Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA MAFIA

 

DELL’ANTIMAFIA

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

PRESENTAZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA MAFIA FIGLIA DEL PROIBIZIONISMO E DELLA BUROCRAZIA.

LA MAFIA DEL COPYRIGHT.

IL METODO MAFIOSO.

IL DIO DEI MAFIOSI E DEGLI ANTIMAFIOSI.

L'ANTIMAFIA DELLE POLTRONE.

LA CONFISCA DI PREVENZIONE “ANTIMAFIA” ALLARGATA O PER SPROPORZIONE: PER PERICOLOSITA' SOCIALE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

L'OBLIO MAFIOSO DEI DEPOSITI GIUDIZIARI: SPRECO E SPECULAZIONE.

LA MAFIA DELLE MAFIE.

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

SCATENATI CONTRO CATENO...

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

IL PAESE DELLA MAFIA SECONDO ME O DELLA MAFIA FAI DA TE.

MAFIOSI? NOI NO!!!

DA MAFIA CAPITALE A MAZZETTA CAPITALE.

CODICE ANTIMAFIA E MISURE DI PREVENZIONE. PADRI E PADRINI.

NEL LABIRINTO DELLE STRAGI. TALPE, SPIE, TRADITORI.

LA MAFIA DENTRO LO STATO.

COMMEMORAZIONI ANTIMAFIA. RETORICA ED IPOCRISIA.

ANTIMAFIA CONNECTION. L'IPOCRISIA DELLE RICORRENZE.

MAFIA ONLUS.

PIOGGIA DI MILIONI SULL’ANTIMAFIA (FAI E LIBERA). PON SICUREZZA, GESTIONE DEI BENI CONFISCATI, FINANZIAMENTI ALLE COOP.

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE.

ANTIMAFIA. COME SPENDE I SOLDI E COME CERCA DI FARE AFFARI...

LE TRATTATIVE DEGLI ANTIMAFIOSI.

LA MAFIA, LE SCORTE ED I DIFFAMATORI.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

LEONARDO SCIASCIA E LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

I GENDARMI DELL’ANTIMAFIA.

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA.

GLI EDITTI MEDIATICI DELL’ANTIMAFIA.

LE LISTE DI PROSCRIZIONE.

LA SOCIETA’ FOGGIANA. LA MAFIA INNOMINABILE.

LE MAFIE SCONOSCIUTE: LA STIDDA SICILIANA ED I BASILISCHI LUCANI.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

IL CIRCO DELL’ANTIMAFIA. RETORICA E ILLEGALITA’.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

LA CRICCA DEI GIORNALISTI ANTIMAFIA.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

VOTO DI SCAMBIO E LE IMPUNITA’ DELLE PROMESSE ELETTORALI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

IL SUD TARTASSATO.  

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

LA MAFIA SIAMO NOI!

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE…..

LA COMMISSIONE ANTIMAFIA LOTTIZZATA DAI PARTITI.

ALL'ESTERO. LA MAFIA C'E', MA SI TACE.

COME PARLANO LE MAFIE.

GLI SPADA AD OSTIA. NON MAFIA CAPITALE, MA MAFIA LITORALE.

LA MAFIA CINESE.

LA MAFIA DELLE ASTE GIUDIZIARIE.

MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

IL RACKET DEGLI APPALTI.

L'ANTIMAFIA E' MORTA. VIVA L'OLTREMAFIA.

LA MAFIA, L’ANTIMAFIA, L’OLTREMAFIA: CHI POTREGGE MATTEO MESSINA DENARO?

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

PINO MANIACI E LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

QUALE VERITA' SU SALVATORE GIULIANO?

MAFIA. PRESTANOMI E RICICLAGGIO. L'ONESTA' DELLA SOCIETA' CIVILE.

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?

IL CAPITANO ULTIMO AVVERTE: STATE ATTENTI DA UNA CERTA ANTIMAFIA.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

PARLANO ANTONIO IOVINE E CARMINE SCHIAVONE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

COSE NOSTRE. C'era una volta l'antimafia.

CIANCIMINO ED IL TESORO RUMENO: QUELLO CHE LA STAMPA ITALIANA NON DICE.

I BENI CONFISCATI? “ROBA NOSTRA”.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. DON CIOTTI. IL FUSTIGATORE ANTIMAFIA.

E POI…ROBERTO SAVIANO.

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

LE CAROVANE ANTIMAFIA.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

Le mafie in farmacia: così i clan si arricchiscono con furto e spaccio di medicine. Sostanze per milioni di euro destinate ai pazienti italiani vengono rapinate dalla criminalità organizzata e rivendute in Germania: è la nuova frontiera del crimine. Mentre i nostri ospedali rischiano di restare senza antitumorali e ai malati tedeschi arrivano sostanze contraffatte o scadute, scrive Elena Testi il 27 agosto 2018 su "L'Espresso". Lungo la A16, in direzione Cerignola Ovest, non passa un’auto. Attendono nascosti dietro il guard rail. L’assalto è stato organizzato da tempo. Conoscono tragitto e targa del tir, ma soprattutto hanno tra le mani la lista del carico che trasporta: farmaci antitumorali e - in minima parte - medicinali da banco. Sono le 4.30 del mattino del 4 luglio. Il volto coperto. Tra le mani fucili e pistole. Gli autisti riescono a percepire solo qualcosa di anomalo prima che l’assalto paramilitare venga messo in atto. I conducenti scendono con le mani alzate. Gli assalitori sequestrano l’autotreno e percorrono dieci chilometri esatti. Si fermano in una strada di campagna, utilizzano cesoie idrauliche per smembrare il cassone e lasciarlo vuoto. Un bottino da un milione di euro. Ad agire è un commando assoldato da un’organizzazione criminale che sa dove piazzare i farmaci e come reimmetterli nel mercato europeo del “parallel trade” farmaceutico. In sé legale, ma facile da infiltrare grazie a meccanismi di falsa fatturazione e operatori disinvolti. Parte così dall’Italia la catena criminale dei farmaci rubati e mette a rischio vite umane sia in nel nostro Paese sia all’estero.

Il mercato parallelo. Per “parallel trade” s’intende la libera circolazione, all’interno del mercato europeo, di un medicinale autorizzato. Ciò significa che uno stato membro Ue può vendere un farmaco a prezzi vantaggiosi a un altro paese. E il naturale acquirente è la Germania, dove i prezzi degli antitumorali sono molto più costosi che in Italia e in Grecia. Ad esempio, a Berlino a comprare sono ospedali e cliniche che per problemi di budget preferiscono la convenienza alla sicurezza. E proprio in questi giorni nella regione del Brandeburgo è scoppiato lo scandalo: un giro di arresti e un grossista, LunaPharm, che dal 2015 ad oggi, ha introdotto farmaci salvavita all’inizio sottratti ad Atene e più recentemente al Sistema Sanitario italiano, togliendo le cure ai nostri pazienti malati di cancro. Il rischio adesso è per la salute dei pazienti che ne hanno fatto uso, visto che i medicinali venduti dalle organizzazioni criminali potrebbero essere, come già successo in passato, contaminati, diluiti o trasportati a temperature che ne eliminano il principio attivo, rendendo le cure completamente inutili. Come denuncia Aifa in un suo libro bianco: «Introducono rischi di indisponibilità delle cure per i cittadini italiani e - dove riutilizzati - diventano pericolosi a causa dell’uscita dal controllo della corretta conservazione». Tradotto: i farmaci anti-tumorali vengono tolti ai pazienti malati di cancro in Italia e rivenduti inefficaci a quelli tedeschi.

Gruppi criminali specializzati. È dunque lungo l’autostrada dei due mari, quella che taglia l’Italia a metà e collega il Tirreno all’Adriatico, che si è consumato l’ultimo assalto a un tir che trasportava medicinali salva-vita. Le rapine sembravano essersi fermate dopo la prima crisi, quella esplosa tra il 2012 e il 2014, grazie all’operazione internazionale, soprannominata Volcano e coordinata dall’Agenzia italiana del farmaco. Non solo assalti ben studiati agli autotrasportatori, ma anche furti mirati agli ospedali. Secondo lo studio pubblicato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dall’Università degli Studi di Trento, in Italia tra il 2006 e il maggio del 2014, un ospedale su 10 ha registrato furti di farmaci con una perdita media di circa 330 mila euro per ogni colpo andato a segno, soldi e medicinali sottratti al sistema sanitario nazionale. Il 55 per cento erano antitumorali. La pausa è durata tre anni, il tempo - per i criminali - di rigenerarsi e studiare nuovi meccanismi per superare i controlli. Da pochi mesi le bande hanno ripreso gli assalti ai tir e le razzie nelle farmacie ospedaliere in Italia. Dall’inizio del 2018 sono stati già rubati milioni di euro in salvavita, gli ultimi ritrovati grazie all’indagine coordinata dal sostituto procuratore di Foggia Francesco Diliso. Su un documento pubblicato da Sifo (Società italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende ospedaliere) si legge: «Gli investigatori sono sempre più convinti che una parte non trascurabile dei furti commessi ai danni di ospedali e farmacie sia opera di gruppi criminali specializzati». E ancora: «Le ipotesi investigative sono confermate da dati incontrovertibili che fanno presumere la presenza delle organizzazioni criminali mafiose». A confermare queste parole c’è un’indagine della Dda di Bologna, coordinata dal pubblico ministero Enrico Cieri. Nell’inchiesta, partita nel 2014 collegata ai 14 filoni della operazione Volcano, è emerso un legame tra le organizzazione criminali dei farmaci e il clan Licciardi, potente e spietata famiglia della camorra napoletana. Nelle intercettazioni telefoniche si parlava di soldi: cifre su cifre per poter operare nel loro territorio. Secondo la difesa si trattava “solo” di pizzo, per l’accusa di un legame tra i grossisti e il clan camorristico.

‘Ndrangheta protagonista. Ma gli investigatori tedeschi ipotizzano che anche la ‘ndrangheta possa avere addirittura una parte da protagonista nei traffici. A realizzare i furti ai danni dei pazienti italiani, con fiale che possono costare da 1.500 euro fino a 15mila, sono infatti bande specializzate assoldate da organizzazioni criminali che conoscono bene i sistemi tedeschi. Dalle inchieste si è scoperto che sono circa 200 i cognomi in odor di mafia residenti in Germania. Le autorità tedesche hanno detto apertamente di «temere la presenza della mafia» dietro ai traffici di medicinali. Ed è uno dei motivi che ha spinto gli investigatori di Berlino, i primi di agosto, a contattare l’Agenzia del farmaco italiana, che già da tempo ha apertamente messo in guardia su questi rischi, spiegando che in teoria nessun antitumorale potrebbe uscire dal nostro sistema sanitario nazionale, perché sono tutti ceduti in via esclusiva alle farmacie ospedaliere. I clan calabresi, strutturati e ben organizzati, sono da tempo presenti sul territorio tedesco. Un porto sicuro, visto che lì non esiste il reato di associazione mafiosa. Sono loro, insieme alla camorra campana, ad agire sotto traccia. E non è un caso che in Calabria i megafurti di farmaci nell’ultimo periodo siano aumentati: cinque accertati solo negli ultimi due mesi. Più in generale, rapine e stoccaggi avvengono soprattutto nel sud Italia: tra Campania, Calabria, Sicilia, la provincia di Foggia e quella di Bari. Il meccanismo è studiato ad hoc: si infiltrano tra il personale delle strutture sanitarie o corrompono quello già in servizio. Per gli assalti ai tir si appoggiano alle bande specializzate locali. Come quello alla farmacia dell’ospedale Gravina di Caltagirone (Catania), dove il 21 aprile scorso sono state rubate centinaia di confezioni di farmaci chemioterapici. Sono entrati nei locali a notte fonda e hanno svaligiato solo uno dei tre frigoriferi presenti, quello contenente - appunto - i chemioterapici. Nel distretto socio-sanitario di Bitonto (provincia di Bari), il 9 luglio scorso sono state portati via 470 mila euro di anti-tumorali. Anche in questo caso sapevano dove andare a cercare. Un altro colpo a San Marco Argentano (Cosenza) e questa volta la cifra è più bassa: 90 mila euro. Ma il centro Italia non rimane immune alla razzia: è il 19 maggio scorso quando gli operatori sanitari spalancano le porte del mega deposito dell’Estar in via Genova a Grosseto e si accorgono che mancano tre milioni di medicinali, quasi tutti destinati ai malati di cancro. Un furto studiato in ogni dettaglio, dai sistemi di sicurezza fino alle abitudini di chi vive vicino al deposito. Hanno agito nell’unica zona d’ombra dei sensori antifurto.

Le scatole cinesi nell’Est Europa. I medicinali rubati in Italia di solito vengono portati in Grecia e in Turchia, passando per un sistema di fatturazione “a scatole cinesi” tramite filiali fittizie aperte nei paesi dell’Est Europa. In alcuni casi i farmaci vengono etichettati nuovamente per mascherare la loro provenienza, in altri ceduti senza riconfezionarli. L’ultimo passaggio è la vendita agli importatori in Germania, dove la legge impone alle farmacie di comprare dal “parallel trade” almeno il 5 per cento dei medicinali. Il caso LunaPharm tuttavia ha costretto il ministero della salute del Brandeburgo a diramare un allarme pubblico d’emergenza. Diana Golze, a capo del dicastero, è a rischio dimissioni: è ormai certo infatti che dal 2015 ad oggi sono stati somministrati farmaci ai pazienti oncologici tedeschi senza un controllo serrato, nonostante l’Italia avesse informato le autorità competenti in Germania, specificando il rischio che i salvavita provenienti illegalmente dal nostro paese fossero inefficaci o addirittura contaminati. La ministra tedesca ha dichiarato: «Voglio scusarmi personalmente con i pazienti e i loro parenti. Per me è importante fare chiarezza e, soprattutto, prendere tutte le misure necessarie per evitare che accada di nuovo». A LunaPharm, il grossista tedesco, è stata subito sospesa la licenza. Ora una linea telefonica assiste i pazienti, ma nell’allerta del ministero si legge: «Una raccomandazione chiave per tutti è rivolgersi al medico curante, solo quest’ultimo può fare una dichiarazione su quali farmaci sono stati effettivamente somministrati». Dice Lidio Brasola, responsabile della supply chain di Roche: «Due sono le priorità: da un lato è necessario che la Germania renda più efficaci i controlli per evitare infiltrazioni illegali; dall’altro è estremamente importante che le strutture ospedaliere Italiane rinforzino sempre di più la loro sicurezza interna altrimenti i furti continueranno senza sosta. L’Aifa dopo la crisi del 2014 ha fatto un buon lavoro, creando un network tra ospedali, forze dell’ordine, procure e case farmaceutiche. Un modo per avere costantemente la situazione sotto controllo. È su questa strada che bisogna proseguire».

Grossisti compiacenti. Come si diceva, il business è recrudescente ma ha origini meno recenti. È il 31 marzo del 2014 quando un lotto di Herceptin 150 finisce nelle mani di un grossista inglese. Le fiale sembrano essere state aperte e richiuse, all’esterno dell’involucro c’è della sostanza. Il venditore decide di chiamare l’azienda farmaceutica italiana che produce l’antitumorale. Una manciata di ore dopo si scopre che l’Herceptin 150 proviene da un assalto a un tir italiano. Contaminato e comunque rivenduto, senza nessuno scrupolo. La procura di Napoli apre un fascicolo e, insieme ad altre 13 indagini, sgretola, pezzo dopo pezzo, l’organizzazione criminale con base in Campania ma attiva in tutta Italia.

Normativa Ue da rifare. Inchieste come quella coordinata dal pubblico ministero Diana Russo risalgono alle filiali aperte all’estero dall’organizzazione, e identificate da Aifa e dalle altre agenzie del farmaco europee come illegali: Cipro, Ungheria, Lettonia, Romania. Slovacchia e Slovenia. Qui venivano emesse le fatture false, i medicinali da rubati venivano trasformati in perfettamente legali, senza lasciare i capannoni di stoccaggio con sede in Campania e il nullaosta operativo della famiglia Licciardi. Le farmacie di collegamento erano quasi tutte di Napoli o Nola. I salvavita venivano poi rivenduti al mercato tedesco da grossisti compiacenti, come LunaPharm, togliendo così ai pazienti italiani le cure necessarie e rivendendo invece a quelli tedesche medicinali inefficaci o persino letali. L’inchiesta finisce davanti all’Ema (Agenzia Europea per i medicinali) con Aifa che mette in allerta e la Germania con un libro bianco sul caso. Poco però, dopo questo caso, viene fatto a Berlino. I farmaci anti-tumorali illegali continuano a essere distribuiti senza controllo, fino a far scoppiare il caso degli ultimi giorni, con la ministra Golze che ammette: «Sono state chiaramente violate le regole esistenti, regole che hanno portato a questo fallimento». Dice Domenico Di Giorgio, Dirigente Area Ispezioni e Certificazioni Aifa: «Nel 2014 coordinammo l’operazione europea Volcano contro furti e riciclaggio dei farmaci, emergenza fino ad allora contrastata senza percezione strategica dell’organizzazione dietro quei traffici. Amministrazioni e aziende si mossero insieme contro le distorsioni nella rete distributiva, mettendo in atto strumenti come la piattaforma Fakeshare e riuscendo così a bloccare i furti per oltre 2 anni». Oggi il maggior problema per Di Giorgio è che «mancano sanzioni specifiche: gli 80 arresti italiani hanno portato a condanne solo per reati comuni come rapina e semplici furti. Gli operatori che compravano farmaci da canali chiaramente sospetti, all’estero sono stati trattati addirittura come vittime». Aifa ora chiede non solo reati specifici, ma anche un ripensamento della normativa europea contro le distorsioni del mercato tedesco: «I prezzi alti e il vincolo normativo al “parallel trade” fanno sì che lì operino molti trader, tra i quali una minoranza che acquista senza controllare le fonti. Bastano loro a rendere il paese un magnete per prodotti illegali, mettendo a rischio sia i pazienti italiani sia quelli tedeschi, e diventando sponsor di reti criminali che generano ovunque furti e rastrellamenti, danneggiando i sistemi sanitari di tutta Europa».

