni pentiti. In questa inchiesta il pm Giuseppe Lombardo delinea l'ultimo livello ancora nascosto della 'ndrangheta. Un livello composto da professionisti, dirigenti pubblici e politici. Come il senatore Antonio Caridi: «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Caridi, quindi, punto di riferimento nazionale, di quella che la procura, guidata da Federico Cafiero De Raho, definisce una struttura segreta- impastata di massoneria- e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd. Caridi finirà in carcere solo dopo il voto favorevole all'arresto espresso dal Senato. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia.

VIOLENZA E SILENZI. Una ragazza costretta a fare sesso, violentata da un branco, il cui capo era il figlio del boss del paese. Siamo a Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria. La vicenda ha commosso l'Italia. E ha spinto persino la presidente della Camera Laura Boldrini, insieme a Rosy Bindi della commissione antimafia, ad andare a Reggio Calabria per la manifestazione di solidarietà. Una storia di abusi che ci fornisce una certezza: i mafiosi non sono uomini men che meno d'onore. Stuprano, ammazzano donne e bambini. Chi vi dice il contrario racconta favole, leggende utili a santificare i padrini. Non è la prima volta che accade. Purtroppo tante ragazzine hanno dovuto subire violenza dagli 'ndranghetisti in erba. Ragazze rovinate per sempre. Che in qualche modo hanno provato a ribellarsi. Nonostante l'omertà che le circondava. E nonostante quel potere che tutti rispettano in religioso silenzio.

MAFIA CAPITALE. Il 2016 è l'anno del processo di mafia Capitale. Le udienze procedono a ritmo spedito E non sono mancate le sorprese. Per esempio, abbiamo scoperto che la deputata del Pd Micaela Campagna ha la memoria cortissima. La parlamentare- ex moglie di Daniele Ozzimo, assessore Pd alla Casa e coinvolto nella stessa inchiesta e già condannato a due anni per corruzione- con i troppi “non ricordo” sui rapporti con Salvatore Buzzi (il ras delle coop) ha fatto infuriare la presidente della Corte, Rossana Ianniello: «Le ripeto per la quarta volta, mentire sotto giuramento è un reato molto grave» le ha fatto notare la giudice. È probabile che di questa vicenda ne sentiremo parlare anche nell'anno nuovo. Infatti la procura di Roma potrebbe indagarla con l’accusa di falsa testimonianza. Ma detto del comportamento «reticente» della Campagna, è stato, senza dubbio, l'anno di Massimo Carminati. Per la prima volta ha parlato in aula. Per dire che, sì, il furto al caveau a piazzale Clodio, sede del tribunale, l'ha fatto e che probabilmente tra i tanti soldi c'era pure qualche documento. Questa confessione è la conferma che il potere del “Nero”, così come sosteneva la procura, viene proprio da quel furto, non solo di denaro ma anche di carte con un forte potere di ricatto. “L'Espresso” ha dedicato una copertina a questa vicenda dal titolo "Ricatto alla Repubblica" la settimana prima dell'annuncio di Carminati in aula. Lirio Abbate e Paolo Biondani hanno pubblicato per la prima volta i nomi delle vittime di quel furto. Magistrati, avvocati, professionisti vari, che qualche modo erano legati ai misteri d'Italia. Il 2016 è anche l'anno del patteggiamento di Luca Odevaine, l'altro grande protagonista del mondo di mezzo di Carminati. Odevaine era tirato in ballo soprattutto per il business dell'accoglienza nel centro più grande d'Europa a Mineo, provincia di Catania. Per questi fatti, qualche settimana fa, la procura di Catania ha chiuso la seconda tranche, tra gli indagati compare il nome di Giuseppe Castiglione, sottosegretario in quota Ncd, il partito di Angelino Alfano.

GRANDI OPERE. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare

Expo, Terzo Valico, Torino-Lione, Salerno-Reggio Calabria, ponte sullo Stretto, ricostruzioni post terremoto. Un lungo elenco, interminabile, di opere pubbliche dove le aziende legate a mafia e 'ndrangheta sono riuscite e penetrare. L'anno che se ne va lascia in carico un'indagine ancora in corso, solo in parte svelata: la procura di Roma e quella di Genova hanno mostrato come veniva gestiti i lavori dai general contractor nei cantieri più importanti in Italia. Al centro un imprenditore sospettato di connessioni evidenti con le cosche calabresi. Sull'Expo, invece, le inchiesta hanno certificato ciò che alcune inchieste giornalistiche avevano già ipotizzato: il 70 per cento dei lavori è stato fatto dalle 'ndrine e la mafia siciliana ha contribuito a realizzare alcuni padiglioni. Insomma, l'Esposizione universale ha portato quattrini nelle casse non solo dello Stato ma anche in quelle delle organizzazioni mafiose.

TRATTATIVA STATO MAFIA. A maggio viene assolto anche in Appello il generale Mario Mori. Insieme a lui imputato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano anche l'ex colonnello Mauro Obinu. Un processo parallelo a quello principale sulla Trattativa, ma tassello essenziale. Perché una delle ipotesi è che in cambio della cessazione della strategia stragista sarebbero stati garantiti da pezzi dello Stato benefici di varia natura a Cosa nostra. E la latitanza di Provenzano – proseguita per undici anni dopo il fallito blitz di Mezzojuso – sarebbe stata il frutto di questo accordo. In pratica Provenzano era ritenuto il garante dell’accordo tra cosa nostra e lo Stato. Il processo principale sulla Trattativa è ancora in corso. In quest'ultimo un anno prima era stato assolto Calogero Mannino. La procura ha presentato appello. Intanto il dibattimento che vede politici, militari e boss mafiosi accusati di violenza o minaccia a corpo politico o istituzionale dello Stato, prosegue.

LA 'NDRANGHETA PADANA. Il 2016 è l'anno delle sentenze che confermano l'esistenza della 'ndrangheta al Nord. Tra maggio e giugno la Cassazione mette la parola fine su due inchieste che hanno mostrato il potere criminale delle cosche calabresi fuori dai confini regionali. Lombardia e Piemonte, succursali antiche della mafia calabrese. Queste due sentenza diventate definitive sanciscono inoltre l'unitarietà dell'organizzazione. Esiste cioè un vertice, chiamato “Crimine”, a cui tutte le famiglie 'ndranghetiste devono fare riferimento. Sia che queste si trovino in Australia, in Canada, in Germania, a Milano, a Torino o a Bologna, sia che si trovino in Calabria. È una rivoluzione per l'antimafia giudiziaria. Perché da ora non sarà più necessario dimostrare in ogni processo che la 'ndrangheta esiste, ripartendo così ogni volta da capo. Questi due verdetti definitivi, insomma, hanno lo stesso valore di quello sul maxiprocesso a cosa nostra istruito dal pool di Palermo.

IN MEMORIA DEL BOSS. L'anno si chiude con la polemica sulla messa in ricordo del boss ucciso a Montreal, in Canada, a maggio scorso. Rocco Sollecito, del clan Rizzuto di cosa nostra, è stato ucciso in una guerra che ormai va avanti da anni. Sollecito era originario di Grumo Appula, provincia di Bari. E' qui che il parroco decide a sette mesi della sua morte, in occasione della visita del figlio, di organizzare una cerimonia in memoria del padrino. A questo si sono poi aggiunti i manifesti in giro per il paese in cui invitava i cittadini a recarsi a messa per celebrare il boss. La polemica, per fortuna, ha bloccato l'iniziativa del parroco. La messa è saltata e il sindaco del paese ha chiesto al parroco di andare via da Appula.

Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 29 novembre 2016 su "L'Espresso". Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli. Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.

L’Italia della Banda Bassotti. Dall'Expo al Mose, dalla Pedemontana al tunnel del Brennero: viaggio tra le infrastrutture che dovrebbero modernizzare il Paese. E che invece sono diventate la mangiatoia di politici e tangentisti

Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti». Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana. Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.

Il “mostro” e l’amico calabrese. Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte. E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.

Il figlio dell’uomo di Stato. Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione. La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali». Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto cazzo di contratto?», chiedeva il primo. Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».

Lunardi e la legge obiettivo. Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”. La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.

La mangiatoia di Venezia. L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale. Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.

Milano tra Expo e Mose. L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio. Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati. «Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».

L’autostrada dimezzata. La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria. Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana. Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.

I big agli atti. Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo. Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».

Ricatto al sistema. A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio. De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.

LA MAFIA, LE SCORTE ED I DIFFAMATORI.

Processo Stato-mafia: per il superteste Masi è imputazione coatta. Con un colpo di scena il gip di Palermo Vittorio Alcamo imputa il maresciallo di scorta del pm Di Matteo e teste d’accusa per diffamazione e calunnia, scrive l'8 aprile 2017 Anna Germoni su Panorama. Altro colpo di scena, nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. I supertestimoni dell’inchiesta, sui cui, si regge l’attendibilità dell’impianto accusatorio dell’inchiesta in corso davanti alla corte d’Assise di Palermo, cadono come birilli e vengono bollati da giudici terzi come “calunniatori” e “diffamatori” per le loro dichiarazioni rese davanti alle aule di giustizia.

Dopo il caso di Massimo Ciancimino, recluso in carcere, ora tocca al numero 54 nella lista della procura di Palermo.

È Saverio Masi, militare dell’Arma, di scorta al pm Nino Di Matteo, con alle spalle una condanna definitiva, sancita dalla Cassazione il 24 aprile del 2015, a sei mesi di reclusione, per tentata truffa e falso. Il carabiniere all’epoca dei fatti risultava indagato dalla procura di Palermo in seguito a una denuncia per calunnia e diffamazione presentata dagli alti ufficiali dell’Arma, che avevano risposto così a un esposto in cui il militare li accusava di averlo ostacolato nella cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Mentre al tempo stesso la procura di Roma, aveva già chiesto il suo rinvio a giudizio per diffamazione, accogliendo la tesi dei militari “lesi nella loro reputazione” dopo che il legale del Masi, anch’esso rinviato a giudizio, aveva convocato un’a conferenza stampa a Roma, per dare enfasi e clamore mediatico alla vicenda. Il gip di Palermo Vittorio Alcamo, il 29 marzo scorso, ha finalmente sciolto i nodi su questa delicatissima vicenda, per la particolarità e gravità delle accuse del Masi rivolte ai suoi superiori gerarchici dell’Arma, di non aver voluto catturare i boss di Cosa nostra. In 22 pagine il giudice, ordina ai Pm l’imputazione coatta per calunnia e diffamazione, nei confronti dell’ex capo scorta del magistrato di punta dell’inchiesta Stato-mafia. Una condanna pesante per il superteste, vista la meticolosa e puntigliosa analisi logico temporale del giudice, rispetto alle “controverse”, “frammentate” e “contradditorie” dichiarazioni del militare, eretto a “eroe” dall’Antimafia con il sostegno di una parte della stampa italiana. In uno summit sulla legalità a cui ha partecipato, prima ancora di essere ascoltato come teste nel processo in corso sulla Trattativa, dichiarava: “C’è qualcosa ancora di più assurdo in questo processo. Chi suggerì di compiere gli attentati del 27 e 28 luglio 1993 ai danni delle chiese di S. Giovanni in Laterano e di S. Giorgio al Velabro? Dobbiamo tenere presente la coincidenza che fossero i nomi di battesimo di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini”. 

I magistrati della procura di Palermo, tra querele del Masi e controquerele da parte degli ufficiali dell’Arma, avevano disposto l’archiviazione del fascicolo. Tra i togati, che avevano firmato tale archiviazione risultano tre magistrati dell’inchiesta Stato-mafia, che in udienza però, durante l’esame del teste, sostenevano l’autenticità delle dichiarazioni dell’ex capo scorta. A questa archiviazione, si erano opposti tutti gli indagati. Il giudice, Vittorio Alcamo, nell’ordinanza del 29 marzo, scrive, che i magistrati che hanno chiesto l’archiviazione hanno scelto “una soluzione non condivisibile, in quanto frutto di una lettura degli atti in parte contradditoria e sottovalutativa dell’aspetto psicologico alle ipotesi di calunnia e diffamazione”. Infatti, “le denunce del Masi (di esser stato ostacolato nella cattura di latitanti ndr) sono state sporte solamente nel mese di maggio del 2013, a distanza di 7/12 anni rispetto ai fatti attribuiti ai superiori”. E le vicende erano ampiamente prescritte, ma gli alti ufficiali dell’Arma hanno rinunciato alla prescrizione. E anche se il Masi “avesse nutrito, sospetti di inefficienza, di sottovalutazione o peggio ancora di collusione da parte dei suoi superiori- scrive il gip - avrebbe avuto il preciso dovere di informare direttamente la Dda di Palermo”. Invece “incredibilmente rendeva nota questa eccezionale notizia per la prima volta l’8 maggio 2004, depositando 54 giorni dopo, ai suoi superiori una relazione di servizio su tale presunto avvistamento”. Già, “questo modo di procedere costituisce non solo un grave inadempimento disciplinare e un reato omissivo, ma lo squalifica enormemente sotto il profilo dell’attendibilità”.

Il gip, seguendo un filo logico e analitico temporale delle dichiarazioni del superteste della Trattativa, aggiunge, “o il racconto del Masi è vero e allora ha consapevolmente adottato un comportamento deprecabile e sanzionabile in ogni sede tanto da renderlo soggetto poco o per nulla attendibile o il fatto è frutto di una volontà di rendere eclatanti le proprie accuse, certamente calunniose (…) in un preciso momento storico strettamente collegato alle proprie vicende processuali”, indicendo “una conferenza stampa proprio allo scopo di diffondere il più possibile e in modo eclatante il contenuto delle accuse”. Il gip scrive ancora “il Masi ha scelto di pubblicizzare la propria denuncia come spirito di rivalsa per un torto subito” con “l’intento di suscitare nell’opinione pubblica un sostegno personale, mitizzazione di sé o strumentalizzazione della verità a scopi utilitaristici sul piano processuale”. E retoricamente domanda, implicitamente rivolto a tutti compresi i PM:

1- “Può davvero ritenersi inconsapevole un pubblico ufficiale che a distanza di anni denunci, in modo così plateale, i propri superiori di fatti omissivi e commissivi di tale devastante gravità?” 

2- “Se il Masi, negli anni tra il 2001 e il 2013, aveva chiara la gravità per quale ragione ha atteso tutto questo tempo per sporgere querela? E perché ha taciuto su tali fatti nel corso delle sue deposizioni ai PM negli anni 2009 e 2010?”.

È possibile che il pm Nino Di Matteo, magistrato di punta del processo Stato-mafia, che ha sempre difeso il suo uomo di scorta tanto da inserirlo nella lista testi per avvalorare l'impianto accusatorio, dopo aver letto questa ordinanza di imputazione coatta per calunnia e diffamazione, provi un po’ di imbarazzo anche per le parole spese pubblicamente a favore del Masi.

Il 25 marzo del 2013, durante la requisitoria del processo di primo grado, nei confronti degli imputati Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di aver favorito la latitanza del boss Provenzano nel 1995 a Mezzojuso (poi assolti nei due gradi di giudizio, inchiesta pendente ora in Cassazione ndr) aveva parlato di “oneste e coraggiose affermazioni del maresciallo Masi”.

Dopo un anno e mezzo alle agenzie di stampa, il 6 settembre del 2014, polemizzando con la procura di Roma, retta da Giuseppe Pignatone, aveva detto: “Continuo a nutrire piena fiducia nel maresciallo Masi. Se mai, personalmente, mi sembra singolare che mentre, come è noto, a Palermo si cerca di verificare la fondatezza delle sue denunce, un'altra autorità giudiziaria incrimini per diffamazione gli autori delle suddette denunce e perfino i difensori e i giornalisti che la hanno rese note".

In ultimo, il 15 settembre scorso, davanti ai giudici della corte d’Assise di Palermo, interrompendo il controesame del Masi da parte del legale di Mori, che chiedeva al teste: “Sa spiegare perché la Dia, che ha effettuato degli accertamenti in ordine alle sue denunce, non ha trovato alcun riscontro alle sue dichiarazioni? E in particolare ai ritardi, alle omissioni, agli abusi che lei attribuisce ai suoi “superiori”, anzi (la Dia ndr) ha affermato che appare evidenza l'insussistenza dei reati contestati e comunque i fatti indicati nella denuncia del Masi non sono stati riscontrati, né appaiono altrimenti riscontrabili?”, il pm Di Matteo, alzandosi in piedi, diceva “Presidente, è una sintesi che esprime una parte di un giudizio, che poi...alcun riscontro... Poi vedremo i fatti!”.

I fatti sono arrivati. E proprio da Palermo. Un boomerang per i magistrati della Trattativa. Ora dopo l'imputazione coatta ordinata dal gip ai Pm, toccherà al gup decidere. Ma il ruolo dei PM cambia. Ora dovranno accusare Masi. E con questa ordinanza, che sembra una sentenza senza “appello”, difficile che non segua un processo con un rinvio a giudizio per il superteste dell'inchiesta Stato-mafia.

Trattativa Stato-mafia: condanna per il maresciallo Masi. È il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo. Ecco la sua storia fino al verdetto della Cassazione, scrive il 25 aprile 2015 Anna Germoni su Panorama.  Saverio Masi, il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato-mafia, e testimone dell'Accusa (è il numero 54 della lista della procura di Palermo) nella serata del 24 aprile è stato condannato dalla Cassazione. Dopo una lunga riunione di camera di consiglio, il presidente della Quinta sezione penale del Palazzaccio di Roma, Gennaro Marasca, ha rigettato in toto il ricorso presentato dall'avvocato dell’ex capo di scorta del dottor Di Matteo, notificando anche il pagamento delle spese processuali. 

La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dell’Arma a Palermo. Con la sua auto privata il militare racconta di eseguire di iniziativa propria un pedinamento. Prende una multa. Per evitare tale contravvenzione scrive che la macchina privata era usata per motivi di servizio. Al comando dei Carabinieri viene chiesta contezza della vicenda e si apre un fascicolo nei confronti del maresciallo dalla procura palermitana. Per i giudici di primo grado, il militare avrebbe falsificato la firma del suo superiore, con le ipotesi di reato di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2013 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a sei mesi di reclusione per falso materiale e truffa. L’avvocato del militare aveva annunciato il ricorso in Cassazione che si è celebrato il 24 aprile, chiedendo l’annullamento senza rinvio per entrambi i reati, perché il fatto non sussiste e avrebbe insistito sulla figura chiave del suo assistito, in qualità di testimone della procura di Palermo nel processo Stato-mafia. Strategia difensiva che sembrerebbe aver suscitato qualche brusìo da parte dei giudici della Cassazione, vista la non pertinenza del caso con il ricorso pervenuto. Il procuratore generale ha invece chiesto l’assoluzione per la truffa e la condanna di 5 mesi e 10 giorni per falso materiale. Il 24 aprile il verdetto: i giudici hanno rigettato il ricorso del legale, dell’ex capo scorta del pm Di Matteo, con il pagamento delle spese processuali. Condannato.

Ora per il militare, si prospetterebbero provvedimenti di Stato tra cui la degradazione, fino all’espulsione dall’Arma. Ma c'è di più. Il 19 gennaio scorso il maresciallo Saverio Masi, il suo ex collega Salvatore Fiducia e il loro avvocato Giorgio Carta sono stati rinviati a giudizio per diffamazione. Processo che inizierà il 16 maggio del 2016 davanti al tribunale di Roma. A giudizio anche una serie di giornalisti della tv, della carta stampata, tra loro i direttori de "Il Fatto Quotidiano" Antonio Padellaro e di "Servizio Pubblico" Michele Santoro. Nel 2013, durante una conferenza stampa indetta dal legale di Masi, nel suo studio romano, avevano accusato gli ex vertici del nucleo operativo di Palermo di avere di fatto “ostacolato” le indagini che avrebbero potuto portare all'arresto del boss Matteo Messina Denaro e di Bernardo Provenzano. Prontamente i superiori dell’ex capo scorta di Di Matteo, Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca, li avevano denunciati alla procura di Roma per diffamazione. Sulla base di tale esposto, era nato uno scontro tra le due Procure di Roma e di Palermo. I pubblici ministeri del capoluogo siciliano avevano eccepito l’incompetenza a indagare da parte dei colleghi capitolini. Ma la querelle finita davanti alla Cassazione, ha dato ragione alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Inoltre mentre il fascicolo aperto dai pm palermitani non è ancora concluso dopo querele e contro-denunce tra Masi e gli alti ufficiali dell’Arma, per la mancata cattura di Provenzano, risulta invece che la procura di Bari abbia chiesto già il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti proprio di Masi, accogliendo così favorevolmente l’esposto degli alti ufficiali dell’Arma. Malgrado ciò, il militare continua a girare l’Italia partecipando a convegni di legalità e parlando dei processi in corso.

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni". Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie". In un libro il racconto del suo dramma, scrive Salvo Palazzolo il 10 aprile 2017 su "La Repubblica". "Al risveglio, dopo l'esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992". Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. "No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me". L'uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. "Mi misero a fare fotocopie", racconta. "Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio". In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d'oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. "Non certo come autista - dice - non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale". Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. "E che cosa ero stato io se non un militare? - sbotta - nell'auto blindata di Giovanni Falcone c'era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c'era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna".

Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l'uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. "Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio", sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. "Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell'organizzazione di un servizio delicato come quello dell'autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato".

Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. "C'eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l'arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all'aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. "Strano", penso. "Non ha il suo computer". Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l'hanno trovato vuoto, ma questo l'ho saputo molto tempo dopo". È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell'ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. "Quel pomeriggio - ricorda Costanza - Falcone è alla guida, accanto c'è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: "Ecco il resto che le dovevo". Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: "Aveva un pensiero - dice - non poteva aspettare più". Era sereno, Giovanni Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. "La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l'abbia voluto fermare". Presto, l'auto dell'ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. "Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia - spiega Costanza - non possiamo dimenticare".

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

Scrive il 3 gennaio 2017 Salvo Vitale su "Telejato.

Se incontri un mafioso girati dall’altro lato e sputa: non sputargli in faccia, correresti il rischio di beccarti una pistolettata.

Se il mafioso ti chiede il pizzo tu raddoppia, chiedigli il doppio di quanto lui pretende: se gli fai vedere di avere paura sei già nelle sue mani e dopo di questo denuncialo. Chi paga ed accetta di pagare diventa un finanziatore della mafia e quindi un complice.

Se ti accorgi che le forze dell’ordine non sono in grado di proteggerti, evita di farti ammazzare e comunque cerca un modo per proteggerti. È bene avere un amico a cui raccontare tutto ciò ed a cui rivolgersi in caso di bisogno. Se poi è un amico che sa difendersi e difenderti è meglio.

Non aspettare che siano gli altri a liberarti dalla Mafia! I giudici e le forze dell’ordine fanno il possibile ma anche tu devi fare qualcosa! In questa partita hai l’obbligo di essere un giocatore e non uno spettatore.

Ricordati di ricordare le date in cui sono state uccise le vittime della mafia e ricordare l’efferatezza aiuta a fare crescere la rabbia e Noi non dimentichiamo!

Il mafioso non è un uomo d’onore, né un padre protettore: è un delinquente che come le zecche succhia il sangue e si arricchisce sul lavoro degli altri… stanne alla larga!

Se sai che il supermarket, il negozio di cui ti servi, la pompa di benzina o il titolare del tuo cantiere pagano il pizzo o sono in qualche modo collusi con i mafiosi non andarci. Porti denaro nelle loro tasche.

Il traffico delle droghe, della cannabis, dalla cocaina al crack e tutte le porcherie che escono ogni giorno, è interamente nella mani della mafia. Anche qua devi essere cosciente di essere un cliente dei mafiosi e di portar loro il tuo denaro.

Guardati intorno ed impara ad identificare i mafiosi, persone, ditte, imprese che governano il tuo territorio e fanno affari secondo metodi che apparentemente sono normali. Cerca poi di costruire insieme ad altri che sono d’accordo con te, l’opposizione! È importante non essere soli in questa battaglia!

Il mafioso è un uomo come tutti gli altri. Se non lo accetti e ti metti in testa che la mafia non è invincibile, PUOI VINCERE! Quando vai a votare, e qui è importante, ricordati che ci sono partiti che sono veri e propri covi di mafiosi e che la mafia va a braccetto con gran parte della classe politica, a cominciare da chi oggi governa il paese. Il detto “una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia” qui non funziona. Se tu dai il voto a questa gente non ti fai lavare la faccia ma te la fa sporcare di più, te la fa sporcare di merda.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

Juventus, la quinta mafia sono gli ultrà. La società con più scudetti d’Italia tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo, scrive Gianfrancesco Turano il 4 aprile 2017 su "L'Espresso". L’Italia del calcio si desta al campionato dopo la pausa per la Nazionale. Si ridestano anche le polemiche sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in curva con Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, che vuole sentire il presidente bianconero Andrea Agnelli e il capo della polizia, Franco Gabrielli. Il match si annuncia caldissimo. Ha aperto le ostilità Michele Uva, direttore generale della Federcalcio, persona equilibrata, competente, per bene. «Forse per il paese ci sono problemi più urgenti che la questione dei biglietti dati dai club a una curva», ha dichiarato il dg dal ritiro della Nazionale prima del match con l’Albania dove gli ultras hanno fatto sospendere la partita per otto minuti lanciando qualsiasi cosa gli sia stato consentito di portare dentro lo stadio, ossia di tutto. Anche una persona competente, equilibrata, per bene come Uva ha il diritto costituzionale e umano di dire una fesseria. Perché questa è una fesseria colossale. Certo che ci sono problemi più urgenti dei biglietti agli ultras. Ci sono l’aids, i rifugiati che affogano, il buco nell’ozono e la scissione del Pd. C’è il non sapere chi siamo e dove andiamo. Il punto è che la Commissione parlamentare antimafia non si occupa di malattie, di ecologia, di scissione dell’atomo politico e di filosofia teoretica. Si occupa, pensa tu, di mafia. E gli ultras come li conosciamo in Italia, in Europa, in Sudamerica, sono spesso o sempre organizzazioni criminali di tipo mafioso. La magistratura se ne è dovuta occupare infinite volte per un elenco di reati che non lascia nulla di intentato rispetto al codice penale. Gli ultras non sono la frangia minoritaria di un tifo sano. Sono una realtà a parte, con riti di iniziazione, capacità di intimidazione, armi. E con un circuito di business spesso o quasi sempre illecito. Gli ultras della Juventus, i Vikings nel caso di specie, hanno la capacità di lasciare un settore dello Stadium vuoto durante la partita contro l’Inter il 5 febbraio scorso per mostrare chi comanda in curva. L’inchiesta della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ’ndrangheta allo Stadium chiarirà le responsabilità dei dirigenti bianconeri. Forse il presidente Andrea Agnelli non ha incontrato un esponente del clan Dominello. O forse lo ha incontrato, ma non da solo e senza sapere chi era. O forse sapeva chi era ma sapeva anche che Rocco Dominello era incensurato, dunque meritevole della presunzione di innocenza. Il punto è che non è questo il punto. La Juventus, non l’ultimo club della Terza Categoria, aveva ceduto in franchising agli ultras la gestione dei biglietti di curva sud. È questo il punto. La società con più scudetti d’Italia, con uno stadio di proprietà, risultati agonistici e finanziari ottimi, abbondanza di steward pagati con fior di voucher, tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo. Il crimine organizzato maggiore finisce sempre per prendere il controllo delle bande minori. L’avvocato della Juve Luigi Chiappero ha detto all’Antimafia che tutti i club scendono a patti con gli ultras. Già questo merita un’inchiesta a tutto campo della Commissione. Un’ultima osservazione di natura economica. È o non è importante sentire dal legale di una società quotata che, in pratica, gli ultras sono una parte correlata del business? A quando Genny ’a carogna & friends nei comunicati della Borsa?

Calcio e mafia, parla Dino Zoff. «Oggi è tutto esagerato: la tensione, i gesti in campo, i soldi.  E così si perde ogni bellezza». Parola del portiere campione del mondo, scrive Floriana Bulfon il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Responsabilità e dignità disegnano la sua area di rigore. Quella da difendere sul campo e nella vita. Sono i giorni di un calcio malato, imprigionato in una ragnatela di affari e di interessi criminali. Chiamata in causa è proprio la sua Juventus per i presunti rapporti tra la dirigenza ed esponenti della ’ndrangheta annidati nelle curve. Tifoserie organizzate, bagarinaggio e il calcio che dimentica la poesia e implode in se stesso. «Non conosco i dettagli dell’indagine e per questo, come è mia abitudine, non commento. Vero è che prima le società hanno supportato le curve per sostenere le squadre e poi nel tempo gli hanno permesso di influire sulle scelte. Non credo però che abbiano un potere così determinante. E comunque non diverso da quello di trenta anni fa. Però mi sembra di assistere alla decisione di ridurre il limite di velocità a trenta chilometri orari per quelle strade piene di buche, invece di intervenire sul problema riparandole. In questo Paese accade. Fuori e dentro il mondo del pallone». A parlare è Dino Zoff, il portiere nazionale. Quattro Mondiali, 40 anni di calcio tra i pali e la panchina d’allenatore. Per tutti SuperDino. Più semplicemente, una persona seria.

«Con mio padre non si parlava tanto, le regole erano quelle, se avessi trasgredito mi sarei ritrovato fuori dalla porta». Mariano del Friuli, case in fila sulla provinciale e filari di vigna, ai margini dei confini, in una terra di trincea e di mani indurite dal lavoro nei campi. «La scelta era tra studiare e imparare un mestiere. E poi se c’era tempo, c’era anche il calcio. Perché era considerato un gioco, non un lavoro. Un gioco autentico». Fatto di poesia e di essenzialità, dove non si misura tutto in gol e parate. «L’esaltazione di una singola vittoria, sbandierata in maniera esasperata, svilisce la sostanza del calcio. Gli fa perdere la bellezza». È lo Zoff di sempre, ma nel suo consueto rigore si intravede una serena consapevolezza. Non è vero che parla poco, è che ricerca con misura le parole. Gli dà un senso per esprimere concetti importanti, oggi più che mai fondamentali. «Sono vecchio», sorride. «E anche responsabilità è una parola vecchia». In effetti spiazza sentir parlare di responsabilità guardando al mondo del calcio di oggi, ai suoi protagonisti in campo e fuori. «Ci sarebbe bisogno di responsabilità, di avere comportamenti adeguati», ammette. «Nella vita mi sono sempre ispirato a valori fondamentali e mi sono sempre sentito vincolato nel non tradirli. Diversamente, se si vive tutto in maniera troppo esasperata e senza rispetto, si perdono le basi della civiltà». Si fa per un attimo pensieroso per poi chiedere: «Forse sto parlando troppo di me? Sono narciso?».

Un ossimoro: Dino Zoff un narciso. Lui diretto, non accomodante, con poca voglia di stare in prima pagina. Non un titolo, ma un contenuto. Ancora oggi mito dello sport. Persino i ragazzini, quelli del nuovo Millennio, lo riconoscono e gli chiedono di farsi una fotografia insieme. «Sono stimato dalla gente che non appare, la maggioranza silenziosa. Dal fornaio al professore, credo apprezzino la mia coerenza». Eroico capitano della Nazionale vittoriosa nel Mondiale 1982, le cui braccia, che alzavano il cielo la coppa, sono finite su un francobollo commemorativo da mille lire. Quella coppa poggiata a lato di un tavolino ha assistito alla partita di scopone più famosa per il nostro Paese. Due coppie: Bearzot-Causio contro Pertini-Zoff. Una foto testimonia gli sguardi concentrati in una sfida senza sconti. «È venuta fuori autentica, non era impostata. Il presidente della Repubblica già sugli spalti aveva dimostrato la tensione e la partecipazione di un vero tifoso. Però in quella partita, abbiamo perso per un suo errore. L’ha ammesso solo dopo anni. Del resto lo scopone pareggia, mette tutti sullo stesso livello». Gli brillano gli occhi, il ricordo è vivo. Ma poi continua fermo: «Rispecchia quel momento perché non era finta. Oggi se ne fanno tante, ma spesso danno l’impressione di essere artefatte».

Quella foto non raffigurava solo un momento di successo per l’Italia, ma misurava il senso di appartenenza di tutti gli italiani per il proprio Paese. Un’immagine simbolo ormai ingiallita, impolverata dal tempo trascorso e dalle troppe lacerazioni che ci hanno intorbidito. In un mondo che urla, Zoff prosegue serafico ricordando: «Quelli sono stati Mondiali irripetibili. Facevamo gol su azione, uno spettacolo, una progressione inarrestabile. È stato un crescendo rossiniano. È diventato così sentito perché ha rappresentato il riscatto dei perdenti. Tutti dicevano a Bearzot che non c’era la squadra. Siamo un Paese che spesso non ha memoria. Già nel ’78 eravamo una grande Nazionale, se avessi giocato meglio io saremmo arrivati in finale. Quattro anni dopo però ci consideravano scarsi, insignificanti. È stata una rivincita della Nazionale e della nazione».

Le critiche per il ct Bearzot furono aspre, continue, inarrestabili. Diradata la nebbia delle polemiche con quel risultato scoppiò l’entusiasmo. «Per me è stato un secondo padre», confessa Zoff. «Un uomo ferocemente onesto. Solo con lui si poteva vincere quel Mondiale, perché era un comandante determinato, coraggioso con i dirigenti. Aveva la faccia da pugile e credevano non avesse cultura e invece parlava in latino, aveva studiato al liceo classico di Gorizia. Era un uomo puro. Era il suo modo di essere». Enzo Bearzot, friulano della bassa come lui. Di quella terra carsica che ha partorito tanti campioni del calcio italiano. «Una volta», sottolinea Zoff, «eravamo almeno dieci in serie A, tre o quattro in Nazionale. Eravamo abituati al sacrificio e il calcio non era solo un sacrificio, era anche un piacere. Era la cosa più piacevole che c’era. Ora i pochi bambini che ci sono nella nostra regione hanno la possibilità di fare sport diversi o forse hanno cose più piacevoli da fare con meno impegno».

Chi invece decide di praticare il calcio oggi troppo spesso lo vive prima ancora di iniziare con un senso di competizione, come una carriera già avviata, dove la sobria fatica è fuori moda e i ruoli vengono interpretati in maniera esasperata, teatrale. «Se la palla è tre metri fuori è inutile che ti tuffi. Mi è sembrato di tradire la Nazionale quando ho bloccato al volo un pallone destinato fuori dai pali. Avevo calcolato male la traiettoria. Serve invece più semplicità. C’è bisogno di ricercare l’essenzialità». Complicato farlo quando non si hanno stabili punti di riferimento. Le squadre hanno delle rose in continuo mutamento «adesso se uno non è esperto di calcio ha difficoltà a riconoscere persino i giocatori della propria squadra. I giocatori hanno contratti a termine, una volta il cartellino era della società, c’era un legame. Tutto questo produce disaffezione». Il calcio che allo stesso tempo continua ad accomunare generazioni di tifosi, ad appassionare a tutte le latitudini, con i paesi emergenti che riempiono gli stadi e danno vita a nuovi interessi e investimenti. Le risorse economiche e finanziarie si sono fatte globali. Cinesi, arabi investono nei club europei. «Ai tempi dell’avvocato Agnelli il rapporto era diretto. Era uno innamorato del calcio. Quando sono arrivato a Torino venivo dal Napoli e avevo già fatto 19 partite in Nazionale. Mi chiese tutti i dettagli, di ogni centravanti incontrato voleva sapere le caratteristiche offensive», ricorda. Era la Juve della famiglia Agnelli e della Fiat. Parlava italiano. «Non era tanto un investimento, quanto una cosa di cuore, di tifo», sottolinea.

Zoff ci crede ancora in questo gioco. Ma con responsabilità e dignità. Quella dignità messa in discussione da Silvio Berlusconi all’indomani della sconfitta onorevole alla finale dell’Europeo del 2000. «Ho sempre accettato le critiche, ma in quell’occasione mi ha definito “indegno” e io mi sono dimesso. Secondo me se uno ha un piatto di minestra se non ha la dignità, non è un uomo. Diverso è se uno un piatto di minestra non ce l’ha perché in quel caso è sopravvivenza. Sennò anche se hai tutto sei nessuno».

Dimettersi non è stata solo una reazione, ma una scelta di coerenza. Per quella dignità che ha assorbito in una famiglia di contadini, dove le scarpette affondavano nel fango e la palla si faceva pesante. La forza e la voglia di faticare e crescere passava per le uova della nonna preoccupata per la statura di quello che sarà e che rimane il portiere leggenda azzurra. Lui che è partito in salita e all’esordio in A ha subito cinque gol. Dai campi alla città, ma non un emigrato. «Mi sento sradicato. Emigrati sono quelli che non hanno avuto la mia fortuna. Il legame con la mia terra però non è mai stato reciso. Non ricordo di aver mai parlato così a lungo. Forse l’ho fatto perché lei è friulana». Si alza e si avvia verso la porta. «Ariviodisi», arrivederci.

Se la sinistra giustizialista vuole arrestare anche la Juve. L'Antimafia indaga sulle infiltrazioni delle cosche in curva: «Interroghiamo Agnelli», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". La zona grigia. Non quella classica, fra società civile e cosche. No, quella più evoluta e sofisticata che separa i grandi club del calcio dalla grande criminalità. Finora, allo Juventus Stadium, si era visto solo il gioco a zona, ma sul terreno. Ora gli occhi vigili dell'Antimafia, e dei suoi corifei della sinistra giustizialista, puntano gli occhi su quel che accade più in alto, fra le tribune e la curva. Terreno, in verità, di scorribande da parte di ceffi poco raccomandabili. Un'informativa della Digos di Torino, anticipata ieri dalla Gazzetta dello sport, tratteggia un quadro inquietante sui pregiudicati, dal curriculum corposissimo, o loro parenti che attraverso gli ultrà e i loro gruppi hanno messo le mani sul business del bagarinaggio. Un'inchiesta, Alto Piemonte, ha svelato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel Torinese e addirittura nel tempio del football, ci sono stati 18 arresti e 23 rinvii a giudizio. Il processo è alle porte. E la vicenda si porta dietro anche il giallo di un suicidio, quello di Raffaello Bucci, presunto anello della catena. La Juventus però non è coinvolta, almeno sul piano penale. E i suoi dirigenti non sono indagati, anche se è stranoto che molte società, non solo i campioni d'Italia, nel tempo hanno cercato di gestire il malaffare che albergava sui gradoni proponendo patti non proprio pedagogici ai capi delle tifoserie: pace in cambio di biglietti su cui lucrare. Perfetto. Ma ora l'antimafia militante ascolta i pm titolari del fascicolo, Monica Abbatecola e Paolo Toso, poi invade il campo con dichiarazioni di guerra. Attacca Marco di Lello, appena transitato nel Pd: «Secondo la procura la Juve non è parte lesa e neanche concorre nel reato, dunque c'è una grande zona grigia su cui la commissione ha il dovere di indagare e di proporre soluzioni normative». Insomma, si dà il calcio d'inizio a una nuova partita, con i parlamentari ruota di scorta delle procure, anzi pronti a rilanciare sospetti e accuse spingendosi ben oltre la cornice del codice. Ancora Di Lello: «Per un processo occorrono elementi che i pm non hanno ravvisato. È una valutazione che rispettiamo». E ci mancherebbe. Può darsi che l'abnegazione degli onorevoli impantanati nella zona grigia finisca lì, ma pare di no. Claudio Fava (Sel) che dell'Antimafia è vicepresidente, allarga il raggio della sua inchiesta e sale su, su fino alla vetta: «Appaltare la sicurezza negli stadi a frange di ultrà infiltrati da elementi della criminalità organizzata è cosa irrituale e preoccupante. È grave aver permesso che a gestire il bagarinaggio su biglietti e abbonamenti della Juve fosse l'esponente di una solida e nota famiglia di 'ndrangheta». Per la cronaca l'imputato chiave di Alto Piemonte è Rocco Dominello, leader di due sigle ultrà, e legato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Fava non agita ancora le manette, non chiede ancora l'arresto del club bianconero in blocco, ma fa di meglio: «Per tutto questo chiederò che in commissione venga audito anche il presidente Andrea Agnelli». C'è posto pure per lui nelle nebbie della zona grigia.

Alleanze e giri d'affari. Nelle curve di serie A la mafia è senza colori. Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale".  «I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco. Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta». E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena». Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco. È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».

Agnelli: “Io e la Juve deferiti dalla procura, ma nulla da temere”. La Figc: “Non ha impedito i rapporti con la malavita”. Il presidente bianconero, nell’inchiesta su biglietti agli ultrà e rapporti con la ’ndrangheta: «Tutto ciò è inaccettabile, mi spiace ma non mi dimetto». John Elkann: «Piena fiducia in mio cugino», scrive Massimiliano Nerozzi il 18/03/2017 su “La Stampa”. È pesante l’accusa che la Procura della Fgci muove ad Andrea Agnelli: «Non impedì a dirigenti, tesserati e dipendenti di avere rapporti con la malavita organizzata». Ma il presidente della Juventus, che ha ricevuto oggi parole di fiducia da John Elkann, non ci sta, respinge ogni addebito e parla di fango gettato sulla Juve. Andrea Agnelli convoca i giornalisti d’urgenza e in 4 minuti e 30, tutto d’un fiato parla del suo deferimento e di quello di altri uomini Juve da parte della Procura della Federcalcio, in merito all’inchiesta su biglietti, ultrá e esponenti della ’ndrangheta. E parla del fango gettato sulla Juve e di «quei curiosi procedimenti sperimentali» di cui sarebbe oggetto il club. Ecco le sue parole: «Nella giornata odierna, pochi minuti fa, mi è stato notificato un deferimento da parte della Procura Federale. Tale deferimento riguarda il sottoscritto, il dottor Francesco Calvo, all’epoca nostro dirigente, il signor Alessandro D’Angelo e il signor Stefano Merulla. Questa società, i suoi dipendenti e il sottoscritto non hanno nulla da nascondere o da temere ed è questo il motivo per cui sono qui oggi davanti a voi, seppur per pochi minuti». «Sono certo che la piena disponibilità della Juventus a collaborare con la giustizia farà emergere la totale estraneità della Società agli addebiti mossi». Lo afferma John Elkann, presidente di Exor, holding della famiglia Agnelli proprietaria della Juventus. «Desidero ribadire la mia totale fiducia - sottolinea - nell’operato di mio cugino Andrea, che ha guidato la Società e il suo gruppo dirigente fino ad oggi, e che continuerà a farlo anche in futuro». 

I FATTI. «Nei mesi scorsi i dipendenti della Juventus, che godono della mia massima fiducia, hanno collaborato con la Procura della Repubblica di Torino in veste di testimoni, nel quadro di un’indagine riguardante alcuni personaggi legati al mondo della criminalità organizzata. Questa veste di testimoni è stata sottoposta ad un controllo invasivo e meticoloso, anche con l’uso di intercettazioni ambientali e telefoniche, e non è mai mutata. Erano TESTIMONI e sono rimasti TESTIMONI fino alla chiusura delle indagini penali». 

IL DEFERIMENTO DELLA PROCURA. «Oggi la Procura Federale, anziché limitarsi a contestare eventuali irregolarità nella vendita dei biglietti, emette un deferimento nel quale il mio nome e quello dei nostri dipendenti rivestirebbe un ruolo di “collaborazione» con la criminalità organizzata. «Tutto ciò è inaccettabile - continua Agnelli - e frutto di una lettura parziale e preconcetta nei confronti della Juventus e non rispondente a logiche di giustizia. Vi ricordo che le attività di ordine pubblico e di prevenzione per le partite di calcio vengono svolte in stretta collaborazione con tutte le forze dell’ordine dal personale Juventus». 

L’ACCUSA. Andrea Agnelli è stato deferito dalla Procura federale per non aver impedito «a tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti gruppi ultras, anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata». È quanto si legge nelle motivazioni della Procura che insieme al presidente Juve ha anche deferito tre dirigenti (Francesco Calvo, Alessandro D’Angelo e Stefano Merulla) e il club bianconero «per responsabilità diretta». Agnelli, si legge nelle motivazioni, è stato deferito «per la violazione dei principi di lealtà, correttezza e probità e dell’obbligo di osservanza delle norme e degli atti federali, perché, nel periodo che va dalla stagione sportiva 2011-12 a quantomeno tutta la stagione sportiva 2015-16, con il dichiarato intento di mantenere l’ordine pubblico nei settori dello stadio occupati dai tifosi ultras al fine di evitare alla Società da lui presieduta pesanti e ricorrenti ammende e/o sanzioni di natura sportiva, non impediva a tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti «gruppi ultras», anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata, autorizzando la fornitura agli stessi di dotazioni di biglietti e abbonamenti in numero superiore al consentito, anche a credito e senza previa presentazione dei documenti di identità dei presunti titolari, così violando disposizioni di norme di pubblica sicurezza sulla cessione dei tagliandi per assistere a manifestazioni sportive e favorendo, consapevolmente, il fenomeno del bagarinaggio». La Procura contesta ad Agnelli di aver «partecipato personalmente, inoltre, in alcune occasioni, a incontri con esponenti della malavita organizzata e della tifoseria ultras, assecondando, in occasione della gara Juventus-Torino del 23 febbraio 2014, l’introduzione all’interno dell’impianto sportivo, ad opera dell’addetto alla sicurezza della Società D’Angelo, di materiale pirotecnico vietato e di striscioni rappresentanti contenuti non consentiti al fine di compiacere e acquisire la benevolenza dei tifosi ultras. Insieme al presidente della Juventus, sono stati deferiti Francesco Calvo, all’epoca dei fatti tesserato quale Dirigente Direttore Commerciale del club, Alessandro Nicola D’Angelo, all’epoca dei fatti dipendente addetto alla sicurezza (Security Manager) e Stefano Merulla, all’epoca dipendente responsabile del ticket office della Juventus. Ai tre viene contestato il fatto di aver intrattenuto rapporti con i gruppi ultras «e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata».  

LA DIFESA. «Mi difenderò, difenderò i nostri collaboratori e soprattutto difenderò il buon nome della Juventus che per troppe volte è già stato infangato o sottoposto a curiosi procedimenti sperimentali da parte della giustizia sportiva. Tale difesa avverrà nelle sedi opportune, ma vi invito fin da oggi ad approfondire con grande attenzione le tematiche di un’inchiesta che ha visto curiosamente scomparire dalla scena mediatica gli accusati di reati mafiosi, per essere sostituiti da testimoni che hanno l’unica colpa di lavorare in una società molto famosa e sulla bocca di tutti». «Per evidenti motivi non rispondo nel merito del provvedimento oggi davanti a voi, - continua il presidente bianconera - perché penso che sia doveroso farlo davanti alla giustizia sportiva. Vi invito tuttavia ad essere a vostra volta testimoni e non strumenti per conclusioni pregiudiziali che sarebbero a mio avviso sbagliate e in pieno contrasto con quelle tratte dalla giustizia penale». Come ho scritto alcuni giorni fa, non ho mai incontrato boss mafiosi. A cadenze regolari come è noto ho incontrato tutte le categorie di tifosi, siano essi Club Doc, Member o gruppi ultras. E’ sempre stata un’attività fatta alla luce del sole e che penso rientri a pieno titolo nei doveri di un presidente di una società calcistica. Se alcuni di questi personaggi hanno oggi assunto una veste diversa agli occhi della giustizia penale, questo è un aspetto che all’epoca dei fatti non era noto, né a me, né a nessuno dei dipendenti della Juventus. E all’argomento che qualcuno di voi potrebbe opporre, che gli ultras o i loro capi non sono stinchi di santo, io vi dico che condivido ma rispetto le leggi dello stato e queste persone erano libere e non avevano alcuna restrizione a frequentare lo stadio e le partite di calcio». «La Juventus, così come ogni altra società calcistica, collabora con lo Stato ed è stata negli anni scorsi indicata come esempio virtuoso, ma non può certamente sostituirsi alle forze dell’ordine. Penso che fosse doveroso da parte mia presentarmi davanti a voi oggi, così come ho dato la mia disponibilità a presentarmi davanti alla Commissione Antimafia, perché poteste quantomeno sapere direttamente da me quale sia il mio pensiero senza alcuna mediazione». «Da ultimo: so che alcuni di voi si sono esercitati nei giorni scorsi in ipotesi riguardanti il cambio del management della Juventus. Mi dispiace deludervi, ma questo gruppo dirigente, formato dal sottoscritto, dal vicepresidente Pavel Nedved, dall’amministratore delegato Giuseppe Marotta e dal direttore sportivo Fabio Paratici, ha intenzione di continuare a far crescere la Juventus ancora per parecchio tempo». 

L'intercettazione che inguaia Andrea Agnelli, presidente della Juventus: "Questa è gente che ha ucciso", scrive su "L'Huffington Post" Mauro Bazzucchi il 22/03/2017. I rapporti diretti tra il presidente della Juventus Andrea Agnelli e Rocco Dominello, figlio di un boss della ndrangheta, sono documentati da due intercettazioni e da una testimonianza dello stesso Dominello resa nel corso dell’interrogatorio in carcere. I documenti che contraddicono quanto affermato dall’avvocato della Juventus Luigi Chiappero nell’audizione in commissione Antimafia sono contenuti nel deferimento del procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro, avvenuto in settimana e citato non a caso oggi dalla presidente della commissione Rosy Bindi per contestare a Chiappero quanto affermato in entrambi le audizioni rese a San Macuto. Elementi che hanno spinto l’ex-prefetto di Roma ad aprire un procedimento sul fronte della giustizia sportiva, che viaggia su binari autonomi da quella ordinaria, visto che nell’ambito dell’inchiesta penale “Alto Piemonte” la Procura di Torino ha considerato gli esponenti della società semplicemente testimoni, ma che il legale bianconero ha dichiarato di non conoscere. Nella prima parte dell’audizione, avvenuta mercoledì scorso, Chiappero aveva escluso categoricamente ogni contatto diretto tra Dominello e Andrea Agnelli, aggiungendo che in ogni caso nessun dipendente della società era a conoscenza dei rapporti di Dominello con la ndrangheta. Tale atteggiamento aveva provocato la reazione piccata della Bindi, che aveva accusato la Juventus di aver negato l’infiltrazione della ndrangheta in curva. Poi, quattro giorni fa, il colpo di scena del deferimento della Juventus, in cui si contraddicevano le tesi difensive di Chiappero. Oggi, la stessa Bindi e altri esponenti della commissione hanno più volte secretato l’audizione, in coincidenza dei passaggi in cui sono state lette le intercettazioni tra Agnelli e il responsabile sicurezza da cui si evincono i rapporti di conoscenza tra il presidente e Dominello. Nel documento, ancora secretato, di cui l’Huffington post è entrato in possesso, Pecoraro afferma che “non solo Agnelli fosse consapevole dei rapporti strutturati e delle concessioni fatte in favore dei gruppi del tifo organizzato e di esponenti malavitosi, ma che acconsentiva a tale condotta”. Pecoraro allega quindi un’intercettazione in cui Agnelli è a colloquio con il responsabile sicurezza della Juve Alessandro D’Angelo, in cui si parla chiaramente di un incontro tra Agnelli, Dominello e altri ultrà presso la Lamse SpS, holding controllata dallo stesso Agnelli. La conversazione risale all’agosto del 2016, e Agnelli racconta: “So che erano lì…io ogni volta che li vedevo, quando li vedevo a gruppi facevo scrivere sempre le cose sui fogli, perché nella mia testa era per dargli importanza che scrivevo quello che dicevano”. Più avanti Agnelli si riferisce alla rivendita di biglietti forniti dalla società: “loro comprano quello che devono comprare, a noi ci pagan subito e poi gestiscono loro!”. Pecoraro cita anche un’altra intercettazione, risalente al marzo del 2014, per smontare anche la linea secondo la quale la società Juve non fosse a conoscenza del profilo criminoso di alcuni esponenti ultrà: “Il problema è che questo – dice Agnelli riferendosi al capo ultrà Loris Grancini – ha ucciso gente”. D’Angelo replica che “ha mandato a uccidere”. Siamo all’inizio del 2014, e il rapporto con Dominello e gli altri proseguirà ben oltre questa conversazione. Inoltre, nel suo interrogatorio in carcere avvenuto il 3 agosto del 2016, Dominello racconta di aver conosciuto Agnelli a una cena a cui era presente anche D’Angelo, avvenuta nel 2011, di aver poi frequentato la sede della Juve a partire dal 2012, e di aver in seguito parlato sempre con Agnelli della vendita di stock di abbonamenti ai capi ultrà. Sempre nello stesso documento, si cita una conversazione telefonica in cui D’Angelo si confida con il responsabile rapporti con la tifoseria Alberto Pairetto, dicendo di aver “paura” di essere invischiato in un’inchiesta penale, perché “tutti sapevano dell’estrazione familiare di Rocco Dominello”. Il quale, tra le altre cose, come risulta da un’altra intercettazione tra Agnelli e D’Angelo, aveva avviato una costante e cordiale corrispondenza via sms con l’allora allenatore della squadra Antonio Conte, che addirittura, a detta di Dominello, “si apre” con lui. Al termine dell’audizione di oggi, Chiappero ha chiesto la desecretazione degli atti citati, e ha ribadito la disponibilità di Agnelli ad essere ascoltato, il che avverrà verosimilmente ad aprile.

Juventus, Agnelli e i rapporti con la malavita: il giallo dell'intercettazione. Un colloquio citato dal procuratore Pecoraro all'Antimafia e che nessuno trova negli atti. Chi sta sbagliando? Scrive Giovanni Capuano il 23 marzo 2017 su "Panorama". "I due fratelli sono stati arrestati. Rocco è incensurato, parliamo con Rocco". Parole che Andrea Agnelli ha (avrebbe) detto ad Alessandro D'Angelo, security manager della Juventus, contenute in un'intercettazione citata dal procuratore della Figc Pecoraro davanti alla Commissione Antimafia e che proverebbero la conoscenza da parte del presidente del club del profilo malavitoso di Rocco Dominello e la sua storia familiare di rapporti con la 'ndrangheta. Il giallo delle carte apparse nell'inchiesta sui presunti legami tra la Juventus e gli ultras, con sospetto di infiltrazione della malavita organizzata nella gestione dei biglietti dello Stadium per garantirsi la pace con la curva, ruota intorno a quelle dodici parole. Stralcio di un'intercettazione che non compare nelle migliaia di pagine di atti messe a disposizione dalla Procura di Torino e che la Commissione Antimafia e la Juventus hanno studiato. Ma che il procuratore Pecoraro ha citato nella sua audizione secretata a inizio marzo - così ha detto Stefano Esposito nel corso dell'audizione in Commissione - e che, se vera, inchioderebbe Agnelli. Oppure, al contrario, andrebbe spiegata perché su di essa poggia gran parte del teorema sul legame tra la Juve e le cosche. Un vero giallo che ha spinto alcuni componenti la Commissione a chiedere di verificare con la Procura di Torino l'esistenza di intercettazioni non fornite. E che rappresenta il cuore della vicenda. Perché un conto è ammettere e ricostruire i rapporti con i capi ultras - circostanza peraltro non negata nemmeno dal presidente della Juventus -, un altro è avere la prova che il numero uno sapeva di essersi affidato alla 'ndrangheta per non avere problemi allo Stadium.

L'intercettazione inedita e le domande senza risposta. Se l'intercettazione esiste davvero, giustificherebbe quanto scritto dalla Procura Figc nel deferimento per Agnelli e la Juventus, con il sospetto di "collaborazione" con la criminalità per gestire la curva. Ma allora non è chiaro perché il procuratore Pecoraro non l'abbia inserita nelle venti pagine del dispositivo di cui ne è stata resa pubblica solo una parte qualche ora dopo che lo stesso Agnelli in conferenza stampa aveva informato i giornalisti sul ricevimento dell'atto. E se l'intercettazione esiste - circostanza che metterebbe Agnelli in posizione di forte imbarazzo - è anche necessario capire perché non sia andata ai legali e alla Commissione Antimafia e sia finita, invece, nelle mani della Procura Figc. Se, invece, quanto riportato da Pecoraro e citato dal senatore Stefano Esposito prima della richiesta di desecretare gli atti non corrisponde ad alcun documento esistente o ne è una interpretazione forzata, cadrebbe la ricostruzione della consapevolezza di Agnelli di avere a che fare con un personaggio dalla storia familiare legata alle cosche e Pecoraro dovrebbe spiegare come sia stato possibile citarla. Di conseguenza verrebbe meno la parte più dura e del deferimento, quella che ha spinto il legale della Juventus a dire "ammettiamo quanto viene contestato sulla gestione dei biglietti, ma quello che non consente di andare dal procuratore federale a chiudere la partita (patteggiando ndr) è che c'è un'affermazione non vera". Ovvero che la Juve era a conoscenza del profilo di Dominello.

Il duello davanti all'Antimafia sulla conoscenza Agnelli-Dominello. Il caso è scoppiato nel corso della seconda e ultima audizione dell'avvocato Chiappero davanti alla Commissione Antimafia che si sta occupando dei rapporti tra i club di calcio e il mondo degli ultras. Davanti all'ennesima negazione di "rapporti amicali" tra Agnelli e Rocco Dominello con traccia di un unico possibile incontro avvenuto alla presenza del presidente, ma nessuna intercettazione diretta o indiretta che provi la consapevolezza del profilo dell'interlocutore, la presidente Rosy Bindi ha citato intercettazioni e documenti forse non in possesso della difesa.

Poi l'Huffington Post ha pubblicato un estratto del deferimento della Juventus e di Agnelli da parte della Procura Figc con due intercettazioni e il riassunto di un interrogatorio dello stesso Dominello. Prima una telefonata tra Agnelli e il security manager Juventus, Alessandro D'Angelo, dell'agosto 2016 per ricostruiore l'incontro avvenuto con i capi ultras alla presenza del presidente ("So che erano lì. Io ogni volta che li vedevo, quando li vedevo a gruppi, facevo scrivere sempre le cose sui fogli perché nella mia testa era dagli importanza").

Poi un'intercettazione del marzo 2014 nella quale Agnelli, parlando di Loris Grancini capo del gruppo dei Viking, dimostra di conoscere bene il suo curriculum criminale ("Il problema è che questo ha ucciso gente" dice a D'Angelo che risponde: "Ha mandato a uccidere"). Non Dominello, ma comunque un malavitoso con accesso - secondo la Procura Figc - ai più alti livello della società torinese per la gestione dei biglietti da dare ai gruppi ultras per garantirsi la pace.

Che il clima sia teso lo dimostra anche l'iniziativa di due componenti della Commissione Antimafia (Stefano Esposito e Massimiliano Manfredi) che, oltre a chiedere chiarimenti sugli atti 'fantasma' citati a Pecoraro, hanno messo nero su bianco una smentita dell'accostamento tra il nome della Juventus e la 'ndrangheta. "Spiace rilevare come si continui, da parte di molti, ad avvalorare l'idea di una contiguità tra vertici della Juventus e la 'ndrangheta" è scritto in una nota che parla di "campagna mirata" e di interpretazione "strumentale" del contenuto delle audizioni. Tra l'altro tutto avviene nelle ore in cui il Gup di Torino ha negato alla Questura il Daspo di 8 anni chiesto per Loris Grancini, ritenuto elemento pericoloso da chi si occupa dell'ordine pubblico allo Stadium. Libero di tornare in curva anche subito.

Tutto ruota attorno a una frase: “I due fratelli sono stati arrestati, Rocco è incensurato, parliamo con lui”. Sarebbe la prova, secondo la Procura Figc, che il presidente conoscesse la storia famigliare del capo ultras. Riportata nel corso di un’altra audizione (secretata), non era conosciuta dal club: non è presente né nell’atto di deferimento né in altri. "Se non si trova si apre uno scenario completamente diverso", dice il senatore dem, scrive Andrea Tundo il 23 marzo 2017 su “Il Fatto Quotidiano”.

“Si sta dicendo da settimane che il presidente della Juve era consapevole di chi fosse Rocco Dominello. Se non si trova traccia di quella intercettazione, si apre uno scenario completamente diverso, visto che finora si sono accostate la Juventus e la ‘ndrangheta”.

Il giorno dopo lo scontro in commissione Antimafia e i colloqui telefonici svelati dall’Huffington Post, il senatore del Pd Stefano Esposito torna a ribadire a ilfattoquotidiano.it quanto aveva sostenuto già nella tarda serata di mercoledì, 22 marzo. Tutto ruota attorno a una frase: “I due fratelli sono stati arrestati, Rocco è incensurato, parliamo con lui”. Sarebbe la prova, secondo la Procura Figc, che il presidente della Juventus Andrea Agnelli conoscesse la storia famigliare di Rocco Dominello. Quell’intercettazione, riportata nel corso di un’altra audizione (secretata) da parte di un altro soggetto, ha sostenuto l’avvocato della Juventus Luigi Chiappero, non era conosciuta dal club: non è presente né nell’atto di deferimento né in altri. Per questo il legale è rimasto sorpreso quando durante la seconda parte della sua audizione a Palazzo San Macuto, mercoledì 22 marzo, gli è stata letta da Esposito. Il senatore dem e Massimiliano Manfredi, altro esponente Pd in Antimafia, hanno sostenuto mercoledì sera in una nota: “Da una nostra verifica sulle intercettazioni trasmesse dalla procura di Torino alla commissione, non abbiamo trovato traccia della stessa”.

In quali atti è contenuta quindi quella intercettazione? E in quale audizione è stata riferita alla commissione? Interrogativi sui quali i due parlamentari del Partito democratico chiedono di fare chiarezza. “Abbiamo chiesto alla presidente Rosy Bindi di verificare presso la procura di Torino se esistono intercettazioni che non sono state trasmesse – dicono Esposito e Manfredi – perché risulta evidente che l’eventuale inesistenza di questa intercettazione avrebbe particolare rilievo rispetto alla discussione fin qui avvenuta”. Quella frase, infatti, è la base della tesi secondo cui Agnelli fosse a conoscenza della caratura criminale di Rocco Dominello, accusato nel processo Alto Piemonte – iniziato oggi – di associazione per delinquere di stampo mafioso. “Non è un boss mafioso, valuteremo ai fini di querela le dichiarazioni rese da tutti quanti, comprese quelle del procuratore federale Giuseppe Pecoraro. Agnelli dice il vero quando afferma di non avere mai incontrato un boss, perché il mio assistito non lo è”, ha detto oggi Ivano Chiesa, legale di Dominello.

Una vicenda che esula comunque dal capo di accusa di Agnelli – non implicato, come qualunque altro dirigente della Juve, nell’indagine penale – da parte della procura Figc, che contesta la gestione della vendita dei posti assegnati allo Juventus Stadium perché configurerebbe la violazione dell’articolo 12 della giustizia sportiva. Ma in questo quadro si è inserita la figura di Dominello, motivo per il quale i bianconeri non patteggeranno davanti alla giustizia sportiva: “Questa esperienza ci ha minato profondamente – ha detto Chiappero – Se ammettiamo quanto ci viene contestato sulla gestione della vendita dei posti assegnati, quello che non ci consente di chiudere la partita col procuratore federale (patteggiando, nda) è che siamo accusati di aver utilizzato, sapendolo, Rocco Dominello, della cui provenienza eravamo invece totalmente all’oscuro. Non avevamo motivo di avere il minimo sospetto”.

Per la Juventus era solo un ex ultras incensurato e Agnelli non ha avuto contatti “amicali” con lui. Secondo l’intercettazione, citata ieri dal senatore Esposito durante l’audizione in Antimafia, il presidente conosceva la sua storia famigliare. Inoltre, sostiene l’avvocato di Dominello, gli incontri tra i due ci furono ma vanno letti in un’ottica diversa: “Si sono incontrati più volte, sia a tu per tu, sia alla presenza di altre persone, come spesso accade tra un presidente di una squadra di calcio e il rappresentante di un gruppo ultras. Sono stati incontri leciti, alla luce del sole”, ha riferito a margine della prima udienza del processo Alto Piemonte.

Esposito e Manfredi hanno anche voluto sottolineare che per Loris Grancini, citato nelle intercettazioni rivelate dall’Huffington, “la questura di Torino aveva richiesto 8 anni di Daspo” ma “abbiamo appreso dal sito internet del Grancini stesso che, nella giornata di martedì un giudice del tribunale di Torino ha negato il provvedimento”. “Pur nel rispetto delle valutazioni del magistrato, risulta evidente come sia necessario riflettere sulle oggettive difficoltà attraverso le quali si muovono le società calcistiche italiane – concludono – soprattutto se figure dal profilo criminale come quelle di Grancini possono continuare liberamente ad accedere agli stadi”.

Stefano Esposito sul caso Juve 'ndrangheta: "Campagna politica contro Agnelli. Qualcuno non ha capito che non fa più il prefetto", scrive su "L'Huffingtonpost" Mauro Bazzucchi il 24/03/2017.  Il senatore del Pd Stefano Esposito, membro della commissione Antimafia, ha fortemente contestato, al termine dell’audizione del legale della Juventus Luigi Chiappero, la tesi secondo cui il presidente della società bianconera Andrea Agnelli fosse a conoscenza della provenienza ndranghetista del capo ultrà Rocco Dominello, “portavoce” della curva e gestore di un lucroso giro di bagarinaggio organizzato grazie alla fornitura dei biglietti da parte della società stessa. Una tesi che viene caldeggiata nel deferimento alla giustizia sportiva fatto dal procuratore federale Giuseppe Pecoraro (in cui figurano alcune intercettazioni che dimostrano gli incontri e i rapporti diretti tra Agnelli e Dominello e la conoscenza del profilo criminale di alcuni capi ultrà) ma che molti asseriscono essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio da una “prova regina”: un’intercettazione che inchioda Agnelli, su sui però si sta sviluppando una sorta di giallo, perché non presente né nelle intercettazioni allegate al deferimento né negli atti trasmessi alla commissione dalla procura di Torino, ma evocata più volte nel corso dell’audizione.

Senatore, secondo lei la commissione Antimafia vuole colpire Agnelli?

«Non sono tenuto a dare giudizi. Mi compete capire se gli atti relativi alle infiltrazioni accertate della ndrangheta nella vicenda del bagarinaggio fosse un’infiltrazione di cui c’era consapevolezza da parte di Agnelli o se invece così non è. E sulla base di ciò che noi abbiamo ascoltato e di ciò che abbiamo finora a disposizione si evince con certezza che la Juventus ha violato le regole sulla vendita dei biglietti. Che Andrea Agnelli sapesse che Dominello era un esponente della ndrangheta, o meglio che la sua famiglia avesse un curriculum ndranghetista, non c’è da nessuna parte, non c’è nessuna evidenza di questo. Mentre è chiaro che, nella Juve, almeno il responsabile sicurezza D’Angelo e il direttore commerciale Francesco Calvo fossero a conoscenza dei pregressi dei Dominello. Trovo singolare la certezza con la quale il procuratore federale scrive quelle cose su Andrea Agnelli».

Però in commissione molti suoi colleghi, oltre a ritenere sufficiente quanto contenuto nel deferimento, sono sicuri che la consapevolezza di Agnelli sia suffragata da una “prova regina”. Perché?

«Ho letto in un documento secretato, riferibile a soggetti che sono stati auditi…»

Il procuratore Pecoraro?

«Non posso confermare, questo lo dice lei…sono tenuto al segreto…comunque ho letto nel documento che questa persona, per spiegare alla commissione che Agnelli era consapevole della provenienza ndranghetista della famiglia Dominello, cita un’intercettazione da cui risulta evidente che Agnelli sapesse in maniera puntuale che la famiglia Dominello era legata alla ndrangheta. E siccome si trattava di uno stralcio citato da questa persona, ho chiesto di poter vedere tutte le intercettazioni che ci sono state trasmesse dalla Procura e non l’ho trovata. Non risulta da nessuna parte. Lo stesso avvocato Chiappero, che ha letto tutte le intercettazioni, non ha trovato nessuna intercettazione di questo tenore in capo ad Agnelli. E’ per questo che ho chiesto la desecretazione dell’audizione, ma per ottenere ciò ci vuole l’assenso del diretto interessato. E un’eventuale risposta negativa del soggetto mi porterebbe ad alcune valutazioni…»

E cioè che c’è un teorema contro Agnelli.

«In questa storia, molti hanno interesse ad attaccare la Juve perché rende elettoralmente nei propri collegi, anche se la magistratura ha già chiarito tutto. Si sta montando una campagna di stampa orchestrata da soggetti politici che poi se ne assumeranno la responsabilità».

Chi è che orchestra?

«Non posso dirlo, ho le mie opinioni e lo dirò nelle sedi preposte».

Ecco, ma se la Procura ha già detto la sua, che interesse ha Pecoraro ad insistere?

«Pecoraro lo sta dicendo nuovamente lei…di certo se questa intercettazione non esistesse, lo scenario cambierebbe di molto, e chi vuol far passare Agnelli come complice della ndrangheta non avrebbe più alcuna credibilità. Credo che qualcuno stia trattando questa vicenda come si trattano le interdittive antimafia, che possono basarsi solo sul sospetto. Temo che qualcuno non abbia capito di non essere più un prefetto che deve valutare le interdittive antimafia, ma che è chiamato ad attenersi alle prove. Non mollerò l’osso fin quando non avrò la certezza dell’esistenza o meno della “prova regina”. Tutto il resto parla di altro, non dei rapporti tra Agnelli e la ndrangheta. Tutto il resto è libera interpretazione, è il giochetto stile M5S, che considera mafiosi quelli che vengono chiamati in causa per corruzione. Noi siamo l’Antimafia, questo giochetto lasciamolo ai grillini».

Si smonta il processo mediatico su Andrea Agnelli e la 'ndrangheta. Il procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro, ascoltato nuovamente dall'Antimafia, ritratta sull'intercettazione che avrebbe incastrato il presidente della Juve: "Non è sua", scrive "Il Foglio" il 5 Aprile 2017. Un po' alla volta il processo sulla Juventus e sui presunti rapporti tra il presidente Andrea Agnelli e la 'ndrangheta si sta dimostrando per quello che è: un processo mediatico. Il Foglio aveva già cercato di spiegare come la principale accusa rivolta al numero uno bianconero si fondasse, in realtà, su un'intercettazione inesistente. E oggi è arrivata la prova definitiva. A fornirla colui che con le sue dichiarazioni, secretate ma comunque uscite dalla commissione Antimafia, aveva dato fiato a tifosi e giustizialisti: il procuratore generale della Figc, Giuseppe Pecoraro. Chiamato nuovamente davanti alla commissione presieduta da Rosy Bindi, Pecoraro ha dovuto chiarire (e ritrattare) parte di ciò che aveva detto nella prima audizione. "Sono qui - ha esordito - per integrare quanto detto il 7 marzo scorso. E anche nella speranza di chiudere le polemiche susseguite dopo quella data e di bloccare un processo mediatico inopportuno che non fa bene né alla giustizia sportiva né a quella ordinaria".

Si comincia dall'intercettazione incriminata. "L'intercettazione di cui si è parlato l'altra volta, su cui sono state dette tante cose - ha spiegato -, è un'interpretazione che è stata data. Noi abbiamo dato una certa interpretazione, perché da quella frase sembrava ci fosse una certa confidenza fra Agnelli e Dominello, ma probabilmente era del pm quella frase. Anzi, da una lettura migliore la attribuisco al pubblico ministero". Secondo la prima versione, infatti, in una telefonata tra il presidente bianconero e il dirigente Alessandro D'Angelo, parlando di Rocco Dominello (capo ultras, "portavoce" della curva bianconera attualmente indagato per associazione mafiosa), Agnelli dimostrava di sapere perfettamente che il tifoso aveva legami con la criminalità organizzata. Poi si è scoperto che la telefonata era tra D'Angelo e un altro dirigente, Francesco Calvo ("Sì però parlavano di Agnelli" si disse). Ora si scopre, finalmente, che il numero uno della Juventus non c'entrava niente. E non finisce qui, perché Pecoraro ha anche respinto l'accusa di aver accostato il nome di Agnelli alla 'ndrangheta. "Io non faccio la Procura ordinaria - ha aggiunto -, io mi occupo della gestione dei biglietti, poi se c'è una permeabilità della dirigenza juventina con la 'ndrangheta non riguarda me, ma la Commissione, e ha riguardato la Procura ordinaria (nel processo in corso la Juventus non è minimamente coinvolta ndr). Io mi occupo dei biglietti. Ho dato degli elementi alla Commissione, la cosa certa è che i biglietti sono stati dati anche a persone legate alla criminalità, questo è il dato. Sarà il giudice sportivo a tenerne conto, ma non chiedetelo a me. Chi dominava nel bagarinaggio dei biglietti dello Stadium era Dominello, il resto lo fa la Procura ordinaria. Ora, il tribunale federale nazionale della Figc e, in secondo grado, la Corte d'appello federale valuteranno se le mie interpretazioni saranno accoglibili o meno. La procura federale si è basata solo su atti dell'inchiesta "Alto Piemonte" e tengo a specificare che ciò che può non essere rilevante per giustizia ordinaria lo può essere per sportiva". La Juventus, il cui presidente è stato deferito dallo stesso Pecoraro, non ha mai contestato l'accusa sui biglietti. Ciò che contestava era proprio l'idea che Agnelli potesse aver avuto rapporti, consapevoli, con esponenti della 'ndrangheta. A questo punto lo scenario cambia radicalmente. Non si parla più di rapporti ma di possibili infiltrazioni. La stessa Rosy Bindi ha sottolineato che "in Italia le mafie arrivano persino alla Juventus e questo è chiaro". Ma ha anche aggiunto che "in quella telefonata non si sta parlando del presidente della Juventus Agnelli". Ciò nonostante la commissione Antimafia sentirà il presidente della Juventus nelle prossime e settimane. E, entro l'estate, verranno sentiti il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, il capo della Polizia Franco Gabrielli, i presidenti delle leghe di Serie A e B oltre ai presidenti di Genoa, Crotone, Lazio, Roma, Inter, Milan e Napoli.

Componente della commissione antimafia con una sciarpa anti-Juve: è polemica, scrive il 23.03.2017 Rosa Doro. Sta facendo molto discutere la foto che ritrae Ignazio La Russa, dichiarato tifoso dell'Inter con Marcello Taglialatela, componente della commissione antimafia che si sta occupando della vicenda che riguarda Agnelli. Sui social imperversa la foto, risalente a qualche anno fa con i due che tengono insieme una sciarpa inequivocabile: Juve Merda”. E la polemica tra i tifosi bianconeri scatta naturale. Ecco uno dei tantissimi tweet di indignazione.

Gazzetta, macchina da guerra antiJuve, scrive Sandro Scarpa il 4 marzo 2017. Dopo Juve-Inter avevamo smascherato la faziosità della Gazzetta, la strategia palese dietro gli attacchi concentrici alla Juve e a tutela di quell’Inter tanto cara alla rosea. Avevamo scomodato Chomsky e il suo modello di propaganda per avvalorare la nostra tesi. Ci sbagliavamo. La Gazzetta non si limita a falsare il gioco parteggiando apertamente per una squadra (Inter) per ragioni commerciali, ancorché di affinità elettiva, il giornale più letto (e un tempo autorevole) semplicemente è diventata una perfetta macchina da guerra AntiJuve, in linea col mercato del giornalismo sportivo e con la domanda del Paese. Gli episodi ed il post-gara di Juve-Napoli li abbiamo trattati altrove, regolamento alla mano, con occhi allibiti da tifosi o stigmatizzando ironicamente il comportamento di Giuntoli. Qui ci interessa invece esaminare la macchina da guerra. Cosa fareste voi al fischio finale di Juve-Napoli se foste il direttore di un’ipotetica “Gazzetta AntiJuve”?

La prima cosa da fare è scrivere a caldo che la Juve ha vinto meritatamente e gli episodi arbitrali non sono clamorosi, ma dubbi, di qua e di là ma “domani rischiate di sentir parlare solo di quelli: due rigori per la Juve, sotto 1-0, sono abbastanza per animare discussioni in bar e uffici”. A scriverlo è Valerio Clari, che ironizza e stigmatizza il solito chiacchiericcio, ma dimentica di scrivere “discussioni in bar, uffici E GAZZETTA”.

La seconda cosa da fare è agire immediatamente sulla moviola. E’ una gara di Coppa Italia, non ci sono i moviolisti Sky e Premium che daranno la linea, c’è il solo Sconcerti che dà per buoni i rigori Juve (anzi ne vede un terzo) e nega quello per il Napoli. La moviola Gazzetta quindi diventa prezioso punto di riferimento. A chi affidarla? Non a qualcuno dei 5-6 inviati allo Stadium, non ai soliti moviolisti (Ceniti in primis). Affidiamola ad un non moviolista (ultima moviola fatta 5 anni fa in un Chievo-Samp...) ma al redattore più tifoso del Napoli e più apertamente antiJuve della Gazzetta: Vincenzo Cito, questo signore qui: «Conte "assurdo parlare di aiutini a favore della Juve". Sono abituati a ben altro. La Juve è la più forte ma certe cose fanno pensare: gol in fuorigioco all'andata, rigore non visto al ritorno, il furto a Chievo: +6 su Roma. Conte che dà lezioni di educazione è come se Giuliano Ferrara ne facesse di corretta alimentazione. Per evitare ulteriori e dannose polemiche, Juve-Milan domenica comincerà direttamente dall'1-0.»

Certo, anche un ultrà antijuve che sui social dimostra un’ossessione radicata, può essere competente (anche se non fa moviola da 5 anni) e imparziale, ma sarebbe opportuno quantomeno salvare le apparenze. Cito omette -toh!- il contatto Strinic-Dybala e giudica (unico tra i moviolisti) SOLARE il rigore su Albiol.

La terza cosa da fare, il giorno dopo, è un fuoco di fila massiccio contro l’arbitraggio e contro la Juve e che pompi a dismisura lo scandalo e la vergogna. Non solo il tono dei pezzi, soprattutto la quantità, le sfumature, le prospettive, il background, i precedenti, e i retroscena dello scandalo. La SSC Napoli che tuona (omettendo di giudicare, fare fact-checking), le immagini mancanti, le riprese video opache, i mille dubbi, le poche certezze. Dal mattino successivo ci sono 11 pezzi sullo “scandalo” su 13 totali in homepage. Se ne accorge Daniele Manusia, osservatore neutrale (e romanista) che pone una domanda ficcante: "In questo momento sulla homepage di Gazzetta 11 pezzi su 13 sono sulle polemiche post Juve-Napoli. Notizia o modello economico?"

La quarta cosa da fare è allargare il fronte. Qui non si tratta di difendere il Napoli, peraltro poco nei cuori del target Gazzetta, antijuventino sì, ma soprattutto milanese ed in particolare interista. Tocca coinvolgere nello scandalo, appassionare alla vergogna anche i propri clienti, toccandoli nelle corde più profondo dell’odio AntiJuve. Si ripesca quindi la Pietra Filosofale dell’Antijuventinismo, Iuliano-Ronaldo.

Certo, anche la redazione più scafata e priva di scrupoli della nostra Gazzetta AntiJuve si sarà posta il problema: come si può seriamente paragonare un giocatore forse toccato che si infila in mezzo ad altri due ad un body-checking? L’analogia è la BEFFA, il rigore SOLARE non dato (fa nulla se in analoghi contatti con altre maglie la stessa Gazzetta ci dice che quelli non sono rigori) da cui parte un’azione BEFFA in contropiede e un altro rigore dato alla Juve, su cui nel frattempo sorgono dubbi (qui si va oltre l’ultrà Cito e verso il superultrà Pistocchi che smentisce sé stesso). Doppia, tripla beffa!

La quinta e ultima cosa da fare è consegnare l’episodio alla Storia, con dichiarazioni conclusive fatte dai SuperBig dell’antijuventinismo, dai Padri Fondatori dello stesso. E chi chiamereste? Gigi Simoni eZdenek Zeman.

Una macchina da guerra perfetta. Anche se stavolta i Padri un po’ tradiscono, e pur ammettendo i soliti favori e aiutini, sono meno netti del solito, forse perché qui si parla del Napoli (e non delle loro squadre) e quindi l’accusa dura e pura la lasciamo agli Auriemma, agli Alvino, ai Cito…Non vogliamo condannare il solito Pistocchi, il solito Ziliani (che arriva a vedere un offside nel gol di Higuain), il solito Liguori (a cui non basta Juve-Napoli ma accusa la Juve di essere la mandante dell’Atalanta nelle vittorie contro Napoli e Roma per i rapporti sul mercato. E Gagliardini? E Grassi?). Non vogliamo nemmeno ridere amaramente di Bergonzi (sì, quello di Buffon-Zalayeta) che contraddice la sua storia alla Radio di Auriemma o sorridere del pezzo dello spagnolo AS (molto citato dai tifosi Napoli) che però si scopre essere scritto da un collaboratore di TuttoNapoli. Qui ci limitiamo a contemplare come l’ex-autorevole Gazzetta sia diventata una macchina rodata e perfettamente orchestrata al servizio di quel sentimento popolare che essa stessa, assieme agli altri, ha contribuito a creare. L’oltraggio finale è che gli stessi giornalisti si rifiutano di dialogare con tifosi e blogger “Eh, ma voi siete tifosi, siete di parte…”, quando in realtà anche il tifoso Juve più oltranzista non arriverebbe mai ai livelli dei Cito, Pistocchi e Ziliani, Simoni e Zeman, che ci hanno raccontato il calcio in questi anni. La macchina ha il preciso scopo di insudiciare inevitabilmente tutti gli anni di successi meritati, di sacrificio, lavoro, competenza e qualità della Juve, e quindi di sporcare, di insozzare il gioco del calcio stesso, lo sport fatto di vincitori e vinti, prima ancora di fomentare antipatia e odio. A quello ci pensano già i tutori della sicurezza, come il Sindaco di Napoli in un post social a dir poco indecoroso per inesattezze, retorica e tentativo maldestro di raccattare voti e soprattutto aizzare animi. Peccato che De Magistrisi non potrà più affidarsi al suo ex-Assessore alla sicurezza Narducci, dimessosi, dopo essere stato indagato –e prosciolto- per abuso di ufficio. Narducci sì, il PM di Calciopoli, quello di “piaccia o non piaccia”, altra affinità elettiva.

Moggi lancia l'allarme: “Sembra di essere nel 2006. Si stanno fomentando gli animi”, scrive Luca Russo il 5 marzo 2017. ​Nell'ultimo periodo, in Italia, si è venuto a creare un clima abbastanza teso attorno alla Juventus. Il club bianconero, infatti, è stato attaccato e criticato da diversi fronti, reo di aver usufruito di presunti errori arbitrali a suo favore. Il punto, però, è che talvolta l'universo anti-Juve vede soltanto quello vuole vedere. E purtroppo determinate accuse non sono altro che alibi che permettono ad alcuni club di 'giustificare' le sconfitte. Tale discorso è stato affrontato, in prima persona, da Luciano Moggi, che ha reso noto il suo pensiero sul giornale Libero.  

Moggi: "ll calcio purtroppo sta ripercorrendo la strada interrotta nel 2006". Luciano Moggi torna sulle polemiche post Juve-Napoli sulle colonne di Libero: "Ci mancava la Coppa Italia per attizzare l’ambiente calcio ed ecco Juve-Napoli servita sul piatto per alimenta...Di recente ho letto e sentito polemiche che non hanno motivo di esistere - spiega l'ex dirigente della Juventus - perché se un arbitro assegna due rigori sacrosanti non c'è motivo di gridare al complotto. Tutto ciò, in ogni caso, è servito al Napoli per arrogarsi del diritto di perdenti. Perché hanno addirittura interrotto il silenzio stampa per scagliarsi contro l'arbitraggio. Sembra di essere tornati nel 2006, il clima è quello, come se le partite le giocassero gli arbitri. Certe lamentele vengono poi alimentate da opinionisti, giornalisti ecc...a seconda della loro fede calcistica”. Luciano Moggi ha poi aggiunto: “Nessuno si rende conto che fomentando gli animi si rischia di ricreare determinati incidenti che poi, tra l'altro, vengono etichettati come gesti incivili dalle stesse persone. Basti pensare che al giorno d'oggi anche politici e sindaci si travestono da tifosi senza rendersi conto delle cause e delle conseguenze che potrebbero scatenare”. Luciano Moggi torna sulle polemiche post Juve-Napoli sulle colonne di Libero: "Ci mancava la Coppa Italia per attizzare l’ambiente calcio ed ecco Juve-Napoli servita sul piatto per alimentare polemiche che non hanno ragione di esistere. Se un arbitro, nel caso Doveri di Roma, dà due rigori alla Juve, sacrosanti, si parla già di complotto a favore dei bianconeri, non importa se si dimentica di darne un altro per fallo di Strinic su Dybala. È stato comunque sufficiente per consentire al Napoli di arrogarsi del diritto dei perdenti e interrompere il silenzio stampa per insultare l’arbitro, reo di aver favorito la Juve facendole vincere immeritatamente la partita. Il calcio purtroppo sta ripercorrendo la strada interrotta nel 2006, sembra infatti, ora come allora, che le partite le giochino gli arbitri, che i giocatori siano i testimoni oculari estranei a qualsiasi tipo di contesa, quasi spettatori non paganti, che gli spettatori paganti siano invece le vere vittime perchè costretti, a loro insaputa, a vedere una fiction piuttosto che una partita di calcio vera. Lamenti che poi vengono colti dai tanti opinionisti di tv, radio e giornali, ognuno a raccontare la propria verità, a seconda della bandiera di appartenenza. Nessuno a tenere conto che fomentando gli animi si possono creare quegli incidenti di cui spesso siamo testimoni, che poi vengono etichettati con la parola «inciviltà» dagli stessi fomentatori. Persino i politici e adesso anche qualche sindaco, si vestono da tifosi, senza pensare alle cause che ne potrebbero derivare (....)".

Luciano Moggi il 10 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”: Andrea Agnelli rischia di fare la mia fine. Rimbomba e si dissolve nel cielo il grido «The Champions» in un San Paolo gremito che acclama il Napoli: la speranza, ultima a morire, è dipinta nella faccia di questi tifosi, battere il Real campione del mondo sarebbe stato il sogno della vita. Purtroppo non si è avverato, è stato Zidane a prevalere. Grande comunque la prestazione dei napoletani nei primi 45 minuti contro un Real in attesa: due disattenzioni della difesa vanificano il gol di Mertens e quanto di buono fatto fino lì. Sarri ha tentato di giustificare la disposizione a zona in occasione dei due gol presi da corner senza però ottenere consensi. Si sa infatti che Sergio Ramos sui calci d’angolo anziché sostare in area vi entra di corsa per colpire con più violenza, per cui qualcuno avrebbe dovuto frapporsi per frenarlo, anche a costo di fare fallo... Se lui ti frega una volta e si ripete subito dopo, vuol dire che non è marcabile a zona ma significa anche - e purtroppo - che né Albiol né Koulibaly e tanto meno Sarri avevano capito la lezione. Se del Real il migliore è stato proprio Ramos, nel Napoli tutti bene (che pubblico!) mentre il peggiore è De Laurentiis, che trova modo di polemizzare contro la stampa e contro il giornalista della Gazzetta, Mimmo Malfitano, come se la sconfitta dipendesse da questa persona che, tra l’altro, è stimata da tutti per la sua serietà. Non gli era bastata la dichiarazione nel post Madrid, ha voluto attizzare nuove polemiche. Bisogna riconoscergli il merito di aver riportato il Napoli in serie A ma troppa è la differenza con il patron storico, Corrado Ferlaino, verso il quale tutti hanno il massimo rispetto e chi vi scrive la massima stima per aver collaborato con lui, in qualità di Direttore Generale, negli anni in cui arrivò Maradona e fu costruita la squadra capace di vincere due scudetti, una Supercoppa, una Coppa Uefa e la Coppa Italia. Ora, il Napoli ospita il Crotone e deve rituffarsi all’inseguimento del secondo posto della Roma. I giallorossi saranno a Palermo dove un nuovo presidente (?) ha sostituito (per ora?) Zamparini: da questo cambio gli isolani riceveranno sicuramente una spinta emotiva... non è dato sapere in quale direzione. La Lazio ospita lunedì il Toro per avvicinare proprio il Napoli ma anche garantirsi un posto in Europa League: impegno non facile ma alla portata. L’Inter a San Siro ospiterà la grande rivelazione del campionato, quell’Atalanta che ha messo in difficoltà quasi tutte le squadre incontrate: sarà un incontro spareggio per assicurarsi l’Europa. Stesso discorso per il Milan, solo che i rossoneri saranno stasera allo Stadium, fortino della Juve. Purtroppo, ancora, dobbiamo registrare quanto cara possa costare al club bianconero questa supremazia calcistica. È risaputo come in Italia regni sovrana l’invidia che è l’arma dei deboli, le cui insinuazioni ne costituiscono la forza per tentare di stravolgere le situazioni e buttar giù chi sta dimostrando di saper lavorare per il bene della propria azienda e per il calcio italiano. È ora il turno di un bravo manager, Andrea Agnelli, coinvolto in una non precisata connivenza a livello di biglietti con alcuni boss della malavita. Per chi conosce Andrea, è un’accusa che farebbe ridere anziché piangere, rimbalzata su tutti i giornali nonostante le smentite del Procuratore Federale, Pecoraro. La Juve è di nuovo sotto l’attacco di chi non sa batterla sul campo. Non bastava quanto successo nel 2006...di Luciano Moggi

Il direttore generale della Figc: “Sulla Juve un processo mediatico”. Michele Uva interviene sull’indagine conoscitiva della Commissione Antimafia: no a passi avanti frettolosi, scrive Guglielmo Buccheri il 24/03/2017 su “La Stampa”. «Il caso Juve-ultras? Penso che sia in corso un processo mediatico...». Da Palermo, dove la Nazionale di Giampiero Ventura si prepara ad affrontare l’Albania con in gioco punti decisivi sul cammino verso il Mondiale 2018, il direttore generale della Figc Michele Uva, interviene sull’indagine conoscitiva della Commissione Antimafia. «Forse - dice Uva - ci sarebbero problemi più importanti per l’Italia che la questione dei biglietti dati dai club. Sulla Juve c’è un procedimento sportivo che, in piena autonomia, concluderà il suo iter: se è stata violata qualche norma, si vedrà. Per il resto, come detto, no a passi avanti frettolosi o a processi mediatici». Immediata la replica dell’onorevole Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia: «Noi non facciamo processi, men che meno mediatici. Di questo si cerchino altrove le responsabilità. Preoccupa che il direttore generale della Federcalcio ritenga che ciò di cui ci stiamo occupando non sia una cosa seria. Ciò che fa male all’Italia sono le mafie, anche quando si infiltrano nello sport, e la sottovalutazione di questo fenomeno. L’inchiesta della Commissione proseguirà a tutto campo». Dello stesso parere anche il vicepresidente della commissione Claudio Fava: «Se il Dg della Federcalcio definisce “una cosa banale” un’inchiesta penale sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nel circuito del tifo organizzato c’è da essere preoccupati. Se poi si chiede alla Commissione Antimafia di “occuparsi d’altro” c’è da essere anche imbarazzati».

Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016. Uno studio dell'Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l'11% degli articoli racconta come va a finire un processo, scrive Maurizio Tortorella il 15 dicembre 2016 su Panorama. È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l'esito positivo per l'indagato o l'imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un'associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c'è dubbio che "l'omesso aggiornamento mediante inserimento dell'esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l'immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall'evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato. 

LEONARDO SCIASCIA E LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Quando Sciascia lasciò il Pci di Berlinguer e scoprì Pannella, scrive Luciano Lanna il 4 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La parabola dell’intellettuale siciliano che in “Candido” racconta la sua svolta libertaria che lo avvicinò ai “nuovi filosofi” francesi e al partito radicale. Come per tante altre cose, l’anno 1977 è stato decisivo anche per l’itinerario politico- culturale di Leonardo Sciascia, lo scrittore che – forse lui solo con Pier Paolo Pasolini – può essere considerato uno dei pochi veri intellettuali del secondo Novecento italiano. È proprio in quell’anno che infatti si esprime in tutta la sua portata la vocazione libertaria dello scrittore in una esplicita presa d’atto pubblica di “rottura” con il Pci e la cultura consociativa che sarà anticipatrice degli snodi di conflitto dei decenni successivi della società italiana. Intanto, con un gesto simbolico forte, all’inizio del ’ 77 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere comunale del Pci a Palermo. Non che fosse mai stato intellettualmente marxista o comunista, la sua formazione era semmai improntata al relativismo pirandelliano e a alcuni tratti dell’illuminismo francese. E l’unica sua “discesa in campo” fu, nel ’ 74, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della legge sul divorzio, in cui erano in prima fila i radicali di Marco Pannella. E l’anno successivo, dopo tante insistenze, in vista delle elezioni comunali nel giugno ’ 75 aveva accettato di candidarsi, ma come “indipendente”, nelle liste del Pci. Ed era stato eletto, data la sua popolarità, con un fortissimo numero di preferenze. Ma durò solo tre anni. All’inizio del ’ 77, infatti, lo scrittore sbatte la porta e rompe definitivamente col Pci. Anche se i segnali di insofferenza venivano da lontano. Tanto per dire, il 15 marzo del ’ 50 Sciascia – allora maestro elementare nel suo paese, Racalmuto – aveva pubblicato un articolo- necrologio per sottolineare l’importanza dell’autore del romanzo La fattoria degli animali, decisamente antitotalitario e anticomunista. “Molto prima del 1984 è morto George Orwell” era il titolo dello scritto.

E nel ’69, proprio mentre iniziava la sua collaborazione col Corriere della Sera, dava alle stampe Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D. , un testo che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, una controversia settecentesca. Ma la storia, apparentemente banale, era in realtà una metafora- denuncia antitotalitaria che descriveva i rapporti tra l’Urss e gli Stati satelliti: le iniziali A. D. identificavano infatti Alexander Dubcek, il protagonista nel ’ 68 della Primavera di Praga. Insomma, Sciascia non era mai stato il classico intellettuale organico.

Nel ’ 77 però la strategia berlingueriana del “compromesso storico” e certi accenti consociativi lo costringono alla sua “uscita di sicurezza” nel momento stesso in cui prende atto della sua totale incompatibilità con un certo mondo e le sue logiche. Non a caso subito dopo le sue dimissioni da consigliere comunale si mostra in sintonia con quanto stanno scrivendo e muovendo in Francia i “nuovi filosofi” e accetta, per il laico e filo- socialista editore Marsilio, di scrivere la prefazione al manifesto anti- totalitario La barbarie dal volto umano di Bernard-Henri Lévy, un pamphlet visto ovviamente come il fumo negli occhi da quelli del Pci.

Sciascia viene subito accusato di fare da battistrada da noi al dilagare del nuovo pensiero critico francese. E lui replicava secco: «Sono portato a credere che in Italia le dighe del conformismo e del “compromesso” li fermeranno… ma anche se dilagassero non credo che il loro pessimismo possa toccare i vertici già raggiunti dal compromesso storico, né sommergere, quindi, quel che il compromesso storico ha già sommerso». E concludeva che «non soltanto le oppressioni e i massacri della sinistra al potere offrono credibilità ai “nuovi filosofi”, ma anche le ambiguità, i giochi delle parti, le opportunistiche assenze e le elettoralistiche presenze, la desistenza (con richiamo alla Resistenza) della sinistra non ancora al potere». Parole definitive e chiare che spiegano tutto l’itinerario politico- culturale successivo della scrittore e intellettuale siciliano.

Fatto sta che dopo questi atti pubblici Sciascia manda in libreria un romanzo, forse il più autobiografico dei suoi libri, in cui tratteggia uno spaccato delle contraddizioni e dell’identità politica dell’Italia del secondo dopoguerra: Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (nel ’77 edito da Einaudi, ora in una nuova edizione targata Adelphi). Già da una lettura immediata, il testo appare come il romanzo del disincanto politico e della perdita della fede comunista. Ma non in chiave tragica o risentita, come per altri scrittori precedenti o successivi, ma con tanta ironia e leggerezza libertaria. Come il vecchio conservatorismo siciliano, superstizioso e controriformista, la nuova religione comunista alla fine si era rivelata, per Sciascia, una illusione e lo scrittore parafrasa il percorso di Voltaire e del suo Candido. Va ricordato che il recupero dell’apologo volteriano in chiave contemporanea era stato preceduto di due anni dal regista Gualtiero Jacopetti che – con Franco Prosperi e la sceneggiatura di Claudio Quarantotto – aveva mandato nelle sale cinematografiche nel ’ 75 il film Mondo Candido, unica pellicola non documentaristica ma di fiction del regista, in cui Candido, il personaggio di Voltaire, che vive nel castello in Westfalia, dopo essere stato cacciato di casa, girovaga per paesi ed epoche diverse e si arriva all’epoca contemporanea e ai suoi conflitti politici.

Ma il romanzo di Sciascia va oltre, presentandosi appunto come un apologo sull’Italia e gli intellettuali italiani dall’immediato secondo dopoguerra al ’ 77, anno in cui si concludono le vicende della narrazione. Candido Munafò, il protagonista, non a caso nasce in Sicilia nei giorni dello sbarco americano. E cresce in una realtà devastata, squallida e odiosa, quale quella dell’isola postbellica. Rassegnazione, conformismo, cinismo, consociativismo, corruzione allignano ovunque. Candido viene abbandonato in tenera età dalla madre Maria Grazia, che gli preferisce la compagnia del nuovo marito americano, Hamlet, ufficiale delle truppe alleate. Interessanti il colloquio, nel ’ 77, tra Candido e il marito della madre, in cui l’ex ufficiale americano riconosce che per ordini superiori aveva reclutato per le cariche pubbliche postfasciste personaggi quantomeno sospetti. Alla domanda di Candido – «come ha fatto lei, dopo appena qualche giorno che era arrivato nella nostra città, a scegliere i peggiori cittadini?» – l’americano risponde: «Non li ho scelti io. Quando mi hanno mandato nella vostra città, mi hanno consegnato la lista delle persone di cui dovevo fidarmi… Dovevo: era un ordine insomma».

E il protagonista del romanzo ribatte: «Comunque, l’ho sempre sospettato. Voglio dire: che lei fosse arrivato con la lista dei capi della mafia in tasca». E la puntualizzazione dell’ex ufficiale è lapidaria: «Le dirò che l’ho sospettato anch’io, che mi avessero dato una lista di mafiosi… Ma, veda, noi stavamo facendo una guerra…». Un passo del libro questo, che anticipa di quasi quarant’anni e per firma di Leonardo Sciascia, un tema che sta al cuore del film di Pif In guerra per amore che ha suscitato tante polemiche… Ma torniamo alla trama. Il padre di Candido, un classico avvocato siciliano di tutto rispetto, viene coinvolto in questioni di mafia e si suicida. Il bambino passa allora sotto la tutela del nonno materno, il generale della Guerra di Spagna Arturo Cressi che, dopo essere stato fascista e ufficiale della Milizia, si fa eleggere deputato con la Dc, «tanto è la stessa cosa».

Il piccolo Candido, allora, finisce nella mani di un prete- precettore che resterà fino alla fine il suo amico e interlocutore privilegiato, il grande alleato nel duello che insieme cercheranno di stabilire prima contro la Chiesa cattolica e il suo conservatorismo e, dopo la rottura, contro la Chiesa comunista. Candido si ritrova solo con don Antonio, un prete irregolare che non rinuncia mai a pensare con la propria testa e verrà, per questo, scomunicato e messo al bando dalla Chiesa. Il comunismo, cui Candido e il prete, approdano in cerca di un ambiente diverso, si rivela una grande illusione. Qui le pagine di Sciascia sono molto efficaci, soprattutto laddove descrive la sua critica al Pci e ai suoi metodi. Lo scrittore dipinge infatti il partito come una Chiesa all’inverso, con le sue gerarchie, le sue rigidità, i suoi moralismi, i suoi interessi da difendere, le sue omertà di fronte alla disciplina di partito e alla ragion di Stato. Tanto che Candido, considerato un provocatore e un rompiscatole, viene “processato” ed espulso.

In un’Italia diventata nel frattempo una grande Sicilia, il protagonista del romanzo non ha scampo e va a Parigi, la città – per tornare a quanto già detto – dei “nuovi filosofi”: «Era una grande città piena di miti letterari, libertari e afrodisiaci che sconfinano l’uno nell’altro e si confondono». Anche perché, «tutto il bel parlare che si fa di eurocomunismo di comunismo italiano, di emancipazione dall’Unione Sovietica, è soltanto un bel parlare…». No, meglio Parigi, la sua cultura, le tracce di Hemingway e di Fitzgerald. E qui, proprio in una sera del ’ 77, Candido ritrova il suo precettore: «Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace veder finire quel che deve finire…». E, davanti alla statua di Voltaire, in rue de Seine, Candido ammette la sua definitiva liberazione intellettuale. «Non ricominciamo coi padri», dice. E, il romanzo si conclude, con la presa d’atto della sua felicità e della sua dichiarazione di essere solo «figlio della fortuna». Il libro, in sostanza, si delinea come una tagliente satira sull’Italia tra gli anni 40 e 70, piena di compromessi, riciclati, mistificatori, arrivisti, conformisti, ipocriti, affaristi, finti rivoluzionari e asserviti alle logiche.

Che poi l’alternativa, alla situazione italiana, si mostri solo in Francia, è un passaggio che spiega, come dicevamo l’itinerario successivo di Sciascia. Dall’anno precedente, infatti, era aumentata notevolmente la frequenza dei viaggi a Parigi dello scrittore siciliano che intensificava così i suoi contatti con la cultura francese. Cultura francese – si pensi solo ad alcuni autori di riferimento come Albert Camus e Saint- Exupéry – fondamentali nel milieu culturale dei radicali e di Marco Pannella, uno dei pochissimi partiti allora presenti in Parlamento che – con il Msi, il Pli e Pdup-Dp – si schiererà nel ’ 78 contro il governo di unità nazionale e, quindi, contro il “compromesso storico”.

Non a caso, due anni dopo Sciascia accetterà di buon grado la proposta del Partito radicale di candidarsi sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi resta a Strasburgo solo due mesi e poi opta per Montecitorio, dove rimarrà deputato fino all’ 83 occupandosi dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (con una forte critica rivolta alla cosiddetta “linea della fermezza”) e sul terrorismo in Italia. Si espresse, decisamente, contro la legislazione d’emergenza che istituiva poteri speciali e inaspriva molte fattispecie di reato. In seguito a nuovi contrasti con il Pci di Berlinguer, Sciascia abbandonerà comunque l’attività politica, non rinunciando mai però all’osservazione delle vicende politico- giudiziarie dell’Italia, in particolare sul tema della mafia e sul tema del garantismo. L’ultima sua polemica che farà discutere, trent’anni fa, fu infatti scatenata da un articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia” in cui Sciascia affermava che in Sicilia, per far carriera nella magistratura, nulla vale più del prender parte a processi di stampo mafioso. 

La mafia dell’antimafia, scrive il 24 marzo 2017 Giuseppe Stefano Proiti su "La Voce dell’Isola”. I protagonisti di questo sistema sono professionisti dell’odio. Implacabili giustizialisti giacobini con gli avversari, e teneri garantisti con gli amici. Chi è con loro è contro la mafia, chi non è con loro è mafioso. Questo è il cerchio magico che da dieci anni decide i componenti del governo e persino la durata di un assessore. Questa è una cricca. Che usa il potere dell’intimidazione. Per questo motivo si può parlare di mafia dell’antimafia. Ecco, uno stralcio dell’intervento in Sala d’Ercole dell’on. Nello Musumeci, alla fine del quale – lo scorso 15 marzo – ha annunciato le dimissioni dalla presidenza della Commissione antimafia e contestualmente la sua possibile candidatura alla Presidenza della Regione. Ebbene, come si potrebbero commentare queste parole? In buona sostanza così: nulla di nuovo sotto il sole! Il tema dell’antimafia usato a fini “propagandistici”, come clava contro gli avversari politici, viene ribadito dall’onorevole Musumeci, ma è un fatto conclamato da quarant’anni a questa parte. Esisteva già da quando lo ripeteva, inascoltato, nel 2010, Vittorio Sgarbi da sindaco di Salemi, denunciando quanti, tra giornalisti, investigatori e magistrati, s’inventavano la mafia anche là dove non c’era, pur di perpetuare l’ “antimafia di professione”. Per fare carriera, gestire beni, ottenere privilegi e danari pubblici. Ma andiamo più a ritroso nel tempo: lui era un meridionalista d’indiscussa fede e convinzione. Che questo spinoso e delicato tema gli stesse particolarmente a cuore è facilmente intuibile. Non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet, ma anche i romanzi e i racconti sono sempre attraversati da interrogativi divisivi sulle gravi questioni etico-politiche riguardanti la vita del Paese: i rapporti fra Giustizia e potere, fra Stato e diritto, fra Stato e mafia, fra verità e impostura.

Leonardo Sciascia in tutta la sua vita e in ogni suo scritto divise l’establishment, divise il pubblico critico e non, al punto da aggiudicarsi l’appellativo di “scrittore politico”. Lo è stato più di qualsiasi altro letterato del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. La sua “politicità” non offusca la sua grandezza letteraria; anzi vanno di pari passo e si alimentano a vicenda. Chi, come Piero Citati, sostiene che la sminuisca, affermando addirittura che dalla sua opera si dovrebbe eliminare – allo stesso modo del “primo Calvino” – “l’ultimo Sciascia”, dovrebbe in realtà chiarire dove inizi, a suo giudizio, “l’ultimo Sciascia”. Comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde – come giustamente ricorda Gianfranco Spadaccia – l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia”, perché dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. Dunque, a vederci bene, non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci.

Insomma, c’è “del politico” in Sciascia, eccome! E questa sua dote “naturale”, anzi, gliela si dovrebbe riconoscere come qualità per eccellenza, prima delle scontate definizioni di “scrittore illuminista”, di “scrittore barocco” (con Calvino e poi con Belpoliti), di “scrittore secco” (con Bufalino e poi con Campbell). Leonardo Sciascia, nel tempo in cui la menzogna su “entrambi i fronti” era all’ordine del giorno, fu un profondo “cercatore di verità”… fino alla fine: “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte  – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. E ancora, in uno dei suoi illuminanti interventi (“Corriere della Sera” – 1987), ebbe a porre sul tappeto il problema di un “eccesso di potere” da parte degli organi istituzionali cui per legge era stata demandata la lotta alla mafia (Commissioni Antimafia nazionale e regionale, pool di magistrati ecc.). Egli fece intendere che all’interno di tali Organismi potesse manifestarsi per finalità di arrivismo politico o di carriera, una qualche forma di perniciosa “tendenza al protagonismo”. Anche se, come sottolinea Gianfranco Spadaccia, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale antimafia. Ebbe dunque a tratteggiare, uno scenario dal quale emergeva la preoccupazione per una certa “similitudine” che avrebbe potuto manifestarsi fra i sistemi e i metodi adoperati nei due campi contrapposti. L’uno, volendo sicuramente rendere più visibile l’impegno legalitario nella lotta al crimine organizzato e alle infiltrazioni malavitose nelle strutture pubbliche. L’altro, nella speranza di poter sfruttare, per fini illegali, le crepe esistenti nel sistema politico delle pubbliche amministrazioni. Oggi, a distanza di tanto tempo, non sembra necessario aggiungere alcunché al pensiero di quest’illustre uomo! Leonardo Sciascia sognava di essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. In lui la contraddizione era “vivente”: il suo “essere siciliano” soffriva indicibilmente del gioco al massacro che perseguiva. Quando denunciava la mafia, nello stesso tempo soffriva poiché dentro di sé, come in ogni siciliano, continuavano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, egli lottava anche contro se stesso. Era come una scissione, una continua lacerazione. Allora, se si legge con attenzione, questo suo “spirito di contraddizione”, acquista ancor più valore sol che si tenga presente la sua potente ispirazione ideale, verso l’ “obiettivo puro” finale. Mi spiego: non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti di essa. Ne costituisce una chiara esemplificazione il suo romanzo più noto. Come ricorda in un suo libro Antonio Giangrande, basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima “vocazione ideale”. A questo punto, tutto torna nell’infinito “cerchio” del suo illuminismo: un salto così alto da farlo volare al fianco di un Voltaire, di un Diderot. “Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità”. (Gianfranco Spadaccia).

Giacomo Matteotti e le vecchie zie di Leonardo Sciascia. Di seguito pubblichiamo l’intervento di Valter Vecellio. Ci sono degli italiani con cui l'Italia ha un debito, di cui deve essere fiera, orgogliosa. Tra questi italiani, che sono assai più di quanto si sappia e si creda, e a cui dobbiamo riconoscenza e gratitudine, c'è senz'altro Giacomo Matteotti. Il 10 giugno prossimo saranno novant'anni dalla morte, più propriamente dall'uccisione provocata da cinque membri della polizia politica fascista. Non mi pare che siano molte le occasioni, le situazioni come questa, che si sono create per ricordarlo, per onorarne la memoria e il sacrificio. Non mi sorprende, ma ugualmente ne sono rammaricato. A lungo si è dibattuto se Mussolini sia stato il mandante di quel delitto, se sia invece imputabile all'ala dura del fascismo che ha agito a insaputa del capo costretto a prenderne atto, se Matteotti doveva subire solo una "lezione", poi sfociata in tragedia; e le inconfessabili ragioni di quel delitto. C'è un'ampia storiografia in materia, con punte a volte anche decisamente fantasiose. Renzo De Felice, ritenuto il più autorevole studioso del fascismo e di Mussolini, per esempio era convinto che Mussolini non avesse dirette responsabilità in questo delitto, che non l'abbia ordinato né voluto. Ma anche Federico Chabod e Benedetto Croce, per citare altri insospettabili studiosi e autorevoli testimoni erano dello stesso parere. Ma al di là di questo - un terreno in cui non mi voglio addentrare - mi pare abbiano subito visto giusto quei socialisti vicini a Filippo Turati che il 17 giugno del 1924 sostengono che «L'autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l'ambiente da cui i delinquenti emersero». Fa riflettere che si possano usare le stesse parole per tanti delitti e per tante stragi che hanno insanguinato il paese dagli anni Settanta agli anni Novanta...

Il sentire popolare fu ancora più esplicito; una famosa canzonetta dell'epoca diceva:

«Or, se a ascoltar mi state,

canto il delitto di quei galeotti

che con gran rabbia vollero trucidare

il deputato Giacomo Matteotti.

Erano tanti:

Viola Rossi e Dumin,

il capo della banda

Benito Mussolin. »

Il "Becco Giallo" famosa rivista umoristica di massa, un irriverente "Il Male" dell'epoca con in più l'autorevolezza di un "Canard Enchainé" pubblicò una vignetta nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti. Di Matteotti, Carlo Rosselli scrive che "...possiede una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari, il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava...". Uccidendo Matteotti, conclude Rosselli, Mussolini "ha indicato all'antifascismo quali debbono essere le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere, l'antiretorica, l'azione". Altro che socialismo zuccheroso e buonista, da libro "Cuore" (a parte che anche questo grande libro e il suo autore Edmondo de Amicis andrebbero liberati da questa patina dolciastra con cui li si li è voluti avvolgere)! Era, è, piuttosto, un socialismo umanitario, non credo si debba aver timore di questa parola, che cercava di coniugare i valori della libertà, della giustizia, dell'uguaglianza; quel liberal socialismo che troveremo nei fratelli Rosselli, e poi in Aldo Capitini e Guido Calogero - anche questi personaggi, non per un caso dimenticati e ignoti, volutamente, "scientificamente" ignorati. Per non parlare di Ignazio Silone, che ha avuto una travagliatissima esperienza politica: fondatore del PCI, una intensa e appassionata militanza, dirigente di spicco del partito, poi la violentissima rottura con il comunismo, la denuncia di ogni totalitarismo non importa di quale colore, l'impegno a favore di un socialismo intriso di valori cristiani nel senso letterale; è Silone che conia  l’espressione "fascismo rosso”, contro le degenerazioni dello stalinismo, ponendo l’accento sulla dialettica fra l’apporto degli intellettuali nella loro area politica di appartenenza e i vertici di partito...

Questo, in sintesi, il mondo di Giacomo Matteotti. Ma anche il mondo di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola, di Gaetano Salvemini che pure nei confronti dei socialisti non era particolarmente tenero, di Ernesto Rossi, Filippo Turati, Sandro Pertini, Fernando de Rosa, dei tanti che accorrono per combattere in Spagna i golpisti di Francisco Franco, ma devono fare i conti anche se non soprattutto con gli agenti di Stalin. George Orwell ha scritto pagine illuminanti al riguardo.

E qui si incontrano Leonardo Sciascia e il sentire popolare. Immaginiamola, Racalmuto, il paese dove Sciascia è nato ed è cresciuto, anni, diceva, che sono formativi per una persona, e la segnano per il resto della vita. Ancora oggi non è facile arrivare a Racalmuto. Certo non con il treno... anche con l'automobile è un bel viaggio. Figuriamoci negli anni '20-'30. Piccole case, viuzze, gente che si ammazzava dalla fatica per quattro soldi, qualche notabile e possidente. Niente televisione, la radio di regime, poche le automobili, molti gli analfabeti, qualche giornale, il circolo... Al di là del regime che se pur blandamente anche a Racalmuto avrà vigilato, parallelo ad altra, più spietata, efficiente e superiore vigilanza, le notizie arrivavano tardi, e male, non c'era internet, la rete, i tam tam di oggi...Nel 2002 Matteo Collura, grande amico di Sciascia e suo biografo, autore del bel "Il Maestro di Regalpetra" pubblicato da Longanesi, per lo stesso editore dava alle stampe "Alfabeto eretico": cinquantotto voci dall'opera di Sciascia, da don Abbondio a zolfo, e poi l'America, la mafia, il fascismo, Pirandello, Moro, la Sicilia, per capire Sciascia e il suo mondo... una in particolare, qui interessa, ed è la voce dei parenti. Sono appunto le zie. Scrive Collura: «Figure determinanti nella vita di Sciascia, avendone influenzato il formarsi del carattere (…) e fornendogli impagabili spunti nella sua formazione di scrittore (…) Fu una zia a rivelargli, mostrandogli un ritratto di Giacomo Matteotti, tenuto nascosto tra gli attrezzi per il cucito, che i fascisti avevano ucciso un "padre di famiglia che aveva dei bambini"». Di questa e poi mille altre morti, spesso ingiuste, scrisse Leonardo Sciascia. Storie di Sicilia e del mondo. E ieri come oggi, questo scrittore c'insegna sempre qualcosa. Zie colme di quella popolare saggezza che consente di sapere quel che conta e che vale, una saggezza che sa istintivamente dov'è il sugo del sale, non solo nel libro di Collura compaiono queste simpaticissime zie. Sciascia ne scrive in articoli, ne parla in interviste. Sono una presenza costante. "Un cugino di nostro padre" racconta lo scrittore ne "Le parrocchie di Regalpetra", "ci portò in casa il ritratto di Matteotti. Io abitavo con le zie, erano tre sorelle, due di loro non uscivano mai di casa, e spesso ricevevano visite di parenti...". Quel parente racconta come avevano ammazzato Matteotti, e dei bambini che lascia: "...mia zia cuciva alla macchina e diceva - ci penserà il Signore - e piangeva. Ogni volta che vedo da qualche parte il ritratto di Matteotti immagini e sensazioni di quel giorno mi riaffiorano... mia zia prese il ritratto, arrotolato dentro un paniere in cui teneva filo da cucire e pezzi di stoffa. In quel paniere restò per anni. Ogni volta che si apriva l'armadio, e dentro c'era il paniere, domandavo il ritratto. Mia zia, biffava le labbra con l'indice, per dirmi che bisognava non parlarne. Domandavo perché. Perché l'ha fatto ammazzare quello, mi diceva. Se alla mia domanda era presente l'altra mia zia, la più giovane, che era maestra, si arrabbiava con la sorella - devi farlo sparire quel ritratto, vedrai che qualche volta ci capiterà un guaio. Io non capivo. Capivo però chi fosse quello...".

Valgono più questi ricordi di poderosi saggi e dotte ricerche storiche, per capire che tipo di incidenza abbia avuto un personaggio come Matteotti tra quella gente comune che poco o nulla sapeva di alchimie e strategie politiche, ma molto capiva e s'intendeva di quello che Manzoni definisce "guazzabuglio del cuore umano"; e la chiave è appunto in quella istintiva commozione per un padre con bambini ucciso da "quello" e nel ritratto gelosamente conservato. Un ricordo che seguirà Sciascia, condizionandolo, tutta la vita; e che si rifletterà in tutta la sua opera.

Professionisti dell'antimafia? Vent'anni dopo, una nuova polemica su una brutta polemica scatenata da Leonardo Sciascia, scrive "Società Civile". Con la solita esclusione dei fatti. Eccoli qui. Il testo di Sciascia. L'intervento di Nando dalla Chiesa.  Chiedere scusa a Sciascia, come chiede Pierluigi Battista sul Corriere? Ma per che cosa? Innanzitutto i fatti, come sempre oscurati e dimenticati nelle polemiche giornalistiche italiane.

1. Leonardo Sciascia, scrittore siciliano che ha insegnato che cos'è la mafia a più generazioni, il 10 gennaio 1987 pubblica sul Corriere un lungo articolo titolato: "I professionisti dell'antimafia". Nella prima parte discute di un libro di Christopher Duggan sulla mafia durante il fascismo, sostenendo che l'antimafia può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile» e trasformarsi in uno «strumento di potere». Nella seconda parte dà concretezza a queste astratte riflessioni, portando due esempi. Quello del sindaco di Palermo Leoluca Orlando (senza farne il nome) e (con nome e cognome) quello di Paolo Borsellino, appena diventato procuratore di Marsala «per meriti antimafia». Sciascia era stato spinto a scrivere dal magistrato candidato procuratore che, benché avesse maturato un'anzianità maggiore, era stato sconfitto da Borsellino. La competenza e la professionalità avevano finalmente battuto, forse per la prima volta, le ragioni dell'anzianità.

2. Nessuna reazione all'intervento di Sciascia. Finché il Coordinamento antimafia di Palermo (300 iscritti) emette un duro comunicato che critica Sciascia, afferma che con quell'intervento lo scrittore si è messo ai margini della società civile e lo qualifica come un «quaquaraquà». Sciascia, scrive il Coordinamento, per una «certa affinità di cultura», ha nel suo cuore non Orlando, ma un sindaco come Vito Ciancimino, «che gestiva la cosa pubblica in nome e per conto della mafia».

3. A questo punto scoppia la polemica. Violentissima nei confronti del Coordinamento. Per difendere Sciascia si muove uno schieramento compatto e bipartisan di giornalisti, intellettuali, politici, di destra e di sinistra (fino a Rossana Rossanda sul Manifesto). I toni sono da difesa della libertà d'espressione contro la dittatura della maggioranza, da battaglia contro il conformismo dell'antimafia. Ma in realtà gli intellettuali che cercano di capire le ragioni del Coordinamento si contano sulle dita di un paio di mani: Corrado Stajano, Nando dalla Chiesa, Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Stefano Rodotà, Franco Rositi. Sulla scia di Sciascia si muove anche tutta la palude siciliana e nazionale che coglie un'occasione ghiotta (e insperata) per attaccare i magistrati attivi contro Cosa nostra e i movimenti antimafia. A un congresso della Dc siciliana, accusata di connivenze con la mafia, il pubblico grida all'oratore: «Cita Sciascia, cita Sciascia!».

4. Il 2 gennaio 2006 Pierluigi Battista, a seguito di due precedenti articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Sandra Amurri sull'Unità, riprende la polemica e chiede a chi vent'anni fa criticò Sciascia di chiedere scusa allo scrittore. Interviene di rincalzo Piero Ostellino, che da direttore del Corriere vent'anni fa curò la regia giornalistica dell'intervento di Sciascia.

5. Reagisce, sull'Unità, Nando dalla Chiesa, che cerca di ristabilire i fatti: Sciascia non fece un generico intervento contro l'antimafia che può diventare strumento di potere (in astratto, può essere certamente vero); ma attaccò direttamente Paolo Borsellino, colpevole di aver fatto carriera per meriti antimafia. E per quali meriti si deve far carriera, in questo Paese? Per meriti di mafia? La reazione del Coordinamento antimafia di Palermo fu certamente eccessiva e sbagliò i toni, ma il comunicato fu scritto di getto da un ragazzo di vent'anni, indignato per il fatto che, nella Palermo dove era normale morire di mafia, l'intellettuale simbolo se la prendesse con un magistrato come Borsellino, non con chi faceva carriera per meriti di mafia o di ossequio ai poteri. Chi ricorda, oggi, il clima tremendo di quegli anni in Sicilia, gli anni dei morti ammazzati per strada, gli anni del maxiprocesso a Cosa nostra, gli anni degli attacchi ai movimenti antimafia... Il Giornale di Sicilia finì per pubblicare gli elenchi degli iscritti al Coordinamento antimafia: un'intimidazione pesante.

6. Borsellino cinque anni dopo fu ucciso da Cosa nostra. Culmine della carriera di un professionista dell'antimafia. Davvero Sciascia si riconciliò con Borsellino, prima della strage di via D'Amelio? Di certo Borsellino tornò su quell'episodio nel suo ultimo discorso pubblico prima di morire, la sera del 25 giugno 1992 alla Biblioteca comunale di Palermo. Il magistrato parlò, quella sera, con un'intensità mai vista: parlò dei tempi brevi che doveva darsi, dell'amico Giovanni Falcone appena ucciso, del «giuda» che lo aveva tradito al Csm, dell'interminabile campagna di delegittimazione dei magistrati antimafia di Palermo: «Tutto cominciò con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia», scandì, prima di ricevere dodici, interminabili minuti d'applausi, con cui i mille presenti, in piedi e con la pelle d'oca, vollero fargli sentire da vivo quel sostegno che Falcone non aveva potuto sentire. Qualcuno dei sostenitori di Sciascia ha mai chiesto scusa a Borsellino? (Gianni Barbacetto)

I professionisti dell'antimafia di Leonardo Sciascia dal Corriere della Sera, 10 gennaio 1987. Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:

1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

Il punto focale. Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane «ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla «mafia in sé» quanto a quel che «si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.

Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, «en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» - e se non lieto edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.

Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.

Nel primo fascismo. Idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).

Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.

Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto.

Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.

Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.

Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.

E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.

Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

Sciascia, perché non mi pento di Nando dalla Chiesa, dall'Unità, 4 gennaio 2007. Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre articolo contro i professionisti dell'antimafia di vent'anni fa? Recitare il mea culpa come chiede Pierluigi Battista sul «Corriere» dell'altro ieri? In questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i dati di realtà conosciuti. E poi pensarci. E poi pensarci ancora. Per evitare di reiterare un gioco delle parti. L'ho fatto. E sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricordo che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. Di quelli che segnano il tuo modo di ragionare (e di far memoria) per tutta la vita. Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del '92. Biblioteca comunale di Palermo. Dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. In ritardo perché si era dimenticato dell'impegno. Accolto da un applauso lunghissimo. Prese quasi subito la parola, aspirando una sigaretta dopo l'altra. Misurando le parole, ma usandole con una forza inconsueta. Ero se­duto alla sua destra, credo che tra noi ci fossero due oratori, ce n'erano sette stipati su una predella che normalmente non avrebbe contenuto più di quattro sedie. Lo guardavo come attratto da una calamita (tutti lo guardavano così). Man mano che parlava tutti capimmo che Borsellino stava conse­gnando ai presenti un documento orale a futura memoria. Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei tempi veloci che egli stesso doveva darsi. Parlò del giudice che aveva tradito Falcone nel Csm, riservandogli un termine («giuda») che giunse sui presenti come una staffilata; insieme con l'immagine, nitidissima per tutti, del magistrato palermitano al qua­le si riferiva. Poi fece la ricostruzione storica della campagna volta a distruggere e delegittimare i magistrati palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia. A un certo punto fece una pausa e disse: «Tutto incominciò con quell'articolo sui professionisti dell'anti­mafia». Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato, esisto­no le registrazioni di quella serata. Fu l'ultimo intervento pubblico di Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con il lucido istinto dell'animale braccato, sen­tiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell'amico e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. E che comunicò questo suo presa­gio anche alle mille persone pre­senti. Che infatti vollero fargli sen­tire da vivo l'applauso che Falcone non aveva potuto sentire. Dodici, interminabili minuti di applausi. In piedi, con le lacrime agli occhi e la pelle d'oca che non se ne andava. Ripartiamo da lì: «Tutto incominciò con quell'articolo sui professio­nisti dell'antimafia». Un articolo spartiacque, dunque. D'altronde chi lo aveva criticato cinque anni prima aveva ben capito quale ne sarebbe stata la forza dirompente. Aveva ben intuito l'effetto che avrebbe prodotto, nel pieno di una carneficina e nel preciso mo­mento in cui si aprivano spazi istituzionali di una nuova coscienza e responsabilità antimafiosa, quell'attacco a chi si stava impe­gnando su una frontiera rischiosa e cruciale come quella siciliana. Tanto più se l'attacco veniva da uno scrittore che con i suoi ro­manzi aveva insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia. Il che puntualmente accadde. Come già era accaduto e come ancora sarebbe accaduto in quegli anni. Nemmeno per il «Corriere», fra l'altro, quell'intervento fu un episodio. Oltre al modo in cui venivano trattati Falcone e Borsellino (per avere difeso i quali dagli articoli di via Solferino dovetti subire due processi per reati d'opinione), brillò in quei giorni un editoriale non firmato (e dunque riconducibile alla direzione di allora, quella di Piero Ostellino) nel qua­le si affermava che accanto alla mafia tradizionale si stava affer­mando «un meccanismo di clientele e parentele che... rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario e in nome di nobilissimi principi». Era la teoria della nuova, più nobile ma­fia composta anche dai familiari delle vittime (le «parentele»)! Di tutto questo, nel lungo articolo di Pier Luigi Battista, non si trova traccia. E in certa misura è comprensibile. Battista non era alla bi­blioteca di Palermo quella sera e quindi tramanda la versione del Borsellino pacificamente riconciliatosi con Sciascia. Battista non ha vissuto, per fortuna sua, quegli anni nel fuoco dello scontro diret­to e quindi può condannare, impeccabilmente, il coordinamento antimafia di Palermo per avere, in un furente e improvvido comuni­cato, messo Sciascia «ai margini della società civile» e averlo definito un «quaquaraquà». Chissà che si immagina che fosse quel coordinamento antimafia. Non sa che era fatto da studenti stanchi di terrore e lapidi e complicità, da don­ne mai prima impegnate in politica, da qualche poliziotto voglioso di dare giustizia a un grappolo di colleghi assassinati. Gente sempli­ce, non intellettuali, che per rabbia, la rabbia del «tradimento», usò parole assurde. Ma che difese le ragioni dell'antimafia con gene­rosità, e Dio sa quanto fu difficile difenderle tra gli studenti dopo che l'auto della scorta di Borselli­no ne uccise due davanti al liceo Meli. Si può restituire il contesto storico di allora contrapponendo a Sciascia quel coordinamento au­dace e smandrappato? Facendo l'elenco minimo di chi dissentì dallo scrittore siciliano e indicando in Sciascia l'anticonformista che dovette pagare il prezzo della sua libertà, sostenuto solo dai radicali (e dal «Corriere», si intende)? Credo che non si possa. Credo, anzitutto, che non si possa negare al lettore l'informazione dirimente, poiché è da qui, dal racconto fede­le dei fatti, che inizia il garantismo: ossia la frase con cui lo scrit­tore chiudeva quel suo celebre articolo, e che ne rappresentava il succo (egli scrisse infatti per protestare contro la nomina di Borsellino a procuratore capo a Marsala). Concludeva sdegnato Sciascia: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per fa­re carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». La carriera di Borsellino, insomma. Era questo l'oggetto del fondo di Sciascia, che fra l'altro non conteneva mai l'espressione «professionisti dell'antimafia», che fu invece tutta farina del sacco del «Corriere» di allora. E nem­meno credo che si possa evitare di riandare agli schieramenti veri di allora. Coordinamento antimafia, il circolo «Società civile» di Milano e pochi intellettuali (Stajano, Rodotà, Rositi, oltre a Pansa) da un lato; tutti i partiti, tutti i sindacati, tutti i direttori di giornale (Scalfari escluso) dall'altro, avvinti in un intreccio surreale, che univa complicità aperte, omertà di partito, bisogno di una legalità «ben temperata», rispetto sacro per il maestro di pen­siero, diffidenze verso i pool di magistrati nati nei processi al terrorismo. Altro che «il vuoto» intorno a Sciascia, come afferma Battista. Pochi e con poco potere contro un intero sistema. Chi era anticonformista? No, il problema non furono gli «sciasciani di borgata» (come dice e disse Leoluca Orlando, comprensibilmente preoccupato di riconoscere la grandezza intellettuale dell'interlocutore). Il problema furono gli sciasciani di palaz­zo, e che Palazzo. A loro, a chi diede loro un aiuto insperato, è difficile oggi chiedere scusa. Sia chiaro: viene ben da pensare ogni tanto, vedendo certi esempi di retorica antimafiosa, che Sciascia avesse una qualche ragione. Ma non vi è certo bisogno delle analisi di Sciascia per provare fastidio per la retorica in generale. Il fatto è che nel caso specifico (l'unico su cui sì può misurare il senso concreto della polemica) la «retorica» era quella che aveva legittimato la «carriera» di Borsellino. Una «carriera» che non doveva costituire un precedente. E che infatti, grazie a quella polemica, non fu un precedente per Giovanni Falcone, boicottato strenuamente - con il contributo del «giuda» - nel Csm. Poi la carriera di Borsellino, la sua celebre carriera, finì. Nel modo che sappiamo. E lui appena prima di finirla disse in pubblico: «Tutto è incominciato con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia». Non è che per caso qualcuno deve chiedere scusa a Borsellino?

I nuovi "professionisti dell'antimafia", scrive “La Voce dell’Isola” il 29 febbraio 2012. Il 10 gennaio 1987 fu pubblicato sul Corriere della Sera un lungo articolo dello scomparso Leonardo Sciascia dal titolo “I professionisti dell’antimafia”, questo articolo divenne oggetto di forte e aspra polemica. Trascorsi ormai 22 anni da quei giorni ci sembra il caso di riprendere il discorso, per una serie di analisi che partendo dal passato possano aiutarci a comprendere il presente. Sciascia contribuì non poco alla comprensione da parte del pubblico dei meccanismi mafiosi. I suoi scritti fra libri e articoli aprirono la mente di molte persone, servirono a comprendere che la mafia non era un termine astratto, ma una realtà concreta con la quale tutti in Sicilia -in qualche modo- dovevano misurarsi. Imprenditori, politici, operai, donne, capitani dei carabinieri. La mafia come fatto concreto e non come entità giornalistica. Non fu facile in quegli anni far capire ai siciliani e non, che un morto ammazzato poteva essere un anello di una catena più grande che coinvolgeva potenti e poteri. Parlando di professionisti dell’antimafia Sciascia attaccò direttamente Paolo Borsellino. Il 25 giugno del ’92, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche alla Biblioteca comunale di Palermo Paolo Borsellino parlò del giudice che aveva tradito Giovanni Falcone nel Csm, riservandogli un termine «giuda» che giunse sui presenti come una staffilata; insieme con l’immagine, nitidissima per tutti, del magistrato palermitano al quale si riferiva. Poi fece la ricostruzione storica della campagna volta a distruggere e delegittimare i magistrati palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia. A un certo punto fece una pausa e disse: «Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’anti­mafia».  Seguì un lungo applauso, 12 minuti per Paolo Borsellino e in memoria di Giovanni Falcone. Nel gennaio ’88 Sciascia era seduto accanto nel loro primo incontro a Marsala, non disse nulla, non chiese mai scusa pubblicamente, alla fine si compresero e si strinsero la mano. Nel ’91 Borsellino lo ricordò con queste parole: “Scontro fra me e Sciascia non ve ne fu. Intanto, perché io stetti silenzioso, anzi colsi l’occasione subito dopo per indicare in Sciascia la persona che aveva estrema importanza nella mia formazione e anche nella mia sensibilità antimafia. -Continuò poi Borsellino – Ebbe la gradevolezza di darmi una interpretazione autentica del suo pensiero che mi fece subito riflettere sul fatto che quella sua uscita mirava a ben altro”. Tutta questa premessa per spiegare i fatti e ricordarne almeno le fasi salienti. Ma forse Sciascia non sbagliò il suo articolo. Probabilmente prese di mira soltanto la persona sbagliata. Sciascia, uomo di Racalmuto, uomo duro, di cultura, deciso. Sciascia uomo che aveva sempre detto la verità. Sciascia uomo che aveva sbagliato. Sciascia inconsapevole strumento di quei poteri che con la sua fidata macchina da scrivere aveva sempre attaccato e, nella Sicilia di quei tempi, oltraggiato. Sciascia ebbe però nel 1987 una geniale intuizione: si affermavano i “professionisti dell’antimafia”. Cadde però vittima della sua stessa intuizione pensando che una delle persone più esposte potesse farne parte. Ma quella di Paolo Borsellino più che una professione era una passione. Sciascia vittima di quei professionisti dell’antimafia che velatamente ispirarono il suo articolo (era stato spinto a scrivere infatti dal magistrato candidato procuratore a Marsala che, benché avesse maturato un’anzianità maggiore, era stato sconfitto da Borsellino).

Chi indicava Sciascia come figure ideologiche nel ruolo di professionisti dell’antimafia? “L’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana”.

Sciascia intuisce quindi che delle persone, in nome dell’antimafia, ne sarebbero diventati professionisti. Non calcola però che se non proprio professionisti, già all’epoca si affermavano diversi “buoni apprendisti” pronti a cambiare il senso della verità, pronti a sfruttare il potere che già all’epoca derivava dai mass media. Intuisce quindi una grande verità, sbaglia totalmente la focale scegliendo come obiettivo proprio Paolo Borsellino. Legittima con la scrittura e la cultura la più grande campagna di delegittimazione mai iniziata da Cosa Nostra e dai poteri che da sempre, per convenienza, la sostengono. Ma la sostanza, a nostro avviso, rimane inalterata e in un mondo in cui quelle icone dell’antimafia vivono ormai soltanto nei nostri ricordi e nelle nostre vite il problema si ripresenta. Forte come non mai. Oggi viviamo un forte rinnovamento dei movimenti antimafia, la nuova creazione di icone ed esempi da portare avanti e sostenere nella lotta (forse eterna) contro la mafia e i poteri forti. Ma in questa lotta vediamo inserirsi con forza e prepotenza una nuova generazione agguerrita e più colta (pertanto più pericolosa) di “professionisti”. Persone che si fanno scudo della parola “antimafia” per interessi privati e assolutamente distanti dalla logica dell’ideale e della giustizia. Il moltiplicarsi di informazioni sui social network, sui giornali, sulle televisioni sempre più spesso è volto soltanto a confondere le carte più che a far chiarezza in questi misteri. Proviamo a leggere in mezzo a frasi e mezze frasi trovando spesso incongruenze, populismo, semplice demagogia. Puri meccanismi politici, nulla più. Personaggi vecchi e nuovi, personaggi “in cerca d’autore”. Luigi asero – (già pubblicato su “La Voce dell’Isola” il 06/09/2009)

Leggi e regole: gli insegnamenti di Leonardo Sciascia. Sciascia pose un problema essenziale: non si può derogare dal diritto; e non si può piegare una legge alla contingente convenienza. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Intanto Francesco Forgione, con i “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” conferma quanto avesse ragione lui, scrive Valter Vecellio. Andrò, spero tra non molto, a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia; su quella tomba bianca sulla destra quando si entra, voglio deporre un fiore; e dirgli là, quel “grazie” che ogni giorno gli dico: ogni volta che leggo e rileggo una sua pagina, non importa se Gli zii di Sicilia o La scomparsa di Majorana, Dalle parti degli infedeli o Morte dell’Inquisitore. “Grazie” per averci insegnato che si può e si deve battere la mafia detta ‘Cosa Nostra’ e le altre organizzazioni criminali organizzate puntando “…sull’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”. “Grazie” per aver accettato il ruolo scomodo e pesante del “pesce volante”: quando “vola” in aria lo beccano gli uccelli; quando nuota sott’acqua è preda di pesci più grandi e voraci. Per aver denunciato la mafia, le mafie; e al tempo stesso la ‘mafiosità’ di certa antimafia, ed esser diventato bersaglio dei loro fulmini. So per certo che quella polemica, uscito l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia” lo ha ferito in modo particolare; quell’insulto scagliato con violenza e protervia: “quaquaraquà”; quel non voler capire che Sciascia pone un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre. L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; e che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate o inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Non può essere che si deroghi da quanto prevede una norma se si tratta di Paolo Borsellino, è poi bellamente la si utilizza per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire quell’incarico, a palazzo di Giustizia di Palermo, che certamente avrebbe ricoperto in maniera eccellente. Recensendo, in quell’articolo, un bel libro dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia negli anni del fascismo, Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si poteva trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, “retorica aiutando, e spirito critico mancando”. Dico “grazie” a Sciascia per quell’allarme. Più che fondato, se penso che proprio in queste ore ho potuto leggere le circostanziate, precise motivazioni della sentenza di assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, accusato in abbreviato per minaccia a corpo politico dello Stato in una delle non so ormai neppure quante tanche del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. So bene che Mannino è persona che dovrebbe prestare maggiore attenzione quando fa il testimone di nozze; so bene che lo ha fatto per quel Gerlando Caruana figlio di Leonardo, ucciso nel 1981 a Palermo, dopo la cerimonia dell’altro figlio Gaspare. So bene che si è difeso sostenendo di non sapere chi si sposava; cosicché può scegliere: o è cretino; o vuole farci passare noi, per cretini. Ma questa fattispecie di reato ancora non è contemplata nei codici, che altrimenti in pochi scamperebbero. Al di là di questa discutibile e discussa partecipazione matrimoniale, Mannino per la storia della cosiddetta “trattativa” è stato assolto il 3 novembre del 2015; e le motivazioni sono arrivate dopo undici mesi. Il Giudice per l’Udienza Preliminare Marina Petruzzella letteralmente fa a pezzi l’inchiesta condotta dall’ex pubblico ministero Antonio Ingroia, dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, dai procuratori Nino De Matteo e Roberto Tartaglia. Con un doppio risultato, doppiamente dannoso: perché da una parte si dà corpo a una “trattativa” fantastica, fatta di “papelli” e raccontata da personaggi più che discutibili come il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino; dall’altra ci si “distrae” dalle vere complicità e commistioni, che ci sono state, e tuttora ci sono. Dando credito all’incredibile, come si è finora fatto, si rende incredibile il vero. Doppio risultato che fa comodo a molti, e certo chi l’ha nei fatti posto in essere neppure si rende conto di quello che fa e ha fatto. E’ insomma un certo modo ideologico e “militante” di amministrare la giustizia che porta inevitabilmente ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. La lettura della sentenza del GUP Petruzzella va fatta in parallelo a quella di un recentissimo libro scritto dall’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti. Per capire di cosa si tratta, basti un brano della prefazione scritta da un insospettabile, l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: “…Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…”. Va giù a colpi di maglio, Forgione: “L’antimafia dei tragediatori è scoperta. E’ finita. Chi sono, da dove vengono e perché stanno crollando le icone e i ‘miti’ dell’antimafia… Imprenditori, giornalisti, magistrati, associazioni, sono travolti da inchieste giudiziarie e dalla questione morale. Hanno costruito carriere, accumulato potere, fatto affari. Nei salotti televisivi e sui giornali erano i nuovi eroi, Sempre pronti a dividere il mondo tra buoni e cattivi, puliti e collusi. Per anni sono stati intoccabili: o con loro, o con la mafia. Una trasfigurazione della realtà nella quale si perde il confine tra mafia e antimafia. E’ una storia che viene da lontano con risvolti politici e sociali…”. Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale in prima pagina del Corriere della Sera di Paolo Mieli. Comincia così: “Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…”; e via così, per tre-quattromila parole. Per questo andrò a Racalmuto, a deporre quel fiore, e dire a Leonardo: “Grazie”. Come ora, penserò: “Come ci manca il tuo saper dire, il tuo saper vedere, il tuo saper capire”. La Voce di New York, 3 novembre 2016.