C'è un mercato parallelo dei farmaci che ci danneggia tutti. Ma è legale (e vale miliardi). In Italia vengono considerate carenti circa 1.500 medicine e la loro mancanza ritarda o rinvia la possibilità di curarsi. Il motivo? Rivenderle ai paesi del Nord Europa è più remunerativo, scrive Fabrizio Gatti il 12 luglio 2018 su "L'Espresso". Se non trovate la medicina che il medico vi ha prescritto, prendetevela con le regole del libero mercato o con le autorità che non sono in grado di domarle: perché probabilmente le vostre confezioni di pillole e di iniezioni sono state esportate in Germania o in Inghilterra o in Olanda dove valgono molto di più. Sono 1.556 i farmaci carenti in Italia, secondo l’elenco settimanale pubblicato il 28 giugno scorso da Aifa, l’agenzia di autorizzazione e controllo del ministero della Salute: di questi, 410 non hanno alternative equivalenti. Significa che la cura necessaria rischia di essere ritardata o rinviata. Mancano perfino alcuni preparati importanti per la sopravvivenza destinati alle unità di pronto soccorso degli ospedali. Nella lista dei vuoti di magazzino appaiono anche trentacinque vaccini. Alcuni sono tra quelli previsti dalla campagna in corso che, secondo la tabella, non possono contare su formule equivalenti: gli anti-Haemophilus influenzae di tipo B diventati rari per problemi produttivi, l’Infanrix contro difterite-tetano-pertosse per cessata commercializzazione temporanea, l’Engerix contro l’epatite B per problemi produttivi, l’Imovax polio contro la poliomielite per problemi commerciali, l’Imovax tetano contro il tetano per problemi commerciali e il Varilrix contro la varicella per problemi produttivi. Si tratta di preparati delle multinazionali Sanofi-Pasteur-Europe e Glaxosmithkline. La denuncia di Francesca Mannocchi “Io, la mia malattia e il patto spezzato”, pubblicata su L’Espresso la scorsa settimana, non riguarda soltanto le terapie a lungo termine. Ne siamo tutti coinvolti. E giugno si conclude con un ulteriore record. Soltanto una settimana prima, il 20 del mese, i farmaci carenti (tra i quali sono comunque incluse le cessate produzioni) erano 1.527, ventinove di meno. E quelli senza alternative equivalenti 398. L’esportazione di medicinali dai magazzini italiani verso il Nord Europa è una distorsione del mercato in corso da qualche anno. Tanto che all’inizio del 2018 la Federazione delle associazioni degli informatori scientifici del farmaco e del parafarmaco ha rilanciato l’allarme sul suo sito: “Carenza e speculazione sui farmaci: quando la salute vale meno di una mazzetta”. Sotto accusa è il mercato parallelo, considerato il principale responsabile della scarsità di medicinali in circolazione: cioè la possibilità legale per grossisti, grandi farmacie e a volte perfino ospedali di rivendere in altri Paesi dell’Unione europea, dove pagano di più, i farmaci destinati a noi. La convenienza, per gli esportatori paralleli, è data dal prezzo stabilito dagli accordi tra Aifa e le case farmaceutiche sulle medicine rimborsabili: prezzo che per Italia, Spagna e Grecia, tutti Paesi afflitti dalla carenza, è tra i più bassi in Europa. Questo mercato fantasma, i cui effetti però si vedono benissimo, riguarda soltanto i farmaci dispensati interamente o parzialmente dal servizio sanitario nazionale: sia quelli di fascia A, disponibili in farmacia su presentazione della ricetta del medico, sia quelli di fascia H il cui impiego, tranne casi particolari, è riservato a ospedali, ambulatori o strutture assimilabili. L’esportazione non riguarda ovviamente le medicine in libera vendita il cui prezzo, anche nei Paesi del Nord Europa, è determinato dal rapporto diretto tra produttore o grossista e venditori. Se la farmacia, anche ospedaliera, non è in grado di fornire i farmaci prescritti dal medico, il cittadino può impugnare i commi 3 e 4 dell’articolo 105 contenuto nel Decreto legislativo 219 del 24 aprile 2006. È uno strumento legale fondamentale che di fronte ai rischi per la salute non va dimenticato. Stabilisce il comma 3: «La fornitura alle farmacie, anche ospedaliere, o agli altri soggetti autorizzati... dei medicinali di cui il distributore è provvisto deve avvenire con la massima sollecitudine e, comunque, entro le dodici ore lavorative successive alla richiesta...». E il comma 4: «Il titolare dell’Aic (Autorizzazione all’immissione in commercio, cioè la casa farmaceutica) è obbligato a fornire entro le 48 ore, su richiesta delle farmacie, anche ospedaliere, un medicinale che non è reperibile nella rete di distribuzione regionale». Davanti alle distorsioni e allo strapotere del mercato, noi pazienti siamo completamente soli. E anche quando le autorità nazionali di controllo hanno provato a intervenire, l’Unione europea ha difeso sia il mercato, sia le sue distorsioni. L’ha fatto nel 2003, con questa comunicazione della Commissione di Bruxelles: «L’importazione parallela di medicinali è una legittima forma di scambio in seno al mercato interno, fondata sull’articolo 28 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (libera circolazione delle merci) e soggetta a deroghe relative alla tutela della salute e della vita...». Il business è cresciuto, le deroghe sono svanite. Tanto che Polonia, Romania e Slovacchia, quando hanno tentato di limitare l’esportazione parallela di farmaci dai loro magazzini, sono state denunciate proprio da Bruxelles. Le procedure di infrazione sono state archiviate il 17 maggio scorso, finalmente con un nuovo convincimento: «La Commissione», è scritto nel provvedimento di archiviazione, «riconosce che il commercio parallelo dei medicinali può essere uno dei motivi per cui si verificano carenze di una serie di medicinali per uso umano. Conciliare il rispetto della libera circolazione delle merci con il diritto dei pazienti di accedere all’assistenza sanitaria è un compito particolarmente delicato. Dopo un’attenta valutazione, la Commissione ha riconosciuto la necessità di esaminare altre vie diverse dalle procedure di infrazione...». Sembra incredibile: ma per Bruxelles il libero mercato e migliaia di cittadini che rischiano la vita per mancanza di medicine in Europa hanno lo stesso peso. Tanto che è necessaria una “conciliazione”. L’obiettivo della Commissione ora è quello di «raccogliere maggiori informazioni dagli Stati membri e dalle altre parti interessate per discutere l’attuazione dell’obbligo di servizio pubblico e le restrizioni all’esportazione nell’ambito del gruppo di lavoro...». Proprio così: basterebbe attribuire a tutta la filiera gli obblighi del pubblico servizio. Con le associazioni di produttori, distributori e farmacisti, tra cui Farmindustria, Adf e Federfarma, il ministero della Salute, Regione Lazio, Regione Lombardia e Aifa avevano firmato un patto già nel settembre 2016. «La sottoscrizione di questo documento testimonia l’impegno capillare e profuso di tutte le istituzioni coinvolte nella filiera farmaceutica», diceva in quei giorni Mario Melazzini, allora presidente e oggi direttore generale di Aifa: «Non posso non sottolineare e apprezzare il grande senso di responsabilità dimostrato da tutti i soggetti intervenuti oggi a firmare questo accordo». Tanto ottimismo aveva spinto il Sole24Ore a titolare: «Mai più carenza di farmaci». I tempi cordiali delle trattative ovviamente sono molto diversi da quelli che separano vita e morte nelle unità di pronto soccorso. Prendiamo il Flebocortid Richter prodotto dalla Sanofi: «È indicato nelle situazioni di emergenza che richiedono rapidamente un’elevata disponibilità nel sangue di idrocortisone... importante ai fini della sopravvivenza», spiega il foglietto illustrativo. Viene impiegato per gli stati anafilattici che non rispondono alla terapia tradizionale o per gli shock gravi, chirurgici, traumatici, emorragici, cardiogeni, da ustioni, resistenti alla terapia standard. Il farmaco risulta carente dal 22 maggio 2018 al 30 giugno 2018: «Problemi produttivi - Si rilascia autorizzazione all’importazione alle strutture sanitarie per analogo autorizzato all’estero», prescrive l’elenco delle carenze di Aifa. All’estero il prezzo del Flebocortid sarà quello di solito ben maggiore, dettato dalla situazione di emergenza. Clexane, nel comune dosaggio iniettabile di 4.000 UI (unità internazionali) da sei siringhe preriempite, è invece un farmaco diventato raro dal 26 aprile 2018, sempre per problemi produttivi. Blocca la formazione di coaguli nel sangue e serve a prevenire la trombosi venosa profonda in chirurgia generale, in chirurgia ortopedica e nei pazienti a rischio trombosi costretti a letto per lunghi periodi. Il prezzo concordato da Aifa con il produttore Sanofi e pagato dal servizio sanitario nazionale è di 32,70 euro a confezione: 5,45 euro a dose. In Germania il prezzo rimborsato dallo Stato sale fino a 11,65 euro a dose, a seconda del tipo di confezione. L’elenco delle carenze contiene anche l’Igantet, farmaco importante per la terapia contro il tetano, antiemorragici efficaci e antireumatici. «L’importazione parallela di farmaci, consentendo l’acquisto di medicinali a prezzi inferiori», spiega Fabrizio Gianfrate nella ricerca “Il Parallel Trade dei farmaci in Europa”, «rappresenta in potenza un vantaggio per i pagatori, pubblici e privati, ovvero i sistemi sanitari e le famiglie». Si stima un giro d’affari di circa quattordici miliardi di euro, il sette per cento di tutto il mercato farmaceutico europeo. Per alcuni medicinali specifici, in Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia, l’importazione parallela rifornisce tra il 55 e il 63 per cento dei consumi. Mentre si calcola che il 16 per cento dei farmaci venduti in Grecia sia dirottato verso Paesi europei più ricchi. Anche in Italia qualunque grossista o distributore, che paga la merce al prezzo nazionale concordato, può trovare più redditizio vendere un certo farmaco sui canali dell’esportazione parallela piuttosto che distribuirlo ai farmacisti suoi clienti: ai quali basta dichiarare che il farmaco è mancante senza spiegarne la ragione. A questo punto la rete delle farmacie segnala la carenza alla Regione. E alla fine il farmaco finisce nell’elenco di Aifa. Anche se alle case farmaceutiche spesso risulta regolarmente distribuito. Il meccanismo permette così un risparmio sulla spesa sanitaria agli Stati del Nord Europa, che in base al loro Pil (Prodotto interno lordo) hanno contrattato prezzi ufficiali più alti con i produttori. Una scorciatoia che lo studio di Gianfrate mette a nudo. In Germania il farmacista deve vendere almeno il 7 per cento di farmaci importati parallelamente e il medicinale parallelo ha un prezzo di almeno il quindici per cento inferiore al listino nazionale. In Olanda i farmacisti sono incentivati a vendere farmaci importati parallelamente poiché vengono rimborsati al 94 per cento dell’intero prezzo nazionale e possono trattenere tutta la differenza tra il valore rimborsato e quello di acquisto dal grossista, mentre il governo olandese recupera circa il 7 per cento dei ricavi del farmacista. In Danimarca il farmacista deve informare il paziente di tutte le alternative inclusi i medicinali di importazione parallela e in Norvegia i medici sono incoraggiati a prescriverli. In Svezia le farmacie sono statali, i farmacisti devono fornire il farmaco più economico tra le alternative equivalenti e i medicinali paralleli sono i meno tassati. Nel Regno Unito a guadagnarci sono soprattutto i farmacisti: possono trattenere la differenza tra il prezzo rimborsato dallo Stato e il prezzo scontato di acquisto del farmaco parallelo, mentre il governo recupera una parte dei ricavi dei grossisti in base alla quota nazionale di importazione. Per la Gran Bretagna sottrarre legalmente farmaci da altri Paesi europei permette un risparmio di un miliardo di sterline all’anno: un miliardo e centotrenta milioni di euro. Il processo prevede che i medicinali siano riconfezionati per tradurre scatole e fogli illustrativi nella lingua di destinazione, senza però la supervisione delle case farmaceutiche. «Questo introduce rischi di sicurezza e qualità per il riconfezionamento, se viene effettuato inadeguatamente», avverte la ricerca di Fabrizio Gianfrate, «e favorisce il crescente fenomeno della contraffazione». Lo scorso anno Aifa ha annunciato che i furti di farmaci in Italia sono crollati dalle ottocentomila confezioni rubate nel 2013 alle ottantamila del 2016. Senza nulla togliere all’azione di contrasto messa in campo dall’agenzia e dal Nucleo antisofisticazioni dei carabinieri, potrebbe non essere una buona notizia: significa che il mercato parallelo è ormai perfino più redditizio e facile di quello illegale.

PARLIAMO DI COMPARAGGIO: LA MAFIA DELLE AZIENDE FARMACEUTICHE.

O, ancora, la farmatruffa esplosa nel 2003 a Verona con viaggi, regali, cene, consulenze per un totale di cento milioni di euro per comprare circa tremila medici che avevano prescritto prodotti farmaceutici in cambio di denaro. Oppure c’è l’inchiesta nata a Torino nel 2005 e approdata a Roma che coinvolge addirittura l’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco, che classifica e cataloga i medicinali da immettere sul mercato. Due dirigenti dell’Agenzia vengono accusati di intrattenere rapporti privilegiati con gruppi multinazionali di società farmaceutiche nella sperimentazione di sperimentazione di due prodotti bio-equivalenti." Questa è la rappresentazione di una realtà, spesso, sottaciuta ed ignorata.

Mezzo milione di euro a 67 medici, così azienda favoriva i propri farmaci, scrive “La Repubblica” il 17 ottobre 2012. I dottori, sia di strutture pubbliche che private, somministravano dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche anche ai bambini per aumentare i profitti della Sandoz. In cambio ricevevano denaro, regali o viaggi. E' un'operazione "medici puliti": 67 dottori in 15 diverse regioni sono indagati per aver ricevuto dall'azienda farmaceutica Sandoz somme di denaro, viaggi all'estero e oggetti di valore con l'obiettivo di incrementare le vendite di alcune tipologie di farmaci. L'inchiesta riguarda in special modo i pazienti pediatrici: i medici prescrivevano dosaggi ben al di sopra delle indicazioni terapeutiche per aumentare gli incassi. Tra i farmaci prescritti illegalmente ci sarebbero anche ormoni della crescita. I carabinieri del Nas hanno eseguito 77 perquisizioni a carico degli indagati. L'inchiesta coordinata dalle Procure della Repubblica di Rimini e Busto Arsizio (VA) è stata condotta dal Nas di Bologna e dai Comandi provinciali di Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Brescia, Cagliari, Caserta, Chieti, Ferrara, Firenze, Frosinone, Genova, Lucca, Mantova, Messina, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Perugia, Pescara, Roma, Terni, Torino, Trento, Trieste, Verona e Viterbo. Nel corso delle indagini è stata scoperta l'esistenza di una rete formata da dodici informatori scientifici e dirigenti della casa farmaceutica Sandoz incaricata di prendere accordi con i camici bianchi. Gli informatori avrebbero sollecitato i medici indagati (tra cui anche specialisti in nefrologia e endocrinologia) ad aumentare le prescrizioni di alcuni farmaci, con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. "In alcune circostanze - sottolineano gli investigatori - i medici non esitavano ad aumentare le somme pretese" e "alti dirigenti dell'industria farmaceutica incontravano personalmente i medici". Per giustificare lo scambio di denaro gli informatori scientifici producevano false documentazioni che attestavano le somme per attività di consulenza o di studio, di contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipare a meeting internazionali. Tra gli indagati infatti c'è anche il titolare di una agenzia di viaggi. I reati contestati vanno dall'associazione a delinquere, alla corruzione, all'istigazione, alla corruzione, alla truffa in danno del Servizio Sanitario Nazionale, dal falso al comparaggio. Ormoni ai bambini in cambio di denaro.

Avrebbero prescritto farmaci ormonali, anche ai bambini, con dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche per ricevere denaro e regali dall'azienda farmaceutica Sandoz, che li avrebbe corrotti tramite gli informatori scientifici. Scrive “Il Corriere della Sera” il 17 ottobre 2012. Sono 67 i medici di ospedali pubblici e privati di Roma e tutta Italia indagati nell'operazione dei Nas "Do ut des" che ha fatto emergere un sistema di corruzione. Indagati anche dodici dirigenti e informatori farmaceutici della Sandoz, che si occupa della produzione di farmaci ormonali e per la crescita, e il titolare di un'azienda che organizza eventi. Tra i sanitari indagati, diversi pediatri ed endocrinologi che in molti casi, dietro la sollecitazione degli informatori, avrebbero aumentato le prescrizioni delle medicine con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. Per incrementare le vendite di alcune medicine, secondo le accuse, gli informatori scientifici avrebbero promesso somme di denaro, viaggi all'estero e diversi oggetti come iPad. Il tutto sarebbe stato giustificato con false fatture che attestavano l'elargizione di denaro per attività di consulenza o di studio, contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipazioni a meeting internazionali. I medici avrebbero ricevuto circa 500mila euro tra regali e denaro. In totale sono ottanta gli indagati, le accuse a vario titolo sono di associazione a delinquere, corruzione, istigazione alla corruzione, truffa ai danni del servizio sanitario nazionale, falso. In alcune circostanze i medici non avrebbero esitato ad aumentare le pretese al punto che alti dirigenti della Sandoz avrebbero incontrato personalmente i medici. Le 77 perquisizioni eseguite dai carabinieri del Nas di comandi provinciali in tutta Italia punteranno a verificare se le prescrizioni siano state appropriate per le patologie dei pazienti curati, proprio perché è emerso che ad alcuni bambini venivano prescritti dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche. «La speranza è che l'accusa sia infondata. Ma se è vero, sono sgomento e non posso che esprimere una forte condanna per una pratica che è fuori dalla legge e dall'etica - commenta Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di pediatria -. Rilevo con preoccupazione il continuo aumento del consumo degli ormoni della crescita, la cui unica indicazione terapeutica appropriata è per il trattamento del nanismo ipofisario, malattia rara». Invece l'uso di questi ormoni è piuttosto elevato «perché vengono adoperati dagli sportivi amatoriali per aumentare le loro prestazioni, e sono venduti anche su internet». Questi farmaci possono essere venduti solo dietro prescrizione medica e «in molte regioni, come Lazio e Lombardia, sono pochi i centri autorizzati che possono prescriverli. Quindi dovrebbe anche essere facile risalire a chi ne prescrive in eccesso». «Comportamenti di questo tipo vanno condannati e meritano il massimo grado di pena: questi presunti medici infatti andrebbero radiati dall'Ordine professionale e, in attesa della sentenza definitiva, almeno sospesi dall'esercizio della professione - chiede Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino -. Somministrare ormoni ai bambini in cambio di denaro è la negazione assoluta del compito che un medico dovrebbe svolgere, i danni per la salute sono incalcolabili, per questo - conclude - riteniamo che atteggiamenti di questo tipo non siano giustificabili e anzi vadano segnalati e puniti». Anche il Codacons chiede per i medici indagati la radiazione a vita. La Sandoz fa sapere di non essere stata contattata dalle autorità inquirenti e di non disporre di ulteriori informazioni rispetto a quelle riportate dalla stampa. «L'azienda non può escludere che tali attività siano riconducibili all'indagine avviata nel giugno 2011 dalla procura di Busto Arsizio - si legge in una nota -. Sandoz ha sempre collaborato pienamente con le autorità inquirenti nell'ambito dell'indagine di Busto Arsizio e ha adottato le più severe misure disciplinari nei confronti dei dipendenti coinvolti. L'azienda ha inoltre avviato nuovi ed ancora più stringenti controlli interni. L'indagine di Busto Arsizio è ancora pendente; pertanto per policy, Sandoz non rilascia commenti sui procedimenti ancora in corso».

Kankropoli - la mafia del cancro. Il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella di Alberto R. Mondini - A.R.P.C. Associazione per la Ricerca e la Prevenzione del Cancro. Meraviglioso! Non ho altre parole per descrivere questo capolavoro. Sull'argomento salute ho letto diversi libri, tutti, chi più chi meno scorrevoli e/o interessanti ma questo libro di Mondini mi ha colpito particolarmente sia per la semplicità, priva delle solite nomenclatura tecnico-scientifiche, ma soprattutto per l'immensa mole di informazioni che raccoglie. Documentazioni, testimonianze, interviste, ricerche che dimostrano senza ombra di dubbio e con prove inconfutabili l'esistenza di un establishment sanitario radicato e molto potente. Il dizionario definisce establishment come: "alta gerarchia di persone che difende la struttura tradizionale". Niente di più esatto. Una gerarchia, visto che stiamo parlando di cancro, composta dalle vette più alte della ricerca medica, delle multinazionali chimicofarmaceutiche che difende con tutti i mezzi leciti e non la ricerca ufficiale da qualsiasi "altra" ricerca pur se comprovata da risultati eccezionali e testimonianze ineccepibili. Questa voglia di proteggere gli interessi di pochi e le cattedre di altri, si scontra però con un grossissimo problema sociale: le persone continuano come non mai a morire di cancro! Dopo tutti questi anni di promesse, false illusioni, nuovi medicinali, ecc. qual è la situazione attuale? "I nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea". Non sono le parole di un medico eretico come Di Bella ma di un certo John C.Balair, professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei massimi esperti di oncologia del mondo. Ma allora ci hanno preso in giro per anni e anni? Perché quelle lusinghiere dichiarazioni attraverso i media da parte dei luminari della scienza? Che sia per tutti quei centinaia di milioni di euro che ogni anno ricevono per la ricerca? Mentre loro pensano come investire tutti questi soldi, abbiamo da una parte tantissime persone che muoiono, dall'altro una folta schiera di ricercatori indipendenti che a proprie spese e molto spesso rischiando la galera e la carriera se non addirittura la vita propongono metodi alternativi, economici e molto semplici dai risultati eccezionali. Perché quasi nessuno conosce Ricercatori, con la erre maiuscola, come Alessiani, Bonifacio, Zora, Hamer, Pantellini, Gorgun, e molti altri? Medici che propongono ognuno una cura diversa, ma che avevano in comune l'amore per la ricerca, quella vera, e centinaia se non migliaia di testimonianze positive, di guarigioni incredibili, di casi senza speranza per la medicina ufficiale che "miracolosamente" regrediscono. Per tutto questo come sono stati trattati dalla "scienza"? Be', i più "fortunati" come per esempio Di Bella sono stati boicottati, messi alla gogna, derisi pubblicamente, altri come Alessiani sono stati minacciati di morte, oppure radiati dall'albo dei medici come è successo ad Hamer. Potrei continuare a lungo in questa carrellata, ma concludo battendo le mani a Mondini e ringraziandolo per essere riuscito a condensare in un libro tutte le ricerche e le disavventure di questi grandissimi scienziati, colpevoli di aver scoperto metodi semplici, indolori, naturali, e purtroppo economici che mettevano e mettono tuttora a repentaglio gli enormi interessi che si nascondono dietro le malattie "cosiddette incurabili".