Sempre attuale la “lezione” di Leonardo Sciascia. Il carabiniere Renato Candida scrisse “Questa mafia” che ispirò Leonardo Sciascia per il suo capitano Bellodi protagonista de “Il giorno della civetta”. Dopo oltre cinquant’anni questo libro verrà ripubblicato e quel testo, accompagnato a quello di Sciascia, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci dice ancora molto, scrive Valter Vecellio. Pubblicato ormai più di cinquant’anni fa, Questa mafia, scritto da un carabiniere (l’allora capitano Renato Candida che tanto, troppo, aveva capito della “Cosa Nostra”), è un libro che attira l’attenzione di un giovane ma già vigile Leonardo Sciascia. Ne scrive una recensione con toni di entusiasmo, e ne nasce un’amicizia che dura nel tempo. Candida sarà anche il modello di carabiniere a cui Sciascia si ispira per il suo capitano Bellodi, protagonista de Il giorno della civetta. Va detto che Candida, una volta pubblicato il libro, ne riceve, dopo qualche tempo, un ringraziamento: sotto forma di trasferito, alla scuola allievi ufficiali di Torino. Promosso, e rimosso. Si può dire, con il senno di oggi, che gli sia andata perfino bene. In quegli anni così s’usava. Poi altre, più drastiche e sanguinose misure vengono prese: prima la “chiacchiera”; poi il rimprovero d’essere “chiacchierato”. Infine la mortale carica di tritolo o la raffica di kalashnikov. La Cosa Nostra certo ha enormemente mutato i suoi connotati, da quegli anni ormai lontani; è ormai altra cosa, da quello che hanno scritto Candida e Sciascia. Non solo è salita molto a Nord, la mafiosa palma; è diventata una ormai inestricabile foresta; e tanto più insinuante e pericolosa in quanto silenziosa, discreta. Non se ne parla più, non si mostra più. Segno, evidentemente, che non ha più bisogno di parlare, di mostrarsi. Con quel che ne consegue. Questa mafia, che ormai si poteva reperire con fortuna nel circuito delle librerie antiquarie, a giorni verrà meritoriamente ripubblicato; e ne avremo così, se non un documento di attualità, un documento di storia: sempre utile, perché la conoscenza di “ieri” aiuta a comprendere e spiega “l’oggi”. E’ rieditato dallo stesso editore di allora, quel Salvatore Sciascia di Caltanissetta, omonimo di Leonardo; e di quest’ultimo ha un testo introduttivo. Invitato a presentarlo a Torino, dove ancora vive e risiede una delle figlie del generale, se così posso dire, mi sono “preparato”. E’ vero: è una mafia contadina, agricola, quella che viene descritta (ben descritta; e fin troppo: per aver mostrato intelligenza e volontà di combatterla, e aver dato prova che aveva compreso cosa c’è a fianco delle cosche, a supporto e complice, Candida si trova trasferito). Quel testo, accompagnato a Il giorno della civetta, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci può ancora dire molto. Ve la ricordate certamente la classificazione del genere umano elaborata da Mariano Arena, il mafioso protagonista del romanzo?: “Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo, quaquaraquà…”. Quante volte l’abbiamo sentita, e ripetuta noi stessi… E chi non ricorda la scena del film di Damiano Damiani, con il bravissimo Lee J.Cobb che fronteggia Franco Nero, venuto ad arrestarlo…Nel film quel “piglianc…” diventa “ruffiani”, per non incorrere nei fulmini della censura, anche quello accade in quegli anni… Ma quella pagina, in entrambe le versioni, è un classico”. Grazie a quel libro – e a quel film – molti italiani prendono consapevolezza che esiste un qualcosa, una organizzazione criminale ramificata e antica, che si chiama mafia, e che i suoi adepti chiamano “La cosa nostra”. Sciascia si ispira, tra l’altro, a un episodio realmente accaduto, il delitto di Accursio Miraglia, un sindacalista ucciso dalla mafia nel gennaio del 1947. E un giorno converrà fare una storia dei sindacalisti morti ammazzati in Sicilia dalla mafia: tanti; e pochissimo ricordati. S’è parlato, prima, di una pagina diciamo così di “colore”; suggestiva, ma non è quella che conta. La pagina davvero importante è quella che viene prima. Bellodi sente che il mafioso – anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma – gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Mussolini manda in Sicilia, e che stronca il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore; anche lui rimosso, come anni dopo Candida. I metodi di Mori sono brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di là e al di sopra delle leggi, che per quanto fasciste, qualche garanzia pure la danno. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Tentazione che scaccia subito: no, si dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto, quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle loro mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi come dice Sciascia, “tirarne il giusto senso”. Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: che cercano di “tirare il giusto senso” appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla e volerla trovare. “Tirare il giusto senso”, significa anche Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; significa che ministri, parlamentari, amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate. L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. E dire che qualcuno, anni fa, non ha avuto scrupolo e pudore di rivelare la sua integrale imbecillità sostenendo che Il giorno della civetta è un romanzo che fa l’apologia della mafia…La Voce di New York 20 ottobre 2016

"La storia della mafia" di Leonardo Sciascia, scrive Valter Vecellio il 5 marzo 2013. Un consiglio, per quello che può valere: procuratevi La storia della mafia di Leonardo Sciascia, meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion, “etichetta” gloriosa, specializzata nella pubblicazione di romanzi celebri a prezzi popolari, e rilevata da Mursia. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine, costa 8 euro; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Il piccolo saggio di Sciascia è un quasi inedito: pubblicato in origine per la rivista mondadoriana “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972; il quotidiano francese “Libération” poi lo ripubblicò il 30 dicembre 1976. Infine, questo testo viene utilizzato come prefazione dal giornalista francese Fabrizio Calvi per la sua ormai difficile da trovare La vie quotidienne de la Mafia 1950 à nos jours, e per la traduzione italiana del libro, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli).    Un testo, quello di Sciascia che, a oltre quarant’anni di distanza ancora prezioso e per quanto abusato vocabolo, “attuale”; naturalmente avendo sempre presente l’avvertenza che occorre situare ogni situazione nel suo contesto, e tener conto delle evoluzioni, che – nel caso di Cosa Nostra – sono di difficile e lenta decifrazione.

Bellissimo paese l’Italia, disse una volta Sciascia; ma con un grande difetto: smarrisce la memoria. E non solo: è un paese senza verità. L’“innocenza” l’Italia non l’ha persa, come molti hanno detto, nel 1969, con lo scoppio delle bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano. L’innocenza l’aveva già persa il 1 maggio del 1947 con la strage di Portella della Ginestra. E’ quel giorno che comincia la lunghissima teoria delle menzogne di Stato, i suoi segreti e misteri. E anzi, a esser puntigliosi, due anni prima, il 17 giugno del 1945, il leader dell’indipendentismo siciliano (di sinistra) Antonio Canepa viene ucciso assieme a due suoi compagni inun conflitto a fuoco con i carabinieri, alle porte di Randazzo…(e al riguardo sono di estremo interesse i due volumi di Salvo Barbagallo, Antonio Canepa, ultimo atto, e L’uccisione di Antonio Canepa. Un delitto di Stato?, Bonanno editore).

Ne I piaceri Vitaliano Brancati – autore tra i prediletti di Sciascia – nota che “se noi non ricordassimo, il mondo sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostri sguardi stupiti e incantat”; e poi un’osservazione quasi incidentale, ma di grande profondità: “Molte generazioni evitano di abbruttirsi solo perché uno dei loro componenti ha il dovere di ricordare”. Come nel celeberrimo romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 descrizione di un mondo cupo e orrido, dove gli sgherri dell’oligarchia al potere bruciano ogni libro che capita loro tra le mani; e il sapere, la speranza del sapere, il sapere della speranza, sono affidati a pochi volenterosi, che quei libri li imparano a memoria, si impongono il dovere di non smarrire la memoria.

Per tornare a Sciascia. Uno degli autori da lui più amato è stato Giuseppe Antonio Borgese, uno dei tredici che non votò fedeltà al regime fascista e venne espulso per questo dall’università; autore di quel Golia definito “uno dei migliori libri per la comprensione del fenomeno fascista, quello di Mussolini, ma non solo: quell’eterno fascismo italico che si nutre dell’intolleranza e della nozione di stato etico e, come tale, è sempre in agguato e può reincarnarsi continuamente in nuovi statolatri”. Erano gli anni Ottanta, quando Sciascia denunciava questi rischi; trent’anni dopo il rischio è divenuto certezza. E chissà se è un caso se il Golia non si stampa e non si può leggere più.

Ci stiamo avvicinando alla nostra Storia della mafia. Ruggero Guarini, quand’era ancora responsabile della terza pagina del “Messaggero” – stiamo parlando di trent’anni fa – ha scritto che Sciascia «crede di essere nipote di Voltaire, figlio di Pirandello, fratello di Borges, con una sostanza culturale di derivazione squisitamente giornalistica». Goffredo Fofi, sui “Quaderni Piacentini”, sostiene che “L’opera di Sciascia e il suo aspetto profondamente reazionario finisce per prevalere sui non pochi meriti, la sua programmatica sfiducia nel popolo sul suo ostinato amore per gli ostinati ribelli, la sua amara e inutile vecchiaia su quel che di nuovo la sua opera pure avrebbe potuto avere”. Non è da meno Grazia Cherchi, raffinata critica e consulente editoriale, in una notarella libraria apparsa su “Linus”: L’affaire Moro è “un libro inutile e nato morto, di cui ci siamo dimenticati subito, e senza sforzo”; La Sicilia come metafora è null’altro che “una stracca intervista”, mentre Nero su nero è un patchwork “di note e notarelle, commenti e commentini, motti e mottetti, lamentazioni sul nostro paese, aforismi abortiti”; né è da meno Oreste del Buono; su “Panorama” scolpisce: “E’ come se allo Sciascia che tutti conosciamo e di cui io ho per primo nostalgia, quello lucido e anticipatore degli avvenimenti di Todo modo e del Contesto, si fosse aggiunto adesso un secondo personaggio, una specie di mister Hyde, che parla, scrive, fa il moralista al posto dell’altro”. Non basta. Sempre del Buono, a cui va riconosciuto il primato, tornato ad occuparsi di Sciascia, su “Linus” lo accusa di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti.

Ancora: per Giovanni Roboni Sciascia “è precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese, per non dire qualunquista”; Giampaolo Pansa sostiene che “il nuovo Sciascia ci fa una gran pena… A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”; Claudio Fava dipinge un “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…”; mentre per Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto “…alla conclusione che… Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”.

Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su “La Repubblica” sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, “perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche»; e perfino che II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra”. Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”. Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”. Un livello di polemica che indigna Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” impegnato in inchieste di mafia, scomparso un giorno del 1970 e mai più tornato e ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.

Non solo Arlacchi. Anni fa, interpellato dal “Corriere della Sera”, il filosofo Manlio Sgalambro se ne è uscito dicendo che “Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più”. E come non ricordare Andra Camilleri, che pure di Sciascia si professava amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero…E allora, prima di finire, prendiamo il toro per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa.

“Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo”, scrisse Sciascia sul “Corriere della Sera” del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). “Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte”.

Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo-mastro in una zolfatara, “uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…”.

Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio. Cos’era la mafia non solo l’aveva capito; lo aveva anche scritto, in lunghe corrispondenze, per esempio, per quel bel giornale che negli anni Sessanta era “Il Giorno” voluto e finanziato da Mattei. Articoli dove si racconta di Castelvetrano, il paese del bandito Giuliano; o di Misilmeri: e quello, davvero esemplare, del 4 aprile 1940: dove descrive la realtà di Caltanissetta e di Riesi, e si riporta il dialogo in piazza “con due avvocati e un professore”, due democristiani che facevano capo alla corrente uno di Rosario Lanza, fanfaniano; l’altro di Calogero Volpe, sostenitore in quel momento di Aldo Moro; il professore invece era, diceva, di fede socialista. Nella piazza di Riesi parlano di mafia. Alla domanda di Sciascia: cosa fa, di preciso, la mafia?, “Niente fa”, risponde il socialista; e il democristiano di Volpe sorride compiaciuto. “Si diceva”, continua il socialista, “badi bene: si diceva che la buonanima dello zio…fosse un capomafia. E che faceva? Due litigavano: lo zio…li portava al caffè, pagava sempre lui, e faceva stringere loro la mano. Opera di pace”.

L’inchiesta per “Storia illustrata” si chiude con un aneddoto estremamente significativo. Un aneddoto che riguarda il mafioso italo-americano Vito Genovese, da cui Mario Puzo trarrà ispirazione per il suo “Padrino”: “Genovese, in America ricercato per omicidio, si trovava in Sicilia nel 1943-44, sistemato come interprete presso il Governo Militare Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia, riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati inglesi lo arresta; gli trova addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani, che dicevano il Genovese profondamente onesto, degno di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio’. Una volta arrestato, cominciano i guai, non per il Genovese, ma per il Dickey. Né le autorità americane né quelle italiane vogliono saper nulla dell’arresto. Il povero agente si trascina distro per circa sei mesi l’arrestato, e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come il luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel carcere di Palermo), in una prigione americana. Soltanto allora, cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio ‘americano’ e non come si suol dire, per carità di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari, dovremmo raccontarne di casa nostra”.

Il saggio “La Storia della mafia” del 1972 fa giustizia di tante pretestuose polemiche subite e patite da Sciascia; ed è lettura che va accompagnata a un’altra lettura (o rilettura): quella dell’articolo sui “Professionisti dell’antimafia” poi compreso nel volume A futura memoria, se la memoria ha un futuro” (Bompiani). Un articolo nel quale Sciascia pone una questione di metodo e di legalità fondamentali: la questione che anche l’antimafia può essere agitata a scopo di demagogia; e di come le regole debbano essere osservate sempre; se poi queste regole non sono più adatte, efficaci, vanno cambiate, ma non le si può disattendere. Valter Vecellio

I GENDARMI DELL’ANTIMAFIA.

La vera storia dello sbarco in Sicilia, scrive Andrea Cionci il 24/02/2017 su "La Stampa". Sulla spiaggia di Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia, divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia, cancella i ricordi, le immagini, i momenti”. Il recente episodio evoca in modo simbolico un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato da parte dei soldati alleati. Le cose andarono molto diversamente. Ad esempio, è stato rimosso quasi del tutto il sacrificio della divisione “Livorno” che, insieme alla “Napoli” si fece massacrare mettendo forse a rischio l’intero sbarco alleato. In secundis, solo da qualche anno, si comincia a parlare delle collusioni tra Forze armate Usa e la mafia italoamericana di Lucky Luciano; il recente film di Pif  “In guerra per amore” per quanto sotto le vesti di una commedia romantica, ha avuto il merito di portare finalmente al grande pubblico, in una veste “accettabile”, questo scottante tema. Se pressoché nulla si è divulgato del ruolo preciso che la mafia ebbe nel sabotare quasi un terzo del sistema difensivo italiano, ancor meno è filtrato, alla coscienza collettiva, sulle stragi dimenticate e impunite compiute dai militari americani su civili e prigionieri italiani. Cercheremo di sintetizzare il tutto con i dati provenienti dalla più qualificata e aggiornata letteratura storica dedicata al tema. Poco si può comprendere dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto. Nel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze. Nel frattempo, come scrive Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti si creava il legame tra US Navy e mafia italoamericana. Fin dallo scoppio della guerra, nel ’39, gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi, importanza strategica e si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e italiane. Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano. Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza. La collaborazione con la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa. I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden. Del resto, anche l’avvocato di Lucky Luciano, Moses Poliakoff, ammise tranquillamente: “Nel 1942, il procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del Controspionaggio della US Navy intendeva chiedere a Luciano una “certa assistenza”. Mi chiesero se ero disposto a fare da intermediario”. Un altro servigio reso da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia (operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss) il servizio segreto statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella Trinacria, fossero ostili al regime, non ultimi gli influenti membri del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini, il quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis - e dei mafiosi - a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che, dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938. Lo ritroviamo in una fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano, mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero. Lo stesso vessillo è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto del 2010 - del tutto inedita - scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e strisce. La vicenda dell’emblema con la “L”, per quanto già nota a livello locale, non è mai stata presa sul serio a livello della storiografia nazionale. La foto che pubblichiamo fuga ogni dubbio: c’erano anche “loro” e, ancor oggi, qualcuno tiene a ricordarlo agli americani. Uno dei più efficaci provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” - quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani - il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli anglo-americani”. I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente - perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza e, nel nord Italia, dimostrarono grande spirito combattivo. Il guiderdone della mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot). Dopo aver lucrato con il mercato nero durante il conflitto, Cosa nostra comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto con il traffico di stupefacenti. Al momento dello sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia. A quanto riferisce il generale Alberto Santoni in una pubblicazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, Patton fu colto dal timore e diramò ai suoi persino l’ordine di prepararsi a un possibile reimbarco. Per quanto la circostanza fu poi negata dall’interessato e dal Pentagono, il testo del radiomessaggio, intercettato dal comando italiano di Enna, “dovrebbe trovarsi - scrive Santoni - ancora negli archivi dell’Esercito”.  Dietro nostra richiesta, l’Ufficio storico dell’Esercito non ha ritrovato il documento citato, ma ha prodotto una importante nota del Comando della XVIII Brigata Costiera che riporta, alle ore 15.00: “E’ stato notato che i natanti (Usa) vanno e vengono dalla spiaggia di Gela, si ha l’impressione che il nemico riprenda rimbarco”. Come sottolineato dallo stesso Ufficio storico, però, il generale Emilio Faldella scrive, invece, di una intercettazione contemporanea relativa a una semplice richiesta di rinforzi da parte di Patton. L’episodio sembra, però, ancora riconfermato, nelle sue memorie, dal tenente della “Livorno” Aldo Sampietro che ricordava l’istante di speranza in cui vide “carri armati americani ripiegare verso la spiaggia per reimbarcarsi”. Anche Raffaele Cristani, un altro ufficiale reduce, riporta: “Fino a quel momento gli americani si erano sempre ritirati di fronte ai nostri battaglioni, tanto che ci fu un momento in cui sembrò che stessero per ritirarsi”. Se è vero, come riportano varie fonti, che la Livorno stava per costringere gli americani alla ritirata nel settore di Gela, questo avrebbe potuto compromettere l’intera invasione. (Quanto alla terminologia, va osservato che gli stessi angloamericani si consideravano degli “invasori” come si legge nella Soldier’s Guide of Sicily, distribuita alle loro truppe). Le truppe da sbarco di Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò, allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 340 mm che “aravano” letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli aerei inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera, infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Fu una carneficina per i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi fischiavano sulla nostra testa”. In totale, la “divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni, lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400 effettivi. Anche nel settore inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe “Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi sul fiume Simeto. Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che, pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese. Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore – per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito (escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare. Ai soldati che caddero prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti. Sono, purtroppo, diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!» Molti subalterni lo presero alla lettera, come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton, solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco. A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca, richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.

La verità nascosta delle “marocchinate”, saccheggi e stupri delle truppe francesi in mezza Italia. L’episodio del remake porno del film di De Sica è l’occasione di parlare dopo 70 anni, documenti alla mano, dei diretti responsabili: tra cui lo stesso Charles De Gaulle, scrive Andrea Cionci il 16/03/2017, su "La Stampa". Il fatto che un regista italiano di film porno abbia potuto girare una pellicola hard su una delle pagine più mostruose vissute dalla nostra popolazione civile durante la Seconda guerra mondiale, offre la caratura di quanto questi misfatti siano stati rimossi dalla coscienza morale collettiva. L’episodio del remake porno de La Ciociara di Vittorio De Sica, che ha suscitato un’interrogazione parlamentare e una lettera pubblica al premier Gentiloni, offre piuttosto l’occasione di raccontare, documenti alla mano, tutta la verità relegata per oltre settant’anni nei sotterranei della storia, indicando i numeri reali, i colpevoli e i personaggi di primissimo piano - tra cui lo stesso Charles De Gaulle - che ne furono i diretti responsabili. “Marocchinate”: con questo termine si sono tramandati gli stupri di gruppo, le uccisioni, i saccheggi e le violenze di ogni genere perpetrate dalle truppe coloniali francesi (Cef), aggregate agli Alleati, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e perfino di alcuni partigiani comunisti. La storiografia tradizionale, le poche volte che ne ha trattato, ha circoscritto questi orrori a qualche centinaio di episodi verificatisi nell’arco di un paio giorni nella zona del frusinate. Le proporzioni, tra numeri e gravità dei fatti, furono di gran lunga superiori. E a breve – lo annunciamo in esclusiva - sarà aperto un procedimento penale internazionale, ai danni della Francia, per iniziativa di un avvocato romano. 

1. Cos’era il CEF. Nel 1942, gli americani sbarcano ad Algeri e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, fino ad allora agli ordini della repubblica filonazista di Vichy, si arrendono senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del governo francese in esilio “Francia libera”, allora, attinge a questo personale militare per creare il Cef: Corp Expeditionnaire Français, costituito per il 60% da marocchini, algerini e senegalesi e per il restante da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni. Vi erano però dei reparti esclusivamente marocchini di goumiers (dall’arabo qaum) i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti “tabor” in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda. Erano equipaggiati non solo con le armi alleate (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm) ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti (in particolar modo i tedeschi ne fecero le spese). Il loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria che, da collaborazionista dei nazisti, era passato alle dipendenze di De Gaulle.

2. Primi impieghi, prime violenze. Gli stupri delle truppe marocchine cominciano già nel luglio ’43, con lo sbarco alleato in Sicilia. Gli 832 magrebini del 4° tabor aggregato agli americani che sbarcano a Licata, compiono saccheggi e violentano donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. Come riporta lo storico Michelangelo Ingrassia, i siciliani reagirono uccidendone alcuni con doppiette e forconi.  

3. I marocchini aggirano Cassino risalendo i monti. Come noto, gli Alleati, risalendo l’Italia senza troppe difficoltà, si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi opponevano una tenacissima resistenza. Fu il generale Juin, sin dall’inizio, a proporre ai colleghi statunitensi Clark e Alexander l’aggiramento del caposaldo nemico. Dopo tre battaglie sanguinosissime e prive di risultato gli Alleati avallarono la proposta di Juin il quale aveva scoperto che il monte Petrella, a est di Cassino, era stato lasciato parzialmente sguarnito dai tedeschi. In quelle zone, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto farcela. Infatti, con l’operazione “Diadem” (l’ultimo assalto collettivo degli Alleati) i goumiers riuscirono a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo. Kesselring, comandante tedesco in Italia, per tamponare lo falla, inviò i suoi Panzegrenadieren insieme a reparti italiani della Rsi, (Gnr di Frosinone) i quali, dopo accaniti combattimenti, dovettero soccombere. E’ accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi da un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Questo avveniva mentre i marocchini cominciavano a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca. 

4. La popolazione non comprende il pericolo. Sebbene siano conosciuti i manifesti della propaganda fascista (alcuni disegnati da Gino Boccasile) che mettevano generalmente in guardia la popolazione dalle truppe di colore alleate, il partigiano e storico ciociaro Bruno D’Epiro racconta che già prima della battaglia di Esperia un ricognitore tedesco aveva lanciato sui monti Aurunci volantini che incitavano la popolazione a fuggire dalle prevedibili violenze delle truppe nordafricane. Molti bambini furono evacuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e inviati nelle colonie di Rimini, ma la maggior parte della popolazione ciociara, stanca della guerra, si limitò ad aspettare, con rassegnato distacco, il passaggio dei liberatori. Scriveva Renzo De Felice che “l’8 settembre aveva fatto perdere agli italiani qualsiasi volontà di partecipare attivamente alle vicende belliche”. Alberto Moravia, all’epoca sfollato nel frusinate, ne “La Ciociara”, descrive bene questo sentimento di rassegnata apatia facendo dire alla protagonista: “Per noi bisogna che qualcuno vinca sul serio, così la guerra finisce”. 

5. Comincia l’inferno. Alla ritirata dei nazifascisti, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai franco-coloniali del Cef. Questo fu l’inizio di un assurdo calvario. Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e lo stesso capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Dai verbali dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra risulta che anche “due bambini di sei e nove anni subirono violenza”. A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini in un campo provvisorio. Qui si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”. Riportiamo solo alcune di queste atrocità per fornire un’idea di massima.  

6. Malattie veneree, orfani e suicidi. I comuni coinvolti nel Lazio furono anche Pontecorvo, Campodimele, S. Oliva, Castro dei Volsci, Frosinone, Grottaferrata, Giuliano di Roma e Sabaudia. Migliaia furono le donne contagiate da sifilide, blenorragia e altre malattie veneree, e spesso contagiarono i loro legittimi mariti. Così come migliaia furono quelle ingravidate: il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni forzose. Molte delle donne “marocchinate” furono poi scansate dalla comunità, a causa dei pregiudizi di allora, ripudiate dalle famiglie e, a centinaia, finirono suicide o relegate ai margini della società. Una scia di sofferenze fisiche e psicologiche, quindi, che si trascinò per decenni.

7. Colpevoli anche i soldati francesi bianchi. Non solo truppe di colore. Da documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che anche i francesi bianchi parteciparono alle violenze: a Pico furono, infatti, violentate 51 donne (di cui nove minorenni) da 181 franco-africani e da 45 francesi bianchi. Dato questo episodio e considerando che francesi europei costituivano il 40% di tutto il Cef, risulta limitativo addossare la responsabilità delle violenze ai soli goumiers marocchini. Anche gli americani sapevano di questi fatti: solo in un paio di casi tentarono debolmente di frenare i goumiers. Scrive Eric Morris in “La guerra inutile” che, ancora vicino a Pico, gli uomini di un battaglione del 351° fanteria americana provarono a fermare gli stupri, ma il loro comandante di compagnia intervenne e dichiarò che “erano lì per combattere i tedeschi, non i goumiers”.

8. I comandanti non intervengono, fino in Toscana. Massimo Lucioli, co-autore, insieme a Davide Sabatini, del primo completo studio sulle marocchinate “La ciociara e le altre” (1998), spiega: “Dato il coinvolgimento dei bianchi, non presenti nei reparti goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del Cef. Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: “Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.

9. 50 ore? Il proclama di Juin. Infatti, un comunicato attribuito al generale Juin ai suoi uomini, recita: ““Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto è promesso e mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete”. L’autenticità di questo proclama è stata spesso messa in dubbio, ma Juin, come si legge nei trattati giurisprudenziali dell’epoca, poteva riferirsi legittimamente a una antica norma del diritto internazionale di guerra che prevedeva il “diritto di preda bellica”, tra cui lo stupro. Tant’è che le vittime furono, in fretta e furia, dopo la guerra, risarcite con minimi compensi economici solo attraverso un procedimento amministrativo, invece che dopo un regolare processo penale. Gli indennizzi furono erogati prima dai francesi e poi dallo Stato italiano. Con ottime probabilità, il proclama di Juin è, quindi, da ritenersi autentico. Secondo Lucioli, questo discorso fu poi diffuso ad arte per limitare nello spazio-tempo le violenze che, de facto, durarono ben più di 50 ore: dal luglio ’43 all’ottobre ’44 quando i franco-coloniali lasciarono l’Italia e si imbarcarono per la Provenza ancora occupata dai nazisti. Solo nell’imminenza del ritorno in Francia, alcuni dei violentatori furono puniti. Un partigiano della brigata rossa “Spartaco Lavagnini” ricorda: “Sei marocchini vennero fucilati sul posto perché avevano violentato una donna. Il capitano (francese n.d.r.) ebbe a dirmi: “Questa gente sa combattere benissimo, però meno ne riportiamo in Francia, meglio è”. Poco prima che i marocchini toccassero il suolo provenzale, i loro comandanti, quindi, avevano deciso di riportarli severamente all’ordine tanto che non si registrarono mai violenze ai danni di donne francesi. Una volta in Germania meridionale, invece, potranno dare nuovamente sfogo ai loro istinti sulle donne tedesche, come riportano alcuni recenti studi. Segno, quindi, che le efferatezze di queste truppe avrebbero potuto essere certamente controllate e disciplinate.  

10. Le responsabilità di De Gaulle. Un fenomeno di queste dimensioni che si è protratto per dodici mesi, in mezza Italia, che ha interessato un numero elevatissimo di persone, non poteva essere sottaciuto o nascosto ai comandanti. “E’ evidente – continua Lucioli - che vi sono responsabilità a livello gerarchico-militare e politico mai indagate. Innanzitutto, i generali di divisione del CEF: Guillaume, Savez, de Monsabert, Brosset e Dody i quali, non solo non hanno impedito le violenze, ma le hanno incentivate: prima dell’attacco in Ciociaria, infatti, le truppe coloniali erano state tenute consegnate in recinti di filo spinato, lontano dai loro bordelli, evidentemente, per aumentarne l’aggressività. Ma il principale responsabile della barbarie è da ricercarsi, per un principio di responsabilità gerarchica, nel comandante in capo di Francia libera, Charles De Gaulle, che – è provato – durante il culmine delle violenze, si trovava, insieme al suo Ministro della Guerra André Diethelm, proprio a Polleca presso il casolare del barone Rosselli, eletto a quartier generale avanzato del Cef. Vi sono fotografie inoppugnabili e anche un suo discorso che tenne, in loco, in quei giorni. Le violenze accadevano, quindi, sotto ai suoi occhi”. Va anche ricordato che, quando alcuni marocchini a Roma violarono due donne e le gettarono poi da un treno in corsa, uccidendole, l’ “Osservatore romano” e “Il Popolo” aprirono una accesa polemica, denunciando chiaramente le violenze che si verificavano ovunque i marocchini si fossero accampati. A questi rispose il giornale delle truppe francesi in Italia “La Patrie”, minimizzando l’accaduto. Ancora una volta, quindi, De Gaulle non poteva non sapere. Impossibile pensare, anche, che i comandanti alleati ignorassero quegli eventi. 

11. I numeri delle vittime. Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, fornisce i numeri di questo massacro: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali, vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni”.  

12. La rimozione storica. Nonostante le pubblicazioni del professor Bruno D’Epiro, cittadino di Esperia che fu il primo, a livello locale, a interessarsi in maniera organica a questi misfatti, a parte qualche articolo successivo e qualche raro documentario, la storiografia nazionale ha lasciato pressoché unicamente al film di Vittorio De Sica “La Ciociara”, il difficile ruolo di trasferire al grande pubblico qualcosa sulle marocchinate. Fino agli anni ’90, poi, come scriveva al sindaco di Esperia lo storico belga Pierre Moreau, nulla del genere era mai apparso sulla letteratura storica in lingua inglese, francese e olandese. La memoria di queste aberrazioni è, tuttavia, ancora una ferita aperta nei luoghi che furono colpiti. Nel 1985, a Esperia, fu organizzata una manifestazione di riconciliazione tra tutti i reduci della guerra. Solo i francesi non furono invitati, in quanto espressamente “non graditi”. Il cimitero di guerra di Venafro, che ospita i caduti del Cef, sovente, ancor oggi, vede la propria insegna marmorea imbrattata di vernice da mani ignote.

13. Il prossimo procedimento legale ai danni della Francia. L’avvocato romano Luciano Randazzo, già noto per aver fatto riaprire casi riguardanti le Foibe e l’esecuzione di Mussolini, dichiara: “Anni fa assistetti una povera signora che, durante la guerra, era stata “marocchinata” ed ebbi modo di conoscere da vicino quei drammi: era tutta povera gente. Nel 2003, una tv francese mi intervistò, valutando se si potesse intraprendere un’azione legale verso l’Associazione d’arma dei goumiers “Koumia”. Fino ad oggi, cosa ha fatto lo Stato italiano per chiedere i giusti risarcimenti ai francesi? Nulla. Ecco perché, a breve presenterò un ricorso presso il Tribunale Militare di Roma e presso la Corte internazionale, ai danni della Francia”. 

La storia delle marocchinate non è ancora chiusa.  

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti. La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

Antimafia, "I Tragediatori": un libro che ne racconta ombre e luci, scrive Anna Maria De Luca l'8 marzo 2017 su "La Repubblica". E’ destinato a suscitare forti reazioni il libro dell’ex presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Francesco Forgione, che racconta come una parte dell’antimafia abbia “tragediato”, per divorare se stessa, “in un disegno in cui la lotta alla mafia era spesso solo un pretesto”. Un testo “trasgressivo” che sfida ipocrisie e tabù e racconta un mondo “strano e difficile, con ruoli mutevoli e più parti in commedia, con santi ed eroi sempre sull’orlo di un baratro aperto dalle loro stesse mani”. Un libro critico ma volto in positivo: “per sconfiggere gli opportunismi e ricompattare un fronte antimafia credibile che sia di sostegno, però non acritico, al lavoro dei magistrati”, scrive nella prefazione Giuseppe Di Lello, giudice istruttore nella fase repressiva dei maxiprocessi ed estensore della legge 109/96 sulla destinazione sociale dei beni confiscati. La sfida ai tragediatori. La sfida di Francesco Forgione inizia già nel titolo. Chi sono i “tragediatori” lo spiegò bene il vecchio boss Tommaso Buscetta davanti alla Commissione: “chi di noi, nel raccontare fatti di Cosa Nostra non dice la verità, noi li chiamiamo tragediaturi”.  Sono dunque il disonore degli uomini d’onore. Forgione ribalta il termine nel campo, ma non nella sostanza, indirizzandolo alle persone che disonorano l’antimafia pur essendoci dentro. E le racconta, impietosamente. “Ora – scrive - è il tempo di rompere il silenzio e l’omertà che, per lungo periodo, hanno avvolto anche il mondo dell’antimafia e lasciato che alcuni suoi paladini ne espropriassero l’intera rappresentanza. Tanti di noi, preoccupati dal nemico che avevamo di fronte, non ci siamo occupati di alcuni compagni di viaggio che avevamo al nostro fianco”. Le occasioni perdute. Il libro racconta, con sguardo indagatore, associazioni vere e sigle inventate, fondazioni finanziate solo per la forza evocativa del nome cui sono intitolate, movimenti che per motivare soldi pubblici ricevuti e legittimare la propria esistenza, organizzano ogni anno un convegno più o meno pretestuoso. Familiari di vittime di mafia diventati parlamentari “senza alcuna ragione politica o di impegno sociale, grazie solo al loro nome”, partiti che avanzano candidature antimafia senza aver mai combattuto la mafia, fino al caso più eclatante in cui “l’antimafia ha colpito l’antimafia”: la vicenda di Carolina Girasole, sindaco antimafia di Capo Rizzuto finita “tra i cattivi” in un gioco di specchi in cui si sono persi il senso e la percezione della realtà e della verità. Il disorientamento dei giovani. Forgione si rivolge a tutti quei ragazzi ed a tutte quelle ragazze che da oltre due anni vedono il susseguirsi di inchieste, arresti, polemiche aspre e titoli di giornali che parlano e alludono al fatto che “l’antimafia indaga sull’antimafia”, ma che ancora credono nei valori della legalità. Si rivolge a loro per spiegare le vicissitudini italiane, da Andreotti ai giorni nostri, e la caduta di alcuni dei “dall’Olimpo dell’antimafia”. E sottolinea come, tra le tante posizioni e sfaccettature interne al mondo dell’antimafia, sia prevalsa quella del ripiegamento in una sfera esclusivamente etica, perdendo cosi il nesso tra l’antimafia ed il modello economico e sociale che favorisce la mafia. I beni confiscati. E’ questo l’oggetto reale di tutte le contese che investono l’antimafia perché è sui beni confiscati che si concretizza la relazione tra lotta alla criminalità, trasparenza dell’economia e possibilità materiale. Si tratta di gestire miliardi di euro di valore senza disperderli e senza farli marcire nelle paludi della burocrazia dei ministeri e nelle pastoie della pubblica amministrazione. “E’ questa – scrive Forgione - la sfida più difficile da vincere per affermare un’antimafia concreta, dalla forte ispirazione sociale; ben altra cosa dalla diffusa convegnistica antimafiosa, che non solo non manca ma quando c’è non serve, pur costando notevoli quantità di soldi pubblici”. Anche qui sfida dei tabù, compreso quello della vendita dei beni confiscati: “è ipocrita tacere che i Comuni non possono gestirli se non si superano i vincoli del patto di stabilità che ha tagliato tutte le risorse agli enti locali”. E ancora: “siamo davvero convinti, ad esempio, che sia compito dello Stato gestire una discoteca nella periferia romana le cui uniche dipendenti sono dieci signorine rumene, assunte con un contratto da ballerine finalizzato esclusivamente al rilascio del permesso di soggiorno che arrivano alla guida di costosissimi fuoristrada e le cui esibizioni artistiche avvengono solo nei privé del locale?” Fuoco amico. Forgione racconta l’esperienza vissuta da presidente della Commissione antimafia, quando “ho vissuto sulla mia pelle cosa significhi diventare obiettivo di alcune campagne mediatiche, costruite in concorso tra qualche magistrato, qualche giornalista e qualche politico”. Nel libro racconta i fuochi incrociati che lo accusarono di aver tradito i valori dell’antimafia, la parabola di Sonia Alfano, dalla rottura con don Ciotti alla fondazione di una sua associazione, “che servirà come sigla da utilizzare per iniziative pubbliche e incontri istituzionali”; il movimento Agende rosse, nato nel 2009 su iniziativa di Paolo Borsellino; i ragazzi di Addio Pizzo;  il viaggio a Palermo durante il processo Cuffaro, quando “dopo aver speso anni di impegno a denunciare i rapporti tra mafia e politica, da presidente della Commissione quasi mi ritrovai addosso il marchio dell’insabbiatore”. Dimenticando che nel 2005 Forgione fu aggredito proprio dal cognato dell’allora presidente della Regione (che fu condannato per questo) mentre raccoglieva firme su una petizione, proprio contro Cuffaro e la mafia nel centro di Palermo. Gli dei caduti. Il libro ripercorre i colpi che l’antimafia ha subito in questi anni, ferite alla credibilità ed alla sua auto rappresentazione. La caduta di alcuni ex personaggi dell’Olimpo dell’antimafia, da Pino Maniaci, conduttore di Telejato (a Partinico) alla grande “impostura” di Confidustria Sicilia, che con il marchio di garanzia “antimafia e legalità” ha innalzato a paladini persone finite poi sotto inchiesta. Il libro riporta parte dell’audizione, davanti alla Commissione Antimafia, di Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica che per primo scoprì e denunciò quanto stava accadendo in Confindustria Sicilia: eventi che hanno fatto entrare il concetto di “impostura” nelle relazioni dell’anno giudiziario palermitano e nisseno. “Certo – scrive Forgione – in una regione che dal 2001 al 2008 ha avuto un presidente condannato per mafia, l’antimafia è stata usata sia nelle lotte intestine interne ai partiti che per sostituire un blocco di potere a un altro”. Libera. Molte pagine sono dedicate all’associazione di don Ciotti: “Sono convinto che senza Libera, con le oltre 1500 realtà associative che la compongono e le sue attività da Trieste a Lampeduca, l’antimafia sociale oggi non esisterebbe”. Questo non vuol dire che non ci siano problemi ed il rischio che possa cambiare la percezione esterna del movimento: “Credo che sia utile superare il parallelismo che l’organizzazione ha da sempre con alcune aree ed alcuni esponenti della magistratura”. Forgione ci tiene a specificare chiaramente che non si riferisce a chi, “come Giancarlo Caselli, con la sua passione da militante volontario e francescano ha dedicato gran parte del tempo trascorso fuori dalle aule di giustizia a far crescere Libera e a condividerne la vita di comunità”, ma ad altri magistrati, “che sembrano delle madonne pellegrine più impegnate tra convegni e salotti televisivi che presenti nei loro uffici a studiare ed approfondire inchieste e materiali investigativi necessari alla loro vera missione”.

L’antimafia, il sequestro degli elenchi dei massoni e l’ipocrisia della sinistra residuale. Scrive Emanuele Molinaro il 14 marzo 2017 L’antimafia, il sequestro degli elenchi dei massoni e l’ipocrisia della sinistra residuale. Di Alessandro Pagliaro. Il sequestro degli elenchi dei massoni nella sede nazionale del Grande Oriente d’Italia ordinato dalla Commissione parlamentare antimafia, contraddice il diritto di libera associazione previsto dalla Costituzione. Si tratta di un grave fatto, che trova un nefasto precedente che riporta la memoria ai tempi del fascismo. Tutto ciò avviene con il compiacimento di una certa parte residuale di sinistra moralista e antigarantista che oscura pagine importanti della storia dei comunisti e dei socialisti in Italia e nel mondo. C’è da ricordare che Andrea Costa, primo deputato socialista della storia parlamentare era Grande Maestro Aggiunto del Grande Oriente d’Italia. Così come massone era anche Salvadore Allende, presidente socialista del Cile democratico, e Venerabile della Loggia “Hiram n° 66” di Santiago, morto con il mitra in mano nel 1973 per difendere le ragioni della libertà dal colpo di stato fascista promosso da Pinochet. Tra i regimi comunisti si è sempre distinta Cuba, dove nonostante alcuni momenti di tensione, Fidel Castro non volle mai mettere fuori legge le logge che operavano in una clandestinità tollerata.  Antesignano dell’avversione alla massoneria, in Italia, fu Amadeo Bordiga, fondatore e primo segretario del Partito comunista d’Italia, che già nel 1912 su “L’Avanguardia” scriveva che “l’ideale massonico non esiste: l’associazione ha degli statuti, forse un programma, non certo dei principi. Il vuoto frasario anticlericale corrisponde non ad un contenuto teoretico o filosofico, ma ad una balorda conciliazione di idee opposte e cozzanti nello sciocco tentativo di accarezzare l’anarcoide e l’uomo d’ordine nel medesimo tempo”. Da queste premesse, deriva l’avversione “ideologica” odierna dei novelli nemici della Massoneria, anche se Antonio Gramsci nel suo unico discorso parlamentare, il 16 maggio del 1924, difese strenuamente la legalità dei massoni dal tentativo di Mussolini di mettere fuori legge tutte le associazioni segrete. “Il disegno di legge contro le società segrete – tuonò – è stato presentato alla Camera come disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare, quella che il partito fascista chiama la sua rivoluzione”. Le posizioni antimassoniche dell’Unione Sovietica, con il 4° Congresso della Terza Internazionale si estesero anche a tutti i partiti “fratelli” degli altri paesi.  Alla fine della seconda Guerra mondiale nelle nazioni del blocco comunista le logge furono sciolte in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, e Repubblica Democratica dell’Est. In Italia oltre a Gramsci, fu Palmiro Togliatti che si astenne da qualunque forma di demonizzazione. Cosi fecero anche Giorgio Amendola ed Enrico Berlinguer, soprattutto per il fatto che i loro padri erano stati fratelli massoni di convinta fede. Quando scoppiò il caso della P2, Sciascia, sull’“Espresso”, scrisse un articolo garantista per mettere in guardia dalle tentazioni di ‘giustizia sommaria’, esortando  a giudicare e condannare non tanto per reati associativi, quanto per singoli e specifici crimini. “L’Unità” di allora, per tutta risposta non trovò di meglio che accusarlo di “insensibilità”, mentre molti altri a sinistra furono più espliciti insinuando il sospetto che la sua presa di posizione non fosse altro che una spregiudicata difesa di Licio Gelli. Non ultimo per importanza, a fare una netta distinzione tra l’attività illecita della P2 e quella storica della Massoneria in Italia, fu nientemeno che Sandro Pertini.  Il Presidente della Repubblica, con un passato glorioso di partigiano ed esponente di primo piano del Psi, nel suo discorso di fine d’anno, il 31 dicembre 1981, a testimonianza di primo garante della Costituzione pronunciò le seguenti parole: “Si è aggiunta a tutte queste preoccupazioni, italiane e italiani, la questione della P2. Mi si intenda bene perché non voglio che ancora una volta il mio pensiero sia travisato. Quando io parlo della P2 non intendo coinvolgere la massoneria propriamente detta, con la sua tradizione storica. Per me almeno, una cosa è la massoneria, che non è in discussione, un’altra cosa è la P2, questa P2 che ha turbato, inquinato la nostra vita”.

“I professionisti dell’Antimafia”. Sciascia, trent’anni dopo. Leonardo Sciascia volle ammonire che la Giustizia agisce su un terreno scivoloso e colmo di insidie: sempre le stesse, scrive Fabio Cammalleri su La Voce di New York il 12 gennaio 2017. La precarietà del “Criterio Antimafia”, in questi anni, si è confermata ineliminabile. Le parole di Leonardo Sciascia riguardavano taluni interessi. Ma quali? Paolo Borsellino disse: “L’uscita [l’articolo di Sciascia, n.d.r.] mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura..." Trent’anni fa, nel Gennaio del 1987, Leonardo Sciascia scriveva il famoso saggio breve, che il Corriere della Sera intitolò “I Professionisti dell’Antimafia”.

Oggi siamo nel 2017. La dott.ssa Silvana Saguto (e altri suoi colleghi) e la Sezione Misure di Prevenzione Antimafia del Tribunale di Palermo; Roberto Helg, già Presidente della Camera di Commercio di Palermo all’insegna dell’Antimafia, colto a riscuotere una tangente (e condannato per corruzione anche in sede di Appello, nello scorso Settembre); Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, eletto in nome dell’Antimafia, e sottoposto ad indagine per presunte cointeressenze mafiose; Franco La Torre, figlio di Pio, che va in rotta con “Libera”, l’Associazione “contro tutte le mafie” di Don Ciotti, ritenendo che “il nostro compito si è affievolito”, e rivolgendo, a quanti, proprio sul caso Saguto, affermavano di non aver sentito bene, un perentorio: “si sturino le orecchie”. La precarietà del “Criterio Antimafia”, in questi anni, si è confermata ineliminabile: proprio per la sua origine intrinsecamente emotiva e contingente, per non dire opportunistica. Per es: il Presidente del Senato è stato designato prima, e votato poi, in ragione di meriti antimafia: ma quei meriti, pur così solennemente convalidati, sono stati ugualmente materia di polemiche al calor bianco: venute dallo stesso “ambiente di provenienza”; ancora nel Marzo 2013, a rincalzo di vecchie e mai risolte ruggini, Giancarlo Caselli sosteneva, sull’appena eletto Presidente Grasso: “ha leso la mia immagine, chiedo tutela al CSM”; e si potrebbe continuare. Quali che saranno gli esiti delle ipotesi dubbie in corso di accertamento, quali che siano le valutazioni di urti e accuse reciproche, dove dubbi non ci sono, è comunque di imbarazzante evidenza che il quadro, così delineato, mostri quanto Sciascia fosse stato lucido: al limite della profezia razionale. In quelle densissime colonne, Sciascia commentava l’opera dello storico Christopher Duggan (allievo di Denis Mack Smith), “La mafia durante il fascismo” (Rubettino, 1986). Ricordava Cesare Mori, “Il Prefetto di ferro” che il Regime, nell’Ottobre 1925, nominò per reprimere, “audacemente, apertamente”, “tutte le maffie e contromaffie”, nelle parole di Roberto Farinacci, Segretario del PNF: anche quelle al plurale, come oggi fa il democratico mainstream.

Durante il fascismo, rilevava Sciascia, col pretesto della repressione antimafiosa, una fazione più conservatrice ridusse all’impotenza un’altra fazione, “che approssimativamente si può dire progressista, e più debole”. Entrambe fazioni fasciste, una usò l’antimafia contro l’altra: al fine ultimo di conseguire “un potere incontrastato e incontrastabile”. Sicché, concludeva Sciascia, il rischio era ed è, in ogni tempo, in ogni assetto costituzionale, che ne risulti un Apparato autoritario a sè stante, insofferente di controlli e reali responsabilità: “…retorica aiutando e spirito critico mancando”. Nel 1987, scriveva “può benissimo accadere”: ma, provenendo da Enzo Tortora era fin troppo evidente che per lui era già accaduto. Si ricorderà che in quelle righe Sciascia pose una questione di principio, avvalendosi di due esempi; uno evocandolo, ma non nominandolo, Leoluca Orlando; l’altro, invece, soffermandovisi espressamente: era la nomina di Paolo Borsellino quale Procuratore della Repubblica di Marsala. Il criterio, sin lì seguito, era stata l’anzianità di servizio. Per Borsellino fu ritenuto decisivo l’avere condotto istruttorie sulla criminalità di tipo mafioso. Nessuna questione personale. Borsellino, nel luglio 1991, a Racalmuto, in occasione, di un convegno sullo scrittore, fu lapidario: “Chiarimmo con Sciascia.” Un anno dopo, nel Gennaio 1988, il CSM, per la direzione dell’Ufficio Istruzione di Palermo, quello dello storico “pool”, preferì il dott. Antonino Meli a Giovanni Falcone, tornando al criterio dell’anzianità. La critica andava subito ad effetto: la mancanza di un criterio stabile, apriva la via all’arbitrio e, perciò, all’indebolimento istituzionale della magistratura. Ma, anzichè riconoscerlo, con maneggio retorico e improntitudine mestierante, si volle far carico di quell’indebolimento, e in non minima parte, proprio al saggio dell’anno prima. E non solo: Sciascia avrebbe offerto la copertura del suo nome ad interessi più o meno inconfessabili. In questo rovesciamento delle parti si distinsero Eugenio Scalfari, Gianpaolo Pansa e il Coordinamento Antimafia di Palermo.

Le parole di Sciascia riguardavano taluni interessi: questo è sicuro. Ma quali? Sentite Borsellino, ancora a Racalmuto: “L’uscita [l’articolo di Sciascia, n.d.r.] mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura, che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. Una pesante corrente della magistratura. Ecco il punto: dove lo scrittore e il giudice, che si volevano avversari, se non nemici, pianamente concordavano. Non per nulla, Borsellino tornò su quella mancata nomina. Lo fece il 25 Giugno del 1992, a Casa Professa, una notissima chiesa barocca di Palermo, nel Trigesimo della Strage di Capaci, riferendosi a Falcone, disse: “…non voglio dire che…cominciò a morire…nel Gennaio 1988, e che questa strage del maggio 1992 sia il naturale epilogo di questo processo di morte…”. E poi: “…la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro…”. Il Gennaio 1988 è quello della bocciatura di Falcone, ad opera del CSM. Non voglio dire: cioè, lo dico. A questa frase, “cominciò a morire. Nel Gennaio 1988..”,  Borsellino pone un inciso: “…se non forse l’anno prima, in quella data che ora ora ha ricordato Luca Orlando…”. Orlando aveva richiamato l’articolo su “I Professionisti dell’Antimafia”. A questo inciso si è aggrappata ogni sorta di rimasticatura che potesse aduggiare Sciascia: in vita, e dopo. Ma era quello stesso Orlando che aveva accusato Falcone di “tenere nei cassetti” le inchieste sugli omicidi c.d. politico-mafiosi (Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco). Da escludersi, perciò, che una “concordia antisciasciana”, includendo Borsellino, fosse sorta dopo Capaci. Quelle ultime parole di Borsellino, appena pronunciate, vollero semmai unilateralmente mitigare le improvvide asprezze di Orlando, in un momento di specialissima tensione. Invece, quanto già sostenuto a Racalmuto non era stato detto per inciso: poichè, mentre assicurava sull’intervenuto chiarimento, aveva mosso un’accusa precisa: “…una pesante corrente della magistratura…”; e quella sera, infatti, a Palermo, il cuore dell’invettiva sarebbe tornata ad essere la magistratura: “…ha più colpe di ogni altro…”, “…epilogo di questo processo di morte…”, non Leonardo Sciascia.

La voce che si impenna, lacerando un silenzio attonito; gli epiteti, “…Giuda…”, che sanguinano sofferenza; lo sguardo, che è un giuramento di verità, tutto insomma, come ciascuno di voi può constatare semplicemente riandando al filmato di quell’ultimo discorso di Borsellino, lo dimostra con purezza di intendimenti, pari solo al calore e alla grandezza dell’uomo. Nel saggio dello storico inglese, fra l’altro, si legge che quello era “…un ambiente in cui le accuse di criminalità erano un’arma politica fondamentale…” (Op. cit. pag. 11) ; “ …l’accusa di ‘mafia’ o di ‘mafioso’…veniva sfruttata per scopi politici. Tali accuse potevano distruggere non solo singoli individui, ma intere fazioni ed amministrazioni.” (ibidem, pag. 100); se una proprietà era ritenuta sospetta, con un provvedimento amministrativo era dichiarata “centro infetto” “…i criteri per dichiarare infetta una proprietà erano molto ampi…” (ibidem, pag. 155).

Leonardo Sciascia ovviamente non ne scrisse a caso. Volle ammonire che la Giustizia agisce su un terreno scivoloso e colmo di insidie: sempre le stesse. E questo gli immemori, i mestatori, di ogni ruolo, in ogni sede, allora e ora, non glielo possono perdonare.

FABIO CAMMALLERI. Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

Leonardo Sciascia, polemista "A futura memoria". Leonardo Sciascia (1921-1989) prese posizioni eretiche. Talvolta fino all’abbaglio (non solo su Borsellino, anche su Pertini). Ma con ironia, senza esibizionismi. I suoi scritti politici e civili tornano ora a dimostrarlo, scrive Simonetta Fiori il 13 marzo 2017 su “La Repubblica”. «Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia. Spero venga letto con serenità». Così nel novembre del 1989 Leonardo Sciascia si accomiatava dalla raccolta dei suoi scritti politici e civili A futura memoria – titolo tipicamente sciasciano, inclusa la parentesi scettica che lo completa (se la memoria ha un futuro). È il suo ultimo libro. Gliel’aveva proposto Mario Andreose, il direttore editoriale di Bompiani – una scelta degli articoli usciti prevalentemente sull’Espresso e sul Corriere della Sera – e Sciascia acconsentì, ma a condizione che fosse l’editore ad occuparsi della ricerca: a lui mancavano già le forze. E così avvenne. L’apporto dello scrittore fu minimo, ma paradossalmente ancora più che in altri lavori la sua personalità affiora da ogni rigo, da ogni ragionamento analitico, da ogni invettiva impastata di ironia. L’autore non fece a tempo a vedere il volume stampato, ma di quegli scritti conosceva bene gli argomenti condotti spericolatamente sulla linea di confine. Le critiche al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. La campagna contro i «professionisti dell’antimafia». I protratti attacchi alla «casta intoccabile» dei magistrati, lasciati impunemente liberi nella «irresponsabilità».  E oggi la preghiera messa alla fine dell’introduzione – leggetemi con serenità – appare come una delle sue ultime provocazioni, nella consapevolezza del fuoco polemico che la silloge sprigionava. Perché la sua, in fondo, era una voce perennemente contro. Contro «l’astrale stupidità» della sinistra che aveva combattuto anche dalle file del Partito radicale. Contro «luoghi comuni» e «conformismi» da lui ricondotti al perbenismo forcaiolo della gauche intellettuale.  E forse perfino contro lo stesso Sciascia, grazie al quale moltissimi italiani avevano imparato cos’era la mafia. Quasi trent’anni dopo – in occasione della nuova edizione adelphiana per la preziosa cura di Paolo Squillacioti – l’appello alla serenità non può che essere accolto. Anche in omaggio a una formidabile tipologia che oggi appare quasi del tutto smarrita, l’intellettuale civile che non esita a mettere la faccia su fatti di cronaca e scelte della politica, sui fenomeni sociali e fondamentali questioni del diritto. Per dieci anni – dal 1979 al 1989, una decade tumultuosa nella storia italiana – Sciascia non esitò a dire la sua sulla giustizia ingiusta e sugli omicidi di mafia (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella oltre che il generale dalla Chiesa). A differenza di Pier Paolo Pasolini che amava ricorrere alle metafore, negli interventi politici resta essenzialmente uno scrittore di cose, secco, asciutto, impregnato di letterarietà ma mai incline alla fantasia poetica dinanzi all’urgenza quotidiana. Antimonumentale per scelta, chissà come avrebbe accolto oggi gli incensamenti di chi ne vuole fare il profeta infallibile, anticipatore del degrado che tinge di mafia l’antimafia. A lui piaceva quel film di Duvivier, ambientato in una casa di riposo per attori, dove alla morte di un ospite l’amico più caro si fa prendere dall’enfasi celebrativa – «interprete inarrivabile», «straordinario protagonista...» – per fermarsi all’improvviso «no, non posso dire questo». E solo allora – annota Sciascia – «dalla verità sorge l’elogio più vero e commovente». Verità. Bussare alle porte della verità: un’immagine che si trova di frequente nei suoi scritti. Vi è sempre riuscito Sciascia? Sicuramente ci ha provato, con esiti alterni. Appena morto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso da un kalashnikov della mafia il 3 settembre del 1982, sul Corriere della Sera lo scrittore ne lamenta leggerezza nella difesa – per non pesare sulla giovane moglie, avrebbe aggiunto – e scarsa comprensione del nuovo fenomeno mafioso. Dinnanzi alla reazione del figlio Nando – trentatré anni, spinto dallo sperdimento e dal dolore a dire anche cose molto sbagliate – Sciascia non sembra conoscere temperanza verso quel «piccolo mascalzone», «privo di intelligenza» e «carico di ambizione-abiezione»: certo ferito dalle accuse ingiuste, ma privo della pietas che si deve a un orfano a cui hanno appena ammazzato il padre. Ma l’acme polemico viene raggiunto cinque anni dopo, il 10 gennaio del 1987, con il celebre articolo sui «professionisti dell’antimafia», espressione che non compare nel testo ma è frutto dell’invenzione di un abile titolista del Corriere (successivamente fatta propria da Sciascia). Partendo da un saggio di Christopher Duggan sulla mafia in Sicilia sotto Mussolini, Sciascia rileva come all’epoca la lotta contro la criminalità fosse diventata uno «strumento di potere» nella lotta tra fazioni all’interno del fascismo. Un rischio – aggiungeva – ancora presente nel regime democratico. I sintomi di questa degenerazione? I comportamenti di due personaggi, in particolare. Un sindaco troppo impegnato in esibizioni antimafiose per potersi occupare dell’amministrazione di Palermo (non lo cita, ma è Leoluca Orlando) e un magistrato promosso procuratore della Repubblica a Marsala non per anzianità ma per meriti acquisti nella sua lotta contro la delinquenza mafiosa – con la conseguenza che dell’incarico veniva privato il legittimo candidato, il dottor Alcamo (si tratta di Paolo Borsellino, questa volta apertamente citato). Conclusione dell’articolo: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più in Sicilia per fare carriera nella magistratura del prendere parte a processi di stampo mafioso». Borsellino era allora uno dei componenti (insieme a Falcone) del pool antimafia creato da Antonino Caponnetto, giudice istruttore del maxiprocesso che avrebbe messo fine all’impunità di Cosa Nostra. La frase di Sciascia cadde come una grandinata sui giudici impegnati in trincea e sull’opinione pubblica che guardava con speranza al dibattimento palermitano. Con Borsellino si sarebbero poi chiariti: splendide foto scattate l’anno successivo a Marsala li ritraggono allegri e conviviali. Disse la verità allora Sciascia? Oggi si tende a celebrarne la carica premonitrice, riferendo le sue analisi a chi fa carriera grazie alla retorica e al mantra vittimario, allo spettacolo malinconico di nobili paladini dell’antimafia inquinati dalla mafia. Ma allora? Anche Borsellino dedito all’«eroismo che non costa nulla»? Anche lui «eroe della sesta giornata», come a Milano viene bollato chi si prende il merito a cose fatte? Il grande merito di Sciascia è che fino all’ultimo non spense mai sulla mafia il lume dell’opinione pubblica, denunciandone le connivenze con la politica, la capacità di infiltrazione, i silenzi omertosi della Chiesa.  E invocando costantemente l’indagine fiscale e patrimoniale come strumento risolutore del crimine. Così come non arretrò mai di un millimetro nelle sue battaglie autenticamente garantiste contro la retorica delle manette e contro la cattiva amministrazione della giustizia, di cui rinvenne un simbolo in Enzo Tortora, da lui sostenuto fin dalle prime accuse – e qui sì, voce solitaria e lungimirante nella canea scatenata contro il conduttore. All’accusa di vanità mossa una volta da Eugenio Scalfari, si ritrasse con un passo di George Bernard Shaw: «I negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno fare solo i lustrascarpe. Così prima mi si attacca poi mi si fa rimprovero di essere attaccato». In realtà quella del polemista fu una vocazione più che una costrizione. E della sua biografia di eretico, pronto a immolarsi sugli altari dell’inquisizione progressista, gli piaceva farsi vanto. «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità». Non cercò mai la popolarità a buon mercato, la simpatia esibita lo irritava. A tal punto che neppure davanti a un personaggio seduttivo come Sandro Pertini riuscì ad ammorbidire la sua scontrosità (che «può apparire perfino come arroganza, ma non è che timidezza e discrezione», corresse nell’introduzione di A futura memoria).  L’episodio del loro incontro viene rievocato nelle prime pagine e colpisce una frase messa tra parentesi, cassata nell’edizione Bompiani forse per eccesso di prudenza verso l’ex presidente ancora vivo: «Il popolarissimo Pertini; ma quanti uomini rappresentativi sono stati popolarissimi in Italia e poi sono apparsi, se non nefasti, apportatori di guai?». Una domanda che, seppur mossa da un bersaglio sbagliato, ha il sapore amaro – questa volta sì – della profezia.

I gendarmi dell’antimafia processarono Sciascia, scrive Valter Vecellio il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo e non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. La lascio per ultima, la domanda. Di tempo ne è trascorso, ma ho timore di riaprire una ferita che non si cicatrizza. La donna che mi siede davanti, gentile, minuta, che parla con a bassa voce e ricorda nel tratto il suo grande padre, è Annamaria Sciascia; e sono nel salotto della sua casa di Palermo. La risposta la immagino, la telecamera ronza, l’operatore attende. Ecco, lo dico: Leonardo suo padre è stato spesso al centro di tante polemiche, alcune hanno comportato la insanabile rottura con amicizie consolidate. Quel è stata la polemica che a lui, ma anche a voi della famiglia vi ha maggiormente ferito? «L’ultima: quella sui professionisti dell’antimafia», risponde Anna Maria. «Ed è una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; questo è il dolore e il dispiacere più grande: vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino». Non meritava (e non merita) assolutamente la caterva di insulti che Sciascia ha dovuto subire. Ricordiamola quella polemica, a costo di rinnovare pena e dolore; perché di certe cose, di certe affermazioni è doveroso serbare memoria, non dimenticare. E’ il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo; non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. Apro una parentesi, prima di continuare il racconto di quella vicenda: si tratta di un consiglio: procuratevi “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia, qualche anno fa meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso, e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Un testo, quello di Sciascia che, a distanza di anni è ancora di utile, preziosa lettura. Perché questo «consiglio»? Perché quella «storia della mafia» dice tanto, tutto dell’impegno politico, culturale, civile, umano di Sciascia; come lo dicono i suoi articoli pubblicati su Il Giorno, L’Ora e Mondo nuovo negli anni Sessanta; e come, infine dice “Il giorno della civetta”: romanzo che parla all’Italia per la prima volta di una cosa che si chiama mafia. Sapete, sembra incredibile: Sciascia è il primo scrittore siciliano che parla di mafia. Prima di lui non lo ha fatto Luigi Pirandello, non lo ha fatto Giovanni Verga, Luigi Capuana, Tomasi di Lampedusa… nessuno. Il 10 gennaio del 1987 lo scrittore civile e anti- mafioso, buono e coraggioso scopre di essere una sorta di Gregorio Samsa, il protagonista delle kafkiane Metamorfosi, che si corica uomo, e si sveglia il mattino dopo scarafaggio. E’ “colpevole” di aver posto, quel mattino, con quell’articolo, un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre (e che molto spesso la cronaca conferma di grande attualità). L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate, inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; e fino quando non si cambiano, si applicano. Non ci può essere: fingere che la norma non ci sia quando si tratta di attribuire un (meritato) vertice di procura a Marsala, a Paolo Borsellino; è contemporaneamente farsi forte di quella norma, in altra occasione, per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire un incarico apicale a palazzo di Giustizia di Palermo, e che certamente meritava e avrebbe ricoperto in maniera eccellente. Parte da un libro, Sciascia, dello storico inglese Christopher Duggan e che tratta della ma- fia negli anni del fascismo; parlandone Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si può trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Si fa poi il caso di un sindaco, Leoluca Orlando, leader allora di un movimento di marcata venatura giustizialista; molto attivo nell’azione agitatoria anti- mafiosa, molto meno efficace nell’azione di amministratore della città. Allora come ora, del resto. E, giusto per ricordare, l’impegno anti- mafioso, suo, di Alfredo Galasso e Carmine Mancuso è giunto al punto di denunciare Giovanni Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di occultare la verità sui delitti politico- mafiosi nei cassetti della sua scrivania. Ma questa come si dice, è altra storia. Scritto quello che Sciascia voleva scrivere, si sono aperte le cataratte degli sdegnati indignati sdegnosi. Impossibile citarli tutti. Diamone qui qualche assaggio. Il coordinamento antimafia di Palermo definisce Sciascia un “quaquaraquà”. Giampaolo Pansa sostiene di non riconoscere più Sciascia, facendo l’operazione più disumana che si può fare nei confronti di una persona: negarla. Sciascia viene additato come una sorta di responsabile dell’isolamento di Borsellino e Falcone, quasi un responsabile degli attentati in cui vengono uccisi. Anni dopo, quando le polemiche del momento sono sopite, nella prima puntata di “Vieni con me”, Roberto Saviano sposa questa “scuola di pensiero”. Ma tantissimi altri con lui, prima e dopo. Procedo ora per ricordi. Oreste del Buono, per altro mite e gentile direttore di Linus e mille altre cose ancora. Accusa Sciascia, di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti. Il già ricordato Pansa prova per «il nuovo Sciascia una gran pena. A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso». Claudio Fava dipinge un «Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…»; Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto «… alla conclusione che Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia». Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su La Repubblica sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, «perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche; II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra». Testuale: «Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia». Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: «Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta». Conclusione: «Sciascia stregato dalla mafia». Un livello di polemica che indigna il compianto Tullio De Mauro, il cui fratello Mauro, giornalista de L’Ora impegnato in inchieste di mafia, scompare un giorno del 1970, mai più ritrovato. Dice De Mauro: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica». Non solo Arlacchi. Interpellato dal Corriere della Sera, il filosofo Manlio Sgalambro dice che «Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più». E come non ricordare Andrea Camilleri, che pure di Sciascia si professa amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero. Pochi, a fianco di Sciascia, come spesso accadeva: Marco Pannella, i radicali, Rossana Rossanda, qualche socialista come Claudio Martelli; altri ce ne saranno stati, ma non molti. Anche loro sommersi dal coro violento e protervo degli inquisitori, flebile, allora, la loro voce, a fronte degli schiamazzanti crucifige. A questo punto, prendiamo il toro cui ad un certo punto si legge: “Non può essere consentito al giudice lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia; necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato: le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti ed univoci; non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e alle generiche opinioni. La lotta concreta al crimine potrà essere fatta solo con la seria utilizzazione degli strumenti normativi”. Parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterebbe di sottoscrivere». Il sottolineato è mio: «Richiamo alle regole… modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti». Siamo all’oggi. Ha solo qualche mese di “vecchiaia” un agile libretto scritto da Francesco Forgione, già parlamentare di Rifondazione Comunista, vice- presidente della passata commissione antimafia. Nulla so di Forgione, mi basta quello che scrive nel suo “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” (Rubbettino). Si può cominciare con un brano della prefazione scritta dall’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: «… Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…». Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale di Paolo Mieli, prima pagina del Corriere della Sera. Comincia così: «Adesso dovremmo per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa. «Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo», scrive Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). «Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte». Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo- mastro in una zolfatara, «uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…». Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio. Il 14 gennaio 1987 Sciascia pubblica sempre sul Corriere della Sera dove replica alle accuse: «Il comunicato del cosiddetto Coordinamento antimafia è la dimostrazione esatta che sulla lotta alla mafia va fondandosi o si è addirittura fondato un potere che non consente dubbio, dissenso, critica. Proprio come se fossimo all’anno 1927. Nel mio articolo del 10 gennaio, c’era in effetti soltanto un richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica: e questo cosiddetto Coordinamento – frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere – risponde con una violenza che rende più che attendibili le mie preoccupazioni, la mia denuncia. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa avere un’opinione, nella loro vera immagine. Ed è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una radicale lotta alla mafia. Loro sono affezionati alla “tensione”, e si preoccupano che non cada. Ma le “tensioni” sono appunto destinate a cadere: e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere. In quanto al dottor Borsellino, non ho messo in discussione la sua competenza, che magari può essere oggetto di discussione per i suoi colleghi; sono le modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti. Ed è proprio nella sentenza di un processo che mi pare sia stato appunto istruito dal dottor Borsellino, sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Palermo, seconda sezione, il 10 novembre dell’anno scorso, che trovo la migliore ragione, perché non ci si acquieti agli intendimenti del cosiddetto Coordinamento. Una sentenza che ha mandato assolti gli imputati e in tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…»; e via così, per tre- quattromila parole. Viene lapidato, Sciascia, per averci messo in guardia dai disastri che proliferano, letali, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Trent’anni fa, ma sono bacilli di una “peste” sopita. Forse. Una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge. Una minaccia totalitaria, la cui cifra è costituita dall’assenza di memoria, di conoscenza, di “sapere”; una minaccia fatta di certezze, di assenza di dubbio.

La profezia avverata di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Quello appena concluso è stato l’anno della caduta di alcuni «miti», in particolare personaggi simbolo della lotta alla criminalità finiti sotto processo, scrive Felice Cavallaro l'8 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di “professionisti” travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati “duri e puri”, la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui “professionisti dell’antimafia”. Con la sua profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente, indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle tangenti. Trent’anni dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla “caduta dei miti”, come la definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro “I tragediatori”. E’ il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati, del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi. Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Ma, quando ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in “Comitato antimafia”, decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne “Il giorno della civetta”. Si, lo definirono “quaquaraquà”. Prendendo spunto dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’“immagine” personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non le parole, che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli anni. Il secondo bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni, tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè. Si scatenò però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un po’ pentiti. E’ il caso di studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di stampa, “La mafia è dappertutto. Falso!”. Una mazzata agli impostori caduti da quel palcoscenico, commenta: “L’antimafia si è fatta potere”. Ed ancora: “Lui guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere”. Riflessioni fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: “Una lucidità profetica, quella di Sciascia”. Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: “Sciascia vide dove nessun altro poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel ‘quaquaraquà’ ci scappò di mano...”. Vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA.

Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose:

«…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

«I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).

“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008. riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino.

“Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.”

Il processo a Mannino è stato il più "caselliano" dei processi per mafia, quello che più ha risentito dei teoremi, del climax e del metodo della procura diretta da Gian Carlo Caselli, più dello stesso processo a Andreotti. Ma ha avuto un protagonista eccezionale che ha oscurato la fama dei suoi colleghi più autorevoli e più famosi, dei Lo Forte, dei Natoli, degli Scarpinato, dello stesso Caselli.

I processi a Mannino sono durati più di 14 anni, il solo processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di 5 anni e mezzo, 300 udienze, 400 testimoni, 25 "pentiti",oltre 50mila pagine di atti processuali: fino all'assoluzione con formula piena "per non aver commesso il fatto".

E tre anni dopo il primo processo d'appello, la condanna a 5 anni e 4 mesi, l'annullamento della Cassazione, il secondo processo d'appello, la sospensione per attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale (che ha bocciata la legge che prevedeva che bastasse l'assoluzione in primo grado per chiudere la partita), e il secondo processo d'appello, fino alla definitiva assoluzione.

Ebbene, per i due anni dell'inchiesta iniziale, per i cinque anni e mezzo del processo di primo grado, per i due anni del primo processo d'appello, per i due anni di attesa per l'annullamento della Cassazione, per la sospensione, per tutto il tempo del secondo processo d'appello, l'accusa contro Mannino è stata sostenuta sempre dallo stesso magistrato, il pm Vittorio Teresi, che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d'appello dopo tre anni, e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l'accusa nel secondo processo d'appello, dopo l'annullamento e la sospensione.

Il processo a Mannino ha avuto un unico inquisitore, che è diventato anche requirente in primo e in secondo grado, e persino nel secondo grado: Vittorio Teresi ha praticamente dedicato la vita, la parte più importante della sua vita, a inquisire e ad accusare Mannino. Più dello Stato, più della procura di Palermo, è stato Teresi a processare Mannino.

E che cosa ha detto e ripetuto Teresi contro Mannino per 14 anni l'aveva già detto il Procuratore generale della Cassazione Vincenzo Siniscalchi nella requisitoria con cui ha chiesto e ottenuto l'annullamento della sentenza di condanna di Mannino, che aveva fatto proprie e trascritte testualmente le accuse pronunciate da Teresi: "Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, mi sono trovato di fronte al nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici. Nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, un patto così serio, preciso e concreto che la sua sola esistenza, con l'impegno e la coscienza da parte del politico, possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta…".

Ma Vittorio Teresi non è né un folle, né un caso isolato.

Quando il Procuratore generale Siniscalchi ha bollato con parole di fuoco il sistema accusatorio di Teresi, e i giudici della Corte d'Appello che le avevano fatte proprie, è insorta tutta la giunta esecutiva dell'Associazione magistrati di Palermo e prima ancora che la Cassazione si pronunciasse sulle richieste di Siniscalchi.

"Le espressioni pronunciate dal Procuratore generale - è scritto nel comunicato della giunta - hanno gettata una ingiusta e infondata ombra sulla professionalità dei colleghi che hanno emesso la sentenza di condanna di Mannino in netto contrasto con i doveri sanciti dal codice etico adottato dall'Associazione nazionale dei magistrati, e in particolare con il dovere sancito dall'articolo 13 comma III, che prescrive che il pubblico ministero debba astenersi da critiche e apprezzamenti sulla professionalità dei giudici".

E i magistrati di Palermo attraverso la loro giunta esecutiva chiedevano "l'intervento dell'Associazione nazionale e del Consiglio superiore della magistratura per quanto eventualmente di loro competenza: l'Anm e il Csm dovevano processare e punire il procuratore generale della Cassazione che si era permesso di criticare il pm e i giudici che avevano condannato Mannino (e di conseguenza la Cassazione che, con le stesse motivazioni del Pg annullerà la sentenza di condanna a Mannino).

Forse nessun altro processo come quello a Mannino serve a raccontare e a spiegare che cosa è successo a Palermo (Italia) negli ultimi quindici anni e che cosa sono stati i processi di mafia ai politici. Secondo Jannuzzi il caso Teresi è solo più evidente, più scoperto e più sfacciato: “il pm è sempre lo stesso, i pm dei processi politici sono sempre gli stessi, sempre gli stessi sono i "pentiti", stessa è la tecnica con cui si predispongono certe Corti d'Appello, veri e propri plotoni d'esecuzione, che devono annullare in fretta le assoluzioni conquistate in primo grado (straordinaria la somiglianza con la storia dei processi a Mannino il metodo con cui fu costituita la Corte d'Appello che annullò l'assoluzione in primo grado di Corrado Carnevale, e quella con cui la Corte d'Appello sporcò con la storia della prescrizione l'assoluzione in primo grado di Andreotti), gli stessi sono i teoremi di certe sentenze che, come disse Siniscalchi, sono un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, sentenze che non avrebbero mai dovuto essere scritte”.

Un fatto è certo: mafia e antimafia a volte s'incrociano.

Sesso in cambio di una accelerazione nelle pratiche burocratiche per accedere al fondo vittime del racket e dell'usura. Le associazioni 'Sos racket e usura' e 'Sos Italia libera' hanno raccolto le testimonianze di sette giovani, che denunciano le presunte violenze sessuali e ricatti subiti da un ex prefetto dell'anti-racket romano, che controllava il fondo nazionale per le vittime dell'usura.

L'associazione 'sos racket e usura' - consorzio che raccoglie 70 associazioni - ha presentato un esposto al tribunale di Milano. Tra le presunte vittime vi sono due donne, una di Milano e un'extracomunitaria residente a Torino, che erano minorenni all'epoca dei fatti; una 38enne di Brescia, una bergamasca di 40 anni e alcune modelle ingaggiate per uno spot anti-usura, in realtà mai realizzato. L'associazione si era sciolta il 7 febbraio 2010 dopo le minacce rivolte al suo presidente Frediano Manzi.

Sul sito Sos-racket-usura.org, è stata pubblicata una lunga lettera, con video testimonianze. "Vi raccontiamo le storie delle vittime di usura e estorsione - si legge nella lettera - che si sono rivolte al comitato nazionale antiracket a Roma per accedere ai fondi, e che sono state oggetto di attenzioni sessuali da parte del commissario". "In sostanza emerge che in certi casi - racconta l'associazione - l'avere rapporti sessuali con il prefetto Carlo Ferrigno, condizionava l'accesso al fondo" e mettono in rete le sette testimonianze, a prova di quanto affermato. "Non potevamo più tacere - dicono - come associazioni antiracket abbiamo il dovere di denunciare questo scandalo fatto di ricatti, minacce, intimidazioni e richieste di natura sessuale, che sono state perpetrate nel tempo dal commissario straordinario antiracket, nominato dal governo in un periodo di tempo che va dall'anno 2003 all'anno 2006".

In un video, una delle vittime (38 anni, bresciana, col volto oscurato per renderla irriconoscibile) ha raccontato la terribile parabola che l'ha trasformata da vittima dell'usura a vittima di ricatto e violenza sessuale. Nella testimonianza, la donna ripercorre tutte le fasi della vicenda, dal primo incontro col prefetto nel 2006 (che all'inizio chiama "sua eccellenza", per rispetto e riverenza), ai primi approcci di lui (le chiede di dargli del tu, poi la fa portare dal collaboratore nella sua abitazione privata per "guardare le carte" e si presenta con l'accappatoio slacciato, in evidenza i genitali). Fino ai due tentativi di forzare un rapporto sessuale con la donna, preceduti da minacce e violenza fisica.

Le vittime che l'associazione ha rintracciato e "che ci hanno confidato queste violenze sono originarie di Milano, Bergamo, Brescia e Roma; come i reati e le violenze si sono consumati a Milano, Torino, Roma". "Era abitudine del commissario antiracket inviare il suo fido segretario e autista, con la macchina in dotazione del ministero, a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni - prosegue la clamorosa denuncia - per fare orge e festini presso l'abitazione del prefetto a Roma; si afferma che il prefetto facesse abitudinariamente uso di cocaina. Sempre Tonino, ha accompagnato più volte le vittime di usura presso l'abitazione del prefetto, e lo stesso autista gli avrebbe procurato sostanze stupefacenti".

L'associazione ha chiesto l'apertura immediata di un'inchiesta da parte della procura della Repubblica, "affinché accerti quanto da noi denunciato pubblicamente" e che si verifichi "come sono stati distribuiti i fondi e con quali criteri nel periodo in cui il funzionario è stato commissario straordinario antiracket". Infine, lanciano un appello "a tutti coloro che hanno subito ricatti, minacce o 'attenzioni' del genere. Abbiano il coraggio di parlare e prendano contatto con l'autorità giudiziaria".

Le cronache ci parlano di un imprenditore depredato dalla mafia. Un risarcimento da incassare dallo Stato. E le richieste di denaro di chi avrebbe dovuto aiutarlo. Rappresentanti di categoria, Magistrati. Poliziotti. Tutti paladini anti-cosche, ma con soci e legami pericolosi. Rapporti privilegiati di alcune associazioni antimafia con la magistratura e la politica di sinistra.

Il trucco è in agguato. Come nell'antiusura, colpita per giunta dal fenomeno delle finte vittime. «Nell'arco del 2007», dice il commissario nazionale antiracket Raffaele Lauro, «abbiamo risarcito 143 persone e bocciato 176 richieste». Idem per le estorsioni: «A fronte di 161 accoglimenti ci sono stati 147 rifiuti». In pratica 323 persone si sono dichiarate vittime, ma non lo erano. Il che confonde: in Calabria (42 sì al risarcimento, 26 no) come in Sicilia (62 sì, 28 no), in Puglia (16 sì, 18 no) come in Campania (24 sì, 19 no).

E si somma a un'altra questione: la limpidezza delle organizzazioni impegnate contro mafia e pizzo.

A un certo punto, per esempio, sono spariti 100 mila euro dalle casse dell'associazione antiracket di Caltanissetta. Il presidente Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere, e il prefetto ha sciolto la struttura. Un caso limite, assicura Lauro: «Le associazioni e fondazioni iscritte alle prefetture svolgono un lavoro eccellente. E altrettanto vale per Tano Grasso, il presidente onorario della Fai, la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane». Una figura simbolo, Grasso, nella lotta al pizzo. Fondatore nel '90 dell'Acio (l'associazione dei commercianti di Capo d'Orlando contro le estorsioni), è stato deputato del Pds, membro della commissione parlamentare Antimafia e commissario nazionale antiracket. Eppure il suo è un caso, come risulta da un’inchiesta del “L’Espresso”, così emblematico di come in Sicilia frequentazioni e amici possano essere scivolosi, anche per un paladino dell'antiracket.

Attualmente, infatti, il nome di Grasso è citato a Catania negli atti di un processo scomodo. Principali accusati sono Giuseppe Gambino, ex magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Messina, e il vicequestore di Messina Mario Ceraolo Spurio, ex ispettore del commissariato di Capo d'Orlando: entrambi sotto processo per vari reati, tra i quali avere manovrato il pentito Orlando Galati Giordano contro l'imprenditore Vincenzo Sindoni (oggi sindaco di Capo d'Orlando); il tutto per favorire Luciano Milio, suo concorrente in affari. Grasso, secondo le carte dei pubblici ministeri, ha frequentato sia Ceraolo che Gambino e Milio.

A illustrare il lato oscuro dell'antimafia, ci ha pensato il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate (20 chilometri a est di Palermo), complice di un piano per inscenare la finta guerra all'illegalità.

In questa logica, ha favorito la nascita di un osservatorio permanente sulla criminalità e il fenomeno mafioso. E, ciliegina sulla torta, ha sponsorizzato la cittadinanza onoraria al Capitano Ultimo e Raoul Bova, suo alter ego televisivo. Risultato: un pedigree antimafia in sintonia con le cosche.

«Una storia terribile», commenta Angela Napoli, membro della commissione parlamentare Antimafia, «ma agevolata da un atteggiamento diffuso: nessuno punta il dito contro la finta lotta all'illegalità. È un terreno minato, meglio tacere e lasciare campo libero». L'esatto opposto di quello che fa lei, protagonista in Calabria di una polemica con la cooperativa agricola Valle del Bonamico, creata nel 1995 a Locri dal vescovo Giancarlo Maria Bregantini. Una struttura cresciuta, spiega il sito Internet, per strappare alla 'ndrangheta i giovani disoccupati. Ma anche una società «che dà lavoro ai figli dei boss», ha denunciato Angela Napoli, «nonché sede di cospicui finanziamenti, molti devoluti a rappresentanti delle cosche della 'ndrangheta di Platì e di San Luca».

Il pizzo è un male del meridione, ma perché nessuno parla degli appalti, delle grandi aziende che come la Calcestruzzi fanno accordi con Cosa nostra? E ancora: perché non si analizza com'è gestito il finanziamento pubblico dalle associazioni antimafia?». Di recente, racconta, è stata contattata dai giornalisti di "Annozero". Con loro, per la puntata del 22 novembre 2007, si è presentata alla sede della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. «Volevamo chiedere a Maria Falcone perché non appoggiasse la protesta contro la mancata equiparazione tra le vittime del terrorismo e quelle della mafia e del dovere. Ma non abbiamo potuto: la sede era chiusa con un catenaccio. Non solo. Tutte le volte che ho telefonato, o mi sono presentata alla fondazione, non ho trovato nessuno. Possibile? Chi verifica, lì e altrove, come si fa antimafia?».

Per completezza va detto che "Annozero" non ha trasmesso il servizio, e Sonia Alfano non è stata avvertita dalla redazione: «L'ho scoperto in studio», spiega, «partecipando da ospite alla puntata».

Quanto a Maria Falcone replica che «tre pomeriggi alla settimana la sede è chiusa», e comunque la sua missione è «insegnare legalità nelle scuole italiane, e organizzare ogni 23 maggio un convegno con politici e esperti di mafia». Iniziative che hanno un forte significato simbolico, in Sicilia e fuori, ma fanno i conti con un clima ostico, dove la confusione impera anche nelle istituzioni. Esempio tipico, il bilancio della Regione Sicilia. All'interno, infatti, si legge che le «associazioni, fondazioni e centri studi impegnati nella lotta alla mafia» ricevono 580 mila euro l'anno. Ma non è così: 77 mila 468 euro sono stanziati per il centro studi Cesare Terranova, 180 mila 759 per la Fondazione Falcone, 77 mila 468 per la Fondazione Gaetano Costa e 50 mila al Centro studi Pio La Torre. Restano invece inutilizzati 194 mila 305 euro, che giacciono nelle casse regionali. Discutibile. E paradossale, pure, in una terra sempre a caccia di finanziamenti.

Ma meno stravagante di quanto è accaduto alla Regione Calabria. All'ordine del giorno c'era la costituzione della Consulta antimafia della giunta, una task force che affronta temi centrali: dal protocollo d'intesa sui beni confiscati alla 'ndrangheta fino al progetto "Scuola antimafia", per aiutare i docenti a «veicolare le migliori informazioni su legalità e sicurezza». Questioni, si legge, gestite dal presidente della Regione Agazio Loiero con (tra gli altri) il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì e con il prefetto di Reggio Calabria Francesco Antonio Musolino. Ma anche con Francesco De Grano: il dirigente generale del Dipartimento attività produttive «responsabile dell'Apq (Accordo programma quadro) legalità e sicurezza». Lo stesso De Grano indagato nell'indagine "Why not" sui poteri occulti calabresi e la spartizione dei fondi comunitari. Proprio come Loiero.

Il tanto parlare di lotta alla mafia, certo sembra tutto una presa in giro, se poi le cronache ti parlano di vittime che preferiscono pagare il “pizzo”. Sui giornali si legge “È disposto a pagare il pizzo a patto che gli restituiscano ciò che gli è stato rubato. A scendere a compromessi con i suoi aguzzini è Giuseppe Cappelli, 58 anni di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. Egli ha subìto una serie di furti nella villetta che sta costruendo nella periferia del paese. Prima una motozappa, poi mobili antichi, tappeti e piante. Qualche mese fa ha denunciato tutto ai carabinieri che bloccarono i 5 malviventi, ai quali, però, il magistrato non ha convalidato l’arresto. Una volta liberi gli aguzzini avrebbero ricominciato con i furti, pretendendo, tra l’altro, il ritiro della denuncia.”

Non da meno è la trasfigurazione o la confusione dei ruoli. Un colpo di mannaia e, di colpo, è stato «decapitato» il corpo della Stradale di Lecce. Un vero e proprio choc per le forze dell'ordine salentine che, di colpo, si sono trovate alle prese con un'attività concussiva che andava avanti da decenni. Sono finiti in manette 16 agenti della polizia stradale di Lecce con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata alla concussione. Gli arresti sono stati eseguiti al termine di sei mesi di indagine durante i quali sono stati fatte numerose intercettazioni. L'attività investigativa è stata coordinata dalla procura di Lecce è stata condotta dagli stessi agenti della questura e della polizia stradale. Gli investigatori hanno scoperto un consolidato sistema di concussione che durava da almeno 20 anni, e si concretizzava nella riscossione di somme di denaro o nell'acquisizione di beni materiali da parte dei poliziotti. A pagare erano imprenditori e commercianti - almeno un centinaio le aziende «taglieggiate» - per evitare i controlli delle loro merci sulle strade.

Un caso particolare è quello di un poliziotto intercettato che ipotizzava con un collega, anche lui del «giro», di poter andare in pensione avendo ottenuto «mazzette» complessive di circa 40 mila euro, estorte nell'arco di un triennio. Una sorta di «liquidazione» frutto delle attività concussive. Questo lascia intendere il livello illegale attivato dai poliziotti «infedeli».

I sedici agenti erano tutti in servizio a Lecce dove lavorano in totale circa 36 agenti. La metà del corpo è stata, quindi, decapitata dall'indagine che comunque non ha interessato il distaccamento di Maglie, la seconda sezione della polizia stradale salentina.

Il capo della procura salentina, Cataldo Motta, già capo della Direzione Distrettuale Antimafia, così commenta: «C'è soddisfazione per aver fatto emergere questa situazione molto grave, soddisfazione tuttavia temperata dal fatto che si tratta di agenti di polizia con i quali siamo abituati a lavorare e a condividere gli interventi per la legalità. L'aspetto che crea maggiore amarezza è proprio questo».

Sul fronte delle indagini ha aggiunto: «La possibilità di un'indagine così approfondita si è presentata solo quando abbiamo avuto una denuncia non anonima dall'interno della stessa sezione di polizia stradale. E poi c'è stato l'invio, con lettera anonima, di un elenco di aziende che pagavano gli agenti».

Ci si chiede come mai per i poliziotti non sia stato prevista l’associazione di stampo mafioso finalizzata all’estorsione? Forse i mafiosi non sono tutti uguali?

«Me ne vado via per sempre con la mia famiglia, non sarò più deriso per le mie denunce e io e i miei famigliari non saremo più costretti a subire non solo le aggressioni dei criminali, ma anche le umiliazioni da parte di chi, come un magistrato, è arrivato a dire che sono mentalmente instabile».

Lo ha detto l'imprenditore Francesco Dipalo, appena rientrato ad Altamura. L'uomo era stato via per cinque giorni senza dare notizie e suscitando preoccupazioni nei famigliari, che temevano potesse essere stato vittima di gruppi criminali dopo le sue denunce di estorsioni e aggressioni. Dipalo ha spiegato di essersi allontanato per cercare un luogo dove poter trasferire la propria famiglia, aggiungendo di non aver potuto avvertire neppure i suoi congiunti per non correre rischi.

A una domanda se vi siano state sottovalutazioni delle sue denunce, Dipalo ha detto che se ci sono state non gli interessa più, aggiungendo che «tutti possono constatare che da parte dello Stato non c'è stata alcuna reazione». Di chi sia la responsabilità, «della procura di Bari o di Matera, della polizia di Bari o di Matera, «non m'interessa più».

Questo è poca cosa in confronto al racconto di un giudice in prima linea.

"Vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell'inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrare. Perché da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivere il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccato ...".

Comincia così il racconto di Emilio Sirianni, giudice del lavoro a Cosenza. Calabrese, 47 anni, di cui 11 trascorsi nelle Procure della Regione, è un "giudice di frontiera", come si dice di chi lavora nelle "sedi disagiate" impegnate nella lotta alla mafia. Luoghi dove spesso si finisce non per scelta ma per necessità, con la speranza di andarsene, prima o poi, in una sede "agiata".
Il suo è un racconto inedito, anche se qualche tempo fa lo ha in parte anticipato in un Congresso di "Magistratura democratica", gelando la platea.

È il racconto della magistratura che in Calabria vive e lavora, ma non quella che solitamente finisce sulle pagine dei giornali, eroica o collusa a seconda dei casi.

Il suo non è un racconto di veleni o di corvi, di faide o di lotte di potere. Ma di una magistratura che - per indifferenza o pigrizia, per paura o connivenza, per furbizia o conformismo - gira la testa dall'altra parte, strizza l'occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell'ufficio. E "che accetta - dice Sirianni - l'umiliante baratto fra la convenienza personale e la rinuncia a qualsiasi prospettiva di cambiamento, perché l'unico cambiamento immaginabile è il premio di essere trasferito nell'agognata sede agiata".

Una magistratura, insomma, incapace di "autogovernarsi", qui più che altrove, e che contribuisce a indebolire la credibilità dello Stato.

Una fotografia desolante, anche se non deve far dimenticare l'impegno, la professionalità e il sacrificio dei giudici "che tirano la carretta nell'oscurità" e vivono una solitudine diversa, perché non l'hanno scelta.

"Così come, in Calabria, non ci si scandalizza per un concorso truccato ma lo si accetta come una fatalità, allo stesso modo - spiega Sirianni - il magistrato calabrese quasi mai reagisce o denuncia, preferisce adattarsi a prassi dubbie, assistere indifferente a condotte inammissibili. La stessa indifferenza che soffocala cosiddetta società civile si respira nei corridoi dei palazzi di giustizia".

Il racconto. Nel novembre 2006 fu arrestato un Presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo Valentia (Patrizia Pasquin) insieme ad alcuni pericolosi "ndranghetisti" locali.

"Il Tribunale di Vibo ha competenza su una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure, sia prima sia dopo l'arresto c'è stato un silenzio assordante da parte dei colleghi di quel Tribunale.

Possibile che nessuno avesse mai notato strane frequentazioni o comportamenti sospetti?

Precedentemente, durante la campagna elettorale per il C.S.M., andammo a Rossano, piccolo Tribunale con giovanissimi colleghi: l'unico argomento che animò il dibattito fu l'estensione dei benefici della sede disagiata ai cosiddetti ‘equiparati'. Eppure, anche lì c'erano problemi seri: forti scontri con gli avvocati, un presidente che per un biennio si era visto bocciare dal C.S.M. le tabelle (l'organizzazione dell'ufficio - ndr) e persino un giudice destituito a causa di diverse condanne per reati gravi e che aveva l'abitudine di non depositare le sentenze".

Molti uffici calabresi, soprattutto quelli piccoli, "si svuotano ogni venerdì, al massimo, e tornano a riempirsi solo il lunedì o il martedì successivo: tutti tornano a casa - per lo più in Campania, in Puglia, nel Lazio - senza che il capo abbia nulla da obiettare. Alla sua condiscendenza corrisponde la rinuncia a criticarne l'operato".

Vibo Valentia, Rossano, ma anche Locri, Palmi, "sono tutti fortini assediati, in zone ad altissima densità criminale in cui si lavora male e si vive in totale separatezza dal resto della Regione. Ma di solito se ne parla solo per denunciare carenza di mezzi e di uomini.

Eppure ne accadono di fatti strani. Come quando, morto il Procuratore Rocco Lombardo, la Procura di Locri fu lasciata reggere per mesi da un giovanissimo collega e solo quando fu trasferito venne finalmente affidata a uno dei più esperti P.M. della Procura di Reggio Calabria, il quale accertò, a fine 2003, l'esistenza di 4.200 procedimenti con termini di indagine scaduti da anni, su un totale di 5.000, e di circa 9.000 procedimenti ‘fantasma', cioè risultanti dal registro ma inesistenti in ufficio.

Dati, peraltro, già riscontrati in un'ispezione del 2001, senza che nulla accadesse".

Di chi è la colpa? Del C.S.M.? Del ministero? Prima ancora dei magistrati, sostiene Sirianni. "Perché troppi magistrati calabresi organizzano le loro giornate con il solo obiettivo di sopravvivere. Si chiudono in ufficio, alzano un muro invisibile che li separa dalla comunità. Ma in Calabria non basta fare il proprio lavoro. Bisogna guardare che cosa accade fuori dalla porta, anche a costo di perdere la tranquillità".

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Ultimissime dalla Sicilia perduta. L'Antimafia che indaga sull'antimafia. Siamo arrivati al punto che l'Antimafia indaga sull'antimafia, come annunciato da Rosy Bindi. Un percorso che si annuncia di complicatissima riuscita. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità.  Il direttore di LiveSicilia il 06 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Sono più di vent’anni che i giudici di Caltanissetta indagano sull’omicidio di Paolo Borsellino. Hanno celebrato quattro processi ma non hanno ancora trovato la strada per venire fuori dal labirinto. Un labirinto giudiziario: dove ogni verità finisce per smentire un’altra verità, e dove ogni pentito viene puntualmente smentito da un altro pentito. In questa Caltanissetta, così nebbiosa e incerta, è arrivata l’altro ieri in pompa magna la Commissione parlamentare antimafia, quella presieduta da Rosy Bindi. Una novità. Basti pensare che in oltre cinquant’anni di vita la gloriosa commissione non era mai andata oltre Palermo e si era guardata bene dal mettere piede in terre scottanti, come quelle che dal Vallone si estendono fino a Mussomeli e che negli anni del feudo furono regno di boss come Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini. Gente senza peli sulla lingua: “Qui, chi mette la testa fuori dalla tana, pum pum”, avvertiva bonario e crudele l’onorevole Calogero Volpe, un democristiano che li conosceva bene e che per sette volte riuscì a farsi eleggere in Parlamento. Ma la Commissione guidata dalla Bindi non è arrivata l’altro ieri a Caltanissetta per capire il perché dei processi che non si chiudono mai o per scovare gli eventuali eredi dei mammasantissima che, con la forza della lupara, spodestarono baroni e sovrastanti, e si impadronirono delle loro terre e delle loro miniere di zolfo. No. L’Antimafia, quella ufficiale, grande e istituzionale, è venuta a Caltanissetta per indagare sull’altra antimafia, quella nata dopo la stagione delle stragi, sull’onda dell’emozione per l’uccisione di Falcone e Borsellino, ma anche perché di quella mafia e di tutto quel sangue non se ne poteva più. Un’antimafia che si è estesa e dilatata ad ogni settore, in ogni provincia, coinvolgendo associazioni spontanee, come “Addiopizzo”, e associazioni di ben più solida consistenza come “Libera”, fondata dal torinese don Luigi Ciotti e trasformata dai suoi manager in una holding di dimensioni nazionali; un’antimafia, quella sulla quale indagherà la Bindi, che ha scavalcato da tempo il recinto doloroso dei familiari delle vittime e ha sempre più coinvolto categorie già strutturate, come quelle degli imprenditori o dei commercianti. La Confindustria siciliana ad esempio, prima con Ivan Lo Bello e poi con Antonello Montante, ha tentato di segnare un confine tra chi pretendeva di gestire le proprie aziende con la complicità protettiva di Cosa nostra e chi intendeva invece battersi per un mercato libero dal condizionamento mafioso. Certo, di errori ne sono stati fatti e non c’è passaggio, nella storia di questa antimafia, come ogni cosa nata in Sicilia, dove non sia affiorato l’immancabile, abusato gattopardismo del tutto cambia perché nulla cambi. Certo, molte di queste associazioni si sono man mano trasformate in lobby, monopolizzando finanziamenti pubblici e arrogandosi perfino il diritto di assegnare attestati di legalità ai propri amici e canaglieschi mascariamenti ai propri nemici. Certo, dopo l’antimafia dell’innocenza è arrivata l’antimafia degli affari e pure l’antimafia del potere: Rosario Crocetta, issando la bandiera della legalità, è riuscito a conquistare la presidenza della Regione siciliana e a distribuire incarichi e consulenze a un cerchio magico di fedelissimi; a cominciare da quell’Antonio Ingroia, che fu pubblico ministero della famosa trattativa tra stato e mafia e che dopo quell’impresa, montata sui giornali di mezzo mondo, tentò pure l’azzardo di una sua discesa in politica. Oggi però, sia la bandiera del governatore Crocetta sia quella dell’ex magistrato Ingroia, amministratore di un’azienda partecipata dalla Regione, mostrano i segni di un profondo logoramento: la Corte dei Conti li subissa con pesantissimi richiami alle regole della buona amministrazione e, in tempi di mafia e antimafia, anche i bambini dell’asilo dovrebbero sapere che non c’è legalità senza l’osservanza delle regole. Ma bastano le cose che sono state sin qui raccontate – errori e sbandamenti, eccessi e sovraesposizioni – per arrivare al punto dove è arrivata la Bindi, e cioè che la vecchia e appesantita Commissione deve finalmente aprire gli occhi non solo sulla mafia ma anche e soprattutto sull’antimafia? La visita in Sicilia era programmata da tempo, nel quadro di un giro di ricognizione che comprende diverse tappe, ma l’arrivo dei commissari parlamentari a Caltanissetta è coinciso martedì con l’arresto di Roberto Helg, il presidente della Camera di Commercio di Palermo che, dopo tanti proclami contro le estorsioni e la firma di tantissimi protocolli di legalità, era stato sorpreso all’aeroporto di Punta Raisi mentre incassava una tangente di centomila euro per agevolare il rinnovo della licenza a un pasticciere. Innegabile esempio di un’antimafia di facciata, anzi da sottoscala, che qualche dubbio in seno alla Commissione lo avrà di certo sollevato. Non solo. A metà febbraio proprio Caltanissetta fu teatro di uno dei più clamorosi ribaltamenti di immagine: Antonello Montante, numero uno di Confindustria Sicilia, braccio destro di Giorgio Squinzi per la legalità e protagonista con Ivan Lo Bello della prima rivolta degli imprenditori siciliani contro boss e picciotti, è finito all’improvviso sotto inchiesta per concorso esterno. Tre o cinque pentiti – non c’è mai una sola verità negli intrighi di mafia – l’avrebbero tirato dentro una storiaccia di amicizie vecchie nate tra paesani in quel di Serradifalco, con l’immancabile corredo di una fotografia, scattata venti e passa anni fa in compagnia di un testimone di nozze poi rivelatosi un malacarne, e con quel codazzo di sospetti, allusioni, illazioni e circostanze tutte da verificare che i pentiti avrebbero consegnato nelle mani dei magistrati. Mentre per Helg la verità, purtroppo per lui, è a portata di mano, per il capo di Confindustria Sicilia ogni interrogativo è destinato a suscitare nuovi interrogativi. Intanto, si saprà mai la verità? Chi stabilirà se Montante, tuttora protetto da una scorta che lo Stato gli garantisce da quattordici anni, è un campione di legalità o un doppiogiochista senza scrupoli? I pentiti che lo mascariano sono mossi da un sincero spirito di giustizia o sono mandati da quegli stessi boss che Confindustria ha combattuto ed emarginato? E se Montante, ipotesi tra le ipotesi, fosse stato silurato da un’altra antimafia magari gelosa e invidiosa del fatto che lui, in virtù dei suoi rapporti con troppi prefetti e questori, fosse diventato una macchina da guerra buona per conquistare altri galloni e altre posizioni di potere? E se dopo le guerre di mafia stessimo per un paradosso assistendo a una guerra tra antimafie? Lo scontro esploso sulla gestione dei beni confiscati, patrimonio di quasi cinquanta miliardi, non potrebbe essere la spia di un conflitto ben più profondo e lacerante? Per la Commissione presieduta da Rosy Bindi l’annunciata indagine “sul movimento antimafia” non sarà comunque una passeggiata. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità. Il caso Montante sta lì a dimostrarlo. Se da un lato ci sono due procure che hanno ritenuto di metterlo sotto inchiesta, quantomeno per verificare le dichiarazioni dei pentiti, dall’altro lato c’è la procura nazionale antimafia che pochi giorni dopo ha ritenuto anzi opportuno inviare al Parlamento una relazione nella quale si legge che Confindustria, proprio per la sua azione di contrasto, è costantemente sotto attacco dei boss, sia a Caltanissetta che nel resto della Sicilia. Rosy Bindi, per evitare equivoci e strumentalizzazioni, ha tenuto a precisare che la Commissione si muoverà “con grande serenità e con intenti non polizieschi, ma politici”. E ha pure tenuto a sottolineare che, “per quanto ci riguarda, abbiamo ritenuto importante l’impegno di Confindustria e anche di altre associazioni nella lotta alla mafia”. Ma ormai il dado è tratto, l’indagine si dovrà fare. E sarà un’impresa difficilissima per la presidente Bindi tenere a bada i cinquanta commissari (25 senatori e 25 deputati) che fin dai prossimi giorni si troveranno di fronte a un arcipelago di sigle, a una complessità di storie e motivazioni, a diverse se non addirittura contraddittorie “visioni del fenomeno”. Fino a quando la materia d’indagine era la mafia, con il suo reliquario di nefandezze, era sin troppo facile mantenere l’unità della Commissione. Ma di fronte all’indagine sull’antimafia e sulle antimafie, ogni partito finirà per seguire la propria convenienza politica. Si parlerà di Crocetta? Quelli che lo sostengono, e sono politicamente schierati con lui, produrranno una relazione di maggioranza per assolverlo da ogni peccato, anche il più lieve; mentre gli oppositori firmeranno quella di minoranza, ovviamente per ribadire le loro critiche e le loro riserve. Lo stesso se mai si discuterà di come la legalità è stata praticata e gestita, nei rispettivi ruoli, da Ingroia o da Montante o da don Ciotti: gli uni tenderanno a glorificare, gli altri tenderanno a demonizzare. E’ la politica, bellezza. Del resto, è dal 1962 che il Parlamento sforna, ad ogni legislatura, una nuova commissione bicamerale. Sono cinquantatré anni che l’Antimafia, quella con la maiuscola e la magnificenza delle istituzioni parlamentari, vaga da un angolo all’altro dell’Italia, raccogliendo documenti e testimonianze per conoscere e approfondire, per combattere e prevenire. Sono cinquantatré anni che a San Macuto si redigono verbali e ci si accapiglia su ogni tesi, su ogni faldone, su ogni dossier. Cinquantatré anni di dibattiti, mai una verità.

GLI EDITTI MEDIATICI DELL’ANTIMAFIA.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

A proposito delle vittime della Mafia e del Terrorismo islamico ed i soliti pregiudizi idioti. Per una volta, noi meridionali d’Italia vittime del razzismo becero ed ignorante, mettiamoci nei panni di quei mussulmani che terroristi non sono.

Il 19 marzo 2016 i media parlano della cattura di Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre 2015, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, gli ha fatto da rifugio. Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal Parlamento Europeo. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi, o anche solo estremisti, o solo gente ignara della presenza del terrorista? La risposta perentoria la dà Alessandro Sallusti su “Il Giornale” del 19 marzo 2016. “No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede» - dice Sallusti -. Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro”.

Certo ci ricordiamo le immagini di quando, in talune città del Sud Italia, alla cattura di qualche malvivente, in sua difesa, i suoi pochi amici e parenti si frapponevano alle forze dell’ordine. Non vuol dire, però, che il resto della cittadinanza fosse criminale e ne agevolasse la latitanza.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele.

Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta, ma ce ne passa a considerare tutti i comunisti come terroristi durante gli anni di piombo con i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.

L’assioma vale, addirittura, per l’idiotismo. Sì perché dell’idiotismo si fanno partiti politici che vanno per la maggiore. Incompetenti tuttologi mediatici. Se non si è padano si è meridionale o mussulmano terrorista. Fa niente se tra i padani ci sono gli stessi trapiantati arabi, africani e meridionali, la cui propria origine denigrano richiamando mafiosità e islamicità terroristica. Qualcuno dice che le altre religioni (ebrei, buddisti, ecc.) e le altre comunità (cinesi, filippini, ecc.) non si sentono per niente: dove li lasci, lì li trovi. Forse, perché, come gli scandali al nord, non si ha interesse a parlarne e la devianza, quando non è islamica o meridionale, non fa notizia?

Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione.

Noi meridionali d’Italia che non siamo mafiosi e non siamo complici dei mafiosi (tipo Riina o Provenzano) né siamo collusi con gli antimafiosi che le aziende le mettono ko in nome dell'antimafia politica e dell’espropriazione proletaria; noi che non siamo tali ma additati come se lo fossimo, cosa penseremmo se qualche idiota dicesse che, per difendere la propria sicurezza, si dovrebbe andare a bombardare da Roma in giù tutto il Sud Italia come si farebbe in Siria o in Libia, perchè a Napoli come a Palermo son tutti mafiosi per antropologia? O cosa penseremmo se si dicesse che si dovrebbero cacciare tutti i meridionali dal meridione d’Italia, perchè sono biologicamente e culturalmente mafiosi, come si vorrebbe fare in Europa con tutti i mussulmani, considerati, da questi idioti, tutti terroristi?

La risposta sarebbe: queste idiozie lasciamoli uscire dalle bocche dei soliti noti. Ma altrettanto idiota sarebbe appoggiare la cazzata opposta del falso buonismo: accogliamo pecore e porci, anche quando non siamo in grado di ospitarli e di sostentarli ed in nome della multiculturalità rinunciamo in casa nostra alla nostra cultura, ai nostri usi ed alle nostre tradizioni.

Basterebbe, per buon senso, per difenderci da mafia e terrorismo islamico, solo esercitare i dovuti controlli all’entrata e far rispettare le leggi durante il soggiorno, inibendo, così, le speculazioni politiche della destra e le speculazioni economiche della sinistra. Speculazioni create ad arte per gli italioti.

“Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. cit. On. Marco Minniti Sottosegretario di Stato del Governo Renzi. Platì e la Calabria Tutta non meritano un accostamento del genere non solo è fuori luogo, ma offende una Cittadina come Platì e la Calabria intera, che meritano ben altra attenzione per la loro condizione geografica e la povertà del loro territorio.

Nella Molenbeek della 'ndrangheta. Il senatore di Forza Italia a Platì, comune calabrese sciolto due volte per mafia. Dove i cittadini si sono sentiti offesi dalla parole del sottosegretario di Stato Marco Minniti. Colpevole di aver paragonato il radicamento jihadista nella cittadina belga a quello della 'ndrangheta nel municipio aspromontano, scrive Giovanni Tizian il 30 marzo 2016 su "L'Espresso". «Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeek è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria». L'analisi è del sottosegretario di Stato con delega ai servizi Marco Minniti. Tanto è bastato a scatenare la polemica tra i cittadini e i vecchi politici del paese. Per questo hanno convocato d'urgenza una manifestazione, a tre mesi dalle comunali, nella sala parrocchiale con un un ospite d'eccezione: Domenico Scilipoti. Il senatore siciliano, eletto in Calabria, ha provato, a modo suo, a difendere gli interessi del territorio. Così alla manifestazione ha fatto sentire la sua voce, definendo «infelice» l'uscita di Minniti, aggiungendo poi: «Sono sicuro che non voleva offendere nessuno e che spiegherà le sue parole. Se però l’assemblea lo ritiene opportuno, avvierò un’azione di sindacato ispettivo sulla questione». I presenti, infatti, chiedevano a gran voce persino un'interrogazione sulla vicenda. Il senatore Scilipoti nel suo discorso ha citato varie volte Gesù, ma mai una volta la parola 'ndrangheta. Perché?, a Platì esiste la 'ndrangheta?, verrebbe da chiedersi. La frase del sottosegretario potrebbe sembrare a effetto, denigratoria, ma, purtroppo, non lo è. Ragionando sui fatti e non sulle opinioni-emozioni i dati investigativi e giudiziari danno ragione a Minniti. Platì, comune dell'Aspromonte, è una delle centrali della 'ndrangheta. Vengono da qui i clan più abili nel gestire il narcotraffico a livello internazionale e quelli che hanno messo radici fino in Australia, dove ancora oggi spadroneggiano. Qui sono stati uccisi due sindaci dalle cosche. Questo è il municipio sciolto due volte per mafia e dove alle scorse comunali non si è andato a votare per mancanza di candidati. E sempre qui i latitanti fino a qualche anno fa si nascondevano nel reticolo di bunker costruiti ad hoc per le famiglie del crimine. Infine, sono di Platì i boss che hanno messo le mani sull'hinterland milanese. Che il controllo del territorio, dunque, sia totale da parte della mafia calabrese è evidente. Così come lo è nel paese belga da parte dei terroristi, dove si sentono protetti dalla rete jihadista. Con la differenza che a Molenbeek i fanatici del Califfato non godono delle complicità politiche della 'ndrangheta. Quando l'organizzazione mafiosa controlla il territorio vuol dire che gestisce anche il consenso. Cosa che avviene in tutti i comuni ad alta densità mafiosa. Da Sud a Nord. I vari Salah Abdelslam non hanno la copertura politica. Non hanno complici nelle istituzioni. Le 'ndrine sì. E in questo sono molto più simili all'Is così come lo conosciamo in Siria e Iraq, dove agisce, secondo il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, come un vero e proprio Stato-mafia. Accostare, quindi, la cittadina belga e il comune dell'Aspromonte potrebbe essere persino riduttivo per descrivere il potere criminale dei clan. Le 'ndrine, infatti, rispetto ai gruppi jihadisti sparsi in Europa hanno una capacità maggiore di condizionare le nostre vite. Solo che non ce ne accorgiamo. Perché non mettono bombe e non uccidono in maniera eclatante. Distruggono l'economia e la democrazia in silenzio, senza creare allarme sociale. Ma i primi disastri sono già evidenti, e non da ora: una regione a pezzi; giovani che emigrano; politica terrorizzata, e perciò immobile, quando non complice. Per questo invece di indignarsi per le parole di Minniti, forse è arrivato il momento di ribellarsi alla 'ndrangheta. Che è ancora viva, fa affari e corrode la libertà. A Platì a giugno si voterà. Dopo che le scorse comunali sono saltate per mancanza di candidati. Il municipio sciolto due volte per mafia, aspetta una ventata di democrazia. Annarita Leonardi, che nulla c'entra con Platì, ha deciso di candidarsi. Lei è una trentenne di Reggio Calabria, renziana e pronta al sacrificio per un comune che fino a pochi mesi fa conosceva appena. Ha buone possibilità, ma dovrà vedersela probabilmente con una vecchio volpone della politica locale di Platì: Francesco Mittica, ex sindaco di Platì, la cui amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Ancora lui, insomma, per rinnovare la molenbeek della 'ndrangheta. Dove tutto scorre come prima, nonostante la visita di Scilipoti. Perché i clan a Platì amministrano senza bisogno di elezioni. Comandano, semplicemente.

PLATI' MINNITI E IL GIRONE INFERNALE DELLA LOCRIDE, scrive Aldo Varano Martedì 29 Marzo 2016 su "Zoom Sud". Il senatore Minniti, che di solito sta accuratamente lontano dai giornali e da qualsiasi tipo di esposizione mediatica, perché impegnato in un’attività nazionale straordinariamente importante per il nostro paese e la sua sicurezza, ha detto che “il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. Non se ne abbia a male Minniti e se ne faccia una ragione: è difficile accettare e convincersi che a Molembeeck, quasi 82mila abitanti, il terrorismo sia tanto radicato quanto la ‘ndrangheta a Platì. Naturalmente non mi riferisco alla realtà di Platì. Mi riferisco alla sua immagine. Un’immagine che gli è stata cucita addosso con responsabilità diffuse e non estranee alla Calabria, alla sua politica, ai suoi intellettuali. Un’immagine radicata e terribile creata da un meccanismo infernale. In quel meccanismo ci sono le inadempienze antiche dello Stato che, da una parte, non è mai intervenuto a favore dei deboli e dei faticatori di Platì per aiutarli a uscire dal tunnel dell’arretratezza e del sottosviluppo; e dall’altra si è ben guardato dall’intervenire con tutta la forza dello Stato per stroncare una malapianta mafiosa che a Platì è stata sempre potente e aggressiva condizionando pesantemente la vita dei suoi abitanti. Su questi fatti reali si è costruita un’opinione che, come tutti sanno, diventa a sua volta un altro fatto molto più potente di quello che lo ha originato. E’ l’opinione che crea le idee che muovono persone, pregiudizi, sentimenti e popoli. Quell’immagine, a cui ha fatto riferimento Minniti per il suo paragone, che è legittimo ritenere infelice, del resto, è nota a tutti in Calabria e nella Locride da dove è stata esportata in Italia e non solo. Dannoso far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia. Il peggio che possa accadere ora è che un episodio minore possa venire strumentalizzato per costruire a Platì altri danni. Mi riferisco alle iniziative che anziché fare i conti reali con quell’immagine attraverso l’inventario e il rovesciamento degli errori che abbiamo alle spalle, puntano e sperano in un fermo-immagine della situazione dentro la quale, magari, agguantare qualche pezzetto di potere, non trasparente in più. E non si tratta, è bene precisarlo, di forze della politica, dei ceti sociali o della geografia nettamente spaccate a metà. C’è un problema gigantesco in Calabria che si riferisce prima di tutto alla Locride come girone tra i più pericolosi dell’orrido inferno calabrese. Platì viene dopo. Il problema di cui parlo è quello di un racconto veritiero della nostra terra, non viziato né dalla voglia di nascondere o attenuare le nostre responsabilità, né costruito attraverso immagini enfatiche dei fenomeni che la devastano. Un racconto veritiero non come attenuante generica, ma perché solo un racconto veritiero può dar vita a una strategia che, con un impegno corale dei cittadini, possa assestare alla ‘ndrangheta colpi di maglio decisivi e mortali. Colpisce che personalità autorevoli della Locride abbiano scelto di polemizzare in modo francamente enfatico con il senatore Minniti senza accorgersi che nello stesso giorno in cui l’hanno fatto, senza che nessuno di loro se ne preoccupasse, uno dei più grandi giornali italiani, che influisce e orienta pezzi decisivi dello Stato e del potere, ha proposto con grande evidenza in prima pagina la ricostruzione di una Calabria, più precisamente della Locride, come il delinquente dell’Italia. Una regione composta da 2milioni di abitanti compattamente dedita al delitto o comunque con esso collegata. Peso le parole. Ma se la Calabria è il motore devastante che “alimenta le voglie e le ossessioni quotidiane di tre milioni di italiani – com’è stato scritto la domenica della Resurrezione - e ne scatena l’aggressività nelle strade e nelle case, esondando dai suoi argini da Milano a Roma, da Bologna a Siena, da Napoli a Palermo per ritrovare la sua fonte rigeneratrice nella Locride e consegnare alle cosche calabresi un tesoro da 30 miliardi l’anno”, se è questo motore, la Calabria non ha più speranza. Io credo che questa analisi sia sbagliata e credo ostacoli la lotta alla ‘ndrangheta. Perché è chiaro che se le cose stanno a quel modo i cittadini non saranno mai più dalla parte della giustizia. Ma se è così lo Stato, le autorità, i governi, le Procure della Repubblica devono avere il coraggio di riconoscerlo solennemente e trarne le conseguenze. Se è così non si può essere complici. Bisogna chiedere allo Stato di lavorare a un radicale spopolamento della Calabria per rigenerarla facendola rifiorire con altre e diverse popolazioni. Non ci si può rassegnare ad accettare la ‘ndrangheta magari perché senza il suo giro economico illegale l’intera economia legale (della Calabria e non solo) andrebbe all’aria. Né si può accettare di vivere solo grazie alla diffusione di morte e dolori nel resto del paese. Sia chiaro. I calabresi e i cittadini della Locride (o quelli che ne sono originari) non abbiamo interesse a nascondere nulla. Solo chi odia la nostra terra può sottovalutare o anche solo attenuare la gravità del fenomeno mafioso. La Calabria deve continuare a chiedere la sconfitta della mafia, la sua scomparsa definitiva dall’orizzonte storico della Calabria, la sua riduzione a fenomeno irrilevante. E deve continuare a denunciare la lentezza di questa lotta di liberazione che certo diventa impossibile se la situazione dovesse veramente essere quella descritta nei giorni scorsi dalla grande stampa. Una lotta lenta anche perché quell’analisi frena necessariamente la reazione bloccando la voglia di riscatto. Solo nei romanzi si può lottare contro i mulini a vento.

E poi...Minniti chi?

TG La 7: Bufera su Marco Minniti, nel ’94 e nel ’96 i voti della ‘ndrangheta, scrive il 19 giugno 2014 Antonio Giuseppe D’Agostino su "CM News". Suscita non poche perplessità la notizia che vede coinvolto il dirigente del Partito Democratico, Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi del Governo Renzi, che sta avendo eco sui vari siti internet dopo la messa in onda di un telegiornale. Ieri mattina, il TG di La delle 7.30 ha inserito il nome del sottosegretario all’interno del processo che coinvolse il deputato Amedeo Matacena. Nei verbali d’interrogatorio di un presunto ex killer della ‘ndrangheta pentito, sembrerebbe che l’attuale sottosegretario abbia avuto l’appoggio delle famiglie mafiose durante le elezioni del 1994 e del 1996. Dopo lo scalpore relativo all’EXPO e al MOSE di Venezia, il Partito democratico torna al centro degli scandali con gravi rivelazioni che, se ritenute attendibili, potrebbero colpire uno dei dirigenti più quotati dei democrat. Secondo quanto trascritto nei verbali, del presunto ex killer, verrebbe affermato al pm “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. “Minniti?”, chiede il pm, e il pentito replica affermando “Marco Minniti”. Durante l’interrogatorio il collaboratore di giustizia entra nel dettaglio evidenziando come l’attuale sottosegretario “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Il verbale è stato utilizzato dagli inquirenti per evidenziare i rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘ndrangheta, un classico scambio di favori fra potere politico e potere mafioso, che ora potrebbe coinvolgere anche il sottosegretari del PD. Un connubio che garantì, nel 1996, l’elezione del deputato Matacena, ma non quella di Marco Minniti che per soli 600 voti non venne eletto, all’interno della coalizione dell’Ulivo.

Bufera sul Pd, a Minniti i voti della ‘ndrangheta? “Don Rocco Musolino lo appoggiava per averlo fatto uscire dal carcere”, scrive il 18 giugno 2014 "StrettoWeb". Una nuova bufera scuote il Partito Democratico già alle prese da settimane con i guai giudiziari che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti prima nelle note vicende riguardanti l’Expo di Milano, poi per il Mose di Venezia. Gravissime le nuove rivelazioni fornite questa mattina, nell’edizione delle 07.30, dal tg di La Sette consultabile cliccando qui. E stavolta si tratta di Reggio Calabria. Nell’inchiesta reggina su Scajola, Matacena e Chiara Rizzo, spunta a sorpresa Marco Minniti, dirigente del Partito Democratico che negli ultimi 15 anni ha spesso ricoperto ruoli di governo. Quasi sempre sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, ruolo che ricopre anche in questo momento. Minniti calabrese di Reggio – dichiara la giornalista del TG di LA Sette – compare nel verbale di interrogatorio di un killer della ‘Ndrangheta poi collaboratore di giustizia che nel 2005 entra nel processo Matacena. Dice al pm Andrigo Antonino Zavattieri: “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. Minniti? chiede il pm. “Marco Minniti” risponde il pentito, “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Le accuse contro Minniti sono contenute nelle 30 pagine dell’integrazione della richiesta dell’applicazione di misure cautelari depositata dai pm reggini che domattina discuteranno davanti al riesame il ricorso per veder riconosciuta l’aggravante mafiosa bocciata dal GIP di Reggio quando inizio Maggio ordinò l’arresto di Scajola, Matacena Chiara Rizzo e altri 5 indagati. Il verbale del collaboratore di giustizia serve ai magistrati per evidenziare degli stabili rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘Ndrangheta erano finalizzati allo sviluppo di attività imprenditoriali sia a proprio favore che a favore delle cosche, nonché ad ottenere voti. Il classico do ut des, tra politico e criminalità organizzata, alle politiche del ’96, quelle di cui parla il pentito, Minniti era candidato per l’Ulivo alla Camera dei Deputati nel collegio di Villa San Giovanni ma per 600 voti non venne eletto, risultando battuto proprio da Matacena che correva con il Popolo delle Libertà”.

“Porta a Porta” programma della Rai condotto per anni da Bruno Vespa. Il salotto buono dove la mafia è di casa. E’ prerogativa della politica dire “è cosa nostra”. Guai quando essi sono spodestati e le interviste dedicate all’altra sponda.

Porta a Porta Rai 1 del 6 aprile 2016 alle ore 23.35. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Tempa Rossa. Petrolio e mafia. Potenza, Corleto Perticara e la Basilicata. Voti di scambio mafiosi. No. Voti PD antimafiosi.

Bruno Vespa: tutte le interviste che hanno fatto scalpore. Dai Casamonica al padre di Manuel Foffo fino al figlio di Totò Riina: per "Porta a Porta" vent'anni di grandi esclusive e polemiche infuocate, scrive il 7 aprile 2016 "Panorama".

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Vent'anni al centro della scena televisiva italiana. Vent'anni di interviste e dirette che hanno fatto buona parte della storia della Rai degli ultimi due decenni.

Vent'anni di momenti indimenticabili come la telefonata a sorpresa di Papa Giovanni Paolo II durante la puntata del 13 ottobre 1998 dedicata al ventennale del pontificato Wojtyla.

Vent'anni di trovate a effetto: dalla scrivania che ospitò la firma del contratto con gli italiani di Silvio Berlusconi ai plastici creati ad hoc per tutti i principali casi di cronaca.

Vent'anni che hanno consacrato Porta a Porta a "terza camera del Parlamento" e regalato a tanti personaggi (avvocati, magistrati, criminologhi, cuochi, ballerini, sportivi e così via) fama e visibilità grazie allo spazio offerto loro da Bruno Vespa.

Ma anche vent'anni di polemiche per le interviste, spesso in esclusiva, realizzate dal giornalista più criticato, imitato e corteggiato d'Italia. Scorri la lista delle puntate che hanno fatto più discutere.

Il figlio di Totò Riina. L'ultimo caso risale a ieri sera. Il protagonista è Salvo Riina, figlio del boss della mafia Totò e autore di un libro in cui descrive un padre “premuroso e amorevole”. L'intervista è andata in onda nonostante le proteste infuocate rimbalzate sulle agenzie, i siti, i social per tutta la giornata. I vertici di Viale Mazzini hanno infatti dato il via libera alla scelta di Vespa: "è informazione". Ma la lista degli insorti contro l'ospitata tv del figlio del più sanguinario dei capi di Cosa Nostra è lunga: dal presidente del Senato Pietro Grasso alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, dai parenti delle vittime della mafia (Maria Falcone, sorella di Giovanni ucciso a Capaci, si è detta “costernata”, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha parlato di caso “vergognoso”) a un ampio schieramento bipartisan di politici (invitato in studio l'ex segretario dem Pier Luigi Bersani ha disertato), dal sindacato Usigrai alla Fnsi. Già scattata la richiesta di convocazione dei vertici della Rai in Commissione parlamentare di vigilanza e, da parte di alcuni, quella di dimissioni per Bruno Vespa. Ma cosa ha detto in onda Salvo Riina? L'uomo ha rievocato la sera del 23 maggio del 1992, quando, all'altezza di Capaci, mille chili di tritolo fanno saltare in aria la strada che collega l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo uccidendo il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutta la scorta. “Eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene, abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c'era mio padre che guardava i telegiornali. Non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell'attentato”. A proposito dell'arresto del genitore ha aggiunto di non poterlo condividere.

Il padre dell'assassino di Luca Varani. Il 7 marzo è la volta di Valter Foffo. L'uomo è il padre di Manuel, uno dei due giovani che confessarono il brutale omicidio di Luca Varani, il giovane di 23 anni che, prima di essere ucciso in un appartamento a Roma, venne torturato per almeno due ore dai due che si trovavano sotto l'effetto della cocaina. A sollevare polemiche furono, anche in questo caso le parole dell'uomo, apparso ai telespettatori inspiegabilmente troppo tranquillo, che ha descritto il figlio come “un ragazzo modello, forse eccessivamente buono, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Non uno sbandato”. Parole di affetto respinte anche dal figlio che, interrogato a Regina Coeli, confesserà di aver sfogato sul povero Luca la rabbia covata proprio contro il padre. Ma a finire sul banco degli imputati sarà soprattutto Vespa, accusato di aver offerto un palcoscenico a una tesi difensiva basata sul presupposto che a scatenare la furia omicida dell'assassino fosse stata in realtà, non un'indole criminale, ma solo l'assunzione di stupefacenti. In questo caso a scatenarsi furono soprattutto i social che accusarono il programma di Rai1 di “sciacallaggio”.

I Casamonica. Non era trascorso nemmeno un mese dal funerale di Vittorio Casamonica che bloccò un intero quartiere di Roma sollevando un vespaio di critiche e polemiche non solo sulle prime pagine di tutti i quotidiani romani ma anche sulla stampa di mezzo mondo, che ecco apparire nel salotto di Bruno Vespa figlia e nipote. I Casamonica sono una famiglia di etnia nomade originaria dell'Abruzzo che ormai si è stabilizzata da anni nella Capitale dove si è specializzata in attività criminali quali, in particolare, racket, usura e spaccio di stupefacenti. Il 20 agosto del 2015 Vittorio Casamonica viene omaggiato da una gran folla che segue il corteo funebre, con tanto di carrozza trainata dai cavalli neri, note del Padrino intonate dalla banda e lancio di petali di rosa da un elicottero in volo a pochi metri dai tetti della abitazioni, fino alla Chiesa addobbata con una gigantografia del boss in abiti papali salutato come “re di Roma”. La stessa chiesa, per altro, che rifiutò di celebrar ei funerali di Piergiorgio Welby. L'8 settembre Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote di Vittorio, si presentano a “Porta a Porta” per raccontare la loro “verità” e difendere il loro congiunto dalle “tante bugie e calunnie” dette sul conto di un uomo “che tutti chiamavano Papa perché era troppo buono, come Francesco” e su quello della loro famiglia, “gente onesta”. Pd, Campidoglio, Vigilanza e Antimafia, M5S e Sel partono all'attacco. La direzione di Rai1 si schiera con il conduttore, ma decide di programmare, a scopo risarcitorio, un'intervista con l'assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella. Vespa si difende: “Lasciateci fare il nostro mestiere. Quando Biagi ha intervistato Sindona, c'erano forse le vittime? E c'erano le vittime quando è stato intervistato Buscetta o quando Santoro ha intervistato Ciancimino?”.

Il nuovo fidanzato di Erika. Nel dicembre del 2001 sbarca in Commissione di vigilanza Rai il caso “Mario Gugole”. Di chi si tratta? Mario Gugole è un giovane di 24 anni, di professione meccanico con il sogno di diventare dj che fin dai primi giorni di prigionia della 16enneErika De Nardo, arrestata per aver ucciso madre e fratellino la sera del 21 febbraio del 2001 a Novi Ligure, insieme al fidanzatino di allora Omar Favaro, comincia a scriverle lettere d'amore in carcere. I due non si erano mai conosciuti prima ma nel giro di qualche mese il loro rapporto epistolare si trasforma in una sorta di relazione a distanza. Quando la storia viene svelata dai media, tutte le principali testate giornalistiche fanno a gara per intervistare Gugole. Il quale è ben contento di mettersi a disposizione ma di certo non a titolo gratuito. Le sue apparizioni a Domenica in e Porta e Porta sarebbero costate infatti alla Rai ben 25 milioni di vecchie lire. Ma non è solo questo aspetto ad attirare contro Vespa le solite critiche. Secondo l'Osservatorio sui Minori il ragazzo sarebbe infatti “accomunato ad Erika da un atteggiamento antigenitoriale che la Rai non dovrebbe diffondere”. Bruno Vespa però non ci sta e ricorda che Gugole è stato intervistato da Tg1 e Tg5, e da molti giornali: “Perché solo noi non potremmo ascoltarlo?”.

Gli assassini di Marta Russo. A tre anni dall'apertura del programma, Bruno Vespa finisce nel polverone per una puntata di “Porta a Porta” dedicata all'omicidio della studentessa romana Marta Russo avvenuto il 9 maggio del 1997 in un viale dell'Università di Roma La Sapienza. Marta rimane uccisa da un colpo di pistola sparato da una finestra dell'aula assistenti dell'istituto di filosofia del diritto. A premere il grilletto un giovane assistente, Giovanni Scattone, affiancato dall'amico Salvatore Ferraro. Entrambi vengono invitati da Vespa nel giugno del 1999 dopo la condanna in primo grado. I genitori della ragazza chiedono di bloccare la messa in onda. Non comprendono come sia possibile offrire loro “ulteriore spazio del servizio pubblico televisivo” nonostante la vicenda sia stata già ampiamente documentata dai media. In molti sono dalla loro parte ma il giornalista decide di andare dritto per la sua strada: “Bloccarci - disse allora Vespa - sarebbe un precedente mortale”. Ma le polemiche riguardarono anche il presunto cachet riservato ai due ospiti.

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Da Sindona a Riina jr: i volti della mafia in tv.

Enzo Biagi intervista Michele Sindona in America, nel carcere di Otisville (New York): è il 24 ottobre 1980.

Il boss Luciano Liggio con Enzo Biagi il 20 marzo del 1989: l’intervista va in onda a «Linea Diretta» su RaiUno.

Nel 1986 Enzo Biagi intervista Raffaele Cutolo in un’aula del tribunale di Napoli dove stavano processando il capo camorrista.

Nel 1991 Michele Santoro ospita a «Samarcanda» il mafioso Rosario Spatola.

Il 24 luglio 1992 Enzo Biagi intervista negli Stati Uniti per «Speciale Tg7» Tommaso Buscetta, che rifiuta di essere considerato un pentito e parla di Giovanni Falcone: «Doveva morire, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica».

Nel 1998 Michele Santoro intervista a «Moby Dick», su Canale 5, il pentito Enzo Brusca che diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il bambino Giuseppe Di Matteo.

Il 14 marzo 2012 Angelo Provenzano, figlio del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, è intervistato dalla giornalista Dina Lauricella per «Servizio Pubblico», la trasmissione di Michele Santoro su La7.

Sempre per «Servizio pubblico», nel marzo 2012 Sandro Ruotolo intervista Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino: testimone di giustizia, indagato per calunnia, concorso in associazione mafiosa e concorso in riciclaggio di denaro.

Il 24 agosto 2013 Carmine Schiavone viene intervistato da SkyTg24: «Le istituzioni ci hanno abbandonato», dice l’ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia.

Il 30 gennaio 2014 è ospite di Michele Santoro, nello studio di «Servizio Pubblico», Vincenzo Scarantino, il pentito che con false accuse fece condannare persone innocenti per la strage di via D’Amelio. Fu arrestato alla fine della puntata.

L’8 settembre 2015 Bruno Vespa ospita a «Porta a Porta» Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote del defunto boss Vittorio celebrato con esequie-kolossal a Roma il 20 agosto.

La puntata del 6 aprile 2016 di «Porta a Porta» con l’intervista a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del superboss corleonese Totò Riina e condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa (pena già scontata).

Quel libro che non ho mai pubblicato, scrive Lillo Garlisi su “La Repubblica” il 6 febbraio 2018. Lillo Garlisi - Amministratore delegato di Melampo Editore. La mail piomba nella casella di posta di “Melampo Editore” in una calda serata milanese del luglio 2013. Nell’affollamento di manoscritti e proposte editoriali che arrivano quotidianamente, l’oggetto in questo caso non può passare inosservato: “Schema base capitoli Mi chiamo Riina”. Leggo immediatamente il testo. A scrivere è Salvatore Giuseppe Riina, “il terzo figlio di Totò Riina”. Poche righe, secche, essenziali, per spiegare che ha scritto un libro sulla sua vita e la sua famiglia (testuale), “la famiglia di Totò Riina, il Capo dei Capi”. In allegato il libro non c’è. C’è solo una pagina con una struttura dell’indice. Il primo istinto è quello di rispondere: “No, grazie. Non ci interessa. Noi stiamo dall’altra parte”. Decido però di lasciar sedimentare la cosa per una giornata, ma inevitabilmente cominciano a ronzarmi per la testa delle domande senza risposta. La prima delle quali è: può una casa editrice che ha fatto dell’impegno civile e della conservazione della memoria la propria bandiera e la propria missione, non dico pubblicare, ma anche solo prendere in considerazione l’idea di avere in catalogo la versione della famiglia Riina sulle drammatiche e sanguinose storie di mafia? E poi: perché Salvo Riina lo invia proprio a Melampo, casa editrice che ha tra i suoi autori nomi come Rita Borsellino, Antonino Caponnetto, Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa? È il risultato di una proposta inviata a tappeto a un certo numero di sigle editoriali o c’è dietro un raffinato disegno di posizionamento su un catalogo e uno scaffale ben preciso? Il giorno dopo comincio a fare qualche telefonata per chiarirmi le idee. E anche alcune ricerche su Google, perché il web nasconde ma restituisce. Il quadro che ne emerge è abbastanza chiaro: il giovane rampollo della famiglia Riina ha avviato da qualche tempo un’operazione di “ripulitura” della sua immagine con pubbliche dichiarazioni e interviste su giornali. Si riscontra però nei suoi interventi una certa assenza di fatti. Quali sono i suoi obiettivi allora? Ricostruire un’immagine personale o familiare? Lanciare messaggi a chi di dovere o a Corleone (perché poi sempre lì si ritorna) per far capire che comunque “loro” esistono e ci sono sempre? Riguardo al manoscritto che ci viene proposto e che non abbiamo ancora visto, il dibattito all’interno della casa editrice è faticoso. Rifiutare? Lasciar cadere la cosa? Accettare di portare avanti la discussione? Alla fine decidiamo di rispondere. E di andare a vedere di che si tratta. La motivazione della decisione è semplice anche se terribilmente difficile. Perché riguarda il ruolo dell’editore. E l’editoria è merce delicatissima da maneggiare. Pubblicare qualcosa significa inevitabilmente metterci sopra il tuo marchio, la tua faccia, la tua storia, la tua credibilità. Per quanto l’editore se ne possa “dissociare” nel momento in cui pubblichi un libro lo hai fatto tuo. Affrontandolo da questo punto di vista non c’erano neanche le premesse per alcun tipo di prosecuzione del discorso. Ma si poteva rinunciare a priori alla possibilità di poter aggiungere un tassello – anche piccolo – alla ricostruzione della tragica storia intrisa di sangue della Sicilia (quindi dell’Italia)? Si può pagare un prezzo per aggiungere un brandello di verità? Decidiamo quindi di “andare a vedere”. E rispondo a Salvo Riina chiedendo di spedire il manoscritto ma premettendo e ben specificando chi siamo, qual è l’identità di Melampo e che comunque in nessun caso saremmo mero stampatore di un manoscritto. Che volevamo vedere, insomma, e poi entrare nel merito di ogni fatto narrato. Apro quindi il carteggio. Non trovo però nell’interlocutore grande voglia di esibire l’intero manoscritto. Procediamo via mail per un paio di settimane, nelle quali io continuo a dire chiaramente che per noi è necessario leggere il libro completo. Alla fine mi arrivano solo due (anche se corposi) capitoli. Li leggo con ovvio interesse e forte curiosità. Innanzi tutto non sfugge che dentro a quelle pagine ci siano delle stratificazioni: il racconto di Salvo Riina, la penna di un ghostwriter, l’intervento di un avvocato. I tre strati ci sono, si intrecciano ma si vedono tutti. Lascio le carte a qualche giorno di riflessione. Quando le riprendo in mano e le rileggo è chiaro che il libro non è pubblicabile. Trattasi di una storia senza storie. Ne emerge una vicenda di fatto negazionista e ininfluente. La storia di una famiglia “normale” in cui ci sono un padre, una madre, dei figli; una famiglia dove vengono trasmessi valori “tradizionali” e dove sostanzialmente accade quello che accade in una qualsiasi famiglia italiana. Non un fatto, non un nome, non una vicenda. Non si può chiedere a nessuno – neanche al figlio di Riina – di rinnegare il padre. Sarebbe inumano. Ma qui non c’è traccia di alcuna presa di distanza. È tutto un girarci attorno, un ignorare, un non sapere. Un raccontare di una sorta di normalità che non risulta credibile perché non può essere credibile la storia di un bambino, poi di un ragazzino (quando Totò ‘u curtu viene arrestato il figlio Salvo ha 15 anni) che racconta come quotidiana banalità l’usar un nome che non è il suo, il cambiar paese, città, abitazione (senza neanche dire come, dove e quando). No, siamo d’accordo che il male quasi sempre è banale. Ma anche la banalità del male può e deve essere raccontata, non nascosta dietro una normalità apparente e strumentale. Il libro poi è uscito – quasi tre anni dopo – per un altro editore con il titolo “Riina family life”. Fece un gran clamore e suscitò diverse interpretazioni e molte polemiche. Una su tutte la presentazione da Bruno Vespa con domande – pare – concordate. Ma questa è un’altra storia che andrebbe raccontata da un’altra parte.

Caso Vespa, l'editto della Rai "Supervisione sui giornalisti". Dopo la puntata con Riina jr, i vertici della tv di Stato scaricano il conduttore. Il dg Campo Dall'Orto: da settembre informazione controllata, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 8/04/2016, su "Il Giornale". Il giorno dopo la discussa intervista a Salvo Riina, figlio del boss dei boss, in commissione Antimafia va in scena il processo a Bruno Vespa. Convocati di fronte al parlamentino sono il presidente della Rai Monica Maggioni e l'amministratore delegato Antonio Campo Dall'Orto. Un appuntamento che si trasforma in un'occasione per emettere da parte dei parlamentari del Pd, di Sel e di M5S una sorta di condanna senza appello del conduttore, privo a loro dire del pedigree giornalistico per una intervista di inchiesta. Ma anche e soprattutto nel palcoscenico davanti al quale Antonio Campo Dall'Orto annuncia un cambio di rotta per il servizio pubblico radiotelevisivo e una stretta sulla libertà consentita alle trasmissioni giornalistiche di trattare determinati temi. «È una fase di transizione dove il direttore editoriale Verdelli è in carica da circa tre mesi. Prima abbiamo deciso di occuparci dell'informazione giornalistica in senso stretto, ovvero delle testate. Poi da inizio settembre bisognerà riuscire ad avere una supervisione che lavori sui contenuti giornalistici. Da quel momento si dovrà decidere insieme». Una facoltà di intervento da parte dei vertici Rai sull'autonomia delle singole trasmissioni potenzialmente foriera di pericolose implicazioni che in altri tempi avrebbe provocato inevitabili polemiche e proteste. Campo Dall'Orto spiega come dopo l'ospitata dei Casamonica e i fatti di Parigi sia nata la decisione di istituire una «direzione per l'informazione». «Non è più pensabile distinguere l'informazione dall'infotainment», dice l'ad ricordando che il direttore Carlo Verdelli è in carica da circa tre mesi. «In questo caso Verdelli ha preso una decisione su un contenuto che si è trovato sul suo tavolo, domani bisognerà agire all'origine sulla scelta di cosa fare o non fare». Rispetto al «caso Vespa» il presidente Rosy Bindi assume subito un profilo di attacco frontale, criticando un'intervista «che ha prestato il fianco al negazionismo e al riduzionismo». Una linea su cui si attestano sia il Pd che il Movimento cinquestelle concentrati su alcuni tasti ricorrenti. In particolare se le domande fossero state concordate, se ci fossero «regole di ingaggio» pre-ordinate e se il figlio di Riina sia stato pagato. Viene anche contestata l'idea di una puntata riparatrice, ma i vertici Rai spiegano che non si tratta di questo ma «di un ulteriore approfondimento sul tema della mafia». Sia Campo Dall'Orto che la Maggioni chiariscono che per l'intervista «non è stato corrisposto alcun pagamento. Le domande sono state fatte in libertà. La liberatoria è stata firmata soltanto alla fine», un punto questo che solleva diverse polemiche. Il presidente della Rai condanna, comunque, il tono complessivo dell'intervista. Tante cose «rendono insopportabile il contenuto. Dall'inizio alla fine è stata un'intervista da mafioso, quale è il signor Riina». La Maggioni, però, ferma la sortita polemica di Lucrezia Ricchiuti del Pd: «Non posso sentir dire da quest'aula che Bruno Vespa è un portavoce della mafia. È inaccettabile».

Vespa libero non piace al Pd. A Porta a Porta l'intervista ai Casamonica. La sinistra insorge, ma i "suoi" conduttori portavano i boss in studio, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale".  Ne abbiamo viste tante ma sentire una serie di politici di seconda fila voler insegnare a Bruno Vespa come si deve fare il mestiere di giornalista è davvero troppo. Gente che non sa fare il suo di mestiere, prova ne è lo stato in cui sono ridotti il paese, il parlamento e i partiti, ha aperto ieri un processo politico contro il conduttore di Porta a Porta colpevole di aver ospitato in studio l'altra sera, nella puntata che ha inaugurato la stagione, i figli (incensurati) di Casamonica, il boss mafioso il cui funerale in pompa magna è stato il caso dell'estate. Il Pd, che di cosche romane se ne intende al punto da averci fatto affari d'oro come si evince dalle carte dell'inchiesta «mafia capitale», chiede che del caso se ne occupi il Parlamento. Il sindaco(dimezzato) Marino, uomo senza vergogna, si dice scandalizzato: cosa grave, pretendo le scuse di Vespa a Roma, ha detto tralasciando che quel famoso funerale è avvenuto con la sua autorizzazione, o comunque sotto il suo naso, e che se c'era uno che avrebbe dovuto occuparsi del Casamonica (in vita) invece che lasciarlo spadroneggiare su un pezzo di città, questi è proprio lui. In questi anni la tv ci ha propinato le peggio schifezze senza che la sinistra avesse nulla da obiettare. Anzi, spesso ha applaudito alla «libera informazione» di Santoro e compagnia che durante l'assalto a Berlusconi hanno portato in video, dal vero o in fiction, mafiosi conclamati (Spatuzza, quelli scioglieva i bambini nell'acido), pregiudicati figli di mafiosi (Ciancimino), escort e balordi a go go solo per screditare una parte politica. Qualcuno può obiettare: era tv privata, non servizio pubblico. A parte che la libertà non è privata né pubblica, ma è o non è, nella bacheca dei trofei Rai fanno giustamente ancora bella mostra le interviste di Enzo Biagi a Buscetta, cassiere della mafia, e a Sindona (il grande corruttore della finanza italiana) come quelle di Sergio Zavoli agli assassini di Aldo Moro e ai terroristi che insanguinarono l'Italia. A confronto i Casamonica sono niente, ma comunque parliamo di giornalismo di serie A. Scandaloso non è mai l'intervistato, al massimo può esserlo lo spirito che anima l'intervistatore. Non è il caso di Vespa, il cui unico giudice è il suo pubblico, non il Pd o la politica che sul caso Casamonica hanno una coda di paglia assai lunga.

Riina in tv è giornalismo, scrive Domenico Ferrara il 6 aprile 2016 su "Il Giornale". Quando è stata l’ultima volta che si è parlato di mafia in tv? Chiedetevelo. Io non me lo ricordo. Potrei azzardare quando il figlio di Vito Ciancimino faceva le sue comparsate nel salotto di Santoro. Ma parliamo già di anni fa. Non voglio comunque fare come Gasparri che, a torto o ragione, per difendere l’intervista di Vespa al figlio di Riina cita quelle dell’ex conduttore di Servizio Pubblico. Non sono i conduttori il punto, bensì gli intervistati. La mafia è una realtà atroce ma è fatta da una pluralità di racconto e quella dei figli dei mafiosi è una delle voci del racconto. Non sentirla o non trasmetterla sarebbero queste la vera forma di negazionismo della mafia. E, giornalisticamente, sapere come viveva uno dei più atroci criminali della storia mondiale durante la sua latitanza è una notizia. Seppur raccontata dal figlio. Di cosa si lamenta la Bindi? Non si lamentò per Ciancimino jr. e per il figlio di Bernardo Provenzano intervistati da Santoro e lo fa adesso per Riina? Lei, presidente della commissione antimafia, che ha dichiarato di non essere un’esperta di mafia? Ecco, Vespa le sta dando l’occasione di conoscerne un aspetto, una angolatura. Che colpa ha il conduttore di Porta a Porta? Nessuna. Come nessuna colpa ebbe Enzo Biagi quando intervistò Luciano Liggio in prima serata o come il giornalista Rai Giuseppe Marrazzo quando intervistò il camorrista Raffaele Cutolo o la rivista Rolling Stones quando ha intervistato El Chapo o SkyTg24 quando ha intervistato Carmine Schiavone. È il giornalismo, bellezza. Mentre la mafia è una montagna di merda. E non sarà il figlio di un mafioso (peraltro condannato con pena già scontata per associazione mafiosa) a ripulirla.

Quelle interviste della tv pubblica a ergastolani e terroristi rossi e neri. Chi oggi si scandalizza ha rimosso i colloqui con Cutolo, Badalamenti, Moretti, Peci, Delle Chiaie e Sindona, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 08/04/2016, su "Il Giornale". Indignazione, raccapriccio, condanna, richieste di sanzioni, con una morbida gradualità che va dal licenziamento, alla richiesta di radiazione dall'Ordine dei Giornalisti fino alla cancellazione hic et nunc di «Porta a Porta». L'intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina scatena una vera e propria tempesta di polemiche e di attacchi che sfociano anche nl personale. Il «reato» è quello di avere ospitato il figlio di un mafioso (anche lui condannato per associazione mafiosa) sugli schermi del servizio pubblico. Una circostanza mai avvenuta prima? Ovviamente no, perché la Rai in passato ha dato spazio e ospitalità a figure condannate e condannabili, a boss mafiosi e capi delle Brigate rosse senza alzate di scudi e tempeste politico-mediatiche. L'elenco è lungo e variegato. Nel corso della sua carriera, Enzo Biagi ha incontrato la «primula rossa di Corleone», Luciano Liggio, Raffaele Cutolo e Tommaso Buscetta. Gioe Marrazzo si è confrontato con il boss calabrese Momo Piromalli, oltre alla celebre intervista a Raffaele Cutolo. Nel 1991 Michele Santoro ospita un mafioso come Rosario Spatola. Tra le celebri interviste anche quella di don Tano Badalamenti, nel 1997 a Ennio Remondino, durante la sua detenzione negli Stati Uniti. Un incontro che Remondino ebbe modo di spiegare così: «Per arrivare a un mafioso del calibro di Badalamenti, anche se in carcere, giocano tanti fattori. Il primo, che lui abbia qualche interesse a rendere noto qualcosa, poi, che possa fidarsi di te». Un altro capitolo è quelle delle interviste di Sergio Zavoli che nel 1990 realizzò una celeberrima serie che titolò La Notte della Repubblica. Puntata dopo puntata passarono sugli schermi Rai gli ex della lotta armata, rossi e neri, che ragionavano sul loro passato, spesso senza dissociarsene. Tra questi Mario Moretti, la mente del rapimento Moro che ammise il fallimento della lotta armata senza mai collaborare con gli inquirenti. Senza dimenticare le interviste di Biagi a Michele Sindona, condannato all'ergastolo quale mandante dell'omicidio Ambrosoli. O a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, ai brigatisti Patrizio Peci e Alberto Franceschini e al «cattivo maestro» Toni Negri. Interviste che hanno contribuito a tenere viva e trasmettere la memoria del Novecento e degli anni di piombo.

Le polemiche su Riina jr. Quando parla il figlio del boss, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia” il 7 aprile 2016. Icone, pentiti e irriducibili. Ma, quando parlano certi figli, è sempre polemica. Quando parlano i figli dei boss si scatena il putiferio. Sempre e comunque. A torto o a ragione. Da giorni la scena è tutta di Salvuccio Riina che prima sulle colonne del Corriere della Sera e poi su Rai 1, a Porta a Porta, ottiene un battage pubblicitario di lusso per il suo libro. Non si parla d'altro. In tanti si sono mossi per lanciare la crociata contro il male. Per molti, per carità, è davvero un problema di coscienza e di inquietudine provocata dalla vista del figlio del carnefice. Per altri, però, è una ghiotta vetrina. Un balcone a cui affacciarsi per gridare la propria antimafiosità di mestiere. Era già accaduto quando si seppe che Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, su iniziativa di un tour operator americano spiegava la mafia ai turisti in visita in Sicilia. Non tutti i figli sono uguali. A cominciare dal curriculum. Giuseppe Salvatore Riina mafioso lo è pure lui per via di una condanna a otto e passa anni che ha finito di scontare. Angelo Provenzano è incensurato. Hanno seguito strade diverse nella vita, ma entrambi si sono definiti fieri dei rispettivi padri e hanno raccontato la loro esistenza in cattività. Lontano da tutto e tutti, ma soprattutto lontani dalla verità che non si voleva vedere. Anche per Angelo Provenzano si sollevò il coro dello sdegno, con qualche voce isolata di dissenso. Si chiede loro, giustamente, di andare oltre il naturale amore di un figlio nei confronti di un padre. Si chiede loro, giustamente, di abiurare ciò che il padre è stato. E poi ci sono i figli che mettono d'accordo tutti. Ai quali si crede per fede. Come Massimo Ciancimino, la quasi icona dell'antimafia. Ha condannato pubblicamente il padre, si dirà. È un testimone chiave in alcuni processi, si spiegherà. Si è autoaccusato di reati, si aggiungerà. Tanto basta per perdonargli gli errori e le condanne del passato, gli scivoloni, le dimenticanze, le dichiarazioni a rate e le bugie, almeno così le definisce chi lo sta processando per calunnia. Per lui abbracci e baci. Come quello che gli riservò Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Lo stesso fratello del magistrato che ha consegnato a Facebook l'indignazione per l'intervista a Riina jr, “figlio di un criminale, criminale a sua volta” sugli schermi del servizio pubblico.

Da ''la Zanzara - Radio24'' del 6 aprile 2016. “La Bindi è un esponente organizzata della mafia, una che ha fatto la cosa immonda di usare il suo potere contro De Luca poi scagionato. Non è un deputato, è un mafioso. Il suo è un comportamento mafioso”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24 sulle critiche del Presidente della commissione antimafia per la presenza di Salvo Riina a Porta a Porta. “Usare il proprio potere, essendo all’antimafia – dice Sgarbi -  accusare uno che non ha fatto niente, è un abuso di potere tipico del rapporto tra politica e mafia. Dovrebbe essere cacciata dal Parlamento, non ha alcuna competenza di mafia, invece ancora parla”. “Unica competenza che ha la Bindi – dice ancora - è quella di tacere, sulla mafia ha già fatto cose immonde, la sua nomina è stata una regalia, si deve vergognare”. Ma stai accostando la Bindi alla mafia, ti rendi conto? “La accosto alla mafia perché l’atteggiamento mafioso è proprio questo, abusare del proprio potere per avere un vantaggio ed è quello che ha fatto lei. Ha un comportamento tipicamente mafioso. E’ dello stesso partito di Ciancimino, la Dc.” Ciancimino è un politico condannato nel 1992 per associazione mafiosa e corruzione, ricorda Cruciani per far comprendere il paragone agli ascoltatori. Ma, secondo Sgarbi, Ciancimino fu "arrestato e condannato solo per il suo cognome".

La lettera di Bruno Vespa pubblicata su "Il Corriere della Sera" del 7 aprile 2016. «Biagi intervistò Sindona e Liggio. Ma allora nessuno batté ciglio». Bruno Vespa interviene sulle polemiche sollevate sulla sua trasmissione che ha visto ospite il figlio di Totò Riina. «Era utile che il pubblico lo conoscesse». "Caro Direttore, se Adolf Hitler risalisse per un giorno dall’inferno e mi offrisse di intervistarlo, temo che dovrei rifiutare. Vedo, infatti, che dopo il «caso Riina» vengono messi in discussione i parametri di base del giornalismo. La Storia è stata in larga parte scritta dai Cattivi. Compito dei cronisti è intervistarli per approfondire e mostrare l’immagine della Cattiveria. Aveva ragione nel gennaio del ’91 il governo Andreotti a voler bloccare (senza riuscirci) la mia intervista a Saddam Hussein alla immediata vigilia della prima Guerra del Golfo perché il dittatore iracheno era un nostro nemico? Chi ha intervistato per la Rai il dittatore libico Gheddafi o quello siriano Assad avrebbe dovuto puntare sui crimini commessi da entrambi invece di focalizzare il colloquio sulla loro politica estera? Quando l’editore del libro di Salvo Riina ha offerto una intervista esclusiva alCorriere della Sera, a Oggi e a Porta a porta, non immaginavo né di fare il colpo della vita, né di creare un turbamento sensazionale. Ho letto il libro, ho detto ai miei colleghi che era l’opera di un mafioso a 24 carati e ho informato quell’eccellente professionista che è il nuovo direttore di Raiuno che avremmo potuto mostrare per la prima volta il ritratto della più importante famiglia mafiosa della storia italiana vista dall’interno. Decidemmo allora di far seguire all’intervista un dibattito con parenti delle vittime di Riina e con dirigenti di associazioni che coraggiosamente si battono contro la mafia. Così è avvenuto. Ciascun giornalista farebbe una intervista in modo diverso. In coscienza, credo di aver mosso al giovane Riina le obiezioni di una persona di buonsenso mostrandogli anche le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e dell’arresto di suo padre. Ho riportato dall’incontro l’impressione che avevo riportato dal libro: un mafioso con l’orgoglio di esserlo. Era utile che il pubblico conoscesse il volto della nuova mafia? A mio giudizio sì, perché solo conoscendo la mafia la gente acquisisce la consapevolezza di doverla combattere. Ho rivisto i precedenti. Guardate su Internet l’attacco dell’intervista del 1982 di Enzo Biagi a Michele Sindona. Prima di entrare nel merito ci fu una piacevole introduzione sui pasti del detenuto e sulla qualità delle sue letture. L’avvocato Ambrosoli era stato ucciso tre anni prima. La Commissione antimafia — che già esisteva — non batté ciglio. Lo stesso Biagi intervistò liberamente Luciano Liggio, il maestro di Totò Riina, il capo dei capi dei primi anni Sessanta. E Tommaso Buscetta, che spiegò come funzionava la Cupola, ma non pianse certo pentito sulla spalla del grande giornalista. Altra intervista famosa fu quella di Biagi al terrorista nero Stefano Delle Chiaie. Non ricordo che siano stati parallelamente ascoltati i parenti delle vittime. Jo Marrazzo, grande cronista della Rai, intervistò il capo della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli e il capo della camorra Raffaele Cutolo. Ricevette meritati complimenti. Come li ricevette Sergio Zavoli per aver intervistato tutti i terroristi (non pentiti) disposti a rispondere alle sue domande. Trascuro l’esempio più recente e discutibile: Massimo Ciancimino, figlio di Vito, è stato a lungo ospite d’onore di Michele Santoro con ampia libertà di dire l’indicibile, prima di essere arrestato nel 2013. Mi piacerebbe che tutte queste interviste fossero riviste insieme per un sereno confronto. Forse avremmo qualche sorpresa. In ogni caso, il tema è chi si può intervistare nella Rai di oggi. 

Se Riina padre fosse disponibile, pioverebbero giornalisti da mezzo mondo. E noi?"

Giù le mani da Vespa. L’intervista a Riina jr è grande televisione. Facciamo la tara all'anti-vespismo: abbiamo visto episodi di infotainment molto peggiori. E alla poca opportunità di mostrare Salvo Riina, un luogo comune censorio. Porta a porta di ieri sera ci ha portato, in maniera ben poco rassicurante, nel cuore dell'ambiguità di cosa nostra, scrive Bruno Giurato il 7 Aprile 2016 su “L’Inkiesta”. L'apparizione di Salvo Riina a Porta a Porta è la tempesta informativa perfetta, perché riassume e fa scontrare due perturbazioni dell'intelligenza comune, due correnti d'opinione che sembrano difficilmente discutibili. La prima si è formata negli anni d'oro dell'anti-berlusconismo come unica forma possibile di militanza civile. E' quella che considera Bruno Vespa il non minus ultra del giornalismo non solo televisivo. Vespa, secondo molti, è esclusivamente quello dei plastici della villetta di Cogne, quello che ha lanciato la comfort-criminologist Bruzzone, quello che da sempre intrattiene rapporti tutt'altro che schiena dritta col Potere - berlusconiano prima, renziano ora -. Quello che ha avuto l'ardire di invitare in trasmissione i Casamonica nell'after show funeralesco. L'emblema dell'informazione spazzatura, insomma. E quindi il contenitore meno adatto per mettere in scena un'intervista al figlio del mammasantissima dei mammasantissima, Totò "u curtu". Ma a favore di Vespa sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di quello che abbiamo visto su Raiuno ieri sera. L'apparizione del figlio di Ciancimino da Michele Santoro qualche anno fa, per esempio, e non come narratore di esperienze umane, ma come rivelatore di torbidi intrecci, era già assai criticabile. Per non parlare della notizia della morte di Sarah Scazzi data in diretta da Federica Sciarelli alla madre: infotainment per infotainment un esempio di televisione, oggettivamente, pessimo. Sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di Vespa: da Ciancimino con Santoro, alla Sciarelli che dà in diretta alla madre la notizia della morte di Sarah Scazzi. L'altra corrente d'opinione esiste da molto più tempo. E' quella secondo la mitizzazione dei mafiosi è il miglior alleato della mafia. E' l'idea contenutista e francamente censoria secondo cui non bisogna "dare visibilità", parole e immagini, alla delinquenza organizzata perché si rischia non solo di mancare di rispetto alle vittime, ma di suscitare compassione, emulazione, identificazione nello spettatore. È la critica che viene fuori quasi ad ogni puntata della serie Gomorra; che ha accompagnato il romanzo/film/serie Tv Romanzo Criminale. È il mugugno legalista intorno a Il Padrino, tra l'altro amatissimo anche dagli gli uomini d'onore. E, si parva licet, è anche la critica che da sempre ha seguito i libri di Leonardo Sciascia (tra l'altro gliela fece anche Camilleri): aver fornito mitologia e storytelling alla mafia. Chissà se tutti ricordano una antica puntata di Un giorno in pretura, in cui Totò Riina (lui!) sotto processo raccontava ai giudici «in carcere tutti leggevamo Sciascia». Quindi sì, il rischio di mitizzare la mafia c'è. Ma è un rischio da correre, sempre. Perché il lettore-spettatore non ha bisogno di tutor ideologici, né di "confezioni" eticamente sostenibili ai problemi. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. Pura rassicurazione ideologica a costo (ed effetto) zero. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. E quindi si torna alla tempesta perfetta, alla puntata di ieri di Porta a Porta. A Salvo Riina in studio, camicia bianca, giacca grigia, sembra un co. co. co., un precario dell'università, un praticante di studio legale nel giorno in cui non c'è udienza. È anche uno che ha scontato 8 anni e dieci mesi per mafia ed figlio di chi ha ordinato l'attentato di Capaci. È banalità del male. Con una certa "calata" palermitana nella voce, nella quale lo spettatore non può non cogliere (o proiettare) qualche ictus ambiguo, dice cose come: «c'era un tacito accordo familiare» e «Non ci facevamo mai domande, eravamo una sorta di famiglia diversa». E ancora: «era anche un divertimento non andare a scuola». E infine: «Il nostro cursus vitae ci ha portato a vivere in modo molto differente dagli altri. E anche, devo dire, in maniera molto piacevole». Molto piacevole, signori. Ecco perché, fatta la tara agli anti-vespismi, agli eventuali spaventi ideologici, e in breve alle perturbazioni dell'opinione comune, quello di ieri sera è stato un ottimo pezzo di televisione. Ottimo perché restituisce tutta l'ambiguità e i paradossi della zona grigia. E il male, innanzitutto e per lo più, è grigio.

Mafia. "Papà li scannò tutti", così parlava Riina jr prima di scrivere libri. Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva "uomini che hanno fatto la storia della Sicilia". "Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate", scrive Salvo Palazzolo il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. "Io vengo dalla scuola di Corleone", dice nella premessa. "Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?". E inizia il suo lungo racconto: "Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia... linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io... sulla mia pelle brucia ancora di più". Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l'intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, "Riina + 23" è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni "Anordest". Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.

L'INIZIO DELLA GUERRA. Capitolo uno: "Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt'altra parte. Racconta: "C'era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni ... era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l'inizio della loro inarrestabile ascesa. L'inizio della carneficina. "E chi doveva vincere? - dice Salvo Riina - in Sicilia, in tutta l'Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?".

I RIBELLI. È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un'altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. "Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c'erano in tutta la Sicilia". Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. "Ci fu un'estate di vampe - spiega il giovane boss con grande naturalezza - Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un'estate". E giù con il suo racconto sugli stiddari: "Che razza - dice - qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci 'a scippari u craniu". Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: "Ci fu un'estate che le revolverate... non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone". E ancora: "Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell'altro... Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate ... era una fazione di boss perdenti... si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo".

BUSINESS E STRAGI. Capitolo quattro: "I piccioli": "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. Capitolo cinque: "I cornuti", ovvero i collaboratori di giustizia. "Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi". Capitolo sei, il cuore del libro: "Le stragi Falcone e Borsellino". "Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: "Abbattiamoli" E sono stati abbattuti".

RITRATTO DI FAMIGLIA. Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov'è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: "Siete stati sempre catu e corda... ma quello che ti tirava era sempre Gianni". E Salvo: "Papà diceva che lui era il più...". La mamma chiosa: "Il più agguerrito". E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all'ergastolo da vent'anni, condannato per quattro omicidi. "Tu facevi il trend ", dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: "Il trainer, non il trend". Gianni ricorda una frase del padre: "Una volta mi ha detto una cosa. Che non ho mai dimenticato: "Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c'è"". Quella era un'investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: "Vedi che io vengo dalla scuola corleonese". E la madre certificò: "Sangue puro".

Art. 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…" (questo vale anche per i figli dei mafiosi, come anche per i mafiosi stessi) "La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...". Mentre l'art. 33, comma 1, afferma che: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento».

In questa Italia che ci propinano i diritti, come si sa, son privilegi ad uso e consumo solo di chi detiene un potere.

Sinistra e Repubblica davano del "guitto" al giudice Falcone...Adesso i compagni lo osannano come "l'amico Giovanni", ma nel gennaio 1992 il quotidiano di Mauro lo massacrò: "Sempre in tv, incarna i peggiori vizi nazionali". E Leoluca Orlando disse: "Tiene nei cassetti le carte dei delitti eccellenti di mafia". Oggi, per la sinistra tutta, è «l’amico Giovanni». Perché, per dirla con De André, «ora che è morto la patria si gloria di un altro eroe alla memoria». Ma quando l’eroe Falcone era vivo, quando aveva bisogno di sostegno, perché «si muore generalmente perché si è soli», disse lui stesso, profeticamente, nel libro intervista a Marcelle Padovani Cose di Cosa nostra, altro che elogi, altro che osanna, altro che «amico Giovanni». Da Repubblica all’Unità, dal Pci alla Rete del redivivo neo sindaco Idv di Palermo Leoluca Orlando, persino qualche toga rossa di Magistratura democratica, tutto un coro: dalli a Falcone, tutti contro. La colpa, anzi le colpe? Diverse - dall’incriminazione per calunnia del pentito Giuseppe Pellegriti che accusò Salvo Lima, alla scelta di andare a Roma, al fianco dell’allora ministro di Giustizia Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali - riconducibili però a un unico peccato originale: l’essere, Giovanni Falcone, un magistrato tutto d’un pezzo, che non si lasciava influenzare da politica e umori di piazza, e che soprattutto, ai teoremi tanto cari a sinistra, preferiva una regola, così sintetizzata ancora in Cose di Cosa nostra: «Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio». Fare memoria, nell’anniversario della strage di quel maledetto sabato di 20 anni fa, è anche questo. Perché è facile, potenza della tv, ricordare Orlando che accusò Falcone di «tenere le carte nei cassetti» (accusa costata all’«amico Giovanni» di oggi un procedimento davanti al Csm), o il «Giovanni, non mi piaci nel Palazzo» di un altro retino doc dell’epoca, l’avvocato Alfredo Galasso, durante una storica staffetta televisiva antimafia, a un mese dall’uccisione di Libero Grassi, tra Maurizio Costanzo e Michele Santoro, a settembre del 1991. Ma pochi forse ricordano un articolo firmato dal blasonato Sandro Viola pubblicato il 9 gennaio del 1992 da Repubblica e adesso prudentemente rimosso dal sito internet del quotidiano di Ezio Mauro. «Falcone che peccato...», il titolo. Che non rende appieno l’attacco, durissimo, al magistrato che quattro mesi dopo sarebbe stato ammazzato sull’autostrada, a Capaci. «Da qualche tempo – scrive Viola nell’editoriale – sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali». Viola si chiede «come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista». E attacca proprio Cose di cosa nostra, diventato dopo le stragi del ’92 una sorta di testamento morale di Falcone. «Scorrendo il libro-intervista – scrive ancora l’editorialista – s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi». Non che Repubblica non fosse in buona compagnia, quanto a “sinistri” attacchi. Paolo Borsellino, vittima anche lui (57 giorni dopo Capaci, il 19 luglio del ’92) di quell’estate di sangue, diceva che l’«amico Giovanni» (stavolta sì che la familiarità è autentica), aveva cominciato a morire quando il fuoco amico dei colleghi gli aveva sbarrato la strada nel 1988, alla nomina a procuratore capo di Palermo. Fu Magistratura Democratica - tra le toghe di sinistra si distinse Elena Paciotti, poi europarlamentare Pd - a guidare la crociata contro Falcone. E sempre il fuoco amico di sinistra e colleghi di sinistra sbarrò a Falcone, poco prima di morire, la strada alla nomina alla guida della neonata Direzione nazionale antimafia. «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché», tuonarono i compagni sull’Unità. Il tritolo di Capaci, poi, fece il resto. Quanti attacchi, quante amarezze da sinistra per l’«amico Giovanni». Attacchi che non si spengono, neanche dopo 20 anni. Al neo sindaco Leoluca Orlando - fu lui, da sindaco, a sposare nel 1986 Giovanni Falcone e Francesca Morvillo - Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso, ha mandato a dire, oggi: «Dica quattro parole: “Con Falcone ho sbagliato”».

LE LISTE DI PROSCRIZIONE.

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

LA SOCIETA’ FOGGIANA. LA MAFIA INNOMINABILE.

Le Mafie nere italiane. Sorvolando sulle mafie bianche istituzionali e dei colletti bianchi, ossia del potere castale e lobbistico, politico amministrativo, giudiziario, finanziario, professionale, parliamo della mafia nera. Criminalità comune e cruenta. C’è la ’ndrangheta di origine calabrese; Cosa Nostra e Stidda di origine siciliana; Camorra di origine campana. Sicuramente dalle 'ndrine calabresi hanno avuto la genesi la Sacra Corona Unita in Puglia (Salento) ed il sodalizio dei Basilischi in Basilicata.

Il male e i talebani del “bene”, scrive il 3 dicembre 2017 su "La Repubblica" Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. Chiesero a Luciano Liggio se esistesse la mafia e lui serafico rispose, sì, se esiste l’antimafia. Vero perché troppo spesso in Italia quell’“anti” vive solo nella ragione del suo opposto. Così se c’è la mafia, c’è l’antimafia e se c’è il fascismo c’è anche l’antifascismo. Così i destini del male e del suo antidoto sembrano indissolubilmente legati. L’antimafia che è o dovrebbe essere la sostanza dello stato di diritto, esiste invece come una setta, una organizzazione da contrapporre alla mafia e non la ragione stessa del vivere civile. Ci si deve accreditare antimafiosi per vedersi riconoscere la legittimazione a dire qualcosa, altrimenti si rischia l’indistinto anonimato dell’ovvietà. Ma con i galloni addosso dell’antimafiosità militante, allora anche la banalità dell’evidenza, veste i panni del martirio sofferto della rivelazione. L’antimafia che avrebbe dovuto essere la constatazione che nella società, nella vita civile, nel sostrato di regole e diritti di un Paese c’erano già gli strumenti per la ribellione, ha finito con l’essere una comoda tenda sotto la quale accasarsi mentre altri impiantavano il gabbiotto dell’ufficio rilascio patenti. Il talebanismo antimafioso, fatto di dogmi e uomini simbolo, fatto di eroi di carta vendicatori delle verità negate ha finito con il prendersi tutto il campo, consegnando in dote ai populismi di ogni risma la genuina volontà di un popolo, siciliano, italiano, di farla finita con i bravi. Ecco, l’antimafia come totem, il venerabile nulla al quale votarsi incuranti di selezionare i compagni di strada, consegnando ruoli da guru agli illuminati del momento, la perpetuazione di un male presupposto del bene che gli si oppone è l’unico totem dal quale fuggire e di gran carriera. Non lo fanno gli antimafiosi tutti d’un pezzo, quelli mai un dubbio, quelli che decidono a chi concedere la benemerenza della parola. Quelli che se la raccontano ogni giorno e sperano, in cuor loro che ci sia sempre un nemico, così tanto per giustificare la loro di esistenza di anti qualcosa. Magari con il fondoschiena poggiato su qualche polverosa poltrona di comando di qualcosa diventata per contatto essa stessa antimafiosa. L’antimafia del contagio virtuoso è così l’antimafia del contatto provvidenziale. E per tutto il resto basta un po’ di martirio, una spruzzatina di illuminismo, due quarti di ovvietà e un terzo di furbizia.  Dopotutto ogni totem incarna un tabù.

LE MAFIE PUGLIESI. Le tante Cupole della Puglia criminale, scrive il 15 dicembre 2017 su "la Repubblica" Tea Sisto - Giornalista. Che cosa hanno in comune il mesagnese Pino Rogoli detto "il Vecchio”, il foggiano Rocco Moretti e il barese Savinuccio Parisi, tanto per fare qualche nome tra i boss più noti? Sono stati tutti e tre riconosciuti come capi di organizzazioni a delinquere di stampo mafioso, sono pugliesi, sanno che cosa significhi vivere in una cella. Forse si sono anche incontrati (in alcun casi è provato), ma quei contatti si sono trasformati al massimo in collaborazioni occasionali avendo, spesso, interessi affaristici in comune. Ma non sempre, non in tutti i campi dell’economia, se si escludono la droga, le armi - in alcun casi - le sigarette di contrabbando. Perché la Puglia, regione talvolta, per retaggio storico, declinata al plurale, le Puglie, è stretta e lunga e, a seconda dei territori e delle province, ha vocazioni economiche diverse. Se la mafia foggiana è più interessata al settore agroalimentare, la Sacra corona unita si interroga ed agisce per fare affari con l’industria e gli appalti di Brindisi (servizi di guardiania compresi) e con il turismo delle belle coste del Leccese. Insomma la mafia si concentra in quei settori nei quali il denaro circola nel proprio territorio. Per il resto queste organizzazioni mafiose evitano di pestarsi i piedi a vicenda. Ognuno delinque, traffica droga e altro, ricicla il denaro, sceglie le proprie vittime a cui chiedere il pizzo, per fare cassa, tra i commercianti e imprenditori territorialmente vicini, si infiltra nelle proprie amministrazioni locali, cerca appalti pubblici e privati (e spesso li ottiene), è feroce e ammazza nei dintorni di casa sua. Eppure si continua a parlare di un’unica Quarta Mafia “pugliese”, sia che intimidazioni, violenze, omicidi e quant’altro avvengano a Cerignola o a Foggia, sia che tutto sia consumato a San Pietro Vernotico, a sud di Brindisi. Quasi trecento chilometri di distanza non vengono superati neanche ai tempi della globalizzazione Si parla e si scrive anche di Sacra Corona Unita “pugliese”. Una semplificazione che non aiuta a comprendere la complessità delle organizzazioni mafiose in Puglia. Vero è che tutte sono mafie relativamente “giovani”, nate negli Anni Ottanta dalla voglia di sottrarsi alle mire espansionistiche della vicina camorra di Raffaele Cutolo il quale ordinò cerimonie di affiliazione alla Nuova camorra pugliese sia a Lucera, in provincia di Foggia, che a Gallipoli, in provincia di Lecce. E non c‘era solo Cutolo a guardare con interesse alla Puglia. A Fasano (Brindisi) c’erano già dagli Anni Settanta alcuni esponenti di Cosa nostra lì mandati in soggiorno obbligato. Non rimasero sereni ed estasiati a godersi l’aria buona e il panorama delle colline della Selva. Salento e la Puglia intera erano comunque molto appetibili anche per la 'Ndrangheta, alla quale Pino Rogoli si era affiliato dopo aver mollato la Nuova camorra pugliese. Ma, ancor prima che i foggiani si stancassero di pagare pesanti imposte sul loro “lavoro” e sul loro “reddito” ai vicini campani e decidessero di mettersi in proprio, fu proprio il mesagnese Pino Rogoli, piastrellista finito in carcere a Trani nel 1981, dopo una sanguinosa rapina ai danni di un commerciante di Giovinazzo, a decidere per l’autonomia. “La Puglia ai pugliesi” era lo slogan che girava nelle carceri, quasi una dichiarazione di indipendenza. La Sacra corona unita sarebbe nata, secondo alcune testimonianze, proprio nel Natale di quello stesso anno. Ma la data è incerta considerato che i carabinieri trovarono in carcere un bigliettino, un “certificato d’origine”, sul quale c’era scritto “La Scu è stata fondata da G.R. (Giuseppe Rogoli) l’1 maggio del 1983 e con l’aiuto di compari diritti”. Rogoli non smentì mai la costituzione della sua organizzazione. Si limitò a dire che la finalità era solo quella di proteggere i pugliesi detenuti dalle angherie dei camorristi. Solo in seguito, con la collaborazione dei pentiti, si conobbero le diverse versioni (sempre molto suggestive ed arcaiche) del rito di affiliazione. Rogoli ne voleva fare una associazione piramidale con lui in cima. Cosa che per diverso tempo è accaduto nonostante non abbia mai abbandonato il carcere. E’ detenuto da oltre 36 anni. Poi le cose andarono diversamente. Altri aspiravano a quel posto al vertice e si ebbe un decennio di omicidi a raffica e di vendette anche trasversali per chi aveva tradito i patti. Un fatto è certo: la Scu avrebbe agito, come del resto è accaduto, nel suo territorio, tra le province di Brindisi e di Lecce con diramazioni nel Tarantino. Se esiste una quarta mafia che corrisponde alla Scu salentina, quindi, ne esistono una quinta nel Foggiano (dove in realtà ce ne sono tre che non hanno ancora raggiunto il temuto accordo) e una sesta nel Barese. La Direzione nazionale antimafia, nelle sue relazioni annuali, non fa che ripeterlo. Nel 2015, per esempio, scrisse: «La mafia pugliese presenta una fisionomia particolarmente variegata e complessa, impropriamente identificata e collocata in un unico organismo criminale denominato Sacra Corona Unita; invero, la Sacra Corona Unita è una realtà criminale - riconosciuta come mafiosa grazie alla sentenza della Corte d’Assise d’ Appello di Lecce del 17 Aprile 1992 - che opera nell’area salentina e jonico meridionale della Puglia. L’unico e remoto elemento di collegamento con le organizzazioni mafiose del distretto di Bari è dato dal ‘battesimo’ operato negli Anni Ottanta da parte di esponenti del clan salentino - in ragione dell’elevata carica criminale già all’epoca posseduta - a taluni di coloro che diventeranno i capi dei più importanti sodalizi mafiosi che si insedieranno in altre parti del territorio pugliese. Successivamente, detti sodalizi si sono sviluppati attraverso percorsi assolutamente autonomi e, nel tempo, sono davvero pochi i casi in cui si è accertata una qualche forma di sporadica collaborazione o di comuni interessi tra la mafia salentina e quella barese». Ancora esiste, secondo la Dna, una differenza sostanziale tra la mafia barese, divisa in una dozzina di famiglie-clan (ma qui i cambi di casacca sono all’ordine del giorno, così come le sanguinarie ritorsioni) e quella del Foggiano, storicamente distinta in tre clan: la Società foggiana, il clan di Cerignola, specializzato in attacchi ai blindati, e la mafia del Gargano. Niente a che vedere neanche con la Scu. C’è una particolarità che rende esplosiva la situazione in provincia di Foggia e difficile condurre indagini. In nessuna delle tre organizzazioni del Foggiano, eccetto rarissime eccezioni, ci sono stati pentiti, collaboratori di giustizia, neanche dissociati, che pure sarebbe bastato. Se a Brindisi, Lecce e Bari, molti misteri criminali sono stati risolti grazie ai collaboratori di giustizia e molti processi sono stati celebrati anche per via delle loro attendibili dichiarazioni, qui, nel nord della lunga Puglia, c’è un altro mondo, arcaico e silenzioso. Regnano paura e omertà. Si continua a vessare la popolazione, si continua a uccidere senza che qualcuno si azzardi mai a rivelare circostanze, moventi, autori, mandanti. In quella parte della Puglia, al confine con la Campania, un criminale mafioso, sia boss, luogotenente o soldato semplice, non parlerebbe mai (almeno sino ad oggi), a microfono acceso, davanti a un carabiniere, un poliziotto o un magistrato. Neanche sotto tortura, se questa fosse mai possibile. Per fortuna non lo è. Meglio tenersi eventuali crisi di coscienza, che nell’umanità sono possibili, che essere additati come “infami” con relative potenziali conseguenze. I segreti loro se li porterebbero nella tomba. Almeno sino ad oggi, meglio ripeterlo. Scrive ancora la Direzione nazionale antimafia: «Nell’ambito dello stesso distretto di Bari si delineano situazioni oltremodo differenti per localizzazioni territoriali, alleanze endo ed extraregionali, interessi criminali, livello di evoluzione; tanto appare di tutta evidenza per la mafia del foggiano, non comparabile nelle sue caratterizzazioni anche ’culturali’ a quella di altre zone del Distretto. Il dato che balza più evidente agli occhi è l’esiguo numero dei collaboratori di giustizia di estrazione foggiana (collaboratori dei quali, invece, la rimanente parte del territorio del distretto è davvero prolifica!) e, conseguentemente, l’elevato numero di omicidi e ‘lupare bianche’ ad oggi irrisolti». Le Puglie sono tre, forse di più. E qui la mafia non è comandata da una sola “Cupola”.

Quegli uomini che pregano un "Dio diverso", scrive il 14 dicembre 2017 su "la Repubblica". Vincenzo Pelvi - Arcivescovo di Foggia-Bovino. Domenica 12 novembre, nei pressi dell'antica stazione di San Marco in Lamis, ho benedetto una croce in ricordo di Aurelio e Luigi Luciani, due fratelli innocenti uccisi dalla malavita. Nella triste circostanza, alla presenza di autorità e cittadini, mi sono state poste alcune domande: può considerarsi credente un mafioso che uccide barbaramente e ingiustamente? Un buon credente può essere un cattivo cittadino? Com’è possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio? Perché i corrotti hanno tra le mani bibbie, immagini sacre e si inchinano dinanzi a statue di santi? La corruzione non è un atto, ma uno sta­to personale e sociale, nel quale uno si abitua a vivere. I non-valori della corruzione purtroppo sono integrati in una cultura, che coinvolge proseliti al fine di abbassarli al livello di complicità. Que­sta cultura si serve di un doppio dinamismo: dell’appa­renza e della realtà, dell’immanenza e della trascenden­za. L’apparenza è l’elaborazione della realtà, che mira a imporsi in una accettazione sociale la più generale possibile. È una cultura della sottrazione: si sottrae re­altà a favore dell’apparenza. La trascendenza, poi, si avvicina sempre più al di qua, tanto da farsi quasi immanenza, avvolta da molta sfacciataggine, che si impone come prepotenza quotidiana. I corrotti pregano non il Dio di Gesù, ma un “Dio diverso”, perché traggono dalla religione cattolica quello che conviene e si costruiscono una divinità adeguata alle loro esigenze. Si assume, così, come principio fondante del proprio comportamento non l’etica della responsabilità, ma l’etica dell’intenzione, secondo la quale ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non agli uomini. Per i malavitosi non c’è contraddizione tra credere in Dio, nella Chiesa e al tempo stesso aderire a una organizzazione criminale. Essi si sentono naturalmente devoti e pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici. Ogni corrotto è un complesso di «inquestionabilità». Si offende dinanzi a qualunque critica, discredita la perso­na o l’istituzione che la emette, fa in modo che qualsiasi autorità morale in grado di criticarlo sia eliminata, ri­corre a compromessi per giustificarsi, sminuisce gli altri e attacca con l’insul­to quelli che la pensano diversamente. La corruzio­ne non può essere perdonata, semplicemente per il fatto che alla radice di qualunque atteggiamento mafioso c’è un rifiuto della trascendenza: di fronte a Dio che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente nell’espressione della sua salvezza e non chiede perdono. Per un criminale il problema principale è il controllo del senso di colpa. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, potere e, perché no, anche la “protezione” del cielo. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la ratio delle azioni mafiose e criminali, pronto al perdono per tutto quel che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. Ma se degli assassini non provano rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in auto-assoluzione. Tale comportamento, intriso di analfabetismo religioso, porta a trascurare e oscurare le gravi responsabilità delle proprie scelte. Non ci può essere autentico pentimento senza riparare con gesti concreti e costosi l’ingiustizia commessa e il dolore procurato. La colpa, non è solo verso Dio ma anche verso gli altri, la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi. Il perdono divino esige anche l’assunzione di quella responsabilità etica che ha una valenza pubblica e sociale. C’è, in fondo, bisogno della coltivazione di un «animus» non solo «naturalmente cristiano», ma anche erede e portatore di pro­fondi valori umani ed evangelici, che non possono rimanere nell’inti­mo o nell’emotivo, ma necessitano di essere tradotti caritatevolmente in realtà e in principio di dinamismo storico. Emerge la necessità di saldare fede e storia, superando quella frattura tra Vangelo e cultura che è il dramma della nostra epoca. Occorre avviare un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza delle opere e dei segni, i criteri di giudizio, i va­lori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita, in modo che il cristianesimo continui a offrire il senso e l’orientamento dell’esistenza umana. A questo scopo, si richiede un impegno illuminato ed efficace di formazione delle coscienze che non allontani il cielo dalla terra e che elabori modelli collettivi di comportamento di tipo solidaristico, in alternativa a quelli individualistici e corruttivi. L’amore verso Dio si manifesta nella fraternità umana e nella solidarietà sociale. Ciò comporta una trasformazione dello stesso ethos morale e religioso delle persone. Ed inve­ste, quindi, la stessa religione, che va riconvertita dal puro riferimento al passato, alla tradizione, alla memoria, dalla sola ripetizione all’apertura al futuro, alla religione dell’amore fraterno, alla solidarietà sociale. La Chiesa è comunità di fede, ma anche come soggetto sociale sul territorio che non sta alla finestra a guardare ma vigila perché assieme si vinca ogni forma di organizzazione malavitosa. La mafia solleciti e risvegli la nostra responsabilità. A noi la risposta. In questo la verità ci giudica. E ora che il pro­cesso cominci. È l’invito rivolto dalla signora Arcangela, moglie di Luigi Luciani. “Le vostre mani, mafiosi, sono state usate per uccidere onesti lavoratori, esemplari genitori … al contrario, le mani di Aurelio e Luigi, dalle quattro del mattino alla sera, hanno solo sparso semi di vita in questa nostra terra”. Possano le gocce di sangue innocente delle vittime di mafia fecondare i nostri giorni di quella speranza che non ha fine.

 I fantasmi di una guerra feudale, scrive il 9 dicembre 2017 su "La Repubblica" Davide Grittani - Giornalista e scrittore. Nel 1964 il regista ligure Elio Piccon realizzò un film sul Paese che viveva all’ombra del boom economico, in assoluta miseria, sul pericoloso confine tra disperazione e illegalità. Quel film si chiama “L’antimiracolo” e l’anno dopo si aggiudicò la Targa Leone di San Marco alla XXVI edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia. In pochi sanno che fu interamente girato a Lesina e San Nicandro Garganico, e che il regista – durante le riprese – raccontò d’essere stato attratto da una «terra in cui gli esseri umani non hanno volto». Dieci anni dopo quel film, a San Nicandro Garganico nasceva Gennaro Giovanditto. Non è un regista. Nemmeno un attore. Non ha niente a che fare col cinema, se non il fatto d’essere figlio della generazione «senza volto» raccontata da Piccon. A Gennaro Giovanditto la giustizia italiana attribuirebbe – a vario titolo – l’esecuzione di tredici omicidi. Tutti commessi nell’ambito di una guerra di mafia, quella “garganica” ammesso che abbia davvero un senso distinguerla dalle altre, che dura da decenni. Non sono un cronista, non nel senso rigoroso del termine che viene riconosciuto a chi racconta la vita di una terra attraverso la morte di chi la abita. Ragione per cui non proverò ad analizzare gli aspetti cronologici e processuali delle presunte imprese malavitose contestate a Giovanditto. Mi viene chiesto di raccontare, coi miei occhi, ciò che mi arriva di questa storia, di questa guerra. E la prima cosa che non posso fare a meno di notare è che di Gennaro Giovanditto non esistono fotografie. Poca, pochissima roba, custodita gelosamente negli archivi di chi la cronaca della guerra di mafia l’ha raccontata con precisione inimitabile (penso a Giovanni Rinaldi de "La Gazzetta del Mezzogiorno”), ma poi più nulla. Per quanto ne sanno quelli che, come me, lo cercano negli oceani del web, Gennaro Giovanditto è un uomo senza volto. Per la giustizia italiana, un killer senza volto. In confronto a lui, altri due protagonisti di questa guerra, Mario Luciano Romito (ucciso nella strage del 9 agosto 2017) e Francesco Libergolis (ucciso il 27 ottobre 2009), paiono fin troppo esposti: immagini, storie, tracce, abitudini. Fino a quando sono rimasti in vita, s’intende. Sembrerebbe un dettaglio di natura morbosamente giornalistica, invece risponde a una precisa volontà degli interpreti di questa dottrina. Fin tanto che non se ne conoscono i volti, nessuno può dire di averli incontrati e riconosciuti (ammesso che ci sia qualcuno disposto a farlo). Fin tanto che restano al buio, nessuno può parlargli del sole. La dimensione esistenziale che si accetta è ignota ai più, quasi letteraria, pirandelliana: nessun essere umano condurrebbe la propria vita all’interno di un doppio fondo, invece per loro è condizione indispensabile per continuare a vivere senza lasciar tracce, per dettare gli eventi senza farsi travolgere, per imporre la forza senza dare l’impressione di poterlo fare. Fantasmi, categorie sfuggenti, leggendarie, tutt’altro che clandestini, semplicemente trasparenti. Come diceva Piccon, Giovanditto non ha un volto (pubblico) per scelta. Ne ha (eccome) uno privato, che conoscono in pochi. Anche perché – così raccontano i magistrati dell’operazione Remake – chi riesce a vederlo è quasi certo che non rimanga in vita. Ed ecco un altro tema di questa guerra feudale, carica di simboli primitivi che solo l’antropologia riesce a decifrare. Alla maggior parte dei morti ammazzati è stato sparato in pieno volto, sottraendo loro i connotati, quindi la dignità della sepoltura. Una scena toccante de L’antimiracolo mostra proprio l’esibizione del dolore durante una veglia funebre, l’ostentazione dei parenti, la loro collera contro il destino, l’adorazione della faccia che stanno salutando per sempre. Alle vittime della “mafia garganica” alle quali è stato asportato – a fucilate – il volto, viene sottratta questa dignità, viene inibito l’onore del saluto. Chi è senza volto non può essere compianto, tantomeno ricordato. «E’ difficile da spiegare, la durezza di questi posti – raccontava Piccon – si può raccontare solo attraverso la poesia barbarica che ho trovato in alcune campagne e contrade del Gargano». Bisognerebbe conoscerlo, il Gargano, per provare a spiegare di cosa stiamo parlando. Di quale substrato culturale sono figli questi morti, in quale torba ha vegetato l’odio alla base di questa contesa apparentemente senza etica. A cinquant'anni dalla sua uscita, "L’antimiracolo” è stato restaurato e riconsegnato alla cinematografia italiana. In pochi continuano a sapere che è stato girato tra Lesina e San Nicandro Garganico, alcune scene nelle campagne di Monte Sant’Angelo. A mezzo secolo da quell’allarme inascoltato, le ragioni della faida che sta facendo discutere il Paese sono sempre le stesse. La terra, la roba, i frutti che assicura e quelli che promette. A poco più di quarant’anni dalla nascita di Gennaro Giovanditto, nessuno si chiede più che volto abbia. Non ha più senso, nei luoghi che a furia di ignorare le facce stanno rinunciando anche al sorriso.

San Nicandro, dove è cominciato tutto, scrive il 7 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giuliano Foschini - Giornalista di Repubblica. Esiste un punto dal quale è più facile parlare di passato e futuro della mafia del Gargano. Un punto dal quale è possibile vedere ferocia, interessi, affari, paranoie. Ma in fondo anche futuro. Quel punto è San Nicandro Garganico, 15 mila abitanti nella parte Nord del promontorio, i laghi (di Lesina e Varano) più vicini del mare. La storia della mafia, qui, ha una data ben precisa, che è quella anche dell’inizio della faida: 28 marzo 1981, scompaiono nel nulla cinque membri della famiglia Ciavarella, conosciutissima in paese: Matteo, di 57 anni, la moglie Incoronata Gualano, di 55, e i tre figli, Nicola, Giuseppe e Caterina, di 17, 16 e 5 anni. Che fine hanno fatto? Ammazzati e fatti sparire nel nulla, forse in una cava, forse dati in pasto ai porci. Chi è stato? Giuseppe Tarantino, dicono le sentenze dei tribunali con le quali è stato condannato all’ergastolo. Perché lo ha fatto? Anche Tarantino, con la sua famiglia vive a San Nicandro. E doveva vendicare uno dei suoi otto fratelli, contro il quale Matteo Ciavarella aveva testimoniato per un furto di bestiame. Cinque morti per un furto di maiali.

Un’assurdità che sembra non finire mai: un morto, due morti, tre, bisogna contare fino a diciassette per raccontare la faida tra i Tarantino e i Ciavarella, assassini su assassini, una generazione completamente distrutta. Il 22 agosto dell’87 viene assassinato Leonardo Tarantino, fratello di Giuseppe. Il 22 dicembre Sebastisano Tarantino, e poi Michele, Giovanni, il 28 novembre del 2002 tocca ad Antonio Ciavarella, poi a Carmine Tarantino, dunque a Luigi, ad Antonio, nel 2007 sono finiti i fratelli e si passa ai cognati, ai cugini. Orrore su orrore. Eppure esiste una generazione, partita da San Nicandro, che potrebbe avere un futuro. Il motivo è nella storia di Rosa Di Fiore, la più bella del paese, famiglia per bene, la mamma era l’insegnante della città, che diventa protagonista di un romanzo di mafia. Rosa si innamora, giovanissima, di Pietro Tarantino, capobastone della zona. Si sposa. Nascono tre bambini. Poi Rosa scappa. Si innamora di Matteo Ciavarella, fugge e traccia per la prima volta un tratto, che non sia sangue, tra le due famiglie. Succede di più: nasce un altro bambino. Un Ciavarella diventa fratello di un Tarantino. Rosa sa che si sta attraversando la linea d’ombra. «Non volevo che i miei figli crescessero in quel modo, che diventassero dei boss, che diventassero come i rispettivi padri» dice ai magistrati. Rosa Di Fiore diventa una collaboratrice di giustizia. Condannando così al carcere a vita i padri dei suo i figli «Mi mandi all'ergastolo» gli ha urlato il suo ex compagno. «Non mi fai più paura; ormai sei un cane che non morde più non mi fai più paura». «Dopo ogni omicidio — ha raccontato ai giudici Rosa, che in famiglia chiamavano Lidia — la mamma di Matteo (ndr, Ciavarella) lo lavava con acquaragia per eliminare eventuali macchie di polvere da sparo, gli forniva alibi e abiti puliti. Perché era proprio la famiglia a spingere Matteo a uccidere, per sete di vendetta». «Matteo quando sceglieva una vittima usava sempre una frase diceva: "Questo me lo mangio"». Non era un modo di dire. Il 5 dicembre 2002 Matteo Ciavarella uccise Carmine Tarantino, l'ex cognato della Di Fiore, con una raffica di proiettili in volto. Rosa, davanti al pm della Dda Domenico Seccia, racconta come andarono le cose: «Matteo mi descrisse il modo in cui gli sparò. Mi disse che non aveva più tutta la faccia. Gli chiesi: "Ma era come Michele?, un altro esponente che fu ucciso dalla famiglia. E lui: «No, era molto peggio, ha detto: "Proprio me l'è magnat, me l'è magnat tutta la faccia. Lo sai che ho fatto? mi sono leccato il sangue suo, dopo». Rosa e i suoi figli sono da tempo lontani da San Nicandro, da Foggia e dalla Puglia.  «I suoi figli», racconta il procuratore Seccia, «non hanno imparato mai a sparare».

Una donna divisa fra due "famiglie”, scrive su "La Repubblica" il 10 dicembre 2017 Domenico Seccia - Procuratore capo della Procura della Repubblica di Fermo. Prototipo della mafia bionica. Madre di figli che si chiamano Tarantino e Ciavarrella e che rappresentano il compendio del superamento di quel conflitto in una famiglia, dove l’amore materno, e la fratellanza dei figli suggella la vera fine di quella mafia. Rosa Lidia Di Fiore partecipa alla guerra di mafia garganica tra i Ciavarrella e i Tarantino; ne è partecipe da ambo i punti di vita, personificando quella dolorosa e tragica contrapposizione, essendo moglie di Pietro Tarantino e, poi, convivente del boss di mafia, Matteo Ciavarrella. Rosa Lidia è di Cagnano Varano. Un paese del profondo del Gargano. E della donna garganica ha la risolutezza, la forza, la graniticità. Era figlia di Grazia Miscia, una insegnante di Cagnano Varano. Aveva sposato un Tarantino, Pietro, acerrimo nemico dei Ciavarrella. Lo sposa a diciotto anni, una scelta coartata, disse durante un interrogatorio. Pietro Tarantino era parte di una famiglia di allevatori, temuta, dedita al narcotraffico. In guerra con i Ciavarrella quando nell’aprile del 1981, Giuseppe Tarantino uccide cinque componenti della famiglia rivale, compresa una bambina di tre anni, non facendone trovare più i corpi. Rosa Lidia, a Cagnano, vive in una realtà temuta e rispettata. In paese, la moglie di un Tarantino è rispettata, temuta, onorata. La mafia trasferisce i suoi onori. Conviveva con le attività criminali dei Tarantino; ne osservava il taglio della droga, l’organizzazione del traffico relativo, le cessioni. Rosa Lidia si trasferisce, con il marito a San Nicandro Garganico, la terra dei Ciavarrella. La relazione tra la Di Fiore e Matteo Ciavarrella era come “un fuoco appicciato”. Rosa Lidia vive con la famiglia di Matteo, che partecipa attivamente alle attività delittuose. Vive con la madre di Matteo Ciavarrella, condannato per narcotraffico; vive con il fratello di Matteo Ciavarrella, condannato per omicidio di mafia, per associazione mafiosa, per narcotraffico; vede e frequenta tutti gli uomini del clan e gli altri parenti, le cui gesta riempiranno le pagine delle sentenze di quella mafia. Vede armi, impara a sparare. Ne ascolta il linguaggio di morte; ne parafrasa il terrore; ne asseconda la cupezza, deve condividerne la fame di sterminio; l’attività di killeraggio da trasferta che il Ciavarrella commette quando i maggiorenti della mafia garganica lo chiamano per commettere omicidi “puliti”. La ricordo durante il primo interrogatorio. Era dura, spocchiosa, forte, radicale, intransigente. Era però una donna che aveva fatto gli studi, che proveniva da buona famiglia, abbruttita dagli eventi delittuosi, di sangue, mafia, droga e di potere criminale che contraddistingueva il clan Ciavarrella. “E’ inutile la sua venuta”, mi disse, adirata. La ascoltai per comprendere il ruolo in uno dei tanti omicidi di mafia. Quello avvenuto contro Scanzano, e commesso dal suo convivente. Come un’anguilla, sfuggiva ad ogni domanda, rispondendo, sprezzante, addirittura nel suo dialetto garganico cagnanese. Gestiva un copione, il suo copione. Fatto di fierezza criminale, di forza criminale, della donna che non è solo la compagna del boss, ma che avverte ed esercita fedelmente un ruolo in quella violentissima fazione criminale. Una donna che esercitava lusso e violenza; che conduceva una vita omaggiata dalla riverenza e dai rancori? Dopo le prime domande, aveva compreso che il cerchio si stava chiudendo. Che le responsabilità apparivano chiare Che non poteva più sfuggire alla giustizia. Comprese il dolore di quella vita. Di una vita inutile per i suoi figli. “..Ho chiesto di parlare con voi semplicemente perché volevo stare con i miei quattro figli, in quanto sono venuta a conoscenza del fatto che i bambini mi devono essere tolti e volevo trovare una via per non farmeli togliere, li vorrei tenere tutti quanti io, tutti e quattro, sia i Tarantino che i figli di Ciavarella".

Un cimitero senza lapidi e senza croci, scrive l'8 dicembre 2017 Antonella Caruso - Giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”, su "La Repubblica". Il fondo si può solo immaginare, un baratro enorme e terrificante, l'assoluto delle tenebre diventato complice inconsapevole della mafia garganica. E’ la grava di Zazzano, in un territorio impervio del comune garganico di San Marco in Lamis. “Un cimitero della mafia” come lo definì nel 2009 l’allora procuratore della repubblica di Bari, Antonio Laudati. Giù in quel budello furono ritrovati i resti di almeno quattro vittime di mafia, scomparse nel nulla, inghiottite dalla terra e dalla terra a lungo custodite. La prima discesa nella grava di Zazzano ad opera di un gruppo di speleologi avvenne nel 1957. Le leggende in paese raccontavano di moglie e di donne gettate in quell’immenso pozzo per punizione, di tragedie e vendette. Leggende alle quali la mafia garganica, invece, diede forma gettando, probabilmente per circa 10 anni, coloro che aveva trucidato. Vittime di lupara bianca, morti ammazzati la cui tomba era conosciuta solo da chi aveva stabilito che quei corpi, quelle identità non dovessero essere mai più ritrovate. A 70 metri (nel bagagliaio di un’auto spinta giù dalla bocca larga circa 30 metri) il primo ritrovamento: in una borsa di plastica che l’umidità, gli animali, il tempo aveva deformato, ossa pelviche, costole, arti superiori ed inferiori, in un’altra busta all’esterno dell’auto un cranio. La mafia “non uccide mai gratuitamente” sottolineava il giudice Giovanni Falcone: l’omicidio è l’ultima soluzione quando le minacce, le intimidazioni, la violenza non sono più sufficienti. E spesso gli omicidi non devono lasciare prove, i morti ammazzati di mafia quelli il cui corpo non deve essere ritrovato, portano con sè anche i nomi dei mandanti e degli esecutori. E farli inghiottire dalla terra assume un carattere simbolico. Un modus operandi fu riscontrato in quel cimitero senza lapidi e senza croci, dove “felci, lingue cervine, muschi e radici contorte degli alberi” rendevano quel baratro ancor più difficile da penetrare. Auto e resti di cadaveri smembrati. Le vittime uccise e poi probabilmente portate in auto sino alla grava, con un sacchetto di plastica in testa per contenere forse il sangue. A circa 73 metri furono ritrovati sempre in una borsa di plastica. Il terzo cadavere ad una profondità di 80 metri. Il quarto corpo alcuni metri più in basso. Furono identificati solo tre dei quattro corpi restituiti dal fango e dal buio: un ragazzo di 27 anni scomparso nel 2001 e suo padre di 57 anni. Un uomo di 44 anni di cui si erano perse le tracce nel 1991. Mentre resta sconosciuta l’identità del quarto cadavere che come riportato nel libro “Lupara Bianca”: l’uomo “è stato inoltre soggetto a tentativi di smembramento in seguito alla sua morte, probabilmente al fine di facilitarne l'occultamento”. Una mafia feroce, arcaica e moderna insieme. “Una mafia con regole di vendetta e di punizione mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali”, ha scritto più volte la commissione antimafia nelle sue relazioni.

L'alibi di Ivan e il suo onore, scrive il 13 dicembre 2017 su "La Repubblica" Michele Vaira - Avvocato penalista del Foro di Foggia. Era una lettera come tante, quella che arrivò sulla mia scrivania nel mese di maggio del 2005. Era una storia come tante, quella di un ragazzo di San Giovanni Rotondo, in carcere a Bellizzi Irpino in attesa di giudizio. L’accusa, di quelle pesanti: mafia e omicidio, nell’ambito della maxi indagine che ha portato alla sbarra i vertici dei clan del Gargano. Una lettera essenziale: sono innocente, ho bisogno di qualcuno che lo dimostri. I giudici non mi credono. Certo, dicono tutti così. Andrò a trovarlo, gli spiegherò che gli conviene dirmi la verità. “Avvocà, quel giorno ero a Rimini. Le prove ci sono, ma le devi trovare tu. Ho detto tutto il giorno in cui mi hanno arrestato, ma il pm non mi crede.” Innocente, accusato di omicidio, processo in Assise e come difesa un alibi da provare. Sembra una trama di Perry Mason. Cos’altro chiedere, a poco più di trenta anni? “Ero con i miei amici e con “Ponzino”...Ponzino, alias Giovanni Prencipe. Considerato personaggio di spicco della criminalità garganica. Ivan e Ponzino sono amici. Colleghi commercianti. Entrambi vendono articoli religiosi. Sono spesso insieme. Ma rispetto ai presunti traffici di “Ponzino” Ivan è totalmente estraneo. Con il suo sguardo orgoglioso e sincero, in pochi minuti mi aveva convinto. La moglie, conosciuta qualche giorno dopo, donna bella e fiera, dal temperamento più teutonico che garganico, mi mise la sua vita nelle mie mani. Dovevo trovare quelle prove. “Quella notte, capiscimi, ero con amici. C’era una ragazza. Si ricorderà di noi. Abbiamo dormito in un hotel sul lungomare, non ricordo quale”. Tranquillo, non sarà difficile. È una parola, in realtà. Ce ne sono solo trecento di hotel. E due milioni di schede di presenza in Questura. E la famosa ragazza ha cambiato da quel giorno tre volte residenza. “Stavamo tornando da Venezia. Sulla “Romea” mi ha fermato la Stradale e mi ha multato, poche ore prima di arrivare a Rimini. La sera dell’omicidio i carabinieri sono anche andati a cercarmi a casa. Mi ha chiamato il maresciallo col suo telefono, e io ho risposto da qui, da Rimini”. In gioco c’era un ergastolo, ma non era quello che spaventava Ivan. Era il marchio di mafioso che no, Ivan proprio non voleva. Per l’onore di sua moglie, e dei suoi figli. Una famiglia, quella che aveva costruito, diversa da quella da cui proveniva. E di cui era orgoglioso, e per la quale avrebbe rinunciato a tutto. Nei successivi tre mesi ho avuto un pensiero fisso. Cercare quelle prove. Trovarle. Il titolare di uno di quei trecento hotel ha avuto la pazienza di conservare, a distanza di anni, le matrici delle schede di notificazione. La ragazza, dopo tanto peregrinare, aveva fissato domicilio a Busto Arsizio. Dopo giorni di appostamenti, insieme all’investigatrice privata, l’abbiamo riconosciuta. Così come lei ha riconosciuto in foto Ivan e gli amici, incontrati una sola volta nella sua vita, il 26 luglio del 2001, a Rimini. La sera dell’omicidio. Anche Gennaro, il cuoco, pur figlio di una terra omertosa, ha trovato la forza di testimoniare, ricordando quell’incontro. I tabulati telefonici, altro che “bianchi”. Bastava inserire il corretto numero IMSI (strano che i carabinieri non lo sapessero) per capire che Ivan e il suo telefono erano in giro per l’Italia, e che il 26 luglio erano a Rimini. E che, proprio quella sera, Ivan parlava con la moglie e con il maresciallo dei carabinieri. Tutto questo, però, al Tribunale del Riesame non bastava. I “gravi indizi”, per un povero cristo come La Fratta, resistono sempre. Sarà il processo a stabilire se Ivan è innocente. Intanto resta in carcere. Dopo 132 udienze dibattimentali, alla sbarra in quello che è considerato il più grande processo alla mafia di Capitanata, arriviamo al giorno della sentenza. Pochi giorni prima, il pm chiese l’ergastolo. E io, ovviamente, l’assoluzione. Entra la Corte, il Presidente Cristino, il giudice Forte, i giudici popolari. La sentenza fu chiara e non ci fu mai appello. La mafia esiste nel Gargano. Decine, le condanne. Cinque, gli ergastoli. Ma Ivan non ha mai commesso quell'omicidio. L'onore è salvo.

Il latitante tradito dalla montagna, scrive il 12 dicembre 2017 su "la Repubblica" Alfredo Fabbrocini - Dirigente della II Divisione dello SCO - Servizio Centrale Operativo Polizia di Stato. La telefonata arrivò inattesa, ad un orario improbabile, alle 7.45 di una mattina del 10 luglio 2010. Il nome sul display era di quelli che si memorizza per la funzione: Direttore Servizio Centrale Operativo, così già sai che devi rispondere “si” anche se non hai capito la domanda.

Direttore: cosa fai a Parma?

Io: arresto criminali di poco conto e provo ad avere una vita oltre il lavoro (per una volta).

Direttore: qualcosa ti trattiene lì?

Io: la pasta ripiena, ma penso la facciano anche da asporto.

Direttore: bene….la mafia garganica ha ricominciato a sparare.

Io: (aveva smesso..?)

Direttore: fai la valigia, tra tre giorni dovrai essere lì, avrai a disposizione un gruppo di uomini dello S.C.O (il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato), della Squadra Mobile di Foggia e di quella di Bari; e la nostra fiducia, devi prendere un latitante dell’elenco dei 30 più pericolosi: Giuseppe Pacilli, “Peppe Il montanaro”.

Non credo ebbi il tempo di rispondere, non c’era motivo per farlo.

Non potei chiedere perché lo chiamavano "il montanaro”: ma imparai a mie spese nei mesi successivi il significato profondo di quel soprannome.

Quella telefonata e l’implicita entusiastica accettazione di una domanda mai posta, un elegante modo di impartire ordini che non possono essere discussi, mi condannarono a mesi di patimenti, di fallimenti quotidiani, di dedizione totale e folle a quella che è l’indagine più bella: la barbara caccia all’uomo.

Ogni sera ci si addormenta con lo stesso pensiero: anche oggi ha vinto lui.

Ogni mattina ci si sveglia con lo stesso pensiero: anche questa notte ha vinto lui.

Dopo tre giorni la squadra è già formata: veniamo confinati nella ormai abbandonata Scuola Allievi Agenti di Foggia, un posto perfetto. Siamo solo noi, giorni e notti dedicate solo al lavoro, per imparare, per conoscere, per cercare.

Così cominciamo a conoscere il Gargano: un mondo a parte, diviso tra una mafia sconosciuta ai più ed un desiderio di giustizia sopito per rassegnazione.

Il territorio è completamente asservito ai clan, alla guerra tra di loro noi assistiamo come spettatori non paganti, incapaci di incidere realmente e considerati avversari non di eguale livello; troppo pochi, troppo soli, negli anni questa terra è stata dimenticata. Quanto di più offensivo per un poliziotto, non essere temuto dai criminali, non essere rispettato dalle vittime.

In questo clima di ostile indifferenza cominciamo a cercare, cominciamo ad entrare nel mondo sommerso dei garganici.

Entriamo nei loro telefoni, nelle loro macchine, nelle loro case e luoghi di incontro, siamo ovunque, con una attività così invasiva e silente che ci fa dimenticare le nostre vite, viviamo solo le vite degli altri.

Il ricercato devi conoscerlo; e per farlo non si può prescindere dai familiari. Sono loro che involontariamente ti spiegano chi stai cercando. Sono loro che ti faranno capire se vive, perché solo loro piangeranno la sua morte. Quando si cerca un latitante la prima banale certezza che devi avere è proprio quella: sapere che c’è ancora, che tutta la tua vita non è dedicata a cercare un fantasma. Ed è da li che partiamo.

Poi passiamo ai complici, agli amici a chi, anche solo occasionalmente, aveva incrociato il suo cammino. E controlliamo anche i suoi rivali, quelli che lo vogliono morto, non catturato. E così scopriamo che non siamo gli unici a cercarlo, ci provano anche loro. Per finalità diverse, con mezzi meno sofisticati ma all’occorrenza più efficaci.

Ma di Peppe il montanaro non si hanno notizie, non si hanno indicazioni; ma si sente che è li, che non ha abbandonato la sua montagna: ha la stessa capacità di mimetizzarsi di un lupo, ed ugualmente famelico. Per mesi il Gargano non si apre, resta chiuso su se stesso, non abbandona i suoi figli reietti ed ogni giorno che passa il Lupo si rafforza. Gli altri cadono. Lui no. Gli altri vengono arrestati. Lui sempre più inafferrabile. Sempre più padrone del territorio.

Poi all’improvviso, arriva. Cercata. Voluta. Bramata. Quando ogni pezzo si compone, ogni ipotesi diventa tesi. Ogni intuizione diventa giusta. La chiamiamo “l’accelerata”; quando trovi la pista giusta, e non puoi più rallentare.

E’ un sabato notte, le famiglie di noi tutti sono lontane. Noi sempre ad ascoltare la montagna. Ad ascoltare i sassi. Non è una metafora, ma estenuante strategia. All’improvviso, sentiamo il latrato del lupo, e acceleriamo. Non ci fermiamo più. In pochi giorni e poche notti insonni stringiamo il cerchio. Ed acceleriamo ancora. Non si sente stanchezza, non si avverte fatica.

E lo troviamo lì, nel cuore della sua montagna. Protetto solo dalla natura a lui sodale. Sorpreso, incredulo, sconfitto. Chiede una sola cosa: “Chi mi ha tradito?” Una sola risposta riceve: "La montagna”.

Capirà poi il senso di quelle parole. Questa sera ci si addormenterà con un nuovo pensiero: oggi abbiamo vinto noi.

Le tre mafie di Foggia, scrive su "La Repubblica" il 6 dicembre 2017 Piernicola Silvis, Poliziotto e scrittore. Ex questore di Foggia. Vieste, la cosiddetta perla del Gargano, è nella Top Ten delle località balneari italiane, con un flusso turistico medio di due milioni di villeggianti nel periodo estivo. Eppure quest’anno la mano dei killer della mafia garganica ha colpito al cuore questo patrimonio sociale ed economico. Alle due di un bollente pomeriggio di fine luglio, due sicari entrano nell’"Antica bruschetta”, il ristorante in centro storico di cui è titolare Omar Trotta, precedenti per droga e poco altro, e con tre colpi di pistola lo uccidono davanti alla moglie e alla figlioletta di pochi mesi. I turisti presenti ovviamente fuggono terrorizzati. La mafia garganica, così, colpisce anche d’estate. Fino a ora la mano dei killer aveva sempre evitato di uccidere durante la stagione estiva. Alla criminalità organizzata non fa certo comodo che Vieste e il Gargano siano più famosi come territori di mafia che per le belle coste e la piacevolezza della gente. Se il turismo crollasse, crollerebbero inevitabilmente anche gli affari delle centinaia di alberghi, negozi e siti balneari sotto estorsione, e i boss resterebbero a bocca asciutta. O, quantomeno, verrebbero a perderci parecchio, se il flusso di denaro spinto in zona dai vacanzieri diminuisse. Ma non basta. Dopo una decina di giorni, il nove agosto in una landa garganica i sicari della mafia uccidono quattro persone: due pregiudicati e i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, che con la criminalità non hanno nulla a che vedere e che per puro caso si trovano nel luogo dell’agguato. Dopo la morte dei due fratelli di San Marco in Lamis, lo Stato si organizza per dare alle batterie foggiane una risposta adeguata. C’era bisogno, per questo, di una strage e la morte di due innocenti? Evidentemente la risposta, amara e forse scontata, è “sì”. Occorre adesso fare un passo indietro, perché della mafia foggiana e di quella garganica nel Paese pochi sanno qualcosa. Non è cinematografica come Cosa nostra, Camorra e ‘Ndrangheta. Non celebra rituali semiesoterici di affiliazione. Non ha cioè quel fascino malato che possa renderla nota all’opinione pubblica, quindi è necessario spiegare brevemente di cosa parliamo. Nella provincia di Foggia esistono tre mafie, che nulla hanno (e hanno avuto) a che vedere con la Sacra Corona Unita, confinata – per ciò che ancora ne resta – nel lontano Salento. La mafia dei cerignolani, dedita per tradizione a eclatanti rapine a blindati portavalori e allo spaccio di stupefacenti. Poi quella del Gargano, cioè Vieste e altre località rivierasche, che controlla le estorsioni ai siti turistici e gestisce il traffico di droga. E infine la “Società Foggiana”, la criminalità organizzata di Foggia e San Severo, due centri da 160.000 e 55.000 abitanti. La mafiosità di tali organizzazioni è attestata da varie sentenze di condanna per 416-bis, e il giro di affari è il consueto: estorsioni e traffico di droga. Il quadro in cui si inserisce la guerra mafiosa di Vieste è una delle sottotrame di questa più ampia storia criminale. Proviamo a scorrerne brevemente i fotogrammi. È il 2009, droga ed estorsioni sul Gargano sono appannaggio esclusivo di due clan consociati della zona di Monte Sant’Angelo, i Li Bergolis e i Romito. Franco Li Bergolis, il boss di uno dei due gruppi, viene però condannato a pene durissime, di cui attribuisce la “colpa” ad alcune delazioni che secondo lui i Romito, batteria fino ad allora affratellata, avrebbero fatto ai carabinieri. La vendetta dei Li Bergolis è spietata. Il 21 aprile del 2009 vengono uccisi in pieno giorno, a Siponto, Franco Romito e Giuseppe Trotta, e dopo poche settimane la risposta: viene ucciso in un agguato Francesco Li Bergolis. In una manciata di mesi i morti – da una parte e dall’altra – sono in tutto sei, fra cui un ragazzo di soli 23 anni. Fatto sta però che se, da un lato, nel 2010 la guerra di mafia esplode in tutta la sua virulenza, anche la Giustizia colpisce duramente. A settembre Franco Li Bergolis, latitante, viene arrestato per scontare un ergastolo, e altri affiliati alla sua batteria vengono condannati a pene elevate. I vertici del clan si affievoliscono, e i Romito si defilano. Questo vuoto nel potere mafioso garganico lascia degli spazi, che nella zona di Vieste vengono subito occupati da Angelo Notarangelo, che con il suo clan spadroneggia nella droga e nelle estorsioni. Ma nel gennaio del 2015 il boss Notarangelo viene ucciso da quattro sicari armati di AK 47. Chi ha ordinato la sua morte? Un clan rivale emergente? Il suo vice Marco Raduano, che in una specie di ammutinamento elimina il capo per prenderne il posto? Da allora la situazione della criminalità garganica vive un momento di estrema fluidità, in cui non si sa più chi sta con chi. L’unica cosa certa è che, dall’omicidio di Notarangelo, nella zona di Vieste le armi dei killer hanno ucciso altre cinque persone, tutte in qualche modo legate alla malavita. È in questo scenario che si inquadra l’omicidio di Omar Trotta. Era legato a Notarangelo, e le ipotesi su chi lo ha ucciso sono quelle consentite dalla caotica situazione della mafia garganica. Ovviamente, anche l’omicidio del 9 agosto di Mario Romito, che ha coinvolto il cognato e gli agricoltori Luigi e Aurelio Luciani, si inquadra nella lunga scia della guerra fra i Li Bergolis e i Romito. Oggi, come si intuisce, la criminalità garganica si declina in dinamiche in apparenza scomposte. In apparenza, però, perché in realtà montanari ed esponenti della Società foggiana sono in contatto da tempo, e in una distopica visione del futuro le due organizzazioni potrebbero unirsi in a una sola e temibile struttura criminale. D’altronde i prodromi ci sono già. Anche prescindendo dai rapporti fra clan foggiani e garganici, le recenti operazioni antidroga delle forze dell’ordine, che nella zona di Vieste hanno portato al sequestro di centinaia di chili di marijuana provenienti dall’Albania, ne sono la riprova. L’organizzazione che ha gestito il passaggio dello stupefacente attraverso l’Adriatico è composta da foggiani, garganici e cerignolani, tutti in contatto con la criminalità albanese. E nei mesi di maggio, giugno e luglio scorsi a San Severo, Foggia e Apricena, quindi nella provincia di Foggia, sono stati commessi otto omicidi di mafia, mentre sul Gargano un giovane – come spesso avviene – è scomparso senza lasciare traccia. Infine, la strage di San Marco del 9 agosto. Le domande sono molte. Questi omicidi sono collegati? Se sì, qual è il filo rosso che li unisce? Il cerchio delle tre mafie si sta chiudendo? A questi interrogativi daranno risposta le forze dell’ordine e la magistratura, nella speranza di non dover ancora una volta attendere altre morti eccellenti, affinché la politica nazionale si renda definitivamente conto del pericolo rappresentato per il Paese dalla quarta mafia. Quella della Capitanata.

Le tre mafie in provincia di Foggia. Foggiana, garganica e cerignolana: le tre mafie di Capitanata tra tradizione e modernità. Le tre mafie analizzate nella delibera della sesta commissione consiliare del Consiglio Superiore della Magistratura che ha analizzato i fenomeni criminali mafiosi in provincia di Foggia, scrive l'1 dicembre 2017 Foggia Today. Nella seduta del 18 ottobre 2017 il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, nelle materie di competenza della VI commissione, ha approvato una risoluzione che analizza la situazione degli uffici giudiziari di Foggia e Bari. La delibera si colloca nell’ambito dell’azione consiliare in materia di criminalità organizzata e fa seguito alla missione della sesta commissione che dopo i gravi episodi criminali verificatisi ad agosto sul Gargano si è recata a Bari e a Foggia per acquisire i dati necessari per un intervento consiliare di supporto agli uffici giudiziari. Nello specifico la risoluzione analizza compiutamente i fenomeni criminali che caratterizzano la provincia di Foggia, sia con riferimento alle tipologie delittuose “tipiche” delle diverse aree, sia con riguardo alle numerose associazioni delittuose che vi operano.

Le tre mafie: foggiana, garganica e cerignolana. Nella relazione del Procuratore di Foggia è stato evidenziato come in Capitanata operano gruppi criminali ovvero mafie, distinte in almeno tre organizzazioni, la cui esistenza risulta giudizialmente accertata: la mafia foggiana, la mafia garganica (operante nei territori di San Nicandro Garganico e Apricena, Manfredonia e Monte Sant’Angelo; Vieste e Peschici) e la mafia cerignolana (operante in Cerignola, Trinitapoli, San Ferdinando di Puglia). Le indagini svolte dalla Procura di Foggia - soprattutto in materia di armi, stupefacenti, reati contro il patrimonio con uso di violenza e riciclaggio - hanno in più occasioni permesso di accertare l’esistenza di “legami di affari” fra le varie organizzazioni criminali, che però non ne toccano la struttura e l’autonomia. La mafia foggiana nasce a metà degli anni Ottanta con la denominazione di “Società Foggiana”, ma il primo riconoscimento definitivo in sede giudiziaria si ha solo nel 1994, con la sentenza “Panunzio”. La mafia cerignolana nasce negli anni Novanta e la sentenza che ne sancisce l’esistenza è quella relativa al processo ‘Cartagine’, divenuta definitiva nel 1997. La mafia garganica, pur operativa dalla fine degli anni Settanta, verrà riconosciuta solo nel 2006, con la sentenza "Iscaro-Saburo", confermata dalla Corte di Cassazione.

Le organizzazioni criminali tra tradizione e modernità. Dalla relazione svolta dal Procuratore e dal sostituto della DDA di Bari è risultato che l’elemento distintivo di tutte queste organizzazioni criminali è costituito dalla capacità di coniugare tradizione e modernità. La tradizione è quella del “familismo mafioso” tipico della ‘Ndrangheta e della ferocia spietata della Camorra cutoliana; la modernità, invece, è la vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè, l’agricoltura, l’edilizia e il turismo.

La mafia si tramanda di padre in figlio. Nel Foggiano non esistono le affiliazioni, l’appartenenza al gruppo non si acquisisce mediante un “battesimo”, ma si tramanda di padre in figlio. Il rito di affiliazione serve ad introdurre il "picciotto" nella famiglia mafiosa, per segnare un passaggio, qui non necessario, di appartenenza dalla famiglia “biologica” alla famiglia del clan. E, d’altra parte, l’eredità maggiore, il bene più importante, che un boss si preoccupa di lasciare a suo figlio, è il titolo di capo e la reggenza del clan (come accertato dalle sentenze emesse nel processo "Cronos").

La mafia garganica. La mafia garganica è particolarmente cruenta e non si accontenta di uccidere, cancella anche la memoria della vita soppressa. I cadaveri infatti sono spesso bruciati o buttati nelle grave, veri e propri cimiteri di mafia. Il fenomeno mafioso è, quindi, nell’insieme, compatto, feroce, profondamente radicato sul territorio, su cui esercita un vero e proprio controllo militare. Due i fattori che incidono in questo modus operandi. La morfologia del territorio, con zone montuose, impervie, in parte ricoperte dalla fitta boscaglia della foresta Umbra, con la presenza di grotte e cave, e che, per questo, si presta ad imboscate, nascondigli e occultamenti di materiale illecito, come con droga e armi. Le coste frastagliate, con insenature nascoste, non facilmente accessibili, rivolte direttamente verso l’Albania (paese che quanto a produzione ed esportazione di droghe leggere si attesta ai vertici del panorama mondiale), rendono oggettivamente le zone garganiche un luogo di approdo privilegiato delle imbarcazioni che trasportano carichi di droga provenienti dall’Albania, essendo difficile il controllo e l’intervento delle forze dell’ordine.  Il secondo fattore è di ordine sociologico. In taluni contesti del Foggiano il radicamento socio-culturale del sistema mafioso è così forte da produrre una generalizzata e assoluta omertà che, talvolta, trasmoda nella connivenza se non addirittura nel consenso. A riprova di questo deve evidenziarsi che, dal 2007, non si hanno collaboratori di giustizia interni ai circuiti associativi.

L’80% degli omicidi irrisolti. Dall’inizio degli anni 80 ad oggi, su circa 300 delitti di sangue ascrivibili al contesto mafioso foggiano, l’80% degli omicidi sono ancora irrisolti. Le denunce sono pressoché inesistenti e i pochi cittadini che le presentano quasi sempre in sede processuale ritrattano. Gli imprenditori, nel corso degli anni, sono passati da un assoggettamento estorsivo di tipo violento, ad una atteggiamento di volontaria sottomissione al sistema mafioso: spesso, infatti, è lo stesso imprenditore che si reca autonomamente dal mafioso per pagare il pizzo, anticipandone in tal modo la richiesta.  E all’origine di tali iniziative degli imprenditori non vi è la finalità di lucrare vantaggi, ma la consapevolezza che l’agibilità del percorso esistenziale, economico, sociale e familiare non può affrancarsi dalla protezione mafiosa.

Le alleanza tra le mafie. La mafia di Capitanata è costituita da organizzazioni che, pur autonome tra loro, sanno stabilire alleanze interne (così tra la mafia foggiana e la mafia garganica: vedi sentenza “Blauer”), nonché con le mafie e le organizzazioni transnazionali albanesi per l’importazione dal Paese balcanico di tonnellate di marijuana e hashish, che vengono puntualmente sversate sulle coste garganiche (vedi operazioni “Red Eagle” e “Coast to Coast”). La mafia foggiana ha saputo, inoltre, creare join venture con i Casalesi sia sul versante della contraffazione di milioni di euro di carta filigranata originale sottratta dalle cartiere di Fabriano (vedi sentenza “Filigrana”), sia per gestire il traffico dei rifiuti dalla Campania alle cave del foggiano (vedi operazioni “Black Land” e “In Daunia venenum”).

Il salto di qualità della mafia foggiana. Un ulteriore salto di qualità importante è stato poi compiuto negli ultimi tempi proprio dalla “Società Foggiana”, così come ribadito da Legnini nel corso della sua visita nel capoluogo dauno. Recenti inchieste hanno dato conto della capacità di infiltrarsi nella pubblica amministrazione, in particolare nel settore legato a servizio pubblico di raccolta dei rifiuti e nei settori delle energie alternative, come il fotovoltaico (vedi operazioni ‘Piazza Pulita’ e ‘Remake’); di riciclare i propri capitali illeciti, investendoli in operazioni fraudolente riguardanti un settore strategico dell’economia locale, come quello vitivinicolo, interloquendo, a tal fine, con una importante azienda vitivinicola del ravennate (vedi operazione “Bacchus”); di infiltrarsi in ambiti imprenditoriali operanti nell’indotto legato alla lavorazione del grano e del pomodoro (vedi operazioni “Rodolfo” e “Saturno”).

Gargano, la mafia dimenticata, scrive su "La Repubblica" il 5 dicembre 2017 Attilio Bolzoni. Sono uomini che alle loro spalle si lasciano poche tracce, a volte nemmeno una fotografia. Tutti sconosciuti, senza passato. Appartengono a “piccole” mafie che non sono mai diventate famose, capi senza gesta “epiche” da raccontare e tramandare, perché non sono Padrini avvolti nel mistero come quelli di Cosa Nostra e non sono ricchi e potenti come quegli altri della 'Ndrangheta. Sono solo feroci, ferocissimi. E se non avessero ucciso così rumorosamente anche due innocenti - il 9 agosto scorso, a San Marco in Lamis, nell'alto Tavoliere delle Puglie - un'altra delle loro stragi avrebbe avuto lo spazio di appena tre colonne in cronaca sui giornali e un titolo dei tg per una sola sera. Dimenticata, oscurata, snobbata dai media e per lungo tempo anche dall'apparato repressivo dello Stato, la criminalità di Foggia è diventata sempre più forte e spaventosa dentro i silenzi. Ecco perché abbiamo voluto dedicare questa serie del blog alle mafie di quell'angolo lontano d'Italia. A parere degli esperti ce ne sono almeno tre. E tutte autonome e "staccate" dalla più nota Sacra Corona Unita. Una è quella dei "cerignolani", rapine a portavalori e spaccio di droghe. Un'altra è quella del Gargano che spreme, con estorsioni a tappeto, le attività turistiche di Vieste e delle altre città sul mare. La terza è la "Società Foggiana", crimine organizzato che opera prevalentemente tra il capoluogo e San Severo. In dieci articoli - che ha selezionato e raccolto per noi la giornalista Tatania Bellizzi - vi ricostruiamo cosa c'è dietro quell'agguato a colpi di kalashnicov e di fucili a canne mozze che ha insanguinato l’estate pugliese. Faide, vendette, "sgarri” dentro un mondo arcaico che però è stato svelto ad agguantare le opportunità offerte dai nuovi mercati criminali. Soprattutto quelli dell'altra parte dell'Adriatico. Terra piena di covi e di arsenali, la provincia di Foggia è sprofondata negli ultimi anni nella paura e nella rassegnazione. Ma la strage di agosto, così brutale e così "facile" da realizzare per chi l'ha ideata, può rappresentare l'inizio della fine per quella mafia colpevolmente ignorata e un principio di cambiamento. I due volti di Foggia ce li descrivono qui saggisti e giornalisti, poliziotti e magistrati, rappresentanti dell’associazionismo. C'è anche una riflessione dell’arcivescovo Vincenzo Pelvi sui mafiosi e sul loro “Dio diverso”. Chiudiamo con un'analisi di Tea Sisto sulle tante mafie della Puglia, anzi - come si diceva una volta - delle Puglie.

Omertà e vendette, una faida che viene da lontano, scrive su "La Repubblica" il 5 dicembre 2017 Tatiana Bellizzi, giornalista. Spremitura di un atlante geografico. Cime aspre che salgono e che scendono a valle, fino ad addolcirsi delineando il profilo del volto di un Cristo dormiente che sconfina nel mare. Siamo qui, sul Gargano, dove si ammazza anche in nome di quel Cristo. Dove si uccide per difendere pochi centimetri di pascoli puntellati, qua e là, di bunker agresti. Benvenuti sulla vetta più alta della Montagna Sacra, terra di devozioni e di omertà. Terra di impunità e di mafia. Proprio quella mafia che oggi viene definita tra le più violente e brutali dell’intero panorama nazionale. Quella che un tempo veniva stretta, come un corsetto, nell'espressione "faida tra pastori". La mafia Garganica ha una data di nascita: 13 ottobre 1999. Il giorno del disvelamento. Vincenzo e Angelo Fania, padre e figlio, imprenditori, vennero uccisi nella loro proprietà sul Monte Delio, vicino San Nicandro, perchè non volevano che i loro terreni fossero luogo di transito dei traffici illeciti e in particolare del contrabbando di sigarette.

Ma per raccontare la mafia garganica bisogna perdersi nel tempo e descrivere di quella storica rivalità tra famiglie di allevatori. La più nota e spietata è quella di Monte Sant’Angelo tra i Libergolis e Primosa-Alfieri, che dal 1978 ad oggi ha messo uno dietro l'altro trentacinque morti ammazzati e decine di agguati. Il valzer di sangue si apre il 30 dicembre 1978. Durante un litigio viene ucciso l’allevatore Lorenzo Ricucci, accusato di abigeato dai Libergolis. Un anno dopo Raffaele Primosa rimase paralizzato in seguito ad uno scontro a fuoco e indicò Francesco Ciccillo Libergolis come responsabile. Generazioni di carnefici, giovani rampolli del crimine armati 'solo' di kalashnikov. Tutti personaggi senza vita, come il baby killer Michele Alfieri, figlio di Peppino, morto ammazzato il primo marzo 1989, che a sua volta, tre anni dopo quella data, uccise in una piazza di Monte Sant'Angelo il boss Matteo Libergolis. Poi si costituì ai carabinieri. Diciotto anni più tardi il suo corpo è stato martoriato da una sventagliata di proiettili mentre usciva da un bar. Ma si sa come funziona su Gargano: il sangue va lavato con altro sangue. Ed ecco allora un susseguirsi di vendette, di 'sgarri'. Da quel marzo del '92 per circa due anni andò in scena il macabro spettacolo di una lunga stagione stragista. Solo nella città dell'Arcangelo Michele si contarono circa 40 morti ammazzati. Una vera e propria carneficina che decimò il clan Alfieri Primosa. E intanto nel corso degli anni il potere criminale dei Libergolis si estese su tutto il Gargano scendendo giù a valle, lungo le coste manfredoniane e trovando nella famiglia Romito i propri 'compari'. La sentenza del maxi processo alla mafia del Gargano del marzo 2009 sancì una frattura di sangue tra i due clan. Il dibattimento mise in luce il ruolo di 'infami di questura' dei Romito, confidenti dei carabinieri tanto da consentire a questi ultimi di piazzare microspie in una masseria per registrare nel dicembre 2003 un summit mafioso, a cui presero parte tre esponenti dei Libergolis. Nel 2010 l'egemonia dei Libergolis si appanna fino a celebrare il proprio crepuscolo: viene decapitato il capostipite Ciccillo Libergolis, morto ammazzato nella sua masseria. Catturati platealmente i due latitanti inseriti tra i trenta più pericolosi d'Italia: Franco Libergolis l'ergastolano e Giuseppe Pacilli, detto “Peppin U Montanar” condannato, in via definitiva, ad 11 anni di reclusione con una sentenza che ne riconosce la mafiosità. Ed ora in paese chi comanda? Chi terrorizza Monte Sant'Angelo? Da anni, ormai, non tuonano più quei colpi di kalashnikov che squarciavano il silenzio delle pigri notti invernali. Ma il terrore, la paura, il sangue versato non hanno smesso di essere i protagonisti in una terra tanto meravigliosa quanto, purtroppo, maledetta.

“Mafia foggiana va lasciata in mutande”: parla Trocchia, giornalista di Nemo aggredito sul Gargano, scrive il 24 novembre 2017 Francesco Pesante su "L'Immediato". È tornato oggi in provincia di Foggia, Nello Trocchia, giornalista di Nemo (Rai 2), aggredito questa estate a Vieste mentre era impegnato a svolgere un’inchiesta sulla mafia garganica. Occasione della visita, il corso di formazione “I Cento Passi”, organizzato da Ufficio Scuola dell’Arcidiocesi di Foggia-Bovino, Cidi e Libera. L’appuntamento si è tenuto nell’Aula Magna dell’Istituto Einaudi di via Napoli a Foggia, dove oltre al giornalista sono intervenuti il prete anticamorra della Terra dei Fuochi, don Maurizio Patriciello e il procuratore Domenico Seccia. Prima dell’evento, Trocchia ha rilasciato alcune dichiarazioni a l’Immediato. “Ciò che più mi ha colpito della mafia garganica è la ferocia – ha esordito -. Un vero e proprio tratto distintivo che si va ad aggiungere ai rapporti con imprenditoria e pezzi di politica. Non è un caso lo scioglimento di alcuni comuni (Monte Sant’Angelo, ndr) e del rischio scioglimento per quello di Mattinata dove si attende l’esito del lavoro della Commissione d’accesso agli atti. Il fatto che l’80% degli omicidi degli ultimi 30 anni non abbia trovato colpevoli è un dato emblematico. L’omertà si edifica in quelle realtà dove i poteri istituzionali non sono ben identificabili e forti. Questo spiega anche il silenzio di numerosi imprenditori durante i processi”. Da agosto scorso, il ministro Minniti ha potenziato la presenza di forze dell’ordine. Ma bastano i militari o sarebbe necessario istituire una sezione della DDA? Trocchia risponde così: “I militari sono importanti. La gente notando la loro presenza percepisce l’impegno dello Stato. Ma serve anche altro. La DDA a Foggia rappresenta un tema. Troppe province sono prive di organismi di contrasto preparati a certi fenomeni. È successo a Latina e succede a Foggia”. Un’ultima battuta sulla visibilità, adeguata o meno, che la criminalità locale sta ottenendo a livello nazionale. Troppo spesso, infatti, la mafia foggiana è sempre stata percepita come mafia di Serie B. “Su questo punto voglio ricordare l’audizione dell’ex questore Silvis quando dichiarò che non si possono aspettare vittime illustri e innocenti prima di agire. Abbiamo sicuramente sbagliato, noi come organi di stampa nazionale. Serve concentrarsi di più. Le sporadiche inchieste non bastano. Accade la strage di San Marco in Lamis ma se ne parla per due mesi. Ostia? Se ne parla per altri due mesi. Dobbiamo capire che il contrasto alle organizzazioni criminali deve essere prioritario per questo Paese. Bisogna lasciare in mutande mafiosi e imprenditori collusi – ha concluso il giornalista -. Solo così debelleremo realtà come la Società Foggiana e la mafia dei montanari”.

Panunzio, 25 anni dalla morte. “Oggi a Foggia situazione peggiore del 1992”, scrive il 6 novembre 2017 “Limmediato". “A me la rabbia non è mai passata e vorrei che si ribellassero tutti. Ma, lo confesso, comprendo chi ha visto il sacrificio di mio padre e cosa ha prodotto e oggi mi dice: “Tu anziché andare avanti, sei andato indietro”. E cosa devo rispondere io? Lo Stato dice di voler cercare le imprese lontane dalla mafia, quelle pulite, che non si piegano. Ma se paghi in prima persona, alla fine chiudi. Nessuno ci ha aiutato dopo. Nessuno”. Sono molto forti le parole rilasciate a ilfattoquotidiano.it da Michele Panunzio, figlio di Giovanni Panunzio, l’imprenditore edile foggiano ammazzato il 6 novembre del 1992. 25 anni fa. L’uomo fu ucciso per aver denunciato il malaffare, in via Napoli, affiancato da due persone a bordo di una moto mentre era alla guida di una Y10. Quattro colpi calibro 38 non gli diedero scampo. Panunzio morì in ospedale due ore più tardi. Non voleva pagare il pizzo e fu ammazzato senza pietà. “Scriveva tutto quel che succedeva – ricorda il figlio -. Arrivò a dirlo anche ai suoi interlocutori, quando capiva che lo avevano avvicinato come intermediari: ‘Sappi che se sei venuto per il pizzo, io sto scrivendo tutto’. Il memoriale venne sequestrato: ci fu un’indagine perché altri costruttori non avevano detto no alle richieste estorsive. Perquisirono anche lo studio di mio padre. Chiesero di aprire la cassaforte e dentro c’era l’agenda con tutti gli appunti. Sulla copertina aveva scritto: “Per mia moglie, nel caso dovesse succedermi qualcosa”. Un uomo onesto, Panunzio, che diede lavoro a decine di persone nei suoi cantieri. Coraggioso nel denunciare in un periodo durante il quale i costruttori erano particolarmente nel mirino della criminalità. Due anni prima venne ucciso nel suo cantiere Nicola Ciuffreda mentre altri subirono gravi atti intimidatori. Oggi Michele Panunzio si sfoga così: “Subito dopo la morte di mio padre, le banche ci hanno chiuso le porte in faccia. Siamo stati costretti a svendere il patrimonio per pagare i debiti e io ho dovuto rimettermi in marcia. Mio padre ha denunciato, ha collaborato, non si è tirato indietro. Ma quando l’hanno fatto fuori, la cosa principale sarebbe stata seguire la famiglia. Invece non è accaduto. Lo Stato dovrebbe prendersi a cuore il dopo. Per diverso tempo i delinquenti siamo stati noi: quando incontravo soggetti malavitosi nei bar della città, me ne andavo; mia moglie è stata cacciata da alcuni commercianti, perché i mafiosi avevano impedito loro di venderci i vestiti”. Oggi, a 25 anni di distanza, la situazione non sembra essere cambiata. La quasi totalità degli imprenditori locali avrebbe – stando al Csm – un “atteggiamento di volontaria sottomissione al fenomeno mafioso”. In buona sostanza sarebbero le stesse vittime a cercare “in prima persona i soggetti appartenenti alla Società Foggiana e alla mafia garganica anticipando le richieste dei malavitosi”. “Foggia è rimasta così com’era: la situazione è insostenibile – la conclusione del figlio di Panunzio a ilfattoquotidiano.it -. Quasi tutti, lo raccontano le statistiche, pagano il pizzo. Solo ultimamente c’è stato sun segnale forte da parte delle istituzioni. La situazione è peggiore di quella del 1992″. 

Il ricordo di Landella e Miranda. “Giovanni Panunzio era un uomo libero che ha pagato con la vita la scelta di non volersi piegarsi alle logiche mafiose. Ieri come oggi abbiamo il dovere di sostenere le battaglie per la Legalità”, queste le dichiarazioni del sindaco, Franco Landella che oggi insieme al presidente del Consiglio comunale, Luigi Miranda ha posto una corona di alloro al monumento che ricorda Panunzio. Subito dopo l’imprenditore è stato ricordato in un convegno promosso dall’Associazione “Giovanni Panunzio – Eguaglianza Legalità Diritti”, che si è svolto nell’Aula Magna dell’Università, in via Caggese. Nel suo intervento di saluto, Miranda ha dichiarato che: “L’omicidio di Giovanni Panunzio è uno spartiacque della storia della nostra città. Prima e dopo Panunzio, prima e dopo la morte di un galantuomo, prima e dopo la reazione violenta della malavita contro un uomo perbene che si è rifiutato di scendere a compromessi. Venticinque anni fa la nostra città ha perso non solo la vita di un suo cittadino, ma ha perso un po’ di se stessa. Dopo l’omicidio Panunzio la città di Foggia si è svegliata diversa, più insicura, meno fiduciosa nella capacità umana di vivere in maniera fraterna. Dopo l’omicidio Panunzio Foggia ha capito che la malavita era presente nel tessuto sociale, ed era capace di uccidere. Solo dopo l’omicidio di Giovanni Panunzio nella nostra città abbiamo iniziato a riflettere sui temi della legalità. Il vivere civile, la normale convivenza – ha continuato Miranda – hanno bisogno di legalità, che è il rispetto e la pratica delle leggi. È un’esigenza fondamentale della vita sociale per promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune. La nostra sicurezza ed incolumità sono affidati alla eccellente Procura della Repubblica, ai magistrati, alla Polizia, ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza che hanno sferrato colpi straordinari alla criminalità e che, tra mille sforzi, svolgono un ruolo straordinario per la difesa della legalità nel nostro territorio. Ma al contempo legalità dobbiamo essere tutti noi. La legalità è una responsabilità, anzi corresponsabilità. Giovanni Panunzio è diventato un simbolo, uno dei simboli nazionale della lotta al racket, della lotta alle estorsioni. Un fenomeno incivile, perché uccide l’economia di un territorio, mortifica l’impegno degli imprenditori, condanna a morte le imprese e cancella posti di lavoro. È vero che molti, per paura o per quieto vivere, pagano il pizzo, si piegano alla violenza estorsiva. Giovanni Panunzio ha invece avuto il coraggio di dire no, ha avuto il coraggio di dire che l’onestà è più forte del malaffare, e ha portato fino alle estreme consegue, fino alla morte, le sue convinzioni. Giovanni Panunzio è un campione della legalità. La legalità – ha proseguito Miranda – è un sentimento innato nel cuore dell’uomo, e per certi versi è patrimonio genetico. A condizione che sia coltivata dalla educazione di famiglia e scuola, e dalle buone prassi delle istituzioni. Se famiglia, scuola e Stato forniscono buoni esempi di legalità i nostri figli cresceranno sapendo quali sono i comportamenti leciti e quali no. Occorre creare una mentalità nuova, che sia rispettosa della legalità e non intimorita dal malaffare. Perché la paura e il timore, sono alleati dei delinquenti.  Cittadini e Istituzioni devono fare ognuno la sua parte: le Istituzioni, per esempio, con un maggiore controllo dei commercianti abusivi e dei venditori di materiale contraffatto. I cittadini evitando di fare acquisti dagli abusivi e non ostruendo gli scivoli per disabili. Perché la legalità – ha concluso Miranda – si impara rispettando il codice della strada, e non solo il codice penale. Dobbiamo imparare ad essere rispettosi nel poco, per pretendere il rispetto della legalità nel molto. La legalità è un servizio alla collettività, non il dovere di un singolo. Dobbiamo operare insieme per contrapporre la legalità organizzata alla criminalità organizzata, dobbiamo opporre la luce di iniziative come questa di oggi al buio della criminalità, la nostra voce alta e sicura al silenzio cui vorrebbe ridurci la criminalità”.

Mafia, arrestato il vicepresidente del Foggia: "Stipendi in nero a calciatori e all'allenatore De Zerbi". Il commercialista foggiano Ruggiero Massimo Curci è stato arrestato a Milano per l'ipotesi di reato di autoriciclaggio per conto del clan Laudani di Catania. Parte dei fondi investiti per finanziare il club, scrive il 4 dicembre 2017 "La Repubblica". Nelle ultime due stagioni i giocatori e l'allora allenatore del Foggia, Roberto De Zerbi, oggi alla guida del Benevento che ha fermato il Milan ottenendo il suo primo punto in campionato, avrebbero ricevuto compensi in nero. Denaro riciclato proveniente da una serie di reati di natura fiscale attuati per favorire gli interessi dei clan catanesi operanti a Milano e in provincia. L'intreccio tra mafia e pallone emerge dall'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia (Dda) milanese che ha portato in carcere il vicepresidente onorario del Foggia e commercialista Ruggiero Massimo Curci. Le manette sono scattate per l'ipotesi di autoriciclaggio: approfondendo le indagini scaturite dall'arresto a maggio di 15 presunti appartenenti all'organizzazione criminale che favoriva gli interessi del clan Laudani in Lombardia, guardia di finanza e polizia sono arrivati a Curci. Il commercialista, in sostanza, avrebbe estinto gli oneri fiscali e contribuitivi delle aziende degli appartenenti all' organizzazione - fortemente esposte verso il fisco - attraverso indebite compensazioni con crediti inesistenti, provocando il fallimento di una serie di cooperative sulle quali sono state scaricate le compensazioni. Un sistema che avrebbe consentito di accumulare centinaia di migliaia di euro di compensi illeciti. E proprio parte di questi soldi - 790mila euro - sarebbe stata autoriciclata nel Foggia, nelle stagioni 2015-2016 e 2016-2017. Stando a quanto scrive il gip Giulio Fanales nell'ordinanza, nella sola stagione scorsa, Curci avrebbe versato in questo modo quasi 329mila euro. E l'anno precedente ne avrebbe messi 228mila. Quasi 234 mila euro sarebbero invece serviti per i pagamenti in nero. In un appunto sequestrato sul telefono del fratello Nicola, gli investigatori hanno trovato l'elenco dei destinatari e gli importi: oltre a De Zerbi, che avrebbe avuto 15mila 50 euro, compaiono otto giocatori ed ex - Enrico Guarna (13mila 500 euro), Roberto Floriano(25mila), Alan Empereur (50mila), Pietro Arcidiacono (20mila), Cosimo Chiricò (18.477), Vincenzo Sarno (14mila 55), Antonio Junior Vacca(24mila 568) e Pietro Iemmello (24mila 568) - l'ex viceallenatore Davide Possanzini (15mila 49) e i procuratori di Guarna (6mila) e di Empereur (7.500). La società nega ogni addebito in una nota ufficiale firmata dal presidente Lucio Sanes e dai consiglieri Francesco e Fedele Sannella. Proprio quest'ultimo, sostiene però il gip, sarebbe il destinatario dei 328mila euro consegnati in contanti da Curci. Agli atti dell'inchiesta c'è anche una telefonata di Curci con un certo Vincenzo Croce in cui il commercialista non nega i pagamenti. Anzi, dice il gip, "si doleva delle contestazioni mossegli" in quanto "a suo dire la diffusione sociale di tale fenomeno avrebbe dovuto far ritenere privo di disvalore il proprio comportamento". Tutti i giocatori sentiti e anche De Zerbi (che ha risposto con un "no comment" a chi lo ha interpellato) hanno negato di aver preso soldi in nero. Ma nessuno, sostiene ancora il giudice, è stato "in grado di fornire alcun tipo di spiegazione di fronte agli appunti" trovati al fratello di Curci. Tanto che gli inquirenti hanno già avviato una serie di approfondimenti, parlando di "gratuite e vergognose" negazioni dell'evidenza e non escludendo la possibilità di nuove iscrizioni nel registro degli indagati: non tanto per l'illecito fiscale, quanto per l'ipotesi di favoreggiamento personale di Curci.

Nessuno parla della Società Foggiana.

 San Marco in Lamis, il boss ucciso con 2 fucilate alla nuca. Confermato il rito dell'esecuzione per Luciano Romito: stessa modalità anche per il cognato che fungeva da autista, scrive l'11 Agosto 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ stato ammazzato con due fucilate alla nuca il boss di Monte Sant'Angelo Mario Luciano Romito. E' quanto è emerso dalle autopsie eseguite presso l’istituto di medicina legale di Foggia delle quattro vittime dell’agguato di tre giorni fa a San Marco in Lamis. La stessa sorte è toccata al cognato di Romito, Matteo de Palma, che era l’autista del boss: anche lui è stato ucciso con un colpo di fucile alla nuca. I due fratelli contadini, uccisi perchè testimoni involontari del duplice omicidio, sono stati giustiziati con colpi sparati a distanza ravvicinata. Il questore di Foggia ha vietato i funerali, in forma pubblica, del presunto boss Mario Luciano Romito, ucciso nell’agguato dell’altro giorno. Si svolgeranno invece alle 16,00 di oggi nella chiesa della Collegiata, a San Marco in Lamis, dove è stato proclamato lutto cittadino, i funerali per Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli uccisi dai killer. I fratelli - è emerso dalle autopsie - sono stati ammazzati dai killer con colpi sparati con il fucile d’assalto AK 47 Kalashnikov: Aurelio Luciani che aveva tentato di fuggire uscendo dall’auto, è stato raggiunto da due colpi al fianco e uno al gluteo; il fratello Luigi è stato ucciso con due colpi alla testa e uno alla nuca. «A settembre il Csm provvederà alla nomina del nuovo Procuratore della Repubblica di Foggia. Sarà una delle prime azioni che faremo». Lo afferma Antonio Leone, Consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura. "Mi sono confrontato con il Vicepresidente Legnini immediatamente dopo il drammatico episodio accaduto sul Gargano. Gli ultimi pareri relativi all’iter della nuova nomina sono arrivati proprio alla fine di luglio. Per questo motivo completeremo il percorso non appena gli uffici torneranno operativi. Per il futuro - conclude - valuteremo anche la richiesta al governo di un aumento dei Sostituti Procuratori per far fronte alle oggettive necessità del territorio. Purtroppo i fatti di questi ultimi giorni ci impongono, oltre che delle riflessioni, anche il compimenti di azioni rapide ed efficaci».

Foggia, agguato in strada al boss: 4 morti. Freddati due contadini testimoni involontari. A San Marco in Lamis l'obiettivo era Mario Luciano Romito, che è morto sul colpo con suo cognato. Poi i sicari hanno ucciso due fratelli che avevano visto tutto. Il ministro Minniti a Foggia per l'emergenza, scrive il 9 agosto 2017 "La Repubblica". Una pioggia di proiettili. E una strada di solito poco trafficata che si trasforma in una scena da Far West. La strage era stata pianificata nei minimi dettagli. Tutto è accaduto in pochi minuti intorno alle 10 sulla strada provinciale 272, nei pressi della vecchia stazione di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia: quattro persone uccise da un commando armato e formato, forse, da quattro o cinque killer. Le vittime erano a bordo di due mezzi, trovati a una distanza di circa 500 metri l'uno dall'altro: due uomini sono stati uccisi mentre erano su un Maggiolone Wolkswagen blu scuro, gli altri due erano in un Fiorino bianco.

L'obiettivo dei killer era nel Maggiolone: si tratta del boss Mario Luciano Romito, cinquant'anni, di Manfredonia, a capo dell'omonimo clan che negli ultimi anni si è contrapposto al clan Li Bergolis nella cosiddetta 'faida del Gargano'. Con lui, nella vettura, c'era il cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista, anche lui morto all'istante. Secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri del comando provinciale di Foggia, un'automobile con i sicari a bordo avrebbe affiancato il Maggiolone e i killer avrebbero aperto il fuoco con un fucile d'assalto kalashnikov Ak-47 e un fucile da caccia calibro 12, uccidendo sul colpo con una sventagliata di proiettili Romito e De Palma.

Poi il commando si è messo all'inseguimento del Fiorino a bordo del quale stavano tentando di fuggire due contadini, testimoni scomodi - a quanto sembra - del duplice omicidio. I due agricoltori, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, di San Marco in Lamis, rispettivamente di 47 e di 43 anni, hanno visto uccidere e hanno capito di essere in pericolo: avrebbero tentato la fuga, ma sono stati raggiunti e uccisi. Uno dei due contadini ha cercato anche di fuggire a piedi, ma i killer non hanno avuto alcuna pietà e hanno continuato a sparare. Uno dei due fratelli era ancora vivo quando è stato trasportato nell'ospedale di San Severo, dove però è morto poco dopo. Nel Fiorino sono stati trovati dai carabinieri attrezzi utilizzati per coltivare la terra e raccogliere verdure: i due agricoltori nulla avevano a che fare, secondo quanto emerso finora, con il boss e il cognato. Questi ultimi probabilmente erano arrivati per un appuntamento che si è rivelato invece essere una trappola mortale. L'agguato è stato compiuto da un gruppo di feroci criminali per affermare il proprio potere.

"Li immagino i fratelli Luciani, Luigi e Aurelio, capire in una frazione di secondo che quello che avevano visto li avrebbe condannati a morte", ha scritto Roberto Saviano sulla sua pagina Facebook. "Dopo aver freddato il presunto boss Mario Luciano Romito e il cognato e guardaspalle Matteo De Palma, i sicari li hanno inseguiti nei campi e li hanno finiti a sangue freddo. Il mio pensiero è subito corso a Rosario Livatino. La colpa dei fratelli Luciani era di essere al lavoro il 9 agosto. Vittime innocenti, colpevoli.

Secondo quanto emerge dalle indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari - sul luogo dell'agguato c'era il magistrato antimafia Pasquale Drago - i sicari potrebbero aver agito per una vendetta collegata a omicidi avvenuti in precedenza nella stessa zona. L'agguato è avvenuto in un tratto di strada che si trova a pochi chilometri da San Severo e Apricena, altri due comuni della Capitanata in cui recentemente sono avvenuti omicidi a causa della lotta tra clan per la spartizione degli affari illeciti sul territorio.

Dall'inizio dell'anno sono 17 gli omicidi avvenuti nel territorio foggiano. L'ultimo delitto, il 27 luglio, è stato quello di un ristoratore di Vieste, il 31enne Omar Trotta, freddato a colpi di pistola all'ora di pranzo mentre si trovava nel suo locale. "Quello che è accaduto - ha detto il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla - è terribile, non ci sono parole per descrivere quello che è avvenuto". l punto della situazione dopo l'ennesimo agguato avvenuto nel Foggiano sarà fatto giovedì 10 dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, che presiederà a Foggia una riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, al quale parteciperà anche il governatore pugliese Michele Emiliano. Al termine il ministro incontrerà il sindaco di Foggia e i primi cittadini di alcuni dei comuni della Provincia. Il governo non fa "niente", accusa il leader della Lega, Matteo Salvini, che invoca l'esercito per le strade del Gargano. Libera, invece, per dare un segnale annuncia che il prossimo 21 marzo la Giornata della memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie si terrà a Foggia.

Il boss Romito era sfuggito ad altri agguati. Fra gli episodi più eclatanti c'è quello del 18 settembre 2009: il boss uscì illeso da un attentato dinamitardo mentre si stava recando, in compagnia del fratello Ivan, nella caserma dei carabinieri in cui aveva l'obbligo di firma. Il cofano dell'Audi A4 station wagon sulla quale viaggiavano lui e il fratello - anche lui non ebbe ferite - saltò in aria a causa di una bomba. E' stato inoltre coinvolto nel blitz contro la faida del Gargano portato a termine dai carabinieri il 23 giugno del 2004, ma due anni più tardi venne assolto da tutte le accuse. Mario Luciano è fratello di Franco Romito, anche lui considerato dagli inquirenti uno dei presunti boss delle famiglie coinvolte nella faida. Il regolamento definitivo dei conti tra le famiglie Romito e Li Bergolis cominciò subito dopo la sentenza di primo grado del secondo maxiprocesso alla mafia garganica (sentenza del 7 marzo 2009): poco più di un mese dopo, il 21 aprile 2009, Franco Romito venne ucciso insieme col suo autista. Da anni - è scritto negli atti giudiziari - Franco Romito aveva svolto un ruolo di confidente dei carabinieri e aveva perfino partecipato con i carabinieri a posti di blocco per riconoscere alcuni latitanti della mafia garganica.

I Romito e i Li Bergolis erano stati alleati per anni, nella loro lotta contro il clan rivale degli Alfieri-Primosa, ma l'alleanza era durata fino alla lettura degli atti giudiziari, sino a quando i Li Bergolis avevano scoperto che Franco Romito li aveva traditi da tempo, quando era diventato confidente degli investigatori, anche barattando, dunque, i suoi amici di un tempo con la libertà. Franco Romito soltanto una decina di mesi prima di essere ucciso era stato assolto da accuse pesanti: associazione mafiosa, traffico di droga, duplice omicidio. Sia in primo sia in secondo grado era emersa la sua collaborazione con i carabinieri a varie operazioni tra le quali una trappola tesa nella sua masseria di Manfredonia (nella quale aveva fatto piazzare microspie agli investigatori) per far confessare omicidi ed estorsioni ai boss dei clan rivali dei Li Bergolis e Lombardi. All'uccisione di Franco Romito seguirono varie feroci esecuzioni con una scia di morti, tra cui il figlio di lui il 23enne Michele, freddato il 27 giugno del 2010 in un agguato mentre era in auto con lo zio, Mario Luciano Romito, scampato alle pallottole e ferito in maniera lieve.

San Marco in Lamis, omicidio fratelli Luciani: uno scambio di persona? Agricoltori uccisi: spunta l’ipotesi di uno scambio di persona, turista “graziata” dal commando. Aurelio e Luigi Luciani potrebbero esser stati scambiati per due fedelissimi di Mario Luciano Romito, che avrebbero lo stesso pick up bianco dei due agricoltori uccisi, scrive Maria Grazia Frisaldi l'11 agosto 2017 su "Foggia Today". Uccisi perché testimoni scomodi di un agguato di mafia, oppure - ipotesi investigativa che prende sempre più corpo nelle ultime ore - perché vittime di un tragico scambio di persona. Nel giorno delle esequie di Luigi e Aurelio Luciani, vittime innocenti dell’agguato di mafia del 9 agosto scorso, si fa strada l’idea che i due fratelli agricoltori di San Marco in Lamis possano essere stati uccisi dal commando che lo scorso mercoledì mattina ha freddato, a colpi di kalashnikov e fucili, il presunto boss Mario Luciano Romito ed il cognato Matteo De Palma, entrambi di Manfredonia, perché scambiati per due “fedelissimi” dei Romito. Agricoltori uccisi, uno scambio di persona? A trarre in inganno i killer potrebbe essere stato il mezzo a bordo del quale i due Luciani, agricoltori incensurati del posto amati e stimati da tutti, erano a bordo: un pick up bianco, identico a quello di altri due sammarchesi con i quali verosimilmente Romito e De Palma avevano un appuntamento nei pressi della vecchia stazione ferroviaria del paese garganico, luogo dell’imboscata. Sulle indagini, condotte dall’Arma dei carabinieri, vige il più stretto riserbo. Ma questa ipotesi investigativa lascerebbe intendere che i sicari non fossero del posto, ovvero che non conoscessero direttamente gli obiettivi dell’agguato, ma avessero solo indicazioni sui mezzi da colpire. La turista americana minacciata e graziata dal commando. Un’ipotesi che prende corpo e sostanza anche alla luce della circostanza, ancora tutta da vagliare, secondo la quale, una terza persona - una donna, turista straniera in transito sulla Pedegarganica - sia stata “graziata” dal commando: minacciata con le armi, la donna sarebbe stata costretta ad allontanarsi nonostante fosse da ritenersi, anche lei, una “testimone scomoda” dell’agguato al pari delle altre due vittime. L’autopsia sui corpi e i funerali. Nella mattinata di ieri, intanto, è stata effettuata l’autopsia sui corpi dei quattro coinvolti nella strage. Almeno una trentina di colpi, quelli esplosi dai killer, con kalashnikov e fucili calibro 12. Per i due Luciani, questo pomeriggio, nella chiesa della Collegiata di San Marco in Lamis, si terranno i funerali di Stato; quelli di Romito e De Palma sono stati effettuati in forma privata questa mattina per essere tumulati subito dopo. Altre 15 perquisizioni, insieme a quelle effettuate dai carabinieri nell’immediatezza dei fatti, sono state eseguite nelle ultime ore dai militari a carico di pregiudicati della zona.

Faida del Gargano, c’è una testimone «Ho visto 4 uomini incappucciati». Il racconto di una turista francese che sarebbe stata risparmiata dai sicari. Sui fratelli uccisi spunta la pista dello scambio di persona, scrive Giusi Fasano l'11 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci sono due vigili urbani che stanno annotando i dati di un incidente lungo la statale che porta verso il Gargano, nel Comune di Apricena. Sulla scena arriva un’auto con targa francese, alla guida c’è una donna molto agitata, «spaventatissima» diranno poi gli agenti municipali ai loro superiori. La signora scende di corsa e, parlando francese, spiega alla vigilessa che li ha visti. Ha incrociato il commando dei killer della strage di San Marco in Lamis. «Ho visto quattro uomini laggiù, lungo la strada», racconta. «Avevano i mitra in mano ed erano incappucciati. Erano in un macchina che ho incrociato mentre sfrecciava via». L’agente prova a calmarla. Le dice che c’è una caserma dei carabinieri proprio lì vicino, le consiglia di denunciare tutto. Ma lei è di corsa, o forse ha bisogno di qualche minuto in più per raccogliere le idee. Risponde che sta andando a Rodi Garganico e che farà denuncia lì. La versione della donna adesso è agli atti dell’inchiesta sulla strage di San Marco in Lamis nella quale sono stati uccisi in quattro anche se l’obiettivo vero, l’unico, era il boss cinquantenne Mario Luciano Romito, del clan di Manfredonia che porta il suo cognome e che da anni è in guerra contro la famiglia dei Li Bergolis. Romito l’altro giorno è stato ammazzato assieme a suo cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista e che non risulta coinvolto nella faida. Assieme a loro sono stati rincorsi per mezzo chilometro e ammazzati anche i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due agricoltori che hanno avuto il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato e al momento sbagliato sul loro Fiorino pick-up. Sono stati testimoni involontari dell’agguato e finora si è pensato che proprio per questo i killer li avessero eliminati ma più passano le ore più gli inquirenti si convincono che il commando li abbia uccisi credendoli i guardaspalle del boss. In passato era capitato che le guardie del corpo di Romito usassero un pick-up bianco e probabilmente nella cattiva sorte dei due fratelli c’entra anche questo dettaglio.

La donna francese in qualche modo avvalora la tesi dell’equivoco dei guardaspalle perché se gli assassini avessero ammazzato gli agricoltori soltanto perché testimoni forse avrebbero provato a seguire ed eliminare anche lei che li ha visti abbastanza bene da descriverli con le armi fra le mani e la faccia coperta. Dall’inchiesta emerge, semmai ce ne fosse bisogno, quanto fossero determinati quegli uomini nella loro crudeltà. L’autopsia sui due fratelli dice che tutti i colpi di kalashnikov sparati contro di loro li hanno colpiti alle spalle, cioè mentre quei due innocenti tentavano una fuga disperata. Anna, la moglie di Luigi, è una psicologa e professoressa in una scuola media del paese. «La colpa di mio marito è stata lavorare, spaccarsi la schiena tutte le mattine», dice. Antonio, il padre di Luigi e Aurelio, ripete a tutti la stessa domanda da due giorni e lo ha fatto anche ieri dopo i funerali, dopo la folla, dopo il lutto cittadino e le urla «innocenti» davanti alla chiesa. «Dov’è lo Stato per la gente che lavora onestamente?» ha chiesto una volta di più a se stesso e al mondo. Lo Stato (la questura) ieri ha vietato i funerali pubblici per il boss e il cognato mentre la procura e i carabinieri lavorano senza sosta per ricostruire i fatti e dare quella risposta «durissima» invocata dal ministro degli Interni Marco Minniti. Ci sarebbero più sospettati, uno in particolare: un uomo del «gruppo dei Li Bergolis» che non risulta più in zona dal giorno della strage.

Mafia a Mattinata, coinvolti pezzi dello Stato. Minacce del poliziotto al sindaco, scrive il 23 giugno 2017 "L'Immediato". Nuovi elementi nel caso Mattinata, il comune a rischio scioglimento per presunte infiltrazioni della criminalità. Stavolta il protagonista è un poliziotto, accusato di minacce nei confronti dell’attuale sindaco, Michele Prencipe. Un caso che è già sbarcato nelle aule di tribunale. Il quadro, in buona sostanza, si intorpidisce ancora di più e tiene dentro anche pezzi dello Stato nelle vicende di mafia. Ma veniamo ai fatti. Prencipe, primo cittadino della “farfalla del Gargano”, denunciò a fine agosto 2015, un episodio con protagonista Bartolomeo D’Apolito, vice dirigente e ispettore di polizia in servizio presso il commissariato di Manfredonia, dove attualmente dirige l’ufficio amministrativo (rilascio porto d’armi, concessioni e quant’altro), nonostante sia sotto processo tanto che in molti si chiedono come possa un poliziotto restare in carica nel commissariato competente nel comune di Mattinata. Il primo cittadino, in sede di denuncia, parlò ai carabinieri di uno “strano avvicinamento” da parte di D’Apolito il quale, il 18 agosto 2015 gli chiese un appuntamento, a poche ore da un’importante riunione comunale nell’ambito della quale Prencipe avrebbe comunicato la revoca della delega assessoriale al figlio dell’ispettore, Raffaele D’Apolito e alla cugina Valentina Ricucci. Revoche poi avvenute anche se D’Apolito junior continua a svolgere il ruolo di consigliere comunale dal Nord Italia, dove si trasferì poco dopo l’episodio in questione. Le revoche si resero necessarie poiché era venuto meno il rapporto di fiducia e politicamente non c’erano più le condizioni per proseguire insieme. L’ispettore, però, contattò telefonicamente il sindaco riferendogli che aveva necessità di parlargli di persona di argomenti di natura riservata. Prencipe, vista la strana richiesta del poliziotto con il quale mai aveva intrattenuto rapporti di carattere personale, accettò l’invito ma insospettito e intuendo che l’argomento potesse essere correlato alla revoca dell’incarico al giovane figlio assessore, si recò all’appuntamento provvedendo a registrare la conversazione col suo smartphone. I due si incontrarono poco dopo al distributore Agip di Mattinata, sulla SS89 tra Mattinata e Vieste e qui, l’ispettore articolò una serie di discorsi dal tenore intimidatorio che il sindaco intese correlati alla sua decisione di rimpiazzare il figlio in giunta. In sintesi, il poliziotto riferì di aver appreso, da un suo collega, che Prencipe qualche mese prima, sarebbe stato intercettato telefonicamente mentre intratteneva rapporti con persone di Mattinata “poco raccomandabili”. Un fatto, però, sempre smentito dal sindaco e sul quale non risulta alcuna prova. Inoltre, D’Apolito fece riferimenti ad altri contesti amministrativi nel cui ambito il governo comunale era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Chiaro il riferimento a Monte Sant’Angelo, sciolto il mese prima. Quasi a minacciare la stessa fine del comune angiolino. L’ispettore si lasciò andare anche ad allusioni relative all’esistenza di magistrati poco “attenti” nella loro attività professionale. Nel corso della conversazione, transitarono presso quel distributore due persone, Carmine Armillotta e Antonio Minuti, successivamente indicati dal sindaco come testi. Ma durante l’udienza di ieri, 22 giugno, i due sono stati colpiti da improvvisa amnesia. Minuti, in particolare, ha dapprima negato tutto nonostante la sua voce presente nella registrazione. Al quarto ammonimento del giudice Tavano, circa le conseguenze che comporta il reato di falsa testimonianza, si è infine riconosciuto in quel file audio, ascoltato ieri in tribunale. Il processo che si sta svolgendo nel palazzo di giustizia di Foggia, sta assumendo anche i contorni di un giallo. Il fascicolo contenente gli atti è stato svuotato da una presunta mano galeotta tanto che il pm ha già denunciato l’episodio. Per sua fortuna una copia degli atti è nelle mani dell’avvocato di parte civile, Raul Pellegrini. Altrimenti sarebbe stato impossibile proseguire nel procedimento. Prossima udienza il 16 novembre per l’esame dell’imputato. Pesanti le ipotesi d’accusa formulate dai carabinieri per D’Apolito: rivelazione segreto d’ufficio, millantato credito, minaccia a corpo politico e violenza privata.

Rivelò incontro nella masseria del boss (latitante) di Mattinata, trasferito ispettore di polizia, scrive l'11 agosto 2017 “L’Immediato”. Trasferito nel commissariato di Cerignola, Bartolomeo D’Apolito, ormai ex vice dirigente del commissariato di Polizia di Manfredonia. L’uomo, sorpreso in un’intercettazione pubblicata dalla nostra testata, rivelò di un incontro con protagonisti pezzi della vecchia amministrazione guidata da Lucio Roberto Prencipe nella masseria di “Baffino”, boss locale svanito nel nulla qualche settimana fa. “Perché quando tu vai a sederti in una masseria e vai a concordare determinate cose… Con certi nomi, Baffino e company…”, queste le parole dell’ispettore registrate dall’attuale sindaco, Michele Prencipe durante una chiacchierata presso una stazione di servizio. Il sindaco, infatti, col proprio smartphone, captò tutta la conversazione con D’Apolito che, nell’agosto 2015, chiese un appuntamento a Prencipe dopo aver saputo che sarebbe stato revocato l’incarico di assessore al figlio Raffaele D’Apolito, tutt’ora consigliere comunale. I due si incontrarono presso un distributore di carburante sulla SS89 tra Mattinata e Vieste. Nonostante il silenzio imbarazzante del vecchio prefetto e del vecchio questore e associazione nazionale magistrati, questi ultimi tirati in ballo da D’Apolito in un altro passaggio della conversazione, alla fine qualcosa si è mosso se l’ispettore ha dovuto lasciare il commissariato sipontino. Troppo evidenti le incompatibilità con il territorio tra Manfredonia e Mattinata se si considera che l’ispettore è attualmente sotto inchiesta proprio per le presunte minacce al sindaco Prencipe. D’altronde non mancano altre situazioni poco chiare al commissariato di Manfredonia, avvenute negli ultimi tempi. Anzitutto diversi trasferimenti per incompatibilità ambientale e prepensionamenti anticipati. E, come se non bastasse, agenti in pensione continuano a viaggiare su macchine di servizio. Insomma si spera che fra sei mesi, al cambio del dirigente, arrivi una nuova guida che sappia incidere sulle indagini e decidere sugli assetti interni.