"Kankropoli" - La mafia del cancro. Alcuni anni fa la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell’immensità delle sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai, inoltre, l’inutilità e l’atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell’umanità di fronte al cancro non era disperazione, era sceso ancora più in basso, fino a una specie di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l’ARPC (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e, con questo strumento, di percorrere fino in fondo e a ogni costo la strada che avrebbe dovuto mettere fine alla malattia cancro. Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto, fantasia. Pertanto, in piena coscienza di tutti i pericoli e di tutte le responsabilità che tale atto comporta, ho deciso di rendere pubblico il materiale che ho raccolto. Queste sono le sconvolgenti conclusioni a cui portano i documenti contenuti in questo dossier (Kankropoli, la mafia del cancro, ARPC, Torino, 1997): Attualmente nella pratica corrente non viene usata alcuna terapia valida per i tumori. Esistono da anni efficaci ed economiche terapie e tecniche di diagnosi precoce ideate da geniali ricercatori spesso con scarsi mezzi economici. Esiste una precisa volontà intesa a impedire che esse vengano usate. Questa volontà viene attuata, contro questi ricercatori, con tutti i mezzi possibili, siano essi legali o illegali, quali indifferenza, privazione di fondi, calunnie, diffamazione, persecuzioni (queste sono le più usuali) professionali e giudiziarie, minacce di morte, omicidio. In queste azioni criminali sono coinvolte molte persone e organizzazioni che spesso ricoprono posti di potere, quali: uomini politici, magistrati, funzionari di forze di polizia, dirigenti di case farmaceutiche, alti funzionari statali della sanita`, medici, professori universitari, ricercatori, associazioni e tanti altri. Ovviamente la responsabilità di questi individui per questa situazione è ampiamente diversificata nei ruoli e nel grado. Alcuni di essi si prodigano attivamente con qualsiasi mezzo per mantenere l’attuale situazione di inguaribilità dei tumori perchè essa permette loro di usufruire di innumerevoli fonti di guadagno, tangenti comprese, che derivano dai vari aspetti con cui oggi si presenta quel colossale affare che è il cancro: la ricerca, la diagnosi, la terapia, le associazioni per la raccolta fondi, la produzione e la vendita di farmaci e di apparecchiature, gli ospedali, le università, il Servizio Sanitario Nazionale, ecc. Essi formano di fatto un’associazione a delinquere di dimensioni internazionali. Altri conoscono bene la situazione, ma tacciono per paura di perdere i loro privilegi. Infine altri ancora, (i più) credono che si stia facendo il massimo e il miglior sforzo per debellare questa malattia; pertanto assecondano e aiutano in completa fiducia ciò che viene imposto con segreta violenza.  Da L’Immensa Balla della Ricerca sul Cancro 

Alberto Mondini, Kankropoli, Recensione scritta da Mirror's Chest per DeBaser il 17 ottobre 2010. Umberto Veronesi una manciata d'anni fa dichiarò, dall'alto della sua incomparabile esperienza, che la via per sconfiggere il cancro si trova nella genetica. Niente "fattore ambientale", nessun fattore psicologico, l'inquinamento poi, un'invenzione bella e buona, sono soprattutto il basilico e la patata ad avere la maggior incidenza sulla salute delle persone: non ci vuole un genio per capire che in questo discorso c'è qualcosa di assolutamente perverso. Trovai quest'informazione per caso in uno spettacolo di Grillo (2005, beppegrillo.it, proiettato nella più casinara assemblea d'istituto di sempre), dove poi si spiega, neanche troppo velatamente, che i "timidi" riferimenti a quella che ormai è una realtà bella e buona erano stati taciuti per via di un lauto compenso fornitogli dalla FIAT, e quindi, citando American Beauty, "vendiamoci tutti l'anima e lavoriamo per Satana perché è più conveniente". Da lì in poi l'interesse per l'argomento scemò col tempo, sarà per la mia allora tenera età, sarà per la naturale inclinazione dell'uomo (naturale=indotta) alla pigrizia, fino a tempi relativamente recenti, in cui il tema della "malattia del secolo" è ritornato presente nella mia playlist quotidiana per un solo ed unico motivo: osservare come parenti, amici, conoscenti alla lontana e perfino vicini di casa da un giorno all'altro finiscono beatamente sotto terra. E se la pura esperienza personale può metterti seriamente alle strette per quanto riguarda dubbi, considerazioni e conflitti interiori, un libro del genere vi potrebbe letteralmente spolpare vivo dalla portata di informazioni che contiene. Citando l'incipit: "Cinque anni fa (1993) la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell'immensa quantità di sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai l'inutilità e l'atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell'umanità di fronte al cancro non era di disperazione, era sceso ancora più in basso, fino ad una sorta di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l'A.R.P.C. e, con questo strumento, di intervenire in prima persona per portare un contributo alla lotta contro i tumori. Non avendo legami con le case farmaceutiche, né con alcuna lobby o corporazione, avrei potuto agire liberamente e raccontare i fatti senza alcuna limitazione. Costi cancro nel 1998 in Italia (stimati per difetto): -Farmaci chemioterapici L. 40 mila miliardi - Tutto il resto (operazioni, esami, radioterapia, ricerca, ecc...) L. 40 mila miliardi - Totale L. 80 mila miliardi Moltiplicate queste cifre per il resto del mondo e otterrete somme paragonabili a quelle di una guerra planetaria. In questo tremendo affare sono coinvolte centinaia di migliaia di persone e potentissime organizzazioni internazionali. Pensate che rinuncerebbero facilmente ai loro lauti guadagni?" A buon intenditore poche parole, per tutti gli altri, dico solo che "Kancropoli" è un libro-inchiesta come pochi se ne sono visti negli ultimi anni sull'argomento, uno spietato resoconto su come morte, malattia, e di conseguenza cure medico-ospedaliere, trattamenti e investimenti rappresentino un business al pari di scarpe, macchine, frigoriferi, soltanto dal piccolo particolare di avere guadagni molto più lauti con entrate che raggiungono cifre da capogiro. Insomma, un business che va salvaguardato, preservato, tenuto sotto chiave e lontano da tutti quegli scienziati "cattivi" e le loro scoperte rivoluzionarie (e a basso costo) in grado di rivoluzionare in un baleno lo stesso concetto di malattia e salute. Esempi? Il semisconosciuto Alessiani, che riuscì a curare la moglie malata terminale attraverso una cura da lui stesso brevettata a costo pari allo zero, utilizzando humus e erbe particolari: su di lui ci sta una sentenza di morte da parte della procura Italiana. Il famosissimo Di Bella, radiato dall'albo, avvelenato diverse volte, che ha dovuto subire ritorsioni professionali, attentati, congiure belle e buone per aver scoperto una cura miracolosa contro tumori ed altre malattie attraverso la melanina. Per non parlare poi di S. Seçkiner Görgün, geniale medico Turco inventore tra l'altro di un cuore artificiale perfettamente funzionante da tipo 40 anni, o di "Albert", l'inventore del tanto miracoloso quanto sconosciuto BIOTRON, fino a tantissimi altri geni della medicina e della scienza consegnati all'anonimato più totale da un'elite invisibile che mangia sulla morte dei nostri cari e su milioni di altre persone in tutto il mondo. Non mi interessa se potrete pensarla come me o avere un'idea totalmente differente, le idee qui non c'entrano assolutamente niente, qui si parla di fatti, di dati, di interviste, di articoli, informazioni di un'importanza a dir poco vitale. Spegnete la televisione, fatevi un thé (stando attenti a che ci mettete dentro...) e dedicate una serata a questo libro, facilmente scaricabile in file .pdf a questo indirizzo.

La favola della ricerca sul cancro, scrive “Napoleta”. Sono ormai anni che siamo abituati al ripetersi di eventi gestiti da organizzazioni di ogni tipo per sostenere la tanta decantata ricerca sul cancro, la quale dovrebbe consentire di sconfiggere definitivamente in un futuro sempre più prossimo malattie come il cancro e il tumore. Ogni volta che sento di questi eventi, mi sembra di vivere nel mondo delle favole, alle quali tutti o quasi tutti credono senza un minimo di giudizio critico. Sarebbe sufficiente dare un'occhiata alle statistiche per vedere che da quando si fa ricerca sul cancro, non solo le malattie di questo tipo non sono diminuite affatto, ma sono aumentate in modo spaventoso quelle che già esistevano prima e ne sono venute fuori altre, anche queste in continuo aumento. Tali statistiche ovviamente non vengono mai mostrate, vengono tenute ben nascoste dalla mafia della Sanità italiana e internazionale, e quando si è costretti a tirarle fuori vengono alterate per fare in modo che la gente possa continuare a credere alla favola che un giorno il cancro sarà eliminato dalla lista delle malattie inguaribili che ci colpiscono. La favola non può che essere tale per ovvie ragioni. Il cancro e il tumore sono malattie che non vengono fuori per puro caso, ma sono causate principalmente dal modo in cui viviamo, mangiamo, respiriamo, pensiamo, ecc. In pratica, non si potrà mai eliminare tali malattie se continuiamo a inquinare l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il cibo che mangiamo, se continuiamo a nutrirci di alimenti tossici come la carne, i latticini e gli zuccheri, se continuiamo a vivere in modo esclusivamente materialistico, pensando solo ad accaparrare quanto più denaro possibile anche a costo di danneggiare il prossimo, se continuiamo a non capire che l'uomo vive in base al principio di semina e raccolta e che se continua a seminare male non può che raccogliere male, se continuiamo ad avere una fede cieca (ovvero non basata sull'esperienza personale) in un Essere Divino, alimentata semplicemente da religioni piene di regole e dogmi privi di ogni fondamento e utilità che servono solo a creare fedeli schiavi di istituzione di potere lontanissime dall'Essere Divino che dicono di rappresentare, se continuiamo a credere che l'uomo sia composto solo dal corpo fisico e ignoriamo gli altri corpi che lo compongono (il corpo astrale, quello eterico e l'ego), anch'essi fondamentali nel sorgere delle malattie, allora la favola della lotta al cancro resterà sempre una favola. Sostenere il business della ricerca sul cancro serve solo a far arricchire medici e scienziati ignoranti e senza scrupoli. Più mi rende conto di ciò con la mia esperienza personale, è più noto come viviamo davvero in un mondo della favole, per la creazione del quale i mezzi di informazione hanno un ruolo fondamentale. Tutto ciò che viene fuori da essi viene ingerito ormai acriticamente, si crede ormai davvero a tutto!! In occasione di questi eventi, ecco una serie di personaggi famosi della scienza, dello sport, dello spettacolo, e anche della cosiddetta cultura, che si impegnano come matti per sponsorizzarli, con quei visi contenti e allegri, che lasciano trasparire l'ignoramento della verità e l'illusione di aver fatto una buona azione per cui essere considerati grandi. L'evento che più mi viene alla mente è quello delle 30 ore per la vita, in cui una marea di personaggi dello spettacolo e della "cultura" si alternano raccontando in pratica 30 ore di favole. Ecco quindi una valanga di miliardi regalati alla mafia sanitaria, che può così continuare a fare i propri interessi anziché quelli di chi la sostiene. Mi chiedo perché tutti questi personaggi prima di fare una cosa del genere non si informano un po' su cosa stanno sostenendo, perché non danno un'occhiata alle statistiche, perché non vanno nei laboratori dove si fa ricerca per vedere le inutili atrocità alle quali sono sottoposti gli animali su cui vengono fatti gli esperimenti. È ovvio che se non lo fanno loro, che in teoria dovrebbero essere quelli più informati, figuriamoci se possono farlo coloro che in occasione di tali eventi fanno di tutto per acquistare una piantina, un sacco di arance, o un qualsiasi oggetto sfruttato per far soldi da destinare alla ricerca del nulla. Anche loro con le belle faccine allegre e contente, dopo averlo fatto se ne tornano nelle loro case mostrando a tutti il loro acquisto, raccontando la "grande" azione appena compiuta al primo che incontrano, magari spingendo anche lui a farlo, spesso regalandolo a qualche persona cara, e credendo con l'acquisto di aver contribuito ad un mondo migliore, che ovviamente non ci sarà mai. La vita non è una favola, è una gran cosa in cui niente avviene per caso e che noi non comprendiamo ormai più e comprenderemo sempre meno con il passare del tempo. Nell'articolo riportato di seguito, si può notare come le cose che ho detto non sono frutto di strane idee che vengono fuori dalla mia testa. Se è un medico di fama internazionale ad affermare che la ricerca sul cancro è stata fino ad oggi un completo fallimento, credo proprio che non possa che essere così. La mia unica speranza, e purtroppo credo resterà solo una speranza, è che sempre più gente si renda conto della verità, si svegli dal mondo dei sogni in cui vive, e smetta di sostenere una cosa meschina come la ricerca sul cancro.

La ricerca ufficiale sul cancro. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini. Iniziamo a vedere cosa realmente viene fatto a chi OGGI si ammala di cancro. Nella stragrande maggioranza dei casi si usano, dove è possibile, unicamente tre metodi: l'asportazione chirurgica, la chemioterapia e l'irradiazione. Il primo rimedio è del tutto inutile, perché il tumore non è che lo stadio finale e più visibile di una situazione patologica che coinvolge tutto l'organismo. Per tanto, dopo l'asportazione, la recidiva è quasi la regola, in quanto le difese immunitarie del paziente saranno ulteriormente indebolite dal trauma delle ferite, dall'intossicazione dell'anestesia, dagli antibiotici e dagli altri medicinali. Gli altri due metodi si basano sul fatto che le cellule cancerose sono più deboli di quelle sane, pertanto, sotto l'azione di veleni o di radiazioni ionizzanti, sono le prime a morire. Questa constatazione porta però a una delle pratiche più insensate della storia della medicina: avvelenare ed irradiare il paziente per guarirlo! Anche la persona meno informata, riesce a comprendere che guarigione significa miglioramento della salute. Nessuno pensa che l'inquinamento, gli esperimenti atomici o l'incidente di Chernobyl siano i provvidenziali vantaggi dei nostri tempi per mantenerci sani. Nei fatti, anche con la chemioterapia e l'irradiazione, dopo un iniziale, apparente successo, il malato, con il sistema immunitario massacrato, indebolito nel corpo e nella mente, svilupperà generalmente in breve tempo un nuovo tumore, questa volta ancor più difficile da curare. Eppure, specialmente negli ultimi mesi, in occasione dei vari dibattiti sulla cura Di Bella, avrete sentito fior di luminari, illustri primari, grandi ricercatori, sostenere che le critiche alle attuali terapie oncologiche non hanno ragione di esistere, che la medicina ha fatto enormi passi in avanti, che le percentuali di guarigione sono già nell'ordine del 50% e che tale percentuale è in fase di crescita. In conclusione, la medicina sta facendo il proprio dovere ed i soldi assegnati alla ricerca hanno dato i frutti sperati. Vediamo ora quali sono, in realtà, i grandi progressi che da alcuni anni la scienza sta compiendo nel campo della lotta ai tumori. Riunione del settembre 1994 del President's Cancer Panel: "Tutto sommato, i resoconti sui grandi successi contro il cancro, devono essere messi a confronto con questi dati" aveva detto Balair, indicando un semplice grafico che mostrava un netto e continuo aumento della mortalità per cancro negli Stati Uniti dal 1950 al 1990. "Torno a concludere, come feci sette anni fa, che i nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea. Grazie". Chi è questo personaggio che esprime idee così eretiche, un medico alternativo? Un ciarlatano come è stato definito Di Bella? Un guaritore che approfitta dei poveri malati? Uno che non conosce le percentuali di guarigione? Purtroppo per loro, niente di tutto questo. Risulta difficile definire ciarlatano o incompetente, John C. Balair III, insigne professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei più famosi esperti di oncologia degli Stati Uniti e dell'intero pianeta. Non parlava del resto ad una platea di sprovveduti; il President's Cancer Panel è nato in conseguenza del National Cancer Act, un programma di lotta contro il cancro, firmato dal presidente americano Richard Nixon il 23 dicembre 1971 e per cui si sono spesi fino al 1994 ben 25 miliardi di dollari. I dati relativi alla situazione delle lotta al cancro vengono forniti direttamente al Presidente degli Stati Uniti. La conclusione principale di Balair, con cui l'NCI (National Cancer Institute) concorda, è che la mortalità per cancro negli Stati Uniti è aumentata del 7% dal 1975 al 1990. Come tutte quelle citate da Balair, questa cifra è stata corretta per compensare il cambiamento nelle dimensioni e nella composizione della popolazione rispetto all'età, cosicché l'aumento non può essere attribuito al fatto che si muore meno frequentemente per altre malattie. La mortalità è diminuita per tumori quali quelli del colon e del retto, dello stomaco, dell'utero, della vescia, delle ossa, della cistifellea e dei testicoli. La mortalità per cancro nei bambini si è quasi dimezzata fra il 1973 e il 1989, in gran parte grazie alle migliori terapie. Tuttavia, dato che i tumori infantili erano comunque rari, questo miglioramento - e quello più lieve registrato nei giovani adulti - ha avuto solo un effetto assai ridotto sul quadro generale. In totale, gli incrementi della mortalità per cancro sono circa il doppio delle riduzioni. Edward J. Sondik, esperto di statistica dell'National Cancer Institute, sostiene che vi sarebbe un aumento di oltre il 100% dei casi di cancro al polmone nelle donne fra il 1973 e il 1990. Anche il melanoma e il cancro alla prostata hanno avuto incrementi considerevoli, di oltre l'80%, in quel periodo. Sondig ha concluso che l'incidenza totale del cancro è aumentata del 18% fra il 1973 e il 1990. "Nessun esperto del settore può continuare a credere che dietro l'angolo vi sia necessariamente tutta una serie di magnifiche terapie contro il cancro in attesa di essere scoperte" asserisce Balair ribadendo di averne abbastanza della continua sfilata di notizie sensazionali che fanno credere che una cura risolutiva stia per essere messa a punto. Le chemioterapie esistenti, nonostante i progressi, sono ancora armi a doppio taglio. Alcuni dei trattamenti per il linfoma e la leucemia inducono altri tumori, dopo il completamento della terapia per la malattia originaria....Non notate una leggera disparità tra i dati che avete letto ora e le statistiche trionfalistiche che avete sentito dai famosi clinici italiani? Forse può dipendere dal lasso di tempo intercorso, in fondo questi dati risalgono al 1993, magari la situazione è notevolmente migliorata. Vediamo allora cosa afferma Balair nel 1997 su New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste mediche a livello mondiale. "La guerra contro il cancro è lontana dall'essere vinta. L'efficacia dei nuovi trattamenti contro sulla mortalità è molto deludente". Il Giornale – Inchiesta sul cancro n°1

Se non siete ancora convinti, o semplicemente desiderate ulteriori dati, eccone altri due. Il primo è la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l'Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di Cancerologia, presso l'Università di Barkeley. Oltre a denunciare l'uso di statistiche falsificate, egli prova che i cancerosi che non si sottopongono alle tre terapie canoniche sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones, le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali, mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da colore che si sono invece sottoposte alle cure complete. Il secondo caso riguarda uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi, pubblicato su una delle più importanti riviste mediche al mondo: The Lancet del 13/12/1975 e che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini.