Cos'è e come è nata la Faida del Gargano. Origine e omicidi di una scia di sangue nata per un furto di bestiame, oramai 30 anni fa, scrive il 9 agosto 2017 "L'Agi". La strage di stamani nei pressi della vecchia stazione di San Marco in Lamis ha riacceso le luci sulla sanguinosa faida del Gargano, storie di sangue e di orrore tra le rocce e le campagne del promontorio che si affaccia come uno sperone sull’Adriatico. In realtà sarebbe più corretto parlare di faide visti i filoni di una vicenda dalle tante articolazioni e che si snoda per diversi decenni. 

Origine di una faida. Numerose le famiglie del Gargano coinvolte nella cosiddetta faida, una guerra nata per questioni di abigeato e poi trasformatasi in lotta per il controllo del territorio e dei traffici illeciti. La più nota è quella tra i Li Bergolis e gli Alfieri-Primosa di Monte Sant’Angelo. Una guerra iniziata oltre 30 anni fa e scandita da oltre 30 omicidi, altrettanti tentativi di omicidio e decine di casi di lupara bianca. Un tempo alleati dei Li Bergolis e del capo famiglia Francesco, detto “Ciccillo” vi erano anche i Romito, con l’ultimo boss rimasto ucciso a colpi d’arma da fuoco stamani sulla provinciale 272. Poi l’alleanza subisce una rottura e anche queste due famiglie entrano in guerra uccidendosi tra loro.

Una catena di omicidi e corpi nelle grotte. Un’altra faida è quella di San Nicandro Garganico tra i Tarantino e i Ciavarrella tra le più cruente e feroci di quelle pur crudeli del Gargano. Tutto inizia con il furto di un bovino. La catena di delitti comincia il 28 marzo del 1981 quando scompaiono nel nulla - forse inghiottiti per sempre da una delle grotte garganiche o, secondo alcuni, dati in pasto ai maiali - cinque componenti della famiglia Ciavarrella: Matteo, di 57 anni, la moglie Incoronata Gualano, di 55, e i tre figli, Nicola, Giuseppe e Caterina, di 17, 16 e 5 anni. Per questa strage è stato condannato all´ergastolo Giuseppe Tarantino, primo di otto fratelli. Matteo aveva testimoniato nel processo del furto di bovino e doveva essere vendicato. Diciassette gli omicidi contati sino ad oggi che hanno l’unico obiettivo di eliminare il rivale che porta quel cognome. E quando tutti i Tarantino o i Ciavarrella sono praticamente estinti si passa ad eliminare i cognati. Una faida che racconta anche la storia di una donna, diventata collaboratore di giustizia, che prima è sposata ad un Tarantino e poi diventa l’amante di un Ciavarrella.

Un'altra guerra, a Vieste. Poi c’è l’ultima guerra quella che si sta svolgendo a Vieste dopo il vuoto di potere creato dall’omicidio di Angelo Notarangelo, detto Cintaridd ucciso nel gennaio del 2015, secondo alcuni da qualcuno che gli era amico e che voleva scavalcarlo. Famiglie in guerra tra loro ma che a seconda della convenienza si alleano tra loro anche con qualche clan della Società, la mafia di Foggia. Una guerra tra ex allevatori ora diventanti imprenditori dei traffici illeciti, tra cui droga e le estorsioni, storie di famiglie legate da un lungo filo rosso di sangue.

La faida mafiosa del Gargano che ora ammazza anche d’estate. In due anni 29 omicidi, i clan abbondano di armi. La fama di killer infallibili dei «montanari». Lo scontro tra le famiglie di Manfredonia e Monte Sant’Angelo non rispetta più nemmeno il tacito patto che metteva al sicuro la stagione turistica, scrive Gianni Santucci il 10 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera".  La mafia del Gargano ammazzava sempre d’inverno. Perché tra luglio e agosto la costa accoglie i turisti, alberghi e ristoranti stracolmi, l’Italia conserva intatta l’immagine del paradiso turistico di buona cucina e acque cristalline: e non deve (non doveva) sapere che quell’industria così florida, in provincia di Foggia, viene taglieggiata senza tregua e senza pietà dalle estorsioni della criminalità organizzata. Questa era la ratio di quella legge sotterranea: mai sangue d’estate. E invece il 27 luglio scorso, nel centro storico di Vieste, in una pozza di sangue i carabinieri hanno raccolto il cadavere di Omar Trotta, 31 anni, pregiudicato, ammazzato davanti alla moglie e in mezzo ai turisti.

Poi arriva il 9 agosto, data che farà storia in quest’epica balorda: non un omicidio, ma una strage d’estate, per ammazzare un capo clan di Manfredonia, Mario Luciano Romito, 50 anni. Conta anche (e molto) il luogo, San Marco in Lamis, paese dell’interno garganico attaccato a San Giovanni Rotondo, dove mercoledì, come ogni giorno, gli autobus turistici hanno accompagnato i devoti di San Pio. E così bisogna aggiornare le statistiche: dodici omicidi negli ultimi tre mesi in provincia di Foggia, 29 morti ammazzati in poco meno di due anni, tentati omicidi a ripetizione, un’autobomba esplosa nel 2014, una disponibilità di armi da Paese balcanico: eccola, la guerra di mafia più feroce e dimenticata d’Italia. Che sia degenerata, lo testimonia la mattanza di mercoledì: azione da guerra sotto il sole d’agosto.

Tre anni fa, durante un’audizione davanti alla Commissione parlamentare sulle intimidazioni agli amministratori locali, l’allora questore di Foggia, Piernicola Silvis, raccontò: «Se un’autobomba esplode qui, non lo viene a sapere nessuno. Queste cose devono essere dette, perché non possiamo aspettare, all’italiana, il morto eccellente, che ammazzino un procuratore della Repubblica, o un bambino, o che facciano una strage con qualche morto innocente per ricordarci che a Foggia c’è un’associazione criminale di stampo mafioso». Il bambino hanno rischiato d’ammazzarlo a settembre 2016, nell’agguato al boss Roberto Sinesi una pallottola ha trapassato la scapola del nipote, 4 anni (si sono salvati entrambi). Solo nell’ultimo anno e mezzo la Squadra mobile di Foggia ha chiuso quattro inchieste e arrestato oltre cento persone per armi, estorsioni, agguati, omicidi. Mercoledì infine, a quanto pare, sarebbero morti due «innocenti». Silvis è appena andato in pensione, oggi è solo uno scrittore (il suo ultimo romanzo, Formicae, è ambientato in quelle zone), e riflette: «In questi anni c’è stato un grande disinteresse dell’opinione pubblica nazionale; forze dell’ordine e magistratura lavorano, ma solo se l’Italia si accorge di questa situazione il contrasto alla criminalità organizzata potrà essere più determinato».

Nelle guerre di mafia ci sono i «miracolati» e i «morti che camminano». Mario Luciano Romito rientrava in entrambe le categorie. Miracolato, anzi, lo era due volte. Scampato prima a una bomba nel cofano della sua Audi A4, il 18 settembre 2009; uscito poi soltanto ferito da una Lancia Y10 investita dalle pallottole l’anno dopo, il 27 giugno 2010 (suo nipote Michele morì nell’agguato). Pochi giorni fa, uscito dal carcere, il miracolato Romito è dunque tornato nella sua Manfredonia da sorvegliato speciale (per carabinieri e magistrati), ma soprattutto da morto che camminava, per il clan rivale. Sentenza da eseguire senza attesa, evidentemente: l’hanno ammazzato d’estate e con una strage. I gruppi mafiosi del Gargano sono conosciuti come «montanari» e hanno la fama di sicari infallibili. C’è una vecchia faida: Romito di Manfredonia contro Libergolis di Monte Sant’Angelo. Un tempo alleati, dal 2009 hanno iniziato a trucidarsi dopo un maxi processo (oggi si parla di «eredi» dei Libergolis, perché i boss sono in carcere o al cimitero). Nel Gargano, però, c’è anche un altro scontro in corso, iniziato dopo l’omicidio del boss Angelo Notarangelo, nel gennaio 2015 a Vieste. Ogni tanto qualcuno scompare: e si dice che finisca a pezzi nelle mangiatoie dei porci. L’ultima sparizione in zona è del 26 maggio 2017.

La mafia più pericolosa di Cosa nostra e ‘ndrangheta di cui non avete mai sentito parlare. In Puglia opera da anni una mafia più subdola delle altre: quella del foggiano. Ecco come ne parlano gli uomini delle istituzioni, scrive il 10 Agosto 2017 "TPI". Criminalità garganica: peggio della mafia e della ‘ndrangheta. La più agguerrita e pericolosa nel panorama nazionale. Uccide senza pietà, nasconde i corpi e li flagella con colpi di pistola alla nuca. In 30 anni di faida ha provocato oltre 250 omicidi. La mafia in Puglia fa tremare anche le istituzioni e le forze di polizia per la capacità di intimidazione. È ignorata dai media, in pochi ne parlano. Eppure il bollettino di guerra è in costante aumento per furti, omicidi ed estorsioni. La provincia di Foggia vive una forte criticità dal punto di vista della sicurezza urbana, come dimostra l’attacco avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2017 contro le auto della polizia a San Severo, nel foggiano. Alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi contro gli automezzi del reparto Prevenzione crimine, che si trovano in città per un controllo rafforzato del territorio disposto dopo i recenti episodi di criminalità. Franco Miglio, sindaco di San Severo e presidente della provincia di Foggia, ha parlato di “attacco alle istituzioni”. In questo territorio lo Stato è debole, inadeguato. Sono pochi i magistrati della Direzione distrettuale antimafia e sono troppo pochi gli uomini delle forze dell’ordine. Il comando generale dell’arma dei carabinieri ha istituito di recente l’unità operativa dei Ros (raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri) che sarà coordinato dalla procura di Bari per competenza territoriale in materia di indagini. “È la mafia in cui non ci sono pentiti, ed è difficile poter approfondire le indagini”, spiega a TPI Giuseppe Volpe, procuratore della Repubblica di Bari. “Pochi sono gli uomini e, forse, poco preparati a indagini eterogenee. Non solo: ha operato per anni senza fare rumore e ha potuto rafforzarsi grazie al silenzio delle istituzioni, del mondo della politica e dell’informazione”. Insomma, sui Monti del Gargano, è nata la nuova mafia. Una mafia giovane che gestisce il traffico di armi, droga, il racket delle estorsioni nell’ambito commerciale e turistico. Ha rafforzato i suoi interessi internazionali con solidi rapporti tra l’Albania e i Balcani. Nei sui omicidi utilizza un linguaggio tradizionale: la spietatezza. “La stampa nazionale non è mai stata attenta alle dinamiche criminali in Puglia”, prosegue Volpe. “Fatti e sviluppi sono poco conosciuti all’opinione pubblica. Eppure, la criminalità garganica è una organizzazione intelligente in cui non ci sono affiliazioni ma, solo gerarchie familiari in cui non è possibile pentirsi”. “Mancano i collaboratori di giustizia. Ammetto che abbiamo carenza di uomini e di bravi investigatori capaci di infiltrarsi nel tessuto criminale foggiano. La Commissione antimafia ci ha convocati solo una volta nel 2014 in un’audizione parlamentare. Poi, stranamente, il silenzio”. Ed ecco, quindi, lo sconforto. Il metodo utilizzato degli inquirenti è unico, ma la trama della criminalità nel foggiano è più complessa. Sono almeno tre organizzazioni che agiscono in piena autonomia. C’è la mafia di Cerignola, specializzata nelle rapine ai portavalori; c’è la mafia del Gargano, che opera nel tavoliere; e c’è la Società foggiana, la mafia di Foggia città.

La Società foggiana. L’origine della Società foggiana risale al 5 gennaio 1979, quando alcuni esponenti criminali della zona si raccolgono nell’hotel Florio di Lucera, per incontrare Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata. Cutolo tenne il primo incontro e organizzò la struttura criminale. Il suo obiettivo era quello di estendere la sua filiera di influenza in Puglia e creare un nuovo polo mafioso. “La criminalità garganica è senza padrini e senza coppola”, ha detto a TPI Piernicola Silvis, questore di Foggia. Dopo il suo arrivo in città nel 2013, fu fatta esplodere una macchina piena di tritolo nei pressi della questura. Forse un avvertimento per intimidire un investigatore esperto. Silvis è nato e cresciuto a Foggia, conosce tutte le dinamiche criminali. Quindi, uno bravo da sopraffare e da reprimere. Un atto di sfida. “Non è la mafia siciliana o la ‘ndrangheta calabrese: è peggio”, continua Silvis. “Uccide in silenzio facendo sparire i corpi degli infedeli. Una spregiudicatezza inaudita, senza eguali. In questa splendida terra, purtroppo, prevale l’omertà. Nessuno parla, nessuno denuncia. Insomma, manca il coraggio. La paura è tanta”. Nel Gargano non arrivano solo i fedeli devoti a Padre Pio e San Michele Arcangelo. C’è il flusso di oltre duemila turisti che fa gola alle organizzazioni criminali. Un business in cui è difficile sottrarsi al racket. E tutti, dunque, devono rispettare le regole che impongono i boss: pagare il racket per evitare di vedersi polverizzare il proprio ristorante o attività commerciale. Miliardi di soldi riciclati e rinvestiti nelle costruzioni edili, in società di trasporti, in attività illecite legate anche al commercio del pomodoro. Una rete che non perdona, anzi, ramifica. Tanti sono gli omicidi legati al rifiuto del pizzo e tanti sono quelli che sono scampati alla morte. Ma, nonostante tutto, si continua a pagare. Il rifiuto non è gradito alla criminalità, ammazza. “La mafia di Capitanata è una delle mafie più difficili da affrontare sul piano del contrasto investigativo”, ha detto a TPI Giuseppe Gatti, componente della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Gatti segue da anni le inchieste riguardanti l’area foggiana. È l’unico magistrato sotto scorta della procura barese. “Siamo di fronte a una vera emergenza nazionale. Si tratta di una mafia che si caratterizza per una saldezza del vincolo mafioso. Mentre, l’altra peculiarità è data dalla disumanità, retaggio derivante dalla camorra cutoliana. Gli elementi che tengono saldo il vincolo mafioso sono: il familismo; il solidarismo e il pragmatismo. Dalle ultime indagini emerge una organizzazione moderna con una grande capacità organizzativa”.

Sotto scorta il pm che incastrò la mafia garganica: «Non dimenticano». Nuove minacce a Domenico Seccia, attuale procuratore a Fermo, dal 2003 indagò sulla faida ottenendo le condanne per mafia. Recentemente un pentito dal carcere Udine ha parlato di un attentato, scrive Nicola Pepe l'11 Agosto 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Era una mafia più immaginata che dimostrata»: questo scrissero i giudici della Corte di assise di appello di Bari nel 2001 quando assolsero gli imputati, considerati alla stregua di quattro montanari. Quella sentenza, dieci anni dopo, venne smontata pezzo dopo pezzo grazie al lavoro di un magistrato, Domenico Seccia, nel giugno del 2003 diventato sostituto procuratore della Dda di Bari si occupò del Gargano portando a giudizio 100 persone e facendo riconoscere il reato di mafia anche ai Libergolis ritenuti i nemici dei Romito. Un lavoro che Seccia (da 4 anni procuratore a Fermo, dopo aver diretto la Procura di Lucera) ha tradotto in un libro, la Mafia innominabile (160 pagine) «vecchio» ormai di sei anni ma ora più attuale che mai, e poi con un altro testo «La mafia sociale». Ci sono voluti 30 anni e decine di morti ammazzati per sostituire la parola «faida» con «mafia» e rendendo reale quelle che per tanti lustri era stato ritenuto irreale. Da più di 10 anni Seccia ha la scorta: ha avuto lettere anonime proiettili e, di recente, nuove minacce sono giunte da un pentito che ha riferito di aver appreso nel carcere di Udine un progetto di attentato contro il magistrato.

Procuratore, lei è stato il pm che ha dimostrato processualmente la mafia garganica. Non è stato facile, vero?

«Nel 2003, appena nominato in Dda, in soli sette giorni mi arrivarono in ufficio 72 fascicoli relativi a fatti del Gargano. Una enciclopedia del crimine su sparatorie, omicidi, bombe, estorsioni: tanti episodi apparentemente separate ma che riuscii a mettere insieme tra di loro».

Cosa fece subito?

«Presi una mappa del territorio (da San Nicandro Garganico a Monte Sant’Angelo, da San Giovanni Rotondo sino alle città marine), la attaccai al muro e iniziai a piantare le bandierine, come nei film. E via a coordinare indagini per dimostrare che la mafia esisteva».

Quella del Gargano è considerata una mafia diversa da quella foggiana?

«La mia idea, suffragata da sentenza ormai passate in giudicato, è che mafia foggiana e mafia garganica rappresentano un unicum. Questa strategia investigativa si è sempre rivelata vincente».

La strage di mercoledì è legata a fatti vecchi?

«Quella gente non dimentica mai. Non ho elementi per confermare che si tratti di una vendetta, anche se ho una mia idea, e non escludo che probabilmente la causa possa ricercarsi in traffici illeciti, tra cui la droga. Posso solo dire che quella gente non si fa scrupoli e questa strage potrebbe non restare impunita».

Sul Gargano non si pente nessuno, è così?

«Personalmente ho gestito diversi collaboratori. Ci sono stati pentiti importantissimi ben oltre il 2007, tra i quali Rosa Lidia Di Fiore, che ci ha permesso di sgominare la mafia sannicandrese (riconosciuta dalla Cassazione), o Antonio Catalano che ci ha svelato i rapporti interni alla mafia garganica e lucerina, rivelandoci anche i legami con la mafia foggiana; oppure c'è anche il pentito Scarano che ci ha consentito di fare luce sui rapporti con il clan Tedesco».

Lei è convinto che la mafia garganica sia diversa da Scu, n'drangheta e altro?

«Assolutamente sì. Non ho mai visto un territorio così esteso controllato da un'associazione mafiosa. Quando fu catturato Franco Libergolis, scoprimmo che si nascondeva a Borgo Rosso, località che non figura neanche sul Catasto. Ci riferì di aver sentito dal suo nascondiglio il rumore di un passaggio di cavalli (il reparto Cacciatori di Calabria, gli stessi che manderà Minniti insieme ai droni, ndr)».

Qual è secondo lei la soluzione?

«Nessuno ha la bacchetta magica. Non bisogna mai smettere di indagare sul vincolo associativo per sapere chi riveste ruoli all'interno di ciascun gruppo. Di certo, dopo gli arresti e le condanne per due o tre anni, il il Gargano ha vissuto un periodo di quiete».

Le hanno confermato la scorta. Un pentito, da Udine, avrebbe appreso in carcere di un progetto contro di lei. 

«Di questo non posso parlare».

Mafia del Gargano, ci sono voluti altri morti per far arrivare Minniti. Per avere la presenza a Foggia del numero uno del Viminale si è dovuto aspettare l'ennesima carneficina di questa guerra. A cui non si vuole dare il bollo di associazione mafiosa. Ma che sta facendo troppe vittime innocenti, scrive Lirio Abbate il 10 agosto 2017 su "L'Espresso". È una zona del meridione consegnata da troppi anni nelle mani delle mafie. È il Gargano. È la provincia di Foggia, dove si continua a uccidere, e in questa guerra di mafia finiscono inesorabilmente anche vittime innocenti, come in tutte le guerre. Giornalisticamente la chiamiamo “mafia del Gargano”, ma giudiziariamente non c'è ancora una sentenza con la quale si può mettere il bollo per associazione mafiosa. E nemmeno sull'aggravante mafiosa. Agli imputati che investigatori e magistrati hanno portato anno dopo anno davanti ai giudici per chiederne la condanna per mafia, questa è stata ribaltata. Sempre assolti da questo reato, giudicati solo come banditi semplici. Criminali che però agiscono sotto la guida di un capo, di un boss che comanda una famiglia, un clan, i cui componenti vengono impiegati per intimidire, preparare attenti a cantieri e attività commerciali, e poi uccidere. Uccidere i rivali. Per questo è guerra. E in mezzo ci sono i cittadini che sono costretti a subire le aggressioni e a convivere con la paura. Vieste è una cittadina turistica di 14 mila abitanti che negli ultimi decenni, grazie all’intraprendenza di tanti imprenditori, ha conosciuto uno straordinario sviluppo turistico valorizzando le risorse del mare, delle spiagge e dell’ampia foresta umbra e si è imposta come una delle mete turistiche del mezzogiorno. Oggi dispone di oltre cento mila posti letto, tra censiti e non, e l’intero paese è un grande albergo diffuso; ogni anno le presenze turistiche superano di molto i due milioni. Ma come spesso accade nelle cose belle del Sud, parallelamente, si mettono in moto dinamiche criminali attirate dall’esplosione di ricchezza. Il primo obiettivo di questa criminalità, ovviamente, non poteva essere che gli imprenditori a cui imporre servizi di guardiania e pagamento del pizzo; per chi non ci stava attentati, incendi, danneggiamenti. Questi gruppi criminali nel tempo diventano clan mafiosi e fondano la loro forza su una diffusa sottovalutazione, dall’opinione pubblica alle istituzioni al grido: “Questa non è mafia”. Un ritornello ripetuto anche da uomini delle istituzioni e da alcuni politicanti. Il 29 luglio scorso, a 48 ore dall’ultimo omicidio compiuto a Vieste, durante una seduta urgente del consiglio comunale, aperto proprio sull'emergenza criminalità, il sindaco Giuseppe Nobiletti, un giovane avvocato, famiglia di albergatori, uno dei fondatori dell’associazione antiracket della cittadina, insieme ai consiglieri fa votare un documento con il quale chiedono un incontro urgente al Ministro dell’Interno Marco Minniti: non si tratta, come spesso accade in casi di questo tipo, di chiedere uomini, mezzi o sedi di forze dell'ordine. Il sindaco è chiaro in quello che dice: «Non chiediamo l’esercito a Vieste, chiediamo semplicemente che ci venga data la giusta attenzione». Ci sono voluti, dal 29 luglio, altri quattro morti da aggiungere a questa guerra di mafia per far arrivare a Foggia il ministro dell'Interno che ha annunciato, dopo questa ennesima carneficina a San Marco in Lamis, in cui sono caduti anche vittime innocenti, la presenza del numero uno del Viminale. Il vantaggio che la mafia del Gargano ha avuto, e continua ad avere, è questa condizione di marginalità mediatica nazionale che gli è stata data. Al contrario, purtroppo, gli abitanti di questo vasto territorio, la percezione mafiosa la vivono ogni giorno. E la vogliono contrastare. Nel 2009 un gruppo di operatori turistici, sostenuti anche da Tano Grasso che all'epoca era presidente della federazione antiracket italiana, inizia a reagire all’intimidazione delle bombe; nasce l’associazione antiracket, arrivano le prime denunce e inizia la collaborazione con l’autorità giudiziaria. Si ha così il primo di alcuni processi contro gli estortori di Vieste, il più noto è stato chiamato processo “Medioevo”. Un dibattimento durato a lungo, segnato dalle testimonianze degli operatori economici che raccontavano ai giudici anni di violenze e soprusi; ogni mattina in cui si sarebbe svolta la testimonianza della vittima, da Vieste partiva un bus sul quale salivano commercianti e operatori turistici per accompagnare i colleghi in tribunale e far sentire la solidarietà e il sostegno dell’intera città a chi si esponeva con la propria testimonianza nell’aula di giustizia, davanti agli imputati. Il 4 febbraio 2014 arriva la sentenza: gli imputati vengono condannati per estorsione, ma per i loro delitti, contro la richiesta dell’accusa, non si riconosce l’aggravante mafiosa. L’effetto è semplice, a poco a poco gli imputati vengono scarcerati, tornano in giro nel paese. Nelle scorse settimane la Corte d’Appello di Bari ha riconosciuto l’aggravante mafiosa ad un imputato. Non ci vuole molto, purtroppo, perché siano “i fatti” a ribaltare quella sentenza. Colui che al processo era indicato come il “capo”, nel gennaio 2015, viene ucciso durante un raid mafioso ed è il primo di una lunga scia di omicidi che sta insanguinando questo territorio. Adesso sono queste azioni di morte che impediscono la possibilità di negare l’esistenza della mafia: se non sono bastate le denunce degli imprenditori, questi omicidi fugano ogni dubbio.

Mannino: «All’antimafia piace il Palazzo Che ne sa di Foggia?», scrive Riccardo Tripepi il 12 Agosto 2017 su "Il Dubbio". L’ex ministro Calogero Mannino analizza la strage di mafia di Foggia e l’atteggiamento di tutti quelli che si dovrebbero interessare di antimafia. «La strage di mafia avvenuta a Foggia e le considerazioni formulate da Piero Sansonetti nel suo editoriale dovrebbero far aprire una riflessione profonda e precisa sulla quale occorrerebbe una meditazione da parte di tanti». Non ha dubbi Calogero Mannino, esponente di spicco della Dc degli anni ’ 80 e più volte ministro della Repubblica. Mannino, da poco assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato nel processo stralcio per la trattativa Stato- mafia, si prepara al giudizio d’appello. Per come fortemente voluto dalle parti civili: Comune di Firenze, Associazione vittime della strage di via Georgofoli e le Agende Rosse. Una lunghissima vicenda giudiziaria, partita negli anni ’ 90 e ancora in corso che ha segnato praticamente un’intera esistenza. «Credo che nel corso degli ultimi trent’anni sia avvenuto quello che all’inizio è stato previsto da Sciascia e cioè la costituzione di organizzazioni antimafia all’interno delle quali la militanza civile si è trasformata in una compagnia di canto. Compagnie che hanno non denunciano la criminalità in quanto tale, ma la valutazione delle possibili implicazioni, inerenze e collusioni della politica o di segmenti di società civile. Siamo arrivati perfino al punto di fraintendere il romanzo di Sciascia, attribuendo all’autore quasi una simpatia per don Mariano ed, invece, nessun libro di sociologia o criminologia ha mai rappresentato così lucidamente la mafia nel suo contesto storico e sociale, pieno di equivoci e contraddizioni».

Ma formare ed educare le giovani generazioni è fondamentale specie negli ambienti più a rischio…

«Le racconto un episodio. Non molto tempo fa entro dal barbiere per portare mio nipote a tagliare i capelli. Il salone è pieno e ci sono tanti giovani che attendono il proprio turno. Due di loro sono “sotto” i due barbieri che tagliano loro i capelli per come richiesto alla Genny, con la cresta centrale. Ho fatto una domanda per capire e ho scoperto che Genny è un personaggio di Gomorra. In buona sostanza i giovani copiano comportamenti e costumi dei criminali. Mi pare evidente quindi che l’antimafia non mette in guardia la società civile, né provvede alla formazione delle coscienze all’interno dei vari gradini in cui è articolata la società. L’antimafia è solo una compagnia di canto che esercita la strumentalizzazione politica».

La ritiene una stortura degli ultimi anni?

«Credo sia sempre stato così. Nessuno, per esempio, ha il coraggio di ricordare che i primi nuclei di antimafia, insieme ai loro giornalisti di riferimento, erano contro Falcone e Borsellino».

Vede anche delle responsabilità degli organi di informazione dunque…

Mi pare che il modo con cui sia stata trattata la strage di Foggia lo dimostri in modo evidente. Il giornalismo non c’è più e non si occupa dell’esistenza della criminalità. Gli omicidi in Puglia sembrano una roba da anni ’ 70 e ’ 80 in Sicilia. Eppure nessuno se ne è interessato, a dimostrare che se la mafia uccide, l’antimafia se ne infischia. Ed insieme a lei, in modo parallelo anche alcuni uffici giudiziari e un certo giornalismo. Conseguenza inevitabile di un’onda lunga che vede l’antimafia come strumento di lotta politica che ha generato processi privi di fondamento».

Si sta riferendo anche alla sua vicenda personale?

«Mi limito a ricordare che tutto nasce nel momento in cui il governo Andreotti decide di azzerare l’alto commissariamento contro la mafia, comprese le sue strutture parallele. Una decisione che ha creato piccoli nuclei di riferimento per l’antimafia e un certo giornalismo. Basta incrociare i nomi di associazioni e giornalisti di due o tre riviste siciliane che hanno fatto da battistrada. Un processo privo di fondamento basato sulla dichiarazione di qualche pentito e dimenticando che sono stato il primo e il più tenace sostenitore dell’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 416 bis. Già nel 1979 mi ero fatto dare l’incarico di preparare la mozione conclusiva della Commissione antimafia Cattanei da portare all’esame del Parlamento. Evidentemente qualcosa andò storto».

Che cosa?

«Dovevano entrare dei nomi nella relazione che io mi rifiutai di far entrare ed evidentemente sono diventato uno da contrastare, nonostante il mio impegno profuso nella lotta alla mafia e un lavoro che poi ha portato alla legge Rognoni- La Torre che per molti si dovrebbe chiamare legge Mannino».

Sta descrivendo una strumentalizzazione politica contro di lei?

«Le racconto un altro episodio. All’aeroporto di Palermo Falcone- Borsellino, sotto la scritta che intitola lo scalo ai due giudici, c’è uno striscione “io sto con Di Matteo” (ndr: il pm del processo). Psichicamente queste baracchette me le sono trovate dentro processo. La giusta scelta di consentire nei processi contro i mafiosi la presenza delle parti civili, adesso è diventata un mestiere. Si è formata una squadra che si avvale anche di avvocati e giornalisti. Non esiste in un Paese civile che si possa condizionare un processo per la presenza di parti civili che non avrebbero neanche un titolo legale per prendervi parte. Proseguendo così si corre il rischio, come già visto nel mio processo e in quello Andreotti, che l’antimafia favorisca la mafia facendo perdere di vista i veri fatti criminali».

Come recuperare il giusto equilibrio?

«Credo che la battaglia di Sansonetti sia prima di tutto una battaglia di onestà. Questi comitati antimafia con tutte le loro derivazioni e implicazioni vanno messi all’attenzione del Parlamento e della politica. Il fenomeno dovrebbe essere messo a fuoco anche dal giornalismo che dovrebbe tornare a fare giornalismo d’inchiesta e non essere solo giornalismo militante. Altrimenti continueremo ad essere sempre lontani dalle responsabilità e dalla verità e continueremo ad inseguire soltanto ombre».

Se la mafia uccide l’antimafia se ne infischia, scrive Piero Sansonetti l'11 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Giornali, politici, intellettuali anti-mafia ignorano la strage di mafia di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. L’altro giorno nelle campagne di San Marco in Lamis, provincia di Foggia, la mafia pugliese ha trucidato quattro persone. Due delle vittime forse erano anche loro legate ai clan, le altre due erano due contadini di passaggio, che hanno visto e hanno provato a scappare, ma sono stati inseguiti, raggiunti e scannati sul posto, perché erano testimoni pericolosi. Mi pare che una strage mafiosa di queste dimensioni e di questa ferocia non avvenisse da diversi anni, forse dobbiamo risalire alla mattanza di Duisburg di dieci anni fa per trovare un precedente. Eppure sulla stampa non ha avuto grande risalto. Guardavo ieri mattina le prime pagine dei giornali più legati all’idea di giornalismo gridato (e cioè Libero, il Giornale, Il Fatto Quotidiano e La Verità) ma la notizia della strage pugliese non appare. Zero titoli, zero righe. Neppure sulla prima pagina di un giornale di livello intellettuale decisamente superiore, come il manifesto, ci sono titoli né righe. La compagnia dell’antimafia che se ne infischia delle cosche. E sui giornali che invece se ne occupano non ho trovato dichiarazioni di esponenti politici nazionali, o di uno dei capi della commissione parlamentare antimafia. Neanche ho visto interviste a magistrati del settore. Fatto insolito. L’unico che si è occupato della cosa – oltre al ministro Minniti è il Superprocuratore Roberti, e la cosa va a suo merito. Non mi indigno, perché la bellezza del giornalismo – e della politica, e forse anche della magistratura – è che ciascuno è autorizzato a valutare le notizie come crede. Però mi stupisco un po’. Perché mi pareva che un omicidio plurimo così feroce – al di là di come la si pensi sulla politica, o sulla mafia, o sulla giustizia – fosse degno di essere preso in considerazione dal sistema dell’informazione. E potesse suggerire delle riflessioni, anche importanti, su eventuali novità nel pianeta mafioso. Tanto più che siamo in pena estate, le notizie mancano e molti giornali, proprio ieri, per trovare un titolo da mettere in prima pagina si sono dovuti occupare di un certo Gianluca Vacchi, che io non ho ancora capito bene chi sia e perché sia famoso, oltre che per una discreta quantità di muscoli e – pare – di milioni. Però questa situazione mi spinge a due riflessioni serie. Una delle quali riguarda la mafia e l’altra riguarda il giornalismo. Partiamo dalla mafia. Da molti anni l’intellettualità italiana è attiva sul tema della lotta alla mafia. Per lei è un fiore all’occhiello. L’antimafiosità dell’intellettualità italiana è la prova della sua tempra morale. E schierata compatta dietro ogni iniziativa della magistratura. In particolare lo sono alcuni giornali, e sicuramente – ad esempio – il Fatto è tra questi. Come mai, invece, sulla strage di Foggia questo disinteresse? Temo che la spiegazione sia scritta in quel famoso articolo di Leonardo Sciascia, che negli anni ottanta, con una geniale intuizione, segnalò l’esistenza dei «professionisti dell’antimafia». All’inizio questa categoria riguardava un certo numero di persone che combatteva realmente la mafia, e poi faceva della lotta alla mafia uno strumento politico, o di potere, o di carriera. Successivamente si è sviluppata, col tempo, si è trasformata in “compagnia antimafia”, si è allargata a dismisura, ha conquistato la commissione parlamentare ( che si è messa alla sua testa, insieme a un paio di intellettuali doc e qualche giornalista) ed è diventata un luogo dove nessuno sa niente di mafia, nessuno si occupa di combatterla, ma in molti si applicano alla possibilità di usare la categoria dell’antimafia per ragioni di lotta politica e come strumento per manganellare gli avversari. Si è creata una completa scissione e autonomizzazione tra mafia e antimafia. Si è persa ogni connessione. L’antimafia esiste a prescindere dalla mafia e non è molto interessata all’evoluzione della mafia. E’ indipendente. Così succede che se per caso in un paese del casertano arrestano un assessore e lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, l’intera compagnia dell’antimafia scatta come un sol uomo, e grida contro quest’assessore, e lo dichiara colpevole, e chiede conto al suo partito e ogni tanto chiede anche le dimissioni del ministro dell’Interno. Non parliamo dell’ipotesi che nella città più grande d’Italia vengano arrestati un po’ di tangentari incalliti e anche loro colpiti col famoso articolo 416bis (associazione mafiosa), anche se abbastanza presto appare a tutti evidente che la mafia non c’entra nulla. Titoli a nove colonne (si diceva così una volta) su tutti i giornali per giorni e giorni, riunioni, dichiarazioni, sit- in, flash-mob, fiaccolate e convegni. E molta indignazione su Facebook. Se poi la mafia, la mafia vera, attuale, vivente, prende un kalasnikov e cosparge di sangue la campagna di Foggia, tutti pensano che sia un piccolo fatto di cronaca nera, da lasciare ai neristi. Perché? Esattamente per la ragione che dicevamo prima. Loro dicono: «Noi siamo l’antimafia, che ci importa a noi della mafia?». L’avete vista, ieri, Rosy Bindi? Macché. Si è occupata recentemente del campionato di calcio, delle tifoserie, di come si fanno i giornali, ha interferito nella compilazione delle liste elettorali, ma una strage mafiosa non sembra materia per la sua commissione. La seconda riflessione riguarda di striscio la questione mafiosa, ma riguarda il giornalismo. E il modo nel quale sta evolvendo. Sempre più lontano dai fatti, dalle cose che succedono, da quelle che una volta si chiamavano le notizie. E’ attratto da tutt’altro. Il giornalismo è sempre stato un campo di battaglia politica, e lo è in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove forse esiste il giornalismo migliore e più moderno del pianeta, la politica c’entra sempre ed è uno dei campi di azione Da noi però sta avvenendo un completo ribaltamento della struttura del giornalismo. Il giornalismo sta diventando – per un numero sempre crescente di giornali – esclusivamente uno strumento di battaglia politica. E le notizie che non abbiano implicazioni nella battaglia politica sono diventate prive di interesse. Una volta alla riunione di redazione si elencavano prima tutte le notizie, poi si decideva come occuparsene, in quale gerarchia ordinarle, ed eventualmente come commentarle e come costruire su di esse delle battaglie politiche o culturali. Oggi alla riunione di redazione si decide che battaglia aprire (in genere è una battaglia contro Renzi…) e poi si vede se ci sono notizie che possono essere utili per questa battaglia, e si lavora su di esse. Tutte le altre notizie, se c’è posto, nelle ultime pagine.

LE MAFIE SCONOSCIUTE: LA STIDDA SICILIANA ED I BASILISCHI LUCANI.

Stidda. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Secondo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, nella metà degli anni ottanta numerosi mafiosi della provincia di Caltanissetta, che erano stati legati al bossGiuseppe Di Cristina ed anche "messi fuori confidenza", cioè espulsi dalle loro cosche, organizzarono dei propri gruppi criminali, assoldando specialmente bande di microcriminalità minorile e malavitosi comuni: «Le "stidde" sono un'espressione di Cosa Nostra. Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa "stidda" [...] C'è stata una rottura perché in alcuni paesi si sono create due Famiglie. Uno di questi paesi è Riesi, centro storico per Cosa Nostra. Si è creato un gruppo dietro Di Cristina ed un gruppo dietro ai Corleonesi. Quelli di Di Cristina hanno creato il congiungimento di tutte le "stidde". Prima la "stidda" non aveva agganci con tutti mentre i riesani sapevano cosa vuol dire e quanti uomini d'onore nei paesi erano messi fuori confidenza. A questo punto hanno aggregato a loro Ravanusa, Palma di Montechiaro, Racalmuto, Enna ed altri paesi creando una corrente. Si conoscono tra di loro, sono gli uomini d'onore, buttati fuori, che combattono Cosa Nostra; è la stessa mafia e non un'altra organizzazione che viene da fuori».

Nel 1987 a Gela iniziò un violento conflitto tra la banda stiddara capeggiata dall'ex pastore Salvatore Iocolano e i gruppi mafiosi appoggiati al boss latitante Giuseppe "Piddu" Madonia (rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta): sempre il collaboratore Leonardo Messina dichiarò che «prima Niscemi e Gela erano un'unica Famiglia perché c'erano pochi uomini d'onore. [...] A Gela [Giuseppe Madonia] aveva affiliato a Cosa Nostra Salvatore Polara [...]; man mano qualcuno se lo sono affiliato, a qualcuno hanno fatto la guerra»; la faida iniziò con l'uccisione degli stiddari Salvatore Lauretta e Orazio Coccomini, uomini di Iocolano, ed in seguito i clan stiddari e mafiosi assoldarono numerosi minorenni come killer: tra il 1987 e il 1990 avvennero oltre cento omicidi nella sola Gela, che culminarono nella cosiddetta «strage di Gela» (27 novembre 1990), in cui tre agguati scattati simultaneamente in diversi punti della città provocarono otto morti e undici feriti. Il conflitto si estese anche a Niscemi e Mazzarino e si allargò nella provincia di Agrigento (specialmente a Racalmuto, Palma di Montechiaro, Canicattì e Porto Empedocle), dove bande di fuoriusciti si armarono contro le cosche locali per il controllo degli affari illeciti e, nel giro di tre anni, vi furono più di trecento omicidi nella zona, che culminarono nella cosiddetta «strage di Porto Empedocle» (4 luglio 1990), in cui vennero trucidati tre mafiosi e feriti altri tre dal clan stiddaro dei Grassonelli.

Il 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino venne ucciso lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni stiddari di Canicattì e Palma di Montechiaro: il delitto venne compiuto per vendicare la severità delle sentenze del giudice e per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa Nostra. Nel 1999 un gruppo di fuoco mafioso eseguì a Vittoria, in provincia di Ragusa, la cosiddetta «strage di San Basilio», avvenuta nel bar di un'area di servizio, in cui furono uccisi tre esponenti della Stidda di Vittoria, su ordine della cosca Emmanuello di Gela, che voleva eliminare i temibili alleati degli stiddari gelesi ed intendeva estendere attività criminali in quel territorio, dove la presenza di Cosa Nostra è tradizionalmente assente.

Attualmente, fatta eccezione per Palermo, esiste una cellula della Stidda nelle province della Sicilia centrale e orientale e anche in alcune regioni del nord. Le indagini nell'Italia settentrionale hanno confermato che oltre alle attività tradizionali, la Stidda si occupa anche di organizzare bande di rapinatori e di altre attività. Questo la porta a essere una mafia che cerca di mettere le mani in ogni attività illegale, al fine di trarne i maggiori guadagni possibili. Cellule della Stidda sono rintracciabili anche all'estero, come in Germania, segnale di come questa organizzazione criminale si stia evolvendo e rafforzando.

Il termine stidda in lingua siciliana significa "stella". Son tre le spiegazioni possibili:

Nel gergo di Cosa Nostra il termine stidda assumerebbe il senso di una costellazione di gruppi malavitosi che gravitano attorno all'organizzazione principale.

Stidda però potrebbe essere anche il nome di un tatuaggio fatto in carcere che gli stiddari porterebbero come segno di riconoscimento (cinque segni verdognoli disposti a cerchio fra il pollice e l'indice della mano destra, a formare una stella). Pratiche simili non sono nuove nell'ambiente mafioso e carcerario.

Un'altra tesi vede l'origine del termine Stidda nella "Madonna della stella", santa patrona del comune di Barrafranca, in provincia di Enna. La tesi nacque dalle rivelazioni di Antonino Calderone, il quale dichiarò per primo che in quel paese «a parte la Famiglia appartenente a Cosa Nostra, vi è un'altra Famiglia, composta in gran parte da espulsi da Cosa Nostra, detta la Famiglia degli "Stiddari"».

L'organizzazione ha la capacità di evolversi e di cambiare le regole, la struttura interna e i rapporti tra le varie cosche. Oggi, la Stidda e tutti i gruppi che la compongono si strutturano secondo uno schema ben definito al cui apice c'è la figura del capo. Si è affermato un principio di mutua assistenza tra i membri della stessa cellula criminale e tra clan alleati o amici, non più singole cosche prive di collegamento, ma gruppi saldamente legati e consorziati. Con un elemento in più, quello della spietatezza delle azioni, che diventa decisivo nello sviluppo rapido delle carriere e nell'affermazione di giovani emergenti.

Rispetto a Cosa Nostra la Stidda è molto più debole, meno strutturata, alquanto frammentaria ma radicata specie in alcune zone come Vittoria e Lentini, dove Cosa Nostra è tradizionalmente assente. Ciò comporta una più scarsa efficacia d'azione rispetto a Cosa nostra, minore interesse all'infiltrazione, maggiore facilità di controllo da parte dello Stato e maggiore circoscrizione del territorio oggetto di attività. Tuttavia, se la frammentarietà di tale organizzazione da un lato previene la comparsa di zone off-limits per lo stato, dall'altro permette una certa diffusione a macchia di leopardo nel territorio. Inoltre la Stidda s'interessa in primo luogo di attività commerciali come lo spaccio di droga (nisseno, agrigentino), anche se non mancano tentativi (spesso riusciti) d'infiltrazione nella classe dirigente locale. Altra attività tipica è il tradizionale pizzo mafioso che inibisce gravemente lo sviluppo economico e sociale del territorio, diffuso nelle zone dove opera l'attività criminale della Stidda, specialmente nel nisseno (Gela) e nel ragusano (Vittoria).

Benché le sue origini siano da localizzare nella zona del nisseno e dell'agrigentino, negli ultimi decenni ha avuto un rapido sviluppo che ha interessato numerosi comuni della Sicilia meridionale. Essi sono:

nella provincia di Agrigento: Agrigento, Favara, Porto Empedocle, Palma di Montechiaro, Ribera, Licata, Canicattì, Ravanusa;

nella provincia di Caltanissetta, Butera, Gela, Mazzarino, Niscemi, Riesi, San Cataldo, Sommatino, Villalba;

nella provincia di Enna: Enna, Villarosa, Piazza Armerina, Calascibetta, Agira, Catenanuova, Leonforte, Nicosia, Barrafranca, Pietraperzia;

nella provincia di Ragusa: Acate, Vittoria, Comiso.

“Cani senza padrone”, in libreria la storia della Stidda all’assalto di Cosa nostra. Un gruppo criminale poco conosciuto, che nella Sicilia a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta sfidò la mafia "doc" fra omicidi e stragi. Il giornalista del Tg5 Carmelo Sardo ha compulsato migliaia di pagine di atti giudiziari e ha raccolto le testimonianze di investigatori, politici e membri del gruppo criminale diventati collaboratori di giustizia. Anticipiamo un brano in cui uno di loro, Giuseppe Croce Benvenuto, racconta come nacque il piano per assassinare il "giudice ragazzino" Rosario Livatino, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 aprile 2017. C’è stata un’organizzazione criminale che in Sicilia, tra la seconda metà degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, sferrò un violento attacco a Cosa nostra: la stidda, un gruppo finora poco raccontato, che ancora oggi emerge di tanto in tanto dalle cronache ma che in passato si è macchiato di delitti eccellenti, come l’assassinio di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, ucciso nell’agrigentino del 1990 e oggi protagonista di un processo di beatificazione. In “Cani senza padrone – La stidda, storia vera di una guerra di mafia” (Melampo editore, 339 pagine, 16 euro, prefazione di Attilio Bolzoni) il giornalista Carmelo Sardo, vicecaporedattore del Tg5, racconta un mondo di “picciotti senza regole e senza padroni” che “si misero in testa di arricchirsi con le rapine e con le estorsioni”; ma presto “vennero coin­volti nelle faide tra vecchi e nuovi boss di Cosa nostra e si trasformarono in spietati e infallibili killer, in una furiosa guerra di mafia”. Una guerra che li portò a seminare il terrore nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa e Trapani con decine di omicidi e di stragi. Per lavorare a questa storia della stidda, Carmelo Sardo ha letto migliaia di pagine di verbali, di interrogatori, di sentenze, ha raccolto le testimonianze di esperti, magistrati e politici. E soprattutto ha incontrato e intervistato i membri dell’organizzazione criminale, stiddari condannati all’ergastolo ed ex picciotti ora “pentiti”. Nel brano che segue, tratto dal libro, a parlare è Giuseppe Croce Benvenuto, uno dei killer di Livatino, oggi collaboratore di giustizia. «Glielo giuro, io non sapevo neppure chi fosse. Non l’avevo mai sentito nominare prima di quel giorno…» Scandisce bene le parole, fa una pausa tra una frase e l’altra come ad aspettare che io dica qualcosa. Siamo seduti l’uno di fronte all’altro davanti a una scrivania. Sta già parlando da tre ore Giuseppe Croce Benvenuto quando finalmente arriva al momento cruciale, al delitto del giudice Rosario Livatino. Gli chiedo di raccontarmi tutto quello che ricorda, e di raccontarmelo senza trascurare alcun dettaglio, neanche quelli apparentemente insignificanti. «Un giorno, credo fosse ai primi di agosto del 1990, venne a trovarmi Gianmarco Avarello e mi propose di ammazzare un giudice. Ricordo che si scaldò parecchio e continuava a ripetermi “è uno che rompe troppo la minchia, ha capito tutto e ci sta facendo la guerra, se non lo fermiamo questo ci rovina… ci vuole togliere tutto, ci vuole sequestrare tutti i soldi che ci siamo fatti in questi anni…”. Ricordo bene che mi disse che questo giudice era vicino a Cosa nostra, che aveva un intimo rapporto con il boss Di Caro che abitava nel suo stesso palazzo, e che quando applicava le misure di prevenzione privilegiava gli interessi di Cosa nostra e caricava contro di noi (il movente di quel delitto, come affiora dalle sentenze, va ricercato nel fatto che agli stiddari di Palma di Montechiaro venne lasciato credere, per convincerli, che Livatino favorisse il boss di Cosa nostra Giuseppe Di Caro, e perseguisse invece la loro organizzazione con l’applicazione di pesanti misure di prevenzione e pesanti condanne, ndr). Mi disse pure che se Di Caro era stato rimesso in libertà era merito proprio di Livatino, il quale, al contrario, aveva fatto condannare a una pena pesante lo zio di Gianmarco, Antonino Gallea, credo per favoreggiamento, nonostante a suo carico non ci fossero prove. Io non ero convinto di fare questa cosa. Non mi aveva ancora detto come si chiamava questo giudice. Gliel’ho dovuto chiedere. Non avevo mai sentito quel nome. Gli ho detto delle mie perplessità, gli ho detto: “Giamma’, vedi che ci mettiamo tutto lo Stato contro se ammazziamo un giudice… che poi a noi non ha ancora fatto niente…”. Lui insisteva e insisteva con la storia che ci voleva mettere in galera e buttare le chiavi. “Ma come fai a sapere tutte queste cose?”, gli chiesi io. E lui: “ma noi abbiamo agganci dovunque… i miei zii, Bruno e Antonio (Gallea, nda) hanno saputo tutto. Fidati Peppù… e poi, non farti ricordare tutte le volte che mi hai chiesto un favore tu! Io non mi sono mai rifiutato e non ho mai voluto sapere chi era questo, chi era quello: ammazzavamo e basta. Ti ricordi a Palma per la festa dei morti? Abbiamo rischiato grosso per ammazzare a Rosario Allegro. Mio zio stava per essere ucciso da quel carabiniere…”. Mi diceva tutte queste cose, che erano la verità, e alla fine mi convinse. Ero proprio un ignorantone. E allora gli dissi: “vabbè, ammazziamo a questo giudice scassa minchia”, e lui sorrise e mi allungò la mano. Io lo fissai a lungo, c’era qualcosa che non mi convinceva. Lui subito riattaccò: “lo sapevo che avresti capito, Peppù. Sarà una minchiata ammazzarlo. Quello non c’ha manco la scorta, non gira neanche armato. Lo becchiamo io e te da soli, con la moto, come sempre. Io guido e tu spari, o se vuoi, sparo io, poi vedremo. Ti farò sapere tutto al più presto”. Ma poi successe che qualche giorno dopo venne a trovarmi di nuovo per propormi un piano diverso. Mi disse: “ci ho pensato a lungo e secondo me questa è l’occasione per lanciare a tutti un segnale forte. Se l’ammazziamo io e te, con la moto, uno, due colpi e via, magari passiamo per due scassa pagliara. Pensa se invece facciamo una cosa come Dio comanda. Un commando di quelli giusti. Ci portiamo pure i kalashnikov e così gli facciamo vedere a tutti chi siamo”». «Io pensavo che fosse la cocaina a farlo straparlare così, del resto era uno che si faceva in continuazione. Provai a farlo ragionare: “vedi Giammà, un conto è ammazzare un mala carne qualsiasi, cosa diversa è ammazzare un giudice. Se lo facciamo io e te da soli, magari pensano come dici tu a due scassa pagliara e non ci vengono a rompere la minchia. Se invece schieriamo un commando si scatena l’inferno e tempo di niente li abbiamo tutti addosso”. Ma lui sorrise e scosse la testa: “ho pensato a tutto, Peppù. Ragiona ora tu con me. Se noi usiamo i mitra, queste armi potenti, e facciamo una cosa da cinema, blocchiamo il traffico, con i kalashnikov spariamo come alla guerra… gli sbirri non penseranno mai a noi, non ci faranno mai capaci di una cosa del genere, penseranno che sono stati quelli di Cosa nostra… non sarà difficile far cadere i sospetti su di loro. A noi interessa che gli sbirri capiscano questo. Il segnale non lo dobbiamo dare allo Stato, ma ai chiatti, a questi vecchi rincoglioniti dobbiamo farli cacare sotto, solo così capiranno chi siamo e chi deve comandare”. […]».

Lo stiddaru scrittore che turba i professionisti dell’antimafia, scrive il 29 agosto 2014 Lanfranco Caminiti. Leonardo Messina, soprannominato “Narduzzo”, uomo d’onore e di fiducia del boss Giuseppe Madonia, è stato un importante collaboratore di giustizia. Le informazioni che diede a Borsellino permisero l’arresto di duecento mafiosi. Leonardo Messina fu uno dei primi a parlare della “Stidda”, di cui nessuno sapeva nulla. «Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa “stidda”. C’è stata una rottura perché in alcuni paesi si sono create due Famiglie. Prima la “stidda” non aveva agganci. A questo punto hanno aggregato a loro tanti paesi creando una corrente. Si conoscono tra di loro, sono gli uomini d’onore, buttati fuori, che combattono Cosa Nostra». La Stidda era l’altra mafia, la stessa cosa e pure un’altra. Tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta ci fu una vera guerra tra le due mafie, la Stidda e Cosa nostra. Nella sola Gela tra il 1987 e il 1990 ci furono oltre cento omicidi, che culminarono nella «strage di Gela» (27 novembre 1990), in cui tre agguati scattati simultaneamente in diversi punti della città provocarono otto morti e undici feriti. La guerra si allargò a Niscemi e Mazzarino, nella provincia di Agrigento (a Racalmuto, Palma di Montechiaro, Canicattì e Porto Empedocle), dove bande di fuoriusciti si armarono contro le cosche locali per il controllo degli affari illeciti e, nel giro di tre anni, vi furono più di trecento omicidi nella zona, che culminarono nella cosiddetta «strage di Porto Empedocle» (4 luglio 1990), in cui vennero trucidati tre mafiosi e feriti altri tre dal clan stiddaro dei Grassonelli. A guidare i killer di questa strage era Giuseppe Grassonelli. Giuseppe voleva vendicarsi dell’uccisione dei suoi parenti, quattro anni prima. La racconta così: «Il 21 settembre del 1986 era una calda sera di fine estate – io ero un ragazzo ventenne, appena congedato dal servizio militare – quando un commando di assassini entrò in azione compiendo una strage a colpi di mitra nella piazza centrale di Porto Empedocle… Quello che videro i miei occhi di ragazzo fu terrificante: mio nonno, mio zio e altre persone erano stese a terra; i loro corpi versavano in posizioni innaturali, crivellati dai proiettili. Io, pur rimanendo ferito a un piede, mi salvai per puro miracolo.  Dopo quella sera fu praticamente un tiro al bersaglio contro i miei familiari». Inizia qui la carriera criminale di Giuseppe Grassonelli, u stiddaro. Grassonelli sfugge a quattro agguati, risponde uccidendo uno dopo l’altro i suoi nemici. La sua è una guerra spavalda e temeraria contro Cosa nostra. E finisce per essere braccato sia dalla mafia che dallo Stato. Il suo incubo sanguinario finisce con l’arresto a 27 anni. Condannato all’ergastolo “ostativo” – gli è negato, cioè, ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone, davvero fine pena: mai – non è diventato un pentito, da semianalfabeta che era si è laureato in lettere con 110 e lode, e ha scritto ora un libro, Malerba, la mala erba, con il giornalista e caposervizio del Tg5 Carmelo Sardo – all’epoca dei fatti giovane cronista per una tv locale che raccontava degli omicidi e delle stragi. Malerba è stato pubblicato nella collana “Strade Blu” da Mondadori e viene presentato da qualche mese in giro per la Sicilia e tra un po’ per tutta l’Italia. Dal giornalista Sardo, certo. Grassonelli sta all’ergastolo. Ostativo. Le strade dei due uomini che erano rimaste parallele pur vivendo nello stesso paese, Porto Empedocle, che poi sarebbe la Vigàta della trasfigurazione letteraria di Andrea Camilleri, si sono incrociate. Grassonelli ha da poco scritto una lettera aperta ai suoi concittadini, che comincia così: «Sono stato in passato un barbaro criminale». È difficile pensare che questo libro non sia interessante. Difatti, è entrato in finale del premio letterario «Racalmare L. Sciascia città di Grotte 2014». Gli altri due finalisti sono Caterina Chinnici – la figlia del giudice ucciso dalla mafia, magistrata lei stessa e già assessore regionale siciliana con Salvatore Lombardo e ora europarlamentare del Pd – e Salvatore Falzone. Il giurato Gaspare Agnello, componente decano della giuria del premio, si è dimesso per polemica. E ha chiesto: «È possibile che un ergastolano che si è macchiato di crimini efferati e le cui ferite sono vive nelle carni delle sue vittime partecipi a un premio letterario di cui sono stati protagonisti Sciascia, Consolo e Bufalino?» La risposta, egregio professore Agnello, è: Sì, dovrebbe essere possibile. Con tutto il rispetto, bisognerebbe anzitutto valutarne il valore letterario, narrativo, di stile e di documento. O lei pensa, come Camilleri che non avrebbe mai pubblicato Il Padrino, che non è “morale” fare di un boss un personaggio d’un libro? La narrativa, da Omero in poi, è inzeppata di “cattivi” figuri. Restassero solo le piccole fiammiferaie, ci rimarrebbe poca cosa. Recentemente i Taviani hanno girato un film a Rebibbia con malerbe che peggio non si può – Cesare deve morire – che ha vinto tanti premi, pure l’Orso d’oro a Berlino, e è proprio un gran bel film. Oppure lei pensa tra le pene ostative dell’ergastolo di Grassonelli, è contemplata anche l’impossibilità di scrivere una storia, e di partecipare a un premio letterario? Se è così, date il premio alla Chinnici, ad honorem.

Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono un'organizzazione criminale, di tipo mafioso, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.

La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". Il 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato la sussistenza del clan mafioso dei “Basilischi”. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Ascesa e caduta dei Basilischi, la mafia italiana che voleva imitare la 'ndrangheta, scrive Vincenzo Marino il 14 giugno 2016. Dalle rocce del Pollino si vede tutto: salendo dal lato che poi sprofonda nello Ionio si può capire quasi nitidamente dove comincia la Calabria, e dove la Basilicata diventa Puglia. Attorno alla seconda metà degli anni Novanta, non era inusuale trovare un gruppo di uomini parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni. Lì, scortato da "tre sentinelle d'omertà", il "novizio" avrebbe potuto incontrare gli "uomini d'onore" e il boss, e vedersi fare questa domanda: "Conoscete la Famiglia Basilischi?" I "Basilischi," oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un'organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012. Ma temporalmente, il loro operato come "Quinta Mafia italiana" - come verrà definita - si estende soltanto dal 1994 a 1999. È in quell'anno infatti che - stando al racconto del collaboratore di giustizia Santo Bevilacqua - il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, pregiudicato noto col nome di "faccia d'angelo", l'indipendenza del suo clan lucano. L'incontro avviene nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene. Lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe "ricevuto dai calabresi l'investitura del Crimine, ovvero il capo di organizzazione mafiosa," ricorda ancora Bevilacqua. Ed è sempre dal carcere che "Faccia D'angelo" darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l'intero territorio regionale. Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana 'propriamente detta', la picconata al mito della Lucania felix, regione ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado sia geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla 'ndrangheta a sud. In realtà, sin dagli anni Ottanta - ossia subito dopo il terremoto dell'Irpinia - si ha conoscenza di gruppi criminali locali, pronti ad accaparrarsi e a gestire per altri gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Ma il processo di espansione delle strutture criminale locali verrà genericamente ignorato. È solo negli anni Novanta però che - come affermerà il Procuratore Generale dell'epoca - la situazione viene definita "preoccupante," ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi. Sarà proprio la 'ndrangheta ad "allenare" la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l'organizzazione fosse grosso modo autonoma. Eppure, in qualche modo, la smania di emergere come "nuova mafia" non è mai mancata. La sua versione embrionale, la Nuova Famiglia Lucana - creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi - denunciò un proprio tentato omicidio telefonando all'agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: siamo arrivati. La stessa necessità di emergere anima la prima fase dei Basilischi, così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone — una delle tipologie d'omicidio più roboanti, la rappresaglia contro lo Stato. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d'Agri, dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione. Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi. Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d'azzardo, e l'estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese. "I Basilischi," riporta la studiosa Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, "praticavano l'usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati." Il cambio di passo arriva con l'operazione scoperta dall'inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza - la cui posizione verrà poi archiviata - per quello che il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro definirà un "cambio di assetto": la famiglia riesce a mettere le mani sull'appalto di costruzione dell'Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie — essendo coinvolto, nell'appalto, anche l'interesse della malavita campana. Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di "outsourcing," l'esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo. Proprio questa necessità di sentirsi effettivamente mafia il prima possibile, e di trovare un'amalgama identitaria dapprima inesistente, li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo "spiegati" in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino. Per rinsaldare un gruppo ancora privo di collante, questi riti puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche. Una delle liturgie prevedeva la recitazione dei una formula per diventare "uomo d'onore". "Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato," recitava una di queste frasi.

"Conoscete la Famiglia Basilischi?"

"Certo che la conosco," rispondeva l'aspirante affiliato. "La tengo nel cuore, la servo e mi servo."

"Qual è il tuo desiderio?", gli veniva replicato.

"La stima, l'orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza."

I luoghi in cui avvenivano questi rituali non sono per nulla casuali. Il monte Pollino è la sommità "da dove tutto si vede e non si è visti," il fiume Sinni - tra i cuori d'acqua della regione - è ciò che accoglierà il corpo freddo dell'adepto in caso di tradimento." E poi tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della 'ndrangheta e della polizia — mentre per questi ultimi, però, il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi reca una catena in mano. Il capo società, infine, abbracciava il nuovo adepto, che gli rispondeva "Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo." La struttura interna, insieme ai rituali, ricalcava la stessa 'ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a "faccia d'angelo" come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine, 'ndrine e locale. Parlando da collaboratore di giustizia ai pubblici ministeri, è Cosentino a spiegare che la stessa struttura a "albero," tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: le cinque parti della pianta rappresentavano il "capobastone" (il tronco), i "mastri di giornata" e i "camorristi di sangue, di sgarro e di seta" (i rami), i "picciotti" (ramoscelli) e i "giovani d'onore" (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla "linfa" dell'omertà e del silenzio. Sotto l'albero, il fango di traditori e polizia. Alla fine il "fango" prevarrà sulla "linfa": nell'aprile del 1999 una maxioperazione porterà all'arresto di praticamente tutti i capi dell'organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette 'ndrine comandate direttamente dai calabresi. Dopo il pentimento del cognato, però, "faccia d'angelo" perse credibilità, e venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì tuttavia a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti. Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di "seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati," che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader. A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. "Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva."

I Basilischi. Anna Sergi racconta la mafia della Basilicata, scrive Silvia Bortoletto. Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, Famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, da il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology.

La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti?

«A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona “holding” del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di “outsourcing”, di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata “commissionata” a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati “concessi” dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel “collante narcisistico” tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La “creazione” dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della “Lucania Felix”, di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80».

La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo “succube” o comunque legata alle attività criminali e agli intenti “manageriali” di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni?

«Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma cosi' come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Infatti, un gruppo nuovo che centralizza il potere, non garantisce la flessibilità che certi affari richiedono. Inoltre, e questa è un’altra differenza con gruppi mafiosi più forti, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Questa diversificazione delle attività in un gruppo appena nato e in un mercato criminale già saturo e saldamente in mano ad altre forze, soprattutto la ‘Ndrangheta, non può essere una strategia vincente. A livello di organizzazione economica, un gruppo nuovo e piccolo ha più possibilità di successo nel mercato quando sceglie la specializzazione in un’area di nicchia, piuttosto che optare per la generalizzazione e il conseguente dispendio controproducente di energie e risorse. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità “madre”. Nel momento in cui i capi si sono pentiti – che in altri gruppi mafiosi significa che si formano nuove alleanze di ‘resistenza’ e di ‘rinnovamento’ del gruppo per garantire la perpetuazione delle attività – noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto».

Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi. Tra i tanti troviamo Roberto Galante, ex consigliere comunale, pronto a promettere incarichi e appalti, in cambio di voti e protezione. E' emerso qualche altro nome recentemente?

«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90. Si pensi per esempio alle indagini sui deputati Antonio Luongo (Ds), Antonio Potenza (gruppo misto Popolari-Udeur), Gianfranco Blasi (Forza Italia). Negli anni le indagini hanno colpito nomi di spicco dell’amministrazione locale: il Presidente della Giunta regionale della Basilicata, Filippo Bubbico (Ds); il Presidente del Consiglio regionale lucano, Vito De Filippo (Margherita); l’assessore alle attività produttive della Regione Basilicata ed ex sindaco di Potenza, Gaetano Fierro (Udeur); il sindaco di Potenza ed ex Presidente della Provincia, Vito Santarsiero (Margherita). Più di recente, nel maggio 2015, abbiamo l’ex vicegovernatore ed assessore regionale, Agatino Mancusi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e rinviato a giudizio con altre 6 persone, tra cui il succitato Roberto Galante, l’ex consigliere regionale Luigi Scaglione (attuale segretario regionale del Centro democratico) e l’ex assessore comunale di Potenza, Rocco Lepore, già condannato in primo grado e assolto in appello nell’ambito di un altro processo sui presunti intrecci tra mafia e politica. Il processo ci sarà in autunno 2015 e significativamente vedrà il giudizio anche su Antonio Cossidente. L’ipotesi dell’accusa è che Cossidente si sia servito dei suoi agganci politici per influenzare le elezioni comunali di Potenza nel 2004, mentre un sistema di scambi e favori, tra assunzioni lavorative e discussioni di strategie politiche, è stato al centro dell’inchiesta grazie ad intercettazioni tra i politici e i luogotenenti di Cossidente o Cossidente stesso.Il collegamento tra mafia e politica a questi livelli, se confermati in giudizio, ci fa capire come i Basilischi, nei loro anni di maggiore operatività, stessero efficacemente portando avanti una strategia di infiltrazione nelle amministrazioni locali, piuttosto che mirare ad affermarsi solo come forza criminale. Sebbene il loro piano di azione si sia poi dimostrato fallimentare e sia caduto in seguito ad arresti ed interventi delle forze dell’ordine e anche della ‘Ndrangheta che ha ripreso il controllo del territorio, si può capire come la politica in Basilicata sia stata vicina alle consorterie criminali e sia stata penetrabile con modalità molto simili a quelle di Calabria, Sicilia e Campania».

Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra?

«È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario. A mio avviso, l'interessamento dei Basilischi verso materiale radioattivo di scarto, risponde a piani e voleri della 'Ndrangheta. I calabresi, infatti, soprattutto nell’alto Tirreno, più vicino alla Basilicata, si occupano di radioattivo perché e quando è lucrativo, come merce di scambio per il traffico d’armi per citare un esempio. I gruppi camorristici, invece, a differenza di quelli calabresi, di questo settore hanno il monopolio: hanno cioè scelto di “specializzarsi”. In questo senso non credo si possa parlare di collisione con i camorristi, perché i Casalesi detengono il controllo del loro territorio in maniera specialistica e consolidata da decenni: il loro monopolio non viene intaccato. Quello che si può pero' affermare con certezza e' che, nel momento in cui i Basilischi dovessero sparire di scena, i clan che volessero lavorare sui terreni in Basilicata sarebbero sicuramente in concorrenza con i clan di Camorra. La ‘Ndrangheta sicuramente lo è, come lo è in altri territori in Italia, ma si tratta di una concorrenza studiata e non casuale».

Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente?

«Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania. Recentemente, tra il 2013 e il 2015, l’attenzione delle autorità sugli investimenti e il petrolio della zona si è ravvivata a causa delle preoccupazioni a livello sia ambientale, sia sanitario di tali estrazioni. Ad ogni modo, il coinvolgimento di clan locali, appoggiati da clan sia calabresi, sia campani, nella zona è storia vecchia e come tale consolidata. La collusione con la classe dirigente non risulta un dato di fatto ma resta probabile. Le mafie da sempre seguono il denaro e seguono gli investimenti. Quando si tratta di attività cosi lucrative come le estrazioni in Val D’Agri, il supporto anche indiretto della classe dirigente aiuta l’infiltrazione mafiosa e permette l’insediamento negli appalti pubblici. Quanto questo sia volontario e strategico nella classe dirigente non lo sappiamo. Quello che sappiamo, però, è che i politici locali hanno interessi nella zona e utilizzano il solito sistema di favoritismi e clientelismo per partecipare agli investimenti. L’incontro tra consorterie mafiose e ditte locali a un certo punto risulta inevitabile»»

Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire?

«I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che decidono di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi risulta particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro “esperimento mafioso”, questa volta targato Camorra». Silvia Bortoletto - Cosa Vostra

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

"La mia Castel Volturno preda della mafia nera Lo Stato non esiste più". Il sindaco: «Paese in balìa di Casalesi e nigeriani. Arriva Minniti, mi appello a lui», scrive Nino Materi, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Dimitri Russo, 47 anni, sindaco di Castel Volturno (Caserta), ha la faccia simpatica di un dj. La sua «musica» però ha il ritmo della passione politica, quella disinteressata dell'impegno sociale. Merce rara, soprattutto in un territorio dove lo Stato sembra aver deposto non solo le armi, ma anche la bandiera bianca con cui pare essersi arreso al dominio della mafia «bianca» dei clan dei casalesi e a quella «nera» della mafia nigeriana; «sembra» e «pare», verbi che lasciano però un filo di speranza. Del resto, il futuro, a Castel Volturno, non può essere peggio del passato. O del presente.

Sindaco Russo, martedì arriverà il ministro dell'Interno, Marco Minniti. Cosa gli dirà?

«Che a Castel Volturno non si può più andare avanti così».

«Così» come?

«Con una percentuale di migranti che supera qualsiasi livello di tolleranza».

Quanti sono?

«Circa 15mila. Su una popolazione residente di poco superiore ai 25mila».

Irregolari?

«La maggior parte».

Problemi di ordine pubblico?

«Criminalità record».

La storia di Castel Volturno in passato è stata macchiata da clamorosi fatti di sangue, da stragi, da scontri di mafie tra casalesi e africani».

«La violenza è sempre pronta a esplodere».

Lei ne sa qualcosa, di recente è stato schiaffeggiato con l'accusa di essere il «sindaco dei neri».

«Io sono solo il sindaco delle persone oneste».

Ma di «onestà» nel suo paese ce n'è poca.

«Invece ce n'è tanta».

Però stenta a venir fuori.

«Perché c'è paura».

Paura della mafia?

«La nostra e la loro».

La «loro», di chi?

«Dei nigeriani. Che si sono impossessati delle centinaia di villette abbandonate lungo il litorale domizio».

Come hanno fatto a occupare centinaia di case?

«Hanno sfondato le porte e sono entrati. Poi le hanno depredate sistematicamente. Ora fanno da basi operative del mercato di droga e prostituzione».

Castel Volturno è ostaggio di questa gente?

«In piazza si vedono pochissime persone di colore. Il Comune è come se fosse diviso in due: in paese gli italiani, in periferia gli africani».

Ghetti fuori dal controllo dello Stato?

«Lì c'è uno Stato parallelo. Fatto di degrado e illegalità».

«È la bomba sociale evocata di recente da Berlusconi.

«Tutto mi separa da Berlusconi, ma su questo aspetto ha ragione. E magari si trattasse solo di bomba sociale...».

Perché, c'è di peggio?

«Sì, esiste il rischio anche di una bomba sanitaria».

Motivo?

«Tra i migranti si registrano molti casi di tubercolosi, malaria e Aids. Ma nella comunità africana ci si cura con metodi tribali. Lungo il litorale non esistono fogne e l'inquinamento ambientale è un incubo».

Ci vorrebbero ingenti opere infrastrutturali.

«Il governo ha proposto investimenti. Al ministro Minniti chiederò che gli impegni vengano rispettati».

C'è bisogno di sicurezza.

«Più forze dell'ordine e maggiore prevenzione».

Senza dimenticare i finanziamenti.

«Le casse del Comune sono a secco. Da settimane abbiamo in ospedale un feto partorito e abbandonato da una mamma africana. Vorremmo garantirgli una onorevole sepoltura. Ma non abbiamo neppure i soldi per il funerale».

È terribile.

«Lo so».

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Hawala, ecco come fanno lavoratori stranieri, scafisti e terroristi a trasferire soldi senza lasciare tracce, scrivono Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero su "IRPI" riportato il 22 dicembre 2017 su "it.businessinsider.com". Firenze, via Palazzuolo 172 rosso. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore dista 15 minuti a piedi. La Stazione di Santa Maria Novella cinque. Il civico corrisponde ad un palazzo anonimo, incastonato tra le case ammassate l’una sull’altra in questa stretta via del centro fiorentino. Su Google, chi cerca “via Palazzuolo 172” trova un nome, Abdalla Osman Hassan, e un negozio, Ilays Money Service. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, era una banca clandestina che tra il primo gennaio e il 3 ottobre 2017 ha mosso oltre 400 mila euro. Soldi fuori da ogni radar della Banca d’Italia, che si muovono senza lasciare traccia, come fossero contanti. Ilays Money Service appariva come un semplice money transfer, ma dietro questa facciata nascondeva un sistema di passaggio di denaro parallelo. Il cosiddetto hawala. Hawala in arabo significa “trasferimento” o più spesso “fiducia”, che poi è anche la traduzione di “trust”, che da dizionario economico Treccani è un’ “istituto giuridico caratteristico del diritto anglosassone che consente di dar vita a un fondo con patrimonio autonomo, amministrato da un fiduciario”. In soldoni, rappresenta lo strumento previsto dalla legge che scherma le ricchezze offshore di tutto il mondo. Gli hawala, invece, sono quelli illegali per chi non ha santi nei paradisi fiscali. Strumenti finanziari che hanno una storia millenaria, con i quali si fa riciclaggio ed evasione spesso di piccolo cabotaggio, ma che complessivamente raggiungono cifre difficili persino da immaginare. Hawala è diventato, negli anni, il nome con cui si definiscono tutti i “circuiti informali” attraverso cui soprattutto le comunità straniere portano i propri soldi fuori dall’Italia. Rimesse che dalle autorità italiane non vengono né tassate, né controllate: passano di mano in mano in una lunga catena che si basa proprio sulla fiducia. Il tasso di cambio e la commissione vengono pattuiti tra il “banchiere”, l’hawaladar, e il cliente. Il sistema ha tanti altri nomi con cui viene definito, a seconda delle aree geografiche: chiti o hundi nel subcontinente indiano, Stash-House nelle Americhe, Chop Shop in Cina. In pratica, gli hawala “sono una cambiale, un pagherò, un assegno”, spiega Giovambattista Palumbo, presidente di Eurispes e grande esperto del sistema. “I ‘banchieri’ hawala, che si occupano di raccogliere e trasferire all’estero le risorse finanziarie, esercitano spesso attività commerciali legali (cambia-valute, negozianti, commercianti, agenti di viaggio, orefici) e godono di molta fiducia e rispetto nell’ambito delle rispettive comunità”, aggiunge Palumbo. “La loro attività consiste nel garantire il trasferimento delle somme di denaro derivanti dai profitti, leciti ed illeciti (spesso derivanti da lavoro nero o evasione fiscale), ottenuti dai membri della comunità”. Gli hawaladar sono bottegai della finanza, “broker” da strada la cui attività è prevista anche negli ahadith, libri che interpretano i versi del Corano. Esistono varie sfumature di hawala: il sistema può essere davvero l’unico modo per spedire denaro alla propria famiglia in Paesi dove lo Stato non esiste, oppure un perfetto sistema di riciclaggio ed evasione per milioni di euro, sfruttato anche da organizzazioni terroristiche e criminali. Il passaggio di denaro via hawala appare identico a quello di un money transfer. Quest’ultimo funziona così: un cliente va allo sportello e deposita la cifra di denaro da inviare in un altro Paese. L’operatore consegna al cliente un codice, che a sua volta lo manderà al destinatario finale. Quest’ultimo andrà nel giro di 48 ore in un’agenzia della stessa catena di money transfer con in mano il codice e ritirerà la somma di denaro. La differenza per gli hawala sta tutta in chi muove i soldi e nella commissione applicata. L’hawala è decisamente più conveniente. Gli hawaladar, i banchieri, sono persone con tanto denaro a disposizione sulle quali trasferire il proprio debito. Sono loro che anticipano e che fanno circolare soldi. Anticipano il denaro per conto di altri: i debiti e i crediti tra hawaladar, quello dal Paese di partenza del denaro e quello di arrivo, verranno saldati in un secondo tempo, a seguito di centinaia di operazioni. La fiducia, come sempre, è la base millenaria su cui si poggia questo sistema. L’inchiesta fiorentina è arrivata all’esercizio commerciale di Abdalla Osman Hassan da un vecchio camion militare. Il mezzo era stato spedito dalla Toscana alla Somalia aggirando l’embargo che impedisce la vendita di materiale militare nel Paese. Camion simili vengono riempiti di esplosivo e usati come autobombe: l’ultima del 14 ottobre ha ucciso circa 230 persone a Mogadiscio. Il sistema è noto all’Europol come fonte di approvvigionamento di gruppi terroristici almeno dai tempi della prima Al Qaeda guidata da Osama Bin Laden. Più di recente, Chérif Kouachi, attentatore che insieme al fratello ha compiuto la strage alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, ha ammesso di aver ricevuto attraverso questo sistema 20mila euro dal gruppo di Al Qaeda nello Yemen. L’hawala è poi il sistema usato dai trafficanti di esseri umani per farsi pagare dai migranti che attraversano l’Africa, si imbarcano verso l’Italia e dalla nostra penisola si spostano in tutta Europa. A maggio un’importante operazione della Squadra mobile di Bari ha colpito la rete criminale intorno a Hussein Ismail Olahye, somalo classe 1984 che aveva costruito a partire dal suo money transfer Juba Express un’organizzazione che comprava permessi di soggiorno e titoli di viaggio falsi, pagava trafficanti di uomini, corrompeva ufficiali dell’anagrafe e poliziotti alla frontiera, gestiva spostamenti e pernottamenti tra Somalia, Italia, Germania, Svizzera e Svezia. La sua rete era il punto di riferimento per i somali che desideravano arrivare illegalmente in Italia o da qui spostarsi verso un altro paese europeo. In due anni e mezzo, gli inquirenti hanno individuato spostamenti di denaro per 9 milioni di euro. L’organizzazione aveva anche aiutato, nel luglio 2016, due estremisti siriani entrati in Italia via Malta, già condannati per associazione finalizzata al terrorismo in primo grado dal Tribunale di Brescia. Dal 2007 al 2010, secondo le operazioni Cian Liù, Cian Ba 2011 e Cian Ba 2012 condotte tra Prato e Firenze dalla Guardia di finanza fiorentina sono stati mossi attraverso gli hawala cinesi oltre 4,5 miliardi di euro dall’Italia alla Cina. Spesso frutto di lavoro nero. Le operazioni hanno prodotto 24 arresti e 581 denunce. A febbraio 2017, la filiale di Milano della Bank of China ha patteggiato 600 mila euro di multa: la banca era finita sotto inchiesta per riciclaggio. Nel periodo in esame, aveva ricevuto da un money transfer illegale 2,2 miliardi di euro, per i quali aveva ricevuto 758 mila euro in commissioni. Trasferimenti arrivati poi in Cina, senza che fosse possibile stabilire la reale provenienza. Quattro erano i dirigenti sotto inchiesta, accusati di aver omesso il controllo e frazionato le tranche in pagamenti da 1.999 euro, uno sotto alla soglia massima consentita dalla legge. Mai, fino ad oggi, era stato toccato un patrimonio tanto vasto mosso attraverso gli hawala.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

Terrorismo islamico e mafia: i punti di contatto. I patti segreti tra le organizzazioni criminali italiane e i terroristi dell'Isis. L'intervista a due analisti, esperti di geopolitica internazionale, scrive Nadia Francalacci il 28 marzo 2018 su "Panorama". Negli ultimi mesi consultava la rivista “The Lone Mujahid Pocketbook” e “Rumiyah”, in arabo “Roma”, per trovare le istruzioni su come compiere attacchi con i camion. È lì che Elmahdi Halili, italo-marocchino di 23 anni, arrestato il 28 marzo dagli investigatori della Digos e dell'Antiterrorismo della Polizia di Torino, ricercava i dettagli e le modalità operative per realizzate attentati con mezzi pesanti ma anche con auto e coltelli. Elmahdi Halili, era pronto a colpire l’Italia in nome di Allah. Ma dove? Da solo oppure con una cellula organizzata? Halili, che ancora non aveva individuato il luogo dove agire, faceva una forte azione di proselitismo con italiani convertiti, ghanesi e marocchini, alcuni già conosciuti alle forze di polizia. "Tiranni! Vado in prigione a testa alta", ha gridato agli uomini della Digos che lo stavano arrestando. 

La cellula estremista di Foggia. Anche Abdel Rahman, arrestato a Foggia, cercava proseliti. E li cercava tra i bambini e gli adolescenti musulmani ai quali inculcava la necessità di uccidere gli infedeli, di colpire i miscredenti, sgozzandoli. L'uomo, sposato con una donna italiana di 20 anni più grande di lui, teneva lezioni di religione ai bambini nel centro culturale islamico di Foggia, "Al Dawa", di cui era anche il presidente. L’arresto di Abdel Rahman, 59 anni, si inserisce in un più ampio contesto operativo che già nel luglio scorso aveva portato all'arresto, sempre nel capoluogo pugliese, di Eli Bombataliev, un militante ceceno dell'Isis.

Terrorismo islamico e mafia. Eppure Halili, Abdrrahim Moutaharrik e Abderrahmine Khachia agli occhi degli analisti ed esperti di geopolitica internazionale non sono solo dei terroristi islamici pronti a mettere a segno un attentato in Italia, ma anche soggetti capaci di far acquisire nuovi elementi sui traffici illeciti e le interazioni delle organizzazioni mafiose con il terrorismo e il territorio. Sì, mafia e terrorismo islamico. Le cellule terroristiche presenti sul nostro territorio, sono legate alle organizzazioni criminali da sodalizio solidissimo basato su un business milionario di cui non si parla mai, neppure, in occasione di arresti e sventati attentati in nome di Allah.

 “Gli estremisti islamici che, mese dopo mese, vengono arrestati in Italia mostrano sempre con maggiore chiarezza una interazione tra il terrorismo islamico e le organizzazioni mafiose presenti sul nostro territorio- spiega a Panorama.it, Margherita Paolini, esperta geopolitica internazionale- Camorra, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno ormai da moltissimi anni, instaurato un legame di connivenza integrato con i terroristi dove vi è uno scambio costante e continuo di armi, droga, documenti falsi”. La maggior parte dei terroristi che vengono arrestati in territorio europeo hanno legami, più o meno diretti, con i Balcani, territorio di “affari” di tutte le organizzazioni criminali italiane.

Il ruolo della mafia. “Le mafie italiane permettono e aiutano le cellule terroristiche a raggiungere il nostro Paese, gli permettono di vivere nel nostro territorio o di transitare dalle nostre terre con il chiaro accordo - prosegue Paolini- di non colpire l’Italia. Questo è ormai cosa nota a tutti gli analisti.” “Gli attentati implicano un maggior controllo del territorio da parte delle forze di polizia e la mafia non lo vuole - continua Paolini- gli accordi tra le mafie italiane e le cellule terroristiche sono molto chiari in quanto una violazione di tale accordo farebbe saltare guadagni milionari ad entrambe le parti”. “Se le organizzazioni mafiose vengono a conoscenza di qualche soggetto che ha intenzione di “violare” il tacito accordo- conclude Margherita Paolini- viene fatto “uscire” allo scoperto. In sostanza, viene fatto in modo che venga arrestato prima di compiere un attentato. Praticamente, viene fermato prima”. A fare un’analisi precisa e dettagliata dei legami tra mafia e terroristi non è solo Margherita Paolini, ma anche Gianluca Ansalone, Docente di geopolitica presso la Sioi.

Connivenza, opportunità e interessi. “Connivenza, opportunità ed interessi. Si può riassumere così il sodalizio che unisce terroristi islamici e organizzazioni mafiose - conferma a Panorama.it, l’esperto - l’Italia è un hub logistico strategico sia per i terroristi che vogliono transitare da e per il resto d’Europa che per le organizzazioni criminali che sfruttano questi soggetti per implementare il traffico di droga, armi, sigarette e prostituzione”. “Non a caso le rotte commercialmente più vantaggiose per le mafie corrispondono a quelle dei terroristi- prosegue Gianluca Ansalone - la prima è senza alcun dubbio quella balcanica che permette ai terroristi, ma anche alle armi o alla droga di raggiungere i nostri territori attraversando prima la Turchia e la Grecia; la seconda è quella africana che ha origine nell’Africa occidentale e che attraversando la Nigeria, il Mali raggiunge le coste libiche, tunisine e algerine”. Dunque i rapporti tra mafia e cellule terroristiche ci sono e sono solidi. “Mafia e terrorismo è un’equazione solidissima anche se non si può identificare come “uno a uno” in quanto qualche soggetto “sfugge” a questo accordo. Ad esempio, i lupi solitari – conclude il docente della Sioi - dando vita a quelle minacce cosiddette “granulari” difficili da monitorare ed intercettare e che sono oggetto, costantemente, di osservazione da parte dei nostri apparati di polizia e intelligence”.

Eppure è la stessa Nadia Francalacci su Panorama a dire il contrario.

"L'Italia si protegge dai terroristi con la mafia". Un ex agente dei Servizi segreti: "L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei ‘segnali deboli’ che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 18/11/2015, su "Il Giornale". "L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei ‘segnali deboli’ che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia". A dirlo a Panorama è un ex agente dei Servizi segreti, che con il settimanale ha analizzato gli eventi di Parigi e la paura di attentati che attanaglia l'Italia e l'Europa. "Non è possibile indicare un luogo o un obiettivo come “sensibile” - ha detto - gli attacchi in Francia l’hanno dimostrato chiaramente. I lupi solitari così come cellule ben strutturate e organizzate non tendono a colpire i grandi monumenti o aree di grande interesse ma, prendono di mira luoghi “comuni” non presidiati dalle forze di polizia ma che sono comunque punto di ritrovo per la cittadinanza. Il teatro Bataclan ne è la dimostrazione". Poi: "Il nostro Paese è un territorio molto vasto, difficile da controllare e ricco di luoghi che potrebbero essere considerati obiettivi sensibili. Quindi sarebbe sciocco per non dire ridicolo fare una classifica dei monumenti a rischio certamente rimangono monitorate costantemente dall’intelligence le metropolitane, le grandi stazioni ferroviarie che hanno importanti centri commerciali e gli aeroporti oltre ad alcuni acquedotti ma la vera protezione è quella “indiretta” esercitata dalle organizzazioni criminali". Insomma, a proteggere gran parte dell'Italia non ci sarebbe lo Stato, ma la mafia. "Non possiamo dire quali saranno le aree nel mirino degli attentatori - afferma l'ex agente - ma invece possiamo indicare quasi con una certezza matematica l’area che invece non sarà interessata da eventuali attentati strutturati come quelli avvenuti a Parigi: il Sud Italia". "Potenziali attentati - continua - potrebbero essere portati a segno solo da Napoli in su. Dal capoluogo partenopeo in giù la presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio non permettono la permeabilità dei terroristi nelle loro zone. Le cellule legate all’estremismo islamico possono solo attraversare quelle zone, ad esempio, la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania ma non è permesso loro di fermarsi. La Camorra, la ‘Ndrangheta e la Mafia possono semmai solo guadagnare dal loro passaggio ma, sanno che la presenza in loco di questi soggetti, potrebbe solo danneggiarli. E viceversa. Anche gli stessi terroristi sanno che il controllo sul territorio esercitato dagli stessi mafiosi, rischierebbe di farli entrare nel mirino degli investigatori".

Ecco quindi i 4 motivi per cui gli islamici non colpiranno mai il Sud.

1) Le vedette: Sono una presenza più che radicata nel territorio dei boss, uno schieramento di "soldati" così capillare da avere un controllo praticamente totale. Sono loro a registrare la presenza e i movimenti di possibili terroristi.

2) Spesso la presenza di cellule terroristiche distrugge le attività commerciali ed economiche del luogo. E la criminalità organizzata non può fare a meno di una fonte di reddito come questa.

3) Se ci sono possibili jihadisti in giro è probabile che ci sia anche la polizia alle loro calcagna. Per distogliere l'attenzione delle autorità, la mafia è attenta a tener lontani i terroristi e integralisti. Ma vale anche il contrario: gli jihadisti sanno che al Sud la presenza della polizia è forte nelle zone ad alta densità mafiosa.

4) Le mafie considerano il loro territorio come "off limits": non permettono a nessuno di passare o insediarsi.

Isis in Italia, le regioni più sicure quelle dove c'è la mafia. Ma le organizzazioni criminali (per interessi propri) lavorano alla prevenzione degli attentati. Arrestati questa mattina, tre italiani e un libico, scrive Nadia Francalacci su Panorama il 31 gennaio 2017.

I territori off limits. Le mafie non accettano le presenze “esterne ed estranee” su un territorio considerato di proprietà.

La mafia riesce a contrastare il terrorismo. Le armi all’Isis, passavano dall’Italia con la complicità della mafia del Brenta e dei Casalesi. Ha ricostruire il traffico di illegale di fucili di assalto e missili terra aria ma anche di elicotteri, è stato il Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia che questa mattina, su ordine della Dda di Napoli, ha arrestato 4 persone con l’accusa di traffico internazionale di armi e di materiale "dual use", di produzione straniera. Si tratta di tre italiani di cui due radicalizzati, e un libico. Sono loro ad aver introdotto, tra il 2011 e il 2015, in paesi soggetti ad embargo, quali Iran e Libia, migliaia di armi e munizioni. Mario Di Leva, convertito all'Islam con il nome di Jaafar, e Annamaria Fontana sono i coniugi di San Giorgio a Cremano, Napoli, che dopo essersi radicalizzati, gestivano il traffico illegale assieme all'amministratore delegato della Società Italiana Elicotteri, Andrea Pardi, già coinvolto un un'altra inchiesta su traffico di armi e reclutamento di mercenari tra Italia e Somalia. Dall’inchiesta di questa mattina, è emerso che una persona organica ad un clan camorristico dell'area casalese era stato contattato da un appartenente alla cosiddetta "mala del Brenta" con precedenti specifici per traffico di armi. Quest'ultimo ricercava, infatti, persone esperte di armi ed armamenti da inviare alle Seychelles per l'addestramento di un battaglione di somali, che avrebbero dovuto svolgere attività espressamente qualificate come "mercenariato". Ma c'è un altro aspetto inquietante che lega questa coppia di coniugi ai terroristi: il rapimento dei quattro italiani in Libia nel 2015. Da alcuni sms di poco successivi al sequestro, infatti, in cui i coniugi facevano riferimento ai rapitori come persone già incontrate qualche tempo prima per i loro affari. "Ce li hanno proprio quelli dove noi siamo andati, già sto facendo, già sto operando con molta tranquillità e molta cautela". I pm non escludono "una loro possibile attività nel complicato meccanismo di liberazione che solitamente avviene tramite il pagamento di riscatti o la mediazione con altri affari ritenuti di interesse dai miliziani". Il sequestro si concluse, a marzo del 2016 con la morte di due italiani, Fausto Piano e Salvatore Failla mentre gli altri due rapiti, Gino Pollicandro e Filippo Calcagno, riuscirono a fuggire. Sull'importanza strategica delle organizzazioni criminali sul nostro territorio nella prevenzione degli attentati e sugli interessi delle mafie, Panorama.it ne aveva già parlato due anni fa. Ecco l'intervista rilasciata in esclusiva a Panorama.it il 17 novembre 2015 da un ex agente dei Servizi Segreti italiani che aveva anticipato l'operazione di questa mattina. “L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei segnali deboli che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia”. Parla così un ex agente dei Servizi segreti dopo gli attacchi terroristi che hanno messo in ginocchio Parigi e spaventato il resto d’Europa. “Non è possibile indicare un luogo o un obiettivo come “sensibile” - prosegue l’ex agente a Panorama.it - gli attacchi in Francia l’hanno dimostrato chiaramente. I lupi solitari così come cellule ben strutturate e organizzate non tendono a colpire i grandi monumenti o aree di grande interesse ma, prendono di mira luoghi “comuni” non presidiati dalle forze di polizia ma che sono comunque punto di ritrovo per la cittadinanza. Il teatro Bataclan ne è la dimostrazione.” “Il nostro Paese è un territorio molto vasto, difficile da controllare e ricco di luoghi che potrebbero essere considerati obiettivi sensibili. Quindi sarebbe sciocco per non dire ridicolo fare una classifica dei monumenti a rischio - continua l’ex agente il cui nome in codice era Edera – certamente rimangono monitorate costantemente dall’intelligence le metropolitane, le grandi stazioni ferroviarie che hanno importanti centri commerciali e gli aeroporti oltre ad alcuni acquedotti ma la vera protezione è quella “indiretta” esercitata dalle organizzazioni criminali”.

Si spieghi meglio…

"Non possiamo dire quali saranno le aree nel mirino degli attentatori, ma invece possiamo indicare quasi con una certezza matematica l’area che invece non sarà interessata da eventuali attentati strutturati come quelli avvenuti a Parigi: il Sud Italia".

Se possibile, sia ancora più preciso...

"Potenziali attentati potrebbero essere portati a segno solo da Napoli in su. Dal capoluogo partenopeo in giù la presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio non permettono la permeabilità dei terroristi nelle loro zone. Le cellule legate all’estremismo islamico possono solo attraversare quelle zone, ad esempio, la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania ma non è permesso loro di fermarsi. La Camorra, la ‘Ndrangheta e la Mafia possono semmai solo guadagnare dal loro passaggio ma, sanno che la presenza in loco di questi soggetti, potrebbe solo danneggiarli. E viceversa. Anche gli stessi terroristi sanno che il controllo sul territorio esercitato dagli stessi mafiosi, rischierebbe di farli entrare nel mirino degli investigatori. Ecco quali sono i cinque punti che rendono il Sud Italia un luogo più sicuro dagli attentati terroristici:

Il ruolo fondamentale delle vedette dei boss. Presenza capillare sul territorio dei “soldati” dei boss appartenenti ai vari clan, impedisce l’organizzazione da parte di gruppi terroristici. Le vedette dei boss, monitorano e presidiano in modo costante le zone di “appartenenza” e “registrano” anche gli arrivi e i movimenti dei presunti terroristi.

I terroristi interferirebbero con le attività criminali. Un attentato innalzerebbe sul territorio la presenza delle forze di polizia e questo impedirebbe lo svolgimento delle attività criminali come pizzo, spaccio, contrabbando. O comunque le rallenterebbe moltissimo. Da qui l’interesse ad allontanare i terroristi.

La distruzione delle fonti di reddito per la criminalità. La distruzione di attività commerciali equivale alla distruzione, per la criminalità organizzata, di una fonte di reddito certa. Da qui l'interesse a contrastare la loro presenza in loco.

Distogliere l'attenzione degli investigatori. La presenza di cellule terroristiche potrebbe condurre sui territori “controllati” dalla mafie l’attenzione degli investigatori. E viceversa. Gli investigatori potrebbero “disturbare” le organizzazioni terroristiche seguendo le piste mafiose o la ricerca di latitanti.

I territori off limits. Le mafie non accettano le presenze “esterne ed estranee” su un territorio considerato di proprietà.

IL BOSS: "LA MAFIA È PRONTA A DIFENDERE LE NOSTRE CITTÀ DAL TERRORISMO DELL'ISIS". Scrive Martedì 24 Novembre 2015 “Leggo”. «La mafia ha un controllo migliore degli enti di sicurezza tradizionali sul territorio e nessun limite alla legge». È così che Giovanni Gambino, figlio di un boss della criminalità organizzata di New York, motiva in un'intervista alla Nbc la sfida lanciata all'Isis: se i jihadisti hanno in programma di attaccare nella Grande Mela, dovranno fare i conti con la mafia siciliana, pronta a fare la sua parte per fermare gli uomini del Califfato e per proteggere i cittadini. «Spesso gli organi incaricati della sicurezza agiscono troppo tardi, o non riescono ad avere un quadro completo di ciò che sta accadendo a causa della mancanza di 'intelligence umana'», ha detto Gambino. «Il mondo è pericoloso, ma le persone che vivono nei quartieri di New York dove ci sono collegamenti con i siciliani dovrebbero sentirsi al sicuro - ha spiegato - Noi garantiamo che i nostri amici e le loro famiglie saranno protetti dagli estremisti, in particolare dai terroristi dell'Isis». A suo parere, inoltre, «la mafia ha una cattiva reputazione, ma gran parte di questa è immeritata». Il figlio del boss, che si è trasferito a Brooklyn nel 1988, ha aggiunto che «come ovunque ci sono i buoni e i cattivi, ma l'ascesa del terrorismo dà alla mafia la possibilità di mostrare il suo lato buono».

IL CIRCO DELL’ANTIMAFIA. RETORICA E ILLEGALITA’.

Benvenuti al circo dell’antimafia. E allora facciamolo scoppiare, il bubbone, scrive Nando Dalla Chiesa. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire. Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate – ‘ndrangheta, camorra, mafia – a ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona. Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato…); ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto. Così il pubblico milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia. E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare…) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali. Che cosa sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato.  Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano avevano – come oggi per Di Matteo – la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta. (tratto dal Fatto Quotidiano del 21/12/2013).

Troppa retorica e poca legalità, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari. Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno. Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa. Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.

No, proprio la scuola no, risponde Nando Dalla Chiesa. Partendo dagli stessi due esempi - Carolina Girasole e Rosy Canale – da cui era partito il sottoscritto per denunciare sabato scorso il “Circo dell’antimafia”, domenica Ernesto Galli della Loggia ha sferrato un duro attacco dalla prima pagina del Corriere contro l’azione svolta dalla scuola italiana nell’educazione alla legalità. Un’azione retorica, ha scritto, fondata sulla precettazione “buonista” degli alunni e del tutto inefficace nella lotta alla criminalità organizzata (che si combatte con magistratura e forze dell’ordine efficienti e inflessibili). E infine costosa. Culmine e sintesi di questa galleria di vizi sarebbe la “carnevalata” della nave della legalità, ossia la nave che, piena di studenti, parte da Civitavecchia e da Napoli per ricordare ogni 23 maggio a Palermo, con la strage di Capaci, i giudici simbolo della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino. Qui bisogna esser chiari. Il circo dell’antimafia esiste. La retorica di certe forme celebrative pure. Gli alunni in più occasioni servono a riempire sale ufficiali altrimenti vuote. E qualche inutile soldo gira, sempre a favore di esperti immaginari o di improbabili percorsi formativi, dalla Sicilia alla Lombardia. Ma alla scuola, e al suo ormai trentennale impegno sul fronte della lotta per legalità, il paese deve solo fare un monumento. Pur tra mille difficoltà, con tagli crescenti, a volte battendosi contro le diffidenze ambientali, la scuola pubblica italiana ha fatto quel che non hanno fatto l’impresa, la politica, gli intellettuali, le professioni e l’informazione. Si può anzi dire che se il paese ha retto di fronte all’offensiva criminale lo deve a due pilastri: da una parte magistratura e forze dell’ordine, dall’altra la scuola. Decine di migliaia di insegnanti hanno dedicato tempo, passione, studi aggiuntivi per fronteggiare un fenomeno che il paese ufficiale non vedeva. Hanno accreditato nella cultura delle nuove generazioni magistrati e poliziotti, invitandoli anche tra ragazzi abituati a chiamarli sbirri. Hanno fatto sentire ai rappresentanti dello Stato in trincea il consenso negato dall’alto. Nella scuola si sono così formate generazioni più consapevoli delle precedenti. E forse anche a questo si deve se oggi leve di giovani consiglieri comunali, al sud come al nord, stanno finalmente modificando l’atteggiamento di molti enti locali di fronte alla mafia. O se all’università si trovano studenti eticamente motivati a fare il commissario di polizia o il concorso per maresciallo dei carabinieri. Dirò di più. E’ perfino commovente tornare in una scuola venti o trent’anni dopo e ritrovare la professoressa conosciuta ancora giovane, ormaivicina alla pensione, e che tuttora continua a organizzare corsi, giornalini, teatro contro la mafia. Gratis. Senza gloria. E sarebbe bello che proprio queste persone, regolarmente neglette, venissero finalmente e ufficialmente ringraziate dal presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ecco. La Nave della legalità è ogni anno il punto d’arrivo (gioioso e faticosissimo) di questo immenso lavoro. E ha il pregio di indurre chi vi partecipa a dire, come ho sentito dire dai miei studenti, “mi ha cambiato la vita”. E’ forse più efficace puntare solo sulle forze dell’ordine e sui magistrati? Certo l’applicazione costante e rigorosa della legge incoraggia lo spirito della legalità. Ma è anche vero che quest’ultimo si radica (lo insegnava Tocqueville…) nei costumi civili. Ed è soprattutto vero che se in Italia la legge non viene applicata come vorrebbe (giustamente) Galli della Loggia, è perché l’indolenza delle classi dirigenti, i calcoli elettorali, le complicità politiche e giudiziarie lo impediscono. Da qui la necessità di unire tutte le forze legalitarie per cambiare uno Stato che dovrebbe funzionare in un certo modo ma che in quel modo, disgraziatamente, non funziona. Ci sarà pure una ragione se i magistrati in prima linea hanno sempre assegnato alla scuola, con i suoi tanti ragazzi senza diritto di voto, una funzione fondamentale o se perfino un generale diventato prefetto, uomo per antonomasia della repressione, sentì d’istinto il bisogno e l’utilità di andare a parlare nei licei palermitani. Se esiste il circo dell’antimafia, la scuola ne è in genere la negazione; per questo mette sempre più al bando spettacolarità e assemblee oceaniche per approfondire valori e conoscenze, e scongiurare il clima da applauso facile. Insomma, più che essere il bersaglio delle polemiche, oggi la scuola -sì, la famigerata scuola- dovrebbe essere il modello di tutti. Magari l’Italia ne fosse all’altezza.

Ammetto i miei limiti: non riesco proprio a capire quale «lavoro didattico» che impegni «lunghi mesi di lavoro serio in classe», «anni» addirittura, serva—come scrivono gli autori della lettera pubblicata ieri sul Corriere in risposta al mio editoriale di domenica sulla «cultura dell’antimafia» — per «formare giovani generazioni di adulti più consapevoli e attrezzati a scegliere tra giustizia e illegalità » (forse volevano dire tra legalità e illegalità: la giustizia è un’altra cosa, anche se forse il lapsus non è casuale…), scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Essi sostengono che tale lavoro di mesi e anni serve a «imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale». Cioè? Che cosa significano in concreto queste parole? Di che cosa parla, in concreto, chi è chiamato a insegnare «cultura della legalità»? Spiega forse che cosa è il «pizzo» o un appalto truccato? Che cosa è un «pusher»? Ma davvero è immaginabile —mi chiedo— che un ragazzo palermitano o napoletano abbia bisogno che gli si spieghino queste cose? Che cos’altro gli viene insegnato allora? che queste cose sono proibite dalla legge, che costituiscono un reato e che non bisogna commettere reati? Ma di nuovo: c’è forse qualcuno che lo ignora? Per carità, sono umanamente più che comprensibili «le tante voci dei familiari delle vittime—come essi stessi dicono— che chiedono di ricordare e di far ricordare », ma dopo tanti anni d’insegnamento della cultura della legalità il vero, decisivo, argomento che i rappresentanti dell’ «associazionismo antimafioso» (vedo che esiste addirittura una tale categoria: un po’ come l’associazionismo sportivo o quello della «caccia e pesca») dovrebbero adoperare, se mai potessero, è quello dei fatti: cioè dell’eventuale diminuzione non dico dei reati e del giro d’affari riconducibili alla malavita organizzata (che invece, secondo i nostri Servizi e la Commissione antimafia sono in aumento), ma almeno del numero degli affiliati (ciò che appare altrettanto dubbio). A che servono se no i loro sforzi? In mancanza di quanto ora detto, se ne facciano una ragione, tutto diventa materia opinabile. Anche se naturalmente non sono così sciocco da non capire che mentre dalla parte della «cultura della legalità» stanno il politicamente corretto, l’opportunità e la convenienza sociale, i buoni sentimenti e un facile consenso, dalla parte di chi la critica, invece, c’è solo modo di ricevere commenti indignati e rimbrotti. Ciò nonostante mi ostino a credere che così come si insegna ad amare l’Italia leggendo Leopardi e De Sanctis e non già impartendo lezioni sulla bontà del patriottismo; che così come si insegna a essere dei buoni cittadini apprestando istituzioni efficienti e avendo una classe politica onesta e non già concionando sulla Costituzione «più bella del mondo»; allo stesso modo si insegna davvero la legalità assicurando che chiunque la violi venga processato e condannato sempre e nel più breve tempo possibile, non già organizzando corsi, flotte e convegni vari. È forse un mio limite, ma io la penso così.

Antimafia, che passione! Pubblichiamo la risposta di Davide Mattiello all’articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato il 22 dicembre. Antimafia, che passione! … riflettendo sulle parole di Ernesto Galli Della Loggia. (Corriere della Sera del 24 Dicembre, 2013).

L’antimafia ha bisogno di più concretezza e di meno retorica? Si, certo. Mi sono convinto negli anni che la migliore lezione di “legalità” e quindi di “antimafia” sia far funzionare la Repubblica e poi raccontarlo. Tanto meglio funziona, tanto meno c’è bisogno di mafia: noi sconfiggeremo le mafie, quando le avremo rese inutili. L’innesco di questa convinzione sono state le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che a Bocca disse: “Lo Stato batterà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi elargiscono come favori”. Sull’altra sponda, quella dei mafiosi, fanno eco a queste parole quelle di un boss, Pietro Aglieri, che disse ad un magistrato: “Vede dottore, quando voi andate nelle scuole e parlate ai nostri ragazzi, quelli vi ascoltano. Ma quando poi escono e cercano un lavoro, a chi trovano? A voi o a noi?”. Comincio da qui per sottolineare che il bisogno di concretezza, cioè la sfida di battere le mafie sul terreno della convenienza e di una convenienza che passa attraverso il rispetto delle regole, è sentito e condiviso: anche per questo uno come me, dopo vent’anni passati a fare movimento, sociale e culturale, nell’associazionismo è approdato in Parlamento e oggi sta nella Commissione Antimafia. Ciò posto, perché quando chiesero a Giovanni Falcone cosa ne pensasse dell’esercito in Sicilia, questi rispose: “Certo che lo voglio l’esercito in Sicilia, voglio un esercito di insegnanti, perché la mafia teme la cultura”? Intanto perché un giovane formato e colto è più libero, diventa più capace di auto determinarsi e questo a prescindere da qualunque “corso antimafia”. Evviva quindi Leopardi e De Santis! Evviva la grammatica e la matematica! Evviva la filosofia e la storia! Però avremmo capito molto poco di questo Paese, se non avessimo compreso che la forza specifica delle mafie, intese come organizzazioni criminali, sta fuori dalle mafie e sta in particolare in un humus culturale, non aggredendo il quale, non si contrasta efficacemente il fenomeno. In Italia è radicata una estetica della mafia, della mafiosità, che ha reso e rende “sexy” il mafioso. Il mafioso visto come quinta essenza di un certo modo di intendere le relazioni tout court e le relazioni di potere in particolare. Uno che sa far succedere le cose che vuole. Che comanda perché è il più forte e fintanto che è il più forte. Uno che sa proteggere chi ubbidisce e liquidare l’infame che tradisce l’omertà del branco. C’è una poetica del clan, mortalmente radicata in Italia: tanto che parliamo di familismo, di clientelismo. Gustavo Zagrebelsky parla dei “giri giusti” e non ricordo più chi ha parlato dell’Italia come del Paese “delle conoscenze” e non “della conoscenza”. Un’Italia limacciosa, che fa dell’appartenenza al gruppo un valore intrecciato e avvelenato dalla avidità e dalla violenza. Mutuando le parole di Padre Alex Zanotelli: “Dobbiamo decolonizzare l’immaginario”. Cioè, dobbiamo invertire il paradigma estetico, per consolidare quello etico. Insomma, come direbbe Peppino Impastato, dobbiamo sentire il puzzo di quella “montagna di merda” e di contro imparare ad assaporare quello che per Borsellino era “il fresco profumo di libertà”. Dove si può ragionare di tutto questo? A scuola! Ragionare, riflettere, discutere, approfondire, ascoltando testimoni, famigliari delle vittime innocenti, magistrati e agenti delle forze dell’ordine. Serve eccome. Anzi la cosa più concreta che un essere umano possa fare è pensare, che se poi lo fa insieme ad altri, inizia a diventare realtà. Serve a smontare stereotipi: un immaginario grossolano e parziale, funzionale a non riconoscere i problemi. Serve eccome spiegare che cosa è il racket, come funziona il narco traffico, come e perché le mafie si sono estese all’Italia intera e poi al Mondo. Serve, perché sono cose che il più delle volte si sanno poco, senza una adeguata capacità di connessione. Serve a tutti. Non soltanto ai ragazzi delle scuole che a suo dire saprebbero già tutto quel che c’è da sapere, se si pensa che soltanto qualche anno fa il Prefetto di Milano negava che la mafia fosse in città. Poi sono arrivate le operazioni Crimine, Infinito, Minotauro, Albachiara, Colpo di coda. Poi sono stati sciolti i Comuni di Leinì, Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia, Sedriano. No, non si sanno abbastanza queste cose, se in Piemonte, dove trent’anni (30) anni fa l’ndrangheta uccideva il Capo della Procura di Torino Bruno Caccia, ci fu una levata di scudi istituzionale, alla relazione finale della Commissione Antimafia presieduta dall’On. Forgione nel 2008, che aveva denunciato l’infiltrazione mafiosa nel territorio piemontese. O forse per certi adulti è più comodo far finta di non sapere: anche per questo è importante che se ne parli nelle scuole. Per formare anticorpi in grado di smontare la favola brutta ma rassicurante che vorrebbe i mafiosi una banda di gangster, terroni e folkloristici. I “corsi anti-mafia” questo a mio avviso dovrebbero essere e per quel che ho conosciuto, sono: un mix di saperi puntuali e di ragionamenti ad ampio spettro su quale sia il modo migliore per stare al mondo in Italia, di ragionamenti su ciò che anima il nostro desiderio. Tante volte, negli scorsi anni, mi è capitato nelle scuole con gli studenti e le studentesse di riflettere per esempio su quanto ci sia di comune tra la cultura mafiosa e i terribili episodi di violenza sulle donne. Infine, ha colto bene che il “lapsus” non è un errore: si, l’obiettivo del ragionamento è quello di rintracciare nella discussione con i ragazzi, volta, volta, la linea di confine tra illegalità e giustizia. Non semplicemente tra illegalità e legalità. Perché troppo spesso i sistemi di potere, diciamo così, complessi hanno fatto ingiustizia con la legge. Non serve evocare il nazismo, basta pensare al reato di clandestinità. La sfida è la giustizia attraverso la legge, non la legge per se stessa. Per questo mi hanno sempre profondamente commosso e convinto le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sbirro con la “s” maiuscola come ama dire Gian Carlo Caselli, campione cioè del momento repressivo dello Stato. Quando risponde a Bocca non gli dice, come avrebbe potuto, “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando farà rispettare l’ordine della legge”, ma, appunto: “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi danno come favori”: il lavoro, la casa, la cura, la sicurezza… La giustizia sociale, insomma. Quella di cui all’art. 3 com 2 della nostra Costituzione, la più bella del Mondo! On. Davide Mattiello, Membro della Commissione Antimafia.

Nando, la "primadonna" dell'antimafia, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità”. Il profondo rispetto per Carlo Alberto Dalla Chiesa ed il suo sacrificio non può essere scudo per chi, erede di quel cognome, ha assunto un atteggiamento assai discutibile. Sempre più discutibile. Conseguenza di una convinzione distorta, secondo cui solo lui, Nando Dalla Chiesa, fa bene e solo lui è incarnazione della lotta alla mafia, gli altri non devono esistere e tantomeno devono osare apparire rischiando di "oscurarlo". Questo è l'atteggiamento che già criticammo molto tempo fa, nel silenzio dei tanti, anche di coloro che oggi se ne accorgono, sentendo sulla propria pelle le “ferite” prodotte da quell'atteggiamento di Nando Dalla Chiesa...Nando, considerandosi “icona” dell'altare antimafia, sferra un attacco in piena regola a Giulio Cavalli e ad un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura. Lo fa su “Il fatto quotidiano” di Travaglio che, se vogliamo andare a vedere, con un lavoro capillare di mistificazione dei fatti, è riuscito ad accreditare, invece, un riciclatore mafioso, millantatore e bugiardo patentato, quale Ciancimino Massimo, quale “bocca di verità”, eretto a “simbolo” di certa antimafia cialtrona. Ops, è vero, anche Nando Dalla Chiesa crede in Ciancimino jr (scriveva infatti il 4 febbraio 2010 sul suo blog "io a quel che dice Ciancimino jr ci credo"). Quella di Nando Dalla Chiesa non è una critica, magari anche aspra, su posizioni o azioni, che sarebbe più che legittima... è un puro e semplice attacco frontale. Un attacco che si inquadra nell'atteggiamento del “Nando primadonna” che non tollera che ci siano “altri”, con altri metodi, dettati dalla propria storia, che possano essere promotori di un azione di contrasto alle mafie. Quel ruolo ed il palcoscenico dell'antimafia lui lo considera cosa sua e dei suoi. Nessuno deve osare fare qualcosa che possa renderlo protagonista di quella battaglia, perché lui, il Nando, non sarebbe più l'unico attore su quel palcoscenico. Questo è per il narcisista inaccettabile e per questo, di nuovo, sui nuovi bersagli sputa veleno. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Pessimo. Prima di tutto perché lo screditare un collaboratore di Giustizia, ritenuto attendibile dallo Stato perché la magistratura ha riscontrato quanto da questi verbalizzato, fa comprendere che a Nando Dalla Chiesa non piaccia quello strumento essenziale nella lotta alle organizzazioni mafiose che è proprio quello dei collaboratori di Giustizia. Inoltre, sempre pessimo, perché Nando Dalla Chiesa dimostra la stortura propria di certa antimafia – non solo sua, quindi, sia ben inteso - che vede “collaboratori buoni” ed “collaboratori cattivi”, non sulla base dell'attendibilità verificata da Procure e Tribunali, ma classificati in una o nell'altra categoria su base prettamente “politica”, di convenienza. Sono “buoni” se quanto dichiarano è gradito alla propria parte o alla propria teoria e “cattivi” se invece quanto denunciano “non gradito” e smonta certi teoremi. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Ingiusto e vile anche nei confronti di Giulio Cavalli che, con ciò che sa fare, cioè l'attore, ha promosso un impegno civile di contrasto culturale oltre che di denuncia civile contro le mafie. Può piacere o meno il suo lavoro e la sua scelta, lo strumento usato per promuovere il contrasto alle mafie, ma merita rispetto. Non tutti usiamo gli stessi strumenti, non tutti abbiamo identici metodi di lavoro, operativi, nel promuovere l'azione di contrasto alle mafie, ma quando si è in buona fede, si possono promuovere critiche, non si delegittima e non si aggredisce. Giulio Cavalli è stato minacciato di morte. Non lo dice solo Bonaventura ma anche altri collaboratori. Lo hanno evidenziato diversi elementi valutati dalla magistratura e dalle autorità competenti. Giulio Cavalli merita rispetto e tutela. Nando Dalla Chiesa, inoltre, sa bene che portare avanti l'azione antimafia, di denuncia e contrasto culturale, attraverso il teatro è un importante tassello da promuovere. Dovrebbe anche sapere per l'insegnamento concreto di Peppino Impastato, che i mafiosi, risultano insofferenti e indeboliti, dall'uso dell'ironia e dello sbeffeggio. Anche da questa pratica passa l'esorcizzazione della forza di intimidazione delle mafie, del loro “alone” di potere intoccabile. Lo sa bene, Nando Dalla Chiesa, e lo ha usato anche lui questo strumento. Scrivendo e promuovendo, anche con Libera, con diversi attori e palcoscenici, spettacoli teatrali. Vuole il monopolio? Vuole essere l'unico, per il nome che porta, ad avere il palcoscenico ed il pubblico a disposizione? Anche questo è esclusiva di “Libera”? No, Nando Dalla Chiesa, se pensa questo si sbaglia di grosso. E si sbaglia di grosso anche perché non ha personalmente, come non lo ha Libera, come non lo ha nessuno, il “MONOPOLIO” dell'antimafia. Lo abbiamo già detto e ripetuto (invano) conquistandoci la tua querela e quella di Pio Ciotti... Quando non è “la primadonna”, Nando Dalla Chiesa, non critica in modo serrato, anche duro, parte con l'insulto. Noi, a differenza sua, non abbiamo scelto di portarlo in Tribunale, con le querele che avremmo potuto presentare, perché, a differenza sua, abbiamo la convinzione che le diversità e le divergenze, anche le più pesanti, si debbano affrontare “politicamente”, con il confronto. Ed è proprio questa diversa impostazione che segna la differenza di chi è pronto a mettersi in discussione e chi invece si considera “insindacabile”, tra chi critica l'altro e chi invece sputa veleno contro l'altro, tra chi accetta di non essere il solo a promuovere un impegno civile e chi invece vuole affermarsi come l'unica icona intoccabile. Il professionismo dell'antimafia, con la sete di “monopolio” e business è un cancro che divora l'antimafia. Lo denunciammo da tempo, inascoltati, sia noi che altri. Oggi, purtroppo, sono diversi i casi che ci hanno dato ragione. E, attenzione, questo tipo di “professionismo” distorto, nell'antimafia, devasta la credibilità e l'efficacia di azione anche di chi è in buona fede ed opera in modo pulito. Il cercare di svilire gli “altri”, quelli che con fatica portano avanti il proprio lavoro quotidiano, perché solo alcuni pochi “eletti”, legati alla politica, avrebbero “diritto” di farlo, è una pratica che deve finire. E poi, Nando Dalla Chiesa dovrebbe avere il coraggio di guardasi indietro. Riflettere sul percorso che ha fatto prima di diventare “professore dell'antimafia”. Se lo facesse noterebbe le contraddizioni pesanti che caratterizzano quel percorso. Quando era “garante” della MARGHERITA in Liguria non ricorda che non aveva mosso un dito per mettere fuori certi pessimi soggetti che, la pratica politica, ha evidenziato essere indegni? Non ricordi davvero quell'assalto alla Margherita da parte degli ex teardiani savonesi a cui ha assistito, da “garante”, muto e immobile? Non ricorda che quella Margherita ha spianato la strada alle carriere dei Tiezzi, dei Monteleone, dei Paldini, del Romolo Benvenuto e via discorrendo? Perché, lui che si dice puro e coerente, accettò il compromesso in quel pantano di partito? Ed un esame critico sul proprio lavoro al fianco di Marta Vincenzi – prima a pagamento e poi gratuito – in cui si occupava di costruire occasioni da “paravento” antimafia a quell'amministrazione che – lo dicono le risultanze delle inchieste – era piegata ad assecondare gli appetiti dei MAMONE, individuati dalla Guardia di Finanza, come punto di contatto tra cosche, politica ed imprese, perché Nando Dalla Chiesta non lo vuole fare? Non lo abbiamo sentito indignarsi e denunciare gli appalti e lavori di somma urgenza assegnati ai MAMONE (anche soggetti, con la ECO-GE, ad un interdizione atipica antimafia) o al FURFARO, per citarti due casi, che venivano assegnati (direttamente o con le società partecipate) proprio da quell'amministrazione di cui curava la campagna “Genova città dei Diritti”. Come lo spiega, questo punto, Nando Dalla Chiesa? La mafia, le contiguità e le collusioni, le si vede e denuncia solo quando ad amministrare sono “gli altri”? Solo quando è l'altra parte politica che ha contiguità e connivenze? Anche sulla questione che tanto lo trova ora in prima linea, quella delle critiche a Rosy Canale, dovrebbe vederlo parlare con un pizzico di onestà intellettuale. Chi l'ha invitata in giro per l'Italia, Rosy Canale, come “icona” dell'antimafia? Non è forse Libera, ad esempio, che l'ha portata a Genova, come in Emilia-Romagna ed altrove? Non è forse Libera con il Comune di Milano che l'ha invitata al “I° Festival dei Beni Confiscati”? E Nando Dalla Chiesa non è forse il presidente onorario di Libera? L'avete invitata, l'avete promossa a “icona” e poi Nando Dalla Chiesa dice, ora, dopo l'indagine, che si sentivi in imbarazzo a parlare negli stessi eventi con Rosi Canale? E perché non lo ha detto prima? Perché non è intervenuto, in quelle occasioni, per dire ciò che ora – dopo – afferma e scrive? Nando Dalla Chiesa, criticare gli altri è legittimo. Usare anche toni aspri nel confronto è legittimo. L'atteggiamento da primadonna, che non tollera gli “altri”, che sferra attacchi volti puramente a delegittimare, è invece intollerabile. E' un atteggiamento intollerabile che rischia di inquinare e scoraggiare anche chi opera in buona fede, ad esempio, in Libera. Guardare i problemi, considerare che si sia una moltitudine nel promuovere e compiere una certa battaglia, confrontarsi tra diversi, è lo spirito necessario. Nascondere i problemi, le diversità, il diritto di cittadinanza di chi opera diversamente, in modo indipendente, è intollerabile ed assoluto controsenso ai principi della Legalità che si dichiara di voler affermare. Ancora una volta, come abbiamo già fatto, gli lanciamo l'invito ad un bagno di umiltà. Si assuma che esistono forme diverse e autonome e indipendenti di promozione della lotta alle mafie. Si assuma che serve un confronto serio per superare i limiti – anche rispetto alla gestione dei beni confiscati – tra tutti i soggetti che fanno antimafia in buona fede. Si assuma che nessuno può essere e considerarsi una “primadonna”, nemmeno se porta un cognome importante che, proprio per quello che rappresenta, dovrebbe anche saper rispettare e non, quindi, sfruttare.

… c'è da segnalare un episodio che ha visto il dottor Paolo Borsellino scavalcare, nell'assegnazione al posto di procuratore della repubblica di Marsala, un altro concorrente più anziano, perché questi non era stato mai incaricato di processi contro la mafia...Anche nel sistema democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata - Uomini pubblici che esibiscono a parole il loro impegno contro le cosche e trascurano i propri doveri amministrativi. L. Sciascia, Corriere della Sera, 10 agosto 1987.

Antimafia: è sempre più scontro tra “primedonne” e “professori”, scrive Matilde Geraci. Necessario, invece, un confronto umile tra tutti i soggetti che, in buona fede e con gli strumenti che hanno a disposizione, si battono quotidianamente nella promozione della lotta alla criminalità organizzata. Descrizione: dallachiesa-cavalli“I professionisti dell’antimafia”: titolava così il famoso articolo di Leonardo Sciascia apparso sulle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, in cui lo scrittore di Racalmuto, commentando l’opera dello storico inglese Christopher Duggan, dedicata all’analisi del fenomeno mafioso nel periodo fascista, osservava come la lotta alla mafia fu, in quell’epoca, strumento di una fazione, interna al fascismo stesso, volta al raggiungimento di un potere incontrastabile. «Insomma, l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e critica mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Eccone uno attuale ed effettuale», scriveva Sciascia, il cui bersaglio principale era Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato procuratore della Repubblica di Marsala, e più in generale il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, i quali a suo dire avevano utilizzato la battaglia al sistema mafioso, come strumento per fare carriera. Borsellino finì sotto la lente incauta dello scrittore, perché aveva vinto il concorso per l’assegnazione di quel prestigioso posto. Posto che sarebbe dovuto spettare ad un collega “più anziano”, ma che si guadagnò di diritto per le specifiche competenze professionali maturate sul campo e riconosciute dal Csm. Inutile dire che quell’articolo scatenò una serie di aspre polemiche e Sciascia fu a poco, a poco sempre più isolato dal panorama politico-culturale dell’epoca. Colui che certamente aveva più diritto degli altri a prendersela, non lo fece. Anzi, quando i due si incontrarono proprio a Marsala, un anno esatto dopo la pubblicazione del pezzo, la querelle montata ad arte da chi evidentemente aveva interesse nel farlo, si concluse con un pranzo sul lungomare della cittadina trapanese. «Sembravano due vecchi amici che si rivedevano dopo tanti anni», ricordò la moglie del giudice poco tempo fa, la quale, in un’intervista rilasciata ad Attilio Bolzoni per la Repubblica, dichiarò: «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri». Un gigantesco fraintendimento, quindi, di cui rimase vittima lo stesso autore del celebre j’accuse. La cui tesi di fondo, non solo cercava giustamente di mettere in guardia da chi sfruttava la lotta alla mafia per un tornaconto personale, ma torna attuale più che mai. Un esempio per tutti: il caso di Rosy Canale, presidente del Movimento Donne di San Luca, accusata di truffa aggravata e peculato per essersi indebitamente appropriata dei finanziamenti erogati dal Ministero della Gioventù, dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, dall’Ufficio territoriale del governo di Reggio Calabria e dalla Fondazione “Enel Cuore”. Una vicenda sulla quale il procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria Nicola Gratteri ha speso parole durissime, ma giuste: «Da tanti anni metto in guardia da chi si erge a paladino dell’antimafia senza avere una storia alle spalle. Non solo da magistrati, da investigatori, da giornalisti, ma da cittadini non possiamo tollerare che ci sia gente che ne abbia fatto un mestiere. Abbiamo tutti l’obbligo di essere vigili nei confronti di queste condotte che non solo sono penalmente rilevanti, ma anche eticamente riprovevoli e inaccettabili». Gratteri prende spunto dalla vicenda della Canale per lanciare pesanti accuse a quella che lui stesso definisce «antimafia delle parole». Troppo spesso, afferma, «manca la coerenza fra ciò che si dice e ciò che si fa». Un singolo episodio vergognoso non può e non deve andare a scapito della “buona antimafia”. Quella vera, che parecchie associazioni e tantissimi cittadini riescono a portare avanti ogni giorno, lontani dai riflettori e dalla corsa a premi e medaglie. L’antimafia è uno strumento necessario e importantissimo per una società che si definisce civile, e non capirlo, pensando che un esempio negativo possa spegnere la luce di quelli positivi, fortunatamente ben più numerosi, è un errore in cui non dobbiamo cadere. Ci è caduto invece, ahimè, Nando dalla Chiesa. Nell’articolo titolato “Benvenuti al circo antimafia”, pubblicato sabato 21 dicembre su Il Fatto Quotidiano, dalla Chiesa, parla di «bubbone da far scoppiare», riferendosi «al variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia» e citando proprio il caso di Rosy Canale, eletta «eroina dell’antimafia». «Perché – si legge ancora – se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa». Critica più che mai legittima, la sua, che però poi, scorrendo l’articolo, diventa un attacco esplicito a chi in realtà è ben lontano da quell’antimafia fatta solo di parole e in cerca di consenso prima di tutto politico. Accuse dirette, di cui risulta difficile capirne le motivazioni, certamente incaute come lo furono quelle che spinsero ventisei anni prima Sciascia ad attaccare Borsellino. Dalla Chiesa scrive che qualcuno «è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore?». Il giornalista parla di Luigi Bonaventura, ex boss di ‘ndrangheta, che sette anni fa è diventato collaboratore di giustizia. «Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa – spiega il giornalista – basta rileggersi il Falcone di “Cose di Cosa nostra”. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. […] Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali». E prosegue, tra esempi (Saviano) e paragoni (Canale), per concludere: «Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta». Lo stupore nel leggere questo attacco è tanto. Ancor più che le parole provengono da un intellettuale, familiare di vittima di mafia. Stupiscono perché con queste accuse si scredita la figura del collaboratore di giustizia Bonaventura, ritenuta invece attendibile dallo Stato, visto che ha collaborato e collabora con decine di Procure, aiutando la magistratura ad arrestare pericolosi ‘ndranghetisti e a fare luce sulla trattativa che pezzi deviati delle Istituzioni avviarono con la ‘ndrangheta (“non contenti” di dialogare soltanto con Cosa nostra). Forse dalla Chiesa non gradisce i collaboratori di giustizia, quali strumento nella lotta alla criminalità organizzata? Eppure il loro contributo, è innegabile, è fondamentale tanto quanto quello dei testimoni di giustizia. Lo avevano capito Falcone e Borsellino e lo aveva compreso ancora prima proprio Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale, infatti, fu un importante innovatore nelle tecniche di investigazione sul terrorismo e sul crimine organizzato con l’uso dei pentiti e degli infiltrati, creando negli anni Settanta il Nucleo Speciale Antiterrorismo, dalle cui ceneri nacque vent’anni dopo il Ros. Se da un lato Nando dalla Chiesa smonta il lavoro della magistratura, dall’altro, parallelamente, sminuisce anche il lavoro di Giulio Cavalli. Attore che dell’impegno civile, quale forma di contrasto alle mafie, ne ha fatto una ragione di lavoro e di vita. Tanto da dover vivere oggi sotto scorta, a causa delle sue denunce e in seguito alle concrete minacce di morte. E nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, è lo stesso Cavalli a scrivere sul proprio profilo Facebook: «A proposito, tanto per sorridere insieme: il mio compenso per la serata al Teatro Biondo di Palermo è stato 0. Zero». Se questo Stato non è in grado di garantire tutela ad ogni suo singolo cittadino (figliol prodigo o meno che sia), che almeno ci sia il rispetto per chi promuove, davanti a una Corte o ad una platea poco importa, la lotta alle mafie. Diversamente, c’è di fondo qualcosa che non va e che dovrebbe preoccuparci: un pregiudizio dell’antimafia nell’antimafia. È vero che ultimamente la lotta alla criminalità organizzata è diventata per molti un business. Troppi libri e film, per non parlare dei convegni che da Nord a Sud si organizzano attorno al tema, durante i quali si fanno i soliti discorsi, ma di azioni concrete nemmeno l’ombra. E non possono che tornare di nuovo alla mente le parole del procuratore Gratteri: «La vera antimafia si fa senza sovvenzioni pubbliche». Finanziamenti di cui invece Libera beneficia largamente, così come di un saldo legame con un ben determinato gruppo politico. Tutto lecito, per carità. Però, forse dalla Chiesa, presidente onorario dell’associazione, dovrebbe pensare anche a questo, prima di lanciare anatemi e procedere a condanne aprioristiche.

Solita sinistra a senso unico...La denuncia di Rosy Bindi: "C'è una mafia che usa l'antimafia". Il j'accuse della presidente della Commissione d’inchiesta nell'intervista esclusiva rilasciata a l'Espresso. Troppi interessi sfruttano la lotta ai clan. Che spesso diventa una facciata per la conquista di potere, scrive Marco Damilano il 28 gennaio 2016 su "L'Espresso". Inchieste, scandali, scontri intestini. Magistrati che accusano le icone antimafia di «monopolio» dei beni confiscati. Il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, garante della legalità dell’associazione degli imprenditori a livello nazionale, indagato e perquisito e il presidente del Senato Piero Grasso che parla di «antimafia infangata». È la stagione del malcontento per il movimento anti-mafia, a trent’anni esatti dall’apertura del primo maxi processo a Palermo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con il sospetto che siano gli stessi campioni dell’anti-mafia a infangare se stessi. A Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare che indaga sui legami tra la criminalità e la politica, la presidente Rosy Bindi non è sorpresa, come spiega a Marco Damilano nell'intervista sull'Espresso in edicola da venerdì 29 gennaio 2016. «Quando un anno fa annunciai a Caltanissetta che avremmo avviato un’inchiesta ci furono molte ironie (l’antimafia che indaga sull’antimafia!) da parte di quei commentatori interessati semplicemente a indebolire il movimento. E invece il nostro obiettivo è riaffermare il valore dell’impegno di associazioni, cittadini, istituzioni e imprenditori che per venti anni ha dato un contributo fondamentale alla lotta contro la criminalità mafiosa. C’è chi vuole delegittimare queste presenze preziose. I soliti negazionisti e chi non ammette che la forza della mafia continua a essere fuori dalla mafia. Nel silenzio, nelle complicità, nelle sue relazioni sociali. Vogliamo rilegittimare l’antimafia. Ma possiamo farlo soltanto smascherando alcune ambiguità che obiettivamente esistono». Quali ambiguità? Fino a qualche mese fa si pensava all’antimafia come a un movimento monolitico. E incontaminato. «Ci muoviamo su più fronti. C’è una mafia che usa l’antimafia per prosperare, l’aspetto più grave e pericoloso. Una mafia, ad esempio, che utilizza la comunicazione per infangare chi lotta contro la mafia. Anche Roberto Saviano ne è stato vittima. C’è poi un’antimafia che dietro l’obiettivo manifesto di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. È quanto sembra emergere in Sicilia, un caso che va approfondito. Al di là dei risvolti penali, lì c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere. Cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione, di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è, infine, un’antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva dire Leonardo Sciascia».

C’è del marcio in antimafia. Ma sul “caso Libera” la Bindi fa la gnorri, scrive Francesca De Ambra venerdì 15 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. C’è del marcio in antimafia. Ma l’unica che riesce a non vederlo è proprio l’on. Rosy Bindi. Non che la presidente dell’omonima commissione manchi d’iniziativa, tutt’altro. Se lo ricorda bene Enzo De Luca che a 24 ore dal voto che lo avrebbe eletto governatore della Campania si ritrovò in una lista di “impresentabili” redatta in fretta e furia proprio dall’organismo da lei guidato. O il deputato forzista Carlo Sarro, invitato dalla Pasionaria a dimettersi dall’Antimafia dopo aver ricevuto una richiesta di arresti ai domiciliari poi demolita da un micidiale uno due Riesame-Cassazione. Dove invece la Bindi segna il passo è sulla sempre più inquietante vicenda della gestione dei beni sottratti alle mafie, deflagrata a fine estate con l’inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto. Prima della Procura nissena era stato però l’ex-direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, a denunciare, i presunti conflitti d’interesse dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario cui la Saguto aveva affidato la gestione di tutti i beni confiscati ricevendone – secondo la tesi dei pm – consulenze per il proprio marito. Nessuno, però, ringraziò Caruso. Neppure la Bindi, che anzi gli rinfacciò di aver innescato un «effetto delegitttimazione» attraverso «un’accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Quando scoppia la bomba dell’inchiesta di Caltanissetta, Caruso si toglie la soddisfazione dell’“avevo detto io” e intervistato da Liberoquotidiano.it rilascia una replica al curaro: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi…». Ogni riferimento, ancorché implicito, è puramente voluto. La lezione, tuttavia, non è servita. Tanto è vero che la Bindi rischia ora di ripetere lo stesso errore di superficialità commesso con Caruso. Solo che questa volta a dare l’allarme non è un prefetto ma Catello Maresca, il pm in forze alla Dda di Napoli che ha fatto arrestare boss del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine, cioè proprio uno di quei «magistrati che rischiano la vita». Intervistato da Panorama, Maresca ha contestato il sistema che regola la gestione dei beni sottratti ai boss esprimendo più di una riserva su Libera di don Luigi Ciotti. Che ha annunciato querele. E la Bindi? Prima ha rivendicato il progetto di riforma della normativa sulla gestione dei patrimoni mafiosi per poi defilarsi rispetto ai rilievi mossi dal pm: «Se Maresca – ha detto – continua a spiegare e magari si incontra con Libera si fa una cosa buona». Davvero? E la commissione Antimafia che ci sta a fare? Non ha forse il dovere di capire e approfondire? O dobbiamo forse pensare che le pesanti critiche mosse da Maresca a don Ciotti siano dovute a vecchie ruggini personale, pronte però a svanire davanti al buon vino che sempre riconcilia i veri amici? Non scherziamo: la faccenda è fin troppo seria per consentire alla presidente Bindi di voltarsi dall’altra parte.

Don Ciotti e Libera osannato da tutta l'Antimafia di Facciata.

Bindi: "Don Ciotti non resterà solo. Pieno sostegno dall'Antimafia", scrive il 31 Agosto 2014 "Live Sicilia". La solidarietà della presidente della commissione parlamentare Antimafia al sacerdote fondatore di Libera. D'Alia: "Minacce da non sottovalutare". Vendola: "Cosa nostra vada all'inferno". Grasso: "Tutti al fianco di don Ciotti". Gelmini: "Non sarà mai solo". "Don Ciotti non è solo e non resterà solo nella battaglia contro i poteri mafiosi". Lo dichiara il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi commentando le intercettazioni riportate dal quotidiano 'La Repubblica', in cui Totò Riina accosta la figura di don Luigi Ciotti a quella di don Puglisi e dice:" Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo". "E' malvagio e cattivo - aggiunge il padrino al boss Lorusso suo compagno di passeggiate nell'ora d'aria - ha fatto strada questo disgraziato". "A don Luigi la mia affettuosa vicinanza e il pieno sostegno della Commissione parlamentare Antimafia - dice Bindi - Le minacce di Riina intercettate nel carcere di Opera lo scorso anno vanno prese sul serio, soprattutto per l'inquietante accostamento al martirio di don Pino Puglisi". "A don Ciotti - aggiunge - va assicurata tutta la protezione e il sostegno necessari, molti mesi sono passati da quando i magistrati hanno esaminato le intercettazioni e si deve capire che tipo di messaggio vuole inviare il capo di Cosa Nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto sul fronte della lotta alla mafia". "So che le raccapriccianti parole di Riina - dice ancora Bindi - non faranno arretrare il suo appassionato servizio cristiano per la giustizia e la promozione della dignità umana e da oggi saremo al suo fianco con più determinazione". "L'impegno che insieme a tanti con Libera don Ciotti da anni profonde per promuovere la cultura della legalità, la memoria delle vittime innocenti e lo sviluppo solidale nelle terre confiscate alle mafie - prosegue - sono ormai punto di riferimento della coscienza civile del paese". Ed è proprio il lavoro di Libera che scatena l'odio di Riina, preoccupato per i tanti sequestri di beni alla mafia che poi vengono gestiti dalle cooperative di Libera. "La scomunica di Papa Francesco - aggiunge Rosy Bindi - ha tracciato una linea invalicabile tra la Chiesa e le mafie che dà a tutti, credenti e non credenti, più forza e coraggio nel combattere la cultura dell'omertà e della sopraffazione. Ma non possiamo abbassare la guardia, c'è una mafia silente che moltiplica affari e profitti e penetra in ogni settore della vita del paese approfittando della crisi economica. E c'è - conclude - una mafia violenta che continua a tenere sotto scacco con l'intimidazione e la paura buona parte del Mezzogiorno, dove pesano povertà e disoccupazione ma dove sono anche più vitali e preziose le esperienze di libertà e resistenza create da Libera per strappare il territorio al controllo della criminalità organizzata".