DOVE FINISCONO LE VOSTRE OFFERTE. Scrive “La Leva”. Un episodio molto interessante è la situazione che emerge da un articolo pubblicato su La Stampa nel 1994 (Ombre sulla Lega Tumori. "Fa affari, non prevenzione" p. 13). Il soggetto in questione, in questo caso, è la Lega Tumori, una di quelle associazioni che non incontrano difficoltà a reperire fondi pubblici e privati, disponibilità di personale medico e non, sponsor e benefattori, con la motivazione della necessità di sostenere la ricerca contro il cancro. Ebbene il sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, bocciò il bilancio di previsione '93 della Lega Tumori, sostenendo una grave accusa: più del 90% delle spese non veniva destinato alla ricerca o alla cura dei tumori, ma all'investimento immobiliare e mobiliare. L'accusa dell'onorevole Fiori, veniva supportata da cifre di per sé eloquenti: la sede centrale aveva destinato una minima parte dei mezzi finanziari di cui disponeva, al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, equivalenti a 810 milioni (nemmeno un miliardo!), mentre ben 9.360 milioni (quasi 10 miliardi!) sarebbero stati spesi per investimenti patrimoniali. Fiori sottolineava che la Lega Tumori "tiene in piedi un'organizzazione che assorbe costi amministrativi ammontanti a circa 2 mila milioni, dedita per la maggior parte ad investire in operazioni finanziarie, consistenti in prevalenza in acquisto o rinnovo di titoli di Stato". Una terapia veramente innovativa per la cura del cancro, la speculazione in titoli! Bocciati come benefattori, non sembrano abili neppure come amministratori, poiché, da un cospicuo patrimonio immobiliare, riuscivano ad ottenere un rendimento annuo di soli 3 milioni. L'onorevole Fiori ha evidenziato nell'analisi che erano ben 745 i milioni di interessi attivi che la Lega Tumori era riuscita a raggiungere in un anno. Gli altri dati, come per esempio i 2,3 miliardi di immobilizzazioni tecniche ed i 10,1 miliardi di partecipazioni e valori mobiliari, comprovano la validità delle accuse mosse dal parlamentare. E dimostrano in quali amorevoli mani sia, in realtà, affidata la cura dei malati di cancro! Se dopo tutto questi fatti, che purtroppo riguardano anche altri Paesi, ci soffermiamo a confrontare i dati forniti dall'americano N.C.I. ed i finanziamenti investiti inutilmente in tutti questi anni, ne segue una valutazione immediata: non hanno ragione d'essere le lamentele di Garattini sugli scarsi finanziamenti, perché meglio sarebbe per lo Stato italiano, non solo non stanziare più di quanto non abbia già fatto finora, ma anzi esigere un reale, quanto dettagliato e costante resoconto pubblico del procedere delle ricerche e dei risultati conseguiti. Sembra però alquanto difficile pensare che possa prendere una simile decisione uno Stato succube delle multinazionali farmaceutiche. Non pare azzardata l'ipotesi di chi sospetta che, in tutta questa attività di millantata pubblica (?) utilità, ci sia quanto meno una parvenza di interesse privato. Soprattutto alla luce di alcune affermazioni che sono state fatte dalla Guardia di Finanza di Roma, quando ha scoperto persino un'intensa attività di sperimentazione clinica negli ospedali della capitale su pazienti ricoverati. Il Coordinamento per i Diritti dei Cittadini ha infatti rimarcato come "uno degli aspetti più inquietanti sarebbe quello che riguarda i finanziamenti da parte delle case farmaceutiche alle strutture pubbliche che, come prevede la legge, pagano le spese delle sperimentazioni cliniche, oltre al fatto che la ricerca è sostanzialmente orientata solo su quei prodotti che possono garantire un vasto mercato" (L'Indipendente, 19 marzo 1996). Che dire della Francia, dove la Lega nazionale contro il cancro è stata accusata di manipolazioni finanziarie, vedendo coinvolti il presidente ed alcuni ricercatori? I finanziamenti della Campagna nazionale, vanno dai 60 ai 500 franchi francesi per persona, fino alle centinaia di milioni di franchi che pervengono dai suoi tre milioni di aderenti, cittadini in buona fede, ma evidentemente male informati, che credono davvero di contribuire alla vittoria sul cancro con un'offerta, oltre tutto deducibile dalle tasse. Il presidente incriminato è Jacques Crozemarie, dottore honoris causa di una sconosciuta facoltà americana di Charleston, per giunta consigliere della Direzione generale del CNRS per la Ricerca sul cancro. Questa persona ha incassato in tre anni, dal '90 al '93, dai 600 ai 700 mila franchi annui, a titolo di onorario, da una società americana di New York, la Andara, la cui presidente è socia del presidente di un'altra società, che fornisce la carta all'ARC per le sue pubblicazioni, ora sotto inchiesta della Corte dei Conti francese. Ancora più interessante risulterebbe il fatto che il sovvenzionatore di Crozemarie, risulti essere un recapito postale, senza alcuna attività alle spalle (Orizzonti della Medicina, n. 67, giugno 1996, p. 8). Ed ecco le dichiarazioni di Ivan Cavicchi, a quel tempo coordinatore del settore Sanità della Cgil, apparse su Panorama del 14 novembre 1993 e riferite dalla pubblicazione Flash-News n° 41, in cui afferma quanto segue: "Un sistema marcio e corrotto, di cui Poggiolini era solo il guardaportone. Qui c'è la complicità dei ministri De Lorenzo in testa, ma anche del Consiglio Superiore della Sanità, dei luminari del Comitato bioetico, dei professori foraggiati dall'industria farmaceutica: un'intera organizzazione finalizzata a fare soldi sulla pelle dei cittadini". Parole pesanti come macigni; ci aspettavamo delle smentite o delle querele. In effetti Cavicchi non è più responsabile del settore: è stato promosso, è passato alla Farmindustria!

Il business delle malattie. Quando il denaro governa la coscienza, scrive il 28/11/2013 "Mediatime”. Vi siete mai chiesti come mai, dopo molti anni di investimenti dedicati alla ricerca scientifica, siamo ancora lontani dall’eliminazione di molte malattie? Il nostro modello sanitario è davvero affidabile oppure è maggiormente interessato ad incrementare i malati lucrando sulla vendita dei medicinali? Sicuramente molte vite umane sono state salvate dalla medicina ufficiale, anche se sappiamo che purtroppo, nella maggior parte delle patologie più gravi, i farmaci imposti dalle grandi industrie farmaceutiche servono a ben poco e in diversi casi danneggiano il nostro organismo. Come tutti sanno i medicinali non eliminano il problema, ma ne riducono i sintomi, spesso in maniera troppo aggressiva. Quante volte entrando in una farmacia vediamo persone in fila, come se fossero alla cassa di un supermercato, intenti a fare acquisti anche per malesseri banali… Non a caso il potere dell’industria farmaceutica fa leva proprio sulla produzione e la vendita di medicinali per curare malattie a volte persino inventate, come alcune particolari epidemie cosiddette “di tendenza”. Purtroppo non sono state del tutto smentite le voci che riguardano l’introduzione di sostanze cancerogene contenute in alcuni vaccini. Non è difficile pensare che le società farmaceutiche si arricchiscano anche inventando epidemie per vendere vaccini. Tutto questo sembrerebbe fantascienza, non è vero? Magari lo fosse. Il dominio sulla politica. Oggi si evidenzia sempre più l’influenza delle industrie farmaceutiche sulla politica, al fine di bloccare l’accesso ai rimedi naturali, caratterizzati da una letalità nulla e dal merito di aver salvato diverse persone, a differenza dei famaci ufficiali, spesso nocivi. Si potrebbero citare vari esempi, come quello di una nota azienda che, negli anni Ottanta, attraverso un altrettanto conosciuto e diffusissimo farmaco (purtroppo non possiamo fare il nome per ovvi motivi), provocò molti morti vendendo medicinali con un elevato potenziale di contagio dell’AIDS”, poiché sviluppati utilizzando il plasma di donatori portatori di HIV. Alcune di queste testimonianze sono state riportate in varie autorevoli testate giornalistiche, tra cui il Sydney Morning Herald, nel 203 e la CBS, nel 2009. Riguardo a questo, la nota emittente televisiva MSNBC ha trasmesso un video che accusa la stessa casa farmaceutica senza mezzi termini. Controllo nei mass media. Queste lobby agiscono anche influenzando i mezzi di informazione. I cittadini indifesi ogni giorno vengono bombardati da notizie terribili, sapientemente filtrate: disgrazie, attentati terroristici, calamità naturali, truffe, ecc. Nel mondo accadono anche molti episodi lieti, positivi; ma purtroppo non fanno notizia. Lo scopo principale è quello di creare, nel tempo, ansie e preoccupazioni tali da indurre i fruitori dell’informazione ad ammalarsi. Una sorta di suggestione collettiva, che colpisce prevalentemente persino quelle persone convinte di essere sveglie e vigili, ma in realtà facilmente influenzabili dai media e dall’opinione pubblica. Le malattie di origine psicosomatiche sono all’ordine del giorno e spesso diventano persino letali. Il vero guadagno dell’industria farmaceutica sta essenzialmente sulle cure contro il cancro. Se da un lato la chemioterapia risulta, senza ogni minimo dubbio, nociva per l’intero organismo umano, dall’altro rappresenta inequivocabilmente il più potente business. Al di là dei costi dei medicinali chemioterapici, in alcuni casi gratuiti grazie al Servizio Sanitario Nazionale, il costo per lo Stato è altissimo, decine di migliaia di euro a ciclo, da ripetere più volte. Vanno anche considerati i farmaci e i trattamenti addizionali per combattere gli imponenti effetti collaterali. Inoltre un paziente che ha subito una chemioterapia nella maggior parte dei casi avrà bisogno per tutta la vita di farmaci di mantenimento. Un’altra forma di manipolazione si verifica attraverso il controllo dell’alimentazione, anch’essa causa di molte malattie. Una cattiva informazione sulle reali proprietà di alcuni alimenti possono, nel tempo, indurre ad abitudini alimentari nocive. Oggi si parla molto di alimenti biologici. Ma chi certifica queste qualità sui cibi che troviamo nei negozi e supermercati? Non tutti sanno che dietro queste istituzioni-commissioni, si cela sempre il monopolio delle società farmaceutiche. Non stupiamoci allora se poi veniamo a scoprire che molti dei cibi in apparenza biologici siano stati trattati, nelle varie fasi del processo di produzione, con diversi additivi nocivi, non naturali. Sembrerebbe inoltre che la politica dalle industria farmaceutica sia costretta a ridicolizzare le varie cure alternative: non sempre risolutive ma in alcuni casi efficaci e sicuramente prive di effetti collaterali, tipici invece dei farmaci convenzionali. Aleggia sempre un aspro paradosso che fa riflettere: molti per curarsi dal cancro, vengono uccisi dai devastanti effetti della chemioterapia. Possibile che la medicina ufficiale non investa anche in ricerche orientate sulle cure alternative? Evidentemente, in caso di successo, il business verrebbe a mancare. L’ambiguità nei confronti dei farmaci naturali. Anche in virtù del fallimento riguardo l’efficacia della medicina ufficiale e alla preoccupante crescita delle patologie cronico-degenerative, sempre più persone nel mondo si sono avvicinate ai farmaci naturali. L’Italia è uno dei principali mercati europeo per i medicinali omeopatici. Una curiosa contraddizione è quella di considerare, da parte della medicina ufficiale, i prodotti omeopatici come NON farmaci, addirittura paragonandoli all’acqua fresca. Allora perché L’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, pretende tutte le analisi, come se fossero veri e propri farmaci, tra l’altro costosissime e tutte a carico dei produttori, molti dei quali costretti, di conseguenza, a chiudere? E’ ovvio che questo sistema industriale, pur di ottenere i risultati necessari, è costretto a ostacolare lo sviluppo della scienza sperimentale e clinica. Non approfondiamo inoltre gli svariati episodi di corruzione nei confronti di medici onesti ed istituzioni sanitarie. Un Premio Nobel dimenticato. Forse seconde questa filosofia industriale della medicina ufficiale dovremmo persino dimenticarci della storia: nel 1931 un prestigioso Premio Nobel per la medicina venne assegnato a Otto Heinrich Warburg, per la prevenzione del cancro. Il “difetto”, se così possiamo chiamarlo, di questa sorprendente tesi, avvalorata da un riconoscimento ufficiale, sta forse nel fatto che ai giorni d’oggi all’industria del settore la prevenzione del cancro a costo zero non porta fatturati interessanti? Fanno discutere persino alcune affermazioni della cosiddetta comunità scientifica quando ribadiscono l’assenza di prove riguardo alcune metodologie alternative: in realtà le prove ci sarebbero, ma non vengono ufficializzate sempre per il solito motivo. Purtroppo il denaro governa anche la coscienza. Alla luce dei milioni di decessi avvenuti negli anni, utilizzando diversi farmaci nocivi, sarebbe inevitabile rivalutare con più serietà e meno ipocrisia, nelle cure mediche, l’uso di rimedi naturali rispetto a quelli sintetici: la posta in gioco è la vita o la morte dell’umanità.

Intervista a Linus Pauling del 2/10/2016 di Marcello Pamio su "disinformazione.it": “la ricerca sul cancro non esiste. E’ una truffa”.

D: Dottor Pauling, lei è l’unico scienziato al mondo ad aver ricevuto ben due Premi Nobel per categorie diverse: quali sono queste categorie?

R: Ho ricevuto il Premio Nobel per la Chimica nel 1954, e per la Pace nel 1962.

D: Nonostante i numerosi studi, pubblicazioni e ricerche, ha avuto persino il tempo per codificare la cosiddetta «medicina ortomolecolare». Ci può spiegare cos’è?

R: Ho coniato il termine «medicina ortomolecolare» per indicare il mantenimento della buona salute e il trattamento delle malattie attraverso la variazione della concentrazione di sostanze che sono generalmente presenti nel corpo umano e sono necessarie per la salute. Per la Vitamina C, credo che il trattamento di una malattia attraverso il ricorso a sostanze che, come, l’acido ascorbico, sono normalmente presenti nel corpo umano e necessarie alla vita, sia da preferirsi a un trattamento che comporti il ricorso a potenti sostanze sintetiche o a estratti delle piante che possono avere, e generalmente hanno, effetti collaterali indesiderabili. L’uso terapeutico di grandi quantità di vitamine, che viene chiamato «terapia megavitaminica», è un procedimento molto importante nella medicina ortomolecolare.

D: Quindi lei sostiene l’importanza delle vitamine nella terapia di moltissime malattie: cosa ci può dire a proposito della Vitamina C?

R: La Vitamina C rafforza i naturali meccanismi di difesa, in particolar modo del sistema immunitario e aumenta l’efficacia degli enzimi nel catalizzare le reazioni biochimiche. E’ necessaria per le reazioni vitali di idrossilazione, in particolare nell’ormone adrenalina e nella sintesi della molecola del collagene. Il collagene è una delle più abbondanti proteine presenti nel corpo che va a costituire il tessuto connettivo (la materia plastica naturale del corpo: cartilagini, tendini, vasi sanguigni, ecc.). Un’elevata assunzione di Vitamina C aiuta a controllare molte malattie: non solo il comune raffreddore, ma anche altre, virali e batteriche, come l’epatite, e altre ancora, assolutamente non correlate fra loro, come la schizofrenia, i disturbi cardiovascolari e il cancro. Il dott. Claus W. Jungerblut, dell’Università della Columbia, nel 1935 riferì che la Vitamina C ad alte dosi rende inattivo il virus della poliomielite, dell’herpes, del vaiolo bovino e quello dell’epatite. Non solo, la Vitamina C rende inattivi pure i batteri e le loro tossine (difterite, stafilococco, dissenteria, ecc.)

D: Uno dei problemi più seri della nostra società sono le malattie cardiovascolari. Nonostante l’immenso bagaglio farmaceutico messo a disposizione dalle corporazioni della chimica, ogni anno muoiono moltissime persone nel mondo. In questo caso la Vitamina C può essere d’aiuto, oppure no?

R: Le patologie cardiache costituiscono la principale causa di morte nei paesi industrializzati. Sono convinto che il tasso di mortalità relativo a queste patologie a ogni età potrebbe essere diminuito in maniera notevole, probabilmente ridotto a metà, attraverso un uso appropriato della Vitamina C.

D: Viste le proprietà eccezionali di questa vitamina, non capisco perché le case farmaceutiche non s’interessano della Vitamina C! O meglio, so bene qual è il motivo, ma vorrei sentire la sua opinione!

R: La mancanza d’interesse delle multinazionali risiede nel fatto che la Vitamina C è una sostanza naturale che è disponibile a bassi costi e che non può essere brevettata! Proprio come pensavo. Sempre la solita minestra: una sostanza, nonostante le proprietà terapeutiche, non viene presa in considerazione dalle corporazioni della chimica se non produce ritorni economici enormi.

D: Dottor Pauling, la RGR della Vitamina C (Razione Giornaliera Raccomandata) consigliata dal ministero dell’Alimentazione e della Nutrizione è di 60 milligrammi al giorno. Lei invece parla di svariati grammi al giorno…

R: Le RGR relative alle vitamine, sono le dosi che hanno la probabilità di prevenire nelle persone «di salute normalmente buona» la morte per scorbuto, beri-beri, pellagra, o altre malattie da carenza vitaminica, ma non sono le dosi che fanno acquistare alla gente uno stato ottimale di salute. Per un essere umano, 2300 milligrammi (2,3 grammi) al giorno di acido ascorbico sono inferiori al tasso ottimale di assunzione di questa vitamina. Da numerosi studi risulta che l’assunzione ottimale di Vitamina C per un essere umano adulto varia da 2,3 grammi a 10 grammi al giorno. Le differenze biochimiche individuali sono tali che, su una vasta popolazione, il tasso di assunzione può essere incluso tra i 250 milligrammi e i 20 grammi, o anche più, al giorno.

D: Ma dosi così elevate non sono pericolose per la salute?

R: L’acido ascorbico nella letteratura medica è descritto come «virtualmente non tossico». Alcune persone hanno ingerito dai 10 a 20 grammi di Vitamina C al giorno per 25 anni senza che si producessero calcoli renali o altri effetti collaterali. Un ammalato di cancro ne ha presi 130 grammi al giorno per 9 anni, ricavandone beneficio. Non è mai stato segnalato alcun caso di morte per una ingestione massiccia di acido ascorbico e neppure alcuna malattia seria.

D: Ma non basta la Vitamina C contenuta negli alimenti?

R: Il ricercatore Irwin Stone, nel 1965, rilevò che gli esseri umani e altri primati come la scimmia rheus, non sanno sintetizzare la Vitamina C e la richiedono come vitamina integrativa. Una volta che una specie ha perso tale capacità di produrla autonomamente, essa dipende, per la sua esistenza, dalla possibilità di trovarla nel cibo a disposizione. Però, visto che la maggior parte delle specie animali non hanno perso questa capacità (ad esclusione dell’uomo), significa che la quantità di acido ascorbico generalmente presente nel cibo non è sufficiente a fornire la dose ottimale.

D: Quindi se ho capito bene: l’uomo, avendo perso la capacità di sintetizzare la Vitamina C autonomamente, necessità di un apporto esterno attraverso il cibo. Ma il cibo non è ricco a sufficienza per soddisfare questo fabbisogno! Come possiamo allora integrare l’acido ascorbico?

R: La Vitamina C, o acido ascorbico, è una polvere bianca cristallina che si scioglie in acqua. La sua soluzione ha un sapore acido, che ricorda quello dell’arancia. Essa può essere assunta oralmente, anche sotto forma di sali dell’acido ascorbico, in particolare come ascorbato di sodio e ascorbato di calcio. Tuttavia solo questi ultimi due, che sono sali, possono essere iniettati per via endovenosa, poiché diversamente la soluzione acida danneggia le vene e i tessuti.

D: Lei ha criticato molto lo zucchero, come mai? Ci sono evidenze scientifiche della sua pericolosità per la salute?

R: Da numerosi studi siamo portati a concludere che gli uomini che ingeriscono molto zucchero corrono rischi di gran lunga maggiori di ammalarsi di cuore, in un’età variante fra i 45 e i 65 anni, rispetto a quelli che ne ingeriscono quantità inferiori. L’incidenza di malattie coronariche, inclusa l’angina pectoris, va di pari passo con l’aumentato consumo di zucchero, e non è affatto correlata con il consumo di grassi animali o dei grassi in genere. Il metabolismo del saccarosio (zucchero) produce al primo stadio uguali quantità di glucosio e di fruttosio. Il glucosio entra direttamente nei processi metabolici che forniscono l’energia alle cellule del corpo, il metabolismo del fruttosio invece procede in parte per una direzione diversa, che prevede la produzione di acetato, precursore del colesterolo che sintetizziamo nelle cellule del fegato. In uno studio clinico della massima serietà, è stato dimostrato che l’ingestione del saccarosio porta a un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue.

D: Per concludere, qual è la sua ricetta, se ne ha una, per stare bene e vivere a lungo?

R: Ecco i punti fondamentali del regime:

1) INTEGRARE L’ALIMENTAZIONE CON NOTEVOLI QUANTITÀ DI VITAMINA C (DA 6 A 18 GRAMMI), VITAMINA A, E, B.

2) ASSUMERE MINERALI (CALCIO, FERRO, RAME, MAGNESIO, ZINCO, CROMO, SELENIO, ECC.)

3) RIDURRE L’ASSUNZIONE DI ZUCCHERO

4) MANGIARE CIÒ CHE PIACE, MA IN MANIERA MODERATA

5) BERE MOLTA ACQUA E POCHI ALCOLICI

6) FARE ATTIVITÀ FISICA

7) NON FUMARE

8) EVITARE OGNI FORMA DI STRESS

La caratteristica principale rimane comunque l’apporto di vitamine, soprattutto di Vitamina C!

Cancro “incurabile”, il business infinito della chemioterapia, scrive il 22/10/15 "Libreidee". Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistemagli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari». Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistema gli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari».