"Un abbraccio affettuoso e di vera solidarietà a Don Luigi Ciotti, ogni giorno in prima linea nella lotta alla mafia. Le minacce di Riina nei suoi confronti non possono essere in alcun modo sottovalutate. Il suo impegno quotidiano, non ultimo quello per i testimoni di giustizia che ho avuto modo di apprezzare da vicino nella mia attività di ministro, merita sostegno e protezione". Lo afferma il deputato e Presidente dell'Udc Gianpiero D'Alia.

"Un forte abbraccio don Luigi! All'inferno la mafia! L'impegno di Don Luigi ci dice che per la lotta alla mafia non servono proclami o moralismi. Bensì ogni giorno, con un umile coraggio, serve condurre la battaglia per affermare i diritti dei più deboli e affermare la legalità con fatti concreti, che anche la politica deve compiere". Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter esprime la propria solidarietà al fondatore di Libera coop dopo le minacce di Riina.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di solidarietà a don Luigi Ciotti in riferimento alle minacce di Riina emerse dagli organi di informazione. "Caro Luigi - si legge nel testo - sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l'ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi - conclude Grasso - saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero".

"Le minacce di Totò Riina all'amico Don Ciotti, preoccupano certo, ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Lo scrive sul suo profilo Fb Laura Boldrini, Presidente della Camera.

"Le parole di Riina sono inquietanti e ci dicono che non bisogna mai abbassare la guardia soprattutto nei confronti di chi si trova in prima linea nella lotta alle mafie, come il magistrato Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti ai quali esprimo il mio pieno sostegno". Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, commentando le intercettazioni delle conversazione in carcere tra il boss di Cosa nostra ed il boss pugliese Alberto Lorusso. "A Riina - aggiunge - lo Stato deve dare una risposta chiara e netta con l'approvazione in tempi rapidi di un pacchetto di norme che consentano alla lotta alle mafie di far fare un salto di qualità. Alcune di queste, ad esempio il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'autoriciclaggio ed il falso in bilancio, sono già contenute nella riforma della giustizia, ma ce ne sono tante altre da adottare. Ecco perchè - conclude Lumia - torno a chiedere una sessione dedicata in Parlamento".

"Don Ciotti non sarà mai solo: fra lui e Riina l'Italia civile ha scelto da che parte stare. Sempre contro la mafia!". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicecapogruppo vicario di Forza Italia alla Camera.

La capriola della Bindi su don Ciotti prova che Libera è anche una lobby, scrive Venerdì 15 Gennaio 2016 Giuseppe Sottile su Il Foglio. I beni dei mafiosi sono diventati un Tesoro Maledetto. E la bufera della polemica ha investito in pieno anche la creatura di don Ciotti. Ma la politica, prodiga di riverenza, ha preferito squadernare solidarietà incondizionata. Che cosa racconterà questo sanguigno prete torinese ai bambinetti di mezz’Italia che, sotto la sua ala benefica e protettiva, andranno a rendere omaggio anche quest’anno alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Con quali preghiere, o con quali giaculatorie, don Luigi Ciotti, uomo di fede e di misericordia, tenterà di allontanare i sospetti che ormai da qualche tempo scuotono e avviliscono il meraviglioso mondo di Libera, l’associazione che, come i bambini forse non sanno, è anche la più potente e denarosa lobby antimafia? E come potrà questo buon sacerdote spiegare, a tutti quei ragazzi, così innocenti e già così innamorati della legalità, che Libera dopo un inizio come sempre difficile è poi diventata troppo grande e si è trovata spesso a giocare col fuoco sugli stessi terreni, sugli stessi feudi, sugli stessi patrimoni sui quali per anni padrini e picciotti avevano sparso sangue e nefandezze? Parliamoci chiaro. Sull’impegno di don Ciotti contro ogni mafia e contro ogni boss nessuno potrà mai sollevare alcun dubbio: come Papa Francesco, il fondatore di Libera conosce la strada e i problemi degli umili; con il suo Gruppo Abele ha fatto il volontariato duro e sa come si aiuta un infelice nel disperato labirinto della droga. Sa anche come si combattono le violenze, come si contrasta una intimidazione, come si restituisce dignità civile a un giovane senza lavoro e tragicamente affascinato dalla vie traverse. Ed è per questo che, dopo le stragi degli anni Novanta, è nata Libera: per sollevare Palermo dallo scoramento, per ridare fiducia a una terra segnata dal martirio e dalle lacrime. Un progetto ambizioso. Che certamente trovava sostegno e conforto in un altro torinese: in quel Gian Carlo Caselli che, di fronte alle mattanze di Capaci e via D’Amelio, aveva chiesto con coraggio al Consiglio superiore della magistratura di trasferirsi nel capoluogo siciliano e di insediarsi come procuratore in un Palazzo di giustizia sventrato prima dalle faide tra gli uffici e poi dalle bombe di Totò Riina, detto ‘u Curtu. Sono stati certamente anni eroici e straordinari quelli di Palermo. E Libera, la cui missione principale (il core business, stavo per dire) è quella di creare cooperative di lavoro sui beni confiscati alla mafia, non ha mai incontrato ostacoli. Anzi: non c’è stata istituzione che non abbia preso a cuore la causa; non c’è stato potere che non abbia guardato con riverenza ai buoni propositi di don Ciotti e non c’è stato partito politico, soprattutto a sinistra, che non abbia mostrato orgoglio nell’accettare candidature ispirate direttamente dall’associazione. Troppa grazia, sant’Antonio, si sarebbe detto una volta. Ma la troppa grazia non sempre è foriera di prosperità. Spesso, troppo spesso, dietro un eccesso di grazia c’è anche un’abbondanza di grasso. E Libera davanti a quella montagna di soldi, oltre trenta miliardi di euro, sequestrati dallo stato alle mafie, non ha saputo atteggiarsi con il necessario distacco né con la necessaria misura: era una semplice associazione antimafia ed è diventata una holding; era fatta da poveri e ora presenta bilanci milionari; era animata da un gruppo di volontari e si ritrova governata da tanti manager e, purtroppo, anche con qualche spregiudicato affarista tra i piedi. Poteva mai succedere che a margine di tanta ricchezza, piovuta come manna dal cielo, non nascessero invidie e risentimenti, gelosie e prese di distanza, storture e due o tre storiacce poco chiare? Sarà doloroso ammetterlo ma i beni dei mafiosi, sia quelli sequestrati in via provvisoria sia quelli confiscati dopo una sentenza definitiva, sono diventati una sorta di Tesoro Maledetto. Una tomba faraonica dentro la quale viene ogni giorno seppellita – cinicamente, inesorabilmente – la credibilità dell’antimafia: non solo di quella che avrebbe dovuto riaccendere una speranza politica ed è finita invece in una insopportabile impostura; ma soprattutto di quella che, dall’interno dei tribunali, avrebbe dovuto garantire rigore e legalità e ha consentito invece a un gruppo di magistrati infedeli di intramare i beni sequestrati con i propri interessi privati: certo l’inchiesta aperta questa estate dalla procura di Caltanissetta è in pieno svolgimento e le responsabilità personali sono ancora tutte da definire, ma le intercettazioni, come sempre ottime e abbondanti, ci dicono con desolante chiarezza come si amministravano fino all’altro ieri le misure di prevenzione a Palermo; con quali disinvolture e con quali coperture i figli e i fraternissimi amici dei più alti papaveri del Palazzo di giustizia affondavano le mani nei patrimoni, ricchi e scellerati, che la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva strappato, con mano decisa e irrefrenabile, alla potestà di Cosa Nostra. La maledizione, e non poteva essere diversamente, ha finito per colpire anche Libera, cioè la macchina più grande ed efficiente aggrappata alla grande mammella dei beni confiscati: 1.500 tra associazioni e gruppi collegati, 1.400 ettari di terreno sui quali coltivare ogni ben di dio, 126 dipendenti e un fatturato che supera i sei milioni. Con una aggravante: che le accuse, chiamiamole così, non vengono tanto, come sarebbe persino scontato, dal maleodorante universo mafioso; arrivano piuttosto dai compagni di strada, da personaggi che rivendicano, al pari di don Ciotti, il diritto di parlare a nome dell’antimafia: come Franco La Torre, figlio del segretario del Pci ucciso a Palermo nel 1982, che non ha sopportato il silenzio di Libera sullo scandalo della Saguto e delle altre cricche nascoste dentro le misure di prevenzione; o come Catello Maresca, pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli e nemico numero uno del clan dei casalesi, il quale, intervistato dal settimanale Panorama, ha lanciato parole roventi: ha detto che “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili” e ha aggiunto, senza indulgenze di casta, che forse è venuta l’ora di smascherare “gli estremisti dell’antimafia”, cioè quegli strani personaggi accucciati nelle associazioni nate per combattere la mafia ma che “hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione e tendono a farsi mafiose esse stesse”. Queste associazioni, spiega Maresca, “sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”; e Libera, in particolare, gestisce i patrimoni “in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale”. Inevitabile e inevitata, ovviamente, la risposta di don Ciotti: “Menzogne: Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità”. Più sorprendente, se non addirittura imbarazzante invece l’atteggiamento con cui la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, si è posta di fronte alla polemica aperta da Maresca, un magistrato antimafia unanimemente apprezzato sia per il suo equilibrio che per il suo coraggio. Il pm napoletano, nel suo lungo colloquio con Panorama, ha sollevato questioni non secondarie: a suo avviso Libera, dopo avere scalato i vertici della montagna incantata, non ha lasciato e non lascia spazio a nessun altro; e se c’è un concorrente da stroncare lo fa senza problemi: tanto, lavorando su un bene non suo, non ha gli stessi costi del rivale. Non solo: è mai possibile che questo immenso patrimonio, continuiamo a parlare di oltre trenta miliardi di euro, non possa essere sfruttato in termini strettamente imprenditoriali per dare la possibilità allo Stato di sviluppare le aziende e ricavarci pure un ulteriore valore aggiunto? Di fronte a interrogativi così pesanti, ma anche così pertinenti, la commissione parlamentare avrebbe dovuto a dir poco avviare un dibattito, magari ascoltando oltre a don Ciotti, sentito a lungo mercoledì proprio mentre le agenzie di stampa diffondevano l’anteprima di Panorama, pure il magistrato napoletano. Quantomeno per verificare l’eventuale necessità di una modifica alle intricatissime leggi che regolano la materia. Invece no: Rosy Bindi ha preferito definire “offensive” le affermazioni di Maresca e l’ha chiusa lì. Don Ciotti certamente non avrà tutte le colpe che Maresca, più o meno volontariamente gli attribuisce. Ma la solidarietà assoluta e incondizionata squadernata l’altro ieri a San Macuto dalla presidente Bindi, e dai parlamentari che man mano si sono a lei accodati, è la prova provata che Libera è anche e soprattutto una lobby.

Beni confiscati, associazioni, coop. Libera, impero che muove 6 milioni, scrive Lunedì 16 Marzo 2015 Claudio Reale su "Live Sicilia". L'associazione raduna 1.500 sigle, ma il suo cuore economico è "Libera Terra", che fattura 5,8 milioni con i prodotti dei terreni sottratti ai boss e li reinveste per promuovere la legalità e assumere lavoratori svantaggiati. E mentre si prepara il ventesimo compleanno, don Ciotti apre alla collaborazione con il movimento di Maurizio Landini. Vent'anni da compiere fra pochi giorni. E circa 1.500 sigle radunate sotto il cartello dell'“associazione delle associazioni”, con un modello che in fondo richiama la tradizione storica dell'Arci. “Libera” è formalmente un'organizzazione non governativa che si occupa di lotta alle mafie, di promozione della legalità e di uso sociale dei beni confiscati alle mafie: sotto la sua bandiera, però, si muovono attività diversificate nello scopo e nello spazio, coprendo quasi per intero il Paese e con ramificazioni internazionali. Un mondo il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. Un impero sotto il segno della legalità. Che fa la parte del leone nell'assegnazione per utilità sociale dei beni confiscati e che non si sottrae allo scontro fra antimafie, in qualche caso – come ha fatto all'inizio del mese don Luigi Ciotti – facendo aleggiare l'imminenza di inchieste: "Mi pare di cogliere – ha detto il 6 marzo il presidente dell'associazione – che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di antimafia”. Uno scontro fra paladini della legalità, in quel campo minato e denso d'insidie popolato dalle sigle che concorrono all'assegnazione dei terreni sottratti ai boss.

Un mondo che, nel tempo, ha visto in diverse occasioni l'antimafia farsi politica. E se Libera non è stata esente da questo fenomeno - Rita Borsellino, fino alla candidatura alla guida della Regione e poi all'Europarlamento, dell'associazione è stata ispiratrice, fondatrice e vicepresidente – a tenere la barra dritta lontano dalle identificazioni con i partiti ci ha sempre pensato don Ciotti. Almeno fino a qualche giorno fa: sabato, infatti, sulle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, il carismatico sacerdote veneto ha aperto a una collaborazione con il nascente movimento di Maurizio Landini. Certo, don Ciotti assicura nella stessa intervista disponibilità al dialogo con tutto l'arco costituzionale ed esclude un coinvolgimento diretto di Libera. Ma le parole di “stima e amicizia” espresse a favore del leader Fiom, osserva chi sa cogliere le sfumature degli interventi del sacerdote antimafia, sono un assoluto inedito nei vent'anni di storia dell'associazione. Ne è passato di tempo, da quel 25 marzo 1995. A fondare il primo nucleo di Libera furono appunto don Ciotti, allora “solo” numero uno del Gruppo Abele, e Rita Borsellino. Da allora l'associazione si è notevolmente diversificata: al filone principale, riconosciuto dal ministero del Welfare come associazione di promozione sociale, si sono via via aggiunti “Libera Formazione”, che raduna le scuole e ne coordina quasi cinquemila, “Libera Internazionale”, che si occupa di contrasto al narcotraffico, “Libera informazione”, che si concentra sulla comunicazione, “Libera Sport”, che organizza iniziative dilettantistiche, “Libera ufficio legale”, che assiste le vittime di mafia, e appunto “Libera Terra”, che raduna le cooperative impegnate sui campi confiscati ed è l'unico troncone a commercializzare prodotti. In Sicilia le cooperative sono sei. Dell'elenco fanno parte la “Placido Rizzotto” e la “Pio La Torre” di San Giuseppe Jato, la “Lavoro e non solo” di Corleone, la “Rosario Livatino” di Naro, la castelvetranese “Rita Atria” e la “Beppe Montana” di Lentini, alle quali si aggiungono le calabresi “Terre Joniche” e “Valle del Marro”, la brindisina “Terre di Puglia” e la campana “Le terre di don Peppe Diana”: ciascuna è destinataria di almeno un bene sottratto alla mafia e produce su quei terreni vino, pasta e altri generi alimentari commercializzati appunto sotto il marchio unico “Libera Terra”. Fuori dal mondo agroalimentare, poi, c'è la new-entry “Calcestruzzi Ericina”, confiscata a Vincenzo Virga e attiva però – col nuovo nome “Calcestruzzi Ericina Libera” – nella produzione di materiali da costruzione. A questa rete di cooperative si aggiunge la distribuzione diretta. Un network fatto di quindici punti vendita, anch'essi ospitati per lo più in immobili confiscati a Cosa nostra, sparpagliati in tutta Italia: a Bolzano, Castelfranco Veneto, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Castel Volturno, Napoli, Mesagne, Reggio Calabria e nel cuore di Palermo, nella centralissima piazza Politeama, dove la bottega ha sede in un negozio confiscato a Gianni Ienna. Non solo: nel pianeta “Libera Terra” trovano posto anche una cantina (la “Centopassi”), due agriturismi (“Portella della Ginestra” e “Terre di Corleone”), un caseificio (“Le Terre” di Castel Volturno), un consorzio di cooperative (“Libera Terra Mediterraneo”, che dà lavoro a nove dipendenti e cinque collaboratori) e un'associazione di supporto (“Cooperare con Libera Terra”, onlus con 74 cooperative socie). Ne viene fuori un universo che nel 2013 ha dato uno stipendio a 126 lavoratori, 38 dei quali svantaggiati, ai quali si sono aggiunti 1.214 volontari. Tutto per produrre circa 70 prodotti – venduti nelle botteghe Libera Terra, ma anche nei punti vendita Coop, Conad e Auchan – che spaziano dalla pasta all'olio, dal vino alla zuppa di ceci in busta: ne è venuto fuori, nel 2013, un fatturato di 5.832.297 euro, proveniente per più di un quinto dalla commercializzazione all'estero. Numeri che fanno delle cooperative il cuore pulsante dell'economia targata Libera: basti pensare che l'intero bilancio dell'associazione-madre muove 2,4 milioni di euro, meno della metà del flusso di denaro che passa dai campi confiscati. Denaro che però non finisce nelle tasche dei 94 soci: se una royalty – nel 2013 di 157 mila euro – viene girata a “Libera”, il resto viene utilizzato per attività sociali come la promozione della legalità, il recupero di beni sottratti ai boss e i campi estivi. Già, perché nei terreni confiscati il clou si raggiunge d'estate. Nei mesi caldi, infatti, le cooperative siciliane (ma anche quelle pugliesi) accolgono giovani da tutta Italia per attività di volontariato sui beni sottratti ai capimafia. Il momento centrale della vita dell'associazione, però, si raggiungerà fra pochi giorni: il 21 marzo, infatti, “Libera” organizza dal 1996 una “Giornata della memoria e dell'impegno” durante la quale vengono ricordate le vittime di mafia. Quest'anno l'appuntamento è a Bologna, con una kermesse iniziata venerdì e destinata a concludersi il 22. A ridosso dei vent'anni dell'associazione. E in un momento di grandi conflitti per le antimafie.

"Fatti di inaudita gravità". Beni confiscati, una ferita aperta, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Anno giudiziario. Nel giorno in cui i magistrati presentano i risultati di un anno di lavoro, a Palermo e Caltanissetta tiene banco l'inchiesta sulle Misure di prevenzione. Nel capoluogo siciliano il ministro Andrea Orlando dice: "La mafia non è vinta". È il caso Saguto a tenere banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudizio a Palermo e Caltanissetta. Palermo è la città dove lavorava l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale finita sotto inchiesta. A Caltanissetta, invece, lavorano i pubblici ministeri che con la loro indagine hanno fatto esplodere la bomba giudiziaria della gestione dei beni sequestrati alla mafia. A Palermo, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ha fatto al sua relazione il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli. "Se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione dovessero essere confermate - ha detto Natoli - occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Il magistrato ha recitato il mea culpa a nome dell'intera categoria, spiegando che "la prevenzione di certi episodi parte dai controlli a cominciare dalla valutazione della professionalità" e ammettendo che nella gestione della sezione c'erano "criticità e inefficienze nella durata dei procedimenti, nell'organizzazione e nella distribuzione degli incarichi". E il ministro è stato altrettanto duro: "E' necessario perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati. Quello dell'aggressione ai beni mafiosi è uno dei terreni che ha dato maggiori risultati nel contrasto a Cosa Nostra". Il ministro, anche richiamando la recente normativa sui tetti ai compensi degli amministratori giudiziari, ha auspicato "una riduzione dei margini di discrezionalità in cui si sono sviluppati fenomeni allarmanti".  Poi, un passaggio dedicato alla lotta a Cosa nostra: "La mafia è stata colpita, ma non è battuta, né si tratta di un'emergenza superata anche se altre se ne profilano all'orizzonte". Nel frattempo, a Caltanissetta, interveniva il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "I magistrati della Procura di Caltanissetta, con un'indagine coraggiosa e difficile che è tuttora in corso, hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che la prima Commissione e la sezione disciplinare del Csm potessero sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ecco perché Legnini ha detto di avere “scelto di essere presente a Caltanissetta, per testimoniare la mia gratitudine è quella di tutto il Csm verso i magistrati che prestano servizio in questo distretto”. Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari: "Gli scandali che hanno visto coinvolti i magistrati, pur trattandosi di episodi isolati, non possono essere sottovalutati e dimostrano come la massima attenzione debba essere posta alla deontologia ed alla questione morale nella magistratura, essendo inammissibili, soprattutto in un'epoca così degradata in altri ambiti istituzionali, cadute etiche da parte di chi deve svolgere l'alto compito del controllo di legalità".

L’antimafia di facciata ai pm non piace più. Apertura dell'anno giudiziario a Palermo. Il procuratore Lo Voi: persegue affari e carriera, scrive Luca Rocca il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Che un giorno anche la procura di Palermo potesse destarsi e puntare il dito contro l’«antimafia di facciata», accusata di perseguire solo «affari e carriera», ci credevano in pochi. Forse nessuno. E invece è accaduto ieri in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore capo Francesco Lo Voi si è scagliato proprio contro chi, nascondendosi dietro l’intoccabilità di chi quella categoria l’ha usata come una corazza, ha pensato di poter coltivare i propri interessi con la certezza di non essere sfiorato nemmeno dal sospetto. D’altronde, dopo i casi di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo per la gestione dei beni confiscati indagata per corruzione, abuso d'ufficio e riciclaggio; quello di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo arrestato per estorsione dopo anni di proclami contro il pizzo; o ancora di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; oppure Rosy Canale, condannata a quattro anni di carcere per truffa e malversazione dopo aver vestito i panni della paladina anti ’ndrangheta col «Movimento donne di San Luca»; dopo questi «colpi al cuore» al professionismo dell’antimafia, dicevamo, dalla procura che più di ogni altra ha incarnato la lotta alla mafia, «slittando», da un certo momento in poi, verso mete fantasiose e poco concrete, una parola di condanna non poteva più mancare. E così ieri Lo Voi (la cui nomina a capo della procura palermitana è stata resa definitiva, pochi giorni fa, dal Consiglio di Stato, che si è espresso sui ricorsi di Guido Lo Forte e Sergio Lari, procuratori rispettivamente a Messina e Caltanissetta) non ha taciuto, non ha voluto tacere: «Forse c'è stata – ha affermato il procuratore capo di Palermo - una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità, a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Lo Voi non ci ha girato intorno, e pur senza citare, ovviamente, casi specifici, ha preso di petto la deriva di quell’antimafia che, dopo la sconfitta della mafia stragista, come sostiene da tempo lo storico Salvatore Lupo, ha perso la sua ragione d’essere: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità – ha scandito il procuratore -, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi e opinioni diverse». Parole inequivocabili. Proprio come quelle pronunciate subito dopo e che chiamano in causa le stesse toghe: «E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato». Dato a Cesare quel che è di Cesare, il procuratore capo non poteva, infine, non concedere qualche distinguo: «Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere. Gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso».

Lo Voi e l'antimafia di facciata: "È servita per affari e carriere", scrive Sabato 30 Gennaio 2016 "Live Sicilia". Intervento del procuratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo: "A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale". Poi, una frecciata agli imprenditori che "pretendono" la restituzione dei beni che sono stati sequestrati per mafia. (Nella foto il procuratore Francesco Lo Voi". "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. L'antimafia di facciata, che serve a scalare posizioni sociali e fare carriera, finisce "sotto attacco" del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nel corso dell'inaugurazione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ed ancora: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Eppure, secondo Lo Voi, basterebbe poco: "Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente". Poi ha lanciato un monito: "Da un lato dobbiamo essere estremamente vigili, tutti, per evitare che vi siano non soltanto infiltrazioni e sostenendo e supportando coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare. Dall'altro lato, dobbiamo evitare il danno peggiore, che è quello della generalizzazione. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso". "Mettere nel nulla i risultati ottenuti sarebbe assurdo. Pretendere, solo per fare un esempio, la restituzione dei beni sequestrati o confiscati ai mafiosi, addirittura costituendo associazioni ad hoc sarebbe ancora più assurdo", ha concluso riferendosi all'associazione costituita dopo il caso Saguto da imprenditori indiziati di contiguità mafiose ai quali erano stati sequestrati i patrimoni. 

Mea culpa di politica e magistratura, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 di Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". La gestione dei beni confiscati alla mafia tiene banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. A Palermo come a Caltanissetta autorevoli voci confermano che lo scandalo andava e poteva essere evitato, ma sono mancati i controlli. Dell'antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c'è solo retorica nei discorsi dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini. Sarà l'inchiesta e l'eventuale processo a stabilire se l'ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l'imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l'organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”. La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d'appello Gioacchino Natoli ha spiegato “che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto. A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con "i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine "coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse. E la politica? Anch'essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d'ombra. La stagione nuova che si è aperta - conclude il ministro - ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione". E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L'intervento più duro della giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell'antimafia: "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. Spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". 

L’Antimafia? Una, nessuna, centomila, scrive Salvo itale il 24 gennaio 2016 su Telejato. C’È QUALCOSA CHE NON FUNZIONA NEL MONDO DELL’ANTIMAFIA, DI SICURO NON FUNZIONA IL FATTO CHE CI SIA IN MEZZO IL DENARO. La vera antimafia, come sosteniamo da anni, tirandoci addosso le ire di tutte le associazioni antimafia, dovrebbe essere gratuita, in nome degli alti ideali cui fa riferimento e in nome di tutti coloro che sono morti per mano della mafia senza avere lucrato una sola lira. Recentemente lo stesso concetto è stato “scoperto” e ripetuto dal garante anticorruzione Raffaele Cantone e da un altro magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri. Un altro magistrato napoletano, Maresca, ha scatenato le ire di tutta la commissione Antimafia, a partire dalla sua presidente Rosy Bindi, e naturalmente anche di Don Ciotti, per aver affermato che anche in Libera “C’è del marcio”, ovvero che la più prestigiosa associazione antimafia dovrebbe stare un po’ più attenta nella scelta di coloro cui viene affidata la gestione di alcuni affari e di alcuni terreni confiscati alla mafia. La notizia di oggi è che il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, bandiera dell’antiracket e strenuo sostenitore del fatto che bisogna denunciare gli estortori, è stato sottoposto a perquisizioni domiciliari disposte dalla procura di Caltanissetta ed è sotto inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’indagine era partita da un articolo di Riccardo Orioles, scritto qualche anno fa, su “I Siciliani giovani” nel quale si denunciava che Montante era stato testimone di nozze del boss di Serradifalco. Montante, difeso a spada tratta dalla Procura Nazionale Antimafia e da tutti i suoi colleghi industriali, cammina sotto scorta, essendo ritenuto un soggetto esposto a ritorsioni mafiose per la sua costante attività in favore della legalità. Per anni è stato l’anello di collegamento con prefetti, questori, esponenti del governo, magistrati, industriali, tutti d’accordo ad esaltare le sue scelte antimafia e il suo coraggio. Addirittura era stato scelto da Alfano come componente dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati e quindi avrebbe potuto facilmente disporne l’assegnazione agli industriali suoi amici: per fortuna, dopo le polemiche sorte, non ha accettato. Ma Montante ha una serie di precedenti che dimostrano il fallimento dell’Antimafia di facciata, spesso scelta per non avere grane, per non essere sottoposto a indagini o, qualche volta, per coprire certi affari poco puliti. Il caso Helg, anche lui bandiera dell’antimafia, colto con le mani nel sacco, non è diverso da tutta una serie di altri casi che puntano alla spartizione di fondi governativi o europei al mondo delle associazioni antimafia, privilegiando quelle più vicine politicamente a certi uomini di potere. Nell’albo prefettizio, sono iscritte, solo per l’Italia meridionale oltre cento associazioni antiracket. Ma già nel marzo del 2012 le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva, mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. Allora i fondi del Pon erano stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ottenne finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro erano finiti a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta, quella di Montante. Allora si trattava di 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che facevano parte del Pon-Sicurezza, al fine di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Quei soldi furono distribuiti, con la benedizione dell’allora ministro Cancellieri e dall’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, del commissario antiracket Giosuè Marino, poi assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia e del presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto dallo scandalo sugli appalti pilotati dal Viminale. È cambiato qualcosa in questi anni? Niente: un mare di denaro pubblico finisce per finanziare progetti di “educazione alla legalità” preparati dalle associazioni antimafia e antiracket che vanno per la maggiore, ma i risultati sono pochi, contraddittori e senza risvolti. Per non parlare dell’antimafia da tribunale, della quale abbiamo detto tante cose, quelle legate alla gestione di Silvana Saguto e dei suoi collaboratori, con una caterva di persone che hanno succhiato a questa mammella senza ritegno, cioè magistrati, amministratori giudiziari curatori fallimentari, avvocati, affaristi, cancellieri, collaboratori a vario titolo, consulenti ecc. Per tornare alla Confindustria, dalle varie situazioni giudiziarie è uscito indenne Catanzaro, altro antimafioso che gestisce la discarica di Siculiana, scippata al comune, assieme al fratello, vicepresidente, sempre di Confindustria Sicilia. Si potrebbe dire ancora tanto, ma facciamo solo un cenno ai politici che dell’antimafia hanno fatto una loro bandiera, che sono presenti a tutte le manifestazioni e agli anniversari, che hanno costruito le loro fortune grazie a questa bandiera, ammainata quasi sempre, ma pronta a sventolare nelle grandi occasioni. Qualcuno direbbe che siamo nella terra di Sciascia, quella dei professionisti dell’antimafia, qualche altro direbbe che siamo in quella del Gattopardo, in cui si fa vedere l’illusione del cambiamento per non cambiare, o nella terra di Pirandello, dove il caciocavallo ha quattro facce, o meglio ne ha una, nessuna, centomila.

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive il 25 gennaio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

«Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati».

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

«Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante».

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

«Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano».

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

«Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico».

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

«Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose».

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

«Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!»

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

«Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi.»

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

«Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione».

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

«L’affermazione di Caruso ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale».

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

«Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!»

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

«Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli».

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

«Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili.

Per esempio?

«Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica».

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

«La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati».

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

«Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!»

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

«È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole».

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

«Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan».

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari».

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

«Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito».

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quando si è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

«No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca».

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

«Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”.»

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

«Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato».

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

«Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!»

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

«Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente».

I guai dei paladini antimafia. Rosy Canale condannata a quattro anni. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio..., scrive L.R. il 23 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari regolarono i conti in Germania con uno scontro a fuoco che provocò sei morti, fondò, nel piccolo centro aspromontano scenario della faida, il «Movimento donne di San Luca». Un barlume di luce, in apparenza, una speranza, ci si illudeva, che si chiude, tristemente, con la condanna a 4 anni per truffa e malversazione, a fronte dei 7 chiesti dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Francesco Tedesco. Dunque, per il Tribunale di Locri che l’ha processata, Rosy Canale, per anni considerata un’icona della lotta alle cosche, ha davvero utilizzato finanziamenti pubblici destinati all’attività del «suo» Movimento per scopi personali. La storia, che getta altre ombre sul mondo dell’antimafia di professione, scosso negli ultimi mesi da micidiali colpi d’immagine, inizia il 12 dicembre del 2013, giorno in cui la Dda reggina, coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho, fa scattare le manette ai polsi di alcuni ex amministratori comunali, imprenditori e boss. La donna simbolo dell’antimafia, alla quale non viene contestata l’aggravante mafiosa, finisce ai domiciliari. L’inchiesta, non a caso denominata «Inganno», appare subito solida. Alla Canale i magistrati contestano di aver utilizzato 160mila euro per comprare vestiti delle più note marche e una minicar alla figlia, arredamento per la casa e oggetti di lusso. Quando il Tribunale del Riesame revoca l’arresto, la Canale va in tv a parlare di «grande montatura». La sentenza di ieri toglie, per ora, ogni dubbio. Eppure lei, la donna simbolo di San Luca, nei panni della paladina antimafia ci si era calata alla perfezione: vergando libri per raccontare la sua ribellione alla ’ndrangheta, ricevendo il premio «Paolo Borsellino» (poi ritirato). Persino il Los Angeles Times dedicò un reportage alle donne di San Luca. La pessima figura dell’«antimafia di professione», stavolta, ha varcato pure i confini nazionali.

Rosy Canale, 4 anni per truffa alla paladina della lotta alla ’Ndrangheta. La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei», scrive Carlo Macrì il 22 gennaio 2016. Era considerata un'icona dell'Antimafia Rosy Canale, l'imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l'obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca». È proprio attraverso questo movimento che la Canale, 42 anni, riuscì a ritagliarsi un ruolo nell'Antimafia, «parlando» alle donne del centro preaspromontano all'indomani della strage di Duisburg (sei morti) dell'agosto 2007. La procura distrettuale di Reggio Calabria l'aveva arrestata a dicembre del 2013 con l'accusa di truffa aggravata e peculato per distrazione. La donna, infatti si era impossessata dei fondi pubblici comunitari e italiani erogati per finanziare la sua fondazione antimafia. Centosessanta mila euro che anziché foraggiare il laboratorio dei saponi artigianali a San Luca, sarebbero finiti nelle tasche dell'imprenditrice che li avrebbe utilizzati per l'acquisto di abiti firmati e un'auto per la figlia, vestiti per il padre e beni di lusso. E quando la madre ha cercato di fermarla - come hanno ascoltato le microspie dei carabinieri - Rosy replicava: «Me ne fotto, non sono soldi miei». Un passato da imprenditrice alle spalle, attività abbandonata dopo aver subito la violenza delle cosche reggine e un futuro da attrice. La sua storia, infatti, è diventata Malaluna, un'opera teatrale con la regia di Guglielmo Ferro e le musiche di Franco Battiato. Nel 2013, proprio per il suo impegno antimafia, aveva ricevuto il premio Borsellino. Quel giorno disse: «Vorrei che Papa Francesco venisse fra gli ultimi e i dimenticati di San Luca». Quando Rosy Canale arrivò a San Luca era una sconosciuta.  Ascoltando in chiesa il perdono di Teresa Strangio che nella strage di Duisburg perse il figlio e il fratello, l'imprenditrice capì che le donne di San Luca alla fine erano propense a rinnegare ogni violenza e a ripartire. La Prefettura le affidò un bene confiscato alla famiglia Pelle per dare inizio alle sue attività culturali. Ricami, cucina tipica, ogni donna a San Luca sembrava muoversi verso una nuova vita.  Tutto svanì. Perchè con «Inganno» l'operazione dei carabinieri che aprì le porte del carcere alla Canale, sfumarono le idee e la rinascita di un popolo per far posto all'arricchimento di una donna considerata sino a quel momento una paladina dell'Antimafia.

Condannata a 4 anni Rosy Canale, fondatrice di "Donne di San Luca". L'ormai ex simbolo dell'antimafia calabrese riconosciuta colpevole di aver utilizzato a scopi privati gran parte dei fondi pubblici destinati al suo movimento, scrive Alessia Candito il 22 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Rosy Canale Era divenuta un nome e un volto noto dell'antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca, ma con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un'automobile. Per questo motivo, i giudici del Tribunale di Locri hanno condannato a quattro anni di carcere l'ormai ex stellina dell'antimafia Rosy Canale, smascherata dall'inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha svelato come la donna tenesse per sé gran parte dei fondi destinati al "Movimento delle donne di San Luca". Ex titolare di una discoteca, dopo anni trascorsi tra gli Stati Uniti e Roma Rosy Canale torna in Calabria all'indomani della strage di Duisburg, l'uccisione di sei persone vicine al clan Pelle-Vottari di San Luca, che nel 2007 svela alla Germania il volto della violenza mafiosa. Anche in Italia, l'episodio impone la 'ndrangheta al centro dell'attenzione nazionale. E Canale fiuta il business. Accreditandosi come imprenditrice "con la schiena dritta", vittima di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna si precipita a San Luca dove fonda un movimento che - almeno ufficialmente - avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla 'ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini. Grazie a una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate - scrivono i magistrati - "con l'unico scopo di cavalcare l'allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali", Canale si accredita in fretta. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore" le inviano finanziamenti per centinaia di migliaia di euro. Al centro di San Luca, ottiene anche un immobile confiscato che sarebbe dovuto diventare una ludoteca per le sue "donne di San Luca", ma dopo l'inaugurazione non entrerà mai in funzione. Canale sforna un libro, gira l'Italia con il suo spettacolo teatrale e spende senza freni. A chi, come la madre, le raccomanda prudenza e moderazione - raccontano le intercettazioni - la donna risponde, arrogante: "Me ne fotto". Ma forse, alla luce della sentenza delle Tribunale di Locri, avrebbe fatto meglio a dare ascolto a quei consigli.

La verità di Rosy Canale: "Non ho preso soldi, ma ora sono una persona finita, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 23 giugno 2014. "Io sono una persona finita perché è stata intaccata la mia credibilità a 360 gradi su quello che io, Dottore, ho lavorato per anni ed ho creduto con tutta me stessa". E, ancora: "Ho una sola amarezza, che ho stimato tante – col cuore, persone che lavorano qua dentro e persona che lavorano qua dentro si sono permessi di dire delle cose che non erano vere, non avevano prove documentali screditandomi a livello nazionale e internazionale". Due interrogatori. Uno al cospetto del Gip Domenico Santoro, l'altro, alcuni mesi dopo, davanti al pm Francesco Tedesco. Interrogatori lunghi e intensi che non hanno permesso, tuttavia, a Rosy Canale, ex eroina antimafia e promotrice del Movimento Donne di San Luca, di evitare l'udienza preliminare davanti al Gup Davide Lauro nell'ambito dell'indagine "Inganno" che, oltre a svelare le ingerenze delle cosche nella vita pubblica del borgo aspromontano della Locride, coinvolgerà anche la stessa Canale che, a detta della Procura, avrebbe utilizzato una parte dei finanziamenti concessi da varie Istituzioni al Movimento per proprie spese personali. A Rosy Canale, gli inquirenti arriveranno grazie ai numerosi contatti che la donna avrà con gli amministratori locali di San Luca, fino al momento dello scioglimento del Comune. Il Movimento "Donne di San Luca" otterrà - per la propria attività di sostegno alle donne vittime della 'ndrangheta – anche un bene confiscato: un immobile sottratto alla potente cosca Pelle "Gambazza" di San Luca, destinato a ludoteca, inaugurata nel 2009, ma mai entrata in funzione. Rosy Canale avrebbe ricevuto finanziamenti da un arco vastissimo di Istituzioni. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore". E il lungo interrogatorio dal Gip Domenico Santoro, nei giorni successivi all'ordinanza cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della donna si sofferma sui vari finanziamenti ricevuti. A cominciare da quello del Consiglio Regionale, in quel periodo presieduto da Giuseppe Bova:

GIUDICE -. Mi dica di come nasce il finanziamento di 5.000 euro da parte della Presidenza del Consiglio Regionale.

INDAGATA CANALE -. Con una telefonata, Dottore, perché era periodo pre-elettorale e c'era gente che regalava soldi, se gliela devo proprio dire tutta in maniera sfacciata.

GIUDICE -. Ma con chi l'ha fatta questa telefonata?

INDAGATA CANALE -. Con Strangio, il segretario di...

GIUDICE -. Con l'Avvocato Giuseppe Strangio.

INDAGATA CANALE -. Esatto.

E però ci sono anche i soldi ricevuti dal Ministero della Gioventù, in quel periodo retto da Giorgia Meloni, "Giorgietta", come la chiama Rosy Canale in alcune intercettazioni. Un finanziamento che sarebbe nato da una telefonata del Capo Dipartimento del Ministero della Gioventù, Andrea Fantoma, interessato, a detta della Canale, alle attività delle Donne di San Luca:

INDAGATA CANALE -. E tra l'altro il Dottore Fantoma mi disse, proprio per chiarezza, che qualunque cosa succedeva e avevo bisogno di qualunque riferimento, l'uomo sul territorio che li rappresentava era Franco... aiutatemi... Franco... il Consigliere Regionale arrestato con l'accusa di avere collusioni...

GIUDICE -. Morelli?

INDAGATA CANALE -. Franco Morelli, esatto. Tra l'altro, Dottore, nel mio cellulare ci sono due o tre messaggi inviati al Dottor Morelli, dove io dico per conto del Dottor Fantoma mi ha detto di contattarla per dire se ci sono delle iniziative a livello regionale che ci possano aiutare in qualche modo, questa persona non mi rispondeva né telefonicamente alle chiamate e né ai messaggi, e poi un giorno mi scrisse: "Guardi, se vuole ci incontriamo" e lo può verificare agli atti, sennò le produco io il cellulare mio e lo può evidenziare, "Se vuole ci vediamo, tanto io non sono... non mi piace avere contatti telefonici" e poi voglio dire è questo.

Nel corso dell'interrogatorio di garanzia, il Gip Santoro contesta all'indagata una serie di conversazioni anche piuttosto imbarazzanti, dalle quali, secondo le indagini condotte dai pm Nicola Gratteri e Francesco Tedesco, emergerebbe l'uso disinvolto per fini personali di soldi destinati al Movimento Donne di San Luca: "Io ho un modo molto goliardico nel parlare a volte, spiritoso, che viene frainteso, è facilmente fraintendibile" si difende Rosy Canale. L'ex pasionaria antimafia, però, nega con forza di essersi appropriata di somme destinate per la lotta alla 'ndrangheta su un territorio difficile, come quello di San Luca: "Si può fare una visura patrimoniale e vedere che cos'ho, si può fare una visura di qualunque tipo, si possono prendere sotto sequestro i miei vestiti, Dottore, e vedere se ci sono cose più costose di 30 euro, vestiti come scarpe, non ho macchine intestate, cioè se io avessi preso questi soldi, che non ho preso Dottore, ci dovrebbe essere, come dire, un cambio di tenore che io non ho mai avuto, Dottore una traccia qualunque. Quando mi viene scritto qua, le ripeto, che io ho pagato una settimana bianca per mia figlia...". A proposito di antimafia e di lotta alla 'ndrangheta, nei propri racconti, spesso a ruota libera, Rosy Canale non disdegna qualche stoccata ad altri movimenti legalitari, quelli sì, a suo dire, fatti di parole e poco altro: "Io non sono stata una di quelle che scende in campo, Dottore, con i fiorellini, che va sottobraccio con i Procuratori per avere i finanziamenti di altro genere e fare le manifestazioni e poi intelligentemente e meno, come dire, sprovvedute di me, mettono le pezze d'appoggio e poi si fanno i fatti loro, io sono stata una di quelle che è scesa in campo a sporcarsi le mani a San Luca, e queste cose se si sarebbero realizzate, e magari il Signore si fossero realizzate, avrebbero cambiato il volto di quel paese, perché questi soldi... se io mettevo in campo una cosa del genere con il Ministero, che doveva fare questa cosa, perché il fatto di cavalcare la legalità molta gente la cavalca, ma la cavalca in altri sensi, Dottore, io sono andata a San Luca, ho vissuto con quella gente, io mi sono battuta lì. L'unica cosa è che Rosy Canale non ha fatto la favoletta, è andata lì sul territorio e oggi è qui a parlare con Lei per questo motivo, invece di fare le passerelle come altri". Lei avrebbe lavorato, lei si sarebbe battuta. E il Movimento sarebbe stato una cosa seria. Rosy Canale lo ribadisce anche lo scorso 30 aprile, quasi cinque mesi dopo l'emissione dell'ordinanza nell'ambito dell'operazione "Inganno": Viene scritto viene detto che il movimento delle donne è stato creato e fondato per creare con raggiri e artifizi diciamo per sottrarre dei soldi pubblici o comunque ecco allora, io brevemente sicuramente perché capisco che il tempo è prezioso per tutti però desidero che lei mi ascolti allora, io ho fondato questo movimento sono arrivata a San Luca poco dopo della strage di Duisburg per un desiderio mio personale. Già da subito avevo scritto una lettera via mail mi ero messo in contatto su facebook con il sindaco di allora che era Giuseppe Mammoliti scrivendo il mio cordiglio più profondo per tutto quello che era successo da calabrese, da persona che ama profondamente questa terra, lui mi rispose, da quel momento io ho iniziato a pensare a qualcosa che poteva che io nel mio pi piccolissimo potevo creare e fare per quella comunità". In quell'occasione, però, Rosy Canale ammetterà: "Io ho fatto un sacco di ingenuità". Con riferimento all'interrogatorio di garanzia, invece, più volte, il Gip Santoro contesta all'indagata le proprie intercettazioni, spesso dai contenuti autoaccusatori. Tutte frasi che Rosy Canale bolla come delle semplici chiacchiere, magari sconvenienti e superficiali, ma solo chiacchiere con le proprie amiche o con i propri familiari: "Le do questo aspetto, allora io e mio padre siamo molto... a volte parliamo di queste dinamiche qua, di alcuni aspetti della parte storica di quella che è una costruzione proprio... ricostruzione storica della 'ndrangheta, perché ci sono tutti degli aspetti anche, come dire, culturali, sociologici". Al Gip Santoro, però, le chiacchiere interessano poco. Interessano molto di più i fatti contestati alla donna, che, sempre secondo la Procura, avrebbe utilizzato decine di migliaia di euro per varie utilità personali: dall'acquisto due autovetture – una Smart e una Fiat 500 – a quello di vestiti e mobili, nonché la possibilità di effettuare viaggi di natura privata. "Me ne fotto". Così Rosy Canale rispondeva alla madre, che le raccomandava di spendere con attenzione i soldi che le arrivavano da Istituzioni varie: dalla Presidenza del Consiglio Regionale, alla Prefettura, passando per l'associazione "Enel Cuore". A detta dei giudici, i soldi destinati al Movimento "Donne di San Luca" "sono stati biecamente piegati ai propri interessi personali dalla presidente di quel movimento". Nell'ottobre 2009, in particolare, sarebbe arrivato un grosso finanziamento e proprio in quel momento, Rosy avrebbe sua figlia e "le chiede di che colore vuole le Hogan perché sono arrivati i soldi". La ragazza chiede "quanto si tiene lei e Rosy risponde che poi vedrà". Ma Rosy Canale si difende di fronte alle varie intercettazioni. Anche quella in cui ammetterebbe di aver tenuto per sé 3000 euro tra i fondi destinati alla ludoteca:

INDAGATA CANALE -. Aspetti, Dottore, non voglio mettere in difficoltà nessuno, però c'è una cosa, io questi 3.000 euro sono stata autorizzata dalla Prefettura a prenderli, loro mi dissero "Riserva per te, per il lavoro che stai facendo, 3.000 euro".

GIUDICE -. C'è una carta scritta?

INDAGATA CANALE -. No, non c'è niente di scritto.

GIUDICE -. Chi gliel'ha detto? Lei capisce che nel momento... o si avvale della facoltà di non rispondere o me lo dice, si sta difendendo, mi sta dando una prova d'alibi, tra virgolette.

INDAGATA CANALE -. Lo so, Dottore, però... il Dottore Priolo me lo disse.

GIUDICE -. Va bene.

INDAGATA CANALE -. Che era il mio angelo custode, mi disse... mi disse: "Guarda Rosy, tu stai facendo un lavoro grandissimo e credo che sia giusto che tu abbia qualcosa, prenditi 3.000 euro, non di più, però questi 3.000 euro prenditeli perché sono giusti".

Gianluca Calì ha acquistato all'asta un'abitazione di pregio un tempo di proprietà dei boss di Bagheria, Michelangelo Aiello e Michele Greco. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ne ha più potuto usufruire, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti nel mirino della procura, scrive Giuseppe Pipitone il 28 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Ha acquistato all’asta una villa un tempo di proprietà dei boss mafiosi. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ha più potuto usufruire dell’abitazione, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti sotto inchiesta. Da quando Gianluca Calì ha deciso di tornare a lavorare nella sua Sicilia i guai sono spuntati ad ogni angolo. Come funghi. Siamo ad Altavilla Milicia, zona costiera tra Bagheria, Casteldaccia e Palermo. È qui che Calì torna nel 2009 per aprire una succursale della sua concessionaria d’automobili milanese: la Calicar. Ma al pronti via, qualcosa comincia subito ad andare storto: a Calì arriva immediatamente una richiesta di pizzo dalla cosca mafiosa locale. “Richiesta che non mi sono mai sognato di assecondare, li ho denunciati” sottolinea lui da siciliano orgoglioso. Il 3 aprile del 2011 alcune automobili della sua concessionaria di Casteldaccia vanno a fuoco. La storia di Gianluca Calì, l’imprenditore antiracket, finisce sui giornali. “Mi è stato vicino soprattutto il centro Pio La Torre” dice lui. Intanto le indagini degli inquirenti portano in carcere 21 affiliati al clan di Bagheria: tra questi anche i suoi estorsori. Storia finita? Neanche per idea. Perché nel frattempo Calì ha avviato le pratiche per acquistare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona”, spiega. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello e al suo sodale Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata nelle disponibilità di un istituto di credito che lo mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice, dopo di ché mi aggiudicai la casa”, spiega Calì. E per un po’ sembra passare tutto liscio. La quiete però dura poco. Perché l’8 febbraio scorso la villa che fu dei boss viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se la costruzione fosse stata costruita di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo attuando dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo ritorna in possesso dell’immobile. I “solerti” ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un duplice intoppo burocratico? Un errore? Possibile. Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria ricattavano gli abitanti della zona minacciando il sequestro di immobili. In cambio chiedevano somme di denaro. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi – in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ha respinto l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati” scrive sempre il gip. A Calì però non è mai arrivata una richiesta formale di “messa a posto” per dissequestrare la villa. “Finora ho speso migliaia di euro per far valere un mio diritto contro un verbale che non sta né in cielo né in terra. Eppure questi si accontentavano di 500 euro”. Dalle maglie dell’inchiesta sui forestali però emerge anche altro: l’ombra della mafia di Bagheria. Un elemento in più se si pensa che i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco sono affidati dall’imprenditore palermitano a suo fratello, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli della piovra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato: condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo. Solo una coincidenza? Può darsi. Nel frattempo la villa che fu dei boss rimane sequestrata in attesa che la Cassazione si esprima nel settembre prossimo. “Io volevo soltanto provare a rilanciare la nostra terra. Ma per un imprenditore onesto, imbattersi non solo nella mafia, ma anche in infedeli servitori dello Stato non è un bel segnale”. E in Sicilia, isola che vive soprattutto di segnali, è ancora peggio.

Vatti a fidare dell'antimafia. Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama" il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

l pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive il 18 gennaio 2016 Carmelo Caruso su "Panorama". In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse. Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio". Le piace studiare il sottosuolo? "Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi".

È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra?

"Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato? "A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza". Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo". Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici? "Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi". Quando si ammala la magistratura? "Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "Per i beni confiscati alle mafie servono trasparenza e concorrenza". Il presidente dell'Anticorruzione, su "Panorama", spiega perché Libera "è diventata un brand di cui qualche speculatore potrebbe volersi appropriare", scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. "C’è chi usa l’antimafia, e va smascherato". Si esprime così Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato anticamorra attivo a Napoli, in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio. Cantone parla dell’opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia aveva lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, il magistrato che di Cantone è stato diretto successore nella Procura di Napoli, suscitando la sdegnata reazione (e un annuncio di querela) da parte di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Proprio su Libera, Cantone dice a Panorama: "È un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo Paese. Le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini, e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui le siamo grati. Certo, Libera è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un 'brand' di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato". Quanto al "caso Saguto", con l’inchiesta che a Palermo ha scoperchiato un sistema apparentemente deviato nella gestione dei beni sottratti alla mafia, Cantone dichiara a Panorama: "Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, ma lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche, soprattutto quando passano incarichi lucrosi e discrezionali a professionisti con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali".

Nessun monopolio, per allargare il fronte di chi combatte i clan. E bisogna consentire di vendere i beni sequestrati. Dopo l’inchiesta sui giudici di Palermo e le polemiche interne a Libera, interviene Giuseppe Di Lello, il magistrato del pool di Falcone e Borsellino, scrive il 21 gennaio 2016 “L'Espresso”. Le polemiche nell'antimafia dell'ultimo anno, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto magistrati che si occupavano a Palermo del sequestro dei beni ai mafiosi, e lo scontro interno a Libera, sono i punti che affronta Peppino Di Lello, ex magistrato dello storico pool antimafia di Caponnetto, Falcone e Borsellino, in un intervento scritto per l'Espresso che sarà pubblicato nel numero in edicola da venerdì 22 gennaio 2016. Di Lello affronta il problema dei beni sequestrati e ne propone la vendita: «Qualche rimedio sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato». L'ex magistrato antimafia che ha lavorato con Falcone e Borsellino, facendo riferimento all'inchiesta che ha coinvolto il presidente del tribunale misure di prevenzione, Silvana Saguto, scrive: «Il “caso Palermo” ha fatto emergere il problema degli incarichi agli amministratori giudiziari, assegnati quasi dappertutto con una inconcepibile discrezionalità: trasparenza e obiettività possono essere realizzate solo con una legge ad hoc. Ancor più difficile sarà applicare questi principi di buona amministrazione nell’assegnazione dei beni confiscati». Di Lello poi punta sulle associazioni antimafia: «Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 ndr) ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia».

Soffiate, call Center e anonimi: viaggio nel covo di Cantone, scrive Antonello Caporale. Il ministero dell’Onestà dista un alito dalla Fontana di Trevi e solo cento passi da Palazzo Chigi. Il padrone di casa è Raffaele Cantone, personalità il cui potere avanza come le quotazioni dell’oro in tempi di crisi. Ogni giorno un po’ di più. Cantone infatti non è un magistrato ma un metallo prezioso, insieme diga anticorruzione e tutor del corso collettivo sulla moralità pubblica. Scrutatore delle coscienze sporche, selezionatore delle pratiche migliori, dei buoni propositi e delle buone persone. Tutti lo vogliono, lo cercano e, se del caso, lo annunciano. Non è solo Matteo Renzi a utilizzarlo un po’ come le casalinghe fanno con Mister Muscle, il detersivo che spurga in cinque minuti. Expo, Giubileo, Mafia Capitale, l’arbitrato per gestire il rimborso dei clienti truffati dalle banche fallite. A una grana di rilevante entità nazionale segue la convocazione di Cantone che perciò a volte sembra, immaginiamo persino contro la propria volontà, il dodicesimo giocatore della squadra di governo in campo. Col tempo, e dal momento che deviare verso di lui produce profitti, un po’ tutti aspirano a una carezza cantoniana. È esploso il caso Quarto? Ecco Cantone. E Beppe Sala, il mister Expo candidato alla carica di sindaco di Milano, ha già annunciato che con Cantone sicuramente farà un patto, stringerà ancor di più l’amicizia fattiva e gli chiederà un occhio supervigile sui costumi meneghini, sottintendendo che lui può permetterselo ma gli altri candidati? Al palazzo di questo speciale ministero che è l’Autorità nazionale anticorruzione si accede dominati dalle decorazioni liberty della galleria Sciarra, ricca di partiture architettoniche, dipinta da Giuseppe Cellini. Palazzo sontuoso e imperiale come l’inquilino che lo ospita (la sua scrivania è un Luigi XVI niente male). Qui giungono le perorazioni dell’Italia onesta, le denunce, a volte le illusioni o le delazioni di un popolo che il nostro sente “iconoclasta, votato spesso al nichilismo. Sa quanti anonimi arrivano?”. Dottor Cantone, è l’Italia del rancore che bussa alla porta? “Credo proprio di sì. Ma la nostra dev’essere una casa di vetro, si accomodi pure”. Cinque piani di trasparenza, al quinto eccoci alla sala delle riunioni. “Sono stato nominato il 24 aprile 2014 e devo dire che la macchina ha iniziato a funzionare presto e bene”. L’organico prevede 350 tra funzionari e impiegati, un numero prossimo a essere raggiunto. Sono 302 gli effettivi, naturalmente divisi in sezioni. “La nostra missione è prevenire la corruzione, anticipare le mosse, contestare e, soprattutto, suggerire buone pratiche. Il nostro più grande potere è la moral suasion, la forza di questa Autorità è la sua reputazione. L’autorevolezza conta di più di ogni norma e devo dire che i frutti che si stanno avendo non sono modesti”. Giuristi di impresa, architetti, esperti di appalti, finanzieri. “Nel primo anno abbiamo “lavorato” 120.828 atti, una enormità. Rappresenta la somma delle denunce, degli esposti, delle deduzioni e controdeduzioni, è il risultato di un lavoro meticoloso, puntiglioso. Nell’anno 2015 il numero è lievitato a 151.988. Chi denuncia? “Purtroppo molti sono anonimi, noi approfondiamo laddove avvertiamo segnalazioni circostanziate di fatti evidentemente rilevanti. Facciamo una cernita e teniamo conto. Devo dirle però che la gran parte degli anonimi esala un sentimento purtroppo comune di noi italiani: in premessa la fanfara di grandi ruberie poi stringi stringi e arrivi alla miseria del furto dell’energia elettrica”. Chiunque scriva, email o lettere, sappia che c’è un ufficio protocollo occupato da una decina di impiegati. Stanze larghe e comode come altrove non è. La capo ufficio: “Leggiamo e smistiamo per competenza. Ci dividiamo in turni”. Si smista alle sezioni e da lì si avanza. Se viene ritenuta utile e documentata la segnalazione parte il servizio ispettivo. “Controlliamo l’appalto e teniamo un lumino acceso anche in corso d’opera”, dice Angela Di Gioia, segretario generale. Il baco della corruzione ha un concepimento seriale e uno sviluppo tipico. Tardano i lavori, s’interrompono spesso, si chiede l’aggiornamento prezzi, si autorizza la variante. O ancora: si affida l’appalto producendo un progetto esecutivo finto cosicché i lavori avanzino a vista e possano deviare. Al primo piano di palazzo Sciarra fa ingresso il malcostume italico che poi viene distribuito per piano. Più sale e più acuta è la rimostranza, grave il danno alle casse pubbliche. Ai trecento militi dell’onestà si aggiungono cinquanta lavoratori di uno speciale call center che gestisce via telefono le procedure corrette. Telefonano dalle amministrazioni centrali e locali. Telefonano i funzionari e telefonano le imprese. Un grande via vai di parole a leggere i dati sul numero dei contatti. Nel 2014 risultano 432 mila telefonate, nel 2015 già lievitate a 682 mila. Cantone riceve un compenso di 180mila euro l’anno, i quattro consiglieri (un magistrato e tre professori universitari) 150mila. Il presidente ha fatto il conto, visti i tempi, pure degli scontrini. Le differenze con Renzi si notano. Il premier, quand’era presidente della Provincia di Firenze, riuscì nell’impresa di far fuori quasi un milione di euro. Cantone mangia e beve di meno e non ha avuto finora bisogno del letto a cinque stelle. Nel 2014 per vitto e alloggio ha speso 1.065 euro. Da: Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

«Una persona che ha la coscienza pulita, a cosa può andare incontro? Io nell'insediarmi al Senato ho parlato di casa trasparente, e la mia nuova funzione istituzionale veniva sporcata, opacizzata da queste parole che è difficile contrastare nella loro genericità». Queste le parole pronunciate dal neo presidente del Senato, Pietro Grasso, durante la trasmissione «Piazzapulita» su La7 di lunedì 25 marzo 2013 interamente dedicata alle «risposte» di Grasso a Marco Travaglio. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha detto Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare». «Non si possono estrapolare fatti singoli per sporcare la credibilità di una persona - ha proseguito Grasso rispondendo alle domande del giornalista Corrado Formigli -. Nella Procura di Palermo si diceva ci fossero veleni, ma in realtà c'era una dialettica interna sulle indagini. Mi è stato contestato di aver archiviato l'indagine su Schifani, ma dagli atti si può vedere che un'indagine sulla stessa persona era stata archiviata anche da Caselli, così come è avvenuto nel 2012». Grasso ha risposto anche alle accuse di Travaglio di essere stato nominato procuratore sulla base di una legge incostituzionale fatta per affondare Giancarlo Caselli. «C'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare prima che la legge Castelli fosse promulgata - ha detto Grasso - C'è una ricostruzione che ha bisogno di essere rivisitata ci sono due livelli: il primo è quello di una legge che ho sempre riconosciuto contro Caselli, fatta per bloccare Caselli, ma c'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare sui vertici antimafia prima che l'ordinamento dell'allora Guardasigilli Castelli fosse promulgato». Tra le accuse di Travaglio a Grasso anche quella di non aver firmato l'appello per il processo Andreotti. «Io ero stato testimone in quel processo - ha detto Grasso - Ero stato sentito in istruttoria proprio da Scarpinato ed essendo diventato testimone la mia firma sull'appello avrebbe impedito la chiamata come testimone nel successivo grado di giudizio». «L'accusa di poter essere colluso con il potere, di cercare il contatto, di fare l'inciucio è la cosa che mi ha fatto più male ha detto ancora Grasso - Di aver ottenuto leggi a mio favore: io non ho mai richiesto niente a nessuno e nessuno ha chiesto mai niente a me». L'ex capo dell'Antimafia ha quindi parlato anche dei «processi gogna». «Lavorare in questo modo è tra l'altro incostituzionale - ha detto il presidente del Senato - Ci sono stati molti processi spettacolari che hanno portato ad assoluzioni. Ma non faccio nomi, non sarebbe elegante...». La polemica col vicedirettore del «Fatto» era nata durante il consueto intervento di Travaglio a «Servizio Pubblico» il giovedì precedente in cui aveva ricostruito le vicende relative alla nomina di Grasso a procuratore nazionale Antimafia, una nomina «segnata» - secondo Travaglio - da tre leggi votate dalla maggioranza di centrodestra che hanno fermato la candidatura a quell'incarico di Gian Carlo Caselli. L'ex procuratore nazionale antimafia ha spiegato anche di essersi deciso ad intervenire perché le parole usate dal vicedirettore del Fatto avevano avuto sulla moglie lo stesso effetto delle minacce ricevute negli anni '80 contro il figlio in occasione del maxiprocesso contro la mafia. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha spiegato Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare. Io non ho mai reagito perchè ho sempre voluto tenere unita la magistratura. Per me era quasi doveroso sopportare tutto senza reagire, non ho mai minacciato una querela, ma una cosa è la libertà di critica, un'altra è una comunicazione che non informa e sporca soltanto». L'ex procuratore nazionale antimafia ha risposto poi ad una domanda sulla condanna in secondo grado di Marcello Dell'Utri. «Una condanna di un imputato un magistrato non la può considerare una vittoria o una sconfitta – dice - Quello che deve fare riflettere - aggiunge - è che le indagini sono iniziate nel '94 e ancora non si ha una risposta definitiva della giustizia, è un fatto drammatico per il Paese. Io non credo che Dell'Utri scappi ma è precauzione elementare quella dell'arresto - ha precisato ancora Grasso, dicendosi però "meravigliato" - che la notizia sia stata diffusa dalle agenzie di stampa prima ancora dell'eventuale notifica all'imputato». Nel merito poi del suo ruolo all'antimafia, sui presunti contrasti con i Pm, sui cambiamenti fatti nel pool che si occupava della lotta alla mafia, Grasso è stato lapidario: «L'accusa che mi brucia di più è che io abbia fatto inciuci con il potere per avere delle leggi a mio favore». E ha ricordato che la rotazione dei Pm nelle direzioni investigative antimafia è una disposizione "insormontabile" del Csm. «Provai a chiedere una proroga per i pubblici ministeri che operavano a Palermo, ma ricevetti risposte negative dal Consiglio superiore della Magistratura. Chi è che non fa errori? - aggiunge Grasso - certo, ne ho fatti anche io, come quello di non aver preso posizione prima su cose di cui ora mi accusano. Ma non è che si possano imputare tutti gli errori al procuratore. Io mi prendo le mie responsabilità ma non è possibile. E' difficile che io mi imbestialisca - prosegue - ma l'accusa peggiore è quella di poter essere colluso con il potere. Io inciuci con il potere? E' stata terribile l'accusa di aver ottenuto delle leggi a mio favore - sottolinea Grasso - Questa è l'accusa che mi brucia di più. Io non ho ottenuto niente. Ottenere significa richiedere. Io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me». Così ha commentato la normativa introdotta dal centrodestra che gli ha aperto la strada alla guida della Procura nazionale antimafia, eliminando dalla contesa Giancarlo Caselli. Per quanto riguarda la trattativa Stato-mafia, Grasso ha detto esplicitamente: «Io valuto i fatti. La cosa peggiore è avere delle intuizioni e non poterle provare. Ma sino a quando non ho le prove, io non parlo e non ne parlerò neanche stasera. La trattativa comporta una conclusione con un accordo. Questo forse deve essere ancora pienamente dimostrato. Sono convinto che bisogna cercare la verità, che dobbiamo fare di tutto per trovare la verità. Però forse ci sono ancora cose da scoprire più grosse che non una trattativa che ponga al centro il 41 bis. Forse ci sono ancora cose più gravi da scoprire». Grasso ha anche risposto all'accusa di Travaglio di aver "auspicato" una medaglia antimafia per Silvio Berlusconi. Il presidente del Senato ha ribadito che il governo Berlusconi, a cui partecipava anche Maroni come ministro dell'Interno, aveva fatto alcune cose positive per la lotta alle cosche. «Ma non tutte quelle che avevamo chiesto. Tant'è vero che appena entrato in Senato ho depositato proposte di legge sul conflitto d'interessi, sulla corruzione e sul falso in bilancio. Se qualcuno - come è avvenuto nella trasmissione La Zanzara - mi chiedeva se alcune cose positive per la lotta alla mafia erano state fatte dal governo Berlusconi, non potevo non rispondere che sì. Ho sempre avuto l'onestà intellettuale di riconoscere le azioni positive degli altri. Ma noi chiedevamo anche altre norme che il governo Berlusconi non ha fatto, come sull'antiriciclaggio. La medaglia l'hanno detta loro, riferendosi direttamente alle norme per il sequestro dei beni mafiosi. io ho solo aggiunto “per questa cosa, ma solo per questa”, sì, era giusto. Se si dice una cosa positiva su qualcuno che in questo momento non ha l'appoggio plebiscitario dell'opinione pubblica, - ha concluso Grasso - immediatamente c'è chi paventa un “inciucio". Quello di Grasso è stato un lungo confronto con il conduttore Corrado Formigli, ma non con Marco Travaglio che ha deciso di non andare, motivando la scelta con parole molto dure ed offensive. Piazzapulita, ha spiegato, è "una delle poche trasmissioni in cui io non metterei mai piede per ragioni igieniche".

E’ andato su tutte le furie, il Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, per quello che definisce il «lunghissimo monologo» in tv del neo presidente del Senato Pietro Grasso, suo successore nel 1999 al vertice della Procura di Palermo. Secondo Caselli, l’ex collega «si è prodotto in allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato». Insomma l’ennesima puntata dei veleni di Palermo, nella quale si ritaglia un ruolo anche Massimo Ciancimino, il figlio minore del famoso don Vito, a giudizio per calunnia nel processo sulla trattativa Stato-mafia: «Grasso? Ha beneficiato di tante situazioni, non ha mai toccato i poteri forti». Il comportamento di Grasso, spiega Caselli in una lettera al Csm (in cui chiede di essere «adeguatamente tutelato») è «profondamente lesivo dei miei diritti e della mia immagine, in particolare là dove si insinua che il mio operato sarebbe stato caratterizzato dalla tendenza a promuovere e gestire processi che diventano gogne pubbliche, ma restano senza esiti». «Mentre tutta la mia esperienza professionale — aggiunge il magistrato — si è sempre e soltanto ispirata all’osservanza della legge, al rispetto dei presupposti in fatto e in diritto necessari per poter intervenire e alla rigorosa valutazione della prova». «Segnalo — conclude Caselli — che il comportamento in oggetto risulta, sempre a mio giudizio, ancor più delegittimante nei miei confronti perché tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d’appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell’Utri, relativa a procedimento avviato dalla Procura quando il sottoscritto ne era a capo». Grasso si è soffermato in particolare su due momenti in cui la sua strada ha incrociato quella di Caselli. Per esempio nel 2005, quando l’attuale numero uno di Palazzo Madama fu nominato dal Csm procuratore nazionale antimafia. Con un emendamento del centrodestra alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Caselli fu escluso dalla corsa alla Dna per superamento dei limiti di età. «Dicono che ho ottenuto delle leggi a mio favore: io non ho ottenuto niente — ha detto Grasso —. Ottenere significa richiedere. E io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me. Caselli se la deve prendere con quei colleghi del Csm che hanno impedito che lui potesse essere nominato». L’altra vicenda risale al 1992, quando, ha ricordato Grasso, «si era creata una situazione pressoché simile» per la nomina a procuratore di Palermo. «Lui (Caselli) non aveva fatto un giorno da pm, aveva grande esperienza sul terrorismo, ma quasi nessuna sulla mafia. Diventa procuratore perché serviva qualcuno che venisse da fuori. Io non ho fatto nulla, pur avendo la possibilità di fare ricorso».

Caselli contro Grasso. La glaciazione dell'antimafia, scrive Gaetano Savatteri. Caselli contro Grasso. Travaglio contro Grasso. Grasso contro tutti. Gaetano Savatteri, inviato del Tg5, che ha raccontato molte volte l'incandescenza della Procura di Palermo, continua la collaborazione con Livesicilia. E ci svela tutto. L’ultima era dell’antimafia è quella della glaciazione. Una cappa di gelo, segnata da sospetti, accuse e polemiche, che anima i dibattiti televisivi e giornalistici, ma che finisce per ricacciare successi, vittorie e conquiste – giudiziarie e sociali – in un perenne l’altro ieri. L’ultimo episodio che vede Marco Travaglio contro Piero Grasso, Piero Grasso contro Marco Travaglio e ora Giancarlo Caselli contro Piero Grasso, segna l’accanimento senza fine sopra una ferita che non si è rimarginata, ma che è rimasta aperta, solo perché si è incancrenita alle basse temperature di uno scontro nato dentro la procura di Palermo e vecchio di quasi un ventennio. La ricostruzione di questo dissidio interno alla magistratura più impegnata nella battaglia a Cosa Nostra sarebbe lunga e difficile. Per riassumere, basta dire che la prima frattura si registra all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando un gruppo di magistrati sigla una lettera contro l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco: gli elenchi di chi firmò quella lettera e di chi invece non la firmò evidenziano nel 1992 la spaccatura che già serpeggiava negli uffici giudiziari della procura più esposta d’Italia. Da allora in poi, nonostante le dichiarazioni pubbliche, i momenti di tregua – e un momento di tregua fu il passaggio di consegne tra Giancarlo Caselli e Piero Grasso alla guida della procura palermitana – la storia delle indagini, delle inchieste e della politica giudiziaria degli uffici inquirenti da allora è stata disseminata di scontri tra gruppi, cordate e fazioni. Scontri “metodologici”, si dice, ma dietro i quali ciascuno ha avuto il tempo di consolidare sospetti e avversità verso e contro i propri colleghi della porta a fianco. In questi ultimi giorni, dopo l’attacco a Piero Grasso di Marco Travaglio - il quale ha ripetuto nella trasmissione “Servizio pubblico” cose che già da tempo scrive e dice – e con la reazione forse un po’ troppo istintiva di Grasso di telefonare in diretta e chiedere un confronto televisivo, la ferita si è riaperta. Anzi, ha mostrato di non essere mai chiusa. E così si è svelata la glaciazione dell’antimafia. Sono riaffiorate nel dibattito pubblico, ad esempio, storie che risalgono al 1999 (l’appello contro la sentenza di assoluzione nel processo di primo grado a Giulio Andreotti), al 2005 (la nomina di Grasso alla procura nazionale antimafia, con l’esclusione di Giancarlo Caselli in seguito a leggi contra personam, poi dichiarate incostituzionali), in un rigurgito di memoria mai condivisa, mai pacificata, mai risolta. Ora, non c’è dubbio che la memoria sia un bene prezioso. E quindi i fatti non vanno accantonati né dimenticati. Ma qui siamo oltre la semplice esposizione dei fatti. Qui siamo di fronte a irriducibili e inconciliabili interpretazioni dei fatti, e per giunta di fatti spesso complessi che riguardano procedure, leggi, norme, regolamenti. Lo scontro Travaglio-Grasso, ad esempio, è difficile che abbia smosso qualcuno dei protagonisti dalla propria lettura dei fatti. E la lunga ricostruzione che i contendenti hanno esposto, (e di cui sono prevedibili nuove puntate), è difficile che abbia portato allo spettatore di “Servizio pubblico” e di “Piazza pulita” elementi tali da diradare del tutto i dubbi, a meno di non avere un approccio partigiano a questi argomenti. Semmai, lo sforzo di molti spettatori, compresi quelli che per mestiere o per passione hanno seguito in questi anni le dinamiche interne della procura di Palermo, è stato quello di non piombare dentro una vertigine che comprime i fatti, li riduce a slogan, li frantuma in una serie di sospetti e domande e interrogativi ai quali è complicato dare risposte definitive. L’elezione di Grasso a presidente del Senato ha dato più ampia platea a uno scontro interno alla procura che già era emerso con la contrapposizione tra le candidature di Antonio Ingroia e di Piero Grasso in due formazioni politiche antagoniste. Adesso, la ferita dell’antimafia, profonda e inguaribile, ha avuto ribalta nazionale come mai prima d’ora. Non è una polemica che può trovare approdo. E dopo la lettera di Giancarlo Caselli al Csm e la prossima replica annunciata di Marco Travaglio nel programma di Michele Santoro, si profilano nuovi sviluppi. Lo scenario che ne viene fuori, drammaticamente, continua ad essere quello di un’antimafia che in venti e più anni ha saputo scavare trincee profonde dentro il proprio stesso fronte. Un’antimafia asserragliata in uno scontro di posizione, nel quale un giorno qualcuno guadagna un metro per perderlo il giorno dopo. Nel frattempo, alcuni magistrati hanno scelto la politica, altri hanno lasciato Palermo, altri hanno lasciato la magistratura. Ma la glaciazione non tiene conto nemmeno di questo. Anzi, ripropone ciascun protagonista di ieri e dell’altro ieri immobilizzato nell’atteggiamento in cui è stato raffigurato o in quello in cui vuole raffigurarsi. L’ascesa di Grasso alla seconda carica dello Stato carica tutto questo di maggiore enfasi, di un’eco sempre maggiore. L’Italia è cambiata e sta cambiando; anche la Sicilia è cambiata e sta cambiando, soprattutto grazie agli ultimi vent’anni di antimafia. Ma il mondo dell’antimafia che appare in tv e sui giornali sembra rimasto sotto i ghiacci a parlare di un passato che torna sempre uguale. Come un’ossessione. Come una trappola del tempo.

Grasso-Caselli, zuffa tra primedonne, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Amati no, non si sono mai amati, al di là dei sorrisi di facciata in occasione delle manifestazioni antimafia. Troppo prime donne, entrambi. Troppo simili come formazione, e infatti si sono contesi la Procura nazionale antimafia. Troppo diversi, nel profondo, come magistrati: l'uno, Gian Carlo Caselli, procuratore capo nella Palermo ferita del dopo stragi del '92, il padre dei processi per mafia alla politica, per tutti quello contro Giulio Andreotti, il processo del secolo finito in flop, imbastiti per lo più con le dichiarazioni dei pentiti; l'altro, Pietro Grasso, già giudice a latere del primo maxi processo a Cosa nostra, clamoroso quanto quello al divo Giulio, procuratore a Palermo subito dopo Caselli, prudente e legato alla scuola del vecchio amico Giovanni Falcone tutta riscontri e prove, che i pentiti servono sì, ma senza prove poi i processi si perdono e Grasso no, non ama perdere. Cova già da una quindicina d'anni lo scontro di oggi. E invece, con una virulenza che fa il paio solo con la guerra istituzionale divampata qualche mese fa tra il Quirinale e la procura di Palermo, la rissa esplode ora, a scoppio ritardato: Grasso non è più magistrato ma presidente del Senato; Caselli è procuratore, della sua Torino. Lo spettacolo che va in scena non è tra i migliori. Da un lato il neo presidente del Senato, che per difendersi dalle accuse di Marco Travaglio, in tv, a Piazza Pulita, spara sugli insuccessi della giustizia spettacolo dei processi politici. Dall'altro il procuratore di Torino, che si riconosce nell'identikit e denuncia la seconda carica dello Stato al Csm, chiedendo al vicepresidente Michele Vietti, di intervenire a sua tutela. Et voilà, lo scontro è servito. Oggi viaggia tra Roma e Torino ma virtualmente abita a Palermo, in quel Palazzo di Giustizia ribattezzato Palazzo dei Veleni sin dai tempi di Giovanni Falcone. A Palermo Grasso, dopo Caselli, non ha avuto vita facile. I «caselliani» non hanno mai potuto soffrire la sua prudenza, il suo «no» ai teoremi senza prove. Un esempio? La vicenda Cuffaro, nel 2004: Grasso fu attaccato perché non volle accusare l'allora governatore di concorso esterno in associazione mafiosa ma di favoreggiamento aggravato. Risultato pratico: dal «concorso esterno» Cuffaro è stato assolto, ma è in carcere a scontare la pena definitiva per favoreggiamento. È, in fondo, la filosofia che Grasso illustra in tv. «Questo tipo di processi, dice a proposito dei dibattimenti politici, citando uno dei suoi maestri, il padre del pool antimafia, Antonino Caponnetto, è sbagliato perché seppur spettacolari sono quelli che portano alle controriforme contro i magistrati, con ritorsioni che danneggiano il funzionamento della giustizia. Pensare a inchieste come una gogna pubblica, efficace perché distrugge una carriera politica, è una deviazione della funzione delle indagini. È anticostituzionale perché la Costituzione dà il potere al magistrato di indagare in funzione del processo». Processi da gogna pubblica? Quali sono, chiede Corrado Formigli. «Ci sono stati, replica Grasso, dei processi che hanno certamente portato all'arresto di imputati che poi sono finiti con assoluzioni. Ma non mi va di fare dei nomi che tra l'altro tutti sanno e conoscono. Non sarebbe elegante...». Il nome non viene fatto. Ma Caselli si riconosce, eccome se si riconosce. «Il presidente del Senato Pietro Grasso, denuncia al Csm, si è prodotto in un lunghissimo monologo contenente accuse e allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato. Segnalo che il comportamento risulta ancor più delegittimante nei miei confronti per il fatto di essere stato tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d'appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell'Utri, sentenza relativa a procedimento avviato dalla procura di Palermo quando il sottoscritto ne era a capo». Di qui la richiesta «di essere adeguatamente tutelato». La lettera, fa sapere il Csm, non è ancora arrivata. Dovrà essere vagliata dal Comitato di presidenza e poi assegnata a una Commissione. Ma questa è la settimana di Pasqua, i lavori sono fermi. Se ne riparlerà ad aprile. E sarà una primavera calda, tra Palazzo Madama e Palazzo dei Marescialli.

Il «duello» Travaglio-Grasso, nel caso, sarebbe solo l’eco lontana di scontro vecchio e soprattutto risolto. L’ha già vinto Grasso, anni fa, ma non contro Travaglio che è solo un tardivo portavoce: contro le vedove caselliane che a partire dal 1999 sono state sconfessate nella politica e nei tribunali, scrive Filippo Facci. Si parla di un’area a cui Ottaviano Del Turco, da presidente dell’Antimafia, nel 2003, attribuì la velleità di «rileggere tutte le vicende del dopoguerra come un unico disegno criminale dentro a cui stanno bombe, terrorismo, brigate rosse, mafia, gladiatori, la Cia, e naturalmente, da ultimo, Berlusconi che si aggira con valigette piene di bombe al tritolo». Pietro Grasso, invece, in un’intervista sempre del 2003, parlò di «persone identificabili in una determinata area culturale e politica che si è sempre distinta per l’aggressività e il cinismo con cui attacca chi non condivide una certa visione della giustizia e dei problemi connessi. Neppure Giovanni Falcone si salvò da questi schizzi di fango». L’area culturale e politica, a Palermo e nei vari avamposti, è perlopiù quella di Magistratura democratica e della varia «antimafia piagnens». Di essa Marco Travaglio è divenuto notoriamente il doberman – non da solo – e perciò e ha sempre avversato colleghi più moderati come lo stesso Grasso o Giuseppe Pignatone, ora procuratore capo a Roma e altro nemico storico di Ingroia. Ora c’è un noto epilogo politico, diciamo: la scelta del Pd di respingere al mittente ogni avance politica di Antonio Ingroia, preferendogli Grasso, non è stata indolore; tantomeno lo è stata la decisione del Pd di difendere Giorgio Napolitano quando il contrasto procedurale tra la procura di Palermo e il Quirinale si fece dirompente. L’esito, per ora, è che Pietro Grasso (detto Piero) è stato eletto ed è già presidente del Senato, col rischio che diventasse addirittura premier; Ingroia, invece, non è neppure stato eletto, la sua Rivoluzione civile ha fatto un bagno, e lui rischia di trasferirsi ad Aosta a indagare sui clan della Fontina. Il veleno di Travaglio contro Grasso, dunque, è roba vecchia ma ridipinta di fresco rancore. È il fiele degli sconfitti, ma nondimeno – sprechiamo l’espressione – una resa dei conti culturale. Pietro Grasso è di Licata. A 14 anni giocò nella Bagicalupo allenata dal 17enne Marcello Dell’Utri e questo è il tratto più malizioso che lo riguarda. Era già magistrato a 24 anni (un «plasmoniano», si diceva all’epoca) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Lui scrisse le motivazioni (8000 pagine) aiutato da uno stormo di giovani uditori tra i quali c’era Antonio Ingroia. Fu consulente della commissione Antimafia e vicecapo agli Affari penali ancora con Falcone. Poi, dopo anni alla Procura nazionale antimafia con Pierluigi Vigna – periodo in cui progettarono di ucciderlo – nel 1999 fu nominato Procuratore capo a Palermo e andò a rappresentare una netta discontinuità con Giancarlo Caselli e i vari Ingroia di complemento. Secondo Travaglio, ciò coincise con una «normalizzazione» della procura. Il che è vero. Grasso, che era della corrente di Movimento per la giustizia (quella di Falcone) fece fuori i caselliani uno alla volta. Tra questi, fermandosi ai cognomi: Lo Forte, Scarpinato, Principato, Teresi, Imbergamo, Musso, Paci, Serra, Ingroia eccetera. Si parla di pm che gestirono processi anche fumosissimi (come il mitico «sistemi criminali», dedito a «massoneria, politica e imprenditoria deviate», affidato da Caselli a Scarpinato nel 1993, roba da far sembrare la «trattativa» un capolavoro di linearità) la maggior parte dei quali sarebbero tutti finiti in nulla. Grasso, in un’intervista dell’agosto 2000, parlò esplicitamente di processi caselliani «capaci di ottenere condanne solo sulla stampa». Altri, più di parte come il forzista Enzò Fragalà, citarono la «gestione strumentale dei pentiti, spese pazze e inutili, le enormi risorse pubbliche messe in campo al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti come sappiamo, senza peraltro che i geometri abbiamo dovuto scontare alcunché per gli errori commessi». Ho citato un forzista ma è stata una visione condivisa anche a sinistra. Grasso, come suo vice, ripescò Giuseppe Pignatone, che a suo tempo aveva lasciato la procura all’arrivo di Caselli; un moderato anche lui (corrente Unicost) che tra i cronisti era popolare come poteva esserlo uno che aveva mandato ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, con l’accusa di peculato. Due pentiti come Brusca e Cancemi lo chiamarono in causa tre volte, ma altrettante la sua posizione fu archiviata. Tuttavia per Travaglio (e Ingroia) ancor oggi è come nominare il demonio: e al tentativo di «mascariarlo», il vice-Ingroia ha dedicato pagine intere. Una grave colpa di Pignatone fu certamente quella di diventare vice di Grasso al posto dei vari caselliani Alfredo Morvillo, Anna Palma o Sergio Lari. Normalizzazione: nel senso che normale, prima, non era niente. Grasso lavorò con avocazioni, redistribuzioni, monitoraggi, non volle la responsabilità degli insuccessi di Caselli (Andreotti, Musotto, Canale, Di Caprio, Mori, Rostagno, Carnevale, Mannino, stragi, ecc.) e prese di mira certe toghe superstar: ma piano, sinuosamente, alla democristiana. Fece un fondo così ai magistrati che si lagnavano perché la scorta gli era stata ridotta, ad altri tolse la seconda auto o i piantoni fuori casa (roba che in Sicilia fa status) e alcuni li fece addirittura lavorare, fottendosene di gerarchie non scritte come quelle che volevano Lo Forte e Scarpinato come grandi pensatori. Torna in mente una proposta di Ingroia e Scarpinato da loro messa nero su bianco su Micromega del 2003: «Sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale… Nella nuova Costituzione europea bisogna porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri». Ora saranno contenti, data l’aria che tira. Una circolare del Csm del 1993, comunque, prevedeva che i pm dalla Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) scadessero dopo otto anni, ma Lo Forte e Scarpinato pretendevano che la faccenda non li riguardasse perché loro erano procuratori aggiunti. L’ebbe vinta Grasso. Anche Ingroia e Gioacchino Natoli, estromessi allo scadere degli otto anni, riformularono domanda dopo tre: ma Grasso, appigliandosi a un parere del Csm, riuscì a prolungare la loro esclusione per sei lunghi anni. Grasso ebbe la meglio su Scarpinato e Lo Forte – più Ingroia – anche nel suggerire che a Totò Cuffaro, anziché il solito concorso esterno in associazione mafiosa, fosse contestato il favoreggiamento: ed ebbe ragione lui, com’è noto. Si può immaginare, insomma, quanto Ingroia e company amassero e amino Grasso. I caselliani, già ai tempi, scatenarono l’apocalisse e Ingroia lo fece nel suo modo consueto: «Non è una lite tra primedonne», disse, «come non lo furono quelle tra Falcone e i suoi avversari negli anni Ottanta». Mentre Scarpinato, su Micromega, lamentava che stavano estromettendo «quei magistrati che nella procura di Caselli avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica». Il problema è che Pietro Grasso aveva le regole dalla sua e poco gli importava della sacralità antimafia di questo o quello. Quando tolse a Lo Forte e Scarpinato le inchieste che stavano seguendo, nel luglio 2003, la decisione era già stata avallata dal Csm: ma i due sostituti, secondo Grasso, pretendevano che lui aggirasse la decisione: lo raccontò in un’intervista alla Stampa. Per il resto è vero: Grasso, nel 2000, non controfirmò l’Appello contro Andreotti, che era stato assolto: e non mise neppure il visto di presa visione. Lui naturalmente ha sempre spiegato di non aver sottoscritto il ricorso come conseguenza della «piena autonomia dei sostituti di udienza», e ha detto che la vera ragione è che lui sarebbe stato testimone nel processo d’Appello: ma sa di paraculata. Non ne voleva la responsabilità. Anche perché, in effetti, non era sua. È pure vero che nel 2002, Grasso, nascose ai caselliani la gestione del pentito Nino Giuffrè. Ne aveva diritto. Ascoltò il pentito per tre mesi e ciò portò ad arresti che stroncarono una malavita fattiva e reale nella zona delle Madonie: questo anziché accreditare, da subito, oscuri scenari sulla storia d’Italia. Grasso lo fece anche perché aveva bisogno di verificare l’affidabilità di Giuffrè e di garantire per la sua sicurezza familiare. La vicenda finì al Csm che deliberò così: «Come ha spiegato il dottor Grasso, si è verificata un’incomprensione dovuta alla mancata comunicazione al dott. Lo Forte delle ragioni di prudenza per le possibili fughe di notizie a causa delle costante e pressante presenza di giornalisti negli uffici della procura». In lingua italiana: i verbali di Giuffrè non erano stati mostrati a Lo Forte per evitare fughe di notizie. Un’accusa indiretta e beffarda. Grasso ribadì il concetto sul Corriere della Sera: se non ci sono state fughe di notizie – disse – è perché non ho mostrato i verbali ai pm né a nessuno. Travaglio invece la metterà così: «Muoiono così la filosofia e la prassi del pool, fondate sulla libera circolazione delle informazioni e sulla fiducia reciproca… cala una pietra tombale sulle conquiste di Falcone e Borselino». Erano calate solo le fughe di notizie. Dopodiché certo: Pietro Grasso, detto Piero, fu nominato procuratore nazionale antimafia. E Caselli no. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Non fece una legge apposita, ne fece tre: una delle quali – dopo che Grasso era già stato eletto – fu giudicata illegittima dalla Corte costituzionale. Tuttavia nessuno può dire che Caselli, senza quella legge, avrebbe vinto: in ogni caso gli sarebbe servito l’appoggio del Csm, che avrebbe potuto benissimo preferirgli Grasso. È quello che ha sostenuto in un’intervista all’Ansa, lunedì, il pm palermitano Giuseppe Fici, che all’epoca era al Csm e visse i fatti in prima persona: «Confermo il convincimento, mio e di tutto il consiglio, che Grasso avrebbe prevalso su Caselli anche senza l’intervento della maggioranza parlamentare. Convincimento fondato sulla proiezione dei voti espressi in Commissione: in favore di Grasso si erano pronunciati il laico di centrodestra e i togati di Unicost e Magistratura Indipendente, con una prospettiva di almeno 14 voti sicuri». Grasso peraltro ne ebbe 18, di voti, con cinque astensioni. Sull’ambiguità di Grasso come personaggio «politico», detto questo, si potrebbero scrivere pagine intere. Nel maggio 2010 dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»: e in molti vi lessero un riferimento a Forza Italia. Poco tempo dopo dichiarò che il centrodestra aveva introdotto leggi eccellenti sulla mafia e che il governo Berlusconi era da premio. Aggiunse pure che Ingroia «fa politica utilizzando la sua funzione. È sbagliato, ma per la politica è tagliato». Aveva ragione, ma figurarsi il Travaglio del giorno dopo: «Ingroia è uno dei pm che indagano sulle trattative Stato-mafia, che quando Grasso era procuratore a Palermo erano tabù, e che coinvolsero anche la Banda Berlusconi». Subdolo come suo solito. Persino Massimo Ciancimino, ex cocco di Ingroia e Travaglio, tentò di sputtanare Grasso: e in effetti mancava. Non c’è riuscito Ciancimino e non c’è riuscito nessuno. Non ci riuscirà Travaglio. Resta divertente è che un tratto di Grasso ritenuto imperdonabile, secondo quanto ha scritto Travaglio, è una sua sostanziale impunità nel dire le stesse cose di Ingroia senza suscitare vespai; si trovano dichiarazioni di Grasso contro le leggi governative in tema di giustizia, contro la riforma dei pentiti, contro ogni ipotesi di riforma giudiziaria e antimafia. «Grasso», ha scritto Travaglio, «gode di una straordinaria libertà di parola, può dire ciò che vuole senza che gli piova addosso non solo un’azione disciplinare, ma nemmeno un attacco dei pasdaran berlusconiani… ha il raro privilegio di potersi permettere qualsiasi critica alla politica, senza che nessuno batta ciglio». È vero. Si chiama autorevolezza, o qualcosa del genere. Se da magistrato non ce l’hai, tuttavia, puoi lagnartene in televisione a mezzo Travaglio.

A proposito di Dell’Utri. La condanna di Marcello Dell’Utri (Palermo, 1941) da parte della Corte di Appello di Palermo, dopo l’annullamento di una precedente condanna della Corte di Cassazione, coincide con il ritiro del più grande amico e compagno di avventura di Silvio Berlusconi dell’attività politica e parlamentare. Bisogna ricordare, infatti, che Dell’Utri, divenuto negli anni Ottanta presidente e amministratore prima di Publitalia, quindi amministratore delegato del gruppo Fininvest, è stato nel 1993 il fondatore di Forza Italia con l’imprenditore di Arcore e dal 1996 è deputato al parlamento nazionale, tre anni dopo è parlamentare europeo e, dal 2001 fino al 2013, senatore della repubblica del PDL. Una carriera politica di tutto rispetto “nobilitata” – si fa per dire – dall’attività di raccoglitore di libri antichi e bibliofilo (che l’ex direttore sportivo di piccole squadre, come quella del quartiere Tiburtino-Casal Bruciato del Centro internazionale per la gioventù lavoratrice gestito dall’Opus Dei) svolge con continuità nel ventennio populista a Milano e a Palermo presiedendo biblioteche e circoli culturali (come la commissione per la Biblioteca del Senato) e cercando di intervenire nei dibattiti nazionali. «Non sono contento, non posso esserlo - ha spiegato ancora Dell'Utri ai cronisti - ma sono tranquillo. Del resto le cose non le posso cambiare io. Aspetto le prossime puntate di questo romanzo criminale che non poteva finire qui. La vita va avanti, c'è la trattativa e il resto. Il romanzo continua». E già. Perché comunque si concluda in Cassazione questo processo, spiega Mariateresa Conti su “Il Giornale”, c'è un altro dibattimento, sempre a Palermo, che incombe (inizia a maggio 2013) e che muove i primi passi, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia che vede l'ex senatore Pdl tra gli imputati. Tecnicamente, la sentenza, non ha fatto altro che ridefinire la condanna seguendo le indicazioni date dalla Cassazione, che aveva giudicato scarsamente motivata la condanna per il periodo compreso tra il 1978 e il 1982, quando Dell'Utri lasciò Berlusconi per andare a lavorare con Filippo Alberto Rapisarda. Non solo. Pur senza scardinare alla radice il castello accusatorio - così come era sembrato a caldo quando la Suprema corte aveva annullato, perché le considerazioni del pg sulla mancanza di prove e sul reato di concorso esterno erano state tranchant - la Cassazione, per il periodo dal 1982 al 1992, pur ritenendo dimostrati contatti tra Dell'Utri e i clan, aveva chiesto di dimostrare che ci fosse l'intenzione di aiutare la mafia. Si dovranno leggere le nuove motivazioni, ma vista la durezza della condanna - ai 7 anni si aggiunge il pagamento delle spese legali alle parti civili - è evidente che i giudici ritengano di aver trovato una soluzione. Del resto, sui rapporti con Vittorio Mangano (accusato di mafia e morto durante il processo di primo grado), il famoso «stalliere» portato da Dell'Utri ad Arcore per proteggere Silvio Berlusconi che temeva il sequestro di familiari, Dell'Utri non ha mai fatto marcia indietro. Ancora ieri, nelle dichiarazioni spontanee rese poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio ha ribadito: «Non ho mai aiutato la mafia ma ho aiutato soltanto a Milano Vittorio Mangano, che era una persona per bene».

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Arresti eccellenti in Sicilia: l’antimafia nella polvere. Montante, da paladino antimafia all'arresto. E c’è anche il caso Saguto, scrive il 15 Maggio 2018 "Prima da Noi". Non è la prima volta che presunti paladini dell’antimafia vengono arrestati con l’accusa di reati odiosi. Quello che emerge sempre più spesso è la doppiezza di certi personaggi che pubblicamente sfruttano il sentimento dell’antimafia per fare presa ma in privato utilizzano a pieno quella cultura che dicono di combattere. Ieri ad essere arrestato dopo una lotta al pizzo e le minacce che gli sono valse persino una scorta è stato Antonio Calogero Montante, 55 anni - erede di una fabbrica di bici di lusso fondata nei primi del '900 da suo nonno a Serradifalco e poi trasferita ad Asti e proprietario dell'Msa, un'azienda di respiro mondiale che progetta e produce ammortizzatori per veicoli industriali - è diventato in 13 anni, dal 2005, un imprenditore oltre che ricco anche importante e con tante cariche. Poi, negli ultimi anni, una repentina inversione di rotta, col coinvolgimento in indagini per concorso esterno con la mafia e, oggi, l'arresto per altri reati. Dopo aver sfondato negli affari, Montante si è dato da fare in Confindustria appoggiando nel 2007 la cosiddetta "rivolta degli imprenditori onesti" guidata da Ivan Lo Bello, che per la prima volta caccia dall'associazione chi non denuncia le richieste di estorsione. Nel 2005 è presidente di Sicindustria Caltanissetta, nel 2006 è vicepresidente di Confindustria Sicilia, presidente è Ivan Lo Bello. Nel 2008 viene nominato cavaliere del lavoro dal capo dello Stato Giorgio Napolitano per essersi "impegnato nella lotta contro le organizzazioni mafiose". Il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia dà a Montante la delega alla lotta a ogni forma di criminalità e nel 2009 l'imprenditore entra nella giunta nazionale dell'associazione. Poi una pioggia di cariche: Montante diviene presidente degli industriali siciliani (2012), presidente della Camera di commercio nissena, presidente di Unioncamere Sicilia, membro dell'agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia.

10 ANNI PER LA SCALATA. Insomma nel giro di una decina d'anni anni entra nel gotha decisionale dell'imprenditoria ma anche della politica siciliana "consigliando" anche qualche assessore da inserire nella giunta regionale e diverse iniziative a favore delle imprese (governi Lombardo e Crocetta) come la zona franca della legalità nel nisseno. L'ascesa di Montante è accompagnata dall'etichetta di esponente dell'antimafia supportata dai tanti protocolli d'intesa con questure, prefetture e associazioni antiracket col placet trasversale della politica da Beppe Lumia ad Angelino Alfano, da attestati di stima di tanti magistrati e con la risonanza sui media. E' potente, influente, elargisce favori, in tanti si rivolgono a lui per chiedere raccomandazioni. Ed è cosi, si legge nelle carte dell'inchiesta di Caltanissetta, che riesce a "fidelizzare" i suoi interlocutori e a "creare una vasta rete di rapporti (...) da poter all'occorrenza sfruttare per la tutela dei propri interessi".

LE PRIME ACCUSE. Montante è ormai leader osannato della svolta legalitaria degli imprenditori siciliani quando nel 2014 l'ex assessore regionale all'Energia Nicolò Marino lancia il primo sasso che rompe la quiete che lo avvolge: denuncia interessi non limpidi della Confindustria di Montante e Lo Bello nella gestione dei rifiuti. Passano pochi mesi e questa volta su Montante piomba un macigno: viene fuori la prima notizia di un'indagine della procura nissena per mafia. Alcuni pentiti parlano di lui. L'ordine dei giornalisti avvia un'indagine conoscitiva sui rapporti tra Montante, alcune testate e singoli professionisti. A fine 2015 un altro ex assessore regionale Marco Venturi si dimette da Confindustria e attacca Montante: è doppiogiochista, dice. Venturi incassa l'appoggio dell'ex presidente Irsap Alfonso Cicero. Nel gennaio 2016 la casa e gli uffici di Montante vengono perquisiti e viene scoperto un maxi-archivio di dossier creato con la complicità di poliziotti, finanzieri e carabinieri. Il presidente di Confindustria è ufficialmente indagato per concorso esterno (indagine cominciata nel giugno 2014) in associazione mafiosa: relazioni con uomini d'onore fin dagli anni '90, interventi per fare avere ad imprese mafiose lavori e appalti o assunzioni di personale, gestione opaca di alcune società e la creazione di risorse economiche occulte. Ieri l’arresto.

LA LUNGA LISTA. Ma c’è un’altra figura di spicco che deve essere ricordata quella del giudice Silvana Saguto, travolta dall'inchiesta che ha alzato il velo su un "sistema" di gestione disinvolta e interessata dei beni confiscati. Poi, come nel gioco del domino, un birillo ha trascinato dietro di sé tutta la filiera. E ha prima bruciato Pino Maniaci, bandiera dell'informazione "coraggiosa e minacciata", accusato di chiedere denaro per ammorbidire le sue inchieste. Poi ha scosso Antonio Ingroia, l'ex pm del processo sulla "trattativa" finito nel cono d'ombra delle inchieste della magistratura che gli contesta spese ingiustificate come amministratore di "Sicilia e servizi", una partecipata regionale. E infine ha spazzato via Roberto Helg, il presidente della Camera di commercio di Palermo che mentre tuonava contro la mafia del pizzo chiedeva tangenti per fare aprire un punto vendita all'aeroporto di Punta Raisi. Le prime avvisaglie del terremoto che ha investito l'antimafia popolata da molti paladini di una Sicilia incorruttibile erano arrivate con la caduta di Massimo Ciancimino e con lo smantellamento delle sue prove taroccate su cui hanno alzato il velo prima il processo per calunnia e infine le condanne.

IL GIUDICE CHE GESTISCE I BENI DELLA MAFIA. Il caso più paradossale è quello del giudice Saguto, anzi ex giudice. Non è stata arrestata ma il Csm l'ha destituita prima ancora che arrivasse la sentenza del processo in corso a Caltanissetta. Era già abbastanza chiaro lo spaccato ricostruito dalla polizia tributaria: Saguto aveva messo su, mattone su mattone, un modello di consulenze, incarichi e favori che rispondeva, dice l'accusa, più a logiche di arricchimento che a esigenze di giustizia. Il caso è diventato la punta emergente di un movimento antimafia finito nella polvere per avere sacrificato la propria credibilità con condotte che rovesciano il senso di un impegno proclamato ma non coerentemente praticato. Sono le contraddizioni che affiorano tra le pieghe di casi emblematici e che sono segnalate dal fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, con giudizi molto severi: "L'antimafia - ha detto don Ciotti - è ormai una carta d'identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L'etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi".

Dalla Saguto a Montante. L'antimafia nella polvere. Le inchieste giudiziarie che travolgono icone della lotta a Cosa nostra, scrive Lunedì 14 Maggio 2018 "Live Sicilia" (di Franco Nicastro per Ansa). Il tramonto dell'antimafia militante è cominciato con le prime ombre alzate quattro anni fa su Antonello Montante, oggi arrestato, e con la caduta di Silvana Saguto, travolta dall'inchiesta che ha alzato il velo su un "sistema" di gestione disinvolta e interessata dei beni confiscati. Poi, come nel gioco del domino, un birillo ha trascinato dietro di sé tutta la filiera. E ha prima bruciato Pino Maniaci, bandiera dell'informazione "coraggiosa e minacciata", accusato di chiedere denaro per ammorbidire le sue inchieste. Poi ha scosso Antonio Ingroia, l'ex pm del processo sulla "trattativa" finito nel cono d'ombra delle inchieste della magistratura che gli contesta spese ingiustificate come amministratore di "Sicilia e servizi", una partecipata regionale. E infine ha spazzato via Roberto Helg, il presidente della Camera di commercio di Palermo che mentre tuonava contro la mafia del pizzo chiedeva tangenti per fare aprire un punto vendita all'aeroporto di Punta Raisi. Le prime avvisaglie del terremoto che ha investito l'antimafia popolata da molti paladini di una Sicilia incorruttibile erano arrivate con la caduta di Massimo Ciancimino e con lo smantellamento delle sue prove taroccate su cui hanno alzato il velo prima il processo per calunnia e infine le condanne. Il caso più paradossale è quello del giudice Saguto, anzi ex giudice. Non è stata arrestata ma il Csm l'ha destituita prima ancora che arrivasse la sentenza del processo in corso a Caltanissetta. Era già abbastanza chiaro lo spaccato ricostruito dalla polizia tributaria: Saguto aveva messo su, mattone su mattone, un modello di consulenze, incarichi e favori che rispondeva, dice l'accusa, più a logiche di arricchimento che a esigenze di giustizia. Il caso è diventato la punta emergente di un movimento antimafia finito nella polvere per avere sacrificato la propria credibilità con condotte che rovesciano il senso di un impegno proclamato ma non coerentemente praticato. Come nel caso di Montante. Spinta dalle denunce di collusioni e corruzioni, rapida era stata la sua scalata negli organismi di rappresentanza dell'economia produttiva: era stato il capo della Confindustria siciliana e poi il responsabile della legalità nella Confindustria nazionale, oltre che il presidente della Camera di commercio di Caltanissetta. Il suo accreditamento era basato sull'immagine di un imprenditore che raccoglie e rilancia l'eredità morale di Libero Grassi, il primo a dire no alla mafia del pizzo e isolato per questo dalla stessa Confindustria. Ora la scoperta di una rete di protezione e di funzionari corrotti che facevano velo ai suoi rapporti con ambienti mafiosi è un colpo pesante all'immagine di un movimento che si era conquistato spazi di credibilità non solo nella politica (si pensava a Montante per nominare il capo dell'agenzia nazionale dei beni confiscati) ma anche tra magistrati, funzionari e uomini delle istituzioni. Sono le contraddizioni che affiorano tra le pieghe di casi emblematici e che sono segnalate dal fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, con giudizi molto severi: "L'antimafia - ha detto don Ciotti - è ormai una carta d'identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L'etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi". (di Franco Nicastro per Ansa)

Sicilia, arrestato Antonello Montante: l’ex leader industriali «spiava le indagini di magistratura e polizia». Ai domiciliari l’ex presidente di Sicindustria. L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Fermati 5 ufficiali e dirigenti di carabinieri, polizia e finanza. Indagato anche l’ex presidente del Senato Schifani che dice: «Non ne so nulla», scrive il 14 maggio 2018 Salvo Toscano su "Il Corriere della Sera". Antonello Montante, ex presidente della Confindustria siciliana ed ex delegato nazionale alla legalità per la confederazione degli industriali, è stato posto agli arresti domiciliari dalla polizia di Caltanissetta. L’imprenditore è attualmente presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta, presidente di Retimpresa Servizi srl di Confindustria Nazionale e presidente di Eicma Spa, la società che organizza il «salone del ciclo e motociclo», massima rassegna fieristica italiana che si tiene ogni anno a Milano. Con lui sono state finite ai domiciliari altre cinque persone (tra cui alti ufficiali di carabinieri e finanza e dirigenti di polizia). Ma soprattutto sono indagati anche Renato Schifani (che dice: «Non ne so nulla») e l’ex capo dell’Aisi Esposito. L’ex presidente del Senato sarebbe accusato di aver rivelato notizie coperte da segreto - apprese da Esposito che a sua volta le aveva avute da altri appartenenti alle forze di polizia - relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di Montante. In particolare, avrebbe riferito al docente universitario Angelo Cuva (indagato) che il colonnello Giuseppe D’Agata era indagato nel procedimento.

I provvedimenti di lunedì. Gli inquirenti ritengono che l’imprenditore fosse promotore di un sistema di spionaggio illecito. E che avrebbe, tra l’altro, cercato notizie sull’indagine che è aperta da anni a suo carico a Caltanissetta. Gli arrestati sono accusati, a vario titolo, di essersi associati allo scopo di commettere più delitti contro la pubblica amministrazione e di accesso abusivo a sistema informatico, nonché più delitti di corruzione. I provvedimenti di lunedì arrivano dopo una lunga indagine condotta dalla Squadra mobile di Caltanissetta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia. Montante, infatti, era finito sotto inchiesta per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa a seguito delle accuse di alcuni pentiti, sempre respinte dall’imprenditore, dopo essere stato tra i protagonisti della svolta antiracket di Confindustria, su cui in questi anni l’inchiesta a carico dell’imprenditore ha addensato nubi di sospetti.

Dossier e documentazioni. L’indagine, di cui si era appreso tre anni fa, ha portato nel gennaio del 2016 alla perquisizioni di abitazioni e uffici di Montante. In quella circostanza furono trovati in una “stanza segreta” dossier e documentazioni che riguardavano anche politici e magistrati. Ora, il provvedimento cautelare che però non fa riferimento a reati di mafia. Anzi, in una nota della Questura, è scritto nero su bianco che “le risultanze investigative, arricchitesi nel tempo grazie al con-tributo fornito da due ulteriori collaboratori di giustizia, pur confermando il dato relativo ai diretti rapporti in passato intrattenuti dal Montante con uomini di vertice dell’organizzazione Cosa nostra, non sono risultate sufficienti per affermare, in modo processualmente spendibile, la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa ipotizzato a carico dell’indagato”.

Leader antimafia. Montante è stato uno degli esponenti di punta della svolta antimafia di Confindustria ricoprendo anche la carica di responsabile nazionale per la Legalità. Il 22 gennaio di due anni fa, Montante aveva ricevuto un avviso di garanzia per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, venivano ipotizzati legami d’affari e rapporti di amicizia con Vincenzo Arnone, boss di Serradifalco, figlio di Paolino Arnone, storico padrino della provincia di Caltanissetta morto suicida in carcere nel 1992. Vincenzo Arnone è stato testimone di nozze di Montante. Ma sull’ipotesi di reato mafioso non sono stati trovati riscontri adeguati, ammettono gli inquirenti.

I nomi. Ai domiciliari vanno anche Giuseppe D’Agata, colonnello, già capocentro della Dia di Palermo poi approdato ai servizi segreti; Diego Di Simone ex sostituto commissario della squadra mobile di Palermo, assunto da Montante come responsabile della sicurezza; Marco De Angelis, sostituto commissario in servizio alla prefettura di Milano; Ettore Orfanello che ha lavorato alla Polizia Tributaria palermitana; l’imprenditore Massimo Romano, il cui interrogatorio era stato citato dalla procura nell’avviso di garanzia recapitato a Montante due anni fa. Sospensione per un anno nei confronti di Giuseppe Graceffa, vice sovrintendente della Questura di Palermo.

«Illecito sistema di potere». “L’oggetto principale del procedimento va individuato nell’illecito sistema di potere” ideato e attuato da Montante secondo gli inquirenti, “grazie ad una ramificata rete di relazioni e complicità intessuta con vari personaggi inseriti ai vertici dei vari settori delle istituzioni”. Le indagini svolte secondo una nota della Questura nissena dimostrerebbero che l’esponente confindustriale “al fine di preservare l’immagine faticosamente costruita di “uomo della legalità”, giocando in sostanza d’anticipo, abbia ispirato la sua azione ad una continua, spregiudicata attività di dossieraggio, raccogliendo abusivamente informazioni riservate sul conto dei suoi nemici, anche solo potenziali, ciò al fine di impedire che gli antichi legami intessuti con i boss mafiosi, potessero in qualche modo “tornare a galla”, ovvero al solo fine di screditare persone comunque a lui invise o in grado di contrastare i suoi interessi”. E questo anche indirizzando le indagini della Guardia di Finanza: il tutto, secondo gli inquirenti, in cambio di favori come assunzioni di familiari. “Quaranta persone sono state oggetto di dossieraggio, attraverso l’acquisizione di dati sensibili”, ha detto in conferenza stampa il procuratore capo di Caltanissetta Amedeo Bertone. “L’indagine condotta da uomini della polizia di Stato dimostra che il sistema ha gli anticorpi”, ha aggiunto il questore di Caltanissetta Giovanni Signer.

Gli altri indagati. Nell’inchiesta vi sarebbero anche altri 15 indagati, non raggiunti da alcun provvedimento, accusati di aver avuto in qualche modo un ruolo nella catena delle fughe di notizie. Tra di loro anche Andrea Cavacece, capo reparto dell’Aisi; Andrea Grassi, ex dirigente della prima divisione del Servizio centrale operativo della polizia; Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta e poi capocentro della Dia nissena; Mario Sanfilippo, ex ufficiale della polizia tributaria di Caltanissetta. Indagati anche il professore Angelo Cuva, Maurizio Bernava, Andrea e Salvatore Cali’, Alessandro Ferrara, Carlo La Rotonda, Salvatore Mauro, Vincenzo Mistretta e Letterio Romeo.

“Spiava le indagini di magistratura e polizia”: arrestato l’imprenditore Antonello Montante. Ai domiciliari l’ex presidente di Sicindustria e delegato legalità di Confindustria. E’ accusato di associazione a delinquere e corruzione. Blitz della squadra mobile di Caltanissetta, ai domiciliari altre cinque persone: un ex capocentro della Dia e il titolare della catena della grande distribuzione Mizzica - Carrefour Sicilia. Indagati l'ex presidente del Senato Schifani e l'ex capo dell'Aisi Esposito, anche loro avrebbe rivelato notizie riservate, scrive Salvo Palazzolo il 14 maggio 2018 su "La Repubblica". E’ stato il paladino dell’ultima stagione antimafia di Confindustria, l’ex presidente degli imprenditori siciliani Antonello Montante è ora agli arresti domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di esponenti delle forze dell’ordine. Le indagini della squadra mobile e della procura di Caltanissetta gli contestano di aver creato una rete illegale per spiare l’inchiesta che era scattata nei suoi confronti tre anni fa, dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia. Arresti domiciliari anche per altre cinque persone: il colonnello Giuseppe D'Agata, ex capocentro della Dia di Palermo poi passato ai servizi segreti, da qualche tempo era tornato in servizio nell'Arma; Diego Di Simone, ex sostituto commissario della squadra mobile di Palermo, diventato responsabile della sicurezza di Montante; Marco De Angelis, sostituto commissario in servizio prima alla questura di Palermo poi alla prefettura di Milano; Ettore Orfanello, ex comandante del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Caltanissetta; l'imprenditore Massimo Romano titolare della catena di supermercati "Mizzica" - Carrefour Sicilia, con oltre 80 punti vendita nella regione. Un sesto provvedimento, di sospensione dal servizio per un anno, riguarda Giuseppe Graceffa, vice sovrintendente della polizia in servizio a Palermo. Sarebbero i componenti della rete di spionaggio al servizio di Montante, questa l’accusa mossa dai sostituti procuratori Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, dall’aggiunto Gabriele Paci e dal procuratore capo Amedeo Bertone. Contestati a vario titolo i reati di accesso abusivo a sistemi informatici, favoreggiamento, rivelazione di notizie riservate. A Montante veniva contestato anche il concorso esterno in associazione mafiosa: secondo i pm, l'imprenditore "ha intrattenuto qualificati rapporti con esponenti di spicco di Cosa nostra", ma non ci sono gli elementi sufficienti per configurare il concorso esterno in associazione mafiosa. In totale, sotto inchiesta sono in 22. Nell’elenco figurano altri nomi eccellenti, non raggiunti da alcun provvedimento, dunque indagati a piede libero, anche loro accusati di aver fatto parte della catena delle fughe di notizie. Indagati l’ex presidente del Senato Renato Schifani; l’ex generale Arturo Esposito, ex direttore del servizio segreto civile (Aisi); Andrea Cavacece, capo reparto dell’Aisi; Andrea Grassi, ex dirigente della prima divisione del Servizio centrale operativo della polizia; Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta e poi capocentro della Dia nissena; Mario Sanfilippo, ex ufficiale della polizia tributaria di Caltanissetta. Indagati anche il professore Angelo Cuva, Maurizio Bernava, Andrea e Salvatore Calì, Alessandro Ferrara, Carlo La Rotonda, Salvatore Mauro, Vincenzo Mistretta e Letterio Romeo. L'avvocato di Montante, Nino Caleca, dice: "Dopo 4 anni, l'indagine per concorso esterno finisce comunque con un nulla di fatto, non sono stati trovati riscontri all'iniziale ipotesi accusatoria. Vengono contestati - prosegue il legale - solo singoli episodi che Montante chiarirà nelle sedi opportune". Il 22 gennaio di due anni fa, Montante aveva ricevuto un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa, venivano ipotizzati legami d’affari e rapporti di amicizia con Vincenzo Arnone, boss di Serradifalco, figlio di Paolino Arnone, storico padrino della provincia di Caltanissetta morto suicida in carcere nel 1992. Vincenzo Arnone è stato testimone di nozze di Montante. A caccia di riscontri, gli investigatori della squadra mobile nissena diretti dal vicequestore aggiunto Marzia Giustolisi avevano perquisito abitazioni e aziende dell’imprenditore. Era stata scoperta una stanza segreta nella villa di Serradifalco di Montante, una stanza piena di dossier su magistrati, politici ed esponenti della società civile. Ora, i magistrati ritengono che quei file siano il frutto di una massiccia attività illegale di spionaggio messa in campo dal leader di Confindustria.  Che, intanto, ha continuato a sostenere: "I pentiti che mi accusano sono mafiosi che ho contribuito a colpire duramente con le mie denunce". Eccolo, il nodo dell’inchiesta. Le denunce che Montante ha fatto alla magistratura nel corso degli ultimi anni: sincero slancio civico poi sancito nel codice etico di Confindustria (“Chi non denuncia è fuori dall’associazione”) o solo lo stratagemma di un imprenditore spregiudicato per rifarsi un’immagine antimafia?  Salvatore Dario Di Francesco, uno dei quattro pentiti dell’inchiesta, ha messo a verbale davanti i pm di Caltanissetta che il boss Vincenzo Arnone si sarebbe speso per l’elezione di Montante a presidente di Sicindustria.  Ma, adesso, le accuse di mafia restano sullo sfondo, e i guai giudiziari dell'ex capo dell'industriali siciliani sono per una lunga serie di corruzioni. Avrebbe comprato la fedeltà di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine con costosi regali e assunzioni per i familiari.

In Sicilia è finito in manette un altro paladino della legalità. Tangenti e talpe. L'inchiesta che ha portato all'arresto dell'ex presidente di Sicindustria, Antonello Montante, scrive Giuseppe Marinaro il 15 maggio 2018 su "Agi". Mazzette, favori, talpe, informazioni sensibili rubate, 007 e investigatori infedeli, rapporti pericolosi con i boss, ricatti e dossieraggi per sostenere un vasto sistema di potere e il grande inganno antimafia. Ingredienti venefici di questa sorta di spy story, fatta di tradimenti e affari, che ha come protagonista un 'eroe' decaduto della legalità, Antonello Montante, l'ex presidente di Sicindustria, indagato dal 2016 per concorso esterno in associazione mafiosa, ma finora al vertice della Camera di commercio di Caltanissetta e presidente di RetImpresa Servizi srl di Confindustria nazionale. Capace anche di condizionare alcune nomine e scelte nelle ex Giunte Crocetta. Per la procura nissena, che ha ottenuto il suo arresto, quello di alcuni investigatori e di un imprenditore, era il manovratore di una rete capace di intercettare e distorcere informazioni sulle indagini che lo riguardavano e di preservare la sua immagine e la sua influenza.

Un sistema di potere. Snodi di un "sistema di potere", ha spiegato il procuratore Amedeo Bertone, costruito con la complicità di soggetti delle istituzioni. Contestata l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'accesso abusivo al sistema informatico e alla corruzione. Tra gli arrestati Giuseppe D'Agata, ex capocentro della Dia di Palermo, dopo un periodo nei Servizi tornato tra i carabinieri; Marco De Angelis, sostituto commissario in servizio alla prefettura di Milano; Ettore Orfanello, ex comandante del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Palermo; Diego Perricone Di Simone, ex sostituto commissario della Squadra mobile di Palermo, attualmente security manager di Confindustria nazionale; nonché l'imprenditore nisseno della grande distribuzione Massimo Romano. Sospeso per un anno Salvatore Graceffa, vice sovrintendente della polizia a Palermo.

Politici e 007, la rete occulta. In tutto 22 gli indagati. Nell'elenco, non destinatari di misure restrittive, anche l'ex presidente del Senato ed esponente di Forza Italia Renato Schifani; l'ex generale Arturo Esposito, ex direttore del servizio segreto civile (Aisi); Andrea Cavacece, capo reparto dell'Aisi; Andrea Grassi, ex dirigente della prima divisione del Servizio centrale operativo della polizia; Romeo Letterio, nella qualità di comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Caltanissetta; Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta e poi capocentro della Dia nissena; Mario Sanfilippo, ex ufficiale della polizia tributaria di Caltanissetta. Indagati anche il professore Angelo Cuva e Maurizio Bernava. L'oggetto principale del procedimento, spiegano i magistrati, va individuato "nell'illecito sistema di potere" che l'industriale nisseno ha ideato e attuato nel tempo, "grazie a una ramificata rete di relazioni e complicità intessuta con vari personaggi inseriti ai vertici dei vari settori delle istituzioni". Montante "ha infatti con ogni mezzo tentato di indurre al silenzio le persone in grado di riferire circostanze compromettenti sul suo conto", in particolare sui rapporti intrattenuti in passato con esponenti mafiosi della provincia di Caltanissetta, "operando in modo da screditarne l'attendibilità, così da annullare il valore del contributo da queste offerto per l'accertamento della verità".

Boss, paladini e depistaggi. Ripetuti tentativi di depistare le indagini, "peraltro ispirati da fughe di notizie riconducibili a contesti istituzionali prezzolati". Una rete di complicità che era una vera e propria "centrale occulta di potere", che ha consentito a Montante di occupare progressivamente rilevanti posti di potere, fino ad arrivare a scalare i vertici di Confindustria. Una volta ai vertici di Confindustria, grazie ai ripetuti favori elargiti, in particolare sotto forma di assunzioni di parenti ed amici, Montante si è dimostrato in grado di "condizionare pesantemente l'attività di vari uffici pubblici, in particolare di vari appartenenti ad organismi di polizia". In particolare, è emerso il sistematico ricorso all'operato di appartenenti infedeli alla polizia di Stato per carpire abusivamente, attraverso accessi alle banche dati, notizie sensibili riguardanti la vita privata di una serie impressionante di soggetti a lui invisi; accertata l'esistenza di una rete di informatori corrotti, pronti a trasmettergli le informazioni "sensibili" contenute nella banca dati della polizia penitenziaria; Montante si garantiva anche il monitoraggio preventivo dei collaboratori di giustizia che avevano riferito circostanze a suo carico. Sono state le dichiarazioni rese da due imprenditori - un tempo assai vicini ad Antonello Montante, arrestato dalla Squadra mobile di Caltanissetta - l'ex assessore regionale Marco Venturi e l'ex presidente dell'Irsap Alfonso Cicero, a disvelare come la rete di relazioni che l'ex presidente di Sicindustria e presidente della Camera di commercio finito ai domiciliari insieme a esponenti delle forze dell'ordine, era riuscito ad instaurare, "sbandierando il vessillo della legalità, di cui si era fatto propugnatore e paladino", servisse in realtà - riferiscono i magistrati della procura di nissena - ad occultare i rapporti che egli aveva in passato certamente intessuto e coltivato con esponenti di spicco della criminalità organizzata". Anche alcuni pentiti hanno parlato dei rapporti stretto con i boss Paolo e Vincenzo Arnone (entrambi al vertice della cosca di Serradifalco e testimoni di nozze di Montante). "Pur confermando i diretti rapporti intrattenuti da Montante con uomini di vertice di Cosa nostra", le risultanze, avvertono i magistrati, non sono risultate sufficienti per "configurare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa". 

La stanza dei dossieraggi. Ciononostante, le indagini svolte hanno dimostrato come Montante, al fine di preservare l'immagine faticosamente costruita di "uomo della legalità", giocando in sostanza d'anticipo, abbia ispirato la sua azione "a una continua, spregiudicata attività di dossieraggio, raccogliendo abusivamente informazioni riservate sul conto dei suoi nemici, anche solo potenziali, ciò al fine di impedire che gli antichi legami intessuti con i boss mafiosi, potessero in qualche modo tornare a galla, ovvero al solo fine di screditare persone a lui invise o in grado di contrastare i suoi interessi". Occupazione spasmodica di Montante era precostituire documentazione da spendere in futuro per neutralizzare possibili future accuse, puntualmente accreditando la tesi del complotto ai suoi danni in ragione del suo impegno sul fronte antimafia. Nel 2016 nel corso di una perquisizione nell'abitazione di Montante di Serradifalco, la Squadra mobile di Caltanissetta ha trovato una "stanza segreta" al piano seminterrato, il cui accesso era nascosto da una finta parete a libreria, con una porta blindata. L'analisi del contenuto di un file Excel ha messo in risalto la certosina annotazione di incontri ed appuntamenti, nonché di telefonate e messaggi di testo (inviati e ricevuti) da soggetti appartenenti ad ogni contesto, prevalentemente istituzionale, nonché la registrazione di conversazioni intrattenute con terzi, effettuate personalmente o per il tramite di soggetti di fiducia, la conservazione di documentazione della più svariata natura, ivi compresa quella attestante vari "favori" richiesti a Montante nel corso del tempo. La strategia messa in campo da Montante risulta dunque essere stata quella di screditare sistematicamente in via preventiva tutti coloro che nel tempo si sono posti in maniera critica nei suoi confronti, via via tacciandoli di "mafiosità" o di non meglio precisate collusioni con un sistema di potere al cui interno poter ricomprendere, di volta in volta e in maniera indiscriminata, tutti coloro che non si adeguavano al 'nuovo corso' "da lui voluto e propugnato in nome della legalità, veicolando all'esterno l'immagine di una svolta legalitaria solo proclamata".

Antonello Montante: da fabbricante di biciclette di provincia all'uomo di potere a caccia di poltrone. Il ritratto dell'ex presidente di Confindustria Sicilia. Dalle origini fino alla svolta antimafia con Lo Bello e i governi Lombardo e Crocetta, scrive Antonio Fraschilla il 14 maggio 2018 su "La Repubblica". Dieci novembre 2007. Il Teatro Biondo è gremito. L'occasione è importante: sul palco Ivan Lo Bello annuncia l'adesione di Confindustria Sicilia ad Addiopizzo. "Oggi chiediamo scusa a Libero Grassi", dice tra gli appalusi. E' la svolta, almeno questo sembra, di un'associazione dall'immagine paludata dopo scandali, silenzi e arresti dei vertici negli anni precedenti. Di certo però quel giorno segna l'ascesa formidabile di un gruppo di dirigenti, Lo Bello e Antonello Montante su tutti, che trasformeranno presto Confindustria Sicilia in una formidabile lobby di potere che per anni entrerà nei palazzi della politica in prima persona. Montante da Serradifalco, titolare di una piccola azienda di ricambi ed erede della fabbrichetta di bici fondata dal nonno, alla quale anche Camilleri dedicherà un racconto, diventa presto il dominus oscuro della lobby, il regista delle trame di potere e delle relazioni che contano. E da via Volta arriverà ad avere un ruolo e una influenza fortissima anche nell'associazione nazionale grazie ai suoi rapporti con Emma Marcegaglia. Da "paladino della legalità" a uomo potente al quale politici e imprenditori, quei pochi che non hanno preso le valigie e abbandonato Confindustria Sicilia perché non graditi oppure in aperto contrasto, dovevano chiedere udienza. L'ingresso nei palazzi della politica Montante e Confindustria lo fanno durante il governo Lombardo e l'intesa con il Partito democratico dopo la rottura con Forza Italia. In giunta si siede Marco Venturi, un fedelissimo di Montante, suo grande amico d'infanzia diventato adesso uno dei suoi principali accusatori per aver sfruttato la "rivolta antimafia" solo per fare carriera. E anche per altro. Con Venturi in giunta per la prima volta Confindustria entra direttamente a Palazzo d'Orleans. Ci rimarrà per otto lunghi anni, sempre con volti di fiducia di Montante. Arrivato al governo Rosario Crocetta, in giunta si siede Linda Vancheri, una sua fedelissima. La delega e sempre la stessa: Attività produttive. "Io conosco solo un Montante che combatte la mafia", ha sempre detto l'ex governatore Crocetta, che ha sempre messo bocca su tutti gli assessorati, tranne su uno: quello alle Attività produttive. E quando Crocetta avvia un’ispezione sulle spese della Regione per l'Expo, nel mirino finisce solo la parte, 3 milioni di euro, gestita da Dario Cartabellotta. Nulla sugli 8 milioni spesi dalle Attività produttive. Grazie alla poltrona dell'assessorato Attività produttive, Montante e il suo cerchio magico iniziano a governare le ex Asi, le aree industriali dell'Isola poi accorpate, con Lombardo, in un unico ente che viene affidato ad Alfonso Cicero: altro suo fedelissimo diventato adesso acerrimo avversario come Venturi.  Montante nel frattempo diventa presidente di Confindustria Sicilia dopo Lo Bello. Tra il 2010 e il 2015 è l'uomo più potente della Sicilia, con assessori nelle giunte di governo e un ottimi rapporti con i politici in ascesa e che contano: prima Lombardo, poi Beppe Lumia, il senatore antimafia che sostiene la "rivolta" degli industriali. Tutti gli imprenditori che hanno capannoni industriali nelle ex Asi devono passare da questo cerchio magico, i bandi dell'assessorato destinati alle imprese hanno la stessa regia. Da lì gli uomini del cerchio magico prendono la guida delle Camere di commercio fino a Unioncamere nazionale. Solo un'operazione, alla quale Montante teneva, sfuma: quella dell'Ast, l'Azienda trasporti siciliana. Socio di minoranza di una controllata, la Jonica trasporti, con il governo Lombardo si progetta la "incorporazione per fusione" delle controllate nella capogruppo: Montante sarebbe diventato socio dell'Ast con diritto di prelazione sulle azioni. Operazione poi sfumata, con Montante che per la mancata ricapitalizzazione presentò all'Ast un conto da 1,2 milioni di euro (mai saldato). Montante comunque subito dopo la giornata "della svolta" al Teatro Biondo inizia a coltivare la sua immagine nazionale. Soprattutto grazie all'azienda di famiglia, la Montante cicli. Il libro di Camilleri rilancia l'immagine dell'azienda, poi arriva il Giro d'Italia a festeggiare la Montante cicli, lui inizia a regalare biciclette alle forze dell'ordine, dalla polizia ai vigili urbani di Palermo. Cresce la sua influenza, grazie anche ai buoni rapporti con l'allora ministro degli Interni Angelino Alfano.  E in Confindustria nazionale, sotto la presidenza Marcegaglia, arriva ad avere la vice presidenza con delega alla legalità Insomma, una stanza, e importante, in viale dell'Astronomia. Da lì piazza anche suoi uomini nel cda del Sole 24 Ore, diventa un volto dell'associazione nazionale. Potente, da Palermo a Roma. Omaggiato e corteggiato, da politici a magistrati. Fino al 9 febbraio 2015: quando Repubblica scrive la notizia della indagine per mafia avviata dalla procura di Caltanissetta che lo coinvolge in prima persona. Inizia la grande eclissi. Scompare, non si vede più in scene pubbliche, ad eccezione di qualche caso sporadico, come la premiazione a New York degli italiani eccellenti fatta da Panorama. Nell'estate del 2015 La Vancheri lascia l'assessorato. Pezzi del suo cerchio magico gli si rivoltano contro sconvolti da quanto emerge, ed emergerà, nel corso dell'indagine: compresa la stanza con i dossier e gli appunti suo favori chiesti a lui politici e da magistrati che volevano essere promossi al Csm o che volevano vendere la loro abitazione. Lui poteva tutto, d'altronde, durante gli anni d'oro. Prima dell'eclissi e dell'epilogo di oggi che, qualsiasi sarà poi la decisione finale dei giudici, segna in maniera irreparabile l'immagine di un fu potente di Sicilia.

Montante, “Lumia chiese soldi in nero per la campagna di Crocetta”. Nelle carte l’interesse per le telefonate di Napolitano. Nelle intercettazioni dell'inchiesta sull'ex paladino dell'antimafia Antonello Montante c'è un dialogo nel quale si parla di una richiesta di 20mila in euro dell'ex senatore Pd Beppe Lumia. E spunta l'interesse di Giuseppe D'Agata, colonnello con un passato nei servizi, per duplicare le intercettazioni di Giorgio Napolitano. Il gip: "La moglie era preoccupata, ne parlano a mesi di distanza. Occorre continuare ad interrogarsi sulle possibili ragioni di un simile stato d’animo", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 14 maggio 2018. Le richieste di soldi in nero per la campagna elettorale di Rosario Crocetta e la “preoccupazione” per una possibile duplicazione delle intercettazioni tra l’ex senatore Nicola Mancino e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Negli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che ha portato ai domiciliari l’ex paladino dell’antimafia, Antonello Montante, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di esponenti delle forze dell’ordine, c’è anche un dialogo che tocca l’ex senatore del Pd Beppe Lumia e l’ex governatore della Sicilia, Rosario Crocetta. Oltre all’interesse del colonnello Giuseppe D’Agata, ex capocentro della Dia di Palermo e un passato nei servizi segreti, per le telefonate tra Mancino e il Quirinale effettuate nell’ambito del processo sulla Trattativa Stato-Mafia.

“Passata la segretaria di Crocetta”. I presunti finanziamenti in nero per la campagna elettorale di Rosario Crocetta spuntano in un dialogo tra l’ex capo dell’Irsap Alfonso Cicero e l’ex assessore Marco Venturi. I due sono negli uffici della Sidercem e parlano di 20 mila euro in nero richiesti nel 2012 dall’ex senatore dem Lumia a Venturi. Cicero e l’ex assessore ne discutono durante la preparazione di un documento per cristallizzare i ricordi di Venturi prima di rendere dichiarazioni ai magistrati. La richiesta apparve strana a Venturi perché arrivava a fine della campagna elettorale. Lumia, andato a Caltanissetta per incontrare Venturi, gli avrebbe detto che poi “sarebbe passata la segretaria di Crocetta”.

La richiesta di una denuncia falsa. Lumia viene chiamato in causa anche dall’imprenditore Massimo Romano, re dei supermercati in Sicilia, arrestato nell’operazione. L’ex senatore Pd avrebbe invitato l’imprenditore a denunciare un’estorsione in realtà mai avvenuta. Lo dice lo stesso Romano in un colloquio intercettato il 18 settembre 2015 negli uffici Sidercem di Marco Venturi, a Caltanissetta, con Alfonso Cicero e Venturi. Stesse pressioni avrebbe avuto da Montante. Nel luglio 2016 interrogato a Caltanissetta dai magistrati Romano ribadisce che – in un incontro a Roma con Montante – Lumia gli disse che faceva parte del “percorso legalità” e che se non avesse denunciato avrebbe creato “un neo” al percorso intrapreso. Anche nel corso di un’altra riunione nell’azienda di Venturi, sempre secondo Romano, Lumia “insistette affinché mi recassi in procura a denunciare ma mi mostrai fermo nelle mie convinzioni e annunciai che mi sarei dimesso da Confidi e Confindustria. Presentai le dimissioni che non venero accettate”.

D’Agata e le intercettazioni. Il colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, indagato anche lui nell’inchiesta della procura di Caltanissetta, si interessò a una possibile duplicazione delle intercettazioni tra Mancino e Napolitano. Di quelle intercettazioni si parlò a lungo a cavallo tra il 2012 e il 2013, quando finirono di fronte alla Corte Costituzionale che ne dispose la distruzione, e poi di nuovo nel novembre 2015, quando il ministero della Giustizia dispose un’ispezione proprio per verificare che non vi fossero state omissioni o irregolarità. L’ordinanza si focalizza in particolare sulla “questione che aveva ingenerato nel D’Agata una certa preoccupazione e che riguardava la richiesta giunta alla Dda di Palermo da ambienti del ministero della Giustizia tesa ad escludere” che le intercettazioni “potessero essere state in qualche maniera duplicate”. Preoccupazioni emerse anche a seguito di articoli di stampa e che furono oggetto di commenti nelle conversazioni tra D’Agata e la moglie, intercettate a fine 2015 dai magistrati di Caltanissetta. L’interesse dell’ex 007 era vivo anche a inizio 2016, quando chiese informazioni a esponenti della Dia e poi ne discusse direttamente con l’ex direttore dell’Aisi Arturo Esposito, pure lui indagato, “il quale però – riporta l’ordinanza – non aveva dato alcun peso alla vicenda” e lo aveva poi informato che i progetti relativi al suo futuro lavorativo “non erano cambiati e stavano subendo solo dei ‘rallentamenti’“.

“Occorre interrogarsi sulle ragioni”. “Si noterà – si legge nell’ordinanza sempre a proposito di questo argomento – come la questione della possibile duplicazione delle intercettazioni captate nell’ambito del processo “Trattativa” costituisse, evidentemente, motivo di preoccupazione per la Battiato“, ossia la moglie di D’Agata, “ed occorre continuare ad interrogarsi sulle possibili ragioni di un simile stato d’animo, dovendosi ribadire la scarsa attinenza – almeno in astratto e da ciò che è possibile, allo stato, conoscere – con la vicenda giudiziaria del Montante e con i rapporti esistenti tra questi ed il D’Agata”. “Interrogativi – prosegue l’atto – che divengono ancora più pressanti laddove si tenga in debita considerazione che la vicenda in esame continuava ad essere oggetto dei commenti dei due coniugi anche alcuni mesi dopo rispetto alla conversazione di cui si sta disquisendo in questa sede”.

Politici, burocrati, sindacalisti. Montante, sono 22 gli indagati, scrive Antonio Condorelli il 14 maggio 2018 su "Live Sicilia". Nell'elenco anche l'ex presidente del Senato Schifani e l'ex big della Cisl Bernava. Politici di spessore, sindacalisti, imprenditori e autorevoli esponenti delle istituzioni. Gli indagati dell'inchiesta della Squadra mobile di Caltanissetta sul sistema Montante sono ventidue. Da oltre tre anni, gli agenti della questura guidata da Giovanni Signer, sotto il coordinamento del procuratore Amedeo Bertone, hanno seguito i movimenti e i contatti del potente leader di Confindustria, da anni sotto scorta ma, secondo le indagini, a capo di un'associazione per delinquere che si sarebbe avvalsa di rapporti, strettissimi, con esponenti istituzionali di primissimo piano. Rapporti alimentati, secondo le ipotesi dell'accusa, da assunzioni e favori. Per questo, gli uomini della Mobile guidata da Marzia Giustolisi hanno scavato anche nei rapporti tra alcuni colleghi infedeli, che avrebbero rivelato notizie coperte da segreto per favorire Montante.

TUTTI I NOMI DEGLI INDAGATI - Antonio Montante, Gianfranco Ardizzone, Maurizio Bernava, Andrea Calì, Salvatore Calì, Andrea Cavacece, Angelo Cuva, Giuseppe D'Agata, Marco De Angelis, Diego Di Simone Perricone, Arturo Esposito ex direttore del servizio segreto civile, Alessandro Ferrara, Salvatore Graceffa, Andrea Grassi, Carlo La Rotonda, Salvatore Mauro, Vincenzo Mistretta, Ettore Orfanello, Massimo Michele Romano, Letterio Romeo, Mario Sanfilippo, Renato Schifani, ex presidente del Senato.

Montante è accusato di essere il capo dell'associazione per delinquere, attraverso Diego De Simone, avrebbe tenuto i rapporti con appartenenti alle forze di polizia “al fine di indirizzare le attività di costoro in maniera tale da garantire i propri personali interessi e quelli di coloro che a lui sono strettamente legati e di ottenere, ai medesimi fini, informazioni di natura riservata”. Massimo Romano, imprenditore, attraverso la propria attività, avrebbe assicurato assunzioni, Gianfranco Ardizzone, comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta ed Ettore Orfanello e Mario Orfanello, del nucleo di polizia di Caltanissetta e comandante della sezione tutela Finanza pubblica, “dietro elargizione di favori per loro stessi o per amici e familiari”, avrebbero soddisfatto “gli interessi personali di Montante e di Romano”.

Giuseppe D'Agata, comandante provinciale dei carabinieri e capo centro della Dia di Palermo, nonché capo centro della Dia di Palermo e appartenente all'Aisi, avrebbe fornito a Montante “informazioni di natura riservata acquisite attraverso le attività d'ufficio condotte anche quelle eseguite sul conto dello stesso Montante”.

Diego Di Simone Perricone, Marco De Angelis, sostituto commissario della polizia di Stato prima in servizio nella Questura di Palermo, Salvatore Graceffa, vice sovrintendente della polizia di stato, avrebbero effettuato accessi abusivi al sistema Sdi reperendo informazioni di natura riservata. Di Simone avrebbe mantenuto rapporti con soggetti titolari della ditta Calì Service “al fine di bonificare gli immobili abitualmente frequentati dal Montante”. Andrea grassi, dirigente della prima divisione dello Sco di Roma, Andrea Cavacece, capo reparto dell'Aisi, Arturo Esposito, direttore dell'Aisi, avrebbero veicolato a Montante informazioni riservate.

Montante è indagato per violenza privata perché “mediante minaccia” avrebbe fatto capire ad Alfonso Cicero, ex commissario dell'Irsap, di avere a disposizione documenti sul suo conto, avrebbe fatto firmare allo stesso Cicero una lettera retrodatata rispetto alla sua audizione in commissione Antimafia, “nella quale doveva dar conto che le circostanze esposte in quella sede erano il frutto di suoi suggerimenti”.

Vincenzo Mistretta è accusato di favoreggiamento perché avrebbe aiutato Montante a eludere le investigazioni della Procura, attivandosi “per contattare persone che dovevano essere escusse dalla polizia”.

Carmelo Calì è indagato per aver aiutato Montante a eludere le investigazioni che la Procura stava eseguendo bonificando la sua abitazione. Indagato anche Andrea Calì, per aver effettuato, su richiesta di Montante, bonificato l'abitazione e le sue autovetture.

Un capo d'indagine, per simulazione di reato, vede indagati Salvatore Calì, Salvatore Mauro, Montante, Diego Di Simone Perricone e Carlo La Rotonda. Calì e Mauro avrebbe “provveduto a creare le tracce della materiale installazione di un impianto audio video” nella sala d'aspetto di Confindustria Centro Sicilia, in pratica un apparato di intercettazione, e successivamente La Rotonda avrebbe presentato una denuncia alla polizia simulando che qualcuno avesse installato, abusivamente, cimici in Confindustria.

Letterio Romeo, comandante del reparto operativo del comando provinciale dei carabinieri di Caltanissetta, avrebbe “occultato” una relazione di servizio, con la quale attestava “di aver ricevuto da Antonio Montante una telefonata dal contenuto minatorio durante la quale quest'ultimo lo invitava a fare attenzione a ciò che facesse, poiché, altrimenti, gli avrebbe rotto tutti i denti, alludendo in particolare al rinvenimento, in sede di perquisizione locale eseguita nei confronti di Vincenzo Arnone, di alcune fotografie che lo ritraevano, tra gli altri, con lo stesso Arnone e con Salvatore Dario Di Francesco”.

Maurizio Bernava, leader nazionale della Cisl, è accusato di aver favorito Montante perché dopo essere stato sentito dalla Procura di Caltanissetta come persona informata sui fatti, avrebbe rivelato a Montante “il contenuto di parte delle dichiarazioni contenute nel verbale”, per il quale era stato disposto il divieto di comunicazione di fatti o circostanze oggetto dell'indagine. Giuseppe D'Agata, comandante provinciale dei carabinieri di Caltanissetta è indagato di corruzione per aver fornito informazioni riservate e per aver bonificato, senza autorizzazione, alcuni immobili di Montante, in cambio della promessa dell'interessamento di Montante “affinché la moglie venisse dapprima nominata e successivamente confermata quale presidente dell'Ias Spa di Siracusa. D'Agata avrebbe rivelato anche notizie coperte da segreto istruttorio.

Un corposo capo d'indagine per corruzione vede indagati Montante insieme all'imprenditore Massimo Romano e a Ettore Orfanello, comandante del nucleo di polizia Tributaria della guardia di finanza di Caltanissetta, “per aver orientato e per orientare attività di verifica, controllo fiscale e d'indagine in senso favorevole alle società riconducibili ad Antonio Montante, Massimo Romano e a quelle di soggetti segnalati dallo stesso Montante”, in cambio, sarebbe stata assunta Maria Rosaria Tirrito alle dipendenze del Confidi di Caltanissetta e sarebbe stata promessa la sua assunzione in uno dei supermercati riconducibili ai Romano e in una impresa di vigilanza. Montante è indagato con Massimo Romano e Gianfranco Ardizzone, comandante provinciale della guardia di finanza di Caltanissetta, “per aver indirizzato e consapevolmente avallato l'operato di Orfanello e Mario Sanfilippo”, che avrebbero effettuato controlli fiscali favorevoli a Montante e Romano, in cambio dell'assunzione della figlia Giuliana nel Confidi di Caltanissetta. Montante si sarebbe interessato anche per il trasferimento di Ardizzone alla Dia di Caltanissetta.

Sanfilippo, del nucleo di polizia tributaria di Caltanissetta, è accusato di corruzione insieme a Massimo Romano, “per aver compiuto attività di verifica, controllo fiscale e d'indagine in senso favorevole alle società riconducibili a Antonello Montante e Massimo Romano”, in cambio dell'assunzione della sorella Calogera alle dipendenze della società Max Market Srl di Romano e alla promessa di assunzione del figlio Davide alle dipendenze di Carmelo Carbone”.

Alessandro Ferrara, dirigente regionale, è attualmente commissario del Fondo Pensioni della Regione. L'indagine nei suoi confronti per favoreggiamento personale fa riferimento al periodo in cui era dirigente generale del dipartimento Attività produttive. Secondo l'accusa Ferrara "avrebbe aiutato Montante ad eludere le investigazioni che la Procura stava eseguendo sul conto dello stesso".

Sono tre i capi d'imputazione che riguardano Renato Schifani. Nel primo l'ex presidente del Senato è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio assieme all'ex direttore della prima divisione dello Sco Andrea Grassi, del capo reparto dell'Aisi Andrea Cavacece e del docente dell'Università di Palermo Angelo Cuva. Secondo l'accusa, Grassi - dopo aver appreso la notizia dalla squadra mobile di Caltanissetta - avrebbe rivelato a Cavacece che erano state disposte delle intercettazioni nei confronti di Montante e che il colonnello D'Agata fosse indagato nello stesso procedimento in cui era coinvolto l'ex presidente di Sicindustria. Cavacece, sostiene sempre l'accusa, a sua volta avrebbe rivelato che vi erano intercettazioni nei confronti di Montante sia al suo capo, il generale Esposito, sia a D'Agata. A quest'ultimo, però, non avrebbe detto che era indagato, cosa che invece avrebbe riferito al direttore dell'Aisi. Quest'ultimo, tramite D'Agata, avrebbe fatto arrivare a Montante la notizia che era intercettato. Sempre Esposito, si legge ancora nel capo di imputazione, avrebbe rivelato a "Valerio Blengini - affinché si recasse da Bruno Megale, questore di Caltanissetta, al fine di attingere informazioni - e a Renato Schifani, la notizia...che D'Agata fosse indagato". Ed è a questo punto che entra in gioco Schifani. L'ex presidente del Senato "rivelava a Cuva la notizia, veicolata dal Grassi ed appresa dal generale Esposito, che D'Agata fosse indagato". Cuva, infine, riferì le informazioni allo stesso D'Agata. Schifani - assieme a Esposito e Cuva - è anche indagato per aver detto al professore, dopo averlo appreso dall'ex direttore dell'Aisi, che erano state disposte delle intercettazioni nei confronti della moglie di D'Agata. L'accusa di favoreggiamento, con Cuva, fa invece riferimento al fatto che i due "aiutavano Montante e D'Agata ad eludere le investigazioni che la procura della Repubblica di Caltanissetta stava eseguendo sul loro conto".

LA NOTA DI SCHIFANI. "Apprendo con stupore l'indagine a mio carico riguardo una mia presunta condotta, che è assolutamente inesistente. Mi riservo, piuttosto, di denunciare per millantato credito chi per ipotesi mi ha coinvolto e fin d'ora sono a disposizione dell'Autorità giudiziaria per comprendere meglio la vicenda ed avviare tutte le iniziative opportune, al fine di tutelarmi da un'accusa palesemente infondata. Rivendico, infine, che non ho mai avuto alcuna amicizia o frequentazione con il signor Montante, a dimostrazione dell'assoluto disinteresse nei confronti di quest'ultimo". Lo dichiara il senatore di Forza Italia, Renato Schifani.

LA NOTA DELLA CISL. Maurizio Bernava non è più segretario confederale della Cisl dalla quale è uscito oltre un anno fa. Lo rende noto la stessa organizzazione sindacale. Attualmente Bernava è dirigente di Fondimpresa, il Fondo interprofessionale per la formazione continua di Confindustria.

LA NOTA DI BERNAVA. "Apprendo solo nel pomeriggio di oggi e solo attraverso notizia pubblicata da agenzie di stampa che il sottoscritto sarebbe indagato dalla Procura di Caltanissetta in merito alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto Antonello Montante. Ci tengo ad esprimere il mio totale stupore nell’apprendere tali notizie riferite alla mia persona visto che fino a questo momento non ho ricevuto alcuna informativa o nessun provvedimento da parte dell’Autorità giudiziaria. Per tal motivo ho dato immediato mandato al mio legale per attivarsi nei confronti della Procura per acquisire informazioni nel merito e comprendere, qualora esistesse, il motivo di un mio eventuale coinvolgimento. Sono altresì sereno in quanto consapevole che nelle mie attività e relazioni istituzionali ho sempre agito con correttezza, rettitudine e rispetto delle regole". Lo dichiara Maurizio Bernava.

Montante, nemici, dossier e affari. Spiati gli assessori Marino e Armao, scrive Antonio Condorelli il 14 maggio 2018 su "Live Sicilia". Dossieraggio su esponenti della politica e delle istituzioni, telefonate e incontri registrati, catalogati e conservati. Curriculum di parenti di politici e appartenenti alle forze Armate.

C'è un capitolo dell'indagine su Antonello Montante che scotta, l'imprenditore, già leader nazionale di Confindustria ha “di certo – scrivono i magistrati – voluto acquisire informazioni su persone che hanno rivestito un ruolo politico in ambito regionale e che erano entrate in rotta di collisione, in relazione alle più svariate vicende, con la sua persona e col sistema confindustriale siciliano”. Gli investigatori della Squadra mobile di Caltanissetta sostengono che Montante avrebbe eseguito “accertamenti”, su Nicolò Marino, ex assessore di Crocetta ai rifiuti, suo acerrimo nemico, e su Gaetano Armao, attuale assessore regionale al bilancio e vicepresidente di Nello Musumeci.

DOSSIER MARINO - Sul conto di Nicolò Marino e dei suoi figli è stato eseguito un accesso alla banca dati Sdi nel 2016. Nello stesso anno, intervistato da La Sicilia, Marino aveva descritto “le istituzioni che hanno coperto il sistema Montante”. L'accesso sarebbe stato effettuato da Giuseppe Graceffa, vice sovrintendente della Questura di Palermo il 7 luglio 2016 e sarebbe stato “sollecitato” da Montante, attraverso Diego Di Simone ex sostituto commissario della squadra mobile di Palermo e Marco De Angelis, pure lui sostituto commissario, ma in servizio alla prefettura di Milano. Le cimici della Mobile hanno registrato, il 14 febbraio del 2016, all'interno della casa di Montante, “uno scambio di battute” con Giuseppe Catanzaro, big di Confindustria e re dei rifiuti in forte contrasto con Marino. Montante e Catanzaro parlano dell'invio di una lettera al presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi e al ministro dell'interno Alfano; all'improvviso le cimici registrano: “U numero di targa da machina di Marino...”. Montante avrebbe incontrato a Roma il colonnello Litterio Romeo, il giorno dopo che quest'ultimo fosse interrogato dalla Procura di Caltanissetta. Secondo quanto ha rivelato Alfonso Cicero agli inquirenti, Montante sarebbe stato in possesso di video sulla vita privata di Marino ed era pronto a farli diffondere da un giornale online.

L'INCONTRO - Marino, nel 2014, aveva svelato, agli inquirenti, i particolari di un incontro che sarebbe avvenuto il 18 dicembre del 2014 tra il senatore Lumia del Pd, Ivan Lo Bello e Montante che, “visibilmente adirato” lo avrebbe invitato “a non raccogliere più informazioni sul suo conto”, aggiungendo, poi, “che se avesse voluto fare la guerra a colpi di dossier si sarebbe fatto trovare pronto”. L'esistenza dell'incontro è stata confermata dalle agende di Montante: il 7 ottobre del 2013, nella cartella dei file excel, è stato annotato l'incontro “ore 21/22 Catania con Lo Bello, Marino e Peppe Excelsior”. Il 23 agosto del 2014 Montante annota l'esistenza di una “lettera anonima indirizzata a Confindustria nazionale sede viale Astronomia Roma, a firma di un funzionario fedele, dice che Nicolò Marino cercava pentiti e notizie per incastrare Lo Bello e Montante”.

DOSSIER ARMAO - Altro obiettivo del dossieraggio di Montante sarebbe stato Gaetano Armao, nei confronti del quale sono stati registrati diversi "monitoraggi" attraverso l'utilizzo di accessi illeciti ai database governativi. Armao, interrogato dagli inquirenti, ha parlato degli interessi del leader di Confindustria. Montante, “attraverso l'operato politico del senatore Pistorio e del senatore Lumia, aveva sostenuto e appoggiato il mutamento di maggioranza che aveva poi sorretto la giunta presieduta da Lombardo”.

TERMINI IMERESE - Armao parla anche del dopo Fiat a Termini Imerese e del “diretto interesse” nell'affare di Montante e del senatore Lumia. Il vicepresidente di Musumeci ha dichiarato che era stato richiesto all'Irfis un finanziamento da 20milioni di euro per la Dr che non era un'impresa siciliana. La richiesta sarebbe stata firmata dall'allora dirigente Emanuele, rispetto al quale, inizialmente, Confindustria sarebbe stata contraria. All'improvviso, però, qualcosa sarebbe cambiato, proprio in concomitanza con la nomina di Emanuele ai vertici dei rifiuti. Armao lo avrebbe sentito “vantarsi di aver instaurato ottimi rapporti con l'imprenditore Giuseppe Catanzaro, strettamente legato a Montante e operante nel settore dei rifiuti e con il senatore Lumia”.

"Schifani passò notizie riservate". Le accuse per il senatore di Forza Italia, scrive il 14 maggio 2018 "Live Sicilia". Tre i capi d'imputazione. La nota: "Mai avuto rapporti di amicizia o frequentazioni con Montante". Renato Schifani avrebbe rivelato notizie coperte da segreto - apprese dall'ex direttore dell'Aisi Arturo Esposito che a sua volta le aveva avute da altri appartenenti alle forze di polizia - relative all'inchiesta che ha portato all'arresto di dell'ex presidente di Sicindustria Antonello Montante. È questa una delle accuse contestate all'ex presidente del Senato, indagato per rivelazione di segreti d'ufficio e favoreggiamento. In particolare, avrebbe riferito al docente universitario Angelo Cuva (indagato) che il colonnello Giuseppe D'Agata era indagato nel procedimento. L'ex presidente del Senato è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio assieme all'ex direttore della prima divisione dello Sco Andrea Grassi, del capo reparto dell'Aisi Andrea Cavacece e del docente dell'Università di Palermo Angelo Cuva. Secondo l'accusa, Grassi - dopo aver appreso la notizia dalla squadra mobile di Caltanissetta - avrebbe rivelato a Cavacece che erano state disposte delle intercettazioni nei confronti di Montante e che il colonnello D'Agata fosse indagato nello stesso procedimento in cui era coinvolto l'ex presidente di Sicindustria. Cavacece, sostiene sempre l'accusa, a sua volta avrebbe rivelato che vi erano intercettazioni nei confronti di Montante sia al suo capo, il generale Esposito, sia a D'Agata. A quest'ultimo, però, non avrebbe detto che era indagato, cosa che invece avrebbe riferito al direttore dell'Aisi. Quest'ultimo, tramite D'Agata, avrebbe fatto arrivare a Montante la notizia che era intercettato. Sempre Esposito, si legge ancora nel capo di imputazione, avrebbe rivelato a "Valerio Blengini - affinché si recasse da Bruno Megale, questore di Caltanissetta, al fine di attingere informazioni - e a Renato Schifani, la notizia...che D'Agata fosse indagato". Ed è a questo punto che entra in gioco Schifani. L'ex presidente del Senato "rivelava a Cuva la notizia, veicolata dal Grassi ed appresa dal generale Esposito, che D'Agata fosse indagato". Cuva, infine, riferì le informazioni allo stesso D'Agata. Schifani - assieme a Esposito e Cuva - è anche indagato per aver detto al professore, dopo averlo appreso dall'ex direttore dell'Aisi, che erano state disposte delle intercettazioni nei confronti della moglie di D'Agata. L'accusa di favoreggiamento, con Cuva, fa invece riferimento al fatto che i due "aiutavano Montante e D'Agata ad eludere le investigazioni che la procura della Repubblica di Caltanissetta stava eseguendo sul loro conto". Il senatore di Forza Italia però si difende in una nota: "Apprendo con stupore l'indagine a mio carico riguardo una mia presunta condotta, che è assolutamente inesistente. Mi riservo, piuttosto, di denunciare per millantato credito chi per ipotesi mi ha coinvolto e fin d'ora sono a disposizione dell'Autorità giudiziaria per comprendere meglio la vicenda ed avviare tutte le iniziative opportune, al fine di tutelarmi da un'accusa palesemente infondata. Rivendico, infine, che non ho mai avuto alcuna amicizia o frequentazione con il signor Montante, a dimostrazione dell'assoluto disinteresse nei confronti di quest'ultimo".

“Un distributore di mazzette”. Montante e i soldi ai politici, scrive Riccardo Lo Verso il 14 maggio 2018 su "Live Sicilia". Dalle borse di denaro a Cuffaro alla campagna elettorale di Crocetta. E spunta pure Lumia. Si definiva un “distributore di mazzette”. Mica di pochi spiccioli, “parliamo di mazzette di centinaia di milioni”, diceva Michele Trobia, attuale presidente del Tennis club di Caltanissetta. E tirava in ballo nomi pesanti della politica siciliana. Ci sono anche le registrazioni delle sue conversazioni nella lunghissima ordinanza di custodia cautelare che ha raggiunto Antonello Montante e altre cinque persone. Quasi quattromila pagine da cui emergono capitoli investigativi ancora da completare. Il provvedimento firmato dal giudice per le indagini preliminari Maria Carmela Giannazzo non chiude la mega indagine dei pubblici ministeri nisseni. Il 6 marzo 2016 Trobia spiegava ad un avvocato che Montante era un persona “pericolosissima” che lo aveva coinvolto in “cose assurde”. L'allora guida degli industriali siciliani sapeva di essere un potente: “... io entravo con lui in piena giunta regionale con Totò Cuffaro... arrivavamo con la macchina della scorta e noi dentro fino davanti l'ascensore.... con i custodi a Palazzo d'Orleans... non si chiedeva dov'era Cuffaro... lui entrava direttamente io dietro la porta...”. Le sue parole si incrociano con quelle di Marco Venturi, prima intercettate e poi messe a verbale. Nel novembre 2015 Venturi, ex capo degli industriali di Caltanissetta, ha raccontato ai pm che “Montante aveva rapporti amichevoli con Gianfranco Miccichè e Totò Cuffaro”. Fin qui nulla di stano. Poi, ha aggiunto che “Montante era solito ripetere che pagava la campagna elettorale a tutti... spendeva un sacco di soldi.... con specifico riferimento a Cuffaro in relazione all'elezione a presidente della Regione nel 2001 specificandomi che aveva erogato contributi in nero”. Di fatto Venturi ha ribadito quanto era emerso, pochi mesi prima, a settembre, nel corso di una conversazione in cui era stato intercettato insieme a Trobia e a Massimo Romano, l'imprenditore della grande distribuzione finito ai domiciliari. Trobia parlava di “borse con Totò Cuffaro che depositò a casa mia... ca ci su 800 miliuni... ca ci su 600 miliuni”. Romano gli chiedeva se avesse visto i soldi con i propri occhi: “Come no, li abbiamo portati insieme a Totò Cuffaro”. È stato poi Venturi, negli interrogatori del 12,14 e 28 novembre 2015 a ribadire ai pubblici ministeri che Trobia gli disse che “Montante o la moglie gli avevano portato a casa una borsa piena di soldi da consegnare a Cuffaro”. Non sono le uniche parole messe a verbale da Venturi. Pochi giorni prima di presentarsi in Procura, infatti, era stato intercettato mentre discuteva con Alfonso Cicero, ex presidente dell'Irsap. Ripassavano le cose da riferire ai magistrati. Tra i tanti punti c'erano due richieste avanzate dal senatore Giuseppe Lumia. Nella prima, ripeteva Venturi, “Lumia chiese a Cicero e a me pure di non revocare il lotto alla Mediatel nella zona industriale di Agrigento che era stata colpita da un'informativa antimafia in quanto collusa con la mafia agrigentina”. E poi c'è quella che il gip annota come la “richiesta da parte di Lumia a Venturi di un finanziamento in nero della campagna elettorale di Crocetta e conseguente ira di Montante per il rifiuto opposto da Venturi”. Ecco cosa dicevano i due interlocutori: “Allora Venturi mi ha confidato che Lumia gli aveva chiesto di contribuire alla campagna elettorale di Crocetta e in tal senso lo stesso Lumia aveva incaricato la segretaria di Crocetta di recarsi da Venturi per ricevere il contributo richiesto...”. E la segretaria si sarebbe fatta viva: “... mi chiedeva di darle un contributo di ventimila euro a Crocetta per la sua campagna elettorale... puntualizzandomi che potevo darglieli anche in nero”. Il contributo, però, non arrivò. Ecco, secondo Cicero, quale fu la reazione dell'ex presidente di Sicindustria: “Montante mi ammoniva per non avere dato ventimila euro alla segretaria di Crocetta, rinfacciandomi che altri esponenti di Confindustria a lui vicino avevano dato contributi”. Tutti rigorosamente in nero.

"Lumia voleva una denuncia falsa". L'intercettazione dell'imprenditore, scrive il 14 maggio 2018 "Live Sicilia". Romano, arrestato, raccontava: "Mi invitò a denunciare un'estorsione mai avvenuta". L'ex senatore Pd Beppe Lumia avrebbe invitato l'imprenditore Massimo Romano, re dei supermercati in Sicilia, arrestato oggi nell'operazione double face, a denunciare un'estorsione in realtà mai avvenuta. Lo dice lo stesso Romano in un colloquio intercettato il 18 settembre 2015 negli uffici Sidercem di Marco Venturi, a Caltanissetta con Alfonso Cicero e Marco Venturi. Stesse pressioni avrebbe avuto da Antonello Montante. Nel luglio 2016 interrogato a Caltanissetta dai magistrati Romano ribadisce che in un incontro a Roma con Montante Venturi, Lumia gli disse che faceva parte del ''percorso legalità'' e che se non avesse denunciato avrebbe creato ''un neo'' al percorso intrapreso. Romano ribadì a Lumia che non aveva ''mai pagato nessuno'' e che non aveva acquisito ''elementi in tal senso'' neanche dopo un'indagine interna alla sua azienda. ''Ricordo - dice Romano - anche che dopo la cena ebbi una terribile discussione con Montante il quale, quasi violentandomi psicologicamente insistette sul fatto che dovevo denunciare e che non facendolo li avrei rovinati tutti. In quel periodo vi era in animo di costruire una nuova associazione antiracket a Caltanissetta e ho avuto la sensazione che il discorso di Montante fosse funzionale a farmi divenire presidente di quella associazione''. Anche nel corso di un'altra riunione nell'azienda di Venturi Lumia ''insistette affinché mi recassi in procura a denunciare ma mi mostrai fermo nelle mie convinzioni e annunciai che mi sarei dimesso da Confidi e Confindustria. Presentai le dimissioni che non venero accettate''.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».

Coop rosse, indagato per mafia l’eroe antimafia del Pd Lorenzo Diana, scrive Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. Un curriculum algido, di quelli da vera icona: ex senatore del Pds, amico personale di Roberto Saviano - marchio doc dell’impegno civile - che l’ha citato nel libro-totem Gomorra come unico politico realmente positivo, ospite quasi d’obbligo in convegni e dibattiti sulla legalità e la lotta al crimine organizzato. Ed ora il suo nome, Lorenzo Diana, compare tra quelli degli indagati dell’inchiesta della Dda di Napoli sul presunto patto tra Cpl Concordia e clan dei Casalesi per la metanizzazione dell’agro aversano. Diana risulta indagato per concorso esterno in associazione camorristica ( e proprio a sostegno sia pure indiretto dei Casalesi) per corruzione (già prescritta) e per abuso d’ufficio in due distinte ordinanze. Solo in una di queste il gip ha disposto per lui una misura cautelare lieve, e solo per reati contro la pubblica amministrazione: il divieto di dimora in Campania. In una delle due ordinanze Diana è dunque accusato di aver convinto un sostituto procuratore federale Figc, Manolo Iengo, ad attestare falsamente che il figlio Daniele aveva ricoperto un ruolo di dirigente in una squadra di calcio di serie D. Certificato che avrebbe poi consentito al figlio di accedere a corsi e master di dirigente sportivo. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Diana in seguito avrebbe conferito a Iengo degli incarichi di assistenza giudiziale e stragiudiziale del Caan, il Centro Agroalimentare di Volla-Napoli. Anche Iengo è stato colpito dal provvedimento di divieto di dimora. Durissime le valutazioni del Gip Federica Colucci: «Lorenzo Diana, per favorire il figlio Daniele (avrebbe) messo in moto le sue conoscenze al fine di ottenere una falsa attestazione in spregio a quella cultura della legalità della quale si spaccia per paladino, avendo ricoperto tra l’altro, come da suo Curriculum Vitae, vari incarichi tra i quali figurano presidente nazionale Rete per la legalità, Presidente Premio nazionale Paolo Borsellino, Membro del direttivo della Fondazione Caponnetto, nonché insignito del Premio nazionale Paolo Borsellino nel 2008 e Premio Nazionale Custode della legalità». Ed è sottolineato, appunto, quanto sia grave la sua posizione proprio per via della sua «patente» di difensore della legalità: «Invero l’indagato non solo dimostra remore a commettere reati anche gravi ma agisce sotto l’egida di un difensore della legalità», scrive infatti il giudice, tra le altre cose. «Non ho letto ancora il provvedimento e cosa mi si addebita. Mi sembra di essere tra un sogno e Scherzi a parte», ha commentato Diana a caldo. In manette ex dirigenti della coop rossa modenese (tra i quali l’ex presidente Roberto Casari, già finito in carcere nell’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia), subappaltatori e imprenditori della metanizzazione compiuta nei comuni tra Casal di Principe, Casapesenna e limitrofi, il bacino Caserta 30. Sono dunque sei le ordinanze cautelari sono state notificate nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Napoli sulla metanizzazione dei Comuni del Casertano da parte della Cpl Concordia, mentre sono due ordinanze che impongono il divieto di dimora a Diana e a Iengo. Fondamentali le dichiarazioni di Antonio Iovine, l’ex boss dei Casalesi da circa un anno collaboratore di giustizia. Secondo i pm Cesare Sirignano, Catello Maresca e Maurizio Giordano e il pm della Dna Francesco Curcio, Diana avrebbe avuto un ruolo attivo nel patto tra l’impresa e la camorra, ottenendone un tornaconto in termini di rafforzamento dell’influenza politica sul territorio. Però, occorre sottolineare, l’ex senatore, attualmente presidente del Caan, non è tra gli arrestati. Ad assegnare la guida del Caan a Diana è stato Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, considerando che il Comune detiene la maggioranza delle quote del Centro. Proprio in virtu’ di ciò, de Magistris ha annunciato che si pone la necessità di «sostituire ad horas Diana a tutela nostra - e per consentirgli di difendersi in modo completamente libero da qualsiasi incarico».

"Delinque fingendosi paladino della legge". L'ex senatore Ds Diana coinvolto nell'inchiesta Cpl Concordia. Il gip: "Comportamento spregevole", scrive Simone il 05/07/2015 su “Il Giornale”. Sotto la rassicurante parvenza di paladino del bene, si nasconde una «personalità doppiamente trasgressiva». È un diavolo dalla faccia buona, l'ex senatore Ds Lorenzo Diana. Indagato per concorso esterno con gli ex vertici della coop rossa Cpl Concordia per gli appalti del gas affidati alle ditte dei Casalesi, l'icona antimafia viene fatta a pezzi dal gip Federica Colucci nella ordinanza di divieto di dimora in Campania per abuso d'ufficio in un diverso fascicolo. Per il giudice, Diana «non solo non dimostra remore a commettere reati anche gravi ma agisce sotto l'egida di un difensore della legalità». Tanto che, mentre briga con un avvocato amico per ottenere una falsa attestazione Figc che consenta al figlio Daniele di partecipare a un master Fifa, non rinuncia a svolgere «attività di relatore in convegni sulla legalità insieme a magistrati noti per il loro impegno antimafia» accompagnato addirittura dalla scorta. Un comportamento che il gip definisce «spregevole». E poco importa che l'ex parlamentare, stimato da Roberto Saviano che ne tesse le lodi in Gomorra , sia «formalmente incensurato» e anzi rivendichi in una intercettazione di aver contribuito a mandare in galera tre sindaci con «cinque pagine di dichiarazioni». Dagli atti raccolti dai pm Sirignano e Maresca emergono infatti «pregressi reati contro la Pubblica amministrazione non perseguiti» solo perché prescritti oltre che i gravi indizi di aver agevolato i tagliagole della cosca casertana a lucrare sul business della metanizzazione. I magistrati della Dda – annota ancora il gip – non hanno chiesto la misura cautelare pure per l'ex parlamentare solo perché è passato molto tempo dai fatti. Lui ovviamente si difende attaccando il pentito Antonio Iovine che per primo lo ha indicato come il garante politico dell'accordo criminale. «È la vendetta di chi cerca di coprire gli ingenti patrimoni accumulati negli anni delegittimando chi come me è l'unica memoria storica in grado di ricostruire la sua carriera criminale». In realtà, a parlare di Diana – licenziato a tempo di record dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris dal vertice del Centro agro-alimentare di Volla di cui era da 4 anni presidente – sono altri tre pentiti. Uno dei quali, Nicola Panaro, rivela che l'ex parlamentare e l'allora sindaco di San Cipriano d'Aversa indicarono autonomamente il nome del subappaltatore a cui la Concordia avrebbe fatto aprire un cantiere. Non uno stinco di santo, ma un imprenditore colluso come tutti gli altri. È sempre Iovine a parlare: «Noi del clan sapevamo che in quella zona aveva un peso politico l'onorevole Lorenzo Diana e per evitare problemi con la legge, preferimmo non intervenire direttamente. Ebbene, la ditta che fece i lavori era comunque una ditta nostra e cioè quella dell'imprenditore Pietro Pirozzi (…) Il sindaco che affidò i lavori a Pirozzi era Angelo Reccia, persona strettamente legata politicamente a Diana». Quando la notizia delle indagini sul gas della camorra filtra sui giornali, Diana viene intercettato mentre parla al telefono con l'ex presidente dell'azienda modenese Roberto Casari (da due giorni in galera) che gli rinfaccia i guai che sta passando per l'appalto a Casal di Principe. «Ci sono andato, ricordi? Avevo delle perplessità, dopo fai lavorare la gente del posto e amen insomma – dice il manager – Quando ce lo hai chiesto, noi ci siamo andati, abbiamo cercato di fare le cose fatte bene e via che siamo andati, poi salta fuori questa cosa qua...». Diana traccheggia al telefono. Dimostra di aver letto attentamente le anticipazioni sui siti locali ed è curioso di leggere l'avviso di garanzia per concorso esterno a Casari («Però occhio... comunque se puoi girarmi, posso darti la mia mail oppure...», gli suggerisce) ma al cellulare minimizza tutta la storia. Convinto probabilmente che lo scudo dell'impegno antimafia e degli incarichi (premio nazionale Paolo Borsellino nel 2008 e premio nazionale Custode della legalità) lo tengano al riparo da brutte sorprese.

E poi più giù...

Sicilia, Lucia Borsellino annuncia dimissioni: terzo caso in pochi giorni. "Prevalenti ragioni di ordine etico e morale, e quindi personale, sempre più inconciliabili con la prosecuzione del mio mandato, mi spingono a questa decisione", scrive la Borsellino a Crocetta. La Borsellino dice di lasciare "un sistema con innegabili segni di ripresa" ma segnala "vari accadimenti che hanno aggredito la credibilità dell'istituzione e, quindi, della mia persona". L'ormai ex assessore ricorda il caso della piccola Nicole ("emblematico di un pregiudizio istituzionale sul funzionamento del sistema sanitario nel suo complesso" e si sofferma sulla vicenda Tutino. "Non posso non manifestare il rammarico - scrive - conseguente alla lesione che fatti come questo determinano inevitabilmente all'immagine dell'intera Regione, adombrando il lavoro di tanti operatori. Fatti come questi - prosegue la Borsellino - determinano altresì, in un settore come quello della sanità contrassegnato da vicende che in un recentissimo passato ci hanno consegnato l'immagine di un sistema di malaffare, un grave danno sulla capacità attrattiva del sistema sanitario regionale e, come accaduto nello specifico, di una delle più importanti aziende ospedaliere dell'Isola".

Lucia Borsellino dimissioni: "Ho chiuso con la politica, non capisco l'antimafia come categoria". "Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D'Amelio". A dirlo - in un'intervista a Repubblica del 2 luglio 2015 - è Lucia Borsellino, che si è dimessa dalla carica di assessore siciliano alla Sanità. "Questa è stata la mia prima esperienza politica, sarà anche l'ultima", afferma. Spiegando le ragioni della sua scelta, sottolinea che "si sono persi di vista gli obiettivi, la coerenza rispetto al progetto iniziale. C'è stato un abbassamento di tensione. Anche morale". Ricorda di aver annunciato le sue dimissioni già a febbraio, poi la vicenda di Tutino, il medico del governatore Crocetta arrestato per truffa, "ha contribuito a rafforzare la mia decisione. Quella storia ha leso l'immagine di un'intera Regione". "Non nascondo - aggiunge - che il rapporto fra Crocetta e questo primario mi ha creato forte disagio in questi anni", "quest'amicizia, sempre ostentata da Tutino, ha molto condizionato la vita di una grande azienda ospedaliera di Palermo". "Chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D'Amelio", conclude sottolineando che "non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività".

Dopo Leotta e Caleca, la figlia del magistrato assassinato in via d'Amelio anticipa di volere rimettere il suo incarico nelle mani del governatore Crocetta. Decisivo sarebbe stato l'arresto di Matteo Tutino, medico personale del presidente accusato di truffa per aver praticato interventi estetici, spacciandoli per operazioni necessarie, rimborsate dal sistema sanitario, scrive Giuseppe Pipitone il 30 giugno 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Tre assessori che si dimettono in pochi giorni, una mozione di sfiducia dal suo stesso partito e il medico personale agli arresti domiciliari. Non è decisamente un bel periodo per il governatore della Sicilia Rosario Crocetta. L’assessore alla Sanità Lucia Borsellino, figlia del magistrato assassinato in via d’Amelio il 19 luglio del 1992, ha infatti anticipato di volersi dimettere dall’incarico. Una vera e propria “mazzata” per il presidente della Regione, dato che si tratterebbe del terzo assessore consecutivo a lasciare l’incarico nel giro di pochi giorni. Giovedì 25 era stato il titolare della Funzione Pubblica, Ettore Leotta, a rimettere il mandato nelle mani del governatore. Il motivo? Tutta colpa del crollo del viadotto Himera, sull’autostrada 19 Palermo-Catania, che ha spezzato in due l’isola, aumentando di circa un’ora i tempi di collegamento tra la Sicilia occidentale e quella orientale. “Sono stanco, dopo il crollo del pilone sulla A19, andare e venire da Siracusa è diventato complicato, ho una certa età e anche la difficoltà del viaggio ha influito sulla mia decisione”, confidava Leotta. Al suo posto ecco Giovanni Pistorio, segretario regionale dell’Udc, ex assessore di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Una scelta che aveva fatto dimettere il secondo assessore: Nino Caleca, titolare dell’Agricoltura. “Avverto un totale senso di estraneità di fronte ad incomprensibili ritorni al passato”, era stato il motivo di quel passo indietro: come dire che Caleca non voleva stare in una giunta con ex cuffariani. Emorragia finita? Neanche per idea. Perchè oggi è arrivato l’annuncio di dimissioni della Borsellino. Dimissioni che pesano doppio, dato che la figlia di Paolo Borsellino si dimette nel day after dell’arresto di Matteo Tutino, medico personale di Crocetta: è accusato di truffa, falso e peculato. Primario di chirurgia plastica, Tutino è finito agli arresti domiciliari perché accusato di aver praticato interventi estetici, spacciandoli per operazioni necessarie, ma soprattutto rimborsate dal sistema sanitario nazionale. A pesare sul medico personale di Crocetta anche le accuse di alcuni colleghi. E in un passaggio viene tirato in ballo lo stesso Crocetta: anche il governatore si sarebbe dovuto sottoporre ad intervento di chirurgia estetica, che Tutino avrebbe poi spacciato per operazione necessaria.  “Tutto era pronto – mette a verbale il dottor Antonio Iacono – per intervento di lifting addominale, da fare di domenica, ma si sarebbe dovuta inserire in cartella la diagnosi di obesità allo scopo di fare apparire l’intervento come funzionale. Ma poi la cosa saltò dopo la mia segnalazione ai vertici dell’ospedale”. Una circostanza, quella dell’arresto diTutino, che sarebbe stata decisiva per spingere Borsellino alle dimissioni. Nel frattempo il deputato del Pd Fabrizio Ferrandelli ha annunciato una mozione di sfiducia nei confronti del governatore: che dopo aver schivato nell’ottobre scorso il tentativo dei Cinque Stelle, questa volta potrebbe capitolare.

Lucia e il requiem per l'antimafia nel silenzio del partito dei moralisti, scrive "Il Foglio". L'ultimo velo di ipocrisia lo ha scostato Lucia Borsellino. Che con le sue dimissioni dalla giunta “della rivoluzione” di Rosario Crocetta ha cantato il più autorevole e definitivo de profundis per l'antimafia delle carriere e degli affari. "Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D’Amelio. Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere”. Parole che suonano come un requiem quelle consegnate dalla figlia di Paolo Borsellino a Repubblica nel giorno del suo addio all'assessorato alla Sanità. Un'uscita di scena motivata, in una lettera sobria e affilata, da ragioni di carattere “etico”. Proprio lei che sin dalla campagna elettorale aveva svolto l'ideale ruolo di garante etico dell'avventura di governo del funambolico governatore gelese. La retorica dell'antimafia e della legalità non attacca più da un pezzo in Sicilia. È caduta sotto i colpi degli scandali, sgretolata da due anni e mezzo di malgoverno e disastri firmati dai paladini di quel grande inganno che ha edificato un sistema di potere saldamente in mano a una conventicola di amici. Amici troppo esuberanti, a volte. Come il chirurgo e medico personale di Crocetta, Matteo Tutino, la cui ascesa nella sanità siciliana ha impressionato per rapidità, fino all'arresto disposto lunedì dalla procura di Palermo. Una vicenda, quella del medico che a ogni piè sospinto rivendicava il suo specialissimo rapporto col presidente, che ha rappresentato l'ultima goccia per Lucia la mite. “Oggi mi chiedo: sotto cosa ho messo la faccia?”, confida la Borsellino parlando di un governo “che ha ormai scarsa credibilità”. Così come il gran côté dell'antimafia e della legalità a tanto al chilo. Incommentabile, di fronte ai giudizi tranchant della figlia del magistrato ucciso in via D'Amelio, l'omertoso silenzio del partito dei moralisti in servizio permanente effettivo. Tace il potente senatore Beppe Lumia, governatore ombra e regista dei patti di Palazzo nonché principe dell'antimafia politicizzata. Non si sente la voce di Antonio Ingroia, accasato nel sottogoverno crocettiano, lontani i fasti guatemaltechi e le ambizioni di premierato. Lucia chi?, sembrano dire quei silenzi imbarazzati, mentre Crocetta lesto, con una mano saluta balbettante e contrito il suo ex assessore-vessillo e con l'altra più rapida mette le mani direttamente sulle potenti stanze dell'assessorato che gestisce i milioni della sanità isolana, della quale s'è subito intestato l'interim. Tramonta così il grande inganno dell'antimafia dei pennacchi, che continua a perdere pezzi e bandiere sotto i colpi delle procure, fino a ieri meta prediletta delle sue passerelle per questa o quella denuncia. Del grande circo legalitario resta poco o nulla. Toccherà consolarsi, magari, con qualche patacca di Massimo Ciancimino, ricordando i bei tempi che furono.

Al rogo gli eroi dell’antimafia. E a giudicare sono sempre gli stessi, scrive “Sicilia Informazioni”. Lucia Borsellino non poteva andarsene in punta di piedi. Se avesse potuto, l’avrebbe fatto, ma rappresenta un simbolo ed ha dato al governo Crocetta il nome e cognome, è impossibile perciò che la sua uscita di scena passasse inosservata o quasi, alla stregua di altre dimissioni. Era pure prevedibile che la decisione fosse “usata” da governativi ed antigovernativi, alleati di Crocetta ed avversari, per tirare acqua al loro mulino. Accanto alla motivazioni, espresse con chiarezza nella sua lunga lettera al presidente della Regione siciliana – “prevalenti ragioni di ordine etico e morale” –, non sorprende che ci siano interpretazioni interessate. A Lucia Borsellino hanno fatto dire che se ne andava dal governo per non stare accanto a “questa” antimafia. Quale? Quella sotto scopa politicamente, rappresentata da Crocetta, e non solo. Chi si lecca i baffi, oggi, farebbe bene a ragionare sugli accadimenti recenti. Bisogna andare all’antefatto. Da alcuni mesi a questa parte, a causa del clamoroso caso di corruzione del vice Presidente della Gesap, Helg, e le disavventure di Antonello Montante, la bandiera dell’antimafia è stata listata a lutto, la qualcosa può starci tutto sommato, poi però è stata bruciata, metaforicamente, nelle piazze che l’hanno sventolata a lungo, con grande tenacia, determinazione e spirito di servizio. Senza attendere che la magistratura svolgesse le sue indagini e giudicasse i sospetti. C’è stato un repentino cambio di guardia. Chi consigliava morigeratezza nella distribuzione di certificazioni di buona condotta fra i predicatori dell’antimafia, subendo il sospetto di stare dall’altra parte della barricata, oggi manifesta la uguale cautela (è una vecchia consuetudine, che data dalla notte dei tempi, quella di costruire il recinto dei cattivi). Il contrordine repentino e clamoroso mantiene in piedi il manicheismo di sempre, scavando un fossato, abitato da alligatori, fra l’antimafia per bene e l’antimafia per male. Gli incensati di una volta subiscono ora il pubblico ludibrio ancor prima che i sospetti siano stati chiariti dagli inquirenti. Il campo dell’antimafia si è trasformato in un territorio infido. Non tutto, però: c’è antimafia buona e quella cattiva. La cosa puzza di bruciato, a causa dei roghi in preparazione. A distribuire attestati di buona condotta e patenti antimafia sono sempre gli stessi, in buona misura. Sono solo cambiati i volti dei paladini dell’antimafia, non ci sono più quelli di prima, mandati al rogo o quasi. Questa storia, perciò, non ci piace per niente. E’ lecito porsi alcune domande su ciò che sta accadendo, se cioè potenti lobby nazionali stiano guidando le danze ed usino il character assassination, la cattiva reputazione dell’avversario, come strumento di guerra. Mentre ci facciamo accarezzare dal dubbio possiamo prenderci il lusso di auspicare, almeno questo, che si giudichi per i comportamenti, i fatti, le azioni, e non per le bandiere, i proclami e gli annunci.

Laboratori, manager, farmacie. Gli errori di Lucia, scrive Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Negli ultimi 2 anni i giudici amministrativi hanno "censurato" più volte il governo sulla salute. I sindacati: "L'assessore non è autonomo". Dietro l'angolo la guerra sui concorsi nelle aziende sanitarie. Oggi vertice sul taglio al budget dei centri convenzionati. Qualcosa non funziona, dalla parti di piazza Ottavio Ziino. E qualcuno potrebbe andare giù subito alle conclusioni, dicendo che il pesce, se puzza, puzza sempre dalla testa. Qualcun altro, invece, potrebbe rilanciare immagini kafkiane di burocrazie labirintiche, oscure, misteriose nel senso più grigio del termine. Fatto sta che qualcosa, attorno all'assessorato alla Sanità non funziona. Dai manager alle cliniche private, dai laboratori d'analisi ai concorsi, passando per la rete ospedaliera o per la gestione del 118. Dovunque ti volti vedi inciampi e contraddizioni. Marce indietro e qualche strafalcione che qualcuno ha bollato, anche in Procura, come “sospetto”. Ovviamente, meglio chiarirlo subito, la Sanità siciliana del passato è stata anche, e le cronache (soprattutto quelle giudiziarie) lo hanno fatto emergere in maniera plateale, un intruglio di malaffare e clientelismo, di potentati e sprechi. Che però, in qualche caso (pensiamo ad esempio alla vicenda Cirignotta o a quelle dei concorsi bocciati dal Tar) hanno affondato le proprie radici in un passato molto vicino. Troppo vicino. Quello in cui l'assessore era Massimo Russo e il dirigente generale era Lucia Borsellino. Che oggi è assessore. E finisce per catalizzare – volente o nolente – una massa di oneri e responsabilità di gran lunga superiori al passato da alto burocrate. Spalleggiata dal governatore, sinceramente legato al suo assessore, ma al quale – vista l'impronta “antimafia” della propria esperienza politica - certamente non dispiace vantare in giunta quel cognome. Ma oltre a lui? Chi è con l'assessore? Chi gioca dalla sua parte? Ed è pronta, l'assessore alla Salute che poche settimane fa minacciò le dimissioni, a “reggere” altri due anni e mezzo? Perché in questa metà legislatura è successo un po' di tutto. E la semplice elencazione dei fatti – escludendo, non a caso, la vicenda della piccola Nicole, ancora assai complessa e tutta da chiarire – è il racconto di un cammino controvento per l'assessore. Di un tragitto fin troppo spesso scandito da inciampi. Da qualche scivolone. Le cui responsabilità sarebbero da cercare con attenzione, anche tra gli spigoli di piazza Ziino o i saloni di Palazzo d'Orleans. Se non fosse che l'assessore è, appunto, l'assessore.

Il caos dei manager. Iniziò con i manager della Sanità. E quello è un film. I commissari scelti da Crocetta a pochi mesi dall'insediamento, dovevano stare lì giusto il tempo di compiere le selezioni. Ma i nuovi manager arriveranno solo due anni dopo. Al termine di un iter che avrebbe dovuto celebrare il moderno principio della trasparenza per rivelarsi un vecchio esempio di opacità. Oltre a essere in parte inefficace, se è vero che alcuni dei selezionati dopo le complicatissime procedure, hanno finito per essere subito sostituiti: è il caso di Calogero Muscarnera (non bastarono due anni per verificare che non era in possesso dei titoli necessari) o di Mario Zappia (tutti quei mesi non furono sufficienti ad accorgersi di una incompatibilità dovuta a una precedente esperienza professionale nota da tempo). E l'ultimo caso, in ordine di tempo, è quello siracusano. Col dirigente generale Salvatore Brugaletta sui carboni ardenti dopo lo scandalo dei 17 migranti “dimenticati” nelle celle frigorifere per troppo tempo. “Se un manager non è all'altezza, è giusto cambiarlo”, ha tuonato Crocetta. Giusto. Peccato che quel manager è stato scelto proprio da lui e da Lucia Borsellino. Una scelta sbagliata, evidentemente, stando alle parole del governatore. Ma nessun “mea culpa”, ovviamente. Così come avvenne, del resto, per il caso Sampieri: l'ex manager di Villa Sofia, tra i più apprezzati dal governatore Crocetta, dimessosi dopo un'indagine della Procura sulla gestione dell'azienda ospedaliera. Anche lì, il “fedelissimo” del presidente ha dovuto fare un passo indietro. E così, tra commissari e manager, in un paio di anni, sono stati quasi 50 i manager che si sono avvicendati al vertice di aziende sanitarie e ospedaliere. Un caos. Senza considerare, ovviamente, il “caso” dei manager catanesi Paolo Cantaro e Angelo Pellicanò. Prima nominati, poi “revocati” per una personale interpretazione della legge nazionale che vieta gli incarichi manageriali ai pensionati che si poggiava su un parere dell'Avvocatura dello Stato. Una storia che finì in Procura, dopo le denunce del presidente della commissione Salute Pippo Digiacomo, secondo il quale il parere alla base di quella revoca poteva essere stato in qualche “influenzato” dalla politica. Alla fine, saranno i giudici amministrativi a dare torto al governo Crocetta. I manager potevano essere nominati. Qualcuno aveva fatto cadere in errore l'assessore Borsellino.

Le bocciature del Tar. E a pensarci bene, non è quella l'unica pronuncia con la quale i tribunali amministrativi hanno bocciato l'operato del governo. L'ultima è di pochi giorni fa e ha di fatto “bloccato” il concorso e la relativa graduatoria per l'apertura di 222 nuove farmacie in Sicilia. Secondo i giudici del Tar, che hanno accolto il ricorso di due esclusi, "non sembrano essere stati correttamente applicati i criteri valutativi generali”. Insomma, i punteggi si sarebbero basati su valutazione errate dell'assessorato. E non a caso, gli esclusi hanno denunciato il fatto che, con gli stessi parametri, avevano ottenuto una valutazione molto più positive in altre regioni come l'Emilia Romagna. Ma non solo. Per non andare lontano, una recente sentenza del Cga ha bloccato il recupero, già avviato dall'assessorato di Piazza Ziino, delle somme che i laboratori d'analisi e i centri convenzionati avrebbero negli anni incassato “illegittimamente” mantenendo in vita il tariffario regionale. Una sentenza che ha di poco anticipato un discusso decreto dell'assessore con il quale è stata prevista l'erogazione a quelle strutture solo dell'80 per cento del budget dell'anno precedente. Una decisione che, stando ai titolari dei laboratori, “rischia di far collassare il settore e di far perdere il lavoro a migliaia di addetti”. Un decreto del quale già in tanti chiedono il ritiro, nonostante le rassicurazioni che l'assessore avrebbe fornito in commissione Salute all'Ars. Stamattina, in assessorato, il faccia a faccia tra Lucia Borsellino e i rappresentanti dei centri convenzionati.

Il bluff dei concorsi. Ma la prossima contestazione per l'assessore è dietro l'angolo. E riguarda un altro tema scottante come quello dello sblocco dei concorsi in Sanità. Un “via libera” dato per certo, per imminente già mesi fa. Ma arenatasi al momento di fronte alla mancata approvazione delle linee guida da impartire alle aziende e nonostante gli ottimistici annunci forniti periodicamente alla stampa. Una situazione che ha già innescato un durissimo comunicato stampa di tutte le sigle sindacali rappresentative del mondo della Sanità: “Attendevamo il documento di approvazione delle linee guida – hanno dichiarato, in sintesi – e ancora, nonostante i termini previsti siano già scaduti, non ci è stato sottoposto nulla. Rigettiamo quindi ogni documento non condiviso e chiediamo un cambio di rotta”. Una valutazione, quella delle sigle, che in qualche modo conferma la valutazione fornita anche dalla Cisl in un recente convegno: “La riforma della Sanità è riuscita solo a metà. Bene il piano di rientro, ma i cittadini si sentono abbandonati”, la valutazione del sindacato.

Dal 118 a Humanitas. Ma anche a a guardare indietro non sono mancati i problemi, i “casi”. Non è ancora del tutto chiaro, ad esempio, cosa sia successo alla Seus, dove quella che sempre Digiacomo definì una “cricca” portò all'addio del manager fedelissimo di Lucia Borsellino, Angelo Aliquò. Mesi fa, ormai. Quando ad esempio la rete ospedaliera redatta dall'assessorato giungeva a Palazzo dei Normanni con alcuni errori di calcolo. O, caso certamente più plateale, per la vicenda della clinica Humanitas. Un affidamento milionario alla multinazionale per la creazione di una clinica oncologia a Misterbianco provocò reazioni furiose e fortissime polemiche sulla stampa. La frettolosa revoca di quell'affidamento si rivelerà inutile: l'assessorato aveva “dimenticato” di notificare la procedura all'azienda. Quanto basta per “soccombere” di fronte al Tar. A causa di quell'errore che l'ex ministro Gianpiero D'Alia definì, non senza una punta di sarcasmo, uno sbaglio “suicida”. E per quelle parole verrà anche convocato in Procura. Del resto, D'Alia aveva chiesto semplicemente come mai il governo non avesse fatto ricorso a quella sentenza negativa. E se fosse intervenuto nei confronti di chi aveva compiuto quell'incredibile errore. Una sconfitta, che sembrò quasi fare felice il presidente Crocetta. Nonostante qualcuno avesse fatto sbagliare Lucia. Qualcuno, dalle parti di Piazza Ziino, dove qualcosa, da tempo, non funziona. E a pensarlo sono in tanti. Come ad esempio associazioni di consumatori come il Codacons che ha chiesto le dimissioni dell'assessore dopo la vicenda del decreto sui laboratori d'analisi. O come ad esempio i sindacati della sanità. Praticamente tutti, dai confederali agli autonomi, a quelli dei medici ospedalieri, che in una nota recentissima hanno messo nero su bianco: “Abbiamo ragione di credere che l'attuale assessore, nel ruolo e non già nella persona cui confermiamo la nostra stima, non goda della necessaria autonomia negoziale ed organizzativa”. Cioè qualcuno influenza le sue scelte, spingendola, qualche volta, all'errore. Qualcuno. Tra gli angoli dell'assessorato o tra gli scranni di Sala d'Ercole, tra le direzioni delle aziende sanitarie e i saloni di Palazzo d'Orleans.

Insidie e veleni nella vita di un familiare di vittima di mafia (e Stato) di Salvatore Borsellino su “Antimafia 2000” - 4 luglio 2015. Bisogna convincersi. Se hai la sventura di essere fratello, figlio o congiunto di un poliziotto, di un magistrato, di un giornalista ucciso dalla mafia, o peggio, dalla mafia insieme allo stato deviato, non ti restano che due possibilità. O sparisci, taci, ti nascondi, non fai sapere neanche che esisti, ed allora, se sei parente di una vittima di serie A (!), ti toccherà soltanto, ad ogni anniversario, di essere cercato da qualche giornalista che ti chiederà qualche ricordo, possibilmente toccante, del tuo congiunto, per fare commuovere i suoi lettori, o, se sei parente di una vittima di serie B (!) non ti cercherà nessuno, così come verrà ignorato e dimenticato il tuo congiunto. Oppure, se sceglierai di cercare con tutte le tue forze la VERITA’ e la GIUSTIZIA e di lottare per la memoria del tuo congiunto, allora rassegnati, non avrai scampo, sia che tu sia congiunto di una vittima di serie A che di una vittima di serie B. Ti accuseranno di sfruttare la tua condizione privilegiata (!) di congiunto di una vittima, di fare di professione il fratello o il figlio dello stesso, terranno d’occhio tutte le tue mosse, chi abbracci, chi saluti, chi frequenti, ti accuseranno di avere dei problemi mentali, ti diranno che il tuo congiunto si rivolterebbe nella tomba a fronte dei tuoi comportamenti, ti diranno che il tuo congiunto non avrebbe mai detto quello che tu dici, che non si sarebbe mai comportato come te, e questo anche se sono moralmente complici di quelli che lo hanno ucciso per non fargli più dire quello che diceva, per non farlo più parlare e potere essere loro, e soltanto loro, gli interpreti o meglio i mistificatori del suo pensiero e delle sue parole.

Non ti mancheranno poi le accuse reiterate di cercare di fare carriera con l’antimafia, anche se ti sei sempre rifiutato di fare politica attiva, di candidarti per un partito e se la tua carriera credevi di averla fatta prima raggiungendo posizioni di eccellenza tecnica nelle ditte dove hai lavorato e poi avviando un attività imprenditoriale che non riesci a chiudere anche dopo avere raggiunto la pensione tanto i tuoi clienti sono soddisfatti dei prodotti che tu hai progettato e che continuano ancora ad usare con soddisfazione. Se poi ti arrischierai a volere fare qualcosa che resti, per onorare la memoria di tuo fratello, una “Casa di Paolo”, nel quartiere dove siete nati e avete vissuto la vostra adolescenza, qualcosa che possa strappare i ragazzi a rischio del quartiere alla perversa spirale povertà-emarginazione-criminalità- criminalità organizzata ti arriveranno anche le accuse di volere lucrare su questa attività o di utilizzare i fondi raccolti per costruire questa casa, “i soldi di Borsellino”, come se quello non fosse anche il tuo cognome, per altri scopi, per esempio per pagare una penale a cui sei stato condannato per avere “diffamato” un giudice, cioè per avergli detto quello che pensavi di lui, al di la di quello che penalmente ha potuto essere accertato. E questo anche se per pagare quella penale era stata avviata una sottoscrizione dalla poetessa Lina La Mattina insieme a tanti altri che aveva in poco tempo raggiunta la somma necessaria. Somma che peraltro è stata depositata sul conto della Associazione Le Agende Rosse cui sono affluite anche tutte le somme successivamente raccolte specificatamente per la Casa di Paolo come lo pseudo giornalista che si firma Luca Rocca avrebbe potuto verificare soltanto guardando su FB i resoconti minuziosi che periodicamente pubblico sull’evento “Realizzare un sogno: La Casa di Paolo”. Anche il bonifico che ho fatto per pagare la penale è stato pubblicato su FB e sarebbe bastato controllare per vedere che è stato emesso dal mio conto personale. Ma i controlli, prima di pubblicare oscenità li fanno i giornalisti veri, se ancora se ne trovano in questo nostro disgraziato paese, non i “troll”, che sono peggiori degli anonimi perché si presentano sotto falsa identità e questo dovrò verificarlo prima di sporgere la querela che intendo avanzare nei suoi confronti perché qualcuno mi ha detto che dietro la ‘firma’ Luca Rocca si cela un altro nome che non è nuovo a portare nei miei confronti attacchi di ogni tipo. Così fanno certi criminali, non gli basta pugnalarti alle spalle ma nascondono anche il viso sotto un cappuccio nero.

Non solo loro…

La colpa di chiamarsi Riina. Licenziata la nipote del capo dei capi, risponde Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Maria Concetta ha 39 anni, di cui dieci trascorsi in una concessionaria di macchine a Marsala. Faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai sfiorata da ombre”, dice il suo avvocato. Eppure il prefetto parla di "inquietante presenza". È scattata l'informativa interdittiva per il suo datore di lavoro, che l'ha licenziata "nonostante la sua correttezza professionale". - Licenziata per il cognome che porta. Perché Maria Concetta è una Riina. È nipote di Totò e figlia di Gaetano, il fratello del capo dei capi, pure lui condannato per mafia. Essere una Riina rappresenta una “giusta causa” di licenziamento. Maria Concetta ha 39 anni di cui dieci trascorsi alle dipendenze del titolare di una concessionaria di macchine a Marsala. Fa, o meglio, faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai indagata, mai sfiorata da ombre”, ricorda con amarezza il suo legale, l'avvocato Giuseppe La Barbera, seppure sia quantomeno ipotizzabile che ai Riina, e chissà fino a quale grado di parentela, gli investigatori abbiano fatto uno screening tanto necessario e doveroso quanto profondo. Ora accade che la prefettura di Trapani emetta un'interdittiva nei confronti del suo datore di lavoro che è anche legale rappresentante di una società immobiliare. “La inquietante presenza nell'azienda della citata signora Riina - si legge nel documento della Prefettura - fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell'organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un'oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Secondo l'interpretazione prefettizia, dunque, la presenza di Maria Concetta Riina in azienda rientra nei casi previsti dal codice antimafia che, a partire dal 2011, ha voluto con la "informazione antimafia interdittiva” creare un argine contro le infiltrazioni della criminalità organizzata. Il prefetto Leopoldo Falco ha fatto suo “il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione... tanto è vero che assumono rilievo per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali”. Risultato: con la Riina in organico niente “liberatoria antimafia”. E senza liberatoria si resta tagliati fuori dal mercato. A mali estremi rimedi estremi: il titolare ha dovuto mandare a casa Maria Concetta Riina. Nella lettera spedita alla sua ormai ex dipendente scrive che “si vede costretto a licenziarla, nonostante abbia apprezzato nel tempo le sue doti e correttezza professionale”. Insomma, Maria Concetta Riina è stata una brava lavoratrice, ma bisogna allontanare ogni sospetto di mafiosità. Nel frattempo, però, il titolare ha impugnato l'interdittiva davanti al Tar. Senza esserci alcuna sudditanza psicologica verso un cognome pesante o chissà quale logica di connivenza, tagliano corto i legali. “Siamo di fronte ad un problema sociale - spiega l'avvocato Stefano Pellegrino che assiste la società assieme a Giuseppe Bilello e Daniela Ferrari - perché sociale è il rischio che deriva dall'esasperazione del concetto di antimafia. Nessuna voglia di aggirare le regole, nessuna giustificazione ai comportamenti illeciti che devono essere perseguiti. L'economia in Sicilia rischia, però, di essere messa in ginocchio da questo rigore eccessivo”. Chi usa parole dure è l'avvocato La Barbera che si dice “sconvolto dalla violenza con cui si applicano le norme dello Stato. Le leggi, volute come scudo di difesa, diventano armi letali. La signora è stata licenziata e una famiglia privata dell'unica fonte di reddito per la sola colpa di chiamarsi Riina. Prendiamo atto che in Italia esiste, oltre all'aggravante mafiosa, anche quella per il cognome che si porta”. Quindi l'affondo: “Se lo Stato toglie alla signora Riina la possibilità di lavorare allora le garantisca un sostentamento economico”.

Lo Voi «illegittimo», procura nel caos. Neppure 5 mesi a capo della procura di Palermo e per Francesco Lo Voi arriva la mannaia del Tar del Lazio, scrive "Il Giornale". Ad annullare, clamorosamente, la nomina fatta a dicembre da un Csm spaccato è stata la prima sezione quater, che ha accolto i ricorsi dei due contendenti più anziani di 9 anni: il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e quello di Messina Guido Lo Forte, già aggiunti nel capoluogo siciliano. Avevano denunciato il fatto che Lo Voi non avesse mai guidato, come loro, un ufficio giudiziario né una direzione distrettuale antimafia e ora i giudici amministrativi danno loro ragione. La scelta di Palazzo de' Marescialli, scrivono, è macchiata da «illogicità e irrazionalità», la motivazione è «insufficiente». E il Csm viene condannato a pagare 3 mila euro per le spese di giudizio. La nomina era stata bloccata dall'allora presidente Napolitano quando nel vecchio Csm in pole position c'era Lo Forte di Unicost mentre Lari era sostenuto dalle correnti di sinistra. E la scelta del nuovo Csm per un esponente di Magistratura Indipendente era stata letta a Palermo come una «normalizzazione» nella procura del processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. La sentenza del Tar è ora immediatamente esecutiva e i due ricorrenti potrebbero chiedere al Csm di fare una nuova nomina, ma sia Palazzo de' Marescialli che Lo Voi possono rivolgersi al Consiglio di Stato per una sospensiva. Per una strana coincidenza proprio poche ore prima della notizia dal Tar, la commissione competente del Csm faceva una mossa che riguarda sia Lari che Lo Forte. Il primo viene proposto come procuratore generale di Caltanissetta, l'altro viene «trombato» nella corsa alla procura generale di Milano, dove gli viene preferito Roberto Alfonso. In questa situazione, si può ipotizzare che Lari non insista per il vertice della procura di Palermo, mentre Lo Forte sarebbe ancor più motivato. Lo Voi, palermitano, 57 anni, 33 di carriera, era fuori ruolo come membro italiano a Eurojust, la superprocura europea, dopo essere stato togato al Csm molti anni fa. E proprio il peso dato a quest'incarico, facendolo preferire agli altri due candidati, viene contestato nella sentenza scritta da Giampiero Lo Presti. Accogliendo le ragioni esposte dall'avvocato Giuseppe Naccarato, il Tar contesta la mancanza di «adeguata motivazione delle ragioni concrete per le quali le competenze maturate nell'espletamento dell'incarico predetto siano state ritenute, nella prospettiva comparatistica, non soltanto idonee a compensare il deficit di pregresse esperienze direttive e semidirettive specialistiche, ma persino tali da determinare un giudizio complessivo di prevalenza attitudinale del dottor Lo Voi riguardo allo specifico ufficio». La sentenza non sembra lasciare molti margini e provoca al Csm grave imbarazzo, perché il collegio presieduto da Elio Orciuolo afferma che la valutazione è macchiata da un «vizio» inspiegabile. Che riguarda l'attività fuori ruolo, quella a Eurojust.

La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!).

Chi tocca i pm dell'antimafia finisce rovinato. Mentre Caselli, Ingroia, Woodcock e Di Matteo vengono osannati dalla stampa amica, il giornalista Jannuzzi per i suoi articoli è stato condannato e umiliato con il carcere, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Viste le mille polemiche sulle minacce rivelate e diversamente valutate al pubblico ministero Nino Di Matteo, rifletto sulle limitazioni della parola e sulle intimidazioni di chi non voglia accettare di avere bisogno di eroi. C'è qualcosa che ricorda terribilmente le mode. Non molto tempo fa, «l'eroe» era Antonio Ingroia; è stato rapidamente dimenticato e messo da parte perché ha fatto l'errore di uscire dall'hortus conclusus di tutte le perfezioni - la magistratura - per entrare nell'inferno della politica, che lo ha travolto e cancellato. Per lui, allora, al di là della verità dei fatti, si sarebbe messo in piedi il «teatro degli affetti» che, immancabilmente, mette in scena il Fatto Quotidiano. Ecco pronto, infatti, il 12 gennaio, a Palermo, al cinema teatro Golden, con il titolo suggestivo «A che punto sono la mafia e l'antimafia», il sottotitolo «Noi stiamo con il pm Nino Di Matteo e con tutti i magistrati minacciati», gli attori Antonio Padellaro e Marco Travaglio, con la partecipazione speciale di Roberto Scarpinato, un po' fuori moda, ma di cui non si può dimenticare la memorabile fotografia di Letizia Battaglia, sulla copertina di un magazine, circondato da tre uomini di scorta con le pistole spianate. Può essere letta in due modi: come la rappresentazione del pericolo o come l'esibizione del rischio, ma so che, solo ipotizzandolo, sarò oggetto di insulti (letteralmente) e insinuazioni che hanno il solo obiettivo d'impormi di tacere o di piegarmi al «pensiero unico». Anch'io sono stato pesantemente minacciato, e sono stato sotto scorta, per avere denunciato, e questo nessuno può negarlo, gli sporchi interessi della mafia nella grottesca e criminale vicenda della falsa «energia pulita». Non conta che i fatti mi abbiano dato ragione, e non conta che mi siano arrivati teste di maiale, cani morti e lettere anonime. Io resto uno «stronzo» e non sono un magistrato. Per di più, non si sa perché, mi hanno costretto a dimettermi e hanno sciolto il Comune di cui ero sindaco senza il minimo indizio di «infiltrazioni della criminalità organizzata», sulla base di una vecchia inchiesta sulla sanità locale che riguarda una sola persona, e che meritava un processo individuale, peraltro in corso, con incerto esito. Io dovevo essere bloccato e infamato. E, per di più, non difeso. Eppure nessun sindaco in Sicilia ha fatto, ed è documentato, senza mezzi e senza solidarietà teatrali, quello che ho fatto io. In ogni caso, le minacce valgono solo se riguardano quelli che stanno dalla parte giusta, gli altri restano, con un procedimento mentale di stampo singolarmente mafioso, «infami». Così mi viene in mente un grande e controverso giornalista, dimenticato, vituperato, umiliato. Fuori dal coro, dalla parte sbagliata: Lino Jannuzzi, più o meno coetaneo di Caselli. Penso alle loro vite parallele. Caselli è arrivato alla pensione (con una liquidazione di 400mila euro e un appannaggio mensile di 8mila), onorato, celebrato, gratificato, in una lunga carriera nella quale non ha mai pagato per i suoi errori, trovando sempre qualcuno pronto a giustificarlo. Caselli santo, con la bianca aureola. E chi lo attacca è un nemico dello Stato, un complice della mafia o di un non meglio definito «potere», stranamente sempre destinato alla sconfitta. E Jannuzzi, pluricondannato, anche arrestato, solo per aver parlato. E, oggi isolato, costretto a cambiare casa per i debiti. Da un'altra parte gli incriticabili e intoccabili (pensiamo agli innumerevoli errori non solo di Caselli, ma di Di Pietro, Ingroia, Woodcock, De Magistris, tutte star, grazie a giornalisti compiacenti) che non hanno mai pagato per gli errori compiuti, talvolta gravissimi, come il letterale sequestro di persona, con carcerazioni ingiuste per valutazioni sbagliate. Il magistrato non paga l'errore, diretto e riconoscibile contro la persona. Il giornalista paga le critiche come per lesa maestà. Nella manipolazione dei fatti, un collega di Caselli, Lombardini, che si suicida dopo la visita a domicilio di Caselli e di altri quattro magistrati (con volo di Stato e scorte pagate), prima di morire lo ringrazia per la «correttezza dell'interrogatorio». Non c'è speranza. E c'è diffamazione per chi critica Caselli o Di Matteo, mentre c'è approvazione per chi, come Salvatore Borsellino, dietro il sangue del fratello morto, dichiara ripetutamente, insistentemente, che Napolitano è il garante dell'innominabile patto Stato-Mafia, anzi, della trattativa: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». Per Borsellino, per Travaglio e per i pm antimafia, il presidente della Repubblica non è una istituzione che va rispettata, ma può essere insultato, considerato garante dell'intesa Stato-mafia. Caselli no. Non si può nominare se non per lodarlo. Per intanto Jannuzzi sta in una piccola casa di periferia avendo, dopo 60 anni di attività, «complice delle peggiori nefandezze compiute dal potere», appena i soldi per pagarsi l'affitto. Demonizzato, dimenticato, costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per le sue responsabilità giornalistiche, con una sentenza definitiva di arresto, scontata tra carcere e arresti domiciliari fino all'estrema grazia del «complice» Napolitano. Qual è la sua colpa, punita dallo Stato? Avere criticato Caselli e tentato di difendere Andreotti. Questa è la libertà giornalistica in Italia.

Il giudice Vincenzo Giglio è da oggi un pregiudicato, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" il 20 ottobre 2015. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l'ex Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio, e per l'ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli. La Suprema Corte ha dunque confermato quanto disposto dalla corte d'Appello di Milano che alcuni mesi fa aveva inflitto 4 anni e 5 mesi al primo e 8 anni e 3 mesi a Morelli nel processo milanese sulla cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. La Corte di Cassazione ha confermato anche la condanna a Raffaele Fermino (4 anni e 8 mesi di reclusione), al medico Vincenzo Giglio (cugino del giudice) a 7 anni di carcere, a Leonardo Valle a 8 anni e 6 mesi, a Francesco Lampada a 3 anni e 8 mesi, all'ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Annullate con rinvio a un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, le condanne a Maria Valle, condannata in Appello a 2 anni e 9 mesi di reclusione e Luciano Russo, Michele Noto e Michele di Dio, tre finanzieri assolti in primo grado, ma condannati in appello a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Sentenza definitiva nel procedimento che coinvolse l'ex consigliere regionale, Franco Morelli e il giudice Enzo Giglio. Entrambi vengono puniti per i propri rapporti con la cosca Lampada, operante nel milanese con un vero e proprio impero economico. Il coinvolgimento dei due creò grande scalpore: Giglio, in particolare, era visto come un insospettabile, esponente di Magistratura Democratica e presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria. Giglio venne ammanettato con delle accuse gravissime: nel corso di alcuni incontri, almeno cinque, avvenuti all'interno della propria centralissima abitazione a Reggio Calabria avrebbe fornito delle soffiate agli elementi di spicco del clan Lampada circa l'esistenza o meno di indagini giudiziarie sul conto degli affiliati. Discorso analogo per la presunta corruzione con Franco Morelli, cui Giglio avrebbe rivelato l'assenza di indagini sul conto del politico, preoccupato di possibili vicende giudiziarie che ne potessero frenare l'ascesa politica. Un'amicizia, quella tra Morelli e Giglio, che sarebbe stata premiata dagli incarichi regionali ottenuti dalla moglie del magistrato, Alessandra Sarlo. Per la nomina della Sarlo, peraltro, è pendente un processo separato che si celebra a Catanzaro. Incontri, quelli tra Giglio e i Lampada nella centralissima abitazione reggina del magistrato, che gli inquirenti riusciranno a documentare "in diretta", incrociando poi con le captazioni telefoniche acquisite. Per questo, dunque, la Corte d'Appello, analizzando le intercettazioni di Giulio Lampada parla nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di "frequentazione intensa della casa del giudice Giglio" da parte del presunto boss calabro-milanese. La sentenza parla inoltre di rapporto "assolutamente amichevole e confidenziale che intercorre tra Giulio Lampada e il giudice". Lampada si sarebbe anche rivolto al magistrato chiamandolo "Enzuccio bello". Un rapporto che si inquadrerebbe, dunque, nei vari tentativi fatti dai Lampada di ottenere informazioni riservate sullo stato delle indagini. Insomma, i Lampada sentivano il fiato della giustizia sul collo e si sarebbero attivati per capire cosa stesse accadendo: "Deve ritenersi accertato che i fratelli Lampada abbiano attivato una pluralità di canali informativi e fra questi anche il giudice Giglio. [...] Non può che apprezzarsi la qualità dell'informazione fornita dal magistrato che di fatto "anticipa" ai fratelli Lampada quello che sarà per loro l'esito dell'indagine "Meta", vale a dire l'archiviazione dell'accusa per associazione di stampo mafioso e la trasmissione a Milano della terza parte dell'informativa "Meta", quella cioè che in buona sostanza ipotizzava che i Lampada riciclassero per conto della famiglia Condello". Informazioni che, a detta dei giudici milanesi, sarebbero arrivati proprio da Enzo Giglio: "Il giudice Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, violando il tal caso un segreto proprio, ha rivelato ai Lampada che presso il suo ufficio non erano pendenti procedimenti a loro carico per l'applicazione di misure di prevenzione, specie quelle di carattere patrimoniale (confisca) cui i germani erano particolarmente sensibili". E sarebbero stati proprio i molteplici incontri nella casa reggina del magistrato i momenti in cui Giglio avrebbe spifferato notizie coperte dal segreto ai Lampada: "Emerge che il magistrato fornì ai Lampada, in occasione dei documentati incontri, la notizia che non vi era iscrizione per 416 bis presso la Procura di Reggio Calabria (informazione che, a prescindere dalla sua veridicità, era comunque illecita), che erano in corso accertamenti su eventuali condotte di riciclaggio poste in essere con "famiglie" calabresi (corrispondente alla terza parte dell'informativa "Meta") e che non vi erano proposte di misure di prevenzione presso la Sezione da lui presieduta. E' altresì certo che il magistrato fosse pienamente consapevole di offrire aiuto informativo ad appartenenti a un sodalizio mafioso e dunque, per la natura delle informazioni fornite, al sodalizio stesso". Nella catena "informativa", un ruolo lo avrebbe rivestito anche l'allora consigliere regionale di centrodestra, Franco Morelli, anch'egli coinvolto e condannato nel procedimento. Tanto che la sentenza d'appello parla di un "turbinio di rivelazioni e di segreti attinenti le indagini reggine e milanesi". Rapporti, quelli con Morelli, che introducono anche la contestazione di corruzione, per cui Giglio è stato condannato, il conferimento di un pubblico impiego alla moglie, Alessandra Sarlo: "L'imponente attività captativa attesta: che il magistrato ed i familiari (la moglie Sarlo e i cugini Giglio) si prodigano, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni regionali calabresi, in favore dei politici Luigi Fedele e Francesco Morelli; che il magistrato, subito dopo il successo elettorale dei due candidati, richiede con insistenza a Morelli una diversa sistemazione lavorativa pubblica per la moglie, Alessandra Sarlo (che versa in una situazione da lui definita di mobbing presso l'amministrazione di provenienza); che, allorquando emerge una problematica connessa a vicende giudiziarie che potrebbe compromettere la carriera politica (la collocazione in Giunta regionale di Scopelliti) e quindi il potere di Morelli, il magistrato, con palese deviazione dai propri doveri, gli fornisce notizie riservate in merito all'assenza di iscrizioni o comunque di indagini a suo carico per reati di mafia". E così Giglio comunicherebbe a Morelli l'assenza di indagini: un fax inviato da una cartoleria di Reggio Calabria a un tabaccheria di Catanzaro, che il politico avrebbe dovuto sventolare sotto il naso al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, affinchè questi intervenisse per far ottenere a Morelli il tanto agognato incarico nella Giunta Scopelliti. Un "sinallagma corrutivo" che per i magistrati milanesi si perfeziona nell'incontro del 18 aprile 2010. Ancora una volta nell'assai frequentata abitazione del giudice Giglio: "In quell'incontro le rispettive esigenze di Francesco Morelli e del magistrato, entrambe già emerse e manifestatesi, si incontrano e si coniugano, quella di Giglio relativa alla sistemazione della moglie Alessandra Sarlo e quella di Morelli di avere la "carta riabilitante". Riabilitazione che, a ben vedere, era anche una delle condizioni perché Morelli potesse attivarsi efficacemente in favore del coniuge del magistrato, anche perché erano ormai divenute urgenti – con l'avvento della nuova amministrazione regionale e quindi la prevista decadenza del distacco in comando di Alessandra Sarlo a seguito dello spoil system – le pretese di sistemazione della predetta". Una sentenza che, al pari di quella di primo grado, si basa su intercettazioni e incroci investigativi: "Gli eloquenti scambi (di sms tra Giglio e Morelli, ndr) comprovano che Morelli – che ha stretto un'alleanza con Fedele per garantirsi la nomina ventilata da Scopelliti ad Alemanno – indica Fedele al magistrato come colui che potrà tornare utile per procurare la sistemazione promessa alla Sarlo". E nel dibattimento, secondo i giudici, il magistrato Giglio mentirà (possibilità prevista dalla legge) per mascherare i propri rapporti con i Lampada: "La prova della menzogna attesta che Giglio sapeva perfettamente che Giulio (Lampada, ndr) non era solamente un imprenditore calabrese al nord, che si era rivolto per un consiglio [...] la negazione mendace rivela al contrario la piena consapevolezza da parte di chi ha mentito della non ostensibilità della verità, vale a dire che i Lampada, conosciuti come ndranghetisti, si erano rivolti a lui per avere informazioni sulla situazione delle indagini certamente a loro carico. [...] E Giglio Vincenzo non si scompone dinnanzi a tale richiesta che denuncia di per sé sola l'appartenenza al sodalizio mafioso di chi la formula. E' emblematico che il magistrato – al pari di politici, medici, altri magistrati, avvocati, finanzieri – continui a rapportarsi con Giulio nonostante sia già emerso (agli inizi del 2009) sulla stampa il sospetto della sua appartenenza alla 'ndrangheta. E' il segno che per tutti l'appartenenza alla 'ndrangheta dei Lampada, essendo a loro ben nota, non rappresentava una sorpresa né un'emergenza valutata come negativa e ostativa al mantenimento e alla prosecuzione del rapporto". Politica, imprenditoria, magistratura e 'ndrangheta. C'è tutto nella rete relazionale dei Giglio, dei Morelli, dei Lampada: "Il giudice Giglio e la moglie attivano tutte le conoscenze politiche – utilmente acquisite tramite i cugini Giglio, che a loro volta vantano e sfruttano la prestigiosa frequentazione del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione – funzionali al raggiungimento dell'obiettivo, essendo il magistrato disposto a rendere e pretendere favori". Ma i giudici della Corte d'Appello di Milano vanno oltre e, nel tratteggiare le motivazioni che starebbero alla basa del rapporto tra Giglio e i Lampada, mettono nero su bianco un piccolo trattato sulla definizione della "zona grigia": "Giulio Lampada appartiene alla 'ndrangheta "silente", quella con il volto "accettabile", non disposta a farsi riconoscere con segni eclatanti, quella frequentabile, che fa salve le apparenze, che si accompagna appunto a politici, giudici, medici appartenenti alle Forze dell'Ordine, che da tale frequentazione riceve vantaggi e li elargisce, quella 'ndrangheta caratterizzata da una "doppiezza" insidiosa che è quella stessa che a ben vedere esprime lo stesso magistrato Giglio, ineccepibile nella sua attività giudiziaria, pronto a organizzare con Morelli manifestazioni contro la 'ndrangheta, ma al contempo disponibile a favorire Giulio Lampada e il suo sodalizio". Ora la Cassazione ha messo il punto definitivo sul giudice Giglio, che, in maniera pressoché automatica, verrà radiato dalla magistratura.

'Ndrangheta, arrestata ex sindaco antimafia Girasole. Isola Capo Rizzuto, accusata di corruzione elettorale in occasione delle elezioni amministrative del 2008. Nell'operazione della Guardia di finanza sono finite in manette 13 persone: tra loro anche il boss Nicola Arena, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. L'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole era considerata un'icona antimafia, un sindaco nel mirino dei clan per le sue battaglie antimafia. E invece, Carolina Girasole con la 'ndrangheta avrebbe stipulato un accordo: voti in cambio di favori. E' pesantissima l'accusa che la Dda di Catanzaro ha rivolto a quello che fino a oggi era considerato un simbolo della lotta alla criminalità organizzata calabrese. Girasole è infatti stata arrestata (e messa ai domiciliari) per corruzione elettorale. Secondo un'indagine della Guardia di Finanza di Crotone nel 2008 avrebbe chiesto e accettato i voti della cosca Arena e in cambio avrebbe garantito tutta una serie di favori da sindaco della città. Le manette sono scattate questa mattina, quando i finanzieri hanno bussato alla porta dell'ex sindaco (attualmente consigliere comunale di minoranza), di un poliziotto e di 11 esponenti del clan egemone a Isola Capo Rizzuto. Un blitz che ha portato alla notifica di accuse che vanno dall'associazione a delinquere di stampo mafioso alla corruzione elettorale, dalla turbativa d'asta all'usura, passando per il favoreggiamento e rivelazione di segreto d'ufficio. Tra i destinatari del provvedimenti anche il boss Nicola Arena, e un poliziotto che, secondo gli inquirenti, avrebbe svelato ai padrini di Isola informazioni relative ad alcune indagini. Carolina Girasole era stata eletta nel 2008 alla guida di una lista civica di centrosinistra ed aveva caratterizzato il suo mandato, che si è chiuso nel 2013, con l'impegno in nome della legalità. Alle ultime elezioni politiche era stata candidata alla Camera con la lista Scelta Civica di Mario Monti, quindi il tentativo di rielezione al Comune la primavera scorsa, sempre con una civica, che l'ha vista sconfitta, anche se eletta come consigliere di opposizione. Carolina Girasole era insomma ritenuta uno dei primi cittadini calabresi impegnati contro la 'ndrangheta e contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nelle attività dei Comuni. Il suo nome era stato accostato, in questo senso, a quelli di altre donne sindaco impegnate contro la 'ndrangheta. Come i primi cittadini di Monasterace e Rosarno, Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi (la prima non è più in carica), insieme alle quali aveva partecipato a numerose manifestazioni antimafia. Carolina Girasole, più volte oggetto di intimidazioni, era tra l'altro molto vicina ad Avviso Pubblico (La rete di enti locali per la formazione civile contro le mafie).

Era stata alla guida di Isola Capo Rizzuto dal 2008 al 2013. E' stata arrestata insieme ad altre 12 persone con l'accusa di aver preso voti dalle cosche in cambio di favori. A maggio le avevano incendiato la casa di villeggiatura, scrive la Redazione de Il Fatto Quotidiano. E’ sempre stata in prima fila contro la ‘ndrangheta. La stessa ‘ndrangheta che arrivò a incendiarle la casa al mare per intimidirla. La stessa ‘ndrangheta a cui, adesso, viene accostato il suo nome. Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto dal 2008 al 20013, è agli arresti domiciliari con l’accusa di essere stata eletta grazie a voti sporchi, in cambio dei quali avrebbe garantito favori della ‘ndrina Arena. Una delle cosche più potenti all’interno dell’organizzazione, estesa in altre regioni italiane e all’estero. La Guardia di Finanza di Crotone ha eseguito 13 ordinanze di custodia cautelare con accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, corruzione elettorale, turbativa d’asta, usura, favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. Tra gli arrestati ci sono soggetti affiliati alla ‘ndrangheta, un poliziotto che avrebbe passato informazioni alla cosca e il boss Nicola Arena, di 76 anni, capo dell’omonima ‘ndrina, già detenuto. Le ordinanze sono state emesse dal gip del Tribunale di Catanzaro su richiesta della Procura distrettuale antimafia. Carolina Girasole, professoressa e attualmente consigliere di minoranza, venne eletta nel 2008 nella lista civica di centrosinistra, alle ultime elezioni politiche era stata candidata alla Camera con Scelta civica di Mario Monti ma non venne eletta. A maggio la sua casa al mare venne incendiata, una minaccia, si pensò subito, per il suo impegno antimafia. A Il Fatto Quotidiano denunciò di essere stata abbandonata dal suo stesso partito, il Partito democratico che alle elezioni amministrative di quello stesso mese preferì appoggiare Nuccio Milone, ma venne comunque eletta come consigliere di opposizione. L’ipotesi di reato a suo carico è corruzione elettorale in occasione delle elezioni amministrative del 2008. Nei cinque anni precedenti, la Girasole aveva incentrato il suo mandato contro la criminalità organizzata. Per questo venne accomunata ai primi cittadini di Monasterace e Rosarno, Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi (la prima non è più in carica), insieme alle quali aveva partecipato a numerose manifestazioni antimafia. Ad una di queste partecipò anche l’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, venuto in Calabria per esprimere solidarietà a Maria Carmela Lanzetta dopo un’intimidazione subita.

Ecco le carte che hanno portato all'arresto dell'ex prima cittadina di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), nota per il suo impegno contro i clan. Secondo la Procura di Catanzaro, in cambio di appoggio elettorale avrebbe consentito a un prestanome del clan Arena di vendere il raccolto di un campo confiscato. Da qui l'omaggio. Il legale: "E' stata sempre contro le cosche, in quel bando il Comune non c'entra", scrive Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano”. “Il sindaco Carolina Girasole, nel momento in cui era chiamata a svolgere, con rigore e imparzialità, le sue funzioni nell’interesse della collettività e a dare un primo, vero tangibile segno della volontà dei cittadini di Isola di ribellarsi a quel giogo mafioso che per anni li ha oppressi, ha abdicato completamente al proprio ruolo e, a dispetto di tanti proclami mediatici, ha permesso alla criminalità organizzata di conseguire i suoi obiettivi e di dettare, ancora una volta, le sue leggi”. Cade così un simbolo dell’antimafia calabrese. Il gip Abigail Mellace non usa mezzi termini nell’ordinanza di custodia cautelare che ha colpito il sindaco di Isola Capo Rizzuto accusata di corruzione elettorale. Nelle quasi 400 pagine firmate dal giudice per le indagini preliminari viene spiegato come Carolina Girasole sarebbe stata eletta con i voti della cosca Arena e come avrebbe consentito ai boss di continuare a gestire un terreno di 100 ettari confiscato. Anche se non c’è un contatto diretto tra il sindaco e la cosca, per gli inquirenti (coordinati dal sostituto procuratore generale Salvatore Curcio) ci sono sufficienti prove per dimostrare i favori elargiti alla ‘ndrangheta. “Si rimane esterrefatti, però la realtà è questa. – commenta il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – Noi nel corso di attività di indagine sui terreni confiscati agli Arena, nel 2010 abbiamo scoperto che la cosca aveva votato per lei. I contatti sarebbero stati tenuti dal marito, Franco Pugliese che è cognato di un Arena in quanto sua sorella ha sposato il nipote del boss Nicola Arena”. L’impianto accusatorio poggia le sue basi sulle intercettazioni telefoniche e ambientali da cui emerge che, nel periodo della campagna elettorale del 2008, il marito della Girasole “si era recato presso il suo bar per chiedere il loro sostegno, sostegno che era stato prontamente assicurato”. Per gli inquirenti sono 1350 le preferenze che la ‘ndrangheta avrebbe assicurato alla Girasole. È stato il boss Massimo Arena a parlare di politica facendo riferimento al sindaco: “Non possiamo dirlo che gli abbiamo dato i voti… il marito è venuto avanti al bar dicendo… mi raccomando qua..la..proprio il marito… 1000 voti. Praticamente Pasquale era là dice che faceva favori ai cristiani per dargli i voti”. Pasquale Arena conferma tutto e, ignaro della cimice all’interno di un Audi A4, si confida con un amico: “Si il sindaco è stato bravo no? Glielo direi io come ha preso i voti!!!… lasciamolo stare… che questa è una femmina… questa è una merda… e tu l’hai voluta portare avanti… corriamo scappiamo… quella notte andando e tornando da Crotone… 350 Voti… questo è… queste sono le persone vedi… sigarette… omaggi”. “Chiedere voti e sostegno per una candidatura a una famiglia di ‘ndrangheta e pensare di non doverne pagare successivamente un prezzo è fuori da ogni logica”. Il pm Curcio non ha dubbi: “I voti sono stati richiesti nella consapevolezza delle conseguenze che potevano derivare. I fatti hanno dimostrato come, alla prima occasione, la famiglia Arena ha riscosso il credito vantato nei confronti del sindaco Girasole. Non è un credito economico, ma è un credito di riconoscenza, che ha legato un pezzo di Stato ad una consorteria criminale”. Il riferimento è ai terreni confiscati che la cosca Arena coltivava a finocchio. L’amministrazione Girasole avrebbe concesso al clan “non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati, quanto la loro coltivazione e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, consentendo agli stessi (Arena), attraverso l’omessa frangizollatura dei terreni, l’indizione di una gara mediante apposito bando e la conseguente turbativa della gara stessa, di commercializzare il prodotto e ricavarne un profitto lordo pari a un milione di euro». In sostanza, il sindaco antimafia piuttosto che disporre la frangizollatura dei terreni confiscati destinati all’associazione “Libera Terra Crotone”, una volta che l’Agenzia dei beni confiscati ha consegnato i terreni al Comune, il 7 dicembre 2010 ha predisposto un bando per la raccolta dei finocchi seminati su quei 100 ettari. Un bando che, neanche a dirlo, sarebbe stato vinto da un prestanome della cosca che, così, “non solo recuperava le spese di coltivazione, ammontanti a 250mila euro, sostenute nella annata agraria precedente per l’acquisto delle semenze di finocchio, ma introitava rilevanti profitti, pari ad utile netto di almeno 750mila euro”. La ‘ndrangheta incassa ma ringrazia pure. Ecco quindi che dalle indagini è emerso che gli Arena avrebbero consegnato “in dono” cassette di finocchi alla madre e al suocero del sindaco Girasole. In un’intercettazione, due indagati parlano addirittura di una cassetta da consegnare allo stesso primo cittadino. “È evidente – scrivono i magistrati – che il dono di una cassetta di finocchi non ha un apprezzabile valore materiale; è altrettanto vero però che il medesimo gesto ha un grande significato simbolico soprattutto se valutato alla luce di quelle che sono le regole non scritte ma universalmente conosciute della cultura calabrese secondo la quale un omaggio è sempre e comunque un segno di grande rispetto e stima e non viene mai fatto in favore di chi non lo merita”. “Ci sembra di vivere nel paese di Pinocchio dove le persone per bene finiscono in galera perché hanno cercato di fare il loro dovere mentre i delinquenti restano a piede libero e semmai vengono pure premiati qualche volta”. Lo sfogo è dell’avvocato Marcello Bombardiere, difensore della Girasole della quale è stato anche assessore: “Dal punto di vista penale non c’è nulla a carico dell’ex sindaco. Non ci sono intercettazioni fatte nei suoi confronti o del marito, ma solo a carico di due soggetti arrestati in questa vicenda che notoriamente odiavano la Girasole perché è stata l’unica che ha osato mettersi contro la famiglia mafiosa degli Arena rischiando anche la vita. Le dico questo perché se è vero che la Girasole fosse stata d’accordo con gli Arena c’era il modo di assegnare i terreni indirettamente ad associazioni del territorio e, invece, la Girasole ha portato avanti “Libera”. Erano stati coltivati dei finocchi dagli Arena che dovevano andare al macero. Il Comune ha deciso di dare a qualcun altro la possibilità di raccogliere i finocchi e di venderli. Il bando l’ha gestito la Stazione unica appaltante e non il Comune. In tutto questo la Girasole si è confrontata con la prefettura”.

Alla faccia dell’Antimafia, scrive Antonio Giuseppe D’Agostino su “CMnews”. Le recenti polemiche e alcuni recentissimi arresti sono la dimostrazione che qualcosa non sta funzionando nella lotta alla mafia, soprattutto all’interno di quella società civile che (forse) per non apparire distante da quella battaglia non sempre si interroga. Una società civile che viene freudianamente “perturbata” da notizie come l’arresto di Carolina Girasole, l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, arrestata all’interno di un’operazione antimafia denominata “Insula” che ha colpito la cosca Arena, egemone sul territorio. Un arresto (regime domiciliare, nda) che non vuol dire certo condanna, ma che evidenzia la necessità di interrogarsi sulle modalità e sui “campioni dell’antimafia” o su quei “patentini” che troppo spesso vengono dati con tanto di assistenza da parte delle cariche istituzionali e del partiti. Perché, oggi, stonano alcuni atteggiamenti che contrastano quel sentire comune nato subito dopo gli attentati subiti dall’ex sindaco; quello scendere da Roma e quelle interrogazioni parlamentari che non conoscono (si spera) la dura realtà. Si legge in una nota della Procura – a firma del Procuratore Capo Vincenzo Antonio Lombardo – di come l’arresto di Carolina Girasole si stato necessario perché “emerge la contestazione della “corruzione elettorale” nei confronti dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, del marito e di Massimo e Pasquale Arena, due dei figli di Nicola”. Accuse che sarebbero supportate da dichiarazioni, intercettazioni telefoniche e investigazioni che dimostrano la complicità del sindaco negli interessi della cosca. In particolare, si legge nella nota (pubblicata sul sito integralmente) della Procura, Carolina Girasole dopo un primo affidamento di facciata “all’associazione “Libera Terra Crotone”” avrebbe garantito il ritorno dei terreni alla cosca stessa, evitando la distruzione di alcune coltivazioni di finocchi e affidando la gestione dei terreni con una gara che avrebbe favorito la cosca Arena, tanto da ritenere la stessa Girasole ““addomesticata” ed interamente conforma alle loro aspettative”. Peccato che, nonostante si tratti di accuse tutte da provare, quella parola scritta dalla Procura della Repubblica di Catanzaro “addomestica”, rappresenta un colpo davvero devastante per chi ancora tenta di difendere la cultura dell’antimafia da possibili infiltrazioni. Ecco, allora, che emergono nuovamente le parole di allerta che Italo Calavino rivolgeva al mondo civile sui professionisti dell’Antimafia. Un mondo civile sempre pronto a dare solidarietà, ma che non s’interroga seriamente sul perché di determinate dinamiche che legano la politica alla criminalità organizzata. Interrogativi che sembrano essere i presupposti fondamentali per chi usa la Mafia stessa per un’antimafia di facciata, subito pronto a “schierarsi” in favore di questo o di quel personaggio, ma mai pronta ad approfondire.

Noi speriamo che la Girasole se la cavi ma i “mistici” dell’antimafia riflettano. La riflessione di Pasquale Motta su “Calabria Ora”. Con l’arresto dell’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole cade un altro “mito” dell’antimafia militante, un’icona dei “professionisti dell’antimafia”. Un pezzo di verbo delle prediche di coloro che il compianto Pasquino Crupi, definiva, non a torto, i “mistici dell’antimafia”. Faccio questa constatazione, ovviamente con amarezza e, senza alcun compiacimento, anche perché, a differenza dei “professionisti” dell’antimafia e dei “mistici” della stessa, categoria affollatissima in questa regione e nel nostro paese in generale non sono tra coloro che è sorretto dalla “virtù” di una sconfinata fiducia nei confronti della Magistratura. Anzi tutt’altro, specie di fronte alla contestazione di reati come la corruzione elettorale, reato sul quale conservo molti dubbi a causa della sua genericità. La storia giudiziaria degli ultimi tempi, infatti, ha ampiamente dimostrato che, più grandi, ampie ed eclatanti sono certe operazioni di polizia giudiziaria, più hanno evidenziato macroscopici errori ed orrori giudiziari, con conseguente distruzione e lesione della dignità e del diritto dei singoli coinvolti. Aspettiamo le carte e leggeremo nel dettaglio di cosa è accusata Carolina Girasole e, da quali motivazioni, è supportato l’impianto probatorio che ne ha determinato l’arresto. Tuttavia, questa vicenda, ci induce a fare alcune riflessioni, e dovrebbe indurre ad una seria riflessione anche tanti predicatori della nostra categoria, quella cioè, dei giornalisti abituati a mitizzare cause e personaggi quando si parla di ‘ndrangheta e antindrangheta. Chi, in questa terra, pochi per la verità, ha cercato timidamente di inserire nel dibattito qualche dubbio sul tema, non solo è stato calunniato, demonizzato, dileggiato, dai network dei “mistici della legalità”, ma addirittura, in alcuni casi, è stato accusato di favorire la ‘ndrangheta stessa. A nostro modestissimo avviso, il giornalista ha il dovere di informare e fare analisi e, per sua natura, non   dovrebbe essere catalogato in categorie specialistiche. Ultimamente, per esempio, va di moda definirsi giornalista, scrittore, blogger antindrangheta, o anti qualcosa. Il compito di una stampa seria, invece, dovrebbe essere quello di informare e avvicinarsi alla verità il più possibile, senza mitizzare, senza precostituire verità, denunciando l’illegalità e guardando con occhio critico anche all’azione della Magistratura, che al pari degli altri, è anch'essa un “potere”, il terzo e, al pari degli altri poteri, non è immune da abusi, storture, collusioni e compromissioni. Nel nostro paese e, di conseguenza, nella nostra regione, non avviene nulla di tutto ciò, anzi, il giornalismo costituito dai “mistici della legalità”, è diventato anch’esso potere altro, rispetto a quello della stampa, assumendo una forza mediatica sempre più influente, stabilendo chi è buono e chi è cattivo, chi è degno e chi no, quali magistrati siano bravi e quali incompetenti, quali giornalisti siano servi e quali liberi, quali sentenze siano giuste e quali sbagliate. Una lobby mediatica dunque, potentissima, che orienta i riconoscimenti nei premi letterari, che promuove Premi, sostiene libri e autori nei talk show, che fa rete, che redige liste di politici da sputtanare o da difendere e che, spesso, orienta purtroppo, finanche l’azione di Giudici e Pm, specie di coloro alla perenne ricerca di un posto al sole, che sono tanti, che sono troppi. E’ indubbio che anche la Girasole, per un bel pezzo, abbia goduto dell’appoggio di questa rete mediatica. Ancora, lo scorso 5 ottobre, è stata insignita a Ferrara dal presidente del Senato Pietro Grasso del premio 'Ferrara città per la pace'. Noi ci auguriamo che le accuse alla Girasole, siano solo un grande equivoco e che, al più presto, possa recuperare la libertà personale e l’onore politico. Diversamente, c’è da chiedersi e, dunque, cominciare a dubitare, dei criteri e delle valutazioni concreti, con i quali, la rete dei “mistici dell’antimafia militante”, abbia innalzato e continua ad innalzare sugli altari degli eroi antimafia, dei testimoni della legalità, le personalità che promuove.

"Presto sapremo se ci troviamo di fronte al più clamoroso errore giudiziario della storia calabrese o se, più semplicemente, si sta scoperchiando il vaso di Pandora negli intoccabili ambienti di una certa 'antimafia di serie A' con la quale non abbiamo mai avuto e non avremo niente a che spartire". E' quanto dichiara, in una nota, il leader del movimento antimafia 'Ammazzateci tutti', Aldo Pecora, in seguito all'operazione 'Insula', che ha visto tra i 13 finiti in manette anche l'ex 'sindaco antimafia' di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole (PD). "Chi a causa del proprio impegno ha sopportato anche i piccoli schizzi di fango della delegittimazione argomenta Pecora sa bene come leggere notizie del genere, approfondendole senza pregiudizi e andando oltre i titoli delle cronache". "Ebbene, siamo i primi ad augurarci tutt'altro continua il fondatore di 'Ammazzateci tutti' ma stando ai fatti accertati dall'Operazione condotta dalla Guardia di Finanza di Crotone e dalla DDA di Catanzaro pare ci sia purtroppo ben poco da approfondire o trattare col beneficio del dubbio: indagini delicate e scrupolose protratte anni, intercettazioni ambientali, contatti inconfutabili tra un sindaco icona antimafia, i suoi assessori e gli affiliati al clan locale con argomento anche la gestione dei beni a questi confiscati; elementi iscrivibili nella trama di una nota fiction trasmessa di recente in tv, e che invece purtroppo sono cronaca agghiacciante della realtà". Aldo Pecora, quindi, rilancia: "a questo punto il movimento 'Ammazzateci tutti' fa appello pubblicamente a tutta l'antimafia sociale, prima che alle istituzioni e alle autorità preposte, affinché si avvii una seria riflessione sulla gestione e, soprattutto, sul monitoraggio dei beni confiscati alle mafie riutilizzati socialmente". "Una questione conclude che alla luce di questo ed altri fatti analoghi non può essere più differita".

A Isola Capo Rizzuto crolla l'Ipocrisia: Libera che farà?

«La ‘ndrangheta, come ogni altra organizzazione mafiosa, sia Cosa Nostra o Camorra, ha capito da tempo che deve saper “fare antimafia”. Ciò soprattutto attraverso i politici, gli amministratori pubblici. A volte anche con associazioni, comitati e gruppi che si professano antimafia su un particolare territorio. Usare “l’antimafia” per costruirsi patentini di credibilità. Usare “l’antimafia” per salvaguardare i propri sporchi interessi. Questo è un elemento che se si vuole fare antimafia sul serio, nel concreto, dal punto di vista sociale, culturale, nella cosiddetta “società civile”, non si può ignorare. Se lo si ignora si rischia di generare mostri. Di farsi, più o meno consapevolmente, strumento delle organizzazioni mafiose per perseguire i propri affari. Più volte noi abbiamo denunciato il rischio di “accreditare” con patentini antimafia soggetti, a partire da politici ed amministratori pubblici, che di antimafia non avevano proprio nulla, ed anzi vedevano la presenza di pesanti ombre se non ben altro di peggio. Questo mettere in guardia, questo indicare alcuni casi verificatisi, è stato inutile. La risposta, ad esempio, di “Libera” è stata quella di querelarci… Dopo i fatti di Isola Capo Rizzuto, dell’ex sindaco Carolina Girasole, arrestata questa mattina per i legami con la cosca degli Arena finalizzati alla sua elezione, quella stessa Girasole eretta da Libera a “simbolo dell’antimafia” in Calabria, se Libera vuole fare quel bagno di umiltà che suggerivamo recentemente e sedersi ad un tavolo con gli “altri” dell’antimafia, per cambiare radicalmente ed eliminando certe storture, noi siamo disponibili, come pensiamo lo siano anche altri. Garantire alle strutture che fanno “antimafia” gli anticorpi necessari ad evitare contiguità con i contigui, e collaborazioni con soggetti tutt’altro che limpidi ed in certi casi complici veri e propri delle mafie, è un dovere, crediamo, a cui non ci si può sottrarre. Così come crediamo sia da considerare un dovere il rifiutare finanziamenti da chi non è trasparente o coerente, come anche evitare di “abbracciare” strutture o singoli che è opportuno tenere (e, nel caso, mettere) ben alla larga. Libera ha querelato noi ed altri che hanno osato indicare il problema. Con il blocco politico-economico con cui ha scelto di operare, facendosi “di parte”, ha cercato di annientare, isolare e delegittimare chi osava non allinearsi indicando certe incongruenze, come, ad esempio, l’accettare finanziamenti da chi limpido non era. Crediamo che quanto accaduto ora imponga davvero un cambio di passo. Noi, per gli attacchi e gli insulti subiti (tutti documentati) non abbiamo mai fatto querela a Libera ed ai suoi esponenti. Non dobbiamo quindi da sotterrare alcuna “ascia di guerra”. Se loro vogliono ritirare la querela contro di noi, perché si era osato metterli in guardia indicando certe storture, noi accetteremo la remissione e saremo a quel punto pronti ad un dialogo e confronto costruttivo che è quello che, da sempre, abbiamo auspicato, nel solo interesse, lo ripetiamo, dell’eliminare le storture utili alla mafia e non certo all’antimafia. Ma attenzione: un dialogo e confronto serio aperto a tutti, non solo a noi, ma anche agli altri che in questi anni sono stati messi al bando da Libera, che ha preferito tenere rapporti con certi amministratori pubblici e politici, nonché anche con certi meccanismi assai discutibili. La pari dignità deve essere la base perché anche da questo approccio passa l’assunzione di corresponsabilità che impone a tutti, senza esclusione alcuna, di fare la propria parte per evitare lo “stupro” dell’antimafia. Ognuno di noi ha propri metodi di lavoro e di azione, in alcuni casi molto diversi, anche radicalmente diversi. Ognuno di noi ha convinzioni diverse, ad esempio, anche sulla gestione dei beni confiscati, che noi vediamo viziata di troppe storture dettate dalla sete di business e viziate da un pericolo clientelismo. Noi non vogliamo imporre il nostro punto di vista, il nostro essere, ad altri. Ma confrontarsi, in un Paese civile, nelle differenze, anche con toni accesi, dovrebbe essere la prassi. Rispettarsi dovrebbe essere la norma. Si voleva dipingere Libera come un santuario imbiancato che non sbaglia mai. Non lo è. Tutti sbagliano. Tutti sbagliamo. Si è assistito ad una volontà di isolare, delegittimare ed annientare chiunque fosse “altro” da Libera. Si è posto sul banco degli imputati chi indicava i problemi, anziché affrontare e risolvere i problemi indicati. La questione è accettare che esistano “altri”. Altri soggetti. Altri metodi. Altre convinzioni. Altre sensibilità. Ascoltandole si possono correggere errori, sbandamenti e superficialità. Si possono quindi evitare conseguenze devastanti che rischiano di spezzare la speranza di tanti ragazzi che credono e vogliono un’antimafia vera e concreta. Speriamo che con l’ipocrisia caduta a Isola Capo Rizzuto si volti pagina. Questa svolta è necessaria anche per quei ragazzi e quelle ragazze che si sono visti presentare la Girasole - così come, in altri territori, altri soggetti impresentabili - quale simbolo dell’Antimafia. C’è chi come noi, svolgendo l’attività di contrasto alle mafie, sente, da sempre, come primo dovere quello di evitare di essere “usati”, altri hanno chiuso gli occhi e si sono fatti usare, hanno permesso l’abuso della fiducia di tanti. E’ ora che chi ha chiuso gli occhi li apra. Casa della Legalità Ufficio di Presidenza».

E' tornata in libertà e ha parlato al Tg della Calabria, Rosy Canale, la fondatrice dell'associazione antimafia "Movimento delle donne di San Luca" arrestata nei giorni scorsi nell'ambito di un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria, per malversazione e truffa (non per reati mafiosi). «A tutta questa grande montatura non c'è un riscontro oggettivo», ha detto Rosy, tornata in libertà il 31 dicembre scorso e intervistata dopo che il tribunale del riesame ha revocato l'ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. «Non c'è un documento in sette faldoni e migliaia di pagine - ha detto la donna - e non c'è un documento che sia di riscontro a quelle che sono le accuse. Non esiste una minicar, non esiste una settimana bianca, non esistono i vestiti che loro dicono. Voglio le carte che riscontrano le loro accuse, queste carte non esistono». In merito ad una frase intercettata dagli investigatori mentre parla con la madre, Rosy Canale ha detto: «mia madre, in quella intercettazione, anche riassunta, non fa alcun riferimento al denaro del Movimento delle donne di San Luca. Se mia madre mi dice 'non spendere tanti soldi', questa è la frase, viene interpretato che sono quei soldi ma dove è scritto, dove è il riscontro». «Rosy Canale - ha proseguito - lo è tutt'oggi, è un personaggio scomodo perchè San Luca è quello che interessa che rimanga» come ora, «perchè fa comodo a tanti. Difendere San Luca significa toccare i fili e chi tocca i fili muore. Da una parte e dall'altra». «Alle donne di San Luca - ha concluso - dico di non credere ad una parola di quello che hanno letto».

Con tempismo non voluto, ieri avevo fatto questo post su uno spettacolo di Rosy Canale di cui mi era arrivata notizia ma oggi c’è un’altra notizia ben più grave: Rosy Canale è stata arrestata. Motivazione: ipotesi di truffa aggravata e peculato (non aggravate dalla condotta mafiosa), scrive Anna Bandettini su "La Repubblica". Un’accusa pesantissima e orrenda per una donna che era diventata bandiera della lotta delle donne contro la n’drangheta. Il recital di Rosy Canale si intitola Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno il recital di e con Rosy Canale (diretta da Guglielmo Ferro) e racconta la sua vita, ovviamente a modo suo. Nata a Reggio Calabria, 40 anni, nel recital la Canale ripercorre quella che lei definisce la sua lotta contro la ‘ndrangheta. Nello spettacolo dice questo: che quando gestiva la discoteca Malaluna aveva ricevuto minacce, pestaggi (le rompono denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore) per aver impedito di spacciare droga nel locale. I fatti risalgono al 2004. E’ obbligata a anni di riabilitazione, poi si trasferisce a New York. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg in Germania – sei morti per una faida tra due cosche di San Luca – Rosy Canale decide di tornare in Calabria: lavora come volontaria nella scuola, “capisco che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza”, dice in scena. E fonda il Movimento delle Donne di San Luca, esperienza che si chiude per mancanza di sotegno economico. Nel 2008 Rosy Canale ha vinto perfino il Premio per la Legalità del Comune di Locri e poco dopo decide di raccontare la sua storia a teatro. Ad ottobre il Progetto contro le Mafie organizzato da Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano ospita il debutto del suo spettacolo Malaluna Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno.Lo spettacolo era in tournèe in Italia; ieri al Teatro Morelli Cosenza, sarebbe dovuto andare anche a Bologna, Torino. Oggi l’arresto per ipotesi di truffa.

Rosy Canale, classe 72. Un metro e sessanta scarso di tenacia e di buona volontà è la fondatrice del Movimento donne San Luca e della Locride, è scritto sul suo portale. Rosy è la madre di Micol, una dolce brunetta di 18 anni, compagna di avventure. Rosy è una di quelle persone che non ce ne stanno più tante in giro. Una mosca bianca, una sognatrice, una credente!!! Lei lo sa bene e ci ride sopra…alcuni giorni di più di altri. Rosy è una che crede nelle regole, nei valori di una vita sana e cristiana. Crede che chiunque lavori meriti una ricompensa, un salario equo ai propri sforzi, e che forse gli spazzini dovrebbero guadagnare di più' degli avvocati. Senza forse…Crede che la politica debba essere al servizio del cittadino e non che il cittadino debba mantenere i porci della politica. Crede che la ndrangheta, la mafia, la camorra, la malavita tutta sia una conseguenza spesso e non la causa. Crede che i colpevoli debbano essere puniti e gli innocenti non più' perseguitati, criminalizzati, emarginati. Crede che la Calabria non uscirà dall'emergenza bisogno fin quando la gente non si organizzerà autonomamente sputando in faccia a chi li ha derubati e resi schiavi, che non sempre è la malavita. Non quella riconosciuta. Quella con i colletti bianchi, quelli della fascia grigia…Crede che quello è accaduto a San Luca con il movimento donne sia un'esperienza replicabile in tutti quei piccoli centri in cui la vita deve necessariamente ritornare ad essere vita e non più sopravvivenza. Crede nella forza unica delle donne. Crede nella minaccia dell'ignoranza e della superstizione. Crede che la madre dei cretini è sempre incinta, ma a questo mondo c'è spazio per tutti...Crede che è meglio trattare con uno ndranghetista che con un giornalista. Il secondo è molto più' spietato e delinquente del primo. Crede che la vera rivoluzione sia quella del bene. La vera vendetta quella dell'amore. La più grande punizione il silenzio. La più saggia risposta, talvolta, è quella che non si da. "Sono nata in un giorno di maggio a Reggio Calabria, il luogo al quale ero stata destinata, dove sarei dovuta crescere come mia madre, le mie nonne, le zie e tutte le altre donne della mia famiglia. Forse era scritto che lì sarei dovuta anche morire. Mia madre Lidia aveva trentasei anni: un parto tardivo per una donna del Sud nei primi anni Settanta. Le sue sorelle e le cugine più giovani erano già sposate e madri da un pezzo, ma lei aveva inizialmente scelto il cammino della preghiera e della meditazione. Lidia era nata a Fiumara di Muro, un paese di campagna poco distante da Villa San Giovanni, la cittadina portuale dove ci s’imbarca verso la Sicilia. Penultima di sette figli, terza di tre sorelle, era quella più legata alla famiglia. Una donna esile, di piccola statura, con capelli lunghissimi che le scivolavano intrecciati lungo i fianchi. Ubbidiente, rispettosa e laboriosa. Di lei si diceva: «Bucca avi e parola no». Parla poco, ma al momento giusto. Lidia pregava, ricamava e nei pomeriggi della bella stagione passeggiava con le cugine fino al tabernacolo della Madonnina di fronte alla posta del paese. Sono ancora tra le sue foto più care quelle dove lei ragazza sorride poggiata al muretto di cinta, con in mano i fiori di lavanda e le roselline che portava in chiesa all’ora della funzione. Sfogliava la sua esistenza tra il convento delle suore e l’ultima stanza a sinistra oltre il salone con il pavimento in pietra, nella grande casa in via Tobruk. Finché incontrò mio padre. Sua madre, nonna Maria, era cresciuta con una zia senza figli. Un tempo era consuetudine: se in famiglia c’era una sorella sterile, uno dei nipoti avrebbe abitato con lei. Un’adozione all’interno dello stesso nucleo di parenti, senza carte né tribunali, che rafforzava i legami. Così accadde che una zia portò Maria a vivere con sé a Bovalino, sul mare, appena sotto San Luca. E lei divenne adulta alle pendici dell’Aspromonte. Lì imparò a pregare, a ricamare e a cucinare, come tutte le donne di quei luoghi. Conosceva il santuario di Polsi, mia nonna. Era così devota alla Madonna della Montagna che non perdeva occasione per invocarla e rivolgerle ringraziamenti. Mi faceva sedere sugli scaloni tra i due ingressi, dove l’aria era più fresca, per raccontarmi che ogni anno, da quando ne avesse memoria, i primi di settembre partiva a piedi di notte, il pane legato in un fazzoletto, e andava dalla « Vergine bella » con una comare di San Luca che l’aveva cresimata. Fin da piccola Maria aveva il compito di tenere in mano la torcia, nulla più che un ramo di limone con in cima una pezza di iuta legata stretta e im- bevuta nel catrame. Lo zio le camminava al fianco, ma era lei a guidare il gruppo, a segnalare le pietre grandi, i ruscelli freschi e le radici. « Dda puzza l’aiu ancora nto nasu », mi diceva. Le pareva di sentire ancora nelle narici l’odore urtante del catrame bruciato. Conosceva il cammino tra le rocce come la sua casa, e ridendo mi confessava a bassa voce che persino bendata avrebbe trovato la giusta direzione verso Polsi. Quel cammino si dipanava dentro di lei, prima che nei boschi dell’Aspromonte. Descriveva il rivolo di fiaccole in movimento nel nero fitto dei lecci che, come lucciole, si muovevano vibranti. I canti e le preghiere intonati lungo la strada dalle donne al bagliore leggero della luna. Molte facevano voto di camminare scalze fino al santuario, per poi raggiungere l’altare in ginocchio piangendo e pregando. Alcune strisciavano persino la lingua dall’ingresso della chiesa fino alla teca che custodisce la Santa Madre. Era la prima metà del Novecento." "IN QUESTO PERIODO STORICO PARTICOLARE E' UN ONORE ESSERE SULLE PRIME PAGINE DEI GIORNALI E, GRAZIE A DIO, SENZA AVER NE RUBATO NE UCCISO NESSUNO..." Rosy Canale

La popolare rivista svedese Dagens Nyheter, lunedì 31 ottobre 2011, ha dedicato la copertina ed un reportage di 16 pagine a Rosy Canale, alla sua storia personale, al suo impegno per l'affermazione della cultura della legalità e all'esperienza del Movimento donne San Luca. L'articolo è stato scritto magistralmente dal giornalista Peter Loewe, il quale era stato in visita a San Luca e a Polsi la scorsa estate, partecipando anche alla splendida festa della Madonna della Montagna del primo settembre. Una storia, quella documentata, decisamente fuori dagli schemi culturali del popolo svedese, così attento alle regole e al rispetto della vita in ogni senso. Purtroppo una realtà deprimente quella della malavita, uno status a cui ormai i calabresi ma anche gli italiani, tutti, non fanno più caso. Siamo assuefatti all'orrore, alla prevaricazione, al sopruso e all'illegalità diffusa. Viviamo nella normalità dell'orrido. E Corrado Alvaro profeticamente aveva colto, molti anni fa, lo stato d'animo che quelle dinamiche maligne e contorte avrebbero causato: la convinzione che vivere onestamente sia del tutto inutile! La Svezia si indigna, si meraviglia, si interroga di fronte ad una storia che per noi, italiani meridionali, è di normale amministrazione quotidiana. Noi, tiriamo a campare, o meglio a “compare”, alla ricerca di quale “amico” a cui votarci per poi esserne riconoscenti a vita per grazia ricevuta. - “Non sono le copertine dei giornali che cambiano la storia, ne ho avute altre, e purtroppo non è cambiato nulla. Certo è una grande soddisfazione essere nella prima pagina di un giornale internazionale e non per aver rubato, come molti, ma per aver cercato di costruire opportunità in questa terra dimenticata - dichiara Rosy Canale - . “Siamo disorientati e privi di riferimenti credibili. Molte istituzioni a cui ci siamo appellati più volte per ottenere delle risposte, sono proprio quelle che vivono in uno stato di collusione morale con ambienti malavitosi, divenendone anche il più delle volte “soci in affari”. La legalità è un tema attualissimo, ma del tutto controcorrente, scomodo, e non interessa a nessuno. Siamo in pieno Festival degli Orrori. Siparietti, ingiustizie, e danni contro la collettività sono stati ormai legittimati sotto gli occhi di intere popolazioni che invece di ribellarsi a tutto questo continuo dilapidare umano, morale ed economico, si sono messi in fila per entrare nei palazzi e poter bere anche loro dalla coppa della vita...” Continua Rosy Canale “ La lotta alla criminalità parte principalmente dalla costruzione di modelli di vita alternativi legati a formazione e lavoro specie nel mondo giovanile, oltre al fattore culturale, che spesso viene ridotto ad aria fritta nei vari convegni di pura propaganda. Anche la gente deve fare la sua parte, ma il sacrificio non è gradito a tutti. Stiamo lavorando con molti giovani, in diverse cooperative nella Locride. Intagliano il legno e producono oggettistica molto particolare e commerciale. Si potrebbe fare molto di più ma la politica non ci aiuta. Per quanto mi riguarda non vedo distinzione tra destra e sinistra, in quanto a qualità, trasparenza e appartenenza. In Calabria poi, consiglierei il “ chi è senza peccato...scagli la prima pietra...”

Rosy Canale e le telefonate che imbarazzano il Pd. Nelle carte la Finocchiaro, De Sena e Serra, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. L’«eroina antimafia» e il suo «mentore politico». Rosy Canale, simbolo della lotta alle cosche calabresi col suo movimento «Donne di San Luca», accusata di spendere per sé i soldi destinati alle attività antimafia e arrestata pochi giorni fa con l’accusa di truffa e peculato, aveva una guida politica di tutto rispetto: Luigi De Sena, ex vicecapo della polizia di Stato, poi superprefetto a Reggio Calabria, senatore del Partito democratico e infine, nella legislatura 2008-2013, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Dell’indiscussa vicinanza di De Sena all’ormai ex eroina antimafia si parla nell’ordinanza di arresto firmata dal gip Domenico Santoro. In alcuni dialoghi intercettati dal 19 ottobre 2009 in poi, emergono i contatti continui fra la Canale e De Sena, per il tramite del suo staff. «Non si tratta – scrive il gip - di un contatto sporadico ma (…) di un supporto che si concretizza in un aiuto a 360 gradi». Anche se dalle intercettazioni emerge un buon rapporto con Achille Serra, ex prefetto di Roma, transitato in Forza Italia, poi senatore del Pd e infine approdato all’Udc, è con lo staff di De Sena che c’è familiarità. Tanto che per il gip i rapporti «si dimostreranno granitici al punto che il senatore assumerà la veste di vero e proprio “mentore” e consigliere della Canale per ogni tipo di decisione che la stessa prenderà, compresa la candidatura alle elezioni regionali del 2010» poi non concretizzatasi. Si candiderà invece con il Pd al consiglio comunale di Reggio Calabria e prima ancora alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nell’ordinanza si parla anche dell’impegno della Canale per l’apertura di una ludoteca all’interno di un bene sequestrato alla famiglia Pelle e mai entrata in funzione. Sottolinea il gip: «La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca». In una seconda conversazione telefonica, si sottolinea nell’ordinanza, Maria Damiano dice alla Canale che «la villa è già stata destinataria di un contributo del Pon Sicurezza», per poi concludere: «Così De Sena è contento». Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Questa la versione di De Sena: «Ho conosciuto la Canale quando ero già parlamentare. Era venuta in segreteria a chiedermi un aiuto per alcune iniziative. Compatibilmente con il ruolo che rivestivo ho fatto qualche telefonata, ma mai per chiedere finanziamenti o sponsorizzazioni. Deciderò se tutelarmi legalmente. La presentai anche a Veltroni come una giovane speranza per la Calabria. Che ne potevo sapere io?».

Rosy Canale e Sebastiano Giorgi: i simboli antimafia arrestati a San Luca, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Sei fermati in un'operazione contro la 'ndrangheta nel comune in provincia di Reggio Calabria. In manette anche l'ex sindaco. Così come la nota attivista, per truffa aggravata e peculato, ma senza aggravante dalla condotta mafiosa

Sei persone, compresi due boss, una attivista antimafia, un ex sindaco e un ex assessore di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, sono state arrestate dai carabinieri con le accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e reati contro la pubblica amministrazione. Secondo gli inquirenti, avrebbero agevolato la ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale. Tra i fermati c’è anche Rosy Canale, già conosciuta per il suo impegno antimafia: coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca” (un’associazione che si occupa di sostegno sociale), sulla donna pesa l’accusa di truffa aggravata e peculato (ma senza aggravante dalla condotta mafiosa). Il Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Dda coordinata dal Procuratore Federico Cafiero de Raho ha disposto sei misure cautelari, cinque in carcere e una agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta ribattezzata “Inganno”, spiccano i nomi di quelle che erano considerate due icone antimafia, ovvero l’ex sindaco Sebastiano Giorgi, di 48 anni, ma soprattutto Rosy Canale, 41enne, coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”. In carica dal 2009 fino ai primi mesi del 2013, Giorgi era noto per aver partecipato a diverse manifestazioni di denuncia contro la ‘ndrangheta, offrendo un’immagine anti-mafia alla sua Amministrazione. Eppure, nel maggio 2013, era stato deciso lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Un provvedimento disposto allora dal prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, su delega del Ministro dell’Interno. Di fronte alla decisione, l’allora sindaco si era detto “amareggiato e sorpreso”, difendendosi e spiegando di aver sempre operato nel segno della legalità e della trasparenza, come si spiega su Mnews.it. In realtà, secondo gli inquirenti che hanno condotto l’indagine che ha portato al suo arresto, la sua elezione sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta. Tutto in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. Tra questi, quello per la metanizzazione del paese di San Luca, l’appalto più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. Un controllo totale delle attività comunali, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti. Per Rosy Canale, invece, che si trova agli arresti domiciliari, non c’è alcuna accusa di reati mafiosi, ma di peculato e truffa.

CHI E’ ROSY CANALE – La coordinatrice del Movimento delle donne di San Luca avrebbe utilizzato per l’acquisto di beni personali i finanziamenti che dovevano invece essere destinati a finalità sociali. Risorse che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro. La donna, conosciuta per il suo impegno antimafia, è nata e cresciuta a Reggio Calabria: la sua giovinezza – ha raccontato – è stata “scandita dai morti ammazzati della seconda guerra di ‘ndrangheta in riva allo stretto”. Diventata un’imprenditrice di successo nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, era nota per essersi opposta allo spaccio di cocaina nella sua discoteca, imposto dalle ‘ndrine di Reggio. Per questo motivo aveva subito un violento pestaggio, con i malavitosi che le avevano rotto denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore. Era riuscita però a salvarsi e, dopo otto mesi di ricovero e tre anni di riabilitazione, decide di trasferirsi proprio a San Luca, il paese aspromontano considerato la capitale della ‘ndrangheta mondiale. Decisiva per la scelta - si spiega sul suo profilo su Facebook –  era stata «la strage di Duisburg del ferragosto del 2007, spartiacque della sua esistenza». Considerata come «una mattanza senza precedenti, pianificata a pochi chilometri dalla sua Reggio e consumatasi in Germania. L’ennesimo orrore della lunga faida tra le cosche di San Luca». Canale aveva deciso di avviare a San Luca una «rivoluzione pacifica fatta di legalità e condanna della violenza». Si spiega: Lavora come volontaria nella scuola media e fonda il Movimento delle Donne di San Luca dove si ritrovano le madri, le sorelle, le mogli e le figlie di tante famiglie toccati da lutti di ‘Ndrangheta. La mission dell’associazione è quello di creare opportunità formative, lavorative e culturali in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa. «La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndrangheta, ma io non sono morta». Tanto da aver deciso di raccontare la sua storia nei teatri italiani con un evento intitolato “Malaluna – storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con regia di Guglielmo Ferro e musiche di Franco Battiato. In pratica, un simbolo della lotta contro la ‘ndrangheta. In manette sono finiti anche due boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, 57 anni, e Francesco Strangio, di 59 anni. Allo stesso modo come Francesco Murdaca, assessore comunale della Giunta che aveva come sindaco proprio Sebastiano Giorgi. Il reato contestato è di associazione mafiosa.

Rosy Canale, l'imprenditrice anti 'ndrangheta arrestata per truffa. Con i soldi dell'antimafia comprava macchine e vestiti. La Dda di Reggio Calabria ha eseguito l'arresto nell'ambito dell'operazione "Inganno". E' accusata di utilizzare i fondi a "fini personali". Il procuratore Gratteri: "No ad 'antimafia delle parole'", scrive Giuseppe Baldessaro su “La Repubblica”. Con i soldi dell'antimafia si comprava macchine, i mobili per la casa e i vestiti. Non si faceva mancare nulla Rosy Canale, viaggi compresi. Beni e vizi pagati con i contributi assegnati all'associazione “Donne di San Luca”. Denaro che doveva servire a sostenere attività per la legalità e che invece sono stati “distratti a fini personali”. Stamattina la Dda di Reggio Calabria ha fatto arrestare un'altra icona della lotta alla 'ndrangheta. Una donna che, come Carolina Girasole (l'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto arrestata la scorsa settimana) era considerata un punto di riferimento, una faccia pulita della Calabria onesta. Non a caso l'indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Nicola Gratteri e condotta dai carabinieri è stata chiamata “Inganno”. La Distrettuale antimafia ha infatti scoperto che i soldi del Ministero della Gioventù, del Consiglio Regionale, della Prefettura e della Fondazione “Enel Cuore”, da utilizzare per la gestione di un bene confiscato alla famiglia Pelle sono stati invece usati a “fini personali”. Per questo che la ludoteca per i bambini di San Luca, inaugurata nel 2009, in realtà non è mai entrata in funzione. "Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere", ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabriasulla vicenda. "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli", ha aggiunto Gratteri riferendosi alle "promesse fatte alle donne di San Luca, anche a quelle colpite da forti lutti". Nella lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti", ha sottolineato. Le donne di San Luca "non hanno mai visto quei soldi". Il monito del procuratore aggiunto della Dda reggina è di "fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa". Rosy Canale, 40 anni, è accusata di truffa aggravata e peculato. Il suo curriculum la racconta come imprenditrice reggina che si è ribellata alla 'ndrangheta a cui impedì di spacciare droga nel suo pub-discoteca. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg, si trasferì per un periodo ai piedi dell'Aspromonte e fondò il “Movimento delle donne di San Luca”. Un'associazione che aveva tra le sue finalità quella di lavorare per i bambini del paese. Un progetto che poi non andò avanti. Nel frattempo Rosy Canale ha continuato la sua attività pubblicando un libro “La mia 'ndrangheta” per le Edizioni Paoline, e  portando in giro per i teatri italiani lo spettacolo “Malaluna - Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con le musiche Franco Battiato, già andato in scena in alcune realtà. Nei giorni scorsi aveva ricevuto a Roma il premio “Paolo Borsellino”, e proprio in quell'occasione aveva invitato Papa Francesco ad andare a San Luca. Pur non essendo indagata per reati di mafia, Rosy Canale è finita in un'inchiesta che ha portato all'arresto di altre cinque persone accusate di reati di 'ndrangheta. La Procura guidata da Federico Cafiero de Raho ha ottenuto la custodia cautelare per l'ex sindaco di San Luca (oggi sciolto per mafia), Sebastiano Giorgi, e per l'ex assessore all'urbanistica, Francesco Murdaca. I due amministratori avrebbero in più occasioni favorito le cosche. In particolare è stato rilevato che Francesco Strangio, alias “Ciccio Boutique”, era riuscito ad accaparrasi la gestione del mercato del Comune e della zona di Polsi. Nelle fascicolo ci sono poi storie di appalti e di intestazioni fittizie, dietro le quali ci sarebbero stati i boss della “Mamma”, la “società di 'ndrangheta” di San Luca, riconosciuta come la più “antica, potente e autorevole della Calabria”.

I ruoli dei due personaggi più noti coinvolti nell'operazione "Inganno" sono stati chiariti dalle attività investigative che hanno permesso di ricostruire ogni passaggio, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. L'aspetto più eclatante è legato a Rosy Canale, che è agli arresti domiciliari. Non è accusata di reati mafiosi, ma di peculato e truffa. Secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe utilizzato per l'acquisto di beni personali i finanziamenti, che avrebbero dovuto essere destinati a finalità sociali, erogati al "Movimento delle donne di San Luca". Finanziamenti che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro, ma che potrebbero essere, sulla base di un calcolo definitivo, anche più consistenti.  E le intercettazioni e le indagini mettono a nudo le condizioni in cui venivano utilizzati i fondi. Rosy Canale avrebbe usato i finanziamenti dell'associazione per acquistare accessori e abiti firmati alla figlia, quindi i vestiti al padre e beni di lusso. Ma è davanti ai richiami della madre di Rosy Canale che emerge lo spaccato più difficile da accettare. Le spese folli di Rosy Canale fanno scattare, infatti, i richiami, ai quali però lei replica: "Me ne fotto". Dunque, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata una piena consapevolezza dei reati compiuti, e anche una certa sfrontatezza. Nel dettaglio Rosy Canale è accusata di aver «indotto in errore dapprima la prefettura e poi la fondazione Enel Cuore sulla serietà ed affidabilità delle motivazioni del Movimento». Con particolare riferimento ad primo un finanziamento di 160 mila euro utilizzati «per finalità esclusivamente private (ovvero l'acquisto di mobili ed arredamento per la propria abitazione, di abbigliamento e di una minicar per la figlia, di abbigliamento per sé e il padre, di una settimana bianca per sè e la figlia). A questo si sono aggiunti altri finanziamenti minori utilizzati sempre, secondo la ricostruzione degli inquirenti, per finalità private come «l'acquisto di una autovettura Fiat 500, sì intestata al Movimento ma di fatto utilizzata esclusivamente per le sue esigenze personali».  Per quanto riguarda l'ex sindaco Sebastiano Giorgi, in carica dal 2009 ai primi mesi di quest’anno, aveva partecipato ad innumerevoli manifestazioni contro la 'ndrangheta accreditando alla sua Amministrazione un forte impegno contro le cosche. Immagine scalfita dal successivo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose.  Dall’indagine condotta dai carabinieri che ha portato al suo arresto è emerso, invece, che in realtà l’elezione di Giorgi a sindaco sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. In particolare, le due cosche, grazie alla Giunta presieduta da Giorgi, avrebbero ottenuto l’appalto per la metanizzazione di San Luca, il più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. In ogni caso, il controllo da parte delle cosche sull'attività del Comune sarebbe stato totale.

Rosy Canale, l'antimafia con troppe ombre. Arrestata con l'accusa di truffa e peculato dopo un'indagine che ha dimostrato come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. In primo luogo nell'anti-ndrangheta. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”.