Beneficenza, fondi Airc: alla ricerca solo la metà. Più di 90 milioni di entrate nel 2008, ai laboratori destinati 45 milioni e mezzo L’anno scorso quasi 23 milioni dirottati verso fondi di investimento e obbligazioni. Viaggio nel lato oscuro della beneficenza, scrive Stefano Filippi, Giovedì 13/08/2009, su "Il Giornale". La sigla è una delle più conosciute dalle famiglie italiane: Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro. È il male del secolo, ed è una malattia ancora oscura. I fondi da investire negli studi non sono mai abbastanza. E la macchina per raccogliere denaro è enorme. L’associazione ha una lunga storia alle spalle: nacque nel 1965 da una costola dell’Istituto dei tumori di Milano. Conta su un milione 700mila soci in tutta Italia che ne confermano la vastissima fiducia. Ha l’appoggio di testimonial famosi (attori, campioni dello sport, intellettuali) che invitano a fare testamento a favore della ricerca. Un nome di spicco della medicina italiana, quello dell’oncologo Umberto Veronesi, senatore ed ex ministro, è garanzia di serietà. Lo staff è composto da un comitato tecnico-scientifico che vigila sull’impiego dei fondi e un gruppo di 250 scienziati stranieri che valuta i progetti di ricerca. Numerosi imprenditori di successo arricchiscono la composizione dei 17 comitati regionali. Un parterre consolidato di grandi aziende (Rai e Mediaset, Intesa e Unicredit, Tim e Vodafone, Starwood ed Esselunga) assicurano stabilità nel tempo. Gli ultimi due spot istituzionali sono firmati dal regista Ferzan Ozpetek e hanno come protagoniste Isabella Ferrari e Valeria Golino. Le iniziative promozionali entrano in tutte le case italiane: l’Azalea della ricerca, le Arance della salute, la Giornata nazionale. E ancora feste, mercatini, concerti, pubblicazioni scientifiche. E soprattutto l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), fondato nel 1998 dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, un centro di studio e ricerca non profit ad alta tecnologia. Dare soldi all’Airc è come metterli nel salvadanaio regalato dai nonni: sono al sicuro. Un nome, una garanzia. Infatti l’associazione raccoglie una montagna di denaro: nel 2008, informa il bilancio appena pubblicato, sono arrivati 90.542.066 euro dall’attività di raccolta fondi. Arance e azalee, quote associative e bollettini postali, auguri e donazioni hanno fruttato 58 milioni e rotti di euro cui si aggiungono oltre 32 milioni dal 5 per mille. Per avere dei paragoni, Actionaid ha proventi per 44 milioni di euro, Telethon 30 milioni, Emergency 22 milioni, Telefono azzurro 7 e mezzo. Ma quanti di questi denari raccolti finiscono effettivamente ai ricercatori che devono sconfiggere il cancro? La risposta, contenuta nel medesimo bilancio, è sorprendente: poco più della metà. Nel 2008 l’Airc ha destinato 43.892.390 euro (il 48,5 per cento) a «progetti di ricerca, borse di studio e interventi vari», altri 1.146.497 euro (1,3 per cento) ad «attività istituzionale d'informazione scientifica “Notiziario fondamentale” e sito internet», infine 577.339 euro (0,6 per cento) ad altre attività istituzionali. In totale, l’«attività istituzionale di sviluppo della ricerca oncologica e informazione scientifica» è costata all’Airc 45.616.226 euro: il 50,4 per cento delle somme raccolte presso gli italiani. Percentuale che scenderebbe al 49,4 se, invece che limitarsi ai fondi donati, considerassimo il totale dei mezzi disponibili (raccolta fondi più proventi finanziari). E l’altra metà della mietitura, dove finisce? È una ricostruzione complessa. Raccogliere soldi costa, e costa caro. Per comprare e distribuire le arance della salute si spendono un milione 373mila euro (ricavo netto due milioni409mila), i 700mila cestini delle azalee della ricerca assorbono quattro milioni 774mila (per un guadagno di cinque milioni 638mila). E poi la spedizione dei bollettini postali, l’attività dei comitati, le campagne pubblicitarie e di sensibilizzazione. Complessivamente, gli oneri direttamente legati al «fundraising» ammontano a 16.333.434 euro: come dire che per ogni euro raccolto, 18 centesimi sfumano in spese vive. A questo calcolo vanno aggiunti i costi generali, cioè quelli sostenuti per tenere in piedi la complessa macchina dell’associazione: stipendi (cinque dirigenti, 72 impiegati, 5 collaboratori), gestione soci, attrezzature, computer, telefoni, comitati regionali. Questa voce si porta via 5.864.642 euro. E fanno 22 milioni 200mila euro di spese: un quarto delle entrate. Sono cifre paragonabili al bilancio di una media azienda italiana. Ricapitoliamo. Nel 2008 l’Associazione per la ricerca sul cancro ha avuto a disposizione 92.285.542 euro, di cui 90.542.066 donati direttamente dagli italiani in varie forme. Una quantità di soldi strabiliante. I vertici dell’Airc ne hanno destinato soltanto metà alla ricerca oncologica, scopo istituzionale dell’organismo. Per pareggiare i conti, manca l’ultimo quarto: 24 milioni e mezzo di euro. Che sono stati iscritti in bilancio come «risultato gestionale dell’esercizio». Un utile accantonato e non utilizzato. Un ottimo risultato, se paragonato alla perdita di quasi quattro milioni di euro registrata nel 2007. Secondo l’articolo 20 dello statuto dell’Airc, gli avanzi di gestione «saranno destinati, negli esercizi successivi, agli scopi istituzionali»: in ogni caso non viene distribuito nessun utile. Ma nel frattempo, come vengono impiegati? Vengono investiti in titoli e fondi comuni di investimento. In attesa di tempi migliori nei quali aprire nuovi fronti di lotta al cancro, l’Airc mette in banca i soldi versati con tanta generosità dagli italiani. Il dettaglio è contenuto nella nota integrativa al bilancio. Al 31 dicembre 2008 risultavano titoli di stato italiani (20.220.000 euro contro i 698mila del 2007), fondi comuni monetari (573mila, un anno prima erano 5.802.000), obbligazioni di società italiane (20mila), titoli di Stato estero denominati in euro (5.054.000 euro). Le disponibilità liquide ammontavano a 22.965.000 euro. Tra interessi e cedole, questa serie di investimenti ha reso un milione scarso. L’Airc spiega che un avanzo di gestione di tali dimensioni è dovuto al 5 per mille sui redditi 2005, solo parzialmente utilizzato. «Il consiglio direttivo ha dato mandato alla Commissione consultiva scientifica di predisporre il piano strategico per l’utilizzo delle eccezionali risorse pervenute e che perverranno negli esercizi futuri. Possibile che l’associazione non avesse idea di quanto avrebbe incassato? E che non abbia progetti, borse di studio o iniziative pronte per essere lanciate? Il Giornale avrebbe voluto porre queste e altre domande a Piero Sierra, presidente dell’Airc, il quale però era già partito per le vacanze lontano dall’Italia dove non è stato possibile telefonargli.

La grande truffa del Telethon il professor Testard denuncia una "mistificazione". Il Telethon 2008 in Francia è terminato il 7 dicembre, dopo 30 ore di appello ai donatori. Più di 95 milioni di euro sono stati raccolti per la ricerca sulle malattie genetiche. Sono 20 anni che questa "grande fiera" televisiva continua... Ecco cosa ne pensa un ricercatore, uno specialista in biologia della riproduzione. (La grande escroquerie du Téléthon Le professeur Testard dénonce une "mystification". Traduzione di Giuditta). "E 'scandaloso. Il Telethon raccoglie annualmente tanti euro quanto il bilancio di funzionamento di tutto l'Inserm. La gente pensa di donare soldi per la cura. Ma la terapia genica non è efficace. Se i donatori sapessero che il loro denaro, prima di tutto è utilizzato per finanziare le pubblicazioni scientifiche, ma anche i brevetti di poche imprese, o per eliminare gli embrioni dai geni deficienti, cambierebbero di parere. Il professor Marc Peschanski, uno dei architetti di questa terapia genica, ha dichiarato che abbiamo intrapreso un strada sbagliata. Si stanno facendo progressi nella diagnosi, ma non per guarire. Inoltre, anche se progrediamo tecnicamente, noi non comprendiamo molto di più la complessità della vita. Poichè non possiamo guarire le malattie, sarebbe preferibile cercare di scoprirne l'origine, prima che si verifichino. Ciò consentirebbe l'assoluta comprensione dell'uomo, di una certa definizione di uomo".  In un'intervista con Medicina-Douces.com. Jacques Testard, è direttore di ricerca presso l'Istituto Nazionale della Sanità e della Ricerca Medica (Inserm), specialista in biologia della riproduzione, "padre scientifico" del primo bebè-provetta francese, e autore di numerose pubblicazioni scientifiche che dimostrano il suo impegno per una "scienza contenuta entro i limiti della dignità umana". Testard scrive sul suo blog, fra l'altro: "Gli OGM (organismi geneticamente modificati) sono disseminati inutilmente, perché non hanno dimostrato il loro potenziale, e presentano un reale rischio per l'ambiente, la salute e l'economia. Essi non sono che degli avatar dell'agricoltura intensiva che consentono ai produttori di fare fruttificare i brevetti sulla Natura e la Vita. Al contrario, i test terapeutici sugli esseri umani sono giustificati quando sono l'unica possibilità, anche piccola, per salvare una vita. Ma è assolutamente contraria all'etica scientifica (e medica) far credere a dei successi imminenti di uno o di un altro farmaco. Nonostante i numerosi errori, i fautori della terapia genica (spesso gli stessi fra quelli degli OGM) sostengono che "finiremo per arrivarci", e hanno creato un tale aspettativa sociale che il "misticismo del gene" si impone ovunque, sino nell'immaginario collettivo. Il successo costante del Telethon dimostra questo effetto, poiché a forza di ripetute promesse, e grazie alla complicità di personalità mediatiche e scientifiche, questa operazione raccoglie donazioni per un importo vicino al bilancio di funzionamento di qualsiasi ricerca medica in Francia. Questa manna influisce drammaticamente sulla ricerca biologica in quanto la lobby del DNA dispone del quasi monopolio dei mezzi finanziari (finanziamenti pubblici, dell'industria e della beneficenza) e intellettuali (riviste mediche, convenzioni, contratti, man bassa sugli studenti ...). Quindi, la maggior parte delle altre ricerche sono gravemente impoverite - un risultato che sembra sfuggire ai generosi donatori di questa enorme operazione caritativa... " Per completare, ultima citazione estratta dal libro di Testard "La bicicletta, il muro e il cittadino": Tecno science e mistificazione: il Telethon. "Da due decenni, ogni anno, due giorni di programmazione della televisione pubblica sono esclusivamente riservati ad un'operazione orchestrata, alla quale contribuiscono tutti gli altri mezzi di comunicazione: il Telethon. Col risultato che, delle patologie, certamente drammatiche ma che, per fortuna, interessano relativamente poche persone (due o tre volte inferiore alla sola trisomia 21, per esempio), mobilitano molto di più la popolazione e raccolgono molti più soldi rispetto ad altrettante terribili malattie, un centinaio o un migliaio di volte più frequenti. Possiamo solo constatare un meritato successo di una efficace attività di lobbying e consigliare a tutte le vittime, di tutte le malattie, di organizzarsi per fare altrettanto. Ma si dimenticherebbe, per esempio, che:

-il potenziale caritativo non è illimitato. Quello che ci donano oggi contro la distrofia muscolare, non lo doneranno domani contro la malaria (2 milioni di decessi ogni anno, quasi tutti in Africa);

-quasi la metà dei fondi raccolti (che sono equivalenti al bilancio annuale di funzionamento di tutta la ricerca medica francese) alimentano innumerevoli laboratori che influenzano fortemente le linee guida. Contribuendo in tal modo alla supremazia finanziaria dell'Associazione francese contro la distrofia muscolare (l'AFM che raccoglie e ridistribuisce a suo piacimento i fondi raccolti), sarebbe anche e soprattutto impedire ai ricercatori (statutari per la maggior parte, e quindi pagati dallo Stato, ma anche laureati e, soprattutto, studenti, sicuramente raccomandati, post-dottorato che vivono sul finanziamento della AFM) di contribuire alla lotta contro altre malattie, e/o di aprire nuove strade; 

-non è sufficiente disporre di mezzi finanziari per guarire tutte le patologie. Lasciar credere a questo strapotere della medicina, come lo fa il Telethon è indurre in errore i pazienti e le loro famiglie;

-dopo venti anni di promesse, la terapia genica, non sembra essere la buona strategia per curare la maggior parte delle malattie genetiche;

-quando delle somme così importanti sono raccolte, e portano a tali conseguenze, il loro utilizzo dovrebbe essere deciso da un comitato scientifico e sociale che non sia sottomesso all'organismo che le colletta.

Ma anche, come non domandarsi sul contenuto di una "magica" operazione in cui le persone, illuminate dalla fede scientifica, corrono fino ad esaurimento o fanno nuotare i loro cani nella piscina comunale ... per "vincere la miopatia"? Alla fine della tecnoscienza, spuntano gli oracoli e i sacrifici di un tempo che credevamo finito ... " In conclusione: non fate dei doni al Telethon! Di Olivier Bonnet

Intervista a Alberto Mondini, autore de "Kankropoli" di Marcello Pamio su “Disinformazione”.

D: Gentile Alberto Mondini racconti brevemente a tutti i lettori la sua disavventura legale, partendo però dalla sua Associazione per la Ricerca e Prevenzione dal Cancro. Cos'è, e soprattutto qual è il fine dell'ARPC?

R: L'ARPC è un'associazione no-profit fondata e regolarmente registrata il 20-2-1992. Nel suo statuto gli scopi sono così enunciati: "Effettuare la ricerca, la diffusione, la promozione e la pratica di conoscenze e tecniche non-mediche atte alla conservazione o ripristino della salute fisica e mentale, cioè di quelle conoscenze e tecniche che attualmente non vengono insegnate nei corsi di laurea in medicina e nei corsi di specializzazione universitari. Occuparsi principalmente della prevenzione e guarigione dei tumori". In quanto alla mia ultima disavventura giudiziaria, il racconto può essere molto breve. Il 7 marzo 2002, a causa di alcuni energumeni che erano entrati negli uffici dell'ARPC (io non ero presente), viene chiesto l'intervento dei carabinieri. Due agenti arrivano dopo pochi minuti e, invece di identificare ed allontanare i violenti, mettono i sigilli alla porta dei locali per sequestro e mandano la pratica alla magistratura, che convalida il provvedimento. Accusa: associazione a delinquere finalizzata alla truffa. A questo punto io mi son trovato a dover pagare migliaia di euro al mese senza poter procedere alla consueta raccolta fondi; in caso contrario avrei potuto subire un arresto cautelativo per reiterazione del reato. A fine gennaio scorso (dopo 11 mesi!) le accuse vengono archiviate, in quanto non è stato trovato alcun elemento che possa sostenerle.

D: Il suo libro "Kankropoli", che personalmente trovo eccezionale, ha praticamente scatenato e lanciato all'opinione pubblica il caso Di Bella. Oggi sappiamo come il professore modenese e il suo "pericoloso Metodo" sono stati boicottati in tutte le maniere: farmaci scaduti, pazienti allo stadio terminale, protocolli bloccati dopo pochi mesi, ecc. Lei pensa che il problema giuridico che ha avuto lei e l'Associazione ARPC sia in qualche maniera riconducibile al libro?

O più precisamente riconducibile a Di Bella?

R: Sono e sono sempre stato un "tipo scomodo", come mi ha definito un giornalista della Stampa. Purtroppo ho sempre cercato di ragionare con la mia testa e di sentire cosa suggeriva la mia coscienza, e non mi sono mai fatto inquadrare; questo non piace alle istituzioni e alle varie lobbies. L'ARPC e Kankropoli sono state due prese di posizione, forse le mie più forti, che non sono "piaciute" in particolar modo e che, quindi, hanno attirato gli attacchi. Il ruolo che Kankropoli ha avuto nel far scoppiare il caso Di Bella è certo un'aggravante. Io sono classificato tra gli "amici di Di Bella" (v. il libro su Di Bella degli Editori Riuniti).

D: Se non è così quali sarebbero le vere motivazioni, se ce ne sono naturalmente, che hanno fatto partire l'azione giudiziaria con tutto quello che ne consegue? Dava fastidio a qualcuno, a qualche organizzazione medica?

R: Certo che dò fastidio alla lobby medico-farmaceutica! So che nell'ambiente del potere medico Kankropoli è ben conosciuto e viene sussurrato in segreto. In pubblico non ammetterebbero mai di conoscerlo. La loro prima regola su questi argomenti è: "Non parliamone, ignoriamolo e facciamo in modo che tutti lo ignorino".

D: Il cancro è una malattia molto, molto redditizia. Questa cinica affermazione è inconfutabile: dietro i tumori si nascondono interessi economici enormi. Secondo lei, perché la medicina ufficiale non vuole, e fa di tutto per impedire che vengano alla luce, questi rimedi alternativi? Semplicemente perché sarebbero controproducenti per le casse, oppure perché la salute delle persone viene prima di tutto, e pertanto vogliono garantire la sicurezza nella cura?

R: Perché sarebbero controproducenti per le casse. Questa affermazione è assolutamente vera, ma non è completa. Ci sono anche fortissimi interessi personali di potere e di prestigio, oltre che economici, nel campo universitario e della ricerca. Ci sono delle persone, in questi ambienti, la cui cialtroneria sconfina spesso con un comportamento criminale. Spesso possiedono un quoziente d'intelligenza mediocre e una competenza dilettantistica. La ricerca è un pozzo senza fondo in cui vengono gettati milioni di euro in quantità senza che, per legge, sia minimamente richiesto alcun risultato concreto. Questa è una logica da manicomio, dal mio punto di vista; ma da parte dei ricercatori è una pacchia, è l'albero della cuccagna, è il paese dei balocchi! Pensate un po': "ti dò dei soldi, ma se non produci niente, non ti preoccupare: il prossimo anno te ne darò ancora". Anzi, meno si "scopre", più fondi vengono assegnati; perché ciò vuol dire che il problema è molto difficile, ci vogliono più mezzi, ecc, ecc, ecc.....

D: E' d'accordo con quei ricercatori sempre più numerosi che propongono alla medicina allopatica di cambiare totalmente strada nella cura del cancro, comprendendo che il cancro non è un virus e neppure un agente eziologico esterno, ma un qualcosa che nasce e cresce dentro, qualcosa di nostro?

R: Sono d'accordo che la medicina deve cambiare totalmente strada. Se però si intende "qualcosa di nostro" come qualcosa che ha a che fare con le ricerche sul genoma, direi che siamo ancora fuori strada. Il grande tradimento della medicina è cominciato quando i medici hanno iniziato a considerare l'uomo come un corpo, invece che uno spirito che abita un corpo. Da lì gli errori sono venuti a valanga.

D: Non è assolutamente vero che il cancro è stato sconfitto! Eppure i "luminari" della scienza medica durante le interviste si accaparrano arrogantemente il diritto di affermare ciò. La verità è che moltissime persone muoiono e stanno morendo di questo male, tantissime di loro seguiranno fiduciose le pratiche terapeutiche chimicamente devastanti della medicina ufficiale, altri imboccheranno strade alternative. Vi saranno risultati positivi e nefasti da entrambe le parti, come lo spiega? Destino, fatalità o forse non è importante in sé quale rimedio si scelga, ma semmai come lo si fa: in una parola l'atteggiamento?

R: Direi che la cosa più importante è trovare un naturopata competente.

D: Adesso Mondini, cosa ha intenzione di fare, ora che la giustizia ha fatto il suo corso? Continuerà a portare avanti l'associazione o mollerà tutto?

R: Ora devo rimettere a posto la mia vita dopo la bufera. Dato che devo ancora pagare 25.000 euro di debiti dell'ARPC, causati delle indagini giudiziarie, e dato che non vivo di rendita, dovrò darmi da fare. Per il momento continuo a dare assistenza ai pazienti che si rivolgono a me; cercherò poi (a piè pagina trovate già una prima iniziativa) di ricostruire l'ARPC con una struttura più "leggera"; inoltre sto cercando di riunire molte associazioni italiane in unico movimento anti farmaceutico e anti psichiatrico e, forse, in un partito politico: l'inizio è già piuttosto promettente.