Metti una serata al teatro Parenti di Milano con la 'ndrangheta. Autrice e protagonista del monologo, presentato in prima il 18 ottobre 2013, era Rosy Canale, arrestata questa mattina con l'accusa di truffa e peculato insieme ad altre cinque persone accusate anche di associazione mafiosa. L'indagine si chiama "Inganno" e il nome è quanto mai azzeccato per dimostrare come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. E in primo luogo nell'anti-ndrangheta. Soltanto pochi giorni fa Rosy Canale aveva ricevuto il premio Borsellino, dedicato a un martire della lotta al crimine organizzato. Ma gli spin doctors dei clan sanno che il modo migliore per svilire un eroe è metterlo in cattiva compagnia. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi. Ecco quello che lei stessa racconta nel monologo, presentato come una storia di vita vera. L'autrice viene da una famiglia originaria di Fiumara di Muro, roccaforte di uno dei protagonisti della seconda guerra di 'ndrangheta, Nino "Nano feroce" Imerti. Rosy, nata nel 1972, è un'adolescente quando la guerra inizia (1985). I morti, alla fine, saranno oltre 700. In questo scenario di bombe e sangue, appena maggiorenne decide di andare negli Stati Uniti per tentare la carriera di cantante. Per mantenersi fa la cameriera in un ristorante a New York dove tenta, con un certo successo, le prime esibizioni. Poi decide di tornare in Italia per trascorrere il Natale ma sull'aereo incontra un concittadino. È il colpo di fulmine. Nel giro di due anni, Rosy si sposa, ha una figlia e divorzia. Dopo la separazione, con una bambina piccola da mantenere, cerca lavoro a Reggio. Siamo all'inizio dell'era Scopelliti (2002) e la città sta facendo rotta verso la movida, le notti bianche e il panem et circenses a spese pubbliche. Qualcuno - non è chiaro chi - procura a Rosy un lavoro come direttrice artistica della discoteca Malaluna, in pieno centro, a due passi dal teatro comunale Cilea. In brevissimo tempo, Rosy ristruttura il locale e lo trasforma nel punto di riferimento della vita notturna con incassi quotidiani enormi: 7mila euro. Su base annuale sono oltre 2 milioni di euro. Sei mesi dopo, Rosy va talmente forte che con un takeover non ostile si compra la gallina dalle uova d'oro. Non dice a quanto. Non dice dove ha preso i soldi. Lo compra, però, e ci lavora duramente finché una sera nota un ragazzo che traffica con palline di stagnola. Lei chiama un buttafuori e gli fa prelevare il ragazzo. La stagnola contiene cocaina. Rosy, invece di chiamare i carabinieri, la sequestra. Il fatto si ripete più volte finché interviene un conoscente di Rosy che la prega bonariamente di lasciare lavorare il ragazzo. Rosy rifiuta e continua a sequestrare la droga anche quando il vecchio spacciatore viene sostituito da altri. Lì incominciano le minacce, i piccoli danneggiamenti, i furti che vengono denunciati invano alle autorità. In una città come Reggio, dove il racket delle estorsioni controlla persino le foglie che cadono dagli alberi, ci si aspetterebbe che la 'ndrangheta mandasse qualche esattore a riscuotere in un locale che incassa migliaia di euro a serata. Ma no, nello spettacolo non si fa menzione di questo. Così una notte Rosy chiude il locale - sono circa le quattro - e si mette in macchina verso casa. Presto si accorge di essere seguita da una moto. Lei accelera e la moto accelera. Rallenta e la moto rallenta. Invece di chiamare il 113 con il cellulare, Rosy continua a guidare. È terrorizzata ma ciò non le impedisce di fermarsi a un distributore automatico per comprare le sigarette. Quando riparte, la moto è sempre là. Poco dopo, però, si affianca. Rosy si vede una pistola puntata in faccia. Sterza, travolge la moto ma anche la sua macchina sbanda e lei finisce contro altre automobili parcheggiate. Gli aggressori si rimettono in piedi senza danno e si avvicinano a lei. Per qualche motivo, decidono di non sparare. Invece la tirano fuori dalla macchina e la picchiano selvaggiamente. Seguono mesi di ospedale e riabilitazione. Rosy perde il locale ma non la voglia di ribellarsi. Dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, parte per San Luca e si impegna nel processo di pacificazione con le donne del paese devastate dai lutti di una faida, quella tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio, che dura da oltre quindici anni. Dal palco dello storico teatro milanese diretto da Andrée Ruth Shammah, Rosy chiude la pièce raccontando di come ha aperto una ludoteca a San Luca in un immobile confiscato. Poi l'ha chiusa perché non riceveva più fondi pubblici per le sue iniziative. Gli stessi fondi per i quali è stata arrestata stamattina. La serata del teatro Parenti, preceduta da un dibattito fra Rosy e Nando Dalla Chiesa, si conclude con un trionfo. Metà della sala piange. Tutti applaudono. L'onda emotiva ha travolto le incongruenze del racconto. Un racconto che, peraltro, è già stato espurgato da particolari imbarazzanti che si trovano nel libro La mia 'ndrangheta che Rosy Canale ha pubblicato per le Edizioni Paoline. Lì il ritratto dell'autrice da giovane rivela qualche particolare imbarazzante. Rosy stessa racconta del suo flirt da diciannovenne, quindi in piena guerra, con un "ragazzo dagli occhi dolci". Incomincia a frequentarlo e conosce i suoi amici. Fra questi, un certo Giuseppe, simpatico e spiritoso, che invita la comitiva a casa sua, ad Archi. Uno strano luogo pieno di telecamere di sorveglianza. Con grande stupore Rosy scopre di essere a casa di Peppe De Stefano, figlio di Paolo boss di Archi ucciso dai Condello-Imerti nel 1985, ed erede del padre con la carica di Capocrimine. Il "ragazzo dagli occhi dolci" fa parte del gruppo di fuoco dei destefaniani in guerra. Forse questo circuito di conoscenze potrebbe spiegare perché il Malaluna ha avuto problemi con la coca ma non con il pizzo. Del resto, il Malaluna non è mai stato di Rosy Canale. Lei si limitava a presiedere un'associazione senza scopo di lucro che gestiva uno dei locali più ricchi di Reggio in un contesto di grande rilassatezza fiscale. Men che meno è di Rosy Canale l'immobile, che adesso ospita una sala di videolotterie e poker elettronico. Lo stabile appartiene a tale Gaetano Tramontano, un gagliardo reggino nato nel 1904 che l'anno prossimo festeggerà i suoi 110 anni, salvo che qualcuno si ricordi di dichiararlo morto e magari riveli al catasto il reale proprietario. Dopo la sera del Parenti, la tournée di Rosy è andata avanti con lo stesso successo della serata di Milano e un accompagnamento di recensioni entusiastiche. Adesso il giro dei teatri registrerà una pausa ma il danno è fatto. Chi ha pianto in teatro la prossima volta non ci andrà più in teatro e la 'ndrangheta avrà trovato un mezzo molto più efficace della censura per tornare sotto traccia: creare un finto martire e aspettare che si screditi da solo.

Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra, scrive Riccardo Ghezzi. Entrambi forse se la caveranno, dal punto di vista giudiziario: uno si è visto ritirare la denuncia a suo carico, l’altra è stata scarcerata dopo che il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso del suo avvocato. Sono giorni difficili, però, per due paladini dell’antimafia nonché icone della sinistra. I destini di don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, e di Rosy Canale, pasionaria del movimento “Donne di san Luca” in lotta contro la ndrangheta, si sono spiacevolmente incrociati. Nonostante la scarcerazione, dopo tre settimane di arresti domiciliari, a carico di Rosy Canale restano infatti le accuse di truffa e peculato, contestategli dalla Procura di Reggio Calabria. Una brutta storia di finanziamenti per allestire sedi e completare progetti che la paladina dell’antimafia Rosy Canale avrebbe invece utilizzato per scopi privati, acquistando una minicar, le hoogan per la figlia, borse Louis Vuitton, persino una Fiat 500. E di intercettazioni scottanti, che imbarazzano anche il Pd. Ne fa un buon riassunto Il Tempo, in un articolo pubblicato lo scorso 17 dicembre che ben illustra i rapporti tra Rosy Canale e la sua “guida politica” Luigi De Sena, ex senatore del Pd nonché vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Un De Sena che, secondo Il Tempo, avrebbe avuto un ruolo determinante nel proporre la candidatura della stessa Canale alle regionali del 2010. Non se ne farà nulla, ma la stessa Rosy Canale si candiderà poi, sempre con il Pd, alle elezioni comunali di Reggio Calabria oltre che alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nel mirino della magistratura anche l’apertura di una ludoteca, all’interno di un locale sequestrato alla famiglia Pelle, mai entrata in funzione. Secondo il gip Domenico Santoro: “La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca”. Ecco come Il Tempo ricostruisce la vicenda: Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Certo, l’immagine dell’ex paladina di San Luca ne resta compromessa. Stessa sorte per Don Ciotti, fondatore di Libera. Una vicenda risalente al 2011 è stata resa pubblica solo in questi giorni. Una brutta storia di assunzioni in nero e addirittura percosse ad un dipendente. Ecco come la racconta Libero Quotidiano in un articolo a firma Antonio Amorosi. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa – caratteristica preziosa e rara da quelle parti – e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e – stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara – lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l’antimafia…». Dopo Saviano condannato prima per plagio e poi per diffamazione e la Capacchione a processo per calunnia, altre due icone anti-mafia osannate dalla sinistra finiscono in guai mediatico-giudiziari.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

L'azione della DDA di Reggio Calabria non si ferma e torna a colpire la 'ndrangheta a San Luca, scrive il presidente de ”La Casa della Legalità”. Agli arresti con STRANGIO Francesco alias Ciccio “Boutique” e NIRTA Antonio alias “Terribile” sono finiti l'ex Sindaco di San Luca, GIORGIO Sebastiano e l'Assessore all'Ambiente MURDACA Francesco. Questi, secondo gli elementi raccolti nell'indagine, hanno favorito, con le proprie condotte amministrative, le cosche. Agli arresti anche COSMO Giuseppe, che con la sua impresa edile era aggiudicatario di rilevanti appalti pubblici. Questa è una storia che si ripete, in quel Comune già sciolto per condizionamento e infiltrazione della 'ndrangheta. Ma questa nuova operazione, “Operazione INGANNO”, ha posto nuovamente l'attenzione sulla vergogna di certa “antimafia”. Infatti agli arresti è finita anche la promotrice del “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”, Rosy CANALE...Questa signora aveva ottenuto l'assegnazione di un bene confiscato per farci una ludoteca. Aveva ottenuto i finanziamenti pubblici (Stato e Regione) e da Fondazioni per realizzarla. Ma quel bene confiscato è rimasto chiuso, la ludoteca mai vista, i soldi assegnati per quel progetto sono stati usati per comprare autovetture, vestiti e mobili per soli fini personali. Non ci voleva tanto per vedere che nonostante l'assegnazione del bene confiscato ed i finanziamenti ottenuti non era stato fatto nulla dalla CANALE e dal suo “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”... eppure in troppi non hanno voluto vedere quel caso molto concreto, palpabile. In troppi, ancora una volta, nel nome delle dichiarazioni antimafia della signora e del suo movimento hanno portato la stessa CANALE ad essere considerata “icona” dell'antimafia. Da poco era stata insignita del “Premio Paolo Borsellino” (premio ora, immediatamente, ritirato, come deciso dagli organizzatori dello stesso). L'associazione di Don Ciotti e Nando dalla Chiesa, “Libera”, ha portato la CANALE come esempio in giro per l'Italia. A Genova, come in Emilia... persino a Milano al “FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI”. Noi siamo stanchi di ripetere ciò che diciamo dall'inizio del nostro cammino nel fare antimafia (isolati e maciullati). Noi da sempre sosteniamo che la vera antimafia si deve fare concretamente, senza finanziamenti pubblici o grandi sponsor privati. Prima di tutto perché si deve essere liberi e indipendenti e non piegati da condizionamenti derivanti dalla necessità di tenersi buoni i “finanziatori”. Ed allo stesso modo noi sosteniamo da sempre che la vera antimafia deve avere gli adeguati anticorpi per evitare di “farsi usare” da personaggi come la CANALE, o da politici ed amministratori pubblici che, magari addirittura contigui o complici di cosche mafiose, ricercano un “patentino antimafia” per presentarsi bene. Purtroppo nel mondo dell'antimafia siamo isolati, noi e chi la pensa come noi. Veniamo anche insultati, derisi o considerati nemici, per questa nostra linea, tacciata di essere “intransigente”, da “integralisti”. Noi non smettiamo di ripeterlo. All'antimafia non servono “icone”, così come non può essere suo ruolo il fornire “paravento” a quella o questa amministrazione pubblica o impresa con ombre, se non peggio, da nascondere. L'antimafia deve essere vissuta e praticamente come SERVIZIO e non come BUSINESS. E' un lavoro quotidiano di servizio alla comunità, di sostegno alle vittime, di meticoloso lavoro per individuare e denunciare le storture nella gestione delle Pubbliche Amministrazioni, le infiltrazioni, i condizionamenti, le complicità e collusioni che distraggono la gestione delle Amministrazioni Pubbliche, così come del territorio e dei fondi pubblici, per foraggiare e agevolare faccendieri, amici, parenti e cosche. E' collaborare con i reparti dello Stato e la Magistratura, per fornire elementi utili alle indagini e per spingere chi è testimone come chi è vittima a denunciare. E' fare anche informazione, raccontando i fatti, i volti, le storie... facendo i nomi e cognomi per incrinare la cappa di omertà e distruggere quel “consenso sociale” delle mafie, facendo sentire il disprezzo e l'isolamento sociale per i mafiosi e per chi con queste ha contiguità, collusioni, complicità. E' agire quotidianamente, ognuno nel proprio ambito, facendo il proprio dovere di cittadini. Se l'antimafia civile, o sociale se si preferisce questo termine, non fa questo ma diventa una professione per fare business, che deve pensare a come ripagare i politici o imprenditori che la sovvenzionano, allora è un'antimafia che ha fallito dall'inizio e non potrà portare nulla di buono. Ed indicare queste storture, chidere che vengano superate, non è, ancora una volta, compito della magistratura, ma lo è prima di tutto dei cittadini stessi, di ciascuno di noi, anche al costo di essere tacciati di "lesa maestà". Se si tacciono le storture, se le si nascondono sotto il tappeto o le si nega nel nome di questo o quel "simbolo", si diventa complici di queste, non le si affronta e non le si risolve. Ne abbiamo riparlato recentemente in occasione dell'arresto della GIRASOLE a Isola Capo Rizzuto, ne avevamo parlato più volte, prendendoci noi una querela da “Libera” per aver osato porre il problema e che al nostro invito per un “bagno d'umiltà”, per sedersi ad un tavolo tutti, in un confronto netto volto a trovare insieme gli anticorpi ed una “svolta” necessaria nel mondo dell'antimafia civile, non ha mai risposto, se non perpetuando il nostro isolamento. Non si possono dare delusioni a chi è già stato disilluso per tanto, troppo tempo. Non possiamo permettere che accada ed ognuno deve fare la propria parte. Anche da qui passa la credibilità dell'antimafia e la fiducia in un cambiamento possibile. L'ipocrisia di certa antimafia è un danno che rischia di essere irreversibile. E' un atteggiamento intollerabile che non solo rischia di far screditare tutti e quindi rendere difficile l'azione seria che in molti promuovono, ma rischia di tramutarsi anche in una plateale presa in giro.  Come vedere, infatti, le dichiarazioni di "dissociazione" o sul modello del "io l'avevo detto", da parte di coloro che, ad esempio, nel caso della CANALE, l'avevano invitata al 1° FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI promosso da LIBERA con anche il COMUNE DI MILANO, se non come una ulteriore presa in giro di chi crede e vuole credere nell'antimafia civile? Dire si è sbagliato, cambiamo rotta, si è stati effettivamente superficiali e siamo pronti a confrontarci con chi ci metteva un guardia sui rischi di essere "troppo permeabili", dovrebbe essere, secondo noi, la risposta da sentire e che invece continuiamo a non sentire e non leggere. Così come ancora non si vuole aprire una discussione seria sulla necessità di una riforma radicale in merito ai sequestri ed alla gestione dei beni confiscati che, da lungo tempo, diciamo inascoltati, non funziona e che non può essere piegata, come prevalentemente è oggi, ad una logica clientelare e monopolistica. Ci confortano oggi le parole del Procuratore Federico Cafiero de Raho, a capo della Procura di Reggio Calabria, che afferma: “Servono manifestazioni e associazioni forti". Ci confortano le parole del Procuratore aggiunto Nicola Gratteri della DDA di Reggio Calabria che afferma: “Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere" ed ancora "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli". E sulla lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti." e “fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa".

Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Entrambi forse se la caveranno, dal punto di vista giudiziario: uno si è visto ritirare la denuncia a suo carico, l’altra è stata scarcerata dopo che il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso del suo avvocato. Sono giorni difficili, però, per due paladini dell’antimafia nonché icone della sinistra. I destini di don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, e di Rosy Canale, pasionaria del movimento “Donne di san Luca” in lotta contro la ndrangheta, si sono spiacevolmente incrociati. Nonostante la scarcerazione, dopo tre settimane di arresti domiciliari, a carico di Rosy Canale restano infatti le accuse di truffa e peculato, contestategli dalla Procura di Reggio Calabria. Una brutta storia di finanziamenti per allestire sedi e completare progetti che la paladina dell’antimafia Rosy Canale avrebbe invece utilizzato per scopi privati, acquistando una minicar, le hoogan per la figlia, borse Louis Vuitton, persino una Fiat 500. E di intercettazioni scottanti, che imbarazzano anche il Pd. Ne fa un buon riassunto Il Tempo, in un articolo pubblicato lo scorso 17 dicembre 2013 che ben illustra i rapporti tra Rosy Canale e la sua “guida politica” Luigi De Sena, ex senatore del Pd nonché vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Un De Sena che, secondo Il Tempo, avrebbe avuto un ruolo determinante nel proporre la candidatura della stessa Canale alle regionali del 2010. Non se ne farà nulla, ma la stessa Rosy Canale si candiderà poi, sempre con il Pd, alle elezioni comunali di Reggio Calabria oltre che alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nel mirino della magistratura anche l’apertura di una ludoteca, all’interno di un locale sequestrato alla famiglia Pelle, mai entrata in funzione. Secondo il gip Domenico Santoro: “La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca”. Ecco come Il Tempo ricostruisce la vicenda: Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Certo, l’immagine dell’ex paladina di San Luca ne resta compromessa. Stessa sorte per Don Ciotti, fondatore di Libera. Una vicenda risalente al 2011 è stata resa pubblica solo in questi giorni. Una brutta storia di assunzioni in nero e addirittura percosse ad un dipendente. Ecco come la racconta Libero Quotidiano in un articolo a firma Antonio Amorosi. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa – caratteristica preziosa e rara da quelle parti – e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e – stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara – lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l’antimafia…».

Dopo Saviano condannato prima per plagio e poi per diffamazione e la Capacchione a processo per calunnia, altre due icone anti-mafia osannate dalla sinistra finiscono in guai mediatico-giudiziari.

Chi è Maria Carmela Lanzetta, il ministro che divide Matteo Renzi e Pippo Civati. La nuova titolare del dicastero degli Affari Regionali, ex sindaco antimafia di Monasterace, in direzione aveva votato contro il segretario a Palazzo Chigi e alle primarie sosteneva Civati. Che ora dice: “Non ne sapevo nulla, Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro”, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Pierluigi Bersani la andò a trovare per convincerla a non dimettersi dal paesino della Locride in cui era sindaco. Pippo Civati l’ha inserita nel suo “pantheon” ideale della sinistra per il coraggio e la determinazione e poi nella lista a sostegno della sua candidatura a segretario. Adesso Matteo Renzi l’ha portata a Palazzo Chigi, nominandola ministro per gli Affari regionali, ruolo rivestito fino a ieri da Graziano Delrio. Una scelta che però, anziché creare convergenza, pare allargare il fossato fra i due ex rottamatori . Farmacista, 59 anni, dal 2006 e fino alla scorsa estate Maria Carmela Lanzetta è stata prima cittadina di Monasterace (Reggio Calabria). Sette anni vissuti pericolosamente, come può esserlo rappresentare le istituzioni in una zona ad altissima densità mafiosa. E per la Lanzetta non ci sono state eccezioni: la farmacia di famiglia incendiata, colpi d’arma da fuoco contro l’automobile e contro la serranda del negozio, le minacce anonime e l’assegnazione della scorta come “coronamento” finale. Nel 2012 si dimise perché “stanca e delusa dalla politica” che l’aveva lasciata sola. Una dura critica anche nei confronti del Pd, tanto da spingere l’allora segretario Bersani a farle visita per convincerla a ripensarci. Per un altro annetto, fino allo scorso luglio, quando un assessore vota contro la costituzione di parte civile del municipio in un processo in cui è coinvolto un tecnico comunale e lei capisce che è ora di dire basta. Finisce l’esperienza da amministratore locale ma inizia quella nel partito: alle primarie sostiene Giuseppe Civati, entra in direzione e la settimana scorsa è fra i pochi che votano contro l’ordine del giorno che dà il benservito a Enrico Letta e porta Renzi a Palazzo Chigi. Adesso, di quel governo che non voleva, Maria Carmela Lanzetta farà parte. Incoerenza? “Sono una militante e dirigente del Pd, non di un gruppo staccato dal contesto generale. Ho espresso le mie perplessità ma se c’è da rimboccarsi le maniche non ho mai lesinato il mio contributo”, ha affermato lei in un’intervista a Repubblica. Anche perché, ha raccontato, fino a ieri sera non sapeva di essere stata scelta come ministro e sarebbe stato Delrio, a colloquio Renzi-Napolitano ancora in corso, a preannunciarle la nomina. Certo è che Pippo Civati non l’ha presa affatto bene e ha visto nella scelta del neo-premier non solo l’intenzione di trovare una copertura a sinistra ma anche il tentativo di rendere più difficile un voto contro l’esecutivo. Poche gelide parole affidate al blog: “Renzi si dimostra molto disinvolto, ma non è una novità. Del resto, è il suo metodo, già sperimentato. Maria Carmela Lanzetta aveva votato contro il governo in direzione nazionale. Ora entra nel nuovo esecutivo come ministro. Le faccio gli auguri, ma non ne sapevo nulla. Né da Renzi, né da lei. Nessuno ha ovviamente inteso avvisare me o i componenti della delegazione ‘civatiana’ in direzione nazionale. Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro”. Le perplessità della sinistra interna, insomma, restano. E a decidere come lunedì voteranno i sei senatori “civatiani” sarà la riunione di area a Bologna. Di sicuro, pare di capire, a far cambiare giudizio sull’esecutivo non basterà la presenza della Lanzetta. Che sul tavolo di ministro - da parte sua - troverà dossier tutt’altro che semplici, come la gestione del passaggio dall’Imu o l’abolizione delle province, uno dei punti fondamentali su cui Matteo Renzi si gioca la propria credibilità.

Cara Lanzetta, hai distrutto la mia città. Come farai a salvare le Regioni? Il nuovo ministro per gli Affari regionali è stato sindaco in un piccolo paese calabrese dove non ha lasciato un buon segno. Anzi..., scrive Orazio Tassone su “Il Giornale”. Il nuovo governo Renzi è appena nato e nella squadra di governo prende posto il "sindaco coraggio", cioè Maria Carmela Lanzetta, ex primo cittadino di Monasterace, un piccolo paese della provincia di Reggio Calabria. Prima di iniziare devo dire, per correttezza, che sono di Monasterace e che nel 2006 ho votato la Lanzetta (sono uno dei pochi italiani che l'ha fatto). Il nuovo ministro agli Affari regionali è salito agli onori della cronaca nella primavera del 2012, quando con un grave atto intimidatorio, nella notte tra il 28 e il 29 marzo, qualche delinquente spara sulla macchina personale dell'allora sindaco. Io non posso che condannare questo atto, soprattutto perché la stessa Lanzetta era già stata vittima, un anno prima, di un altro attentato, questa volta a farne le spese fu la farmacia di famiglia, che fu bruciata. Dal 28 marzo del 2012 Maria Carmela Lanzetta vive sotto scorta e questo spiace, innanzitutto perché nel mio paese il primo cittadino è stato vittima di attentato (ciò non può far piacere a nessuno) e in secondo luogo perché da quella data proprio per quel luogo è iniziato un calvario. Quindi, solidarietà e vicinanza per il mio ex sindaco. La Lanzetta ha vinto due elezioni: la prima nel 2006, quando con il 62% dei voti ebbe la meglio su tutti gli avversari (era il volto nuovo del paese e tutti gli diedero il benvenuto); la seconda nel 2011 quando la quota si abassò al 35% e riuscì ad avere la meglio per 51 voti sul primo concorrente. Essendoci tre liste che si spartirono i voti, ed essendo il paese piccolo (meno di 5.000 abitanti) non era previsto il ballottaggio, quindi 51 voti bastarono al primo cittadino per avere un secondo mandato. Fino all'attentato del 2012, quindi agli spari sull'auto, la gestione del paese da parte della Lanzetta fu ordinaria, senza particolari lodi ma nemmeno eccezionali macchie. Il tutto cambiò in quel marzo del 2012 poiché a Monasterace, per dare sostegno al sindaco, arrivarono grandi nomi come: Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Elsa Fornero e Susanna Camusso. Maria Carmela proprio in queste circostanze capì che c'era spazio per fare carriera e per farlo decise che il paesino calabrese le stava stretto, quindi iniziò a infangarlo. Per mesi non fece altro che rilasciare dichiarazioni su quanto fossero mafiosi e malavitosi tutti i cittadini, sul come non si pagassero le tasse e su come ci fosse una convivenza naturale tra cittadini e 'ndrangheta. Monasterace ha ovviamente delle mele marce, come qualsiasi posto del resto, ma il 90% della popolazione paga regolarmente le tasse e rientra in quella categoria che si può considerare "bravi cittadini". Insomma, il sindaco stava gettando fango sul proprio paese per interessi personali. A tal punto che i cittadini stessi risposero chiaramente chiedendo le dimissioni. Lo fecero in vari modi ma quello più eclatante fu uno striscione issato poco distante dal centro del paese che recitava "Sindaco ridacci la piazza e la dignità". Sulla dignità il motivo è semplice, sulla piazza, al di là della metafora, c'è un fatto che va raccontato: Monasterace (ricordo che è un piccolo centro) ha una piazzetta nel centro del paese, costruita negli anni '70, in pieno abusivismo edilizio, per metà sul demanio pubblico (dà sul mare). Maria Carmela Lanzetta, nel pieno dei suoi poteri, decise di distruggere quanto c'era per costruirne una nuova. Peccato che soldi in cassa ce ne fossero pochissimi e che, essendo un opera costruita per metà su terreno non idoneo, l'agenzia del demanio decise di bloccare qualsiasi lavoro ulteriore. Quindi la piazza, ancora oggi, è distrutta, in attesa che qualcuno la ricostruisca ed è così oramai da anni. L'operato di un sindaco, però, non si può guardare solo da una piazzetta, altrimenti tanti amministratori dovrebbero pagare le loro malefatte. Un sindaco si misura sulla capacità di offrire i servizi necessari, di tenere in ordine i conti del paese e di fare in modo tale che la collettività sia soddisfatta. Su quest'ultimo punto abbiamo già parlato, con lo striscione la collettività, o almeno una parte di essa, aveva già dato il proprio parere, quindi andiamo a parlare degli altri punti, cioè servizi necessari e conti del paese. Questa è una montagna di spazzatura che va a fuoco all'intero del paese. Siamo nell'estate del 2011 e prima di allora a Monasterace non era mai successo. Inoltre ci sono stati nello stesso periodo dei problemi con l'acqua in casa che arrivava a singhiozzo. Per quanto riguarda i soldi e l'economia del paese, Monasterace è andata in dissesto economico in aprile del 2013. La dichiarazione di Lanzetta è stata: "Quella attuale non è una situazione da considerarsi inaspettata, siamo stati, in maniera compatta, noi della maggioranza a chiedere il dissesto e abbiamo informato di ciò Prefettura e Viminale. La strada del dissesto è quella più responsabile pur consci della difficoltà di operare in questa situazione". Cioè il dissesto economico è stato provocato proprio dall'amministrazione così da ripartire. Peccato che un comune in dissesto vede le tasse a carico dei propri cittadini schizzare alle stelle e poi nel 2013, con la Lanzetta sindaco sin dal 2006, quindi dopo 7 anni di gestione del comune, la colpa del dissesto di chi è? Non sono bastati sette anni per mettere in sicurezza i conti di un paesino di 3.500 persone? Questo è stato l'ultimo colpo gobbo di un sindaco non capace di gestire un territorio con poca gente. Infatti, pochi mesi dopo aver dichiarato il dissesto, Maria Carmela Lanzetta si dimette, in polemica con il proprio staff e la propria squadra. Si tratta della fine di sindaco coraggio, colei che ha combattuto la 'ndrangheta rovinando un paese... almeno fino a ieri, fino alla chiamata di Matteo Renzi che la inserisce nel governo come ministro degli affari regionali. La domanda che mi tormenta è come faccia una persona con un curriculum del genere a gestire tutte le regioni italiane se ha fallito a capo di un paesino. Le mie considerazioni le lascio ad altre pagine, però qui, su queste pagine, aggiungo qualche dettaglio di cui si è anche discusso oggi. Sto parlando di Pippo Civati e Pierluigi Bersani, infatti i due leader del Partito Democratico, sono stati appoggiati dall'ex sindaco durante le primarie, proprio contro Matteo Renzi. Nel 2012, quando le primarie si chiamavano "Italia. Bene comune" la Lanzetta appoggiava apertamente la candidatura di Pierluigi Bersani. Il risultato fu deludente, infatti a Monasterace, a differenza di quanto successo nel resto d'Italia, Matteo Renzi aveva oltre il 60% dei voti e il restante era spartito tra gli altri candidati, con Bersani che si attestava intorno al 20%. Ciò succedeva proprio perché la cittadinanza, stufa dell'amministrazione Lanzetta, votava contro la scelta del sindaco. Nel 2013 invece il sindaco appoggia apertamente Pippo Civati, come sappiamo Matteo Renzi vince in modo schiacciante e in questo caso Monasterace non fa eccezione. Altra sconfitta per il primo cittadino.E allora, essendosi schierata apertamente per ben due volte contro Renzi, come fa oggi la Lanzetta ad accettare un incarico in quel governo? Proprio Civati commenta così la nomina del nuovo ministro: "Non sapevo nulla della nomina del ministro Lanzetta. Renzi si dimostra molto disinvolto, ma non è una novità. Del resto, è il suo metodo, già sperimentato. Maria Carmela Lanzetta aveva votato contro il governo in direzione nazionale. Ora entra nel nuovo esecutivo come ministro". Sembrerebbe proprio che Pippo Civati non l'abbia presa benissimo. Insomma, solidarietà per gli atti intimidatori contro la Lanzetta, azioni da condannare senza dubbio, ma critiche e forti dubbi sull'operato come primo cittadino e, considerando le circostanze della nomina, grandi dubbi anche su ciò che andrà a fare da oggi in poi.

Nicola Gratteri non è ministro, ed è subito teoria del complotto. Cosa è successo?  Si chiede  Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Nelle intenzioni di Matteo Renzi doveva essere il magistrato antimafia Nicola Gratteri a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Una scelta di discontinuità. Un nome di prestigio, simbolo della lotta all ‘ndrangheta, sul quale il segretario democratico puntava non poco. L’obiettivo? Mostrare agli elettori, compresi quelli rimasti perplessi per la sua accelerazione verso Palazzo Chigi (senza passare prima dalle urne), come il suo esecutivo volesse portare avanti in modo reale quel «cambiamento» promesso. Ma sul nome del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria è arrivato lo stop, improvviso, dopo il lungo confronto con Giorgio Napolitano al Colle. Due ore e quarantacinque minuti durante i quali sia Renzi che il fedelissimo Graziano Delrio hanno tentato di forzare la mano, di fronte alle resistenze del Quirinale. Nulla da fare: sarebbe stato proprio il capo dello Stato a bloccare la nomina di Gratteri a Guardasigilli, come concordano diversi quotidiani nazionali. Tanto che alla fine il futuro presidente del Consiglio ha dovuto virare sul nome di Andrea Orlando, già ministro dell’Ambiente durante il governo Letta. Di certo, una figura meno ostile anche agli scomodi alleati del Nuovo Centrodestra, considerato come anche il Giornale consideri l’ex responsabile Giustizia del Pd durante la segreteria Bersani come «una scelta accettabile, un garantista». Il tweet del blog “Secondo Piano” dove si mostra il bigliettino degli appunti di Renzi. Si legge, in riferimento a Gratteri, «magistrato in servizio». «Ecco come Napolitano ha bloccato la sua nomina», ha rilanciato il blog. Al di là delle dichiarazioni di rito di Napolitano («Il mio braccio non è stato sottoposto a prove di ferro», ha spiegato), che ha cercato di allontanare le indiscrezioni sulla sua operazione di “moral suasion” su alcuni incarichi della squadra dell’esecutivo, il “no” del capo dello Stato sarebbe stato decisivo. Sia Repubblica che il Fatto hanno ricostruito la contrarietà del presidente della Repubblica sulla nomina di Gratteri in Via Arenula. Il motivo? «Mai un magistrato in quel dicastero», si è opposto Napolitano. Soprattutto se è ancora in servizio. Una regola non scritta, secondo il Colle, come ha riportato Goffredo De Marchis sul quotidiano diretto da Ezio Mauro. Eppure già nel caso del berlusconiano Francesco Nitto Palma non venne rispettata, con un magistrato che prese l’incarico di Guardasigilli. Niente da fare. Renzi ha dovuto cedere, ottenendo in cambio il via libera per la sostituzione agli Esteri tra Emma Bonino e la nuova ministra Federica Mogherini. Altra scelta discussa, dato che il capo dello Stato puntava alla riconferma della storica esponente radicale. Eppure, la nomina di Gratteri sembrava ormai quasi ufficiale fino a pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. Così come aveva svelato, citando alcune fonti anonime, anche il Fatto Quotidiano. Il simbolo della lotta alla ‘ndrangheta era stato rassicurato: «Sei in squadra». Poi, il Capo dello Stato ha fermato tutto, cancellando il nome del procuratore aggiunto alla Dda di Reggio Calabria dalla lista. Al suo posto è andato l’ex ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che si occupava di Giustizia nel Pd già ai tempi della segreteria Bersani. «Resta da capire come giustificherà il veto», ha incalzato Beatrice Borromeo sul Fatto. Di certo, la nomina di Gratteri sembrava complicata già prima del “niet” del Colle. Non c’erano, in realtà, molte speranze. Il motivo? Bastava analizzare l’eterogenea maggioranza del governo Renzi. Non pochi, considerata la presenza di Angelino Alfano e del Nuovo centrodestra, immaginavano come improbabile un incarico che aumentasse la rilevanza della magistratura. La posizione di Ncd e di Forza Italia – fuori dall’esecutivo, ma alleato renziano per le riforme, ndr – era appunto per un riequilibrio della bilancia, secondo loro troppo a vantaggio delle Procure. E come dimenticare la difesa da parte di Gratteri dello strumento delle intercettazioni e le sue critiche passate al Ddl Alfano. Un terreno sul quale potevano nascere scontri futuri con i «diversamente berlusconiani». Eppure Renzi sembrava non voler cedere alle resistenze di Alfano. C’è stato anche chi, nei minuti successivi alla nomina saltata di Gratteri come Guardasigilli, aveva ipotizzato che fosse stato Berlusconi a “rumoreggiare” con Renzi per la scelta caduta sul simbolo antimafia. In realtà, secondo il Fatto anche il Cavaliere non si sarebbe opposto, così come hanno raccontato alcune fonti berlusconiane. «Basta che non sia uno di Magistratura democratica», aveva spiegato il leader dei Forza Italia. L’ex senatore, decaduto dopo la condanna definitiva per frode fiscale, si sarebbe informato su Gratteri con le sue conoscenze calabresi, per recuperare informazioni su un “signore, che conosceva troppo poco”. Non opponendosi, poi, alla sua possibile nomina per Via Arenula. Senza dimenticare come, nelle ore precedenti alla pubblicazione della lista dei ministra, c’era anche chi ricordava quelle dichiarazioni controverse rilasciate dal pm sulla lotta alla mafia, non ostili al Cavaliere. Nel 2011, durante un incontro alla libreria Feltrinelli di Milano – oltre a criticare l’allora “riforma Alfano” della Giustizia («Se passa è la fine, potremo dire addio alla lotta a Cosa Nostra») – Gratteri spiazzò tutti, spiegando: «Se confrontiamo i 18 mesi dell’ultimo governo Prodi con il governo Berlusconi, ebbene l’attuale esecutivo (Berlusconi, ndr) ha fatto di più in tema di lotta alla mafia». Così come fecero discutere anche alcune sue dichiarazioni sulla Mondadori, definita «esempio tangibile di liberalismo». Eppure, nonostante qualche dichiarazione considerata discutibile, Gratteri veniva visto dall’opinione pubblica come l’uomo giusto per modernizzare e rendere più efficiente la macchina della Giustizia, cercando di velocizzare i tempi biblici dei processi e combattere gli sprechi della burocrazia, oltre che insistere nella lotta alle mafie e alla piaga della corruzione. Il suo nome aveva già acceso gli entusiasmi, prima della nomina. E scaldato anche la rete. Nulla da fare. Il capo dello Stato non avrebbe concesso aperture. Per Renzi, non una scelta semplice da accettare. Tanto che oggi c’è già chi attacca il suo esecutivo, bollandolo come una riedizione del vecchio governo. Per Peter Gomez, sul Fatto, si tratta di un esecutivo già “autorottamato“: «Fuori Gratteri, restano solo lobby e gattopardi». Senza dimenticare le accuse per l’uso del Cencelli – secondo antica tradizione democristiana – nelle nomine. Tutti contenti, tra partiti dell’eterogenea maggioranza e correnti interne al Pd. «Un Letta bis», o un «Napolitano III», ha affondato il Giornale, sottolineando come il premier incaricato non sia riuscito a spuntarla sul nodo della Giustizia. Ma sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti si esulta per la scelta ritenuta “accettabile” per il Guardasigilli. «Un garantista», si legge. Dirigente di partito e già ministro con Enrico Letta all’Ambiente, Orlando avrà un compito non certo semplice. E già non mancano le critiche per una sua vecchia intervista al Foglio, risalente al 2010, nella quale – come ricorda sempre il Fatto – parlava di «ridefinire l’obbligatorietà dell’azione penale [..] individuando le priorità” dei reati da perseguire o ignorare». Anche di recente aveva avanzato la proposta di riflettere sulla possibile revisione del 41bis, spiegando come non ci siano «ancora i tempi per superarlo», ma come fosse «necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia». Se Orlando sarà il nuovo Guardasigilli, Gratteri resterà invece in Calabria, continuandosi ad occupare di lotta alla ‘ndrangheta. Un compito che lo ha visto protagonista indiscusso. Per la sua difesa della legalità e per la battaglia contro la criminalità organizzata era stato più volte preso di mira dalle mafie, che avevano progettato diversi attentati contro di lui. Come spiegò Repubblica, nel 1995 il Ros dei Carabinieri scoprì nella piana di Gioia Tauro un arsenale di armi (tra le quali un chilo di plastico con detonatore, lanciarazzi, kalašnikov e bombe a mano) che sarebbe potuto servire per un attentato ai danni del magistrato calabrese. Nel 2012 fu invece il Fatto Quotidiano a rivelare l’indiscrezione sui 16 chili di plastico pronti a Reggio Calabria per “far saltare in aria” il magistrato. Un personaggio scomodo per la malavita: Gratteri, specializzatosi nella lotta al traffico internazionale di droga, ha infatti contribuito nella sua carriera alla cattura di oltre 120 latitanti. Ma non solo: è stato titolare di inchieste che hanno permesso di decimare le più importanti cosche. Ricordato anche per essersi occupato della strage di Duisburg, in Germania, Nicola Gratteri è considerato come uno dei magistrati che meglio conosce le distorsioni del sistema penale, investigativo e penitenziario che permettono le attività criminali illecite della ‘ndrangheta. Da più parti era ritenuto quindi come l’uomo giusto per Via Arenula, ma sul suo nome è arrivato lo stop. La mancata nomina ha scatenato non poche polemiche in rete. Su tutti, quelle di Antonio Nicaso, giornalista e tra i massimi esperti di ‘ndrangheta, che con Gratteri aveva scritto il volume “Acqua Santissima – La Chiesa e la ‘ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni”. «Se l’alternativa a Nicola Gratteri è Andrea Orlando, Renzi mi sembra un po’ confuso. Perché Napolitano ha messo il veto sul procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria? Forse non lo sapremo mai. Sappiamo invece che Gratteri continuerà a fare il magistrato. E questa è la cosa più importante», ha attaccato il giornalista. Tra i tanti rimasti perplessi per la nomina saltata di Nicola Gratteri.

Nello Musumeci: “Io nel mirino della mafia dell’antimafia”, scrive la Redazione di "Hashtag Sicilia" il 3 marzo 2017. “Ho capito da molti mesi di essere stato messo nel mirino e di essere un obiettivo da abbattere per quanti appartengono al ‘cerchio magico’ di Crocetta, quel blocco di potere che vuole sopravvivere anche dopo le elezioni di ottobre: è una vera e propria mafia dell’antimafia, un pericoloso sistema di potere che intendo estirpare, se i siciliani ci daranno questa responsabilità”. Tuona così Nello Musumeci nella conferenza stampa tenuta stamane nella sede catanese dell’Ars commentando l‘indagine della Procura di Catania che vede indagati per abuso d’ufficio nove dipendenti dell’agenzia “Riscossione Sicilia”, accusati di aver agevolato illecitamente nei confronti del fisco tre deputati regionali. “Sono contribuente di Riscossione Sicilia dal 2009, da quando ho chiesto, da contribuente come tutti gli altri, tre rateizzazioni finora accolte; due sono state interamente pagate, con oneri di mora, agio e interessi. Si tratta in larghissima parte di manifesti elettorali e altre spese, e continuo a pagare senza alcun favoritismo”, spiega Musumeci mostrando e mettendo a disposizione della stampa la relativa documentazione dalla quale “emerge come sia stato del tutto corretto l’atteggiamento della magistratura che non ha ritenuto di coinvolgermi nell’inchiesta”. “Questa vicenda mi lascia tanta amarezza, ma anche la voglia di dire a tutti che – tiene a precisare il leader del movimento Diventerà Bellissima. Per il presidente dell’Antimafia regionale “la verità è che Riscossione Sicilia è solo uno strumento per arrivare a me, ma non ci riusciranno”. Un attacco di origine politica, quindi, considerando anche che “le contestazioni che ho letto solo sui giornali rispondono in larghissima parte a un periodo nel quale non ero neppure deputato. Ho fiducia di avere la coscienza a posto, come tutti i siciliani per bene sanno”. Ringraziamenti da parte del deputato regionale sono andati a “le migliaia di cittadini e tutti gli esponenti delle istituzioni, a partire dal presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, e della politica che hanno voluto esprimermi il loro affetto, conoscendo la mia correttezza e il mio rigore morale. Mi ha fatto piacere che in tanti casi si sia trattato di avversari politici, che ringrazio per la loro lealtà pubblica e privata. Devo tutto a questo mio modo di essere e di intendere la politica. Musumeci ha annunciato che interverrà alla prima seduta d’aula dell’Ars per esprimere le sue valutazioni sulla vicenda davanti a tutti i gruppi parlamentari.

Camera dei Deputati. 15 maggio 2014. Alessio Villarosa (Movimento 5 Stelle) accusa la maggioranza di non rispettare (nei fatti) gli insegnamenti di Falcone e Borsellino. "Noi siamo il partito di Pio La Torre e non accettiamo lezioni da nessuno in materia di legalità. Soprattutto da chi è guidato da chi sostiene che la mafia non esiste". Lo ha urlato nell'aula della Camera Anna Rossomando del Pd replicando al M5s in dichiarazione di voto sulla richiesta di arresto per Francantonio Genovese. Tutti i suoi colleghi di gruppo si sono levati in piedi per applaudirla mentre il M5s urlava: "Vergognatevi". Scontro Boldrini-M5S in aula: il deputato Alessio Villarosa, nel suo intervento nel dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato Pd Francantonio Genovese, si è rivolto alla presidenza ed alla maggioranza, accusandoli di strumentalizzare i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: "Vergognatevi", è stata l'intimazione del deputato M5S. "La smetta", lo ha richiamato la presidente della Camera Laura Boldrini, prima di lasciargli concludere l'intervento tra le urla provenienti soprattutto dai banchi del Pd “Ho paura che ci sia una collusione tra la presidenza Camera e il Pd per spostare il voto su Genovese”. E’ quanto sottolinea ai cronisti a Montecitorio Alessio Villarosa (M5S) dopo la sospensione dei lavori dell’Aula, ricordando che, “sei mesi fa”, quando i Cinque Stelle chiesero su un altro tema di convocare una capigruppo, la presidente Laura Boldrini, “ci disse di no”. “Perché Boldrini si comporta in un modo col M5S e in un modo col Pd?”, chiede Villarosa evidenziando che sul deputato Francantonio Genovese pendono “54 capi d’accusa, la possibilità di fuga è reale”. Invece la deputata Pd Rossomando ha anche detto che il partito “con questo voto intende difendere il Parlamento da chi lo vuole destituire”. A Villarosa ha replicato Anna Rossomando del Partito democratico: "Noi siamo i fondatori della democrazia", ha rivendicato l'esponente democratica citando Pio La Torre, il segretario del Partito comunista siciliano ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982. Il Pd, ha detto Rossomando rivolta al gruppo M5S, "non accetta lezioni da nessuno, soprattutto da chi è andato in Sicilia dicendo che la mafia non esiste, facendo le buffonate attraversando lo Stretto". La presidente della commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi (Pd) ha preso la parola in aula, al termine del dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato democratico Francantonio Genovese, per replicare al polemico intervento di Alessio Villarosa del Movimento 5 stelle. "Vorrei restasse agli atti di questa Camera, nel rispetto del sacrificio della loro vita e dei loro familiari - ha detto Bindi - che nessuno può appropriarsi di Falcone e di Borsellino". Secondo la presidente dell'antimafia, i due magistrati uccisi dalla mafia "sono di tutta la nazione, di tutta l'Italia e da quando abbiamo messo le loro immagini nel parlamento europeo sono di tutta l'Europa".

Via libera, da parte della Camera, all’arresto di Francantonio Genovese, scrive Fabio Bonasera su “Qui Messina”. L’aula si è espressa favorevolmente alla richiesta della magistratura messinese con 371 voti favorevoli, 39 contrari. In un primo momento, sembrava fosse volontà di Montecitorio far slittare la decisione dopo le elezioni europee del prossimo 25 maggio. Poi, il colpo di scena: conferenza dei capigruppo richiesta dal Pd e decisione unanime per il voto palese a partire dalle 16,30. Da ricordare che a esprimere parere favorevole all’arresto era già stata la giunta per le autorizzazioni a procedere, lo scorso 7 maggio, presieduta da Ignazio La Russa. Decisivi i 12 voti di Pd, Sel e Movimento 5 stelle. La seduta si apre con la relazione introduttiva Franco Vazio, nominato da La Russa al termine dei lavori della giunta per le autorizzazioni a procedere. Vazio, come sostenuto proprio in giunta, afferma la sussistenza del rischio di reiterazione “più che per l’attività relativa agli enti di formazione”, per via degli “elementi caratterizzanti l’organizzazione criminale asseritamente gestita dal deputato”. Non rinviene, inoltre, alcun fumus persecutionis ed esclude a monte che l’organismo parlamentare possa sostituirsi alla magistratura, “nel solco dell’articolo 68 della Costituzione”. Così come nessuna azione parallela alla magistratura possa essere esercitata dalla Camera. Giulia Grillo, anche lei componente della giunta per le autorizzazioni e in quota al M5s, sottolinea il tempo decorso dalla ricezione degli atti da parte della giunta, la cui prima seduta risale allo scorso 10 aprile, e la decisione alla quale è stata chiamata la Camera. Grillo, oltre a demolire in toto il sistema della formazione professionale in Sicilia, ricorda il lignaggio di Genovese, figlio dell’ex senatore Dc, Luigi, e nipote di Nino Gullotti, anch’egli autorevole esponente democristiano del passato. Inoltre rammenta i legami economici stretti dalla Tourist Ferry Boat con la società Caronte della famiglia Matacena, a sua volta coinvolta in questi giorni in uno scandalo giudiziario. Persecuzione in atto e assenza del rischio di reiterazione per Franco Bruno. Per l’esponente dell’Api, il carcere a Genovese è solo un “tributo a forcaioli e manettari professionisti”. Dura anche Pia Elda Locatelli (Psi) che vede “la libertà del deputato barattata per qualche voto in più”. Parla di vicenda strumentalizzata in vista della scadenza elettorale, ricorda che il Parlamento non può sostituirsi ai tribunali e manifesta la volontà dei socialisti di non partecipare a un voto il cui esito “è già annunciato”. Sulla stessa falsariga Pino Pisicchio, di Centro Democratico, che parla di “vessillo elettorale da issare nelle piazze”. Contro l’arresto il gruppo Per l’Italia. Gea Schirò (cognome evocativo), come i suoi predecessori, non può fare a meno di intravedere risvolti elettorali in questa vicenda. Favorevoli all’arresto, in linea con le risultanze dei lavori della giunta, i deputati di Scelta Civica, secondo le dichiarazioni di voto di Paolo Vitelli. Raffaele Calabrò rifiuta che il Parlamento costituisca “un quarto grado di giudizio” e annuncia il voto contrario del Nuovo centrodestra. Favorevole Sel, come preannuncia Daniele Farina che parla di “fenomeni di corruttela nella vita politica e pubblica mai sradicati” e critica “i colleghi del Pd” che avrebbero dovuto “intravedere al momento della composizione delle liste” elettorali alle ultime politiche le ragioni per escludere Genovese. Contraria Forza Italia, come dichiara Maurizio Bianconi per il quale “un altro presidio sacro va a farsi friggere”, invocando lo scrutinio segreto: “Ma siccome il sangue deve schizzare nella vena abbiamo dovuto rinunciare, segnando un altro scalino di degrado in questa istituzione”. “Chi porta la ghigliottina in piazza prima o poi la testa sotto ce la mette”, avverte rivolgendosi ai pentastellati. “Il clan Gullotti non è una novità, Messina non è New York, il processo è iniziato nel 2011 ma Genovese lo avete candidato lo stesso”, dice poi agli esponenti del Partito democratico. Voto a favore del Movimento 5 stelle. Lo riferisce il messinese Francesco D’Uva che ricorda pure “l’indagine dell’Antitrust aperta sulla Caronte & Tourist per una possibile intesa restrittiva della concorrenza nelle tratte dello Stretto, dopo aver rilevato nell’ultimo triennio un aumento delle tariffe fino al 150 per cento” e accusa il Pd di sapere già tutto da tempo: “C’è un Pd da rifare a Messina ma lo rifaranno gli stessi legati da sempre a Genovese. La verità è che c’è un Pd da rifare in tutta Italia”. Gli fa eco Alessio Villarosa, di Barcellona Pozzo di Gotto, che attacca lo stesso Parlamento, citando i suoi eroi “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” e andando incontro a una reprimenda di Laura Boldrini e alle urla di protesta di molti deputati. Vergognosa replica a Villarosa da parte di Anna Rossomando, del Pd, anche lei presente in giunta per le autorizzazioni che, rivendicando di perseguire i valori di Pio La Torre, attacca coloro che “sono nati in Sicilia”, millantando che “negano l’esistenza della mafia”. Chiaramente, senza essere richiamata dalla presidente della Camera. Retorica Rosy Bindi (Pd) per la quale “nessuno può appropriarsi di Falcone e Borsellino”.

Come spiegato da Antonio Leone (Ncd) nella prima relazione in giunta per le autorizzazioni, lo scorso 10 aprile, l’ex sindaco di Messina è indagato per “associazione a delinquere e per concorso in riciclaggio, peculato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, dichiarazioni fraudolente ed emissione di fatture per operazioni inesistenti”. L’hanno posta in molti la domanda, questo pomeriggio, ai tantissimi esponenti del Pd presenti nell’aula di Montecitorio: “Ma perché avete candidato Francantonio Genovese alle ultime politiche?”, scrive ancora Fabio Bonasera su “Qui Messina”. L’azzurro Maurizio Bianconi, sebbene parli di processo, ricorda che l’inchiesta che lo riguarda è partita nel 2011. Daniele Farina, di Sel, afferma che questa situazione si sarebbe evitata se il partito avesse intravisto le ragioni per escluderlo già al momento della composizione delle liste elettorali. Per non parlare del Movimento 5 stelle. Francesco D’Uva parla di un intero Pd da cambiare. Giulia Grillo scomoda perfino il papà e lo zio democristiani dell’ex sindaco di Messina, Luigi Genovese e Nino Gullotti. Questa domanda, in effetti, vorremmo farla tutti al Partito democratico. E, in realtà, è stata fatta. Ma le risposte non arrivano mai. Perché è impossibile che un partito tanto rinchiuso in se stesso possa mai ammettere anche un solo, unico errore. Da quando la famiglia Genovese, con tutto il suo seguito a carico, è finita nella voragine giudiziaria dell’inchiesta Corsi d’oro, sembra che l’intera nomenklatura, non solo messinese, si sia improvvisamente svegliata, prendendo le distanze. Ma le distanze da chi? Da se stessa, evidentemente. Ma come si fa a mandare avanti colui che è pur sempre un uomo, con i suoi affetti, la sua dignità, candidarlo, candidare anche il cognato, Franco Rinaldi, alle regionali, per poi sottoporlo a una tanto umiliante gogna, come quella odierna? Fingendo che non c’entri nulla con il partito, quasi si fosse insinuato all’insaputa di tutti. Nemmeno se lo spirito di Claudio Scajola si fosse impossessato di ognuno. Il Pd non è mai stato, al pari dei suoi antesignani, il partito onesto, democratico, pluralista che per due decenni ha tentato di fare credere. I tanti scandali che hanno colpito anche i suoi componente – Genovese non è il primo e non sarà l’ultimo – ne sono solo una piccola prova. Ma oggi è emersa un’altra verità: è certamente un partito crudele e spietato. Che manda avanti i suoi uomini migliori – Genovese è quello con più elettori in assoluto – per poi abbandonarli al proprio destino, arrivando addirittura a lapidarli prima e con più violenza di chiunque altro. Una violenza inaudita, sconvolgente, come quella espressa dalle grida isteriche di Anna Rossomando. La deputata torinese, per replicare agli attacchi dei pentastellati messinesi D’Uva e Alessio Villarosa rivolti al suo partito e a buona parte del Parlamento, si è prima appropriata dell’eredità per nulla da poco di Pio La Torre e ha poi inveito contro coloro che “sono nati in Sicilia”, accusandoli di “negare l’esistenza della mafia”. Quando, semmai, l’avevano appena affermata. E tutto ciò sotto gli occhi addomesticati di un’intera Camera, con la sua presidente brava a richiamare Villarosa e pessima nel consentire quello scempio a Rossomando. Già, la presidente della Camera. Laura Boldrini. Quella che si porta il compagno in Sudafrica, ai funerali di Nelson Mandela, a spese dei contribuenti. Quella che si meraviglia se nella sua terra, le Marche, gli imprenditori si suicidano per la disperazione. Quella che è diventata deputato nelle file di Sel, sacrificando sull’altare della propria ambizione Sofia Martino. Messinese anche lei come Genovese, D’Uva e Villarosa. Messinese come tutti coloro che ancora una volta sono stati beffati da un sistema che non si crea problemi nell’usare le persone come cavie. Nel nome di una democrazia che esiste solo nelle parole e che salva solo chi è appiattito e allineato. Lo sanno bene i D’Uva, che da sempre fanno i conti con il degrado di una Sicilia che da due legislature, va ricordato, è governata proprio dal Pd. Lo sanno i Villarosa, costretti a scappare dalla Sicilia per poter studiare. Lo sanno le Martino, cui è stato interdetto il Parlamento per fare posto a una donna dell’apparato. E, da oggi, lo sanno i Genovese. Che probabilmente non verranno nemmeno condannati ma ai quali tanta crudeltà dovrà pur essere pesata in qualche momento. Se son rose… avvizziranno.

L'Antimafia ed i suoi presunti paladini. Intervista di Pino Arlacchi rilasciata a Giuseppe Corsentino e pubblicata su Affari Italiani. I 50 secondi del video del CorriereTv sono implacabili e dicono molto della “leggerezza”, a voler essere gentili, con cui la politica italiana affronta un tema drammatico com’è quello della mafia e dell’antimafia. Nel video c’è il neopresidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che farfuglia: “Bisogna stare uniti per combattere insieme la lotta alla mafia” (sic) “e bisogna stare vicini a tutti coloro che lavorano per la lotta alla mafia”. In 50 secondi una gaffe (ma la coriacea Bindi è una che si emoziona?) e una sciocchezza istituzionale. Perché la Commissione antimafia è nata, mezzo secolo fa, nel lontano 1962, non per “stare vicino” alla magistratura e agli organi di polizia, ma per fare altro – scoprire i collegamenti tra politica e sistemi criminali, per esempio – solo che oggi, Bindi o non Bindi, nessuno ne ha più consapevolezza e la commissione con i suoi 25 membri è diventata solo uno “spazio politico”, l’ennesimo luogo della spartizione come fa capire un illuminante twitter del senatore Gasparri del PdL che accusa il Pd di aver voluto fornire alla Bindi una “poltrona” (prestigiosa, si capisce). “Il fatto è che da almeno un decennio l’Antimafia non è altro che un rito, una delle tante liturgie parlamentari: credo che nessuno degli ultimi commissari, presidenti e vicepresidenti della Commissione, abbia solo un’idea di che cosa sia la mafia (o che cosa siano le mafie) oggi, di come si possa investigare o semplicemente comprendere il fenomeno… il livello culturale dei parlamentari non va oltre la lettura dei libri di Saviano”. Chi parla così ad Affari Italiani è uno che se ne intende di Antimafia perché, negli anni 80 è stato superconsulente della Commissione e poi per due anni, dal 94 al 96, vicepresidente con la rossa (di capelli) Tiziana Parenti alla presidenza: Pino Arlacchi, calabrese di Gioia Tauro, sociologo, consulente dell’Onu sui temi, appunto, dei network criminali, ora parlamentare europeo del Pd, impegnato, si capisce, sugli stessi temi (con un occhio particolare sui traffici mondiali di droga) e con una intensa attività pubblicistica.

Se l’Antimafia è un rito parlamentare, allora tanto meglio sopprimerla.

«Non mi prenda alla lettera. Io sto dicendo che questo modello di Commissione non serve più a nulla, non che non ci sia bisogno di uno strumento di investigazione politica che vada al di là dell’attività investigativa delle Procure».

Ma c’è già la Superprocura antimafia..

«Ed è proprio qui il punto. Uno dice: ci sono le Procure, la Superprocura e altre agenzie investigative. E allora a che serve la Commissione parlamentare?»

Proprio così, Arlacchi. A che serve?

«Serve a capire il contesto – mi consenta il lessico di Leonardo Sciascia – a gettare un fascio di luce su territori d’indagine su cui la magistratura non può spingersi se non quando ha precise e circostanziate “notitiae criminis” (e da questi territori è assai difficile che ne arrivino).»

Non parli da sociologo, professor Arlacchi, ma da uomo politico, impegnato sul tema prima a New York e ora a Bruxelles.

«Sto parlando, per esempio, delle relazioni tra network criminali, tra mafie, ed economia legale (relazioni spesso favorite dalla intermediazione politica). Con ciò voglio dire che il compito dell’Antimafia non è replicare l’attività dei magistrati, sentire e risentire le stesse fonti, come faceva un pur bravissimo presidente come Luciano Violante con i pentiti, ma andare oltre, scoprire i nuovi trend criminali (uso questo termine per farmi capire, non certo per sottovalutare la crudeltà delle organizzazioni), individuare quegli spazi pubblici e privati (della politica e dell’economia, per restare in tema) in cui le nuove mafie globali si sviluppano con nuove logiche multinazionali.»

E tutto questo la Commissione parlamentare non lo fa più.

«Non lo fa più da decenni. Le ho ricordato il lavoro di Violante, l’ultimo presidente dell’Antimafia degno di questo nome. Anche Violante, a mio parere, ha subordinato l’attività dell’Antimafia alle inchieste della magistratura, ha lavorato sulle “retrovie” del fenomeno mafioso, invece che guardare avanti.»

Però ha gettato le basi, come dire, culturali del processo Andreotti.

«Sì, ma la relazione mafia-politica-affari oggi si configura in altro modo e il focus di una nuova Antimafia dovrebbe andare al di là del provincialismo mediatico che caratterizza il dibattito pubblico sul fenomeno.»

Che è globale e quindi inafferrabile con un vecchio arnese parlamentare come una commissione. E’ così?

«Gli anni ‘80 sono stati la grande stagione della commissione perché grazie al suo lavoro l’endiadi mafia-politica è entrata con forza nel dibattito pubblico e, per conseguenza, il lavoro dei magistrati ne è stato avvantaggiato. Poi è finita. Che cosa hanno fatto le Commissioni guidate da personaggi come Tiziana Parenti, come Beppe Pisanu? Niente.»

E’ vero, la preoccupazione della Parenti, presidente berlusconiana, era la gestione del pentitismo…

«E questo le dice tutto del progressivo degrado di un’attività di indagine politica che dagli anni ’90 in poi non è interessata più a nessuno. E la prova sta proprio nella scelta dei presidenti. La politica ha scelto come presidenti o personaggi di secondo piano o personaggi prudentissimi, fedeli alle indicazioni dei loro sponsor politici. Se si continua così, l’Antimafia è solo un modo per distribuire 25 poltrone parlamentari.»

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica, scrive Antonio Amorosi su “Affari Italiani”. Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”.»

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…

«No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che dà a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”.»

Non sono solo casi isolati!? Libera è un’associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta. E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce.»

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va.»

Ai nostri microfoni anche Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti.»

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E “Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

«Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», scrive “Tempi”. «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Parola di Giovanni Fiandaca, giurista, candidato Pd alle Europee 2014. «Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», dice oggi al Corriere della Sera Giovanni Fiandaca. Giurista palermitano, celebrato trai maggiori esperti di diritto penale, Fiandaca correrà nelle liste del Pd per le Europee. Il fatto è di straordinario interesse, soprattutto perché segnala che, anche a sinistra, qualcosa si muove nel campo di chi non ne può più di una politica asservita alla magistratura. Il fatto che poi Fiandaca sia un ex membro del Csm, maestro di Antonio Ingroia, uno dei penalisti di riferimento della sinistra, non fa altro che aumentare l’interesse per questa candidatura (molto osteggiata infatti dalle parti di Travaglio e manettari affini). Nei mesi scorsi, l’ordinario di Diritto Penale all’università palermitana ha avuto parole molto nette sia sulla trattativa Stato-Mafia sia sul suo allievo Ingroia che ha pesantemente criticato. Ma Fiandaca ha fatto anche un discorso di più ampio respiro sulla situazione della giustizia in Italia, coinvolgendo nelle critiche anche il mondo dell’informazione per la “drammatizzazione” eccessiva con cui si sofferma su indagini e processi solo per attizzare gli istinti più bassi e forcaioli. Al Corriere, dunque, Fiandaca spiega che l’Antimafia oggi va ripensata perché «nessuno può arrogarsi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla». Così come un ripensamento va fatto sulla stagione che ha seguito Tangentopoli: «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Anche a Repubblica il professore dice: «La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico».

Parliamo di Giancarlo Giusti. Per venir fuori dal carcere bastava pagare, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Al resto ci pensava la "toga" amica. Gli avvocati presentavano istanza al Tribunale della Libertà, poi lui, il giudice Giancarlo Giusti, trovava il cavillo giusto e gli 'ndranghetisti tornavano a casa. L'ultima volta al clan Bellocco è costato 120 mila euro. In compenso, il 27 agosto del 2009, la cosca di Rosarno potè riabbracciare Rocco Bellocco, Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo, arrestati alcuni mesi prima nell'operazione congiunta tra le procure di Reggio Calabria e Bologna, "Rosarno è nostra". A Giusti arrivarono, 120 mila euro, ossia quanto previsto dal suo personale tariffario. Lui prevedeva 40 mila euro a testa. Il 14 febbraio 2014 mattina sono finiti in manette in otto. Il giudice e altri sette esponenti della "famiglia". Contro la toga l'accusa di corruzione in atti giudiziari e concorso esterno in associazione mafiosa. Per i magistrati della Procura di Catanzaro (l'inchiesta porta la firma dell'Aggiunto Giuseppe Borrelli e del sostituto Vincenzo Luberto) era "a disposizione" della 'ndrangheta. Ad inchiodare l'allora giudice del Tribunale del riesame una serie di intercettazioni provenienti da diverse indagini. Dialoghi che singolarmente non avevano significato, ma che gli specialisti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno rimesso assieme in maniera certosina, incastrando ogni tassello in un unico mosaico. L'operazione "Abbraccio", che ha portato all'arresto di sette persone in tutto, ha dimostrato l'esistenza di un sistema consolidato. Giancarlo Giusti, era già rimasto incastrato nella rete di un'altra inchiesta. E infatti si trovava già ai domiciliari per una condanna a 4 anni nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano ed era stato sospeso dal Csm. Stava aspettando il giudizio definitivo in casa perché, mentre era dietro le sbarre, dopo la sentenza di primo grado aveva tentato il suicidio. Era un giudice particolare "Giusti", amava la bella vita e belle donne. Quando venne arrestato la prima volta gli investigatori a casa sua trovarono un diario nel quale si appuntava, e raccontava, le notti trascorse le prostitute che i boss del clan Valle-Lampada gli procuravano in cambio di informazioni. Per i giudici di Palmi che firmarono l'ordinanza di custodia cautelare in carcere il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, tutti documentati. Nei suoi appunti si scoprì che c'era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Eclatante un'intercettazione captata mentre parlava con alcuni 'ndranghetisti, nella quale si vantava della sua astuzia: "... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...".

'Ndrangheta, in manette il magistrato Giusti. «Dovevo fare il mafioso» 120mila euro per la scarcerazione, scrive “L’Ora della Calabria”. Arrestate sette persone del clan Bellocco: sono accusati di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Già arrestato nel 2012. Poi tentò il suicidio in carcere. La Polizia di Stato di Reggio Calabria, al termine di un complessa indagine coordinata dalla Procura Distrettuale di Catanzaro, ha eseguito sette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti contigui alla cosca Bellocco, operante nella Piana di Gioia Tauro, ritenuti responsabili, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Lo riferisce una nota della Polizia di Stato. Tra i soggetti colpiti dal provvedimento restrittivo figura anche un magistrato, attualmente sospeso dalle funzioni, in quanto coinvolto in una precedente vicenda giudiziaria. Si tratta di Giancarlo Giusti che all'epoca dei fatti era magistrato del Riesame di Reggio Calabria. 47 anni, era già ai domiciliari perché arrestato nel marzo del 2012 nell'ambito di un'operazione della Dda di Milano e condannato, nel settembre del 2012, a quattro anni di reclusione con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Giusti, dopo la sentenza, tentò il suicidio in carcere ma venne salvato e qualche mese più tardi ha ottenuto i domiciliari per motivi di salute. Il magistrato ha prestato servizio sia al Tribunale di Reggio Calabria sia a quello di Palmi. In quell'occasione era stato accusato di avere accettato viaggi a Milano ed escort pagate da Giulio Lampada, condannato in primo grado a sedici anni di reclusione e considerato imprenditore e personaggio di vertice della famiglia omonima. Le persone raggiunte dall'ordinanza di custodia cautelare sono: Giancarlo Giusti di 47 anni, già detenuto; Rocco Bellocco di 62 anni, già detenuto; Rocco Gaetano Gallo di 61 anni, già detenuto; Domenico Puntoriere di 59 anni; Vincenzo Albanese di 37 anni; Domenico Bellocco di 34 anni; Giuseppe Gallo di 30 anni; Gaetano Gallo di 60 anni. Una somma di 120 mila euro per disporre la scarcerazione di alcuni esponenti di spicco della cosca Bellocco: è l'accusa mossa dagli investigatori, sulla base di intercettazione telefoniche ed ambientali, a Giancarlo Giusti. Il fatto, secondo l'accusa, risale al 27 agosto 2009 quando Giusti, in qualità di componente del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, dispose la scarcerazione di alcuni esponenti dei Bellocco contribuendo, così «al rafforzamento del programma criminoso» della cosca. «Ossessionato» dal sesso e anche capace di dire «io dovevo fare il mafioso, non il giudice». E' il quadro emerso dall'inchiesta condotta negli anni scorsi dalla Dda di Milano a carico del giudice Giancarlo Giusti. Agli atti dell'inchiesta milanese, conclusa con una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione, c'è una telefonata intercettata dagli inquirenti in cui Giglio, parlando con Giulio Lampada, dice: «Non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di ... ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Giusti, secondo quanto scrisse il gip di Milano nell'ordinanza di custodia cautelare, aveva inoltre «l'ossessione per il sesso» e per «divertimenti, affari, conoscenze utili». In un «diario informatico» sequestrato dagli inquirenti milanesi, in cui Giglio annotava tutto ciò che faceva, sono state trovate varie annotazioni, tipo: «venerdì notte brava con (...) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio».

Parliamo di Giuseppina Pesce. La giovane mamma calabrese ha permesso l'arresto dei familiari e il sequestri di beni per 224 milioni di euro. Arrestata aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti della Dda di Reggio Calabria. Dopo una strana ritrattazione è tornata a essere collaboratrice di giustizia, scrive Giovanna Trinchella suIl Fatto Quotidiano”. Da Rosarno all’aula bunker di Rebibbia. Sono poco meno di 650 i chilometri che separano Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss di una delle cosche più potenti della Calabria, dalle sue origini, dalla sua storia e dalla sua famiglia. Ma è una distanza enorme quella percorsa da questa giovane mamma di 30 anni che dal suo arresto, nell’aprile del 2010, è diventata una collaboratrice di giustizia. Che lunedì prossimo a Roma testimonierà contro gli imputati del maxi processo di Palmi – iniziato nel luglio dell’anno scorso – contro esponenti della ‘Ndrangheta che anche lei, passando per una sofferta ritrattazione, ha contribuito a far arrestare. Compresi i suoi familiari più stretti. Giuseppina è l’unica delle donne che, negli ultimi tempi, sono andate contro la ‘Ndrangheta a essere viva. Maria Concetta Cacciola è morta dopo aver bevuto misteriosamente dell’acido e i suoi familiari sono in carcere per istigazione al suicidio. Il corpo di Lea Garofalo invece non è mai stato trovato. I sei uomini che sono stati condannati all’ergastolo, compreso l’ex marito e padre di sua figlia, l’avrebbero sciolta in cinquanta litri di acido. A tutte e tre queste donne è stato dedicato l’ultimo 8 marzo. Nell’ottobre del 2010 Giuseppina, che all’interno della cosca aveva il compito di fare da staffetta di ordini tra il padre in carcere e i suoi uomini fuori, decide di collaborare. Dice di volere assicurare ai tre suoi figli un futuro diverso. Fuori dalla criminalità organizzata. Dove lei aveva avuto quel ruolo di collegamento per portare al di là delle sbarre le richieste estorsive. Ma anche di avere partecipato all’attività di intestazione fittizia di beni e per riciclare i soldi sporchi della cosca, che solo per farne comprendere la forza aveva un bunkerista di fiducia. Una breccia, la collaborazione di Giuseppina nell’impenetrabile universo ‘ndraghetista, che ha permesso agli inquirenti calabresi, che ne sottolineano la novità e l’eccezionalità, di ricostruire la piramide del potere dei Pesce. Con Antonino, lo zio della collaboratrice, a capo e con il figlio Francesco, subentrato prima dell’arresto, al boss. E poi il ruolo di suo padre e del fratello, anche lui di nome Francesco, della madre e della sorella. Arrestati. Il suo racconto, le sue dichiarazioni anche hanno permesso di sequestrare beni per 224 milioni di euro. Giuseppina ha così raccontato di avere saputo dal fratello e dal marito che esistono gerarchie e gradi, che si acquisiscono attraverso la commissione di reati. Chi dimostra maggiore capacità criminale viene promosso. Il fratello le aveva confidato di avere la “santa” e quindi di avere uno dei gradi più alti nella speciale carriera della società mafiosa. Non solo i gradi, ma anche le alleanze ed ecco che così Giuseppina agli inquirenti della Dda di Reggio Calabria, l’aggiunto Michele Prestipino e il pm Alessandra Cerreti, ne descrive la composizione: “Lo so perché, come le ripeto, le dicevo ci sono le squadre, no?, e quindi loro sono i tifosi, ci sono le persone vicine alla famiglia Pesce, cioè ha le su famiglie, e la famiglia Bellocco ha le famiglie di cui parlavo prima, gli Ascone, i Cacciola (cui apparteneva Maria Concetta, amica di Giuseppina ndr), adesso mi sfugge… Olivieri, e i Cacciola sono… lui, la sua famiglia insomma, fanno parte di quelle famiglie vicine ai Bellocco, insomma…”. Giuseppina, da interna, sa tante cose: “Stando dentro una famiglia che di questi discorsi ne senti, dove vai, anche… cioè anche non facendone parte, non prendendo parte ai discorsi però li senti, è così!. Eh, bisogna viverci! Non vuol dire però che si condividono, eh, questo volevo puntualizzare… le so però non vuol dire che sono cose che… cioè, magari, fa anche male saperli e anche male sentirli e anche respirarle”. Chissà come deve essere respirare la ‘Ndrangheta. Le indagini che hanno riunificato le operazioni dei carabinieri “All Inside” 1 e 2 erano partite dopo l’omicidio, nell’ottobre del 2006, di Domenico Sabatino, considerato uomo dei Pesce. All’improvviso però Giuseppina, era il 2 aprile del 2011, decide di interrompere la collaborazione. Non vuole più essere una pentita. In una lettera la giudice dichiara di essere stata “indotta” a fare le dichiarazioni eppure il giorno 4 aprile, interrogata dal pm che ancora non è informato della novità, risponde. Solo l’11 aprile si avvale della facoltà di non rispondere e ammette di essere in contatto con la sua famiglia e con quella del marito; tutti le avevano offerto sostegno economico per le spese legali e tutto ciò di cui, rinunciando alla protezione dello Stato, avrebbe avuto bisogno per sé ed i figli. Poi l’arresto a giugno per evasione dagli arresti domiciliari. Dopo qualche giorno spiega le sue ragioni. Per esempio la non condivisione da parte dei figli, pur giovanissimi, della sua collaborazione e in particolare della figlia maggiore adolescente. E poi anche un’altra verità forse quella più sentita; il timore che qualcosa di male potesse accadere ai suoi cuccioli. Giuseppina era assolutamente consapevole che se quel giorno, l’11 aprile, avesse regolarmente risposto alle domande, non avrebbe più rivisto i figli. Che ora stanno con lei. Sotto protezione. Come questa mamma che respirava la ‘Ndrangheta sognava e scriveva alla sua Angela in una poesia.

Palmi, decine di condanne per il clan Pesce. Pene pesanti per la famiglia di Giuseppina. Regge l'impianto accusatorio basato sulle accuse della pentita che ha puntato il dito contro i suoi congiunti. Inflitti 27 anni al padre, 25 al fratello; condannate anche la madre e la sorella. Per Antonino Pesce, indicato come capo della potente cosca di Rosarno, la pena più pesante: 28 anni, scrive Domenico Galatà su “Il Quotidiano della Calabria”. Si chiude con 42 condanne, 20 assoluzioni e due prescrizioni il processo di primo grado a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, contro il potente clan Pesce di Rosarno. Regge quindi l'impianto accusatorio basato sulle dichiarazioni della testimone di giustizia Giuseppina Pesce, che ha puntato il dito contro la propria famiglia. E proprio per i suoi congiunti le pene sono durissime: 27 anni e 7 mesi al padre Salvatore; 25 anni e 8 mesi al fratello Francesco che di anni ne ha 29; 13 anni e 5 mesi alla madre, Angela Ferraro; 12 anni e 10 mesi alla sorella Maria Grazia. Condannato anche il marito e padre dei figli di Giuseppina, Rocco Palaia: dovrà scontare 21 anni e due mesi di reclusione. Alla pentita, per la quale l'accusa aveva chiesto 4 anni, il tribunale ha inflitto 4 anni e 10 mesi. La pena più alta in assoluto, 28 anni, è stata inflitta ad Antonino Pesce, detto "testuni", accusato di essere il capo della cosca. Per Giuseppe Ferraro, fratello della madre di Giuseppina, la pena è di 26 anni. Inflitti 16 anni e 4 mesi all'ex dirigente sportivo Domenico Varrà, ma il giudice ha rigettato la richiesta di confisca del Sapri Calcio. Tra gli assolti, invece, c'è anche l'altro presunto boss Rocco Pesce, per il quale l'accusa aveva chiesto 25 anni.

Un percorso avviato il 14 ottobre 2010 e assai tormentato, che adesso, a distanza di oltre tre anni, trova un decisivo punto fermo, con le motivazioni della sentenza di primo grado del procedimento "All Inside", con cui il Tribunale di Palmi ha inflitto condanne molto dure alla potente cosca Pesce di Rosarno. La protagonista è proprio lei, Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce e collaboratrice di giustizia, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio. Sposata con Rocco Palaia e madre di tre figli minorenni, Giusi Pesce tenterà per due volte il suicidio in carcere, poi deciderà di collaborare. Un percorso tormentato, che troverà il punto più basso con la missiva del 2 aprile 2011, allorquando la collaboratrice dichiarerà di voler interrompere la collaborazione, accusando i magistrati di averla indotta a rendere dichiarazioni false contro i propri parenti. Una decisione dettata dalle pressioni di una delle figlie, plagiata dai parenti e convinta a far di tutto per riportare la madre – che era diventata una minaccia per il clan – in Calabria: "L'obiettivo era quello di farmi tornare indietro. Sapeva che senza mia figlia non sarei andata da nessuna parte" dirà la giovane collaboratrice al pm Cerreti. Si spezza così il percorso collaborativo, in cui Giusi Pesce era accompagnata da un uomo, cui era legata sentimentalmente con una relazione extraconiugale che, per la prima volta, la "rispettava come donna" e le "voleva bene". Non tanto per la paura di essere punita, in base a quel "codice d'onore" che, all'interno della 'ndrangheta non ammette tradimenti e "corna", ma soprattutto per l'amore nei confronti dei figli, Giuseppina Pesce deciderà di non sottoscrivere il verbale illustrativo (a fine aprile), di uscire dal programma di protezione (maggio) e verrà arrestata per violazione degli arresti domiciliari (giugno). Dal luglio 2011, però, la giovane donna, rassicurata dalla presenza del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, che seguirà tutto il caso, deciderà infine di riprendere il percorso di collaborazione. Da quel momento non avrà più dubbi e anche in dibattimento accuserà i propri familiari, non senza difficoltà, non senza lacrime e commozione. La donna ammetterà l'esistenza della cosca Pesce, ripercorrerà le varie gerarchie interne al clan, descrivendo l'ascesa del cugino Francesco Pesce, detto "Ciccio Testuni" e riconoscerà i propri delitti di intestazione fittizia di beni. Dichiarazioni che contribuiranno a far eseguire all'autorità giudiziaria decine di arresti, di sequestrare beni per oltre 200 milioni di euro e, grazie all'attività in aula, di condannare numerosi boss e affiliati a uno dei casati storici della 'ndrangheta reggina. Una collaborazione che susciterà preoccupazione e terrore tra boss e affiliati, che non solo avranno paura per le conoscenze di Giuseppina (riversate agli inquirenti), ma anche sulla possibilità che altre donne del clan Pesce (figure fondamentali, per come emerso dalle indagini) potessero seguire le orme di Giusi "la pazza": "Il cervello delle femmine è un filo di capello" dice preoccupato in una conversazione intercettata Francesco Pesce. Dichiarazioni, quelle di Giuseppina, che convinceranno il Tribunale presieduto da Concettina Epifanio, che nelle motivazioni della sentenza "All Inside" userà parole nette sulla collaborazione (contestata, tanto dai parenti mafiosi, quanto da organi di stampa che si faranno, di fatto, strumenti delle volontà della famiglia): "Giuseppina Pesce conosce bene persone e personaggi che ha accusato, per essere sempre vissuta all'interno di una famiglia che a Rosarno, e non solo, ha sempre dettato legge. Ha strettissimi rapporti di parentela con la maggior parte dei soggetti chiamati in correità [...] non ha esitato ad accusare gli affetti più cari: il padre, la madre, la sorella Marina, il fratello Francesco, nei cui confronti non aveva motivo di risentimento o di rivalsa, anzi! La commozione a cui ha ceduto più volte nel corso dell'esame, soprattutto quando si trattava di far sentire la sua voce contro il suo sangue, la dice lunga dell'affetto che Giusi aveva per i componenti del suo stretto nucleo familiare. E se motivo di risentimento, in astratto, poteva avere nei confronti del marito, da cui aveva subito maltrattamenti e umiliazioni, risentita non si è affatto dimostrata nei suoi confronti, anzi! [...] Giuseppina ha accusato anche sé stessa di reati gravissimi; ha parlato solo di fatti da lei conosciuti o direttamente, o per esservi stata in qualche modo coinvolta, o per averli appreso dal racconto delle persone con le quali si rapportava abitualmente, indicando sempre le fonti da cui aveva attinto le sue conoscenze e senza aggiungervi nulla. Lei, che fin dalla nascita ha respirato il clima di sopraffazione e di intimidazione che la famiglia mafiosa alla quale apparteneva diffondeva attorno a sé, non ha avuto bisogno di millantare o di inventare; le è bastato dare la stura ai ricordi, mettendoli in ordine". Dopo una valutazione così lunga ed espressa in questi termini, la valutazione del Tribunale sull'attendibilità della collaboratrice non può che essere positiva: "Giuseppina ha deciso liberamente e senza alcuna costrizione di iniziare a collaborare con la giustizia e di riprendere la collaborazione, spinta solo dal desiderio di dare ai suoi figli un futuro diverso e migliore di quello che sarebbe loro toccato se fossero rimasti nell'ambiente dov'erano nati e avevano fino a quel momento vissuto; di dargli la possibilità di una vita diversa da come era stata la sua, scandita dalle visite continue in carcere, ora al padre, ora al fratello, ora al marito".

Il colpo più duro l'aveva ricevuto dalla figlia maggiore, 16 anni vissuti a Rosarno, in terra e famiglia di 'ndrangheta, ribellatasi all'idea di vivere con una madre «pentita» lontano dalla Calabria, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. «Mi dispiace ma ce l'ho con te, mamma, sono arrabbiata per quello che stai facendo - le ha scritto il 18 luglio scorso -. Questa è la tua scelta e la rispetto, ma sappi che lo stai facendo solo per te, non per noi che ci fai solo del male». Parole e toni aspri, forse troppo per una ragazzina che tentava di trasmettere anche sentimenti di affetto: «Avrei voluto stare con te perché ti amo e perché sei la mia mamma, però io non ce la faccio». Fino ad arrivare a un invito esplicito: «Non sono d'accordo con te, perché stai sputando nel piatto dove hai mangiato senza alcun senso. Spero che capisci quello che ti sto dicendo. Non lo dico per cattiveria, ma per farti capire quello che è sbagliato». Davanti a un simile ultimatum Giuseppina Pesce - 32 anni, nata e cresciuta nel clan che comanda a Rosarno, piana di Gioia Tauro, tre figli da educare con marito, genitori, fratelli, sorelle zii e cugini in galera - non poteva non vacillare ancora. Arrestata nella primavera del 2010 per associazione mafiosa, dopo sei mesi aveva deciso di collaborare con la giustizia, scaricando nuove accuse su di sé e sui parenti che l'avevano subito disconosciuta. Poi ad aprile 2011 il colpo di scena: Giusy Pesce si pente di essersi pentita, ritratta tutto, dice di essere stata condizionata e costretta nei precedenti interrogatori. Ma a giugno «evade» per un giorno dagli arresti domiciliari insieme all'uomo che nella sua vita ha preso il posto del marito. Rientra in carcere, e dopo poche settimane si rivolge nuovamente ai magistrati: «Sarebbe mia intenzione riprendere il percorso della collaborazione, sperando di poter recuperare la vostra fiducia». I pubblici ministeri della Procura antimafia di Reggio Calabria tornano da lei, il percorso riprende. Ma la figlia maggiore di Giusy si mette di traverso, con la sua lettera: «Per te è più importante quello che ti promettono loro oppure la tua famiglia e la nostra felicità? Se è la nostra felicità e la tua famiglia, allora fai in modo di non fare questo passo, cerca in tutti i modi di tirarti indietro finché sei in tempo... Non so che dirti, credimi, ma sono delusa». Stavolta però Giuseppina Pesce riesce a non retrocedere. Anche perché una settimana più tardi sua figlia torna a scriverle: «Io senza di te non ce la farò mai... A me quello che pensa o dice la gente non mi importa, io penso con la mia testa e decido io. Nella lettera precedente ti avevo detto che non venivo, però non era una mia scelta». Era la conferma di quel che Giuseppina immaginava, delle pressioni a cui la ragazza era stata sottoposta per convincere la madre a ritrattare per la seconda volta; a scegliere la protezione della famiglia (di sangue e di 'ndrangheta) anziché quella dello Stato. Ma Giusy ha resistito, raccontando tutto ai magistrati: «In quella lettera mi dice che sto sputando nel piatto dove mangio, e io da lì ho capito che non erano parole di mia figlia... non è un'espressione che usa... Ho capito che stava subendo delle pressioni». La madre riferisce anche dei successivi colloqui con la figlia: «Mi ha detto che mio marito le ha detto di scegliere tra me e lui...». Anche il marito di Giuseppina, Rocco Palaia, le ha scritto dal carcere dov'è rinchiuso. Con toni più concilianti quando la moglie era indecisa: «Quando usciamo facciamo finta che non è successo mai niente, promesso...». Poi con parole di risentimento: «Se ti può interessare ti faccio sapere che a tuo padre e a zio Pino gli hanno dato il 41 (il 41 bis, regime di carcere duro, ndr) e sai benissimo chi glielo ha fatto dare», alludendo a lei, anche se non è vero. Infine con una sferzata dopo la nuova collaborazione coi giudici: «Mi domandavo da tanto tempo come mai tu ti sei, anzi ci hai rovinato la vita a tutti... Spero che Dio ti illumini». Rocco Palaia chiede alla moglie di lasciare in Calabria il figlio maschio, di nove anni, evitando di portarlo con lei: «Ha bisogno di essere seguito a scuola e deve andare al doposcuola, tu non sarai in grado». Secondo Giusy Pesce, il bambino le avrebbe rivolto questa frase a proposito del fidanzato della madre, su istigazione di uno zio: «Lui ha mancato di rispetto a mio padre, se io vengo e lui c'è io devo prendere un coltello e mentre dorme lo devo ammazzare». La pentita ha spiegato i motivi della sua ritrattazione, annunciata con una lettera pubblicata da un giornale locale: «Mio suocero mi ha offerto di pagare le spese legali e di provvedere a tutte le mie necessità economiche ove avessi deciso di interrompere la collaborazione. I contatti con la famiglia di mio marito sono avvenuti all'inizio attraverso mia figlia, che continuava a farmi pressioni affinché io recedessi dalla collaborazione». E a proposito della lettera in cui lamentava di essere stata costretta dai magistrati ad accusare i suoi familiari, dopo il cambio del difensore: «È stata scritta dall' avvocato... Nessuno mi ha mai costretta o indotta a rendere dichiarazioni, è stata una mia libera scelta». Il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al processo in corso contro la cosca Pesce, ha prodotto tutte le lettere e le dichiarazioni sui condizionamenti subiti dalla pentita, e ha avviato un'indagine per istigazione a rendere false dichiarazioni a carico del suocero e dei cognati di Giuseppina Pesce. La quale in uno degli ultimi interrogatori ha rivelato che se pure avesse insistito sulla strada della ritrattazione, non se la sarebbe cavata: «Prima o poi sarei stata giustiziata, diciamo, per l'errore che ho fatto».

Eppure, al momento la ritrattazione di Giuseppina Pesce suscitò scalpore, anche se nessuno diede la notizia eccetto Calabria Ora con il suo direttore Piero Sansonetti.

Ndrangheta. "Costretta a pentirmi". Rosarno, l’ex collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce accusa i magistrati: sono stata obbligata a dire ciò che volevano per poter rivedere i miei bambini. Calabria Ora del 28/04/2011 a firma di Davide Varì. Il 2 aprile scorso Giuseppina Pesce, una delle principali pentite della ndrangheta (che con le sue dichiarazioni ha messo a soqquadro le cosche del Rosarnese) ha scritto una lettera al tribunale di Reggio nella quale lancia accuse gravissime. Dice di essere stata costretta a pentirsi, e di avere detto ai magistrati le cose che volevano che lei dicesse. In che modo? L’avvocato della signora Pesce, Giuseppe Madia, dice che i giudici hanno ignorato una perizia medica – condotta da un professionista nominato dal gip – la quale consigliava la scarcerazione o comunque l’avvicinamento a casa del- l’imputata; e hanno fatto capire alla signora Pesce che avrebbe potuto rivedere i suoi bambini solo se avesse rilasciato determinate dichiarazioni accusando i parenti. Dopo la perizia, Giuseppina Pesce anziché essere avvicinata a Rosarno è stata spedita a Milano. Pare che abbia tentato di suicidarsi. Poi in ottobre ha ceduto ai magistrati e ha deciso di parlare; subito dopo, ai primi di novembre, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Siamo in possesso della lettera della Pesce ai giudici, con la quale annuncia la ritrattazione di tutte le sue dichiarazioni, e la pubblichiamo integralmente all’interno.

«Signor giudice: voglio ritirare tutte le accuse».

"Gentile signor giudice, con questa mia lettera voglio ritirare tutte le accuse che ho fatto nelle mie dichiarazioni precedenti. Mi sono decisa a fare questo non per paura ma per coscienza, perché ho detto cose che non rispondono alla realtà. Ho fatto quelle dichiarazioni in una grave situazione di mia malattia, soffrendo tantissimo per l’allontanamento dei miei bambini. I dottori che sono venuti a visitarmi quando ero detenuta hanno potuto vedere lo stato di malattia e di grave abbattimento che avevo in carcere, dove per disperazione ho messo a rischio la mia vita. Quando il giudice ordinò il mio avvicinamento a Reggio dal carcere di Lecce, speravo di poter vedere finalmente i miei bambini, che sono tre, un bambino con seri problemi di salute. Ma fu speranza per poco perché da Lecce mi mandarono a Milano, a quel momento ho capito che per me era la fine se non facevo quelle dichiarazioni che si aspettavano da me. Al giudice della causa spiegherò come nascevano le mie risposte alle domande che già avevano dentro le accuse e che senza pietà riguardavano i miei stretti familiari e che avevano tutte una condizione chiaramente detta: più accusi più sei creduta ma più accusi la tua famiglia ancora di più sei creduta. Ero talmente abbattuta che ho accusato i miei più stretti familiari di cose non vere. La paura e la malattia mi hanno fatto fare quelle dichiarazioni che mi hanno messo nell’anima una sensazione di vergogna. Mi sento come se mi hanno spogliata davanti a tutti senza riguardo per la mia dignità e per i miei affetti. Mi sento come se mi hanno usata. Oggi che mi sento meglio trovo il coraggio di ritirare quelle accuse, anche se si riaffaccia la paura di prima per un processo mostruoso che so che mi aspetta. A tutti, anche a quelli che ho fatto del male ingiustamente chiedo un poco di comprensione e di rispetto se possibile per il dramma che sto vivendo. In fede, Giuseppina Pesce".

L’avvocato Madia: «La Pesce ha detto ciò che i pm volevano dicesse», scrive ancora Davide Varì su Calabria Ora del 28/04/2011. «Sa quante volte ho parlato con la mia assistita? Una sola volta, e per di più in una caserma dei carabinieri. Poi, più nulla. Si figuri che adesso non so neanche dove si trovi». L’assistita dell’avvocato Giuseppe Madia ha un nome ingombrante, un nome che fa paura. Il nome dell’assistita dell’avvocato Madia è Giuseppina Pesce. Proprio lei: la più importante pentita di ndrangheta. La figlia del boss Salvatore Pesce, la donna che ha tirato in ballo e fatto arrestare sua madre e sua sorella e che con le sue rivelazioni ha fatto tremare uno del clan più potenti della Piana. «Ma quali rivelazioni – sbotta l’avvocato Madia – legga, legga pure», dice sventolando il faldone dell’interrogatorio. Insomma, la tesi dell’avvocato Madia è chiara e semplice: le denunce di Giuseppina Pesce sarebbero inconsistenti e per di più “estorte” sotto la “minaccia” velata di non farle più rivedere i propri figli. E la prova sarebbe una lettera che l’avvocato tiene in bella mostra sulla sua scrivania. Una lettera firmata da Giuseppina Pesce, una lettera di smentita e ritrattazione. Ma prima di consegnarla l’avvocato vuol raccontare di sé, della sua storia… E’ una famiglia di avvocati quella dei Madia, di grandi avvocati. Il capostipite è niente meno che Titta Madia, senatore della Repubblica e principe del foro. E anche lui, Giuseppe Madia, figlio del fratello di Titta, ha un curriculum niente male. «Si figuri se mi faccio impressionare: io ho difeso Renè Vallanzasca, solo per dirne uno. Guardi, guardi qui», dice mostrando la foto del bel Renè fasciato da un impeccabile tait grigio, che sfoggia un sorriso da canaglia con tanto di sigaretta stretta tra le labbra. «Era il giorno del suo matrimonio – racconta l’avvocato – fu celebrato in carcere e tra gli ospiti c’erano anche questi qui», racconta sornione indicando tre tizi. «Sa chi sono? Sono Frank Turatello e i due marsigliesi Berenguer e Bergamelli». Ma negli anni ’80 la passione dell’avvocato per i criminali belli e maledetti alla Vallanzasca ha lasciato il posto alla terribile vicenda di Alfredino Rampi. Il ragazzino caduto in un pozzo nella periferia romana e morto dopo giorni di angoscia e di agonia. Il Paese quei giorni lì si fermò davanti alla tivvù. Fu il primo grande evento mediatico. Alfredino morì. E nella memoria di milioni di italiani rimase l’immagine degli occhi di sua mamma, la signora Franca. Erano gli occhi disperati di un donna esausta. Esausta ma infaticabile. «Eccola – dice l’avvocato tirando fuori l’ennesima foto dal suo sterminato archivio – Eccola qui la signora Franca. Io ero il suo avvocato, l’avvocato di parte civile. Potevamo vincerlo quel processo lì», dice con un filo di commozione. «Eravamo riusciti a dimostrare che il primo intervento dei vigili fu sbagliato e fatale. Ma alla fine perdemmo. Purtroppo perdemmo». Ne è passato di tempo dai celebri processi a Vallanzasca e dalla tragedia del piccola Alfredino. Ma evidentemente l’avvocato Madia ha ancora tante energie da spendere. Sarà per questo che ha deciso di occuparsi di una causa impopolare come quella di Giuseppina Pesce. «Legga questa perizia medica, legga cosa dice della signora Pesce», dice Madia allungando un fascicolo firmato dal dottor Nicola Pangallo, medico chirurgo e specialista in Psichiatria, e regolarmente depositato in Cancelleria. «Anzi, dia qui, glielo leggo io. Senta, senta che dice il dottore nominato dal gip: “la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere. E ancora: “L’agente di servizio riferisce che la detenuta aveva tentato il suicidio per impiccagione”. E perché voleva ammazzarsi? Perché qualcuno l’aveva convinta che se non parlava non avrebbe più rivisto i propri figli. “La paziente è completamente assorta dalla sua realtà attuale e polarizza l’attenzione sulla speranza di abbandonare il regime detentivo per poter incontrare i propri figli: mia figlia mi ha chiesto, “ma sei tu la mamma?, ho paura che non mi riconosca più”. Ed ecco la raccomandazione del medico: le terapie di cui la perizianda necessita devono essere effettuate in una struttura penitenziaria in grado di offrire continua assistenza specialistica, preferibilmente non troppo lontana dai figli e al fine di consentire un più frequente contatto familiare” ». «Ecco – riprende l’avvocato – sa dov’è il posto più vicino a Reggio secondo la Procura? E’ Milano, naturalmente. Si rende conto? Pochi giorni dopo questa perizia in cui si auspicava un riavvicinamento con i figli che vivevano a Rosarno, Giuseppina Pesce è stata trasferita a Milano, a più di mille chilometri di distanza dai figli». A quel punto la donna è crollata ed ha deciso di collaborare. E in effetti il 14 ottobre del 2010 i pm Di Palma e Cerretti interrogano una Giuseppina Pesce decisamente più disponibile. Ma anche i pm sono più disponibili se consideriamo che un mese più tardi, il 4 novembre 2010 il Gup del tribunale di Reggio, “visto il parere favorevole del pm”, concede gli arresti domiciliari. «E’ evidente – racconta l’avvocato Madia – che la signora Pesce non ha detto la verità, ha solo detto quel che i magistrati volevano che dicesse, per questo – racconta allungando finalmente la lettera della figlia del boss – ha scritto queste cose…».

Ma dalle indagini sono emersi riscontri concreti. Le dichiarazioni ora ritrattate da Giusy hanno portato in carcere madre e sorella, scrive Consolato Minniti su Calabria Ora il 28/04/2011. In principio fu la “postina” del clan; poi divenne la grande accusatrice di amici e parenti; infine disse di non voler più collaborare con la giustizia: quelle dichiarazioni le sarebbero state “cavate” facendo leva su ciò a cui nessuna donna può rinunciare: i figli, sangue del proprio sangue, quello stesso che lei, probabilmente, ha sentito di aver tradito. Irrimediabilmente. In poco meno di un anno, Giuseppina Pesce ha cambiato volto. Lo ha fatto radicalmente almeno tre volte. Adesso la sua lettera rivela quello che l’ha spinta a non voler più parlare con i magistrati. Ci sarebbe stata una questione di coscienza alla base. Insomma, nessuna marcia indietro dettata da un ripensamento, ma semplicemente delle “non verità” spacciate per affermazioni precise e circostanziate. Avrebbe inventato tutto l’ex collaboratrice. Eppure dalle risultanze investigative dei carabinieri emerge chiaramente una credibilità intrinseca delle sue parole, riscontrate attraverso delle precedenti attività d’indagine. Del resto, che Giusy Pesce fosse una donna chiave del clan di Rosarno non è più un mistero da un pezzo. la postina del clan Non serve andare molto lontano per avere un’idea del contributo che la ragazza avrebbe dato alla consorteria mafiosa d’appartenenza. Lo si evince dal decreto di fermo contenuto nell’operazione “All inside” che ha portato proprio Giusy in carcere con l’accusa di essere un tramite del clan. Dalla cella, suo padre Salvatore e suo fratello Francesco impartivano gli ordini e lei avrebbe portato le informazioni a chi di dovere. È emblematica la lettera che don Turi Pesce le inviò il 12 aprile 2006, circa le dichiarazioni da fare in merito ad un processo che lo vedeva coinvolto. In questo contesto Pesce venne escusso relativamente ad un assegno bancario diede disposizioni alla figlia. Ecco parte della lettera così come inviata a Giusy: «Poi senti digli a Rocco di parlare subito con suo fratello Ciccio perchè stamattina mi anno interrogato per l’assegna e glielo detto che me la dato lui digli che glio detto così perché lui prende l’indulto e amme l’indulto mi serve che devo uscire e se lo chiamano io gli ho detto che lui è venuto al marchet e a preso dei liquori e altre cose per un totale di 300 e più euro che aveva il battesimo del figlio o figlia e che al market ceravate voi che mi avete chiamato se lo potevate prendere e io viò detto di si e che dopo che e tornato indietro cià dato i soldi così anche lui non sapeva da dove arrivava diglielo subito e sabato mi dici se l’anno chiamato». Ma era anche nei colloqui in carcere che Giusy Pesce avrebbe svolto il suo ruolo di portavoce del padre e del fratello. Il 12 dicembre del 2006, ad esempio, la ragazza discute con il fratello Francesco, detenuto, della faccenda riguardante i camion della Sisa e di una somma da versare da parte del titolare, il quale doveva pagare l’ostruzionismo fatto nei suoi confronti. Francesco: Ma… soldi niente mà, non te ne hanno portati (incomprensibile)? Angela: Ciccio, io ora sono arrivata qua, venerdì sono arrivata. Francesco: (Incomprensibile) ti avevo detto … vi avevo io detto al colloquio di andare per i soldi. Giuseppina: Non glieli ha dati (incomprensibile) ancora. (Incomprensibile) di aspettare due giorni, tre giorni, non so perché eh, e… Francesco: Di aspettare cosa? Me ne fotto di lui, lui la barca ce l’ha all’asciutto. Che non mi rompa i coglioni, che vada a prendermi i soldi. Giuseppina: (Incomprensibile). Francesco: Sull’onesto di mamma, che a questo qua gli scasso tutto. Giuseppina: (Incomprensibile) questa settimana ha detto che glieli dà. Angela: Ancora. Francesco: Quest’infame di merda che non è altro. A me deve dare i soldi ogni fine mese, non come dice lui. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Questa settimana (incomprensibile) te ne dà 1000, non 6 o 8, te ne dà 1000. Però, questa settimana. Francesco: Questo pisciatore che non è altro, sull’onesto di mamma, se esco da qua dentro lo ammazzo. Angela: Ancora, ancora. Francesco: A questo merda. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Gli ha detto che te ne deve dare 1000. Però, (incompr.) settimana te li dà. La decisione di pentirsi È l’aprile dello scorso anno quando la Dda di Reggio infligge un durissimo colpo al clan Pesce. Con l’operazione “All inside” vengono arrestate 30 persone accusate di appartenere alla cosca della Piana. Tra queste c’è anche Giusy Pesce. Quando esce dalla comando provinciale dei carabinieri ha lo sguardo provato. Quasi perso nel vuoto. Passano 169 giorni e si trova rinchiusa all’interno del carcere di San Vittore. Troppo lontano da casa. Troppo distante dai suoi figli che erano rimasti soli, dopo l’arresto anche del marito. Giusy matura così la decisione di dare un taglio al passato e chiede di parlare con il giudice. Sono diversi gli interrogatori cui viene sottoposta. È un fiume in piena. Accusa amici, parenti e i più stretti familiari. Conosce tutto di tutti. È figlia di un boss, nipote di uno storico padrino e cugina del capo designato: quel Ciccio Pesce “testuni” ancora latitante. È un vero scrigno Giusy, dal quale tira fuori tutti i segreti di una consorteria mafiosa impenetrabile. Lei è la chiave che apre orizzonti nuovi a magistrati e forze dell’ordine. Lo fa sino alla metà del mese d’aprile: riempie pagine di verbali in cui non risparmia neppure la madre e la sorella. Ne scaturiscono le operazioni “All inside 2” e “All clean”. Il dietrofront improvviso. Poi arriva il colpo a sorpresa: la giovane donna prende la penna e verga a mano una lettera di qualche riga. Spiega di aver dovuto collaborare perché senza alternativa. Si è sentita «usata» Giusy Pesce. Trova il tempo di chiedere scusa e affida al suo avvocato il compito di confermare l’indiscrezione che la vuole ormai ex pentita. Arriva anche il crisma dell’ufficialità da parte di Pignatone, che spiega come la ragazza si sia avvalsa della facoltà di non rispondere. È il segnale inequivocabile: ha smesso di collaboratore. Almeno per il momento. La lettera sembra chiudere qualsiasi spazio di ripensamento, ma in molti credono che la storia di Giusy Pesce sia solo ad un capitolo intermedio.

‘Ndrangheta. A Palmi il Pm critica la stampa locale per cronache sui pentiti. Al processo ‘All Inside’ torna in scena una polemica del 2011, scrive “Ossigeno Quotidiano”. Come se ne occupò Ossigeno. Giuseppina Pesce, la figlia di Salvatore, il boss dell’omonima cosca di Rosarno, ha deciso di collaborare con la giustizia con un “atto d’amore nei confronti dei propri figli. E la sua collaborazione fa alla ‘ndrangheta più paura di quella di un pentito maschio, perché dimostra che una donna può ribellarsi allo strapotere delle cosche”, ha detto il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al Tribunale di Palmi, pronunciando la prima parte della requisitoria al processo "All inside", nato da una inchiesta coordinata dalla Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. In otto ore di intervento, il Pm ha descritto la posizione di ciascuno dei tre pentiti, Giuseppina Pesce, Rosa Ferraro e Salvatore Facchinetti. Ha spiegato le motivazioni della loro scelta di collaborare, ha ricostruito il loro contributo alle indagini, ha motivato l’attendibilità e la credibilità delle loro dichiarazioni accusatorie. La posizione di Giuseppina Pesce ha occupato la parte centrale della requisitoria. Lei e Rosa Ferraro hanno svelato come la cosca gestiva le attività illecite e chi copriva tali attività. Il rappresentante della pubblica accusa ha parlato delle forti pressioni esercitate dagli esponenti della cosca su Giuseppina Pesce e Rosa Ferraro per convincerle ad interrompere la collaborazione con la giustizia. Una cronaca dell’udienza firmata da Francesco Altomonte, pubblicata su "Calabria Ora" riferisce che il Pm ha criticato una parte della stampa locale e in particolare "Calabria Ora", biasimando la scelta di pubblicare una lettera con la quale la ‘pentita’ Giuseppina Pesce annunciava di volere lasciare il programma di protezione: quella decisione, come si è appreso successivamente e come si sospettava fin dall’inizio, le era stata estorta dai boss di Rosarno, e comunque quella decisione di ritrattare non è stata mantenuta. Ossigeno si è occupato del caso nato dalla pubblicazione di quella lettera di Giuseppina Pesce su "Calabria Ora", e della contrapposizione con altri giornalisti che contestarono quella scelta, nel saggio di Roberto S. Rossi contenuto nel Rapporto annuale 2011/2012 (pagg. 464-473). Riproponiamo di seguito i brani più significativi:

È SPENTO IL VULCANO? di Roberto S. Rossi. A luglio del 2010 (…) la direzione di Piero Sansonetti ha segnato un evidente mutamento di linea di "Calabria Ora". Il quotidiano ha adottato una linea che possiamo definire iper garantista, e che ha portato a criticare apertamente alcune scelte dei magistrati della Procura di Reggio Calabria; l’uso dei «pentiti» in particolare. (…) Vicenda emblematica del nuovo corso di «Calabria Ora» è la copertura giornalistica di una della fasi più delicate del caso di Giuseppina Pesce, una «pentita» di ’ndrangheta appartenente ad una delle famiglie più temibili della mafia calabrese, operante a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro. Contro la cosca Pesce, nel volgere di un anno, la magistratura reggina ha inferto colpi mortali, anche grazie alla collaborazione di Giuseppina, che dall’ottobre del 2010 è inserita nel programma di protezione. Lo scorso aprile, a pochi giorni dal rinvio a giudizio di gran parte dei componenti della sua famiglia, Giuseppina fa dietrofront, decide di avvalersi della facoltà di non rispondere e accusa pubblicamente i magistrati di averla costretta a pentirsi. Ritornerà sui suoi passi nel settembre del 2011, dichiarando agli inquirenti che fu la paura e la pressione dei suoi familiari a farle interrompere la collaborazione con la giustizia. I veleni contro la Procura di Reggio, le false accuse di Giuseppina, furono veicolati tramite una lettera che, stando alle sue dichiarazioni contenute nei verbali di settembre, fu da lei firmata, ma scritta dal suo avvocato e successivamente consegnata dallo stesso – dichiara testualmente la «pentita» – «all’unico giornale disposto ad ascoltarci». Fu "Calabria Ora", il 26 aprile del 2011, a pubblicare integralmente quella missiva, dedicando alla vicenda l’apertura per due giorni, e proseguendo fino ai primi di maggio una polemica con il Procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, attraverso una serie di editoriali coi quali Sansonetti gli chiedeva spiegazioni sull’operato del suo ufficio. Invece "Il Quotidiano della Calabria" sulla vicenda scrive per la prima volta il 27 aprile, e avanza l’ipotesi – poi dimostratasi corretta – che la ritrattazione di Giuseppina sia stata imposta dal clan. «La Pesce non convince», scrive Baldessarro che rileva alcune incongruenze fra la lettera della «pentita» e quanto emerso nelle prime fasi della sua collaborazione, e definisce «strano» quel «dietrofront a pochi giorni dall’udienza delle indagini preliminari». In un articolo del 30 aprile, carte alla mano, il giornalista smonta le argomentazioni della «pentita». Sulla vicenda interverrà, il giorno dopo, lo stesso Pignatone con una nota affidata a «il Riformista». Non si fa attendere la risposta di Sansonetti, che scrive il 3 maggio: «In questo articolo Pignatone ribadisce alcune delle affermazioni che un paio di giorni fa erano state anticipate su Il Quotidiano di Calabria, ma non attribuite esplicitamente a Pignatone bensì firmate da un giornalista di quella testata (è una pratica che a noi non piace ma che ormai è molto estesa quella dei giornali che si fanno megafoni diretti e portavoce ufficiali delle Procure)». L’attacco a Baldessarro è apparso subito grave, anche se pochi gli hanno mostrato solidarietà. Lo ha fatto il cdr del suo giornale diffondendo questa nota: «Oggi il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti, ha messo all’indice Giuseppe Baldessarro, colpevole di essere “megafono della procura” reggina, solo perché aveva pubblicato alcuni atti di un processo e, quindi, pubblici [...]. Riteniamo questa pratica molto pericolosa sia per l’incolumità fisica del nostro collega, sia per l’intera categoria, sia per la stessa efficacia della lotta al malaffare e alla ’ndrangheta». Parlare di un giornalista come del «portavoce delle Procure» in una terra come la Calabria è molto pericoloso. Non si tratta, come potrebbe essere a Roma o a Milano, solo di accusare un professionista di essere dipendente dalle fonti. «Amico degli sbirri», «confidente di questura», sono locuzioni tipiche della cultura mafiosa usate per identificare gli «infami», quelli che parlano troppo, odiati per questo. Usare quelle parole in un contesto come quello calabrese può anche fornire una sponda a quell’odio, esporre il cronista al pericolo di una rappresaglia mafiosa. Il pensiero di Angela Napoli: «È estremamente grave, perché mette a rischio in maniera molto netta l’incolumità del giornalista». Quello di Antonio Nicaso: «In casi del genere, il rischio è quello di far credere che un giornalista si comporti in maniera diversa dagli altri». Piero Sansonetti ha esposto le sue convinzioni in un editoriale dal titolo «Giornalisti o soldati?» scritto il 7 maggio 2011: «Vi dirò la verità» – scrive – «io me ne frego un po’ della legalità. [...] Legalità vuol dire rispetto delle leggi. Che sia un valore o un disvalore, ovviamente, dipende dalle leggi e da come vengono applicate. Rispettare le leggi non sempre, secondo me, è un merito. La disobbedienza – diceva un certo don Milani – è una virtù. Già, ma chi se lo ricorda più don Milani! A me spesso le leggi non piacciono. Io non mi sono mai schierato dalla parte della legalità. Tendo a pensare che sia giusto schierarsi a difesa dei deboli, chiunque essi siano, che siano buoni o cattivi, colpevoli o innocenti». Queste convinzioni lo hanno portato, fra l’altro, ad ingaggiare una campagna contro la scelta dei magistrati di avvalersi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e ad esprimere forti critiche per il regime carcerario del 41bis. «Prima del 41bis» – ci spiega Antonio Nicaso – «molti mafiosi continuavano a comandare dal carcere. L’idea di questa modifica all’ordinamento carcerario è quella di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza» (…)

QUATTRO DOMANDE A PIETRO SANSONETTI di Roberto S. Rossi. (…) Il 13 ottobre del 2010 esce la notizia che il pentito Paolo Iannò, sentito dai magistrati sui rapporti tra ’ndrangheta e politica, ha dichiarato: «Si diceva che Giuseppe Scopelliti era appoggiato dalla ’ndrangheta». La notizia è data con ampio risalto da alcuni giornali. Calabria Ora invece non le dedica una riga. Ecco, lei ha criticato in diversi suoi editoriali l’uso dei collaboratori di giustizia da parte della magistratura, al punto da non pubblicare dichiarazioni scottanti come quelle di Iannò, poi però il 26 aprile scorso pubblica in esclusiva la lettera della «pentita» Pesce che accusava i magistrati di averla costretta a pentirsi. Dedica alla notizia l’apertura per due giorni e le affianca un editoriale nel quale chiede spiegazioni al Procuratore Giuseppe Pignatone. Non c’è contraddizione in questo? Può spiegare il perché di queste scelte? Non ricordo in che modo il mio giornale fornì la notizia sulla deposizione del pentito Iannò. Può darsi che prendemmo un buco, anche se ci succede molto raramente – in genere diamo i buchi – e certamente, se è così, non lo prendemmo per ragioni ideologiche. Detto ciò, la notizia – fatta evidentemente circolare da qualche giudice per scopi che non mi va di indagare – che un pentito del quale è molto discutibile l’attendibilità sostiene di aver «sentito dire» che un tale aveva rapporti con la mafia, mi pare una notizia di scarsissimo rilievo. Lei si rende sicuramente ben conto che il giornalismo costruito sui «sentito dire», e per di più sui «sentito dire» da imputati per reati di mafia, e per di più «sentito dire» riferiti in modo interessato da qualche giudice, beh, è un giornalismo assai scadente. Penso che siamo d’accordo su questo, no? La testimonianza della signora Pesce era un po’ diversa. Non c’era nessun «sentito dire», era una testimonianza diretta e drammatica, contenuta in una lettera ufficialmente scritta dalla signora e depositata. Tutti potevano pubblicarla, non si trattò di uno scoop. E la signora ci informava di come era avvenuto il suo pentimento – il suo, non quello di un altro – mettendo in discussione la correttezza dei comportamenti della magistratura. Ci mancava altro che dei giornalisti seri non avessero pubblicato questa notizia clamorosa! Lei mi dirà: e perché altri giornali non l’hanno pubblicata? Non saprei, francamente, credo che abbiano preso, in quel caso, un buco clamoroso. Non credo certo alle chiacchiere di chi dice che non l’hanno pubblicata perché la Procura di Reggio non gradiva, e dunque che abbiano pensato che è meglio tenersi buoni i giudici, visto che poi le notizie ai giornali le danno (o non le danno) i giudici. Non ci credo proprio a queste calunnie.

IL CASO DI GIUSEPPINA PESCE. PIGNATONE/SANSONETTI.

La polemica sul caso delle (ex) pentita Giuseppina Pesce (gli articoli integrali). La discussione polemica tra Piero Sansonetti, direttore di CalabriaOra, e Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica di Reggio, sul caso di Giuseppina Pesce, la nipote di uno dei boss del clan di Rosarno che si è prima pentita, svelando particolari ed affari inquietanti del clan, che la Procura considera d’importanza decisiva e ritiene di avere riscontrato con elementi di fatto, per poi ritrarre.

*Editoriale di Piero Sansonetti, direttore di Calabriaora, del 29 aprile 2011, pubblicato su CalabriaOra col titolo: “Tre domande al Procuratore di Reggio Calabria”, contemporaneamente all’articolo pubblicato sul Riformista, col titolo: “La stagione del pentitismo andrebbe conclusa”.

TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA* di PieroSansonetti.

Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.

1 E’ vero o è falso che la signora Pesce, detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?

2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?

3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?

Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.

“Il Procuratore Giuseppe Pignatone replica a Sansonetti”, l’articolo del Procuratore di Reggio apparso sul Riformista l’1 maggio 2011 di Giuseppe Pignatone.

«Spiace che nel suo articolo "La stagione del pentitismo andrebbe conclusa", Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto». «La collaborazione con lo Stato può costituire una via per il riscatto sociale». Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce («farò come volete voi») il magistrato abbia risposto: «No signora. Non deve fare come vogliamo noi. Deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Rinunciare ad utilizzare i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di identificare e condannare i responsabili di gravi delitti. Signor Direttore, spiace che nel suo articolo di oggi ("La stagione del pentitismo andrebbe conclusa") Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene, credo, da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto. Prima di affrontare il tema di fondo è quindi necessario sgombrare il campo da imprecisioni ed equivoci. Non è vero infatti, come risulta dagli atti processuali, che sono pubblici e che lo stesso Sansonetti ben conosce, che il perito di ufficio abbia dichiarato che le condizioni di salute della signora Pesce fossero incompatibili con la sua detenzione in carcere; inoltre, il suo trasferimento alla casa circondariale di Milano San Vittore è stato disposto dal Ministero perché questa è una delle (non numerose) strutture in grado di assicurare l`assistenza medica indicata dal perito. Va aggiunto che il Gip e la Procura hanno concesso ai familiari, e in particolare ai figli, i permessi di colloquio ben oltre la misura ordinaria e fino al limite massimo consentito dalla legge; pertanto nulla sarebbe cambiato, sotto questo profilo, se la signora Pesce fosse stata detenuta in un carcere più vicino a Rosarno. Ancora, il dottor Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce all`inizio della collaborazione («farò come volete voi») il magistrato della Procura abbia correttamente risposto: «No, signora. Non deve fare come vogliamo noi, farà come vuole lei... deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Né è vero che la signora Pesce abbia scritto «di essere stata costretta a parlare con la minaccia di non poter rivedere i figli». Tralascio poi altre "imprecisioni" (la lettera del 4 aprile non era diretta alla Procura ma al Giudice per l’udienza preliminare e non era segreta ma depositata agli atti), ne le tante omissioni (la Pesce dice sì di avere deciso di collaborare per i suoi figli, ma precisa anche che lo ha fatto per assicurare loro un futuro diverso e migliore). Spiace poi che il dottor Sansonetti interpreti male la mia dichiarazione («non meritano alcun commento le affermazioni riportate dalla stampa secondo cui Giuseppina Pesce sarebbe stata costretta a pentirsi»). In realtà io non ho voluto commentare una notizia di stampa assolutamente imprecisa dato che, come detto, la lettera della signora non parla di costrizione e anche il suo avvocato, in un’intervista pubblicata proprio dal giornale diretto dallo stesso Sansonetti, afferma che «nessuno si sogna di affermare che Giuseppina Pesce è stata costretta a confessare». Invece la signora Pesce nella sua lettera prospetta una tesi difensiva, peraltro ricorrente in quasi tutti coloro che decidono di ritrattare precedenti dichiarazioni, e cioè di avere formulato accuse false a causa dello stato di sofferenza e abbattimento provocato dalla detenzione e dalla lontananza dei figli; tesi difensiva che, in quanto tale deve essere, come pure ho detto, valutata dal giudice nelle competenti sedi processuali. Non vi è quindi alcun motivo di scegliere a priori «fra il comportamento di integerrimi magistrati e le accuse di una mafiosa» (a parte che una simile impostazione è assolutamente lontana dalla mia mentalità e credo che la mia storia professionale lo dimostri). Ciò premesso, è del tutto ovvio che gli imputati hanno diritto a difendersi con ogni mezzo previsto dalla legge e che il processo serve a verificare davanti a un giudice terzo le opposte tesi delle parti; queste sono su un piano di parità e non ha quindi senso dire che «la magistratura è comunque superiore agli imputati». Altrettanto ovvio è affermare che vanno rispettati i diritti di qualsiasi persona, anche se imputata dei delitti più gravi. Anzi, proprio in una intervista al dottor Sansonetti ho ribadito, pochi mesi fa, che il fine non giustifica i mezzi, neanche nella lotta alla mafia, e che anche in questo campo è necessario il più rigoroso rispetto delle regole. È quindi assurdo ipotizzare, come egli fa, spero solo per amore di polemica, «l`annientamento dei diritti della persona», i campi di Guantanamo, la Santa Inquisizione e la pena di morte. Così sgombrato il campo dagli equivoci relativi al caso specifico, va detto chiaramente che non è condivisibile la richiesta di rinunciare ai collaboratori di giustizia ne l`affermazione che «oggi le tecniche giudiziarie non esistono più, esistono solo pentiti e spiate telefoniche». Confesso di non sapere cosa siano le «tecniche giudiziarie»: forse dichiarazioni di testimoni che in terre di mafia sono un`assoluta eccezione o servizi di pedinamento della polizia giudiziaria che al massimo documentano incontri di cui non si conosce il contenuto? Sono abbastanza vecchio per ricordare il tempo in cui, in assenza di collaboratori di giustizia e intercettazioni telefoniche e ambientali, i processi di mafia si concludevano sistematicamente con l’assoluzione, magari per insufficienza di prove, di tutti gli imputati. Cosa ben diversa è, naturalmente, la prudenza e l`attenzione con cui devono essere utilizzati questi strumenti, con l'osservanza scrupolosa di tutte le garanzie, formali e sostanziali, previste dalla legge. Del resto, oggi non esiste che sulla sola parola di un collaboratore di giustizia «scatta una raffica di arresti», come sembra credere il dottor Sansonetti: le accuse devono essere attendibili e riscontrate secondo criteri ormai consolidati nella giurisprudenza. E proprio la Procura di Reggio Calabria ha ritenuto inattendibile più di un "aspirante collaboratore" e ha quindi evitato di utilizzarne le dichiarazioni. Un'ultima notazione sulla conclusione del dottor Sansonetti che descrive un sostituto che mette «a repentaglio la vita di una donna e dei suoi figli per ottenere una confessione, un indizio, una pista antimafia», e che «può farlo con ogni mezzo, con la costrizione, col ricatto». Spiace ancora una volta che egli usi a cuor leggero un termine, «ricatto», che neanche la signora Pesce usa, ma soprattutto siamo di fronte ad un incredibile capovolgimento della realtà: chi minaccia e mette a rischio la vita delle persone è la mafia. Proprio per questo la legge prevede per i collaboratori e per i (pochi) testimoni di giustizia il ricorso a speciali misure di protezione. Chi decide di collaborare lo fa liberamente, sapendo dei rischi che corre, dei benefici di cui può godere e delle misure di tutela di cui può usufruire. Altrettanto liberamente, e lo dimostra anche il caso della signora Pesce, chiunque può cessare la sua collaborazione, per le ragioni più diverse, alcune delle quali (violenza, minaccia, offerta di denaro) hanno - se provate - precise conseguenze processuali previste dal codice. L`esperienza di questi trent'anni dimostra che proprio queste sono le cause più frequenti delle ritrattazioni, ma è compito del processo accertarlo. Il dottor Sansonetti sembra credere che sia meglio rinunciare allo strumento dei collaboratori di giustizia per non correre il rischio che essi siano minacciati o, peggio, colpiti. È un'opinione rispettabile, che io non condivido; e comunque spetta al legislatore decidere. Deve però essere chiaro che rinunciare ad utilizzare, con ogni necessaria cautela, i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di comprendere che cosa sono veramente le grandi organizzazioni mafiose, di conoscerle dall`interno, di identificare e condannare i responsabili di gravissimi delitti, di accertare molte delle collusioni che fanno forti le mafie e che le rendono un pericolo mortale per la democrazia e la libertà nel nostro paese. Tutto questo avrebbe poi effetti ancor più devastanti nel contrasto alla `ndrangheta, in Calabria e nel resto d`Italia, dato che solo ora e dopo molti anni in cui questo veniva ritenuto impossibile, hanno iniziato a collaborare alcuni appartenenti a quella che tutti concordano nel definire oggi la più ricca, potente e pericolosa delle organizzazioni mafiose. E da ultimo, ma non per ultimo, la collaborazione con lo Stato può costituire, come insegnano tante esperienze positive del passato, una via per il riscatto sociale e per dimostrare che nelle famiglie di mafia il destino dei figli non è inevitabilmente quello dei padri. GIUSEPPE PIGNATONE, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA di REGGIO CALABRIA

L’articolo di Piero Sansonetti, apparso l’1 maggio 2011 su CalabriaOra con cui il direttore della testata ribatte al procuratore Pignatone, col titolo “Cari giudici siete un po’ reticenti.

TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA, di PieroSansonetti.

Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.

1 E’ vero o è falso che la signora Pesce, detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?

2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?

3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?

Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.

“All inside, il pm contro Calabria Ora” di Francesco Altomonte (Calabria Ora). Al Tribunale di Palmi si sta celebrando il processo contro la cosca Pesce di Rosarno. Il procedimento è conosciuto come “All inside”, frutto di una operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e i carabinieri. Nel corso della seconda giornata di requisitoria da parte del sostituto procuratore di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, il magistrato ha attaccato una parte della stampa locale, «anzi – ha precisato il magistrato – un giornale» reo di avere pubblicato la lettera con cui Giuseppina Pesce, dopo alcuni mesi che aveva iniziato la collaborazione con l’autorità giudiziaria, annunciava di volere lasciare il programma di protezione. Il ragionamento del magistrato parte da lontano, cioè dalla capacità della cosca Pesce di infiltrarsi nel mondo dell’economia e, nel caso particolare, anche in quello giudiziario. In alcune intercettazioni, secondo quanto riporta la Cerreti, sarebbe chiaro il tentativo della clan rosarnese, di “aggiustare” un processo in Cassazione per Salvatore Pesce, padre della collaboratrice Giuseppina Pesce, attraverso un avvocato che cura gli interessi di famiglia. Qui il magistrato riprende le dichiarazioni della Pesce in merito a alcune conversazioni che aveva sentito a casa del suocero, nella quali Gaetano Palaia si sarebbe vantato di avere contatti in Cassazione e per questo motivo suo padre e suo zio Giuseppe Ferraro le avevano chiesto di intercedere per trovare un aggancio al Palazzaccio. «La prova che Giuseppina Pesce abbia detto la verità sul potere di Gaetano Palaia», sottolinea la Cerreti, si sarebbe sostanziata nell’aprile 2011, vale a dire quando la collaboratrice di giustizia decide di uscire dal programma di protezione, cosa che poi avverrà solo per qualche mese, comunicandolo attraverso una lettera. Nell’udienza precedente, il magistrato aveva spiegato che il contenuto della missiva, nella quale in estrema sintesi accusava la procura di Reggio di averle estorto quelle dichiarazioni, era stato imposto dal suocero sia alla Pesce sia al legale che in quel momento la stava rappresentando. Ieri, però, la Cerreti è andata oltre, sostenendo che «il potere di Palaia» sarebbe stato quello di avere fatto pubblicare «su un giornaletto locale che vende 5mila copie al giorno la lettera». Il «giornaletto» (Calabria Ora, ndr) l’avrebbe pubblicata solo «per vendere qualche copia in più». Ma non è mica finita qui. Sì, perché il direttore del «giornaletto» (Piero Sansonetti, ndr), che mai prima di allora era apparso nelle tv nazionali (sic) e in un momento in cui la Calabria «si trova in un cono d’ombra dell’informazione nazionale, viene ospitato dal Tg1 di Minzolini che gli dedica una lunga intervista» attaccando la procura e chiedendo «addirittura l’intervento del Parlamento».

La malapianta mafiosa non si combatte con la censura. "E’ ormai sin troppo evidente che gli unici giornalisti “buoni” sono quelli che fungono pedissequamente da cassa di risonanza di questo o quel potere, che ossequiano acriticamente qualunque rappresentante del potere costituito, che non si pongono problemi di qualità e dignità del proprio lavoro e che allegramente si adagiano sul ruolo di passacarte o passa-dichiarazioni. Se ci fosse stato qualche dubbio in tal senso, nonostante le tante reprimende, dichiarazioni di fuoco, manifestazioni di irritazione che sono venute nel tempo soprattutto dal mondo della politica, è arrivato ora il passaggio della relazione della Direzione Nazionale Antimafia nel quale, con un linguaggio in verità un po’ curiale e vagamente assimilabile al politichese, si bacchettano quei giornalisti calabresi che “alimentano polemiche e dibattiti che, partendo da una legittima visione garantista del processo penale e dal doveroso ed irrinunciabile rispetto degli indagati e degli imputati, sposta il fuoco dell’attività giornalistica su polemiche, pro o contro i pubblici ministeri, pro o contro quell’imputato, che alla fine, ancora una volta, oggettivamente, fanno passare in secondo piano la vera origine dei drammatici problemi calabresi”. Un passaggio che ha spinto già autorevoli colleghi a parlare di tentativo di “sospendere la libertà di stampa in Calabria e forse persino la libertà di opinione” con l’invito all’ex Capo della Dna, Piero Grasso, oggi candidato del Pd ma regnante all’epoca della stesura della relazione, ad intervenire e fare chiarezza. Certo, è utile sapere se il passaggio contenuto nella relazione sia condiviso da Grasso oppure sia solo il frutto di una lettura distratta della relazione predisposta da altri. Così come è importante sapere se il Csm ed il suo capo, cioè il Presidente della Repubblica, condividano il passaggio stesso. Nell’attesa è appena il caso di ricordare che le polemiche tra pm e tra giudici non sono il frutto di esagerazioni o invenzioni giornalistiche ma un dato, questo sì oggettivo, rinveniente da dichiarazioni, posizioni o iniziative che il mondo giornalistico si limita a riferire, naturalmente sentendosi libero, fino a quando qualcuno non deciderà che la libertà di stampa in Italia non è più in vigore, di esprimere valutazioni o di fare commenti. Così come è il caso di ricordare che i giornalisti calabresi sono stati sempre in prima linea, naturalmente dalla propria postazione, che è diversa da quella di forze dell’ordine e magistrati, nel denunciare i fenomeni criminali che condizionano la vita civile nella nostra regione. Tanto che sono molti i giornalisti calabresi fatti oggetto di minacce ed intimidazioni anche gravi da parte di esponenti della ndrangheta. Contro queste intimidazioni i giornalisti calabresi intendono continuare a battersi con forza, unitamente a quanti, per la specificità del proprio lavoro, sono chiamati ad interdire quotidianamente l’invasività e l’aggressività della malapianta mafiosa. Malapianta che si combatte anche con il coraggio di esprimere sempre e liberamente le proprie idee, anche se questo non piace a qualcuno o a tanti. Giuseppe Soluri, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria; Carlo Parisi, Segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria".

In Calabria le storie si ripetono.

Parliamo di Maria Concetta Cacciola. L'ultima confessione di Maria Concetta Cacciola. Maria Concetta Cacciola, di Rosarno, la testimone di giustizia suicidatasi ingerendo acido muriatico il 22 agosto del 2011. Tre familiari della testimone sono stati arrestati a Reggio Calabria, 9 febbraio 2012, per maltrattamenti in famiglia e violenza o minaccia per costringerla aritrattare le dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria nel corso dell'operazione Califfo contro la cosca Pesce. Contestualmente sono stati eseguiti anche 11 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda di Reggio Calabria per associazione mafiosa, scrive Raffaella Fanelli su “Panorama”. "Ho detto quelle cose per andarmene da casa, ero arrabbiata… mi sentivo confusa … ho detto cose false contro mio padre e mio fratello. Volevo vendicarmi di loro…  fargliela pagare”. Una registrazione di 11 minuti che Panorama.it pubblica in esclusiva. La voce è quella di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia che si sarebbe suicidata bevendo acido muriatico il 20 agosto 2011 a Rosarno. Aveva raccontato alla Dda di Reggio Calabria le attività criminali della sua famiglia. Pochi giorni fa i carabinieri di Gioia Tauro hanno arrestato i genitori e il fratello della 31enne, con l’accusa di aver esercitato violenze, minacce e forti pressioni psicologiche per farla ritrattare, compresa la prospettiva di non farle più vedere i suoi tre figli. In manette sono finiti Michele e Giuseppe Cacciola, padre e fratello della donna, e la madre Anna Rosalba Lazzaro. Maria Concetta una settimana prima di suicidarsi, registrò l’audio che pubblichiamo, lo stesso consegnato in procura per ritrattare le sue dichiarazioni. Da quest’audio sono partite le indagini per istigazione al suicidio. Una registrazione che si interrompe. Accanto a Maria Concetta c’è qualcuno. Qualcuno che spegne il registratore, che suggerisce alla giovane cosa dire. “E’ da tre giorni che sono a casa mia, tra mio padre, mia madre e i miei fratelli. E i miei figli. Qui ho ritrovato la serenità che cercavo”. Una serenità che l’avrebbe portata ad ingerire acido muriatico. La testimone di giustizia era figlia del cognato del boss Gregorio Bellocco, uno dei capi di spicco dell’omonima cosca che insieme alla potente ‘ndrina dei Pesce gestisce il traffico di armi e stupefacenti, e non solo in Calabria.  Cosche potenti unite da stretti legami, anche familiari. Maria Concetta era cugina di Giuseppina Pesce, l’ex pentita dell’altra cosca storica della ‘ndrangheta di Rosarno che con le sue dichiarazioni ha mandato in carcere anche la madre e la sorella, oltre a due carabinieri e a un agente di polizia penitenziaria sul libro paga della cosca Pesce. Salvatore Figliuzzi, il marito di Maria Concetta Cacciola è attualmente detenuto per scontare una condanna a otto anni di reclusione per associazione mafiosa. Nella registrazione, la donna afferma di aver incontrato due magistrati. “Mi hanno portata a Cosenza, poi a Bolzano – ha detto ancora al registratore la donna – facendo pressione su delle cose, delle famiglie. Io ero presa di rabbia e mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perché volevo fargliela pagare”. Quindi Maria Concetta Cacciola avrebbe “messo in tutto” il padre e il fratello per vendicarsi. Eppure due giorni prima di togliersi la vita Maria Concetta cercò di riprendere i contatti con i carabinieri. Oltre ai familiari di Maria Concetta, sono indagati anche due avvocati, Vittorio Pisano e Gregorio Cacciola; i magistrati della Procura di Palmi che coordinano le indagini, infatti, intendono accertare la regolarità del comportamento tenuto dai due legali nella vicenda della ritrattazione della donna.

Palmi, moglie del mafioso bevve l'acido. I giudici: "Indagare su finto omicidio". La donna è morta nell'agosto del 2011: la Corte d'Assise ha assolto i familiari dall'accusa di induzione al suicidio, ma ha trasmesso gli atti alla Procura per verifica che non le sia stata fatto assumere la sostanza. In una registrazione destinata alla madre aveva detto: "So che non ti vedrò mai, perché questo è l'onore della famiglia: avete perso una figlia", scrive Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano”. Colpo di scena al tribunale di Palmi dove si è concluso il processo contro i genitori e il fratello della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto 2011 dopo avere ingerito acido muriatico. La Corte d’Assise di Palmi ha condannato i familiari della donna non per induzione al suicidio, ma solo per maltrattamenti, reato “aggravato per avere agito con metodo mafioso e al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, e in particolare la cosca Bellocco-Cacciola”. È proprio questo il punto: il presidente Silvia Capone e i giudici popolari davanti ai quali si è celebrato il processo non pensano si sia trattato di suicidio ma di omicidio commesso dalle cosche. La Corte d’Assise ha, quindi, trasmesso gli atti alla Procura di Palmi per verificare se alla testimone di giustizia sia stato fatto bere l’acido che l’ha uccisa e se poi sia stato inscenato un finto suicidio. Secondo i magistrati gli imputati avrebbero “impiegato un mezzo venefico e agito con premeditazione”. La svolta è arrivata dopo la relazione del consulente medico-legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Maria Concetta Cacciola. Quest’ultima, prima di morire, aveva abbandonato il programma di protezione ed era rientrata a Rosarno. Costretta a ritrattare le precedenti dichiarazioni e affidarle a una registrazione, la donna cresciuta in una famiglia di ‘ndrangheta ha pagato con la vita l’essersi rivolta ai carabinieri. “Perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore, che ha la famiglia. Per questo avete perso una figlia. Addio, ti vorrò sempre bene”. Sono le parole attraverso le quali la Cacciola aveva spiegato alla madre, Anna Rosalba Lazzaro, la sua scelta di collaborare con lo Stato, di diventare infame. Una scelta che non poteva essere accettata da chi respira l’aria di ‘ndrangheta da sempre. Proprio alla madre, ora condannata a 2 anni di carcere, aveva affidato i figli raccomandandole di dar loro una “vita migliore” di quella che la sua famiglia, legata alla cosca Pesce-Bellocco, le aveva riservato: “A 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo e tu lo sai”. Frasi che fanno comprendere le pressioni e le vessazioni subite negli anni dalla testimone. Voleva portare con sé i figli, ma il padre e il fratello non gliel’hanno consentito. Il primo, Michele Cacciola (cognato del boss Gregorio Bellocco), è stato condannato a 6 anni di carcere, mentre a Giuseppe Cacciola, fratello di Maria Concetta, sono stati inflitti 5 anni e 4 mesi. Dopo essersi nascosta a Cosenza, a Bolzano e a Genova, la testimone voleva riabbracciarli. In fondo, per loro, aveva saltato il fosso. E sempre per loro voleva ritornare indietro. Con un marito in carcere a scontare una condanna a 8 anni per associazione mafiosa, sarebbe stato normale che i tre figli seguissero la madre. Era lei che, in quel momento, esercitava la patria potestà su di loro che non sarebbero dovuti rimanere in quell’ambiente dal quale la donna stava scappando.

Donne e libertà: il prezzo è la morte, scrive Laura Aprati su “Malitalia”. Domani si celebrano a Milano i funerali di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia uccisa, la notte tra il 24 e 25 novembre 2009, dall’ex compagno Carlo Cosco, padre di sua figlia Denise. Lea ha pagato con la vita la sua volontà di ribellarsi alla “famiglia”, al concetto di onore, omertà, connivenza che da sempre le era ruotato intorno. Ma proprio in questi giorni è stata depositata la sentenza relativa al processo per la morte di un’altra giovane donna calabrese che voleva ribellarsi alla sua famiglia. Maria Concetta Cacciola morta il 21 agosto 2011 per aver ingerito acido muriatico. A processo sono andati la madre, Anna Rosalba Lazzaro, il padre Michele ed il fratello Giuseppe. Già nell’ordinanza di custodia cautelare si leggeva “ Se le pagine del processo che saranno a breve esaminate non fotografassero una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere l’appassionante scenografia di un film, nella quale una giovane donna di soli 31 anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non le appartiene, decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di togliersi la vita, ingerendo acido muriatico, nella disperata illusione di poter riacquistare la tanta sognata libertà.” Una sceneggiatura che ha trovato purtroppo riscontro nei dati del processo che ha portato alla condanna dei familiari di Maria Concetta. Dalla sentenza si legge e si fotografa, in un bianco e nero indelebile, quale è il ruolo della madre. Una madre che a chi, non in fase dibattimentale ma in un colloquio, le fece notare che la figlia, morta, era molto giovane e che aveva avuto il primo figlio a 15 anni, rispose “E che c’è di strano anche io l’ho avuta a 15 anni!”. Come se,visto che era successo a lei perché no alla figlia. Una figlia che prima di morire le scrive e la implora “…..me la prendevo con la persona che volevo più bene.. eri tu e per questo ti affido i miei figli dove non c’è l’ho fatta io so che puoi inc… ma di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio… a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… Dagli quello che non hai dato a me”. Una madre che viene descritta nelle motivazioni della sentenza così”….come la LAZZARO accompagnasse costantemente Maria Concetta le rare volte in cui quest’ultima usciva di casa curandosi di non lasciarla mai da sola. E tale condotta non può che essere sintomo della consapevolezza con cui l’imputata aveva accettato ed eseguito l’incarico di controllare i movimenti della figlia, che le era stato evidentemente affidato dagli uomini della sua famiglia. La vera e propria adesione della LAZZARO a tale modello comportamentale emerge poi in maniera evidentissima dalle intercettazioni telefoniche e ambientali; prima tra tutte quella del 2 agosto – già citata – in cui Michele CACCIOLA intima alla moglie di seguire la figlia fino al bagno per assicurarsi che non mandasse messaggi (Michele: “Entra con lei dentro che non mandi qualche messaggio” Voce Femminile: “Ah?” Michele: “Che non mandi qualche messaggio”)”. Gli uomini inseguono l’onore e le donne fanno si che lo mantengano, lo fanno anche “imponendo” la morte alla propria figlia. E a questo partecipano, parenti, amici, avvocati, medici. Tutti pronti a costruire una verità “alternativa” che confuti le parole di Maria Concetta che era diventata un vero problema per la “famiglia”. Il 18 agosto 2011 Maria Concetta (in una intercettazione ambientale)dice alla mamma “Io me ne vado mamma!”Si legge in sentenza “È dunque verosimile che la decisione di eliminarla fosse maturata proprio in quell’ultimo periodo, quando il rischio che scappasse di nuovo aveva reso impellente la necessità di rendere “irrevocabile” la ritrattazione delle sue accuse”…..La sentenza è chiara e netta “…..va osservato come le modalità particolarmente allarmanti della condotta, il dilatatissimo arco temporale in cui la stessa è stata posta in essere e l’intensità del dolo da cui è risultata connotata, non consentono di concedere a nessuno degli imputati le circostanze attenuanti generiche. E inoltre “Se la causa di morte stricto sensu intesa è innegabilmente quella cristallizzata nel capo di imputazione (più precisamente l’asfissia determinata dall’assunzione di una sostanza altamente tossica a corrosiva), gli esiti dell’istruttoria dibattimentale svolta – a giudizio della Corte – impongono di concludere che la donna non si sia inflitta autonomamente tale atroce morte ma che sia stata, al contrario, assassinata”. E per la madre, Anna Rosalba Lazzaro la condanna è a due anni ma pur essendo incensurata non le viene concessa la sospensione condizionale della pena “ non essendo favorevole la prognosi in ordine al fatto che ella si asterrà in futuro dal commettere altri reati…” Alla fine delle 264 pagine della sentenza si legge “Ordina la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica D.D.A. presso il Tribunale di Reggio Calabria per quanto di competenza nei confronti di tutti gli imputati in ordine agli ulteriori reati di cui agli artt.110, 369, 372, 378, c.p., tutti aggravati dall’art.7 del D.L.152 del 13-05-1991 per avere agito con metodo mafioso ed al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, ed in particolare la cosca BELLOCCO-CACCIOLA.” Un bravo sceneggiatore, o un grande giallista, forse ad un certo punto del libro avrebbe trovato il modo per “redimere” i suoi personaggi. La realtà, in questo caso, è andata oltre e per Maria Concetta i carnefici sono stati i suoi genitori. Ma la fine di questa storia non è ancora stata scritta.

Maria Concetta Cacciola uccisa per non farla parlare. Arrestati i genitori. Le accuse della Dda che hanno portato all'arresto dei familiari della donna, collaboratrice di giustizia e madre di tre figli, e di due avvocati. Per i pm fu costretta a bere acido muriatico simulando poi un suicidio, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Voleva svelare i segreti dei clan della 'ndrangheta della piana di Gioia Tauro. Ma, per impedirle di collaborare con la giustizia, sarebbe stata uccisa dai genitori e dal fratello. L'omicidio sarebbe stato camuffato con un suicidio. Alla vittima, Maria Concetta Cacciola, madre di tre bambini, il 20 agosto 2011 sarebbe stato fatto bere dai familiari acido muriatico per simulare il suicidio e tapparle definitivamente la bocca. Su questo omicidio hanno indagato a lungo i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, coordinati dai pm della procura antimafia. Adesso, dopo lunghi accertamenti e intercettazioni ambientali, è emerso un quadro sconcertante. I giudici hanno stabilito che per impedire la collaborazione con la giustizia di Maria Concetta Cacciola si era mossa una squadra criminale. Uomini al servizio dei clan della 'ndrangheta che avevano l'obiettivo di impedire che la donna continuasse a parlare ai magistrati svelando i segreti dei boss. I capimafia temevano soprattutto la possibile emulazione di altre donne, segregate e costrette a vivere in famiglie mafiose, che avrebbero potuto seguire la strada tracciata da Maria Concetta Cacciola. L'inchiesta, coordinata dai pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò, e da Giulia Masci, della procura di Palmi, è stata lunga e travagliata. Ma si è arricchita di tanti particolari e prove sostanziose che delineano un quadro in cui il gruppo familiare avrebbe deciso di eliminare una figlia pur di salvare i mafiosi che dominano sul territorio. Così i carabinieri hanno arrestato cinque persone, il padre, la madre e il fratello della vittima, e poi due avvocati penalisti molto noti nella piana di Gioia Tauro: Gregorio Cacciola e Vittorio Pisani. Per i familiari l'accusa è di concorso in violenza privata, concorso in violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, concorso in favoreggiamento personale, tutti aggravati dall’aver favorito la 'ndrangheta. Per gli avvocati le accuse sono pesanti: avrebbero indotto la donna a ritrattare le dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati. Nelle intercettazioni eseguite emerge come l'avvocato Pisani ogni volta che parlava con i propri clienti, accusati di mafia, controllasse bene l'ambiente in cui si trovavano, per verificare se fossero state collocate microspie da parte delle forze dell'ordine, poiché sospettava di essere intercettato. Dalle registrazioni fatte, invece, grazie ai microfoni piazzati dai carabinieri nello studio legale dell'avvocato Gregorio Cacciola, emerge una sconcertante contiguità del professionista con gli ambienti della criminalità organizzata di Rosarno, nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Da alcuni dialoghi captati all’interno dello studio legale, i magistrati hanno dedotto che l'avvocato Cacciola aveva definitivamente saltato il fosso, fungendo stabilmente da “consigliori” dell’attività di diversi soggetti appartenenti o contigui alla 'ndrangheta, dispensando consigli e direttive che nulla hanno a che fare con un mandato difensivo lecito, neanche di un professionista che opera in un contesto difficile come quello rosarnese. Il legale, ad esempio, avrebbe consigliato ad un indagato di darsi alla latitanza, invitato il padre di un detenuto a non parlare durante i colloqui perché potrebbero esserci microspie, si è dichiarato disponibile a portare messaggi ai detenuti, utilizzando affermazioni proprie dei mafiosi. Quando si riferisce alle forze dell’ordine us con disprezzo il termine “sbirri”, riceve e riferisce confidenze su fatti gravissimi, come omicidi, avvenuti nel mandamento tirrenico e su dinamiche interne alla ‘ndrangheta. Maria Concetta Cacciola sognava la libertà. Per questo era destinata a morire.

Una donna che non si è piegata al volere della famiglia, del marito e della 'ndrangheta. Così scriveva all'uomo con cui voleva fuggire: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io, per loro, li ho traditi entrambi», scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. «Mio papà ha due cuori: la figlia o l’onore?... In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto». È il 6 agosto 2011 e Maria Concetta Cacciola sta parlando al telefono con l’amica Emanuela. Si trova a Genova, in località segreta, e da qualche settimana sta collaborando con la giustizia. A casa, a Rosarno, ha lasciato tre figli, che le mancano terribilmente. Ma sa che se tornasse da loro rischierebbe la vita, perché ha infranto il codice dell’onore. Che per il padre ha la stessa sacralità della vita di sua figlia. Maria Concetta ha poco più di trent’anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di ’ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. È stato più volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera. Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha tredici anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l’immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l’ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia. Salvatore in effetti non è propriamente un marito amorevole e premuroso. Un giorno, durante una lite scoppiata per una sciocchezza, mette a tacere la moglie puntandole contro una pistola. Lei, spaventata a morte, cerca di trovare rifugio a casa dei genitori, lontana da quel mostro. Una volta al sicuro, racconta l’accaduto al padre sperando che rimproveri Salvatore. Ma la reazione di Michele Cacciola è di tutt’altro tenore: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita», sentenzia gelido. A quest’uomo non interessa che la figlia stia male, che debba subire i soprusi di un marito violento. Per Michele Cacciola non è sul piano dei sentimenti che si affrontano questioni come queste. In quanto donna sposata, lei è tenuta a piegarsi alla volontà del suo uomo, che le piaccia o no. Nella Piana, una moglie deve conformarsi alle regole che rendono rispettabili agli occhi del mondo, e lui intende continuare a camminare per il paese a testa alta e non tollererà infrazioni da parte della figlia. Maria Concetta obbedisce e si rassegna. Non è felice, né tantomeno libera. Ma tira avanti sorretta dall'amore profondo per i suoi tre bambini. Coronato il suo sogno di entrare in una famiglia di ’ndrangheta, Salvatore Figliuzzi è presto tenuto ad affrontare il suo primo esame da vero mafioso: il carcere. Nel 2005 è condannato a otto anni di reclusione nel processo «Bosco Selvaggio», che spedisce in prigione Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan. Vegliare su Maria Concetta, sola e quindi esposta a pericolose tentazioni, spetta adesso ai maschi della sua famiglia. Che eseguono il compito con rigore ammirevole. Nelle lettere che scrive al marito detenuto, la giovane donna si lamenta dell’isolamento in cui è costretta a passare le sue giornate. Dice di non farcela più a crescere i figli da sola, di aver voglia di morire e di provare rabbia verso la vita, che non le riserva alcuna gioia. «Esco la mattina per andare a portare i figli a scuola... Non posso avere contatto con nessuno, a cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatto con nessuno?» si sfoga con il marito nel novembre 2007. Nella stessa lettera, racconta a Salvatore di essere uscita proprio quella mattina per portare una medicina a un’amica. Non certo da sola, con lei c’era il figlio Alfonso, ma questo non è bastato a impedire che il padre al rientro la rimproverasse severamente. È esasperata e scrive: «Come posso campare così se non posso nemmeno respirare... dimmi tu cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo, gli piace di vedermi disperata dalla mattina alla sera». Per anni le cose vanno avanti nella solita monotonia paesana e con la morte nel cuore. La villetta in cui questa giovane madre vive coi figli è una cella confortevole ma soffocante. I genitori abitano al piano di sotto, la aiutano coi bambini, non le fanno mancare niente. Ma non le concedono il minimo spazio di libertà, punendola ogni volta che pensano abbia infranto le regole. È un’esistenza d’inferno, ma un giorno succede qualcosa che le restituisce la voglia di vivere. Maria Concetta, grazie a Facebook, conosce un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Si innamora di lui. Per un paio di anni la famiglia Cacciola non sospetta nulla. Poi, nel giugno 2010, cominciano a piovere in casa lettere anonime che denunciano ai genitori la relazione clandestina di Maria Concetta, fino a quel momento solo platonica. A niente sono dunque serviti i controlli e le porte sbarrate: la figlia è riuscita comunque a coprirli di disonore e presto in paese lo sapranno tutti. Il padre e il fratello sono furiosi. Chiedono a Maria Concetta se questa storia sia vera e lei, con coraggio, non solo non nega ma dice di avere intenzione di lasciare il marito. Davvero troppo, per i due uomini, che la massacrano di botte. Le si avventano addosso con tanta violenza da fracassarle una costola. Di andare in ospedale non si parla nemmeno, perché dopo quello che ha fatto, di lei non c’è più da fidarsi. Così viene chiamato un medico amico, zio di Michele Bellocco e già condannato qualche anno prima per aver favorito un membro della cosca Pesce. Uno dei tanti professionisti che in Calabria, con certificazioni o visite a domicilio ad hoc, aiutano boss e latitanti a restare lontani dal carcere. Con discrezione e riserbo, questo compiacente dottore cura la donna per tre mesi, senza nemmeno prescriverle una radiografia. Le ferite guariscono, ma la morsa dei controlli, per lei, si fa ancora più stretta di prima. Il fratello e alcuni cugini la pedinano ossessivamente ogni volta che si muove per le vie di Rosarno. La cognata le raccomanda di non fare conversazioni compromettenti al telefono, quando è in casa, perché Giuseppe ha piazzato qualche strano marchingegno per spiarla. Maria Concetta è allo stremo della sopportazione, non può più in alcun modo disporre di sé, della sua vita. È una prigioniera senza speranza. Ma non è solo l’assenza di prospettive a preoccuparla. Maria Concetta conosce la legge del clan e sa che in gioco c’è la sua vita. Ha tradito il marito e ha disonorato la famiglia: da un momento all’altro potrebbe succederle qualcosa di terribile. È in questo stato emotivo che si presenta in caserma l’11 maggio 2011. Hanno rubato il motorino al figlio più grande e lei è convocata per le solite questioni burocratiche. Quando si trova davanti al maresciallo che si sta occupando della pratica, Maria Concetta, d’impulso, gli rivolge una disperata richiesta di aiuto. Agitata, intimorita e continuamente interrotta dalle telefonate della madre, che vuole sapere dov’è, racconta in breve la sua storia: il marito in carcere, le lettere anonime, la segregazione e i pedinamenti. Parla in fretta e dice di non potersi trattenere a lungo perché ha paura del padre: «Se la mia famiglia viene a sapere che oggi sono qua a raccontare queste cose mi ammazza», spiega prima di uscire dalla stazione dei carabinieri. Quattro giorni più tardi la donna viene di nuovo convocata in caserma. I fatti che ha raccontato rivelano retroscena assai interessanti sulla vita del clan e gli investigatori vogliono riascoltarla per farsi un’idea più precisa della situazione. Lei ammette di avere una relazione extraconiugale e confessa di avere molta paura che il fratello la uccida per il suo tradimento. «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire», ripete più volte ai militari dell’Arma che la stanno ascoltando. Se il padre Michele in qualche modo può essere placato dall’intercessione della madre, Giuseppe invece è molto «testardo», perché è «cresciuto frequentando persone più grandi di lui sin da giovane» e si è conquistato così il «rispetto» della gente. "Rispetto" che adesso rischia di perdere per colpa sua. Per l’onta che potrebbe lasciare il tradimento, semmai venisse alla luce. Se ancora non l’ha uccisa è solo perché sta cercando delle prove. Quando le avrà trovate ammazzerà lei e il suo amante. Per questo l’angoscia non l’abbandona mai e ogni volta che il fratello si presenta in casa lei trema. Perché «prima o poi mio fratello mi viene a dire: “Vieni con me” e a quel punto sono sicura che mi farebbe sparire». Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord. Più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all’ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri. E' disposta a farlo in cambio di protezione. Ha fatto la sua scelta e deve solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa. Finalmente nel suo orizzonte asfittico si apre uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. Questa volta non si tratta di un’illusione: Giusy Pesce, sua cugina, ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita non solo a salvare la pelle, ma anche a crearsi un’esistenza nuova accanto all’uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso, in fondo, è così. C’è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé. Così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre. «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto», le scrive nella lettera di addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l’ho fatta io so che puoi [...] ma di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po’ di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me... dagli i suoi spazi... se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto.» Per i suoi figli Maria Concetta vuole un destino diverso dal suo: «In fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi... era la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore». È con una pena bruciante che dovrà convivere ogni singolo giorno della sua nuova vita da donna libera, e lo sa bene: «La cosa più bella sono i miei figli» scrive «che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore, che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti perché non lo farai capire ai miei figli, datti forza per loro, non darglieli a suo padre, non è degno di loro. [...] Io vivrò finché Dio mi lascia ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa [...] Mamma perdonami, ti prego ti chiedo perdono di tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace, non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco a parlare più, so solo io quello e come la sto scrivendo ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto, so che non ti abbraccerò né ti vedrò ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene... mamma abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me, non lasciarli a loro, non sono degni di loro, di nessuno. Mamma Addio e Perdonami, Perdonami se puoi». Nel flusso di parole pesanti di emozione trova spazio, prima dell’ultimo addio, un risentito rimprovero per chi in fondo l’ha messa nelle condizioni di fare quello che sta facendo: «So che non ti vedrò Mai perché questa sarà la volontà dell’Onore, che ha la famiglia, per questo che avete perso una figlia». È per colpa dell’onore che lei è costretta a fuggire, è perché loro, il padre, il fratello e in fondo anche la madre, hanno sempre anteposto il codice a lei, alle sue esigenze, alla sua felicità. E ora che se ne sta andando trova il coraggio di rinfacciarglielo. La notte tra il 29 e il 30 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola viene prelevata di nascosto dai carabinieri del Ros e trasferita in un agriturismo a Cassano sullo Ionio. Assapora le prime settimane di vera indipendenza della sua vita. Chi la conosce in questa fase – il gestore della struttura, un cliente e una cameriera che saranno più tardi interrogati dagli inquirenti – la descrive come una ragazza solare, aperta, sempre di buon umore. Dentro, il dolore per i suoi figli è vivo, ma la leggerezza della libertà è inebriante per questa donna che non l’ha mai davvero sperimentata. Il 22 giugno Maria Concetta viene trasferita a Bolzano, da dove cinque giorni più tardi, per motivi di sicurezza, è condotta a Genova. Da un mese è lontana da casa, non ha più avuto contatti con nessuno dei suoi familiari, come prescrive il regime di protezione, e in lei si insinua la nostalgia della madre e dei figli. La voglia di sentirli è tanta, forse più di quella che pensava di dover affrontare. Si accorge di non essere abbastanza preparata. Così il 2 agosto, d’impulso, chiama la madre, le rivela dove si trova e le dice di volerla incontrare. Anna Rosalba Lazzaro e il marito non aspettano altro, si mettono subito in viaggio e la raggiungono a Genova. Da qui ripartono la sera stessa per tornare a Rosarno, portandosi dietro la figlia. Un attimo di debolezza? Un ripensamento improvviso? L’amore materno che ha avuto la meglio? Forse è l’insieme di tutte queste cose a indurre Maria Concetta a salire in auto con i genitori. Durante il viaggio capisce di aver fatto un errore. Il padre, come rivelano agli inquirenti i microfoni nascosti nell’auto, cerca come prima cosa di capire quanto compromettenti siano le dichiarazioni rilasciate dalla figlia ai pm, e quando lei ammette di aver parlato addirittura di un omicidio, lui e la moglie esplodono: «Hai fatto... omicidio?... ah disg...» inveisce la madre maledicendola. Maria Concetta evidentemente sa più di quanto pensassero. Vivendo in famiglia, per quanto non abbia alcun ruolo nelle attività criminali, ha assorbito informazioni preziose, ha ascoltato «discorsi di malavita che a lei non piacevano», come rivela all’amante all’inizio del loro rapporto, confessandogli di appartenere a una potente famiglia di ’ndrangheta. Sfogata l’ira, i coniugi Cacciola cambiano registro, sforzandosi di apparire concilianti. «Cetta» le dice il padre rassicurante, «ti giuro a papà che nel giro di dieci giorni a Rosarno non si parlerà più di noi, stai sicura e tranquilla.» E ancora: «A noi può darci il torto, non a te, a noi... tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia». Dentro di lui cova la rabbia, ma la gioia per aver riconquistato la figlia sembra più forte, e pare anche sincera. «Me la prendevo con te [...] per il fatto dello sgarro, perché lo sgarro non me lo meritavo» le dice. «Io sono sicuro al cento per cento, lo sa tuo fratello, lo sanno tutti, lo sa tutto Rosarno, loro le cose me le fanno di altre cose, io voglio che mia figlia ritorni a casa, non la voglio [...] ricordati che gente siamo, ricordatelo, ricordati che non c’è nessuno [...] e se io debbo fare sacrifici per [...] io vado [...] hai capito? Perché tu sei sangue mio, e se io debbo passare problemi, e io li passo e non mi interessa. [...] Che ho passato lo so solo io, però non mi interessa niente, io lo so di essere stato disonorato.» A poco a poco, dietro tutte queste manifestazioni di amore paterno, comincia a intravedersi un intento preciso: tenersi buona la figlia affinché, una volta a casa, si rimangi tutto quello che ha raccontato ai pm. È questo che preme a Michele Cacciola, sopra ogni altra cosa. Maria Concetta, chilometro dopo chilometro, si rende conto sempre di più di essere in trappola. Arrivati a Reggio Emilia, dove lei e i genitori vengono ospitati per la notte da una cugina di Anna Rosalba, chiama gli uomini del servizio di protezione, dice loro dov’è e chiede che la vengano a riprendere. Il mattino seguente i coniugi Cacciola sono costretti a ripartire per Rosarno senza la figlia, ma nelle ore trascorse con lei hanno potuto saggiarne la vulnerabilità: se ha ceduto una volta, è probabile che lo faccia di nuovo, basta solo essere compatti e mettere in atto una strategia efficace. Così, quando il figlio Giuseppe li chiama, mentre ancora stanno viaggiando, Michele lo esorta a recarsi subito dall’avvocato e a stare tranquillo, perché «a lei la teniamo noi [...] al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta». Il padre ha chiaro il percorso, occorre soltanto indirizzarci la figlia, che lui, nonostante la fuga recente, sente di avere in pugno. Ma bisogna cominciare a muoversi da subito, prima che diventi troppo tardi. Quando Maria Concetta, in serata, chiama la madre da Genova, il piano scatta. Giocando subdolamente con i suoi sentimenti, Anna Rosalba Lazzaro comincia a tesserle intorno una tela vischiosa di promesse e rassicurazioni. Vuole che torni, magari potrebbero andare a vivere insieme, tutto si aggiusterà, basta solo che lei lasci perdere tutto e ritratti. «Cetta, vedi che me ne vengo anch’io con te... me ne vengo anch’io con te... ha detto papà che ci intestiamo una casa e me ne vengo anch’io con te [...] tu vieni con me... eh, Cetta lasciala stare... lascia stare tutte cose» le dice. «O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, Cetta... che tu non sapevi niente... come non esiste.» Ogni volta che si sentono al telefono la madre la incalza, non le dà tregua, vuole sfibrare la sua resistenza: «Cetta tornatene, tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente... va bene?». L’unica cosa che deve fare Maria Concetta è chiamare l’avvocato, che è già stato preavvisato ed è addirittura disposto a recarsi a Genova per portarsela via: «Viene a prenderti e ti porta dove vuoi tu» le spiega la madre, «dalla zia Giovanna o dalla zia Angela, che ti mando i figli pure». Anna Rosalba sa quanto a Maria Concetta manchino i figli, sa che l’amore materno è in quel momento il suo punto debole, ed è proprio lì che colpisce. «I figli vengono lì con te, non vuoi venire qua? Vai dalla zia Angela, dalla zia Santina, dove vuoi tu.» Insiste ed è tenace, Anna Rosalba, non molla la preda, la sfianca, e quando la figlia sbuffa perché si sente troppo pressata, lei replica asciutta: «Non sei spronata, Cetta, ti stanno spronando loro, non sei spronata, tu devi scegliere: o noi o loro». Maria Concetta è indecisa, si sente fragile, confusa. In quei giorni si sfoga con l’uomo che ama, a cui sa che le toccherebbe rinunciare nel caso tornasse a Rosarno: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io gli ho toccato tutte 2 di queste» gli scrive in un sms il 5 agosto. Il giorno dopo Maria Concetta chiama Emanuela, la sua amica del cuore. Le parole intercettate dagli inquirenti ricostruiscono il ritratto di una donna lucidamente consapevole del destino che la attende a Rosarno, ma incapace di fondare su questa certezza una scelta definitiva. Ammette di avere molta paura di tornare, non tanto per il padre, che per quanto arrabbiato dice di averla perdonata, ma per Giuseppe, che anche Emanuela ritiene molto più pericoloso: «Può anche darsi, Cetta, che tuo padre ha capito tante cose, che tuo padre ha capito tante cose, tanti sbagli che tu davvero hai fatto perché tuo fratello era davvero accanito. Lui era un malato mentale [...] in questo modo, che tuo padre sta soffrendo per te, stai tranquilla che tuo padre a tuo fratello non lo farà avvicinare a te nemmeno con un dito». Giuseppe, d’altra parte, non è certo disposto a tornare in galera, e questa volta per omicidio: «Secondo il mio parere» cerca di rassicurarla l’amica, «non ti fa niente... perché poi lo deve mettere in conto anche lui». «E poi se dovesse succederti qualcosa, chi paga?». Ma l’eventualità che Maria Concetta potesse essere uccisa, qualcuno l’aveva messa in conto davvero a Rosarno. Emanuela le confida infatti che il giorno in cui lei è sparita, la madre si è vestita di nero in segno di lutto e ha cominciato a piangerla come morta. Gli altri «invece di consolarla le dicevano di rassegnarsi, questa era la parola di tutti». «Me lo ha detto, mia mamma, che tutti le dicevano di rassegnarsi, che non è la prima né l’ultima, gli sembrava che me ne fossi andata con qualcuno», replica Maria Concetta. Ma l’amica precisa: «No, o che sei andata con qualcuno o che sei morta». «Ti giuro» le dice, «perché facevano esempi di certe persone che da trent’anni, da quaranta anni non c’erano più nemmeno nella faccia della terra, hai capito? Pensavo io. Pensavo io e gli dicevo a tua mamma: “Ma tu ti rendi conto di quello che ti stanno dicendo? Non possono paragonarti a te con queste persone”». Sono passati decenni ma il codice non è cambiato. Le donne che infangano l’onore è molto probabile che spariscano, quindi non è assurdo che Anna Rosalba si vesta a lutto e pianga la figlia. Maria Concetta però non è morta, è viva, e sta pure raccontando ai magistrati cose che non andrebbero raccontate. Non solo. Gli uomini della sua famiglia sono riusciti a recuperare i tabulati delle sue telefonate all’amante. Hanno scoperto chi è, e sono pure andati a fargli una visita a casa. Glielo ha rivelato la madre e lei, in quel momento, non ha potuto più continuare a negare. «Mia madre mi ha detto che ci sono i tabulati con quella persona [...] mi ha detto: “Vedi che loro sanno tutto”. Quando ti dicono vedi che loro sanno tutto tu cosa fai?». «Mia madre quel giorno mi ha detto: “O figlia, vedi che hanno tutti i tabulati... che hanno i tabulati di quando tu parlavi con una persona”. Ed io quindi a mia mamma in quel momento gli ho detto la verità». «Gli ho detto io... gli ho raccontato le cose come stanno... quando gli ho detto in quel modo si è messa a piangere e mi ha detto: “Figlia, tu devi sapere... io ti aiuto”». Maria Concetta ora sa che la sua condanna è stata emessa. Il padre e il fratello hanno in mano le prove del suo tradimento e se lei tornasse la ucciderebbero perché «l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco della fiamma» dice a Emanuela. Anche la madre sa che la figlia rischia la vita se rimette piede in paese, ma questa certezza non la distoglie dalla sua azione di logoramento, che continua a svolgere con più tenacia che mai. Maria Concetta deve uscire dal programma di protezione e rientrare all’ovile, è indispensabile. Perché la priorità, in questo momento, per lei e per il marito non è proteggerla, bensì costringerla a ritrattare. E Maria Concetta lo sa: «Ti dico la verità, che se torno loro sanno perché devo tornare!» spiega amara all’amica. «Loro mi fanno tornare apposta così loro dicono: “Mi cacci stì cose che c’erunu” [ritratti quello che hai detto] hai capito?». E ancora: «Dentro di me un po’ ho paura... anche se lei mi dice di ritornare per lei sono figlia, lo so, però gli uomini sappiamo come sono fatti, specialmente gli uomini lì da me no! Dicono: “Scendi. Così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto”. Hai capito?». Maria Concetta non si fa illusioni su quello che l’attende a Rosarno. Ma è lì che ci sono i suoi figli, e i genitori se li tengono ben stretti. «Io non so, Manuela... io non ho l’idea... io vorrei tornare a casa mia per i miei figli... perché i figli non me li mandano... non vedi che non me li hanno mandati [...] Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita, non torno più.»  Alla fine sarà proprio questa l’arma che la farà capitolare. L’8 agosto, nel primo pomeriggio, la donna chiama la madre e scopre che è in viaggio per Genova insieme all’altro fratello, Gregorio, e alla figlia più piccola. Maria Concetta è stupita, non vuole vederli perché sa di essere debole, dice loro di tornarsene a casa, che l’hanno già spostata in un’altra città. La madre però non le crede, e allora lei chiede tempo, dice di dover avvisare qualcuno prima di poterli incontrare. In quel preciso istante dal telefono le arrivano le grida e i lamenti della bambina, subito sovrastati dalla voce imperiosa del fratello, che la aggredisce: «Cetta, a chi devi chiamare? Perché devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?». «Digli di stare tranquilla» risponde lei, ma si sente replicare: «Che sta tranquilla, Cetta, che questa qua sta morendo». «Va bene dai, aspetta che ora glielo dico... chiudi chiudi, adesso li chiamo», sospira lei. È la sua resa definitiva. Quella sera Maria Concetta Cacciola lascia Genova e torna a Rosarno. Dodici giorni più tardi, il 20 agosto, il padre e la madre raccontano di averla trovata priva di vita nel bagno del seminterrato della loro villetta. Ha bevuto acido muriatico. Michele e Anna Rosalba caricano in macchina la figlia e corrono in ospedale, ma ormai non c’è più nulla da fare. Maria Concetta Cacciola è morta. La sua storia però non è ancora finita. Tre giorni dopo, senza nemmeno aspettare che la figlia venga sepolta, i coniugi Cacciola depositano un esposto alla procura di Palmi. È uno scritto in cui viene fornita una versione dei fatti palesemente distorta, tesa a far apparire Maria Concetta come vittima di un raggiro da parte delle forze dell’ordine, che l’avrebbero forzata a rilasciare dichiarazioni infamanti contro la sua volontà. Sostengono che, approfittando del suo stato di debolezza psicologica, i militari le avrebbero promesso «in maniera subdola [...] una condizione di vita personale di assoluto vantaggio», ovvero una condizione di vita «migliore lontana da qualunque problematica di carattere familiare e personale, oltre forse anche di carattere economico», «che in realtà poi al contrario si è rivelato un autentico inferno», ma che in quel momento ha avuto buon gioco nel convincerla a offrire collaborazione. «Che mai avrebbe potuto offrire essendo la stessa lontana da sempre da qualunque tipologia di collegamento e/o circuito criminale o delinquenziale che dir si voglia.» Una volta tornata a Rosarno, in famiglia, la figlia aveva finalmente ritrovato serenità, spiegano i Cacciola nell’esposto, tutti la ricoprivano di premure e attenzioni, «a parte qualche scenata di ordinaria e naturale gelosia». Se si era tolta la vita, era anche per colpa di chi con l’inganno l’aveva costretta a collaborare, ovvero forze dell’ordine e magistrati, sul cui comportamento era dunque opportuno far luce. Insieme all’esposto, Michele e Anna Rosalba Cacciola depositano la lettera di addio scritta dalla figlia prima di lasciare Rosarno e un’audiocassetta che dicono di aver trovato due giorni prima nel taschino di una camicia. Contiene un messaggio della figlia, che in sostanza confesserebbe di avere accusato il padre e il fratello soltanto per vendicarsi di loro. Tutto quello che ha rivelato finora ai pm, dunque, sarebbe semplicemente frutto della sua fantasia. Si tratta di un testo finalizzato a invalidare tutte le dichiarazioni rilasciate da Maria Concetta nel corso degli interrogatori, ma non è lei ad averlo pensato e non lo ha registrato spontaneamente. Oggi si scopre che a redigere il testo sono stati altri con la complicità degli avvocati arrestati. Lo dimostrano alcuni dettagli, come la presenza in sottofondo di una voce femminile che suggerisce certi passaggi o il fatto che in casa Cacciola, come rilevano le perquisizioni, non ci siano registratori. Ma lo rendono evidente anche i numerosi messaggi che la donna invia negli ultimi giorni di vita al suo amante, da cui non traspare traccia del clima idilliaco che sul nastro dice di aver ritrovato in famiglia. «Mia madre bene, ma mio fratello all’inizio mi ha detto tutto e di più. Ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati, avvocati x farmi ritrattare dirgli che uso psicofarmaci e che l’ho fatto x rabbia... ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura... ma io lo so xche lo fanno anche le mogli». In realtà Maria Concetta non ha mai fatto uso di psicofarmaci, le uniche pasticche che ingerisce sono pillole per dimagrire, ma facendola passare per depressa si lede la sua attendibilità di teste. La registrazione è con ogni probabilità effettuata nello studio dell’avvocato della famiglia, forse sulla base di un canovaccio che qualcuno ha già scritto e che Maria Concetta si limita a seguire. Una versione dei fatti che sarebbe peraltro corroborata da una frase che la figlia maggiore di lei, Tania, pronuncia durante un colloquio telefonico col padre detenuto. Quando lui le domanda dove sia in quel momento la madre, lei risponde che è andata dall’avvocato per registrare. In quegli ultimi giorni prima di morire, Maria Concetta è in completa balia dei suoi familiari, che hanno reso i controlli ancor più serrati e la stanno pesantemente manipolando. Vorrebbero addirittura imporle di andare in carcere a trovare il marito, ma lei, almeno su questo, riesce a far prevalere la sua volontà. Ha paura a uscire di casa, non perché teme di incontrare qualcuno che ha denunciato, ma perché si vergogna delle cose che l’hanno costretta a dire i suoi genitori per screditarla e salvarsi. Tutti ormai sanno che lei è tornata e sta ritrattando, anche perché Michele e Anna Rosalba Cacciola si sono premurati di inviare ai giornali l’esposto, la lettera e la registrazione, che vengono pubblicati con grande evidenza. Sanno quanto può essere importante manipolare l’informazione, per incutere timore e cercare consenso. Non tutti i giornalisti si piegano, molti resistono a testa alta, malgrado intimidazioni e minacce. Ma qualcuno disposto ad assecondarli, i clan lo trovano sempre. Maria Concetta è pentita di essere tornata a Rosarno, come scrive negli sms inviati all’amante in quei giorni, e ha deciso di andarsene di nuovo. Così chiede all’uomo di mettersi in contatto con Gennaro, il nome in codice del maresciallo suo riferimento nei Ros, e di illustrargli la situazione: «Parla con Gennaro, digli che i miei mi portano in tutti gli avvocati che x colpa della mia leggerezza sono qui». E ancora: «Prova a chiamare Gennaro spiegagli come è andata e gli dici che voglio rientrare». Il 17 e il 18 agosto Maria Concetta Cacciola telefona più volte alla caserma dei carabinieri. Parla con Gennaro, cui ribadisce di voler riprendere il programma di protezione. Il problema però è trovare il modo di uscire di casa senza farsi vedere. Il padre, la madre e il fratello la sorvegliano ogni istante. Lei vorrebbe che fossero i carabinieri a convocarla in caserma con una scusa, ma il maresciallo le spiega che è meglio di no, è più opportuno che sia una macchina a prelevarla di nascosto per strada. Maria Concetta indugia, ha paura, sembra fare resistenza. È lei che chiama per cercare un accordo, è chiaro che vuole andarsene, ma poi rimanda, tergiversa. Ha preso la sua decisione ma lasciare i suoi figli, di nuovo, le risulta difficile. Inoltre non vuole che la madre possa essere accusata dal padre di averla coperta, e quindi esclude di potersi far prelevare quando è fuori in sua compagnia. «Non è facile, il modo di uscire da qua, non è facile» spiega a Gennaro, «perché poi mio padre se la prende, perché mi lascia con mia madre, e quello se la prende con lei!» In un moto di confidenza, sentendo la madre come unica figura che in qualche modo le dà sostegno, Maria Concetta le rivela il suo piano. Ma Anna Rosalba non le offre la complicità che sperava. La figlia non può assolutamente fare una cosa del genere, lei lo impedirà, perché questa volta non vuole rassegnarsi a perderla. Il 18 agosto, nel pomeriggio, Maria Concetta chiama di nuovo Gennaro e gli dice che la fuga va rimandata «perché mia figlia che sta male, la seconda, so che non è una cosa facile» aggiunge sospirando preoccupata. «Voglio vedere come va, perché sto facendo dei controlli ed ho paura, non si sente tanto bene, aspetto due o tre giorni e vi richiamo.» È l’ultima volta che Gennaro la sente. Due giorni dopo Maria Concetta si toglierà la vita. È molto strano che i genitori l’abbiano lasciata a casa da sola, quel pomeriggio, ed è altrettanto strano che l’amore materno capace di trattenerla in quella prigione domestica non l’abbia tenuta con altrettanta forza attaccata alla vita. E poi c’era il suo nuovo amore, con cui progettava di rifarsi un’esistenza, come l’uomo racconterà agli inquirenti dopo il suicidio di lei. Perché Maria Concetta avrebbe deciso di rinunciare a tutto questo? Se davvero si fosse trattato di un suicidio, a spingere Maria Concetta verso quella morte atroce non sarebbe stata certo la vergogna per aver raccontato bugie ai magistrati, quanto l’esasperazione e il senso di impotenza provocati in lei dalla brutale insensibilità dei suoi familiari, preoccupati soltanto di salvare l’onore e di non finire in galera per colpa sua. Ma in galera ci finiscono lo stesso. Nel febbraio 2012, Fulvio Accursio, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palmi, dispone l’arresto per Michele e Giuseppe Cacciola, concedendo ad Anna Rosalba i domiciliari. Li ritiene responsabili di aver indotto la figlia al suicidio esercitando su di lei un’insostenibile pressione psicologica e sottoponendola a ripetuti maltrattamenti e soprusi, non ultimo quello di costringerla a ritrattare. Il giudice è convinto non solo che possano comportarsi verso i nipoti con la stessa brutalità riservata alla figlia, ma che possano intimidire i testimoni e inquinare le prove. Per questo ritiene opportuno tenerli in carcere. Rischiano fino a vent’anni. E non sono riusciti minimamente a screditare l’attendibilità di Maria Concetta come testimone di giustizia: le sue dichiarazioni, come quelle della cugina Giusy Pesce, hanno consentito ai magistrati di sferrare pesanti colpi alle cosche di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro. A distanza di oltre un anno dall’omicidio-suicidio di Maria Concetta, nella villetta color giallo ocra della famiglia Cacciola vive ormai solo la madre. È agli arresti domiciliari e dunque non può parlare con gli estranei. Sulla parete accanto all’ingresso di casa è ancora incollato con il nastro adesivo un grande manifesto a lutto che ricorda la morte di «Cacciola Maria Concetta». Una sorta di sigillo della riconquistata rispettabilità familiare. Poi è arrivato l'arresto anche per lei, insieme al marito, al figlio e ai due avvocati. Tutti in carcere. Eppure Maria Concetta voleva solo una vita che fosse la sua. Cercava, come scrive il gip Accurso nell’ordinanza di custodia cautelare, «quella libertà che da anni le veniva rubata a forza, mediante l’inflizione di penose umiliazioni, che erano compiute ad opera di chi avrebbe dovuto invece amarla di più, perché fatta del suo stesso sangue, e che pur tuttavia la rendeva prigioniera, costringendola a subire in silenzio le ferite fisiche e morali di chi pratica tra le mura domestiche le regole ferree dell’apparenza, che sono soprattutto quelle proprie di una famiglia contigua alla ’ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell’esistenza». Un principio in ossequio al quale «nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita». È questo che è accaduto a Maria Concetta Cacciola. La speranza è che davvero le sue figlie possano avere un destino migliore del suo.

Maria Concetta, pentita e suicida in terra di ‘ndrangheta. Rosarno, sono le sette di sera di un sabato di agosto e Maria Concetta si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Madre di tre figli in terra di ‘ndrangheta, qualche mese prima aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Da un luogo protetto diceva, riferendosi alla famiglia: «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più». Tornata per rivederli, aveva anche ritrattato la collaborazione, prima di riprenderla. Ora è arrivato l’arresto del padre e della madre, accusati di averla spinta al suicidio, scrive Francesca Chirico su “L’Inkiesta”. Nell’audio registrato il 12 agosto 2010, per ritrattare le dichiarazioni rese precedentemente ai magistrati della Dda di Reggio Calabria, aveva ripetuto due volte «di spontanea volontà mia». Come una cantilena. Sull’ultima frase del lungo monologo (10 minuti) la voce le era quasi scomparsa: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno». Otto giorni dopo quella registrazione la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, 31 anni e tre figli, si era attaccata ad un bottiglia rossa piena di acido muriatico. Su quale inferno avesse deciso di sottrarsi si sono concentrate le indagini della Procura di Palmi che ha chiesto, e ottenuto dal Gip, l’arresto dei suoi genitori, Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro, mentre si è reso irreperibile il fratello Giuseppe. L’ipotesi di reato per i tre familiari della donna è concorso in maltrattamenti in famiglia e violenza per costringere a commettere un reato. In pratica, «attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica», avrebbero costretto Concetta all’autocalunnia, facendole ritrattare le accuse contro la ‘ndrangheta di Rosarno. E facendole scegliere il suicidio «in conseguenza dei gravi e reiterati maltrattamenti». Cugina di Giuseppina Pesce, la pentita dell’omonima cosca rosarnese, Maria Concetta Cacciola orbitava attorno all’altro clan del grosso centro della piana di Gioia Tauro: una zia paterna aveva sposato il boss Gregorio Bellocco, mentre il marito, Salvatore Figliuzzi, era stato arrestato nel 2003 con l’accusa di far parte proprio del clan Bellocco e condannato a otto anni per associazione mafiosa. Maria Concetta l’aveva sposato a 14 anni. A 16 anni era già mamma: «Sognavo un po’ di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo sai», scriverà alla madre, affidandole i tre figli alla vigilia della sua partenza verso la prima località protetta. È il maggio 2011 e la sua collaborazione è partita, come uno sfogo, da qualche giorno. La donna sogna “la liberazione” da una cappa opprimente: è innamorata di un altro uomo e nel giugno 2010 il padre e il fratello hanno ricevuto delle lettere anonime che segnalano il tradimento, la macchia all’onore di famiglia. La reazione, immediata, ha previsto botte da orbi e minacce. «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni». Le hanno rotto pure una costola, a Maria Concetta, medicata in casa da un medico. La donna ha paura di fare, da un giorno all’altro, una brutta fine: «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire». Maria Concetta Cacciola varcherà la soglia della caserma dei carabinieri di Rosarno con la scusa del sequestro del motorino del figlio. Fuori l’aspetta il suocero perché da sola non le è permesso di uscire. Dentro lei comincia a parlare. «Voleva cambiare vita per sé e per i figli, era una donna forte e determinata», ricordano gli inquirenti. Ascoltata più volte dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sugli interessi criminali della sua cerchia parentale, fa scoprire due bunker ed è presto ammessa al regime di protezione. Ma sceglie di lasciare i tre figli con i nonni e non si accorge di essersi messa, per questo, sotto ricatto. «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più», si lamenterà al telefono con l’amica del cuore, a cui confesserà anche il suo travaglio su un possibile ritorno a casa: «Tutti me lo dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un’altra ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore (…) Te lo dicono in questo momento e poi tra un po’ di tempo ti fanno (…). L’onore non lo perdonano (…) Le sappiamo queste cose come vanno nelle nostre famiglie no?! Almeno nella famiglia mia». Combattuta tra la paura di ritorsioni e la voglia di riabbracciare i propri affetti, alla fine cederà a quest’ultima. Il 10 agosto 2011 lascia il regime di protezione e torna a Rosarno, ma di aver peccato di ottimismo lo capisce subito: «Mi portano avvocati avvocati x farmi ritrattare dirgli che…uso psicofarmaci e che lo fatto x rabbia… ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura» si sfoga attraverso un sms con l’uomo amato. È di nuovo in gabbia e di nuovo vuole uscirne. Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso di collaborazione: la partenza per la nuova località protetta è già stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di “liberazione”. Alle 19:00 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Dopo la sua morte i genitori parleranno di «depressione psichica», presentando una denuncia contro ignoti alla Procura di Palmi e scagliandosi contro i magistrati colpevoli di avere ingannato la figlia «con la scusa di un’ipotetica protezione per dei problemi personali e familiari di normale ordinarietà».

Ascesa e declino dell'Antimafia degli affari "che non si possono rifiutare", scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York”. Un' inchiesta coinvolge la dirigenza di Confindustria Sicilia e indirettamente quei politiici antimafia che dovevano rappresentare "il nuovo" rispetto ai vecchi "comitati d'affari". Mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, conflitti d'interessi alla Regione, irregolarità sull'utilizzo dei fondi europei, privatizzazione degli aeroporti... La magistratura ultimo baluardo in difesa della legalità? Tira un’aria pesante in questi giorni lungo l’asse Palermo-Caltanissetta-Roma. Agli incroci di mafia e antimafia c’è un po’ di traffico. Un ingorgo da legalità strillata. Storie strane. E un’inchiesta su presunti fatti di mafia che coinvolge il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, considerato uno degli uomini di punta dell’antimafia e dell’antiracket. Si tratta di dichiarazioni di pentiti di Cosa nostra che lo tirano in ballo. Notizie da prendere con le pinze, ovviamente. Ma il fatto che siano venute fuori, beh, è segno che alcune ‘cose’, nell’Isola, stanno cambiando. Anche, anzi soprattutto per chi, dal 2008, di diritto o di rovescio, esercita in Sicilia un potere pieno e, adesso, un po’ controllato: il senatore del Megafono-Pd, Giuseppe Lumia. E’ lui, ormai da sette lunghi anni, l’uomo politico più potente della nuova e della ‘vecchia’ Sicilia. E’ lui il garante di tanti, forse troppi accordi in bilico tra politica, economia e chissà cos’altro ancora. A lui fa riferimento Antonello Montante, oggi sfiorato dal dubbio che dai tempi di Crispi e di Giolitti fino ai nostri giorni illumina come un’ombra sinistra tanti politici siciliani ascesi al soglio del potere. Dubbi che, nel caso dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, si sono trasformati in condanna a sette anni per mafia. Dubbi che hanno accompagnato il suo successore, Raffaele Lombardo, anche lui fulminato da una condanna di primo grado  sempre per mafia (in questi giorni dovrebbe iniziare il processo di secondo grado). Ogni storia giudiziaria, ogni inchiesta dei magistrati inquirenti, si sa, è storia a sé. Ma è impossibile non vedere in questa vicenda il contesto politico in cui è maturata la svolta giudiziaria che coinvolge Montante. Proviamo a illustrarla. In politica sono importanti i segnali. E il primo segnale sinistro è arrivato circa una settimana prima del ‘siluro’ che ha colpito il presidente di Confindustria Sicilia. Ed è stata la scoperta che la Regione siciliana della quale Rosario Crocetta è il presidente - anche lui, neanche a dirlo, personaggio legato a doppio filo al senatore Lumia - non si è costituita parte civile in un procedimento giudiziario che coinvolge un funzionario regionale finito in manette per tangenti. Questa mancata costituzione di parte civile da parte della Regione, stando a indiscrezioni, potrebbe essere legata al fatto che il funzionario finito sotto processo, Gianfranco Cannova, era il responsabile del procedimento amministrativo di importanti autorizzazioni ambientali. La firma sui provvedimenti di autorizzazione non poteva essere la sua, perché si tratta, come già accennato, di un funzionario e non di un dirigente. Viene da chiedersi, a questo punto, perché hanno arrestato lui, se a firmare erano, a norma di legge, altri dirigenti. E’ in questo scenario che si inserisce la mancata costituzione di parte civile da parte del governo regionale di Crocetta. Con molta probabilità, dietro questa storia c’è un comitato di affari. E questo comitato di affari che la Regione sta cercando di proteggere non costituendosi parte civile? E’ Cannova non sa nulla di questa storia? Le domande sono più che legittime, perché quello che sta succedendo è veramente strano. In ogni caso, per il presidente Crocetta - un personaggio che, a parole, si proclama sempre antimafioso e paladino della cultura della legalità - è una pessima figura, sia nel caso in cui avesse semplicemente ‘dimenticato’ di costituirsi parte civile, sia nel caso in cui si dovesse venire a scoprire che dietro questa storia c’è un comitato di affari. La cosa strana è che gli ultimi due dirigenti che stavano sopra il funzionario regionale finito in manette non ci sono più. Il primo - Vincenzo Sansone - è andato in pensione negli stessi giorni in cui esplodeva il caso Cannova. Il secondo - Natale Zuccarelo - con parenti importanti nel mondo politico siciliano, è stato trasferito negli uffici del dipartimento regionale dei Rifiuti. Una settimana dopo lo scivolone di Crocetta (che comunque, come già accennato, non è nuovo a questo genere di stranezze, se è vero che il suo governo, in tanti, forse troppi casi, ha ignorato le regole sull’anticorruzione) è arrivata la botta a Montante. Agli osservatori non sfugge che il presidente di Confindustria Sicilia è stato chiamato a far parte dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Una struttura, inventata dalla politica italiana, della cui presenza in vita i cittadini del nostro Paese non avvertivano e non avvertono ancora oggi il bisogno. Su questo punto è bene essere chiari. Dei beni sequestrati e confiscati alla mafia si occupa già la magistratura. Ci sono state polemiche sul fatto che chi va a gestire questi beni - che di solito sono avvocati e commercialisti nominati dai magistrati - non avrebbe e competenze imprenditoriali per gestire aziende confiscate che poi, magari, falliscono. Il problema esiste. Ma non si capisce perché, a risolverlo, dovrebbero essere soggetti nominati da una politica che spesso è collusa con la mafia. Insomma, senza girarci tanto attorno, il dubbio, tutt’altro che campato in aria, è che la politica stia provando a togliere ai magistrati la gestione dei beni confiscati alla mafia. E siccome sono noti i rapporti tra mafia e politica, non è da escludere che i politici, con questo stratagemma, puntino a restituire, sottobanco, i beni confiscati ai mafiosi o ai loro eventuali prestanome. Nessuno, per carità!, vuole offendere i soggetti - Prefetti in testa - chiamati a gestire l’Agenzia per i beni confiscati o sequestrati alla mafia. Le nostre sono semplici considerazioni politiche che non coinvolgono i Prefetti. Considerazioni legate, piaccia o no, alla storia del nostro Paese. E’ un peccato di lesa maestà ricordare - lo faceva nei primi del ‘900 Gaetano Salvemini - che Giolitti, nel Sud d’Italia, esercitava il suo potere proprio con i Prefetti in combutta con i prepotenti e i mafiosi dell’epoca? E ci sono dubbi sul fatto che, in Italia, ancora una volta, l’ultimo baluardo contro un’illegalità mai doma è rappresentato dalla magistratura? Detto questo, la politica farebbe bene a sbaraccare subito questa inutile Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Quanto ai problemi legati alla mancata gestione imprenditoriale delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, beh, è sufficiente affiancare ai commercialisti e agli avvocati imprenditori o associazioni di imprese. Ma questo deve farlo la magistratura e non i politici attraverso un’inutile Agenzia controllata dalla politica! Fine delle considerazioni sull’aria pesante che oggi si respira nell’Isola? Niente affatto. I cambiamenti in corso sono ancora più profondi. Qualcuno, in Sicilia, a partire dal 1994, pensava di essere immune da qualunque controllo di legge. E, in effetti, forse in parte è stato così. Chi scrive ricorda un sindaco di Corleone di sinistra che in quegli anni affidava e rinnovava appalti a una società riconducibile a parenti stretti del boss Bernardo Provenzano. Per non parlare della storia del miliardo di vecchie lire messo a disposizione dall’Onu nel 2000. Soldi, affidati a soggetti dell’antimafia, di cui non si è saputo più nulla. Tra i personaggi che hanno sempre navigato in un’Antimafia molto discutibile c’è il già citato senatore Lumia. Che oggi non sembra più il politico irresistibile di un tempo. Qualcuno ha creduto che lui e i personaggi a lui vicini non sarebbero mai stati chiamati a rispondere del proprio operato. Forse perché ha pensato, errando di grosso, che la magistratura era assimilabile agli altri poteri dello Stato italiano, più o meno addomesticabili. Ebbene, questo qualcuno si è sbagliato. Perché sia la magistratura nel suo complesso (con riferimento, come vedremo, anche al Tar, sigla che sta per Tribunale amministrativo regionale della Sicilia), sia la Corte dei Conti stanno rispondendo ai prepotenti, ai furbi e anche ai mafiosi, vecchi e nuovi con un solo linguaggio: quello della legalità. La vicenda che oggi coinvolge Montante - vicenda, lo ribadiamo, legata a dichiarazioni di pentiti ancora tutte da verificare - arriva da lontano e, con molta probabilità, è destinata ad andare lontano. Toccando tutti i gangli del sistema di potere che dal 2008 tiene in pugno la Sicilia. Chi scrive, già nei primi mesi dello scorso anno, sul quotidiano on line LinkSicilia, segnalava, ad esempio, lo strano caso di Patrizia Monterosso, segretario generale della presidenza della Regione (in pratica, il più alto burocrate della Regione siciliana che, lo ricordiamo, in virtù della propria Autonomia, potrebbe essere assimilato a uno Stato americano se la stessa Autonomia venisse applicata correttamente: cosa che non avviene), e di suo marito, l’avvocato Claudio Alongi. Con la prima che si pronunciava su un incarico del marito presso la stessa amministrazione regionale! E con il secondo che forniva pareri legali alla moglie per fatti che riguardano la stessa amministrazione regionale! Entrambi in palese conflitto di interessi. Quando abbiamo scritto queste cose ci hanno quasi presi per matti. Non ci credevano. Ma oggi questa vicenda è diventata di dominio pubblico. E, con molta probabilità, è al vaglio delle autorità competenti. Superfluo aggiungere che anche la Monterosso fa parte del sistema di potere del senatore Lumia. Il senatore Lumia - che è il vero presidente ombra della Regione siciliana, in quanto inventore della candidatura di Crocetta insieme con i geni dell’Udc, formazione politica in via di decomposizione politica - comincia  a perdere colpi. Ben prima del ‘siluro’ che in questi giorni ha centrato Montante, lo stesso segretario generale della presidenza della Regione, la già citata Patrizia Monterosso, è stata condannata dalla Corte dei Conti al pagamento di oltre un milione di euro per fatti riguardanti il settore della formazione professionale. Un altro ‘pezzo’ importante del sistema di potere di Lumia - la dirigente generale del dipartimento Lavoro della Regione, Anna Rosa Corsello - è stata di recente ‘bastonata’ dal Tar Sicilia, che ha dichiarato nullo un atto amministrativo da lei confezionato (si tratta del decreto di accreditamento degli enti di formazione, atto che avrebbe dovuto essere firmato dal presidente della Regione e che, invece, è stato firmato dall’ex assessore regionale, Nelli Scilabra). Il decreto dichiarato nullo dal Tar Sicilia potrebbe avere effetti dirompenti, perché sui soldi già spesi sulla base di un decreto nullo la Corte dei Conti dovrebbe avviare un’azione di responsabilità a carico dei protagonisti di questa incredibile storia (parliamo di milioni di euro). Non solo. Sembra che, adesso, anche l’Unione europea si stia svegliando. Fino ad oggi Bruxelles, sulla formazione professionale, ha fatto finta di non vedere violazioni incredibili. I burocrati legati all’attuale governo regionale hanno bloccato l’assegnazione di fondi europei per rivalersi su errori commessi nell’erogazione di fondi pubblici. Solo che i fondi erogati irregolarmente erano regionali, mentre quelli con i quali la Regione ha provato a rivalersi erano europei. Due tipologie di fondi pubblici non sovrapponibili. Morale: la Regione non avrebbe dovuto bloccare l’erogazione di fondi europei per recuperare fondi regionali erogati illegittimamente. Ma c’è, nella gestione della formazione professionale siciliana, un’irregolarità che sta ancora più a monte. Una storia molto più grave che Bruxelles non ha ancora sanzionato. I fondi europei, per definizione, sono ‘addizionali’: si debbono, cioè, sommare ai fondi nazionali e regionali. La Regione siciliana, invece, dal 2012, utilizza i fondi europei sostituendoli totalmente ai fondi regionali. E questo non si può fare. Non a caso è in corso una class action da parte del mondo della formazione professionale siciliana contro la Regione che, ormai da quattro anni, non si dota del Piano formativo regionale della formazione professionale con fondi regionali, finanziando tutto con le risorse del Fondo sociale europeo. Cosa, questa, che non si dovrebbe fare perché a vietarlo è la stessa Unione europea che, fino ad oggi, violando leggi e regolamenti che essa stessa si è data, fa finta di non vedere tutto quello che succede in Sicilia in questo settore, rendendosi complice di un’irregolarità ai danni di se stessa. Tutto questo vale per il passato e per il presente. Ma il siluro che ha colpito Montante e il sistema di potere del senatore Lumia riguarda anche il futuro. E’ noto a tutti che, guarda caso in questi giorni, si è aperta la caccia alle tre società che gestiscono gli aeroporti siciliani. Sono la Sac, che gestisce gli aeroporti di Catania Fontanarossa e Comiso; la Gesap, che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo; e l’Airgest, che gestisce l’aeroporto ‘Vincenzo Florio’ di Trapani. Per motivi misteriosi queste tre società - fino ad oggi controllate da soggetti pubblici - dovrebbero essere privatizzate. Si tratta di società che, se gestite con oculatezza, potrebbero dare utili e ricchezza alla collettività. Ma siccome siamo in Italia questa ricchezza se la debbono incamerare i privati. A questo sembra che punti il governo Renzi che, non a caso, su questi e su altri argomenti è perfettamente in linea con Berlusconi, alla faccia della sinistra che lo stesso Pd di Renzi dice di rappresentare! L’affare più grosso è rappresentato dall’aeroporto di Catania, il più importante della Sicilia, destinato a diventare un hub. Non a caso su questo aeroporto si è già gettato come un falco Ivan Lo Bello, altro esponente di Confindustria Sicilia vicino a Montante. Chi prenderà il controllo della Sac - società per azioni oggi controllata dalle Camere di Commercio di Catania, Siracusa e Ragusa, dall’Istituto regionale per le attività produttive e dalle Province di Catania e Siracusa - assumerà pure la gestione dell’aeroporto di Comiso, snodo aeroportuale importante per il flusso turistico verso il Barocco di Noto, Siracusa e Ragusa e per il trasporto cargo di tutta l’ortofrutta prodotta nelle serre che, dal Ragusano, arrivano fino a Gela e Licata. Un po’ meno importanti - ma non per questo da tralasciare - gli aeroporti di Palermo e Trapani. Nella Gesap - società che, come ricordato, gestisce l’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’ - troviamo la Provincia di Palermo come socio di maggioranza, poi il Comune e la Camera di Commercio, sempre di Palermo. Mentre l’Airgest fa capo per il 49 per cento alla Provincia di Trapani, per il 2 per cento alla Camera di Commercio, sempre di Trapani, e per il restante 49 per cento a un gruppo di privati. Non sfugge agli osservatori che Montante, oltre che presiedere la Camera di Commercio di Caltanissetta, è presidente dell’Unioncamere, cioè dell’Unione delle Camere di Commercio della Sicilia. E le Camere di Commercio, in tutt’e tre le eventuali privatizzazioni delle società aeroportuali, giocheranno un ruolo centrale. Lo stesso discorso vale per le Province siciliane, tutte commissariate e gestite dalla stessa Regione, cioè dall’accoppiata Lumia-Crocetta…Insomma, i conti tornano. O meglio, cominciano a non tornare per Lumia, per Montante e per Crocetta. Tre personaggi che hanno fatto fortuna utilizzando l’antimafia come trampolino di lancio per la politica (e per gli affari). Ma adesso tutto questo mondo sembra in difficoltà. Una caduta che non sembra risparmiare nemmeno il numero due di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro, titolare della più grande discarica della Sicilia in quel di Siculiana, in provincia di Agrigento. Sotto scacco - non a caso sempre da parte della magistratura - è finita tutta la gestione dei rifiuti in Sicilia imperniata ancora sulle discariche. Una follia tutta siciliana che inquina l’ambiente. Va ricordato che quasi tutte le discariche siciliane non sono a norma di legge. Nelle discariche non possono essere sotterrati i residui organici, cioè il cosiddetto ‘umido’ che andrebbe lavorato a parte. Invece in quasi tutte le discariche siciliane i camion pieni di immondizia entrano, scaricano e vanno via. Ma questo non si può fare, la legge non lo consente. E invece si fa. Ma adesso la festa sembra finita. Non va meglio per la gestione dell’acqua. Tutti in Sicilia sanno che, in due anni e oltre di legislatura, il Parlamento siciliano, di fatto, ha bloccato il disegno di legge d’iniziativa popolare per il ritorno alla gestione dell’acqua pubblica. La mafia, in Sicilia, è sempre stata contro l’acqua pubblica. Era così ai tempi di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Ed è così anche oggi che la mafia opera da Bruxelles, imponendo i proventi delle attività criminali nel calcolo del Pil dei Paesi dell’Unione europea. La mafia non vuole il ritorno all’acqua pubblica. E la politica siciliana si sta adeguando alle ‘richieste della mafia che, come insegna ‘Il Padrino’, in genere, non si possono rifiutare. Questo spiega perché, proprio mentre scriviamo, mezza Regione siciliana è mobilitata a bloccare i tentativi di alcuni Sindaci dell’Agrigentino di gestire l’acqua nell’interesse dei cittadini. Un esempio intollerabile…Insomma, tutto il mondo che gira attorno a Lumia, Montante, Catanzaro, Lo Bello e Crocetta - che è un mondo di politica legata agli affari, dall’agenzia dei beni confiscati alla mafia alla gestione della burocrazia, dalle società aeroportuali ai rifiuti, fino all’acqua - in un modo o nell’altro non sembra più in sintonia con una certa idea di antimafia. La Giustizia da una parte e i grandi interessi che si scontrano, dall’altra parte, stanno disegnando in Sicilia nuovi scenari. 

Palermo, un politico ambasciatore dei padrini. 14 commercianti denunciano il pizzo, 27 arresti. In manette il consigliere comunale Giuseppe Faraone, è accusato di concorso in tentata estorsione: per conto dei boss avrebbe chiesto soldi a un imprenditore. Alle ultime regionali in Sicilia era stato candidato nella lista del governatore Crocetta, risultò il primo dei non eletti. All'alba, il blitz di carabinieri, squadra mobile e nucleo speciale di polizia valutaria. Il procuratore Lo Voi: "Agli estorti dico, non avete futuro", scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” In campagna elettorale Giuseppe "Pino" Faraone si definiva un "paladino della legalità" e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: "Amo Palermo". Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D'Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, che hanno fotografato il politico mentre bacia il mafioso, davanti a un bar di viale Strasburgo. Eccola, l'ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un'imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l'insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E' un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent'anni è passato dall'Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Faraone aderisce proprio al gruppo del Megafono. Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le dichiarazioni fatte alle forze dell'ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all'evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c'era anche l'insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della "mesata", ma anche assunzioni. Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia. Il procuratore capo Franco Lo Voi dice in conferenza stampa: "Il contributo delle vittime, sostenute anche da Addiopizzo, è stato fondamentale per questa indagine. Agli uomini che ancora pretendono le estorsioni voglio dire che non hanno molta strada davanti a loro, non hanno futuro. E questo sia grazie alle collaborazioni sempre più numerose delle vittime, sia grazie alle indagini". Il sindaco Orlando annunciato invece la costituzione di parte civile nel processo. La denuncia. "Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all'interno dell'amministrazione comunale". Inizia così il drammatico racconto dell'imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: "E' Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l'ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva". Iniziarono giorni terribili per l'imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, "perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto", disse all'imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: "Rivolgiti agli amici". Fino a quando l'imprenditore decise di affrontare Faraone: "Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda.  Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò".

Giuseppe Faraone Arrestato, il consigliere che nessuno vuole: Rosario Crocetta lo scarica e Matteo Salvini non lo riconosce, scrive Gabriella Cerami, L'Huffington Post. La storia è quella di sempre: nessuno sa. Tutti si affrettano a scaricare l’accusato, anzi, in questo caso l’arrestato. Giuseppe Faraone, il consigliere comunale di Palermo finito in carcere con l’accusa di tentata estorsione, viene rinnegato da chiunque. Soprattutto dal presidente siciliano, Rosario Crocetta, che eppure lo aveva candidato alle Regionali del 2012 nella lista il Megafono, movimento che fa capo proprio al governatore. La prima reazione di Crocetta è la seguente: “Hanno fatto bene ad arrestarlo. Se ha lasciato il Megafono vuol dire che non si trovava bene. Mi risulta che aveva aderito alla Lega Nord, così Salvini impara a non utilizzare la Lega come un taxi”. In realtà, non c’è traccia dell’addio di Faraone al Megafono, anzi ancora oggi risulta essere il presidente del gruppo consiliare del comune di Palermo “Megafono-Noi con Salvini”. Dal canto suo il segretario della Lega Nord prende le distanze dicendo di non aver mai conosciuto Faraone, che fa capo al Megafono, mentre il consigliere di Noi con Salvini a Palermo è Giorgio Calì. In sostanza, i due hanno creato un gruppo consiliare unico pur mantenendo il proprio riferimento politico. Per capire la vicenda occorre fare un passo indietro. Faraone entra nel maggio del 2012 nel Consiglio comunale del capoluogo di Regione con la lista “Amo Palermo” e aderisce al gruppo Misto. Nell’ottobre dello stesso anno si candida alle elezioni regionali nella lista il Megafono e risulta il primo dei non eletti. Ma dopo l’esperienza di questa campagna elettorale lascia il gruppo Misto per creare, nell’aprile del 2013, il gruppo consiliare “Megafono-Centro democratico”. Per formare un gruppo occorre essere almeno in due. Il collega di Faraone è Giorgio Calì, eletto con Italia dei Valori e poi passato a Centro democratico. La storia politica di Calì è caratterizzata da diversi cambi di casacca. Dal Centro democratico, nell’aprile del 2014, passa al Dpr (con annesso cambio di nome del gruppo consiliare che ora diventa “Megafono-Dpr”). Alla fine Calì approda alla Lega Nord e annuncia, in conferenza stampa, la sua adesione al movimento di Salvini. A questo punto il 22 gennaio scorso il gruppo consiliare si trasforma in “Megafono-Noi con Salvini”. Alla luce dell’arresto di Faraone, l’associazione del suo nome alla Lega Nord è immediata. Tanto che Salvini annuncia querele “a pioggia”: “Specifico – dice - che non lo conosco, non so chi sia, non fa parte di NcS. Il problema Faraone è tutto di Crocetta”. Ma ecco la replica del governatore della Sicilia, nel gioco dello scarica barile: “Ci sono una serie di personaggi che si vogliono riciclare, Salvini in Sicilia deve stare attento, rischia di imbarcare criminali". E poi ancora: “Faraone non è mai stato autorizzato a utilizzare il nome e il simbolo del megafono”. Fatto sta il simbolo che appare sul sito del comune di Palermo non lascia spazio a equivoci. Così, in tutta questa vicenda, a tanti è rimasto un dubbio: come mai il presidente della Regione non si era accorto che proprio a Palermo, capoluogo di Regione, c’era un gruppo con il simbolo del suo movimento? Adesso Crocetta garantisce che “sta mettendo ordine, istituendo segreterie territoriali e provinciali. Abbiamo cominciato in alcune zone della Sicilia, dobbiamo farlo al più presto anche a Palermo”. I dubbi rimangono. E la Lega Nord era a conoscenza del fatto che un suo consigliere avesse come alleato un esponente del Megafono di Crocetta? “Assolutamente no”, dice il deputato Angelo Attaguile, catanese e uomo del Carroccio che sta organizzando la Lega in Sicilia. “Calì è stato superficiale e noi davamo per scontato che facesse parte del gruppo Misto. Questa mattina l’ho richiamato dicendogli di passare subito al Misto. Faraone invece non so chi sia, non lo conosco e non è mai venuto alle nostre riunioni. Di Calì posso assicurare che è una persona perbene perché ho verificato il suo curriculum”. Alla fine della storia, nel tira e molla tutto politico all'indomani dello sbarco della Lega Nord in Sicilia, ciò che rimane è il simbolo che mette insieme il "Megafono" di Crocetta e il logo "Noi con Salvini", e dunque Faraone e Calì, che dall'aprile 2013 fanno parte dello stesso gruppo in consiglio comunale.

Pif: un selfie antimafia li seppellirà? Scrive Antonio Roccuzzo su “Il Fatto Quotidiano”. Antimafia da selfie? Sì. E poi, in fondo, perché no, se il fine giustifica il mezzo? Postando su Twitter il suo video alla lapide di via Libertà che a Palermo ricorda l’uccisione di Piersanti Mattarella, nel giorno dell’elezione al Quirinale del fratello Sergio, forse quel tardo-post-sessantottino di Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) avrà ricordato la vecchia frase di Michail Bakunin: “Sarà una risata a seppellirvi”. A seppellire almeno un altro pezzettino di consenso ai mafiosi. Lui, Pif, inquieta e –  il suo film La mafia uccide solo d’estate cos’è se non questo? – cerca di resuscitare con un sorriso la memoria di fatti tragici che il nostro Paese ha smarrito e non coltiva come si deve. Pur avendo segnato la vita quotidiana di un sacco di gente, anche della gente indifferente. E allora che selfie sia, anche a chi non piace lo strumento di comunicazione renziana per eccellenza. Un selfie non vi seppellirà, ma almeno vi farà pensare. L’amarissimo paradosso e il provocatorio “cazzeggio” di quel selfie da cantastorie antimafia è il seguente: bisogna avere un fratello eletto al Colle, per essere ricordato da tutti come un eroe antimafia! Deve aver pensato questo Pif che è mediaticamente dovunque ma in questo caso apre una sua parentesi (tra uno spot e l’altro, tra una comparsata e un – meritato – premio) per far passare messaggi. E in questo caso qual è il messaggio? “Caro dottor Mattarella (Piersanti, ndr) ho il sospetto che il prossimo 6 gennaio ci sarà un po’ più di gente a ricordarla”, dice il nostro sovraesposto testimonial dell’antimafia che sorride. E poi chissà perché l’idea antimafia deve essere sempre accoppiata soltanto al pianto. Perché? Io un po’ di memoria sicula la custodisco e nei primi movimenti di studenti palermitani negli anni Ottanta ho visto un sacco di sorrisi, speranze, parole dolci. Per esempio tra i ragazzi in corteo a Ciaculli, 1983, quartiere occupato dal boss Michele Greco. Io c’ero e l’aria era di una passeggiata festosa al di là di una porta che nessuno aveva mai aperto: un “cazzeggio” di ragazzi che trasgredivano una regola, quella del non parlare, non gridare, non sorridere. Ricordo il sorriso di Giovanni Falcone, davanti alla notizia di quel corteo variopinto che aveva illuminato quelle strade buie di Palermo. Allora, negli anni Ottanta, non c’erano cellulari e selfie non se ne facevano. La lotta alla mafia, 35 anni dopo, si fa anche così, con un sorriso e l’amarezza di chi ricorda – Pif la cita senza dirla – la frase di Bertold Brecht da Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E per contrasto beato il Paese che di eroi può fare a meno. Non è purtroppo il caso del nostro Paese, perché – per esempio a Palermo – di lapidi simili a quella del selfie di Pif è disseminato quasi ogni incrocio. Ho iniziato a fare il cronista in Sicilia proprio in quel lontano 1980, quando a Palermo la mafia uccideva chiunque e in tutte le stagioni: Piersanti Mattarella (presidente della Regione, 6 gennaio), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri, 4 maggio), Gaetano Costa (procuratore della Repubblica, 6 agosto) e la guerra di mafia mieteva cento-centoventi picciotti morti ammazzati all’anno e negli anni prima e dopo altri omicidi e altre lapidi da selfie antimafia. E allora, alzino onestamente la mano quanti – tra le persone comuni ma anche tra i 1.009 grandi elettori di Sergio Mattarella – ricordano quei lontani eventi. Quel banale e sgangherato selfie di Pif non riesumerà la memoria, ma già aiuta a seppellire la nostra cattiva coscienza.

3 marzo 2015. Predica contro il pizzo, arrestato per estorsione. Il presidente della Camera di Commercio di Palermo, che spesso si era vantato di essere dalla parte della legalità, è stato colto in flagrante dai carabinieri mentre riscuoteva il denaro che aveva preteso in cambio di "un favore", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Negli ultimi dieci anni il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, ha firmato protocolli di legalità per contrastare - sulla carta - le estorsioni; ha pure stretto accordi – sempre sulla carta - per sostenere legalmente ed economicamente le vittime del pizzo che decidono di denunciare gli esattori del racket ed è stato sempre pronto a fare dichiarazioni puntuali alla stampa, con frasi ad effetto in cui diceva di condannare chi si piegava al ricatto della mafia. Tutto questo è accaduto a Palermo dove Roberto Helg, con un passato travagliato fra dichiarazioni di pentiti che lo citavano, è diventato il leader dei Commercianti, prima in Confcommercio e poi alla Camera di Commercio, e ha continuato a rappresentarli anche dopo che la sua azienda è fallita. “La royalty... dal 7 noi passiamo al 10... quindi tu hai un risparmio... (...) Ne paghi 110 di aumento, dal 7 al 10... Cento sono quelli che dobbiamo dare... Tu hai un risparmio di 104 mila 440... E sei dentro, al dieci”. “Quindi praticamente quello che dovrei dare io in più sono questi centomila euro... ”. “Di cui io ho ottenuto anche 50 lunedì, prima del consiglio... Gli altri, 10 mila al mese. Ho detto che ne rispondo io, mi farà un assegno e m’u tegnu sarbatu...”. Ecco i dialoghi tra Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo arrestato mentre intascava una tangente, e Santi Palazzolo, titolare delle omonime pasticcerie di Cinisi e dell’aeroporto di Punta Raisi, che ha denunciato l’estorsione che gli avrebbe permesso un risparmio sui canoni di affitto degli spazi in aeroporto. Il dialogo tra i due è stato interrotto dai carabinieri, che hanno arrestato Helg. A leggere la rassegna stampa degli ultimi anni Helg viene disegnato come un paladino della legalità che sprona i propri associati a denunciare. I palermitani nascondono sempre delle sorprese. Anche in quelle giornate che sembrano uguali alle altre. Non è sempre come appare. Come ieri pomeriggio quando nella stanza super accogliente del presidente della Camera di Commercio si consuma un'estorsione. E si scopre che la vittima non è il presidente, bensì un ristoratore, a cui Helg che lo aveva convocato aveva imposto il pagamento di centomila euro per ottenere la proroga di affitto di uno spazio commerciale all'aeroporto di Palermo dove lo stesso Helg è vice presidente. Basta dunque un pomeriggio come quello di ieri, in cui viene fuori un mondo ribaltato, come pure la coscienza del povero ristoratore che per continuare a lavorare è costretto a versare una somma di denaro, come se fosse un pizzo, e a chiederglielo non è un mafioso, bensì il presidente della Camera di Commercio. L'uomo non ci sta a questa richiesta e si rivolge ai carabinieri, denuncia come spesso lo stesso Helg aveva invitato a fare, e i militari predispongono un servizio di appostamento e mettono addosso alla vittima una microspia per registrare la conversazione. Tutto è pronto. Scatta l'operazione che viene coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia. Ecco la scena: tutto si svolge poco prima delle ore 17 di martedì 2 marzo. Il ristoratore come da appuntamento preso con Helg si presenta nel grande edificio della Camera di Commercio di Palermo che si affaccia sul porto. Raggiunge l'ufficio e il leader dei commercianti lo accoglie sulla porta. Fa accomodare il ristoratore e questo gli consegna una somma in contanti di 50 mila euro, come aveva preteso Helg e poi l'impegno da parte del commerciante della corresponsione rateale di diecimila euro al mese fino a raggiungere il residuo importo di 50 mila euro. A garanzia di questo impegno Helg pretende un assegno in bianco. Il ristoratore lascia l'ufficio e subito dopo fanno irruzione nella stanza i carabinieri che avevano ascoltato la conversazione. Sulla scrivania gli investigatori trovano una busta con trentamila euro in contanti e in una tasca della giacca di Helg c'è l'assegno in bianco. Il presidente della Camera di Commercio viene arrestato per estorsione e portato in carcere. I magistrati lo interrogano ed Helg avrebbe risposto facendo rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini. All'interrogatorio che è durato tutta la notte hanno preso parte oltre all'aggiunto Petralia anche il procuratore Francesco Lo Voi. Roberto Helg, cinque anni fa, quando era presidente di Confcommercio, ricordava Libero Grassi sostenendo che Palermo non era più quella del 1991 quando l'imprenditore venne assassinato perché si era opposto al pagamento del pizzo. E sosteneva pure che Palermo era cambiata anche nel mondo delle associazioni, e aggiungeva: «oggi posso affermare con certezza che nessun imprenditore resta solo, in quanto tutte le associazioni si impegnano nell'invitare i propri associati alla denuncia». E la certezza ad Helg è arrivata praticamente ieri pomeriggio. Solo che dalla parte dell'estorsore questa volta c'è lui.

Intasca mazzetta da 100mila euro, preso presidente Camera Commercio. E lui: «L’ho fatto per bisogno». Roberto Helg, in qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, avrebbe chiesto e ottenuto la tangente per favorire l’apertura di un ristorante nello scalo siciliano. Era in prima linea nella lotta a racket e corruzione, scrive Chiara Marasca su “Il Corriere della Sera”. Una busta con 30mila euro in contanti sulla scrivania, un assegno in tasca: il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato lunedì pomeriggio mentre incassava una «mazzetta». In qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, spiega la procura in una nota, Helg avrebbe «chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100.000 euro da un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell’aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli». La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. Helg, noto imprenditore palermitano la cui storica azienda era però fallita nel 2012, era in prima linea nella lotta alla corruzione e al racket. L’accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell’impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro. Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l’assegno; sulla sua scrivania c’era anche una busta con 30mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini. «L’ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa», si sarebbe giustificato il presidente della Camera di Commercio di Palermo nel corso del lungo interrogatorio della scorsa notte. L’indagato avrebbe negato per ore tentando di giustificare la presenza dei contanti e dell’assegno dell’imprenditore. Intorno alle due di notte, sentendo che gli inquirenti erano in possesso della registrazione della sua conversazione con la vittima all’atto della consegna dei soldi, ha deciso di ammettere la richiesta della tangente sostenendo di aver avuto bisogno di denaro. È stata la vittima dell’estorsione, titolare della pasticceria Palazzolo, che ha un punto vendita all’aeroporto di Palermo, a rivolgersi ai carabinieri dopo la richiesta del denaro. Le investigazioni sono state svolte dai militari del Nucleo investigativo del reparto operativo di Palermo sotto il comando del maggiore Alberto Raucci e con il coordinamento del comandante del reparto, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale colonnello Giuseppe De Riggi. L’indagine è condotta dai pm Luca Battinieri e Geri Ferrara, del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, con il coordinamento del procuratore aggiunto Dino Petralia e la supervisione del procuratore capo Francesco Lo Voi che ha partecipato all’interrogatorio notturno di Helg, che ora si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli. Il legale di Helg, l’avvocato Fabio Lanfranca, ha chiesto alla Procura la concessione dei domiciliari per motivi di età, e per motivi di salute essendo affetto da una grave cardiopatia. Roberto Helg compirà 78 anni il prossimo 5 maggio. Dal ‘97 è presidente di Confcommercio Palermo. Nel 1976 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana, e nel 2003 quella di Cavaliere ufficiale della Repubblica e nel 2012 quella di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana. Helg navigava da tempo in cattive acque. La sua storica ditta (settore tavola, cristallerie, argenterie e arredamento), aveva chiuso nel 2012 dopo quasi quarant’anni di attività. Helg, dal 1997 anche alla guida di Confcommercio Palermo, aveva dichiarato: «Non riusciamo più ad andare avanti». E i dipendenti aspettavano lo stipendio da due anni. Roberto Helg, di recente, aveva approvato insieme alla giunta camerale di Confcommercio il piano triennale di prevenzione della corruzione. L’associazione da lui guidata, inoltre, è stata la prima in Italia ad aprire uno sportello per la legalità, per assistere gli imprenditori che denunciano usura e richieste di pizzo. Proprio la lotta al racket è stato il suo impegno negli ultimi anni: Helg è stato tra coloro i quali con un comunicato stampa nei giorni scorsi aveva espresso solidarietà ad Antonello Montante, il leader di Confindustria in Sicilia e paladino della lotta al pizzo, indagato per frequentazioni mafiose dalla Procure di Caltanissetta. Risale ad alcuni mesi fa, infine, una dura polemica tra Helg e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano, Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un’intervista al Giornale di Sicilia che il 90 per cento dei commercianti palermitani paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto “salotto buono” paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell’ordine diano a Todaro notizie così riservate». «Ho deciso di rinunciare al mandato difensivo di Roberto Helg perché lo ritengo incompatibile con il mio ruolo di legale di Confcommercio Palermo e con la scelta di assistere le vittime di estorsione che ho fatto molti anni fa». Parole dell’avvocato Fabio Lanfranca nominato difensore da Roberto Helg.

Palermo, arrestato Helg mentre intasca una tangente. Indagini sull'ipotesi di un sistema corruttivo. Il presidente della Camera di Commercio è stato fermato per estorsione: è stato denunciato dal titolare delle pasticcerie Palazzolo ed è scattata la trappola. "L'ho fatto per bisogno, ho la casa pignorata" ha detto durante la confessione. Pioggia di richieste di danni, Confcommercio lo espelle. L'avvocato rinuncia a difenderlo, scrive invece “La Repubblica”. Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato dai carabinieri di Palermo mentre intascava una tangente. Helg, personaggio assai noto in città, presidente di Confcommercio Palermo, è attualmente anche vice presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Spiegano i carabinieri che "proprio nella veste di rappresentante Gesap, Helg ha chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100 mila euro a un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell'aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli. La richiesta e la consegna del denaro ha fatto registrare la classica sequenza estorsiva consistente nella prospettazione, da parte di Helg, della difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo prezioso intervento e, da parte del commerciante, nell'adesione all'illecito pagamento" per il quale Helg "ha preteso, oltre alla consegna di una somma in contanti di 50 mila euro, l'impegno da parte del commerciante alla corresponsione rateale di 10 mila euro al mese con il contestuale rilascio, in funzione di garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco". Dalla confessioni di Helg l'indagine potrebbe allargarsi fino a rivelare un sistema corruttivo più ampio. Gli investigatori sono al lavoro. All'arrivo dei militari nella stanza di Helg, attorno alle 17 di ieri negli uffici della Camera di commercio, Helg aveva già ricevuto l'assegno, che aveva riposto nella tasca della giacca, e sulla sua scrivania era presente una busta con 30 mila euro in contanti. "Il contestuale colloquio intercettato era in termini del tutto coerenti con la vicenda estorsiva - dicono gli investigatori - Interrogato dai magistrati della Procura, a fronte di specifiche e dettagliate contestazioni, Roberto Helg ha fatto rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini". La notizia-bomba dell'arresto si è diffusa stamattina nel bel mezzo di un incontro sul lavoro femminile che si teneva proprio alla Camera di commercio di Palermo e ha colto di sorpresa i presenti, in gran parte imprenditrici o aspiranti tali. Incredulità e sgomento i sentimenti prevalenti, nessuna voglia di parlare: "Non e' il momento di fare dichiarazioni", si è limitata a dire Patrizia Di Dio, presidente nazionale di Terziario Donna Confcommercio e promotrice dell'appuntamento. Il Comune di Palermo ha annunciato che si costituirà parte civile. L'operazione conclusa ieri ha avuto inizio da una denuncia dell'imprenditore Santi Palazzolo, titolare di una storica pasticceria di Cinisi e del punto di ristorazione interno all'aeroporto di Punta Raisi, che si è rivolto ai carabinieri e ha rivelato i dettagli dell'illecita richiesta di denaro e delle sue modalità estorsive. L'imprenditore si è presentato venerdì pomeriggio dai carabinieri. L'uomo, visibilmente agitato, ha chiesto di parlare con i militari per denunciare che Helg gli avrebbe chiesto una tangente di centomila euro per il rinnovo degli affitti dei locali dell'aeroporto. "Proprio da lui, uomo della legalità non me lo aspettavo - ha detto agli inquirenti - sono esterrefatto, ecco perché sono qui". Le investigazioni sono svolte dai militari del nucleo Investigativo diretto dal maggiore Alberto Raucci, con il coordinamento del comandante del Reparto Operativo, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale, il colonnello Giuseppe De Riggi. L'indagine è condotta dal procuratore aggiunto Petralia e dai sostituti Battinieri e Ferrari. "L'ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa", ha detto Helg durante la confessione. Ieri notte, il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha partecipato personalmente all'interrogatorio di Helg nel carcere di Pagliarelli. In un primo momento Helg avrebbe tentato di negare la tangente. "Poi è stato smentito dalle sue stesse parole registrate - dice il procuratore Lo Voi - e non ha potuto che ammettere tutto". Ha spiegato agli inquirenti di avere agito "per difficoltà economiche". Helg "non si aspettava che l'imprenditore vittima della tangente lo denunciasse ai carabinieri", dice il procuratore Lo Voi. A chi gli fa notare che Helg era considerato a Palermo un paladino della legalità e dell'antimafia, il procuratore allarga le braccia e dice: "Purtroppo a Palermo succede anche questo..." Helg però non si sarebbe limitato a confessare. E avrebbe fatto rivelazioni sull'esistenza di un sistema corruttivo più ampio. L'intercettazione della sua richiesta di denaro, fatta dalle microspie dei carabinieri piazzate addosso al commerciante che ha denunciato tutto, farebbero pensare al coinvolgimento di altri personaggi. La Procura, dunque, sta cercando di capire se dietro la richiesta ci sia una sorta di organizzazione che si spartiva le tangenti incassate dai commercianti e se Helg avesse già fatto richieste estorsive ad altri. La Procura è in contatto con l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone, e non si escluderebbe un commissariamento della Gesap. I pm, inoltre, stanno facendo uno screening del patrimonio di Helg per eventuali misure di prevenzione. Per 40 anni Roberto Helg è stato titolare di negozi di articoli da regalo a Palermo, attività aperta nel 1974 e fallita nel dicembre 2012, l'anno successivo alla rielezione di Helg alla presidenza della Camera di commercio di Palermo, che guida dal 2006, nonostante il fallimento della sua attività commerciale. La sede commerciale più prestigiosa si trovava in via Ruggero Settimo, a Palermo, e chiuse nel 2000; altri negozi, compreso quello del centro Etnapolis di Belpasso, nel Catanese, chiusero negli anni successivi. L'ultimo negozio ad abbassare le saracinesche fu quello di Carini (Palermo), inaugurato nel 2008. Da paladino della legalità all'arresto per estorsione aggravata. Ecco la parabola discendente di Roberto Helg, 79 anni, sorpreso dai Carabinieri con una bustarella di 30.000 euro sul tavolo del suo ufficio avuta da un imprenditore in cambio del rinnovo dell'affitto di un locale all'aeroporto Falcone e Borsellino. La somma complessiva da pagare era di 100.000 euro. Ma chi è Helg? Non ha mai mancato un convegno sull'antimafia, si è sempre schierato con la legalità e contro il pizzo. Lo scorso dicembre, Roberto Helg, era stato al centro di una polemica con Confindustria. A fare scoppiare la miccia era stata una intervista rilasciata da delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, in cui sosteneva che che il 90% dei commercianti di Palermo "pagano il pizzo". Helg aveva duramente contestato quella dichiarazione dicendo che non era vero. quella percentuale e aveva sostenuto: "Non è vero".La causa del fallimento, spiegò Helg, stava nel drastico calo dei consumi e dai mancati incassi per vendite effettuate all'ingrosso anche all'estero, soprattutto in Tunisia. Le attività erano gestite dalla Gearr srl (50 mila euro di capitale, che aveva raggiunto un'esposizione con le banche di oltre 3,5 milioni), di cui era socio anche il fratello di Helg, Fulvio. Helg nel gennaio dello scorso anno ha approvato insieme alla giunta camerale il piano triennale di prevenzione della corruzione. La Camera di commercio, infatti,  "ai sensi del proprio Statuto promuove la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Nella struttura camerale, che  ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione nel gennaio 2014, esiste anche lo sportello legalità  al fine "di avviare una propria concreta iniziativa nel settore della prevenzione all'usura e dei fenomeni estorsivi, in stretta collaborazione con la Prefettura di Palermo con la quale ha sottoscritto un Protocollo di Intesa per attuare una più stretta sinergia di intervento nella tutela degli imprenditori della provincia". "Ciò - è scritto nel sito della Camera di commercio - ha consentito di avviare la realizzazione di un'importante 'rete di partenariato' con soggetti pubblici e privati di provata esperienza ed impegno su queste tematiche , che ci consente di fornire gratuitamente  assistenza quotidiana agli imprenditori della provincia di Palermo, che versano in gravi condizioni economiche e quindi a rischio usura, o già vittime di fenomeni usurari o estorsivi". "Appresa dalla stampa la notizia dell'arresto del presidente Roberto Helg, la Confcommercio di  Palermo ha convocato d'urgenza la Giunta Esecutiva per assumere gli eventuali necessari provvedimenti", si legge in una nota dell'associazione. Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto di Palermo, ha convocato per oggi alle 16,30 una conferenza stampa presso l'hotel Borsa. Il consiglio di amministrazione della società si riunirà alle 15. Il Comune di Palermo, Confcommercio, la Gesap e la Camera di commercio hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esprime "appezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, per questo ennesimo contributo all'affermazione della legalità nella nostra città" e annuncia di avere dato mandato all'avvocatura comunale per la costituzione di parte civile "ove ciò dovesse essere processualmente possibile". Anche Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Punta Raisi, annuncia che la Gesap si costituirà parte civile e che ha consegnato copia del verbale del consiglio di amministrazione della Gesap all'autorità giudiziaria: "La società non può subire questa esposizione, abbiamo revocato le funzioni e la carica di Roberto Helg e convocato l'assemblea dei soci per il 12 marzo per nominare il successore". Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione ricorda: "Fece un intervento particolarmente appassionato contro la corruzione". E continua: "ferma restando la presunzione di innocenza, è evidente come in questo mondo ci sia tanta ipocrisia e questa fa molti più danni, rispetto alla stessa corruzione. Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole". Il gruppo dirigente di Confcommercio ha deciso di applicare la sanzione estrema, l'espulsione. A comunicarlo oggi pomeriggio, nella sede di via Emerico Amari, i quattro vice presidenti di Confcommercio di Palermo, Antonello Di Liberto, Patrizia Di Dio, Luigi Genuardi, Rosanna Montalto, e il direttore Vincenzo Costa. "Esprimiamo coralmente solidarietà e vicinanza all'imprenditore anch'egli dirigente di Confcommercio Palermo, che ha denunciato i gravi fatti - si legge nella nota diffusa alla stamp a- abbiamo deciso di applicare la massima sanzione prevista dalla Statuto, ovvero l'espulsione nei confronti di Helg. La Confcommercio, nel confermare il suo impegno per la legalità, si costituirà parte civile nel processo e il gruppo dirigente di Confcommercio Palermo esprime apprezzamento per il lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell'ordine". Nella sala dove si è tenuta la conferenza stampa ci sono  ancora le foto di Helg con l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso e i codici etici di legalità siglati da Concommercio. "Non è una giornata felice per Confcommercio -ha detto Genuardi- ma riteniamo che abbiamo  fatto quello che andava fatto. Riteniamo che questi  sono fatti straordinari e la Confcommercio conferma il suo percorso per la legalità e non si fermerà davanti a questo brutto episodio. L'importante -ha concluso- è la risposta che sapremo dare". Il difensore di Roberto Helg, l'avvocato Fabio Lanfranca, ha rinunciato al suo incarico "per ragioni di incompatibilità". Lo stesso legale è anche il difensore di Confcommercio. "Sono fuori Palermo - dice Lanfranca - e sto apprendendo, ora dopo ora, sempre nuovi particolari sullal vicenda. Purtroppo ci sono profili di incompatibilità. Ho appreso anche della sua ammissione. E io sono legale dell'associazione dei commercianti. non posso accettare. Io assisto le vittime degli estorsori, non posso difendere Helg".

Pizzo in città, quando Helg polemizzò con i dati diffusi da Confindustria. Giuseppe Todaro, aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia, che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo, scrive “Il Corriere della Sera”. Risale a poco dopo Natale la polemica che vide contrapposti il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, arrestato ieri per tangenti, e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Non mi è chiaro se chi l'ha intervistato abbia capito bene quanto da lui detto. Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto "salotto buono" paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell'ordine diano a Todaro notizie così riservate». Sulla questione era intervenuto il Comitato di redazione del Giornale di Sicilia, che aveva parlato di «assolute anomalie» contenute nelle dichiarazioni di Helg, prima delle quali «la smentita di un'intervista non rilasciata da lui. È la prima volta che accade in 200 anni di giornalismo. Seconda anomalia, Helg ha chiuso le sue attività per fallimento, continuando a rappresentare gli altri imprenditori che invece le mantengono in vita. Non ci risultano altri casi simili». Helg, sempre in quella circostanza, aveva spiegato: «Da anni sostengo che la lotta al racket vada fatta tutti insieme e non una associazione contro un'altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti. I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all'amico Giuseppe Todaro di smentire quanto riportato a suo nome dall'articolo o di rilasciare altra intervista con l'elenco dei nomi di tutti i commercianti che continuano a pagare il pizzo nella zona bene di Palermo, negandolo poi alle Forze dell'ordine. Se l'amico Todaro ci darà i nomi che dice di conoscere, agiremo di conseguenza come facciamo da anni: contattando l'imprenditore per convincerlo a collaborare con le forze dell'ordine e, in caso di un suo rifiuto, sospendendolo dall'associazione, com'è ormai prassi consolidata».

I due volti di Helg, l'uomo per tutte le stagioni che diceva: "Qui non si paga il pizzo". Il presidente della Camera di commercio arrestato ieri è un esponente di spicco, assieme a Montante, di Unioncamere Sicilia cui Crocetta ha affidato un appalto da due milioni per l'Expo, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica” Il primo problema, adesso, se lo porrà il governatore Rosario Crocetta. Che ha assegnato con affidamento diretto un appalto da due milioni di euro per l'Expo a un'associazione, Unioncamere Sicilia, i cui vertici sono stati stati investiti da inchieste giudiziarie: il presidente Antonello Montante è indagato per mafia e un autorevole membro della giunta, Roberto Helg, è appena finito in carcere per tangenti. E' solo uno dei risvolti dell'operazione che ha portato all'arresto di Helg, commerciante del settore degli articoli da regalo e influentissimo attore della vita amministrativa  e politica della città. Helg, 78 anni, Cavaliere del lavoro dal 1976 e più recentemente insignito del titolo di commendatore, è un collezionista di cariche che ha ricoperto incarichi di punta in tutte le stagioni politiche palermitane. E' presidente della Camera di commercio dal 2006 e il suo secondo mandato scade l'anno prossimo. E' stato presidente di Confcommercio Sicilia dal 2006 al 2008, dopo essere stato per nove anni il vice di Sergio Billè. Oggi continua a guidare Confcommercio Palermo. Un uomo per tutte le stagioni, vicino a Forza Italia al tempo della giunta Cammarata e non distante oggi a una parte del Pd "di governo". Uno dei più potenti rappresentanti del mondo produttivo siciliano, con un'anomalia sullo sfondo: l'attività imprenditoriale di Helg è fallita nel 2012. Considerato un paladino della legalità, il presidente della Camera di commercio palermitana non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. La giunta camerale da lui guidata, nel gennaio 2014, ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione. Con l'obiettivo di "promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Il 27 dicembre scorso, nel rispondere piccato al delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, Helg aveva detto: "Smentisco categoricamente che il 90 per cento dei commercianti del centro della città paghi il pizzo". Oggi che lo stesso Helg è stato colto in flagrante mentre intascava una mazzetta, quelle parole suonano decisamente beffarde.

Il grande inganno dell'antimafia siciliana: così l'eroe della legalità mette le mani sull'Expo. Montante, indagato assieme all'ex governatore Lombardo, condannato, sono i creatori di Caltanissetta "zona franca" anti-pizzo. Tra collusioni e fiumi di soldi, tutti i paradossi di un'impostura politica dietro la dittatura degli affari, scrivono Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria su su “La Repubblica”. Lo sapevate che esiste una "zona franca della legalità" dove ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d'Italia? E lo sapevate che l'hanno fortemente voluta un governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell'impostura siciliana. Nella città dove è iniziata l'irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell'isola, consigliere per Banca d'Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un'indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove commistioni  -  e in alcuni casi connivenze  -  fra imprese e politica, impresa e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l'aria e fatto calare una cappa irrespirabile sulla città. In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una "legalità" costruita a tavolino e un'"antimafia padronale" che copre operazioni politiche opache e favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la "rivolta degli imprenditori" del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia hanno snaturato l'iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto. La "zona franca" l'ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l'unico "partito" che nel governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante. Quando governatore era Raffaele Lombardo  -  il 2 maggio del 2012  -  fu istituita con un atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come "zona franca della legalità". L'obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che "si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata". Previsione di spesa: 50 milioni di euro. Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su richiesta di chi  -  Montante  -  è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per legami con le "famiglie". Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il paradosso. La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l'Irsap, l'istituto che gestisce le aree industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani sull'Expo. Pochi giorni fa, l'assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l'inchiesta per concorso esterno, a decidere quali "eccellenze" siciliane del settore agro-alimentare dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell'isola. Materia d'indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele Cantone, il presidente dell'Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso, ha annunciato che su Expo è stato avviato "il più grande controllo antimafia di tutti i tempi". Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l'ha fatto La Sicilia in un lungo articolo) la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta dall'Università "La Sapienza" all'imprenditore. L'ateneo ha smentito il giorno dopo. Era falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un "sostegno" a mezzi d'informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce "azione di marketing territoriale". Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato un'intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che manifestava perplessità sull'opportunità che Montante  -  sott'inchiesta  -  mantenesse le sue cariche. L'intervista è sparita nella notte "dopo devastanti pressioni". Un altro clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni  -  1.300 euro al mese  -  che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati, che hanno spinto l'Ordine dei giornalisti ad aprire un'indagine conoscitiva. Oltre ad Antonello Montante, c'è un altro campione dell'antimafia a Caltanissetta. Si chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un'indagine sui "pizzini" di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi (un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in un'operazione antimafia dove il fratello Vincenzo  -  secondo il giudizio dei magistrati  -  l'avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni "per preservarlo da possibili negative conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario". Il doppio volto di Caltanissetta zona franca per la legalità. C'è promiscuità fra investigatori e magistrati e l'indagato di mafia Montante. A Roma e in Sicilia. A Caltanissetta  -  visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l'ha designato anche all'Agenzia dei beni confiscati  -  Antonello Montante è riuscito, il 21 ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell'Interno il comitato nazionale per l'ordine pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte dell'antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c'è una vicinanza molesta fra imprenditori e rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano allegramente nell'ambiente "antimafioso", c'è una prossimità imbarazzante con molte toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell'Associazione nazionale magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi "a una ineludibile concreta distanza da centri di potere economici ". Più chiaro di così.

Montante, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina. L'imprenditore pro-legalità Antonello Montante è oggetto delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma tanto basta a massacrarlo sulle pagine di alcuni giornali, scrive Filippo Astone su “Affari Italiani”. Antonello Montante rappresenta l'Enzo Tortora del terzo millennio? Per fortuna no. Almeno per il momento. Dando seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, Tortora venne processato e condannato in alcuni gradi di giudizio, subendo anche un linciaggio mediatico, con penne importanti (Camilla Cederna e Giorgio Bocca) che si dichiararono convinte della sua colpevolezza. Come Tortora, Montante è oggetto di dichiarazioni di un paio di pentiti, ancora tutte da riscontrare. Però non ha pendenze giudiziarie, non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia, e subisce un linciaggio mediatico solo da parte di alcuni, che sono giornalisti di calibro nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Cederna e Bocca. Tuttavia il torto subito da Montante, e il danno per le battaglie che ha condotto in questi anni, sono molto rilevanti. Enzo Tortora però non si è mai occupato di giustizia o di antimafia, ed è incappato nelle spire dei pentiti "a gettone" solo per un puro scherzo del caso. Da un nome segnato su una agenda, si è arrivati a giochi di parole, a scherzi e quindi a una tragica realtà. Tutt'altro che casuale sembra essere invece il discredito che si tenta di gettare sull'attuale presidente di Confindustria Sicilia nonché vice presidente nazionale di Confindustria con delega sulla legalità. Antonello Montante, 52 anni, nativo di Serradifalco, a pochi chilometri da Caltanissetta, con la mafia c'entra eccome. E' infatti un imprenditore che ha fatto dell'antimafia e della lotta per la legalità la sua ragione di vita, guidando insieme ad altri imprenditori meridionali di Confindustria (il suo alter ego Ivan Lo Bello, e poi Giuseppe Catanzaro, Marco Venturi, Giuseppe Todaro e tanti altri) una rivoluzione pro-legalità che ha segnato uno spartiacque storico. Con le sue battaglie, Antonello Montante ha rischiato la vita e ci ha messo la faccia, ottenendo risultati importanti: oltre 100 imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee da Confindustria per non essere espulsi; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i loro estortori (lo stesso Montante si è esposto in prima persona molte volte, per convincere alcuni colleghi a denunciare); la creazione di un "rating" per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato; la riforma delle Asi, enti clientelari che dovevano gestire gli insediamenti industriali in Sicilia e invece alimentavano solo il malaffare (al loro interno, i mafiosi avevano addirittura la faccia tosta di convocare le riunioni); e soprattutto una nuova mentalità in Confindustria, per cui la legalità, almeno in teoria, coincide con la normalità, e chi non accetta questo principio se ne deve andare. Questa nuova cultura è una rivoluzione copernicana. La Confindustria siciliana prima della rivoluzione di Montante e Lo Bello era pressappoco la stessa che non voleva espellere i mafiosi e i collusi, ma proprio Libero Grassi, che se non fosse stato ucciso era destinato a venir cacciato dall’associazione imprenditoriale. Gran parte dei vertici di quella Confindustria Sicilia (nelle sue diramazioni settoriali e territoriali) erano collusi, come dimostrato da varie inchieste giudiziarie, che li hanno condannati e in alcuni casi incarcerati. Questo è Antonello Montante. Che nella sua giornata di 24 ore trova anche il tempo di gestire due imprese, una che fa ammortizzatori ad alto contenuto tecnologico, e un'altra che produce biciclette di lusso. Le presunte "rivelazioni" dei pentiti, ancora tutte da verificare (le due inchieste di Caltanissetta e Catania, non su Montante ma sulle dichiarazioni dei pentiti nel loro complesso, hanno questo scopo) servono a delegittimarlo proprio pochi giorni dopo che il suo ingresso nel consiglio dell'Ansbc, l'Autorità nazionale dei beni sequestrati e confiscati, un colosso che gestisce qualcosa come 65 miliardi di euro di controvalore (tra cui 10.500 immobili e 1500 aziende), quasi quanto il fatturato della Fiat. Montante, unico imprenditore in un cda di prefetti e magistrati, avrebbe potuto assumere dopo poche settimane un ruolo chiave nell'Ansbc. Ma lo hanno rallentato, con la classica strategia mafiosa del "mascariare", già tentata perfino con Giovanni Falcone (vi ricordate le lettere del "Corvo"). «Mascariare» in siciliano significa tingere con il carbone. Basta un tocco e resta un segno. Quello del sospetto, ovviamente. Ma non è solo per delegittimare qualcuno che la mafia lo tinge con il carbone. Quello è solo il primo passo. Il secondo, se la delegittimazione funziona, può essere quello di porre fine alla vita del delegittimato, sperando poi che la cosa venga vista da molti non come l'eliminazione di un eroe, ma come una "vicenda tra loro". Spiace che alcuni giornalisti, sicuramente in buona fede ma traviati dalla convinzione di avere la verità in tasca (soprattutto se si deve dar contro a qualcuno, processarlo e condannarlo in quattro e quattr'otto, senza nessun aggancio alla realtà dei fatti né a quella giudiziaria) si prestino a questo gioco al massacro. Nelle ultime settimane Montante è stato rappresentato da alcuni quotidiani come se fosse indagato per mafia (e non è vero, non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, gli unici fascicoli aperti riguardano le dichiarazioni di alcuni pentiti, sulle quali la magistratura è obbligata a cercare riscontri), come se fosse un personaggio discutibile (e da chi? perchè?), come se si fosse dimesso dall'Ansbc (e invece si è solo "autosospeso", cioé per il momento non partecipa alle riunioni), come se ci fosse una presa di distanza della magistrature e delle forze dell'ordine da lui (invece la collaborazione continua). Eppure, il 24 gennaio 2015 (poco prima delle rivelazioni pentitizie a "orologeria", guarda caso) il presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario aveva detto: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». Parole simili le ebbe a dire Sergio Lari, capo di quella stessa procura di Caltanissetta oggi chiamata a far luce sulle rivelazioni di questi pentiti a proposito di Montante e di altro. L'occasione era un convegno a Chianciano Terme, nel settembre 2013. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti, che mirano a screditare chi in Sicilia combatte malaffare e mafia.Una campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione potrebbe tradursi in attentati e stragi», disse Lari. Il magistrato parlava chiaro: «Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali on line gettano sospetti e fango su chi l'antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci e altri messaggi inquietanti». Non si possono tacere neanche le dichiarazioni del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia per i beni sequestrati, alla commissione antimafia della Regione Sicilia. «Quando ero Prefetto ad Agrigento» ha spiegato Postiglione durante l'udienza, «mi dicevano: Eccellenza, siamo nella casa di Pirandello , e io dicevo che Pirandello era un dilettante a confronto. Le cose che si riescono a costruire in Sicilia possono essere estremamente articolate anche nell’architettura diffamatoria. Se c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi potrebbe farlo attraverso questi meccanismi, insomma una forma di ritorsione per la svolta confindustriale. Bisogna venirne fuori cercando di recuperare la verità. Io ripeto che non ho giudizi da esprimere, Montante lo conosco e mi è sempre sembrato una persona che lotta per la legalità». Montante viene difeso anche dalla Dna, la Direzione nazionale antimafia, che nella relazione 2014, presentata al Parlamento il 24 febbraio 2015 (cioé ben dopo l'emergere dello "scandalo"), scrive: «Nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei “colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione Confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». “In tale contesto – prosegue la Dna – sembrano iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’Irsap (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato”. E che dire dell'intercettazione ambientale di un colloquio fra due mafiosi, in un bar di San Cataldo, cittadina della provincia nissena? «Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più», si dicono i due nel colloquio, registrato nel settembre 2014. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Lo Bello: «Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine». Ma in che cosa consistono le accuse dei pentiti contro Montante? Secondo quanto emerge dalle anticipazioni giornalistiche, tra il 1999 e il 2002, Montante avrebbe pilotato alcuni appalti all'interno del consorzio Asi di Caltanissetta. La cosa stupisce, perché all'epoca l'imprenditore non aveva cariche né in Confindustria, né a livello politico, né all'interno dell'Asi. Ma contrasterebbe vieppiù con la battaglia condotta da Montante e Lo Bello (e da Alfonso Cicero, funzionario regionale che ha sempre lavorato in sintonia con loro) per la bonifica di questi consorzi. Da leggere, quello che denunciarono Montante e Lo Bello nel giugno 2014 in Commissione parlamentare antimafia. Una denuncia che è solo l'ennesima, e fa eco alle decine di azioni simili condotte in passate. Disse Lo Bello: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso». E aggiunse Montante: «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare».

Coinvolto in due inchieste per mafia, Montante lascia l'Agenzia per i beni confiscati. Il delegato per la legalità di Confindustria, presidente dell'associazione in Sicilia, si sospende dall'incarico dopo le notizie pubblicate da Repubblica delle indagini che lo riguardano a Caltanissetta e Catania, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Antonello Montante lascia la carica di consigliere dell'Agenzia per i beni confiscati ai boss. Una decisione sofferta. maturata solo nelle ultime ore, dopo un frenetico giro di consultazioni. Il presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la legalità dell'associazione di viale dell'Astronomia, si sospende dai vertici dell'Agenzia dopo le notizie, pubblicate da Repubblica, di due inchieste per mafia, a Caltanissetta e Catania, che lo vedono coinvolto. A parlare di Montante sono cinque pentiti, che raccontano di una vicinanza dell'imprenditore di Serradifalco (Caltanissetta) con esponenti di spicco delle locali "famiglie". Montante, in una nota, annuncia la sospensione dall'incarico nel direttivo dell'Agenzia presieduta dal prefetto Umberto Postiglione e di cui fa parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Negli ultimi giorni anche da ambienti confindustriali era giunta a Montante la sollecitazione a compiere questo passo: una mossa che dovrebbe servire a placare le polemiche, in attesa di sviluppi giudiziari. Scrive il leader confindustriale: "È per il profondo rispetto verso tutte le istituzioni, a partire da magistratura e forze dell’ordine, che oggi, alla luce delle notizie che ho appreso dalla stampa, seppure sconsigliato da tanti, ho deciso di autosospendermi dal consiglio direttivo dell’Agenzia". Montante mantiene gli incarichi all'interno di Confindustria: il comitato di presidenza di viale dell'Astronomia mercoledì aveva ribadito la fiducia all'imprenditore, uno dei protagonisti nell'Isola della rivolta degli industriali contro il racket: passaggio non scontato, che aveva fatto seguito al sostegno offerto il giorno prima, a Palermo, dai vertici di Confindustria Sicilia, Ance Sicilia, Piccola Industria e Giovani industriali dell'Isola. Ma la questione centrale, ogni giorno di più, era diventata la permanenza di Montante nel ruolo di consigliere dell'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. "Montante si dovrebbe dimettere? Non lo so, dipende da una sua sensibile valutazione ", aveva detto il prefetto Postiglione, pur rimanendo prudente: "Nessuno è colpevole fino a che non è condannato né è costretto a dimettersi per legge". In un silenzio sostanziale di quasi tutti i principali partiti, Sel, grillini e Rifondazione Comunista avevano auspicato un passo indietro di Montante. L'autosospensione, in particolare, era stata chiesta dal vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava. Una decisione che Montante ha preso stamattina. "Mai avrei pensato – scrive Montante – di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni. Anni durante i quali un gruppo di giovani imprenditori siciliani ha preso coraggio e ha espulso dalla propria associazione persone che avevano rivestito ruoli apicali negli organi associativi regionali e che, come hanno sottolineato alti magistrati in occasioni pubbliche, grazie al metodo mafioso e a protezioni politiche, avevano creato un sistema di potere di portata regionale se non nazionale. Anni durante i quali abbiamo accompagnato decine di colleghi alla denuncia, sostenendoli anche nelle aule di tribunale, anni in cui abbiamo sollecitato controlli antimafia preventivi, in alcuni casi mai fatti prima, e ci siamo costituiti parte civile, insieme con tutte le associazioni aderenti a Confindustria, in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata". Il presidente degli industriali siciliani parla anche dei collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa: "Le persone che vedo citate negli articoli giornalistici pubblicati in questi giorni - afferma Montante - sono state da noi tutte denunciate e messe alla porta, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese. Lo abbiamo fatto subendo minacce gravissime e mettendo a rischio la nostra vita. Tutto per affermare una rivoluzione innanzitutto culturale".

L'antimafia dei veleni. Dietro il caso Montante Pentiti e manovre politiche, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Cosa c'è dietro il caso Montante e dietro la notizia delle indagini che lo riguardano?  Radiografia di una vicenda che potrebbe affondare le sue radici nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Cosa c'è dentro il caso giudiziario di Antonello Montante e quali contesti politici si agitano attorno alla figura del presidente degli industriali siciliani? Innanzitutto ci sono pentiti vecchi e nuovi. Come le indagini. Il caso Montante esplode oggi ma, a giudicare dalle parole di alcune autorevoli voci, interessate e non, sembra avere radici antiche. Radici che potrebbero affondare nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Un movimento attraversato più che da spaccature da vere e proprie logiche di fazione. Il quotidiano 'La Repubblica' dà notizia dell'esistenza di un'indagine per reati di mafia a carico di Montante. Anzi, le indagini sarebbero due: una a Caltanissetta e l'altra a Catania. Tre pentiti lo chiamerebbero in causa. Di uno di loro viene fatto il nome, Salvatore Dario Di Francesco. Arrestato un anno fa, Di Francesco ha iniziato a fare i nomi e a parlare di appalti pilotati tra il 1999 e il 2004 nell'Area di sviluppo industriale di Caltanissetta, dove lui stesso prestava servizio. Ambienti vicinissimi alla Confindustria lo vorrebbero animato da risentimenti personali - per alcuni addirittura spinto da propositi di vendetta - nei confronti della stessa organizzazione che ne aveva duramente contestato l'operato. Di Francesco è compare di nozze di Vincenzo Arnone, figlio di Paolino che nel 1992 si suicidò in carcere dove era stato richiuso perché coinvolto in un blitz antimafia. Vincenzo Arnone, a sua volta, è compare di nozze di Montante. Nell'abitazione di quest'ultimo, era il 2010, furono trovate alcune fotografie che li ritraevano assieme a metà degli anni Ottanta. Le foto e pure il certificato di matrimonio, nell'aprile dell'anno scorso, furono pubblicate sulla rivista I Siciliani Giovani e oggi vengono rilanciate da La Repubblica. Non si conoscono ancora i contenuti delle dichiarazioni di Di Francesco e degli altri due collaboratori di giustizia di cui pure i nomi restano segreti. Uno potrebbe essere Carmelo Barbieri che già nel 2009 proprio ai pm nisseni - c'era anche il capo della Procura, Sergio Lari, ad interrogarlo - fece il nome di Montante. Non sappiamo che fine abbia fatto questa indagine. Né conosciamo l'evolversi di quella che sarebbe stata aperta a Catania un anno fa. Si sa, ma solo in virtù di alcune indiscrezioni, che si tratterebbe di un'inchiesta nata da un esposto. Il fatto che siano i magistrati etnei ad occuparsene, però, sembrerebbe giustificato dalla presenza di un pm nisseno nel contenuto della stessa denuncia. Chi e cosa abbia denunciato non è dato sapere. La questione potrebbe essere legata, ma anche questa è solo un'ipotesi, alle vicende sollevate dall'ex pm di Caltanissetta ed ex assessore regionale ai Rifiuti, Nicolò Marino, che in un'intervista del novembre scorso al quotidiano 'La Sicilia' ricordò al cronista e ai lettori: “Non dimenticate che io e Lari eravamo a Caltanissetta assieme e che entrambi sappiamo chi è Montante”. Un passaggio che potrebbe avere fatto nascere l'esigenza di un approfondimento investigativo. Montante, in una nota tranciante, si limita oggi a replicare citando le parole, definite “profetiche”, del presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Secondo Montante, saremmo di fronte ad un atto di delegittimazione nei confronti dell'azione concreta di Confindustria sul fronte della lotta alla mafia. Lo stesso Montante, dunque, ci obbliga a rileggere le parole pronunciate da Salvatore Cardinale - è lui il presidente della Corte d'appello citato dal rappresentante degli industriali siciliani - durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario nisseno. Cardinale aveva stigmatizzato "un clima di allarme, fatto di intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a una platea di magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell'antimafia e della lotta all'illegalità". Ed aveva citato, in maniera esplicita, “gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l'accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell'antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti". L'indagine su Montante si muove su due piani, uno giudiziario e uno politico. Il fronte giudiziario sarebbe alle battute iniziali. L'attualità dei tempi viene dettata dal fatto che per Di Francesco non è ancora scaduto, o forse lo è da pochi giorni, il termine dei 180 giorni previsto dalla legge per raccoglierne le confessioni. Attuale è anche l'aspetto politico della vicenda, visto che Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale di Confindustria per la legalità, appena quindici giorni fa, è stato chiamato dal governo nazionale, e dunque dalla politica, nel direttivo dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Dovrà dare il suo contributo per mettere ordine in un settore apparso finora lacunoso. A cominciare dal fatto che migliaia di beni restano improduttivi e molti sono addirittura ancora in mano agli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti. L'Agenzia per i beni confiscati, dati alla mano, è una delle più grosse holding italiane la cui gestione, storicamente, è stata terreno di scontro fra le correnti di pensiero, e non solo, dell'Antimafia. Montante ha da subito parlato della necessità di un'inversione di rotta, forse suscitando timori e gelosie.

Il caso Montante: l’inchiesta per mafia che spacca l’Antimafia. Crocetta e Lumia lo difendono a spada tratta, il M5S, Libera e Addiopizzo chiedono che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa”. L’indagine di Caltanissetta divide il mondo politico e imprenditoriale tra chi non crede alla delegittimazione dell’industriale e chi si interroga sul rischio di un impegno di cartapesta, scrive Paolo Patania su “L’Ora Quotidiano”. Crocetta lo difende a spada tratta, il M5S chiede che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa” e quello della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg si augura che ”si possa fare chiarezza in brevissimo tempo”. Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, chiede che lasci subito l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. La notizia dell’indagine per mafia su Antonello Montante, 52 anni, il leader degli industriali siciliani che ha inventato il ”codice etico” dell’imprenditoria schierata contro il racket delle estorsioni, spacca l’Antimafia istituzionale, rimbalza tra i salotti della politica e quelli della finanza isolana, e minaccia di appannare un simbolo del contrasto alle cosche mafiose, appoggiato pubblicamente negli ultimi anni anche da magistrati del calibro di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, capo dell’ufficio inquirente che lo ha iscritto nel registro degli indagati e che ora si limita a dichiarare: ”No comment, di più non posso dire”. L’indagine della procura nissena, come ha scritto Repubblica lunedì scorso, sarebbe aperta dall’estate scorsa, e sarebbe entrata nel vivo solo a dicembre. Ieri il Corriere della Sera, ha rivelato l’esistenza di alcune strane intercettazioni recapitate il 2 ottobre scorso nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, con una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcune persone sedute  in un  bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiavano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria,  avrebbero consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo avrebbe trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi. Ma oggi Repubblica torna all’attacco, pubblicando i nomi di altri tre dei cinque pentiti che accusano Montante: oltre a Salvatore Dario Di Francesco, sarebbero Pietro Riggio, Aldo Riggi e Carmelo Barbieri, nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Secondo il quotidiano, i tre, a vario titolo, avrebbero parlato di rapporti di Montante col vecchio Paolino Arnone, boss di Serradifalco, di  ”mediazioni” per far lavorare una ditta di mafia, del ”rispetto” che alcuni picciotti dovevano portare all’industriale proprio per la sua vicinanza con gli Arnone. Nessuno può dire al momento se le accuse dei collaboratori che denunciano le ”relazioni pericolose” di Montante con esponenti di Cosa nostra siano solide al punto da rivelare l’impostura di un’antimafia di facciata oppure se siano il tentativo di travolgere in una furia iconoclasta Montante in quanto simbolo del  ”nuovo corso” di un’imprenditoria siciliana davvero desiderosa di riscattarsi dal giogo mafioso. Lui, il diretto interessato, si è difeso con una nota nella quale sostiene che ”gli attacchi” a Confindustria sono il frutto di una ”campagna di delegittimazione” che punta a distruggere la stagione di rinnovamento avviata in Sicilia a partire dal ”codice etico”. E qualcuno oggi parla di intrigo politico e giudiziario che ruoterebbe attorno alll’Agenzia dei beni confiscati, che gestisce quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. Di certo ci sono due cose: la prima è che i siciliani di Confindustria negli ultimi anni sono stati accusati più volte di aver costituito una sorta di ”partito dell’antimafia”, protagonista di una vera e propria marcia di occupazione di posti-chiave del potere economico dell’isola e anche aldilà dello Stretto. La seconda è che, aldilà degli esiti al momento impossibili da prevedere, l’inchiesta di Caltanissetta ha disorientato il mondo politico e industriale, spaccando il fronte dell’antimafia tra chi ipotizza manovre occulte per screditare la ”rivoluzione copernicana” di Montante e chi invece ritiene le accuse dei pentiti il primo passo del disvelamento di un’antimafia di cartapesta. Risultato? Negli ultimi due giorni agenzie hanno battuto un diluvio di dichiarazioni pro, contro, e anche in buona parte ”attendiste”, nei confronti del paradosso tutto siciliano di un paladino dell’imprenditoria contro le cosche finito sotto accusa per mafia. Il commento più duro è quello dei deputati siciliani del M5S Giancarlo Cancelleri e Valentina Zafarana, che chiedono un passo indietro di Montante perché ”un simbolo non può essere appannato dai sospetti”: ”Si dimetta, in attesa che la giustizia faccia il suo corso”. Il più morbido è quello di Crocetta, che da Confindustria ha ricevuto un sostegno più che robusto per la sua scalata a Palazzo d’Orleans e oggi restituisce il favore: “Montante lo conosco come persona che ha lottato e lotta contro il racket delle estorsioni e contro la mafia. Aspettiamo serenamente cosa dirà la magistratura, al momento si tratta di indiscrezioni giornalistiche, non e’ detto che sia iscritto nel registro degli indagati. Non sappiamo nulla”. Ora Crocetta sottolinea che “proprio con Montante, Confindustria ha avviato il percorso di discontinuita’ nella lotta alla mafia rispetto a quanto avveniva in passato”. E sulla vicenda che sarebbe oggetto dell’indagine, le nozze di Montante e i suoi testimoni, tra i quali il mafioso Vincenzo Arnone, figlio dello storico padrino Paolino Arnone, boss di Serradifalco, il Governatore  dichiara: “Montante all’epoca aveva 17 anni, cosa doveva capirne di mafia. Allora qualunque siciliano che abbia avuto un vicino di casa o un compagno di scuola mafioso puo’ essere indagato? Basta questo per essere accusati?” Ma il più ”pesante” è quello di Libera, che guida 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. E chiede le dimissioni di Montante dal direttivo dell’Agenzia dei Beni confiscati. All’attacco anche Addiopizzo di Catania: ”Nell’attesa di ulteriori sviluppi -scrive l’associazione in una nota – e certi che Montante potrà difendersi nelle opportune sedi, siamo altrettanto sicuri che l’Agenzia vorrà prendere i più opportuni provvedimenti al fine di assicurare la massima prudenza e trasparenza nella scelta di chi, seppure indirettamente, deve gestire senza ombre, pin nome  e per conto dello Stato e di tutti i cittadini, beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata”. E il magistrato Piergiorgio Morosini, componente del Csm, dichiara che ”un’indagine di per sé non significa nulla, specie in una terra difficile come la Sicilia. Ma il ruolo di componente di un’agenzia pubblica come quella dei beni confiscati alla mafia richiede da parte di Montante un’autosospensione dalle funzioni. Sarebbe un’espressione della stessa cautela che richiediamo ai politici coinvolti in vicende di questo tipo”. Beppe Lumia, senatore Pd, ex presidente della Commissione Antimafia, transitato nel 2012 dal Pd alla lista Il Megafono (quella di Crocetta) invita ad osservare tutta la faccenda da questo punto di vista: “Salvatore Dario Di Francesco (uno dei pentiti che accusa Montante, ndr) è un ex colletto bianco, un imprenditore che è stato bombardato da Montante ai tempi della rivoluzione in Confindustria. Da quello che emerge, non c’è nulla che riguardi il presente ma il passato, i primi anni del Duemila quando appunto la Confindustria di Lo Bello e Montante cominciò il bombardamento su Cosa Nostra”. Cioè, insiste Lumia, “sono molto scettico rispetto a questa inchiesta semplicemente perché Montante l’ho visto in azione”. Ma la dichiarazione più attesa è quella di Squinzi, il leader nazionale di Confindustria, che però si limita a manifestare tutto il suo stupore: “Sono sorpreso dalle anticipazioni a mezzo stampa che riguardano Antonello Montante, che ha deciso da tempo di schierarsi nella lotta contro la mafia, rischiando in prima persona”.  Pro Montante, senza equilibrismi, è la Fai, la Federazione delle associazioni antiracket che ieri ha dichiarato: “Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma e’ doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia”. La Federazione ricorda come nell’estate del 2007, proprio a Caltanissetta parti’ “una vera e propria rivoluzione copernicana che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando”. Confindustria Sicilia, dunque, “non puo’ essere etichettata ne’ come antimafia dell’ultimora né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani”. Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio, infine, spera in un rapido chiarimento: “Sono vicino al collega Montante e mi auguro che si possa fare chiarezza in brevissimo tempo. Chi si batte per la legalità, come lui, non può attendere a lungo che vengano chiariti i termini di una vicenda come quella che lo riguarda”. Più o meno la stessa posizione del segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, che aggiunge: “Non possiamo che augurarci che la magistratura faccia presto a chiarire se in questi anni non tutto è stato limpido nell’antimafia”.

Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. Il presidente di Confindustria Sicilia e delegato di Confindustria nazionale sui temi della legalità Antonello Montante sarebbe accusato da alcuni pentiti di essere in contatto o vicino a mafiosi o ad ambienti mafiosi, dai quali avrebbe ricevuto favori ricambiati. Ora, specificato che la magistratura (di Caltanissetta e Catania che starebbero indagando) farà il suo corso (sul quale non mi permetto di fare appunti), specificato che non mi permetto neppure di giudicare il lavoro dei giornalisti che hanno scritto della vicenda, specificato che dei pentiti (in generale) mi fido da sempre quanto un piranha negli slip e quando ne ho trattato me ne sono dovuto pentire giurando a me stesso che si fottessero tutti,  ricordato che nessuno come i siciliani e i calabresi è specializzato in “tragediate” (altresì chiamate “carrette”), specificato che non compete a me prendere le difese di Antonello Montante (e infatti non le prendo perché lo fa da solo e/o con i suoi avvocati), sottolineato che fino a che ci sarà democrazia e libertà di opinione, stampa, giudizio, parola e informazione, continuerò a ragionare con il mio cervello senza guardare in faccia a nessuno, vi sottopongo, o cari lettori di questo umile e umido blog, un mero contributo di riflessioni ad una vicenda nelle mani sacrosante della magistratura.

1)   Complimenti vivissimi alle menti raffinatissime che, da alcuni mesi, stanno distillando le fughe di notizie sulla (o sulle) indagini e/o procedimenti penali aperti nei confronti di Montante. Gli ambienti investigativi e giudiziari, pronti, senza scrupoli e contravvenendo ai principi costituzionali e a quelli scritti sulla Carta europea dei diritti dell’Uomo, a indagare i giornalisti per concussione (avete letto bene, con pene che arrivano a 7 anni di reclusione) quando danno liberamente conto di procedimenti o indagini a loro sgradite, sono invece rapidissimi nell’allungare la manina (a chi vogliono) con informazioni a orologeria a qualcuno congeniali. Perché vedete, sia che si tratti di una bufala accusatoria montata ad arte (dai pentiti suddetti che ovviamente rappresenterebbero il braccio e non certo la mente), sia che si tratti di un filone propizio per fare luce su presunti legami impropri tra mafia e antimafia, queste fughe di notizie su indagini definite dai giornali blindatissime (come? Blindatissime? Pensa te se non lo erano…) sono state studiate a tavolino. Sono mesi, infatti, che si assiste ad un “distillato” di voci e sussurri su Montante.

2)   Un risultato immediato, le menti raffinatissime che hanno cantato, l’hanno raggiunto: infliggere un colpo durissimo all’antimafia. Non mi riferisco a quella dei nomi ma a quella dei fatti e dei gesti. Ebbene, mi domando e vi domando: con quale forza e spirito in Sicilia e al Sud (ma non solo) gli imprenditori vessati dalle mafie continueranno a bussare alle porte delle forze dell’ordine e della stessa Confindustria per denunciare i propri maledetti carnefici mafiosi? Credetemi anche in questo caso: proprio questo è il momento più propizio. Denunciate la mafia, perché è “merda”. Non solo quella fatta da picciotti e capibastone ma, soprattutto, quella fatta di intelligenze al servizio del male. Chi denuncia è sempre libero e ora più che mai, sono convinto, Forze dell’Ordine e Confindustrie locali sono pronte ad accogliere e seminare legalità.

3)   Ricordo che Francesco Cossiga chiamava il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Leoluca Orlando Cascio. Lo stesso Cossiga, che ovviamente era perennemente coperto da immunità parlamentare e/o presidenziale, nel corso di una trasmissione televisiva con Giuliano Ferrara, più di 20 anni or sono, spiegò che nella prima relazione di minoranza della Commissione Antimafia degli anni ’70, firmata dalla vittima della mafia, onorevole Pio La Torre, ammazzato nel 1982, il padre dell’allora onorevole Leoluca Orlando (Cascio), celebre notabile Dc, era definito il collegamento tra la politici ed ambienti salottieri palermitani del dopoguerra dove era facile che bianco e nero si mischiassero. Quando, oltre 20 anni fa, conobbi Leoluca, che non ricorreva mai al doppio cognome (Orlando Cascio), di tutto mi preoccupai tranne che di giudicarlo dalle gesta di suo padre. Ammesso e non concesso che fossero nebulose. Un uomo politico – la stessa cosa, sublimata da poche settimane da un elezione, si può dire per la famiglia Mattarella, di cui un membro è diventato Presidente della Repubblica alla luce del sole e dell’ombra, visti gli attacchi rivolti ai presunti trascorsi paterni – lo giudico dal momento e nel momento in cui fa politica, cioè si prende cura di una collettività amministrata. Il suo passato mi interessa ma solo se serve per dimostrare nel presente e per il futuro, coerenza con i principi e i valori nei quali io personalmente sono stato cresciuto e che insegno ai miei due figli. Se quei valori sono contraddetti (onestà, probità, lealtà, legalità, incorruttibilità, rispetto dei diritti e della legge e via di questo passo) me ne fotto di passato, presente e futuro. Bene. Mutatis mutandis, lo stesso discorso vale per chi si oppone alla mafia tra gli imprenditori che (è il caso di Montante) ricoprono anche fondamentali ruoli associazionistici. Da quando io l’ho conosciuto (otto anni or sono iniziò la battaglia confindustriale per l’etica d’impresa e la rivolta alla mafia prima proprio a Caltanissetta e poi su per li rami in tutta Italia) i comportamenti e il rigore di Montante mi sono apparsi conseguenziali a valori di dura opposizione all’economia criminale e alla mafia sociale, che scorre a fiumi nelle varie stanze dei bottoni di una classe dirigente sempre più corrotta. Inutile ricordare le prese di posizione (tutti dobbiamo ricordare che è proprio la parola il primo nemico della mafia, fondata non a caso sull’omertà) ma gli atti sì: le espulsioni dei mafiosi o dei presunti mafiosi dalle associazioni, i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali (do you remember Reggio Calabria?), i protocolli d’intesa visti e rivisti per renderli non chiacchiere (di solito lo sono) ma concreti, l’azione di rinnovamento nelle associazioni (comprese quelle camerali, o sono anche quelle frutto di comparaggio?), l’obbligo di white list negli appalti pubblici, le zone franche per attirare investimenti nelle province palermitane e nissene, la legalità al centro dell’azione degli industriali, il rating di legalità per le imprese nei confronti delle banche e degli enti appaltatori, il sostegno a quella magistratura che finalmente ha deciso di usare il lanciafiamme contro le mafie e i sistemi criminali, le costituzioni di Confindustria (proprio a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile nei processi per mafia e la durissima lotta in Sicilia (poi ci torno) contro quei centri di potere massonico deviato/mafioso che erano le aree di sviluppo industriale. Figuriamoci se, quando l’ho saputo, potevo e posso giudicare le azioni di Montante per il fatto che quando aveva 17 anni un suo testimone di nozze, venti anni dopo il matrimonio o giù di lì,  da incensurato passerà ad essere noto alla Giustizia, come suo padre che morirà poi suicida in carcere nel 1992.  Chi è senza peccato, scagli il primo testimone.

4)   C’è chi, in questi giorni, si sta prodigando per srotolare “dietrologie” a giustificazione delle presunte dichiarazioni (da riscontrare o pera della magistratura alla quale ci rimettiamo) dei pentiti (1, 5, 10, 100, boh!) contro Montante. E’ perché è stato nominato dal Governo nella inutile (finora) Agenzia nazionale dei beni confiscati alle mafie! E’ perché il movimento antimafia si è sempre spaccato su tutto in Sicilia e dunque è il risultato di una guerra intestina (ma intestina a chi?)! E’ perché chi troppo vuole nulla stringe e, tranne la carica di sindaco, a Caltanissetta e a Roma ormai lui è più di un papa! E’ perché queste cose entrano in campo mentre si giocava (ma si gioca tuttora) la partita per occupare la poltrona di capo della Procura di Palermo! E’ perché è amico di potenti troppo potenti in tutti i campi: dalla politica alla magistratura! E’ così o cosà, lascio che ciascuno dica la propria (rispetto tutti a maggior ragione, e lo dico in generale, quando non sono d’accordo).  Io aborro la dietrologia e faccio, umilmente, riferimento ad un fatto, che sarà senza dubbio una coincidenza. Se ho ben capito il capataz degli accusatori sarebbe tal Salvatore Dario Di Francesco, che nell’area di sviluppo industriale di Caltanissetta prestava lavoro. Bene. Leggete quel che denunciarono il 5 giugno 2014 anche (e sottolineo anche) in Commissione parlamentare antimafia Montante e Ivanhoe Lo Bello (vicepresidente nazionale di Confindustria) a proposito delle Asi siciliane e non solo: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso» (Lo Bello). «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.…Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare» (Montante).

5)   Il 24 gennaio 2015 il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario dirà: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». La domanda sorge spontanea: è impazzito il procuratore generale che parla di «imprenditoria libera e illuminata…di intimidazioni, minacce, insinuazioni, delegittimazioni, metodi subdoli e discrediti mediatici» in corso nei confronti anche dei vertici confindustriali nisseni e siciliani oppure i pentiti? Non dico tanto ma se avessi ricevuto io la soffiata sulle presunte indagini su Montante (a quando Lo Bello?) questa domanda me la sarei fatta e quantomeno avrei tenuto acceso il falò del dubbio.

6) Già perché, guardate voi come è corta la memoria,  il 21 ottobre 2013, a Caltanissetta, ci fu una riunione straordinaria del Comitato nazionale per l’ordine pubblico per fronteggiare il rischio di nuovi attentati di cui nessuno, i questi giorni, si è ricordato. Senz’altro le menti raffinatissime hanno sperato nell’oblio. Mai come in quei mesi, le speranze di cambiamento, descritte sui media di tutto il mondo dopo la decisione – di Confindustria Sicilia prima e Confindustria nazionale poi – di mettere all’angolo gli imprenditori che non denunciavano pizzo e mafie, apparivano lontane, sotto assedio e a rischio. «A Caltanissetta è scesa in campo la squadra-Stato al massimo livello, dal Procuratore nazionale antimafia ai vertici delle Forze dell’ordine, dai prefetti alle Dda, al Governo», disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse il rischio che Cosa nostra alzi il tiro. «Non possiamo escludere – ha detto – che questo sia l’intendimento della mafia». Poi il ministro ribadì sostegno e vicinanza agli imprenditori, «a cominciare da Montante e Lo Bello che si sono ribellati al racket».

7)   Ma attenzione ora ad un’altra data: il 17 settembre 2013, il Comune di Chianciano Terme (Siena) mise sul proprio sito istituzionale foto e cronaca di un convegno sulle stragi di mafia del ’92 che si era tenuto due giorni prima nella sala Fellini delle Terme e passato sotto drammatico silenzio a livello nazionale. Anch’esso passato nel dimenticatoio della stampa e dalla speranza di oblio delle menti raffinatissime. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti – dichiarò in quell’occasione il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che mirano a screditare chi in Sicilia combatte con i fatti malaffare e mafia. Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali online e gettano sospetti e fango su chi l’antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci ed altri messaggi inquietanti».

8)   Dunque eravamo a settembre 2013 e Lari, vale a dire il capo della Procura che ora con quella di Catania starebbe indagando su Montante, un anno e mezzo fa parlava di centri di potere che ordiscono campagne di delegittimazione e discriminazione utilizzando ogni mezzo possibile e immaginabile. Certo, non c’erano nomi e cognomi ma Lari, un mese dopo quelle frasi, a ottobre, sarà alla riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, con un ministro dell’Interno che invece fece i nomi di coloro che si erano ribellati al racket, a partire (i nomi li ha fatti Alfano, non io o voi) da Lo Bello e Montante. E poche settimane fa, un procuratore generale, Cardinale, metterà in fila gli avvenimenti senza peli sulla lingua. Due più due fa ancora quattro? Di questo incontro a Chianciano Terme, a parte le cronache locali toscane e siciliane, la grande stampa si disinteressò, perché un annuncio di morte non è una notizia. Quelle che sgorgano dalle menti raffinatissime – che, ripeto, siano fondate o meno –  si. Le mafie hanno memoria lunga e non basta una vita per cancellarla. Tifo, come sempre, per la Giustizia e spero, nel nome dell’Italia onesta nella quale senza se e senza ma mi riconosco, di sapere prestissimo la verità. I miei principi non cambieranno. Ne usciranno rafforzati.