L'eretico che lanciò il caso Di Bella "Ecco tutti i segreti di Kankropoli". Alberto Mondini è un naturopata. Si batte da anni contro la mafia del cancro; andando in cerca di medici che la pensano come lui. È stato indagato, ma poi lo stesso Pm ha chiesto l’archiviazione per insussistenza dei reati, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 05/10/2008, su "Il Giornale". Alberto Mondini sa di essere un eretico e non fa nulla per nasconderlo. «Se lei chiede in giro informazioni sul mio conto, i medici le diranno che da giovane ero dedito alla meditazione yoga, che ho fatto il croupier, che ho avuto tre mogli, che una di loro era una cantante di musica leggera. Tutto vero, o quasi. Solo che al Casinò di Venezia, un posto orribile, ho lavorato dal ’71 all’81 e quella attuale è la mia seconda moglie. Ma a loro torna comodo farmi passare per un personaggio losco o ridicolo, che adesso gioca alla roulette con le vite degli altri. Le diranno anche che a Torino sono stato indagato per truffa aggravata e associazione a delinquere. Vero anche questo. La mia colpa? Ero entrato in competizione con le varie leghe e associazioni contro i tumori, una delle quali in un anno raccoglieva offerte per 10 miliardi di lire e destinava alla ricerca appena 810 milioni, tanto che l’allora sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, si rifiutò di firmarne il bilancio. Però ometteranno di aggiungere che fu lo stesso pubblico ministero a chiedere e ottenere l’archiviazione per insussistenza dei reati». Da quel giorno gira col certificato penale in tasca; sopra c’è scritto che al casellario giudiziale risulta questo a suo carico: «Nulla». Mondini, 61 anni, naturopata veneziano, è diventato un eretico da quando ha fondato l’Arpc (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e ha pubblicato il libro Kankropoli, sottotitolo La mafia del cancro, presentato in copertina come «il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella». Nel capoluogo piemontese aveva aperto un ambulatorio gratuito con un medico che consigliava ai pazienti come curarsi secondo natura, «si trovava allo 0 di via Vespucci». Un numero civico vero, esistente, eppure talmente assurdo da sembrare immaginario, proprio come le teorie scientifiche propugnate da Mondini, che richiederebbero alla medicina di ripartire da zero per poter essere accolte: «L’origine del cancro non è genetica. La cellula non ha niente a che vedere con i tumori. Il cancro è provocato dalla candida, un fungo. Dieci milioni di morti per tumore all’anno nel mondo dimostrano il totale fallimento dell’oncologia. Gli errori medici, sommati ai farmaci somministrati correttamente, rappresentano col 7,58% la terza causa di decesso negli Usa e più o meno in tutti i Paesi occidentali, subito dopo le malattie cardiovascolari (47%) e il cancro (22,11%) e prima di fumo, alcolismo, incidenti stradali, suicidi, assassini. La chemioterapia non guarisce, anzi è un genocidio. Idem la radioterapia. I medici hanno piegato la conoscenza al servizio di un business colossale controllato da grandi multinazionali che dipendono dai Rockefeller negli Stati Uniti e dai Rothschild in Europa. Dieci anni fa il cancro nella sola Italia era un affare da 80.000 miliardi di lire, calcolati per difetto, di cui la metà, 40.000 miliardi, per farmaci chemioterapici». Sono teorie che Mondini non ha formulato in proprio bensì andando a trovare uno per uno una dozzina di eretici come lui. Ha soppesato le ricerche, ha vagliato i risultati, ha acquisito le cartelle cliniche, s’è mantenuto in contatto con loro per anni. Ne è uscito un altro libro, Il tradimento della medicina. Il primo medico che avvicinò fu il dottor Aldo Alessiani, ex primario plurispecialista di Roma, oggi defunto. «Era partito da un’intuizione: visto che l’incidenza dei tumori andava di pari passo con l’aumento della statura media della popolazione, poteva trattarsi di una malattia da carenza. Immagini l’uomo come un fiore: tolto dal suo habitat naturale, cresce più forte e più alto ma perde il suo profumo. Bisognava cercare il rimedio nel terreno, in profondità. L’occasione di sperimentare si presentò quando la moglie fu colpita da un cancro all’utero, che aveva presto invaso il retto, l’intestino e il peritoneo. L’addome era aumentato a dismisura, la signora sembrava incinta di otto mesi. Il professor Ercole Brunetti tentò di operarla nel luglio 1991 presso la clinica Santa Rita da Cascia: come si suol dire, la aprì e la richiuse. Niente da fare. Ma Alessiani non si arrese e di nascosto preparò una soluzione, disciogliendo in acqua dei particolari terricci, e la somministrò alla moglie. In 21 giorni la signora Alessiani lasciò la clinica, anziché nella bara, sulle sue gambe e partì per una vacanza. Guarita. Il marito fu convocato da un magistrato che gli disse: “Mi creda, ho avuto questo incarico da molto in alto. Si ricordi che l’Italia è piena di falsi incidenti d’auto”. Nell’estate 1993 il dottor Alessiani subì un incidente stradale molto strano, che aveva tutte le caratteristiche dell’avvertimento criminale».

Lei è un esperto di medicina naturale, non un medico. Che titolo ha per parlare di tumori?

«Caspita! Sono un potenziale paziente».

Che cosa le fa credere che all’origine del cancro vi sia la candida?

«Dieci anni di ricerche. Dove non c’è il fungo, non c’è tumore. L’errore di base dell’oncologia è stato attribuire un’origine genetica al cancro. Quella della cellula che a un certo punto impazzisce e si riproduce all’infinito è un’ipotesi finora indimostrata. In realtà le cellule cancerose non sono altro che l’estrema difesa dell’organismo contro il fungo: il corpo le crea affinché il fungo attecchisca solo lì e non vada a intaccare gli organi vitali. Quindi non ha senso accanirsi contro di esse. È solo eradicando la candida che scompare il tumore».

Chi lo afferma?

«Il dottor Tullio Simoncini, oncologo e diabetologo romano, secondo il quale la candida albicans è sempre presente nei malati neoplastici, può produrre metastasi, ha un patrimonio genetico sovrapponibile a quello dei tumori, riesce a invadere tessuti e organi d’ogni tipo, dimostra un’aggressività e un’adattabilità illimitate».

Ma Simoncini non è lo studioso che cura il cancro col bicarbonato di sodio?

«Esatto. L’antifungino più attivo. È con quello che le mamme hanno sempre eliminato il mughetto dalla bocca dei figli. Simoncini lo provò su una zia e la guarì da un tumore allo stomaco con un cucchiaino di bicarbonato mattina e sera. Ma il sale dell’acido carbonico deve arrivare a contatto diretto col tumore, quindi è necessario posizionare nel paziente piccoli cateteri endocavitari o endoarteriosi. Ed è il motivo per cui contro i tumori delle ossa può fare ben poco, essendo irrorati da minuscole arterie che non consentono una sufficiente diffusione del bicarbonato».

Simoncini è stato radiato dall’Albo dei medici o ricordo male?

«Ricorda bene. Però dovrebbe anche ricordare che l’Ordine non ha tenuto in alcun conto la legge numero 94 dell’8 aprile 1998. La quale stabilisce che il medico, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente, può impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di utilizzazione diverse da quelle autorizzate, purché “tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. Il dottor Simoncini ha dalla sua 31 studi internazionali relativi al potere antiacido del bicarbonato di sodio nei tumori».

Lei ha visto debellare il cancro col bicarbonato?

«La mia regola è questa: mostratemi tre casi di tumori guariti, documentati da Tac eseguite prima e dopo una cura, e io divento paladino di quella cura. Nel caso di Simoncini ho esaminato dieci cartelle cliniche. E ho constatato che i tumori sotto i 3 centimetri spariscono in dieci giorni. Nel cancro al seno non infiltrato la probabilità di guarigione è del 99%, al fegato dell’80%, al polmone del 60%». 

Simoncini guarisce la maggior parte dei pazienti? Un po’ dura da credere.

«Sicuramente nei malati già trattati con la chemio la percentuale di successo è meno alta. Ma se venisse un tumore a me, andrei subito da lui. Prima di farsi devastare il corpo dalla chemio, perché non provare una terapia che non ha effetti collaterali negativi? All’oncologo romano non perdonano d’aver individuato un principio attivo che nei supermercati costa 80 centesimi di euro al chilo. Per un paziente trattato con i chemioterapici lo Stato spende mediamente 100.000 euro. Moltiplichi per i 250.000 nuovi casi di tumore che si registrano ogni anno in Italia e capirà il vero motivo per cui la cura Simoncini viene osteggiata».

Lei scrive: «Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto o fantasia». Sa di cospirazione planetaria.

«Cospirazione? No, è marketing. Per l’industria farmaceutica si tratta solo di vendere di più. Il fatto è che la chemioterapia non funziona. Quando proclamano che 50 malati di cancro su 100 guariscono, significa che 50 muoiono entro 5 anni dalla scoperta del male e gli altri poco dopo. Se un malato muore dopo 5 anni e un giorno, per loro è un morto guarito».

Non può negare che già nel 2002 la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per tutti i tipi di tumore, esclusi quelli della cute, era del 45,7% per gli uomini e del 57,5% per le donne, con una punta dell’83% per il cancro al seno.

«Come lei dice, in oncologia non esistono statistiche di guarigione, solo di sopravvivenza a 5 anni. Una volta fornivano anche quelle a 10 e 15 anni. Ora non le presentano più, si vergognano. Lei provi a cercarle: non le troverà. La sopravvivenza media calcolata a 5 anni su tutti i tumori certi e maligni è del 7%».

Come fa a dirlo?

«Sono gli stessi oncologi a dirlo, ma solo sui manuali destinati agli studenti universitari. Ci sono tumori a lungo decorso o addirittura semibenigni, tipo quelli delle ghiandole, i baseliomi, i liposarcomi, che vengono inseriti nelle statistiche per edulcorarle. Anche le esasperate campagne di diagnosi precoce del tumore al seno servono allo scopo: dimostrare la sopravvivenza oltre i fatidici 5 anni. Ma per i tumori maligni basti un solo esempio: su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con chemioterapia completa è stata di 75 giorni, mentre quelli che non hanno ricevuto alcun trattamento sono sopravvissuti in media per 220 giorni. Cinque mesi di più. Non lo dico io: lo ha scritto The Lancet, il vangelo dei medici, nel dicembre 1975. E da allora non è che sia cambiato molto».

Il metodo Di Bella fu sperimentato dieci anni fa negli ospedali italiani sotto la supervisione del ministero della Sanità. Non pare che abbia dato gli esiti sperati. Nel maggio scorso lo ha bocciato persino la Cassazione.

«Quando seppi che il professor Luigi Di Bella aveva accettato la sperimentazione offertagli dal ministro Rosy Bindi, pensai: ecco, s’è fatto fregare. Le pare serio che il test sia stato affidato a oncologi che si erano pubblicamente dichiarati contrari alla multiterapia? Per onestà avrebbero dovuto astenersi».

L’oncologo Umberto Tirelli sollevò un interrogativo non da poco: «Se le cure convenzionali non sono valide, allora perché anche Di Bella le usa?». Il professor Tirelli era entrato in possesso di fotocopie di prescrizioni del medico siculo-modenese nelle quali figurava la ciclofosfamide, che viene utilizzata abitualmente in chemioterapia contro alcuni linfomi.

«Rimproverai il professor Di Bella, per questo. Mi rispose mogio mogio: “Non sarebbe necessaria, ma in piccole dosi serve per accelerare la cura...”. Assurdo. Com’è possibile avvelenare un paziente con la pretesa di guarirlo? L’Istituto superiore di sanità è stato costretto a pubblicare uno studio sui pericoli mortali cui sono esposti medici e infermieri che maneggiano i chemioterapici antiblastici. S’intitola Rischi per la riproduzione e strategie per la prevenzione. Esso documenta come tutti i 42 principi attivi più usati negli ospedali italiani contro il cancro siano cancerogeni riconosciuti o possibili cancerogeni o probabili cancerogeni. Bella contraddizione, no? Non basta: la maggior parte sono anche teratogeni, mutageni, abortivi, vescicanti, irritanti. Tant’è vero che alle infermiere in stato interessante è vietato somministrarli e in Portogallo fin dal 1990 i residui dei farmaci antiblastici vengono inceneriti a 1.000 gradi, insieme con sacche, aghi, cannule, camici, guanti e visiere».

D’accordo, però io stento a immaginare un paziente con un tumore al pancreas che decide di affidarsi al frullato di aloe vera, miele e whisky messo a punto da padre Romano Zago, frate francescano, e consigliato da Alberto Mondini.

«Sempre meno rischioso che sottoporsi a una chemio».

In Kankropoli lei descrive addirittura una «macchina per guarire i tumori solidi, il Gemm», inventata dal turco Seçkiner Görgün.

«Il professor Görgün era un mio caro amico. Purtroppo è morto d’infarto qualche settimana fa in Kosovo. Con le radiofrequenze emesse dal Gemm aveva conseguito risultati strabilianti su un paziente con metastasi ricoverato all’ospedale San Luigi di Orbassano. Ma poi un pretore sequestrò il macchinario, salvo archiviare l’inchiesta con un non luogo a procedere due anni più tardi. Io stesso non avrei accettato le teorie di questo scienziato se non mi avesse esibito una documentazione inoppugnabile. Non era un ciarlatano: aveva lavorato in cliniche, università e istituti di ricerca di varie nazioni, compresa la Galileo Avionica, società di Finmeccanica che opera nel campo della difesa».

Ma lei ha mai fatto curare qualche suo congiunto con queste terapie alternative?

«Mio cognato è in cura in questi giorni col metodo Görgün a Pristina. Invece il mio unico fratello, Luigino, non ha mai voluto saperne. Da buon iscritto al Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, fondato fra gli altri da Piero Angela, s’è fatto operare e irradiare per un tumore al retto. Dopo 90 giorni aveva le metastasi al fegato. Altri 90 giorni ed era morto. Se n’è andato in otto mesi dalla diagnosi».

Non la sfiora l’atroce dubbio d’aver dirottato parecchi pazienti verso una terapia sbagliata?

«Assolutamente no».

Non s’è mai posto la domanda: ma chi me lo fa fare?

«Qualche volta sì».

E che risposta s’è dato?

«Quando conosci la verità, aumenta la responsabilità. Non puoi tenere la verità per te».

BUSINESS NON SOLO SUI TUMORATI. Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).

Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito. 

LA CRICCA DEI GIORNALISTI ANTIMAFIA.

La Caporetto di Gratteri. Crolla l’inchiesta Stige. Gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, scrive Simona Musco il 29 giugno 2018 su "Il Dubbio". La più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dal procuratore Nicola Gratteri subito dopo gli arresti, subisce i colpi dei giudici del Riesame e della Cassazione. Gli ultimi sono quelli assestati con l’annullamento con rinvio dell’ordinanza di custodia cautelare di Giuseppe Farao, 34enne, figlio di Silvio, uno dei capi della cosca, accusato di associazione mafiosa; nonché di quella a carico di Rosario Placido, attualmente ai domiciliari, accusato di associazione finalizzata all’emissione di false fatturazioni con l’aggravante mafiosa. Decisioni che sono solo le ultime di una serie che interessa, in particolar modo, la posizione di politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” servì infatti a spiegare una tesi ribadita anche ieri dall’inchiesta “Hermes”, che ha portato in carcere 15 persone: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’aggiunto Vincenzo Luberto. All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Ma il Riesame, un mese dopo, lo spedì ai domiciliari, ritenendo non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale. «Le cosche – aveva spiegato Gratteri controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». La sua, ha chiarito, è una «guerra» per «liberare la Calabria», irrimediabilmente infettata dal morbo della ‘ ndrangheta. Ed è partito da quell’inchiesta, «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis». La bontà delle accuse, ovviamente, sarà provata dal processo. Ma oggi gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, che sta accogliendo – in alcuni casi con rinvio – quasi tutti i ricorsi degli imprenditori e dei politici, circa una trentina. Non solo: il Riesame, in funzione di giudice dell’appello, ha accolto le istanze di revoca dei difensori basate su fatti nuovi, rivedendo la sua posizione per altri imprenditori. È il caso, ad esempio, di Franco Gigliotti, per il quale il Tdl ha riqualificato l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa in concorso esterno, decidendone la liberazione. Per la Dda dietro la sua azienda G- Plast, a Torretta di Crucoli, in realtà ci sarebbe stato Giuseppe Spagnolo, esponente del clan Farao-Marincola. Ma l’imprenditore, hanno dimostrato gli avvocati, delle cosche era in realtà una vittima. Altro caso quello di Pasquale Malena, accusato di associazione mafiosa, illecita concorrenza con violenza o minaccia e intestazione fittizia aggravata dalla finalità di agevolare i clan, per il quale il Riesame ha revocato la misura per «assenza di gravi indizi». Ma i casi sono molteplici: come quello di Nicola Flotta, accusato di concorso esterno ma rimesso in libertà, titolare del “Castello Flotta”, location per matrimoni sfarzosi – che lo aveva portato fino al programma “Il boss delle cerimonie” – nella quale avrebbe organizzato banchetti gratis per sodali e familiari del clan Farao-Marincola. Per Valentino Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Riesame, che gli aveva concesso i domiciliari confermato l’accusa di concorso esterno. È tornato libero, invece, Amodio Caputo, per il quale il Tdl aveva riqualificato l’accusa in intestazione fittizia di beni aggravata dalla finalità di agevolare il clan, in quanto ritenuto gestore, assieme al padre, per conto della cosca, di imprese che monopolizzano con metodi mafiosi il mercato dei prodotti semilavorati per pizza in Calabria ed in Germania. Ma i legali hanno dimostrato che quelle aziende erano state realizzate con l’impiego di denaro e mezzi provenienti dalla famiglia. C’è poi l’imprenditore, Domenico Alessio, residente negli Stati Uniti da decenni, ma che aveva deciso di avviare un’attività imprenditoriale in Italia. Impresa, in realtà, non ancora attivata e per la quale non risulterebbe da nessuna parte, dunque, l’assunzione di personale, né il pagamento di «un monte stipendiale elevato per gli accoscati, per come riportato nell’ordinanza custodiale e posto a fondamento della stessa». E per scoprirlo, dicono gli avvocati, sarebbe bastato «acquisire la documentazione della società italiana, peraltro pubblica».

AAA cercasi giornalista che mi chieda della mafia, scrive il 3 luglio 2018 su "La Repubblica" Walter Bonanno - Insegnante e mediatore linguistico Cidma. A Corleone, a casa nostra, non c’è nessuno che non sappia come è fatto un giornalista. Il microfono non ha un odore, ma noi lo sentiamo nell’aria quando c’è una telecamera dietro le spalle. Arrestano un mafioso. Giornalisti. Poi muore. Giornalisti. La moglie del mafioso non paga le tasse perché dal Comune hanno dimenticato a mandargliele, però poi le paga, magari richiedendo delle comode rate, ancora giornalisti. Una processione si ferma in prossimità della casa di un mafioso (il che non è difficile dato che siamo il paese più mafioso d’Italia). Giornalisti, giornalisti, giornalisti. “Che ne pensi della Mafia?” è una domanda che ogni corleonese si è sentito fare almeno una volta. Io la ricordo ancora la mia prima volta. Ero al parco con una ragazzina e ci provavo. Ad un certo punto vedo tutti scappare, ragazzina compresa; prima di capire cosa stesse succedendo mi ritrovai un omone grande e grosso con una telecamerona ancora più grossa. “Che ne pensi della Mafia?” mi chiese. Risposi qualcosa. “La mafia si combatte con le parole?”. Dissi di sì. “E non con i fatti?”. Opsss…bhe, sì anche con quelli. Mentre realizzavo di avere messo la crocetta sulla risposta sbagliata, vedevo la ragazzina andarsene via. Con un altro. Trauma. Avevo 7 anni ed era l’estate del 1992. Oggi che sono vecchio di 33 anni, al mio paese il giornalista fa ancora lo stesso effetto che fa il cacciatore ricco quando arriva nella savana per il suo safari. Scappano tutti, alcuni si nascondono e i pochi che rimangono a tiro non fanno in tempo ad imprecare che hanno già il microfono sotto al naso e la telecamerina che li fissa di malocchio. Adesso però, come nella savana, ci sono leoni che non si fanno intimorire dal tizio col fucile e gli si parano contro impettiti e pronti alla lotta. Io non so come funziona nella savana, ma ultimamente qui i giornalisti a quello che non scappa non se lo filano proprio; a quello giovane, magari ben vestito e che parla bene l’italiano non si sognano nemmeno di chiedergli lui che ne pensa. So di ragazzi che hanno passato la mattinata a farsi notare dal tizio col taccuino, vogliosi di prendersi i quindici minuti di ribalta e, perché no?, dare un’immagine un po’ meno stereotipata dei corleonesi, ma niente… quello col microfono si dirigeva sempre verso il vecchietto incoppolato seduto accanto al bar, immobile che sembra nato lì, con lo sguardo fisso che non sai se è ancora vivo o è morto, magari di caldo visto che ha giacca, camicia, gilet e cravatta anche quando ci sono 40 gradi all’ombra. E il vecchietto che fa? Di solito adotta tattiche camaleontiche di dubbia efficacia tipo dire che si è di passaggio in un paese in cui non passa nessuno o che non si conosce le uniche persone del paese che tutti, pure a Domodossola, conoscono. Può semplicemente rifiutare la sfida e nascondersi dietro un più o meno gentile “non comment” che nemmeno i calciatori in conference press. Poi ci sono quelli che soccombono per la gioia del giornalista cacciatore. Il campionario di interviste da attaccare alle pareti delle redazioni di sadici collezionisti va da chi se la prende “con la Mafia vera che è a Roma” o con i neri “che invece di darli a loro i 30 euro li dessero ai disoccupati” a chi confessa che in fondo a lui “non hanno fatto niente”. E’ ormai condannato all’estinzione il pur sempre ricercato esemplare che la mafia, per lui, “non esiste”. Prede. Al mio paese siamo prede di cacciatori di frasi fatte. E i giovani? Dei giovani non frega nulla a nessuno. Di ciò che pensano né di ciò che fanno. Se avessi la fortuna di parlare con un giornalista al mio paese, gli direi che se viene in piazza alle 10 del mattino di giovani non ne trova, ma ne trova un sacco se va davanti al liceo all’intervallo o la sera al pub. Troverebbe risposte meno scontate, ma forse più arrabbiate contro un Paese che si ricorda di noi solo per Riina e Provenzano e che si disinteressa dei nostri bisogni (e dei nostri sogni). La narrazione che si fa dei corleonesi è tutta improntata al clichè del siciliano omertoso. E’ un prodotto che vende bene. E forse se fossi di Domodossola anch’io, mi piacerebbe sapere che almeno su una cosa si può stare sicuri. In Sicilia sono così. E magari in Brianza tutti ricchi, in Sardegna tutti pastori, a Genova tutti tirchi e a Napoli tutti ladri. A volte ho la sensazione che fuori da Corleone la gente pensi che sia nostro preciso dovere prendere parte alla giornaliera manifestazione antimafia in cui si è trasformata casa nostra. Lo pensavo anch’io. Invece adesso siamo sempre più convinti che il nemico della Mafia, non sia l’Antimafia, ma la normalità. Che fare il proprio lavoro onestamente o partecipare onestamente ad una gara d’appalto sia peggio che partecipare a una sfilata. Che amministrare secondo le regole e chiedere il voto in cambio di impegni sia più rivoluzionario che promettere favori. Fatti non parole. Oggi saprei cosa rispondere al giornalista. Ma il giornalista non c’è. È al circolo degli anziani.

Benvenuti a “casa nostra”, scrive l'1 luglio 2018 su "La Repubblica". Massimiliana Fontana - Segreteria organizzativa C.I.D.M.A. (Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia). A Corleone, a casa nostra, abbiamo deciso di raccontare chi siamo a chi per la prima volta ce lo ha chiesto per davvero. Casa nostra. Beh, sì...ammettiamo che col nome abbiamo giocato un po' su quel "cosa nostra" ma alzi la mano chi di voi, sentendo il nome del mio paese, non pensi immediatamente a quelli là con la coppola, rigorosamente storta, e ad offerte che, no, proprio non si possono rifiutare. Un paese che se lo googlate ottenete 11.000.000 di risultati, più di Agrigento e Cefalù (ma messe assieme), più di San Gimignano, più di Riccione, più di Alberobello coi trulli compresi. Che saranno anche belle, anche famose, ma non hanno nemmeno un mafioso, nemmeno uno famoso intendo e, soprattutto, nemmeno un film con Marlon Brando (e forse nemmeno senza). "A Corleone, a casa nostra" nasce dalla precisa volontà di un gruppo di corleonesi di parlare a voi, lettori e lettrici di San Gimignano, di Riccione e di Alberobello, a voi in Italia, della normalità di un paese che normale non è e che a volte ci sembra appartenere a tutti tranne che a noi. Sapete tutto dei figli di Riina, perfino se hanno pagato o no le tasse, e i giornalisti, le iene, gli inviati con l'impermeabile ed il bassotto, in Via Scorsone sono ormai di casa. Eppure sapete poco o nulla di chi a Corleone ci vive per davvero, anche quando la telecamera è spenta. Ci troverete gente vera, con problemi e sogni veri. C’è la maestra, c’è quello che "pensa in verde" convinto che la bellezza aiuti perfino ad essere onesti, ci sono sindacalisti-contadini seduti lì dove erano seduti Rizzotto e La Torre prima che l'ammazzassero. E poi c’è il professore, c’è la studentessa, il medico, l’architetto, l'avvocato che porta in giro il nome di casa nostra per i palcoscenici d'Italia con la sua compagnia teatrale. C’è la nordamericana che a Corleone è venuta a vivere e c’è la fuori-sede che ci torna solo tre volte l'anno e ogni volta che se ne va si ricorda che quella è ancora, per sempre, casa sua. C’è il prete che sa che dietro a ogni processione può essere nascosta una trappola. C’è lei che di lavoro fa “quella che parla di Mafia” e le sembra ancora strano dover spiegare ai turisti che in realtà per lei è normale, che non c’è da aver paura, che questa, in fondo, è “casa nostra”. Badate bene, niente aneddoti di mafia qui, niente cronaca né testimonianze di prima mano. Noi non viviamo di Mafia. Però la respiriamo. Sappiamo cosa sia. Ce ne accorgiamo quando diciamo da dove veniamo alla gente che incontriamo. Ce ne rendiamo conto quando perfino le operatrici dei call center la smettono di volervi vendere qualcosa se sui loro monitor vedono che viviamo qui. Che Corleone è casa nostra. Questo blog vi vuole accogliere a casa nostra, vi vuole invitare da Gino per uno Spritz (che sì, si beve anche qui) e parlarvi di noi, di casa nostra, di come può essere bella, di come si possa amarla nonostante tutto, nonostante “a casa nostra” sia nato anche Totò Riina. Mentre scrivo fuori è ancora tutto verde.  È la primavera siciliana che qui, a casa nostra, è meravigliosa e allora si rimane ai bordi delle nostre strade sgangherate a chiedersi da dove cavolo viene fuori tutto quel verde e si rimarrebbe fino a che il sole tramonta e dall’altra parte di questa Valle del Belìce compaiono le luci arancioni dei paesi. Sembrano isole. Sembrano un arcipelago e ci piace. E ce ne freghiamo se del posto in cui viviamo, forse, non riusciremo mai cambiare nulla. Ma la primavera siciliana da noi dura quindici giorni. Poi è tutto di nuovo giallo, secco, insopportabile. Insopportabile come chi ci chiude dentro alle virgolette, "I corleonesi", che hanno perfino una voce sulla Wikipedia. E invece noi siamo una comunità di individui responsabili delle proprie azioni, non una comunità responsabile delle azioni di alcuni individui. Noi sappiamo parlare e parliamo. Lo diceva anche un tizio dentro ad un altro film che "i corleonesi non sono tutti uguali". Eccoveli. Benvenuti "a casa nostra".

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Giornalisti antimafia nella cricca-Montante? Secondo l’accusa l’ex presidente di Confindustria Montante avrebbe creato un sistema parallelo per spiare e fare del dossieraggio, scrive Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". “Double Face” è l’operazione giudiziaria nei confronti dell’ex presidente di Confindustria in Sicilia Antonello Montante, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Non a caso l’operazione parla della doppia faccia: da un lato il richiamo costante al concetto di “legalità”, dall’altra l’attribuzione di etichette di “mafiosità” agli avversari. L’accusa è gravissima ed emblematica nello stesso tempo. Parliamo dell’antimafia come strumento di Potere, tanto da creare un sistema parallelo per spiare, fare del dossieraggio e, non da ultimo, avvicinare i giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate, affinché non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Esattamente al tredicesimo capitolo dell’informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta dalla Procura –, si parla proprio dei rapporti di Montante con i giornalisti. Molti sono di rilievo. Va precisato che si tratta di un’informativa e quindi di un atto d’indagine unilaterale degli inquirenti, a cui dovrà fare seguito il contraddittorio con la difesa e le verifiche da parte delle autorità giudiziarie. Al momento non c’è niente di concreto, solo le accuse della polizia. Per dovere di cronaca e rispetto del lavoro altrui, per chi volesse leggere l’intera l’informativa, può scaricarla dalla testata abruzzese giornalistica on line Site. it. Emerge dall’indagine che proprio il fastidio nei confronti dei giornalisti troppo critici verso il suo operato fu il filo conduttore del rapporto che Montante avrebbe scelto di instaurare con certi esponenti della stampa, con alcuni dei quali aveva cercato anche di intessere rapporti per carpirne la benevolenza nelle cronache. Ne sarebbero la prova, agli atti d’indagine degli inquirenti che hanno condotto all’arresto di Montante, la raccolta di intercettazioni ma anche gli appunti riversati meticolosamente su un’agenda Excel, che completano le fonti di prova indicando orari, luoghi, fatti, temi, persone in merito agli incontri con alcuni giornalisti. Sono gli stessi inquirenti che a questo riguardo citano la viola- zione deontologica della Carta dei Doveri del Giornalista che impone il divieto di ricevere favori o denaro o regalie per evitare che ne venga condizionata l’attività di redazione o lesa la dignità della professione e la credibilità. Un operato che ha creato diversi problemi anche nei confronti di quei giornalisti che si adoperavano per il diritto e il dovere di cronaca. Come il caso di Giampiero Casagni, giornalista siciliano del settimanale “Centonove”, che, dopo avere raccolto del materiale inerente presunti rapporti tra Montante e l’imprenditore Arnone Vincenzo (che sarebbe un personaggio vicino a Cosa Nostra), aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso la rivista Panorama: la notizia non fu mai pubblicata e dall’informativa emerge la frequentazione che il direttore avrebbe avuto con lo stesso Montante. Tra i rapporti con la stampa emergono quelli intessuti con due giornalisti de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che firmarono un articolo in tema di “professionisti dell’antimafia”, attirando così il fastidio di Montante sul contenuto che ritenne troppo critico nei suoi confronti. Uscito con il titolo ‘ Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della legalità”, l’articolo fu per Montante anche motivo di discordia con il magistrato Niccolò Marino che, nel corso di un procedimento, dovette persino raccontare alla Procura di Catania di aver incontrato Montante in un hotel della città, essendo quest’ultimo molto arrabbiato per il contenuto dell’articolo e credendone il magistrato come l’artefice occulto. Successivamente, fu nell’occasione di una riunione a Caltanissetta in Confindustria Sicilia che, a dire del testimone sentito nel corso delle indagini, ritornarono i nomi dei due giornalisti. Montante chiese a «chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria» di «erogare contributi economici», specificando che era necessario sponsorizzare un sito on line, L’Ora Quotidiano, e un mensile cartaceo. Fu quella l’occasione in cui si seppe che l’iniziativa del sito era stata proposta proprio da quei due giornalisti, che un anno prima avevano pubblicato l’articolo su Il Fatto Quotidiano. Era nella stessa riunione che Montante avrebbe riferito, sempre a detta del testimone sentito, che i giornalisti erano bravi «ed occorreva perciò renderli più morbidi onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona». A detta del testimone, lui versò il denaro. Il sito on line "L’Ora Quotidiano" dal canto suo ebbe vita breve: fu aperto il 18.10.2014 ma già il 22.2.2015 chiudeva. Sempre sulla vicenda riguardante la creazione del giornale on line e l’insofferenza del Montante a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, l’informativa fa un richiamo anche alle dichiarazioni rese dal giornalista de Il Sole 24 ore Giuseppe Oddo, il quale riferiva agli inquirenti che quando era stato pubblicato il fatidico articolo de Il Fatto Quotidiano, il Montante lo aveva chiamato perché, avendo mal digerito l’attacco a lui, voleva che Oddo intervenisse parlando con il direttore del giornale che all’epoca era Padellaro. Oddo rispedì al mittente l’invito: «Ovviamente rifiutai l’invito del Montante–dichiarazione riportata nell’informativa , dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere ». Un’altra vicenda di analogo spessore che interessò le indagini nei rapporti di Montante con la stampa alla ricerca della benevolenza dei giornalisti, fu quella che riguardò la circostanza della fusione da lui fortemente voluta tra Ats e la sua partecipata Jonica Trasporti, ma osteggiata dal revisore contabile Maria Sole Vizzini così come dall’allora Presidente avvocato Giulio Cusumano. È in questa vicenda che affiorano i legami di Montante con il giornalista Lirio Abbate, i cui rapporti e incontri sono rassegnati nell’agenda excel del primo, raccolta agli atti d’indagine. L’ostilità nei riguardi della fusione da parte della Vizzini, revisore contabile, era già stata oggetto di una chiacchierata informale della stessa con il giornalista Abbate: i due si conoscevano per motivi professionali e in quella circostanza lui la invitò a non usare la spada, come al suo solito, «ma il fioretto» a proposito delle perplessità sulla fusione. La vicenda doveva essere di interesse decisivo, perché sempre a proposito della fusione e di chi ne era perplesso, un giorno l’avvocato Cusumano chiese un incontro a Palermo proprio al revisore contabile, la Vizzini, che chiamata a testimoniare, raccontò agli inquirenti che in quell’incontro il Cusumano le disse di essere «molto spaventato perché due soggetti con il volto semi coperto da sciarpe l’avevano avvicinato, dicendogli che se avesse continuato a rompere avrebbero reso pubbliche le vicende giudiziarie, che riguardavano la sua famiglia» oltre che alcuni dettagli della sua vita privata. Non trascorsero molti giorni, che, raccontò la Vizzini agli inquirenti, Abbate la chiamò al telefono e le chiese informazioni sull’avvocato Cusumano e cioè «se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se questi avesse partecipato a qualche festa particolare». La Vizzini fu sentita come testimone sulla vicenda, ma del rapporto tra Montante e Abbate vi è traccia nei numerosi atti d’indagine. Sempre sui rapporti della stampa con Montante, è emersa nell’indagine anche la sua frequentazione con l’autore Roberto Galullo de il Sole 24 Ore. L’occasione di scontro fu una collaborazione in un’inchiesta sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, inizialmente scomoda, ma dalla quale poi sarebbe nato «un rapporto molto stretto», come lo definiscono gli inquirenti, tanto che in occasione del sequestro, al Montante fu rinvenuta anche la ricevuta dell’acquisto di 500 copie di un libro sulla legalità scritto dal medesimo giornalista, oltre che quelle di vacanze pagate a Cefalù. Sul rapporto intrattenuto tra i due, esaustiva per gli inquirenti è stata ritenuta l’intercettazione del febbraio 2016, in cui Montante, parlando con Galullo e raccontandogli di «un’accesa discussione» con il direttore de Il Sole 24 Ore, gli riferì di un articolo che lo riguardava «e che non gli era andato a genio». Fu questa l’occasione in cui Montante raccontò al giornalista di aver convinto il direttore, anche ricordandogli di essere un azionista, a scegliere sempre lui, il Galullo appunto, come firma degli articoli che lo riguardavano. Il direttore – sostiene Montante – acconsentì. Così, come quando – era il 13 febbraio 2015 – solo dopo qualche giorno dalla notizia su Repubblica delle indagini in corso a suo carico, che compariva sul blog del giornalista l’articolo "Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti".

Sistema Montante, ma una informativa non è oro colato, scrive Piero Sansonetti il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Probabilmente sono tutti innocenti, anche Montante forse è innocente. Chissà però che questa inchiesta non ci possa aiutare a riportare sulla terra l’informazione sulla mafia. L’ informativa della polizia sul «sistema Montante», della quale parla l’articolo di Damiano Aliprandi, è abbastanza clamorosa. Se la metà delle notizie che contiene fosse verificata e confermata, vorrebbe dire che un pezzo importante del giornalismo antimafia è assai meno trasparente di quel che vuole far credere. Il problema è che attualmente esiste solo questa informativa. Riscontri zero, non ci sono prove. E le informative della polizia e dei carabinieri, se le cose funzionassero bene nel nostro sistema giudiziario- informativo, sarebbero materiale di lavoro esclusivamente per la magistratura e non per i giornalisti. Invece succede sempre che c’è una manina – tra i poliziotti, o i giudici che diffonde queste informative, e scoppia il putiferio. È stato sulla base delle informative di alcuni carabinieri (poi risultate addirittura contraffatte) che un anno e mezzo fa scoppiò il caso Consip che portò danni irreparabili – e ingiusti – alla figura dell’ex premier Renzi e del partito democratico. Almeno in parte la attuale situazione politica – con i partiti populisti in grande vantaggio su quelli liberali e socialdemocratici – è figlia di quello scandalo, montato in modo sofisticato e sapiente. Allora fu soprattutto il Fatto Quotidiano a condurre la campagna, con l’appoggio dei 5Stelle, ma fu ben spalleggiato da altri grandi giornali, che si contesero informative della polizia, testi segreti di intercettazioni, e persino di intercettazioni illegali, come quelle tra un imputato e il suo avvocato. Cerchiamo ora di evitare che si ripeta quel copione a parti invertite. Stavolta i giornalisti del Fatto invece che dalla parte dei fustigatori di costumi sono dalla parte dei sospettati. Ecco, evitiamo il gioco delle ritorsioni. E consideriamo tutti innocenti fino a prova contraria. Gli amici del Fatto conoscono benissimo quella vecchia e celebre frase di Pietro Nenni: «Se fai a gara a fare il più puro, troverai sempre uno più puro di te che ti epura…». Devo dire che ho l’impressione che il rischio di una campagna di stampa contro Il Fatto, o contro l’Espresso, per i sospetti avanzati dalla polizia di Caltanissetta, non sia un rischio altissimo. Dentro l’informativa della polizia ci sono nomi e fatti che riguardano una decina di giornalisti e di giornali importanti. Qualcosa mi dice che i giornali e i giornalisti, se scoppia qualche scandaletto che li riguarda, diventano molto indulgenti. Immagino che se questa informativa riguardasse qualche ministro del Pd, o qualche donna o uomo del cerchio magico di Berlusconi, per esempio, avrebbe già conquistato i titoli di apertura di tutti i giornali, avrebbe riempito i talk show (anche della “7”) e magari avrebbe provocato una raffica di dimissioni. Coi giornalisti, si capisce, è diverso. Fatta questa premessa, e ribadita la mia convinzione sull’innocenza dei colleghi accusati, occorrerà anche qualche riflessione sul rapporto del giornalismo italiano con l’antimafia. Riflessioni che non hanno niente a che fare con questa inchiesta: l’inchiesta è solo lo spunto. Esiste un problema, ed esiste da tempo. Il giornalismo che si occupa di mafia, e che quindi fornisce le informazioni sulla mafia e sulla lotta alla mafia, è esclusivamente quello accreditato dalla famosa compagnia dell’antimafia. Cioè da quel gruppo di magistrati e di intellettuali e di sacerdoti e di rappresentanti politici che si sono conquistati non si sa bene come l’esclusiva del marchio antimafia, e lo usano a loro piacimento. Se un giornalista non ha il benestare della compagnia è bene che non si occupi di mafia. Questo è un problema, perché l’assoluta assenza di pluralismo, su questo terreno, ha prodotto fenomeni macroscopici di disinformazione. L’assenza di pluralismo, e quindi di punti di vista, sempre produce una distorsione dell’informazione. E trasforma le ipotesi (o, peggio, le tesi) in verità rivelata. Basta guardare a come i giornali e le televisioni hanno riferito del processo “Trattativa”. Tutti allineati sulle posizioni dei Pm, e in particolare del Pm Di Matteo. Dov’è l’anomalia del processo “Trattativa”? Non tanto nella linea accusatoria (che io considero debolissima, inconsistente, ma che è legittima) quanto nella copertura giornalistica, colpevolista, che è stata così massiccia e così acritica da determinare un condizionamento evidente della giuria. Basta dire che qualche giorno fa un consigliere di amministrazione della Rai, di gran nome (parlo di Carlo Freccero) ha chiesto la trasmissione di un documentario colpevolista sulle reti Rai, quando il processo è ancora al primo grado. E siccome il presidente della Rai, logicamente, gli ha detto di no, si è indignato, ha mobilitato il Fatto e addirittura ha parlato di censura. Senza che nessuno si scandalizzasse per le sue prese di posizione. Sarebbe una novità importante se invece adesso potessimo ricominciare a parlare di antimafia facendo piazza pulita dei pregiudizi e del potere “feudale” della “compagnia antimafia”. In questo, l’inchiesta- Montante ci può aiutare. Io sono abbastanza convinto non solo dell’innocenza dei colleghi, ma anche della probabile innocenza di Montante. Spero che saranno tutti completamente scagionati. E spero che poi, anche con loro, si potrà finalmente iniziare a discutere, e a ragionare, senza che nessuno accampi un complesso e un diritto di superiorità.

ESCLUSIVO – «Sistema Montante»: ecco il capitolo sui giornalisti, con tutti i nomi, scrive "Site.it" il 25 maggio 2018. Ad essere coinvolto nel «Sistema Montante» è anche il mondo dell’informazione. Nessuno dei nomi dei giornalisti, anche illustri, è stato finora pubblicato dalla stampa: su questo punto si registra un misto di pudore, prudenza, garantismo e autocensura che ha improvvisamente contagiato quasi tutte le redazioni italiane: un silenzio imbarazzante che per certi versi sfiora quasi l’omertà. SITe.it – per dovere di cronaca – ha deciso di pubblicare l’intero capitolo dell’Informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta su Montante dalla Procura – con tutti i nomi delle testate e dei colleghi coinvolti, anche per dare l’opportunità a chi si sente chiamato in causa ingiustamente di potersi difendere. Buona lettura.

CAPITOLO XIII RAPPORTI DEL MONTANTE ANTONIO CALOGERO CON I GIORNALISTI. Le dichiarazioni del VENTURI Marco hanno riguardato anche i rapporti “distorti” che il MONTANTE ha intrattenuto con alcuni giornalisti per carpirne la benevolenza nelle cronache.

Ancora una volta le propalazioni del VENTURI trovavano riscontro in materiale rinvenuto nel corso delle perquisizioni ed anche nelle attività di intercettazione a suo carico nonchè in altre dichiarazioni rese da altri soggetti escussi nell’ambito del presente procedimento.

Filo conduttore della condotta del MONTANTE è il fastidio di quest’ultimo nei confronti di giornalisti che si mostravano critici nei suoi confronti o in quelli di soggetti a lui vicini, nonché nei confronti dell’operato di Confindustria.

Prima di entrare nel merito della trattazione di questo capitolo, appare importante premettere che alcune delle condotte dei giornalisti di cui si riferirà contravvengono anzitutto, essendo tutti iscritti all’Ordine dei Giornalisti, agli obblighi sanciti dalla “Carta dei doveri del giornalista” dell’8 luglio 1993. La Carta, infatti, prevede l’incompatibilità per il giornalista di ricevere pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, facilitazioni o prebende, da privati o da enti pubblici, che possano condizionare il suo lavoro e l’attività redazionale o ledere la sua credibilità e dignità professionale.

Appare anche importante segnalare che a seguito della rimozione di un articolo pubblicato su “Il Fatto Nisseno” – di cui si dirà più avanti nella parte riguardante il giornalista Michele SPENA - il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015.

Si richiama, anzitutto, emblematicamente, un’intercettazione dal cui contenuto si desume come il MONTANTE sia solito adoperarsi per far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate affinchè non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicino.

Nel prosieguo di detto capitolo saranno riportate anche intercettazioni in cui il MONTANTE “bacchettava” direttamente qualche giornalista per il contenuto a lui non gradito di alcuni articoli.

Nella conversazione nr. 2888 delle ore 14.44 del 20.10.2016, il MONTANTE accusava ONTARIO Silvio, esponente di Confindustria Catania, di non riuscire a intervenire per far sì che non venissero pubblicati articoli che potessero essere lesivi delle loro persone o del loro operato.

In particolare, nel corso del dialogo, il MONTANTE raccomandava all’ONTARIO di stare attento nel portare avanti una manovra occulta ai danni di qualcuno e per questo non si potevano permettere la pubblicazione di articoli che, in un certo senso, andavano a scoprire nervi scoperti, “ora non sanno dunni ci arriva il fulmine capito?... (balbetta)… non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva”.

Immediatamente dopo, infatti, il MONTANTE si lamentava di qualcuno che aveva fornito dei dati sbagliati al giornale, confluiti evidentemente in un articolo che non gli era piaciuto affatto, e rimproverava all’ONTARIO di non riuscire a gestire la situazione col giornale. Il MONTANTE, quindi, gli spiegava che bisogna frequentare i giornalisti e, quando serve, fargli notare che scrivono cose “false”, “nessuno di voi sta, sta, sta… ma non per colpa vostra… sta riuscendo a gestire! Bisogna andare a parlare spesso con quelli là… dirgli scusa ma perché date queste cose oh, queste cosa false”.

L’ONTARIO riteneva che dietro quell’articolo ci fosse la mano di tale VINCI e si faceva subito avanti per andare a parlare con qualcuno della redazione, non appena rientrava a Catania e si proponeva anche per andare a parlare di persona, il successivo lunedì (24.10.2016), con GALULLO che avrebbe potuto pure rintracciare telefonicamente, lasciando al MONTANTE la scelta di cosa sarebbe stato meglio fare.

Il MONTANTE rispondeva che, secondo lui, era meglio andarci a parlare per capire perché erano state scritte certe cose, non meglio specificate.

L’ONTARIO si mostrava accondiscendente e lo pregava di dargli informazioni cosicchè lui avrebbe potuto agire come lui desiderava. Conversazione telefonica nr. 2888:

ONTARIO: ..pronto!..

MONTANTE: ..eih, Silvio ciao.. ONTARIO: ..eih!.. avevo visto ora, non sono riuscito a prenderlo.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..allora, si!.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..stavo parlando.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no, no io così ti ho chiamato!.. senti ho visto la nota fatta bene, ora iooo.. (inc)..

ONTARIO: ..eh!..

MONTANTE: ..domani mattina lo vedo

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..per fare tutta sta, staaa.. tutta sta riflessione e decisioni da prendere.. (inc)..

ONTARIO: ..perfetto!.. quella Casucci mi ha scritto un’altri due messaggi.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..e tu.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e poi.. e gli mandava anche i messaggi a Giorgio mentre era con me, voleva parlare con Giorgio.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma, ma l’ha mandato Giorgio.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..ma questa è pazza comunque eh!.. ma è fusa completamente..

MONTANTE: ..si, si con questo proprio.. cioè non e che sono pazzo, ora non sanno dunni ci arriva il fulmine, capito?.. (balbetta).. non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva!..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..questa è la verità..

ONTARIO: ..certo, certo..

MONTANTE: ..ma poi ho visto i dati che hanno dato sbagliato al giornale, hanno comunicato al giornale..

ONTARIO: ..ma di nuovo quello.. (inc).. quello è scritto da Vinci!.. di nuovo è scritto da Vinci!..

MONTANTE: ..ma si.. (inc).. il problema lo sai qual è?..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..te lo dico.. quello che avevamo anticipato io, che nessuno di voi sta, sta, sta.. ma non per colpa vostra.. sta riuscendo a gestire!.. bisogna andare a parlare spesso con quelli la!.. dirgli ma scusa, ma perché date queste oh, queste cose false!.. ha capito che..

ONTARIO: ..certo..

MONTANTE: ..bisogna parlare con quei.. bisogna fare un po’, un minimo diii no!.. diii, di presenza ..(inc).. chi ha più rapporti, chi ha meglio di rapporti, andarci eh.. poi a scusa, ma perché scrivete sti cazzate!..

ONTARIO: ..io ci posso parlare, però quando torno.. ora sono nel traghetto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..lunedì mattina posso essere da Galullo o gli chiamo telefonicamente dimmelo!.. (si accavallano le voci)

MONTANTE: ..va bene, okkei.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e li avviso io.. (si accavallano le voci).. MONTANTE: ..no, no, tu secondo me..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..secondo me ci devi parlare.. ci dici, guarda ma perché fa, fate scrivere questa cosa eeeh.. ci la diri chiaru!..

ONTARIO: ..va bene.. si, si, si.. MONTANTE: ..va bene.. ONTARIO: ..okkei, okkei..

MONTANTE: ..va bene?..

ONTARIO: ..ti prego dammi informazioni, in modo che.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ceeerto, tranquillo!.. stai tranquillo.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..va bene, va bene.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ciao.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..(inc) essere immediate, ciao..

MONTANTE: ..ciao..

ONTARIO: ..ciao, ciao..

Non si esclude che l’articolo a cui il MONTANTE si stava riferendo fosse quello pubblicato su “La Sicilia” in data 18.10.2016, intitolato “Confindustria Etnea. Il no è consistente. Catania è autonoma – Da Confindustria un secco “no” all’accorpamento”. Ciò anche alla luce del fatto che l’ONTARIO nominava tale VINCI, che si ritiene essere VINCI Francesco Alfio, ex Presidente di Confindustria Catania, il quale, già escusso da codesta A.G. in data 1.10.2015, illustrava in termini negativi la riforma fortemente voluta dal MONTANTE e relativa all’accorpamento delle Camere di Commercio Siciliane.

13.1 Le dichiarazioni del VENTURI Marco, ed i relativi riscontri, sui rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione.

In data 14.11.2015, il VENTURI, con riguardo ai rapporti con esponenti del mondo dell’informazione, dichiarava che, dopo circa un anno dalla pubblicazione di un articolo critico nei confronti di Confindustria su “Il fatto Quotidiano” a firma dei giornalisti Giuseppe LO BIANCO e Sandra RIZZA, il MONTANTE, nel corso di una riunione di Confindustria Sicilia, aveva preteso che sia il VENTURI che altri presenti alla riunione (ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo e forse NAVARRA Salvatore e CAPPELLO Giorgio) versassero un contributo per finanziare un giornale on – line denominato “L’Ora Quotidiano” che doveva essere curato proprio dai summenzionati giornalisti.

Nello spiegare la ragione di tale richiesta, il MONTANTE aveva detto espressamente che “bisognava ammorbidire”, il LO BIANCO e la RIZZA per evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare personalmente lui e il LO BELLO Ivanhoe e Confindustria Sicilia in generale.

Il VENTURI riferiva di avere versato un contributo di ventimila euro mentre il MONTANTE aveva versato delle somme di denaro “in nero” perché non voleva figurare tra i finanziatori, per far sì che all’esterno non potesse trasparire il tentativo di captatio benevolentiae che stava ponendo in essere.

Il VENTURI aggiungeva che il CATANZARO ebbe a lamentarsi con il MONTANTE per la pubblicazione, nel novembre del 2014, di un articolo critico nei suoi confronti proprio sul giornale on – line che avevano finanziato.

Così riferiva il VENTURI in data 14.11.2015: …omissis…

A.D.R.: Con riguardo ai rapporti di MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, ricordo, innanzitutto, una riunione informale del direttivo regionale di Confindustria Sicilia che si tenne a Caltanissetta dopo altra riunione che vi era stata in Prefettura ad Agrigento per la firma di un protocollo di legalità. Alla riunione in questione di Confindustria, oltre a me, parteciparono ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo, e, forse, Salvatore NAVARRA e Giorgio CAPPELLO. Ricordo che, in quella occasione, prese la parola MONTANTE e disse, in premessa, che chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria avrebbe dovuto erogare contributi economici. Subito dopo ci fece presente che occorreva sponsorizzare una nuova iniziativa editoriale che si riprometteva di impiantare un sito on line “L’Ora Quotidiano” e di pubblicare un mensile cartaceo, iniziativa proposta da due giornalisti LO BIANCO Giuseppe e RIZZA Sandra, che circa un anno prima avevano pubblicato un articolo su “Il fatto quotidiano” critico nei confronti di Confindustria. In particolare il MONTANTE disse che CATANZARO si sarebbe occupato di fornire le nostre mail al responsabile della pubblicità di tale iniziativa editoriale, tale Ferdinando CALACIURA, il cui nome, così come quello della società da questi gestita, ricavo dalla mail – che ho prodotto alla S.V. – con la quale, poi, costui mi inviò “la proposta di pianificazione”. Sempre il MONTANTE fece presente che il LO BIANCO e la RIZZA erano bravi giornalisti ed occorreva, perciò, renderli “più morbidi”, onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona e quella del LO BELLO oltre che CONFINDUSTRIA SICILIA in generale. Anche il LO BELLO intervenne nella discussione nella sostanza trovandosi concorde con ciò che diceva il MONTANTE, anche perché, in quel periodo, era in ballo la sua nomina a presidente di Unioncamere ed aveva perciò interesse a che non uscissero notizie pregiudizievoli nei suoi confronti. Inoltre, ritengo che il MONTANTE avesse già iniziato a percepire di possibili iniziative giudiziarie nei suoi confronti e che quindi potessero uscire notizie sulla stampa che lo potessero danneggiare. Io aderii alla proposta di MONTANTE e LO BELLO ed effettivamente versai, tramite bonifici bancari, la somma di 20.000 euro in due tranche, una a settembre e l’altra a dicembre del 2014. So che TURCO ha versato la somma di 10.000 euro. MONTANTE, forse nel settembre di quell’anno, mi disse poi che aveva versato somme di danaro “in nero” per tale iniziativa imprenditoriale, anche se non me ne specificò l’importo, poiché preferiva non comparire personalmente. Non ho poi più saputo alcunché di tale vicenda; alla scadenza del rapporto non rinnovai la sponsorizzazione della iniziativa editoriale e non so perché la stessa sia poi fallita, anche perché i miei rapporti col MONTANTE si sono successivamente allentati. Ricordo anche che a novembre del 2014 “L’Ora Quotidiano” pubblicò un articolo critico nei confronti di CATANZARO e questi mi disse di essersene lamentato con lo stesso MONTANTE, chiedendogli spiegazioni visto che li avevamo finanziati. Non mi risulta che siano stati pubblicati articoli critici nei confronti di MONTANTE e LO BELLO. Mi risulta, invece, che quando già il sito de “L’ora quotidiano” aveva chiuso, i giornalisti RIZZA e LO BIANCO, nel settembre del 2015, pubblicarono articoli nei confronti del MONTANTE e del LO BELLO. In sede di rilettura del verbale il dott. VENTURI precisa: forse gli articoli di cui sto parlando riguardavano solo MONTANTE e non LO BELLO. …omissis.. Effettivamente il giornale on – line “L’Ora Quotidiano” apriva i battenti il 18.10.2014 ma, pochissimo tempo dopo, il 22.2.2015 veniva chiuso. Tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE in occasione delle perquisizioni esperite in data 22.1.2016, veniva rinvenuta, presso la sua abitazione, proprio una bozza relativa a questo progetto editoriale. Che l’articolo del LO BIANCO e della RIZZO non fosse passato inosservato per il MONTANTE, è assodato anche dal fatto che non manca di annotarselo. Poi cerca l’abboccamento con i due giornalisti. Così si legge nel file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”:

02/10/2013 Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco scrivono articolo Il Fatto Quotidiano, contro Lo Bello e Montante, con il titolo Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della Legalità

23/04/2014 ore 18,30/19,30 Sandra Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

24/04/2014 ore 20,05 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza@62gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Ecco il materiale che oggi ho elaborato con Peppino e Vittorio. Buona festa della liberazione. Sandra

13/05/2014 ore 14/15 app. Rizza e Lo Bianco

13/05/2014 ore 17,30/18,30 app. Rizza e Lo Bianco ore 17,57 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Elenco di arredi per la sede dell' Ora Quotidiana (Albanese il 18/15/2015 alle 16,52 mi invia piantina sezione uffici)

27/05/2014 ore 15/16m Rizza Sandra in via Segesta,9

08/07/2014 ore 19/20 Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

29/07/2014 ore 11,30/12,30 app. Lo Bianco e Rizza

03/09/2014 ore 12/13 app. Sandra Rizza in redazione

09/09/2014 ore 16,56 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco il pezzo = E' un pezzo scritto molti anni fa, non ricordo nemmeno se sia uscito. Sandra

30/09/2014 ore 20/21 app. Sandra Rizza, Lo Bianco, Corradino con Albanese

20/10/2014 ore 17,30/18,30 app. Sandra Rizza e Lo Bianco con Catanzaro

12/11/2014 ore 08,30/09,30 Rizza Sandra e Corradino a Porta Felicia

02/12/2014 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza e Corradino in Unioncamere

23/12/2014 ore 20,30/21,30 moglie Corradino Vittorio Unioncamere

16/12/2014 ore 12/13 Sandra Rizza, Corradino e moglie in Unioncamere

13/01/2015 ore 15,30/16,30 Sandra Rizza e Corradino Vittorio in Sicindustria 27/01/2015 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza Sicindustria

27/01/2015 ore 21,30/22,30 Lo Bianco Vineria via Dante

Il più volte sopra menzionato CORRADINO Vittorio, nel 2010 è un altro giornalista che, nel 2010, è stato anche eletto Presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti siciliani; è stato anche vice caporedattore de “L’Ora”. Sulla vicenda riguardante la creazione di tale giornale on – line e l’insofferenza del MONTANTE a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, si richiamano anche le dichiarazioni rese dal giornalista de “Il Sole 24 ore” Giuseppe ODDO, escusso in data 27.11.2015, il quale dichiarava che quando era stato pubblicato l’articolo del LO BIANCO e della RIZZA su “Il Fatto Quotidiano”, il MONTANTE lo aveva chiamato perché avendo mal digerito l’attacco a lui ed al LO BELLO Ivanhoe, voleva che l’ODDO intervenisse con il direttore del giornale romano, PADELLARO.

Così riferiva l’ODDO: …omissis… A.D.R.: Ricordo anche che, quando nel luglio del 2013 uscì su “Il Fatto Quotidiano” un articolo dei giornalisti LO BIANCO e RIZZA sui “professionisti dell’antimafia”, il MONTANTE mi chiamò chiedendomi di intervenire con il direttore Padellaro per comprendere le ragioni per le quali era apparso un articolo così critico nei confronti suoi e di LO BELLO. Ovviamente rifiutai l’invito del MONTANTE, dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere. …omissis…

A proposito dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, a firma del Giuseppe LO BIANCO e della Sandra RIZZA, critico nei riguardi del MONTANTE, e a conferma del forte fastidio provato da quest’ultimo, si rappresenta che esso è stato anche uno dei “pomi della discordia” con il magistrato Niccolò MARINO, il quale riferiva alla Procura di Catania – nell’ambito di un procedimento lì instaurato – che, nel corso di un incontro all’hotel Excelsior di Catania, si ebbe a scontrare fortemente con il MONTANTE, il quale lo riteneva artefice occulto di quell’articolo.

Sempre in relazione ai rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, il VENTURI riferiva di altre circostanze relative ai giornalisti MARTORANA Giuseppe de “Il Giornale di Sicilia”; PEPI Giovanni de “Il Giornale di Sicilia”; SPENA Michele de “Il Fatto Nisseno”; SOTTILE Giuseppe de “Il Foglio”.

Con riguardo allo SPENA, il VENTURI riferiva che il MONTANTE gli disse che bisognava “dargli una mano” e, pochi giorni dopo, lo SPENA si era recato dal VENTURI per chiedergli una sponsorizzazione dell’importo di 2500,00 euro, visto che il MONTANTE gli aveva assicurato questo finanziamento.

Con riguardo al MARTORANA Giuseppe, il VENTURI riferiva che Confindustria Centro Sicilia gli aveva conferito un incarico.

Con riguardo al PEPI Giovanni, il VENTURI riferiva che il MONTANTE in più occasioni aveva finanziato mostre fotografiche di quest’ultimo.

Infine, con riguardo al SOTTILE Giuseppe, il VENTURI riferiva che, al tempo in cui era assessore, il MONTANTE gli aveva chiesto di assegnare una consulenza alla figlia del giornalista ed effettivamente le aveva affidato tale incarico.

Così riferiva il VENTURI nel verbale del 14.11.2015: A.D.R Sempre in relazione ai rapporti con la stampa, devo anche dire che nel settembre del 2014 il MONTANTE mi preannunciò telefonicamente che sarebbe venuto a trovarmi Michele SPENA, che credo essere l’editore de “Il Fatto Nisseno”, al quale “occorreva dare una mano”. In effetti, dopo aver concordato telefonicamente un appuntamento, venne nei miei uffici lo SPENA, il quale mi fece presente che il MONTANTE gli aveva assicurato la sponsorizzazione degli imprenditori nisseni; si riservò di mandarmi una mail con una proposta, che effettivamente mi giunse e con la quale mi si chiedeva un contributo di 2.500 euro. Non versai poiché alcunché allo PSENA non giudicando valida l’iniziativa. Non so se qualcuno abbia poi versato somme di danaro per sponsorizzare la testa giornalistica dello SPENA. …omissis…

A.D.R. La S.V. mi chiede se mi risultano altri rapporti con giornalisti ed a tal proposito evidenzio che CONFINDUSTRIA Centro Sicilia ha conferito un incarico a Giuseppe MARTORANA, capo redattore del Giornale di Sicilia; mi risulta che il MONTANTE, peraltro, avesse già ottimi rapporti con Giovanni PEPI, al quale peraltro, per come mi disse lo stesso MONTANTE, questi aveva in più occasioni finanziato mostre fotografiche.

Così aggiungeva il VENTURI nel verbale del 4.8.2016: …omissis… A.D.R.: il MONTANTE mi chiese anche di affidare un incarico di consulenza, sempre quando ero Assessore, alla figlia del giornalista Giuseppe SOTTILE, incarico che effettivamente le affidai. …omissis…

Effettivamente il capo redattore de “Il Giornale di Sicilia” in Caltanissetta, MARTORANA Giuseppe, in data 8.7.2013, ha stipulato con Confindustria Centro Sicilia un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (avente inizio il 15.7.2013 e fine il 31.3.2015), per un importo di euro 1038,62 mensili, come si desume dal “riepilogo netti in busta paga relativi al mese di marzo”. Ciò veniva già comunicato con nota nr. 98/2017 cat. II Mob. SCO3 dell’11.1.2017, in cui veniva compendiata l’attività di acquisizione, presso la sede Confindustria Centro Sicilia di Caltanissetta, della documentazione in ordine ad incarichi conferiti in favore di giornalisti, ossia:

• Antonino AMADORE, giornalista della sede “ il sole 24 “ di Palermo”;

• PANTALEONE Salvatore Wladimir;

• MARTORANA Giuseppe, responsabile della sede del Giornale di Sicilia di Caltanissetta.

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate presso la sua abitazione in data 22.1.2016, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTORANA inviava al MONTANTE una lettera inviata al giornale di Sicilia dal TORNATORE Pasquale, che ne chiedeva la pubblicazione.

Si rammenta brevemente che – come noto a codesta A.G. – il TORNATORE Pasquale è un soggetto che è stato pubblicamente critico nei confronti del MONTANTE, che lo ha, pertanto, tacciato di essere un poco di buono. Si ricorda altresì che il GIAMMUSSO Emilio, presidente del Consorzio Universitario di Caltanissetta, soggetto molto vicino al MONTANTE, faceva una denuncia contro il TORNATORE Pasquale per estorsione: veniva acceso così il p.p. nr. 3146/13 R.G.N.R. Mod. 21 che si chiudeva, dopo indagini svolte da questa Squadra Mobile, con un’archiviazione.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MARTORANA Giuseppe:

05/05/2014 ore 15/16 app. Barresi e Martorana CCIAA

05/05/2015 ore 11,00 Martorana casa (Aud)

22/06/2015 ore 15,00 app. Martorana a casa 21/09/2015 ore 10,30 Altarello Diego / Martorana (Aud)

28/09/2015 ore 08,30 Martorana Altarello

Anche i rapporti col PEPI Giovanni sono riscontrati dalla documentazione rinvenuta in sede di perquisizioni a carico del MONTANTE. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al PEPI:

17/11/2007 ore 18,30 consegna bici Kalos a Giovanni Pepi

31/03/2008 PEPI GIOVANNI MU018 KALOS UOMO

11/02/2009 ore 08,45 app. Pepi con Emma via Veneto

12/05/2009 pranzo Pepi da Charme

15/06/2009 ore 15,00 app. Pepi Astoria 13/08/2009 pranzo Pepi da Charme

18/09/2009 cena Pepi al Montecristo

19/09/2009 EICMA Pepi e Sunzeri

05/11/2009 ore 18,00 app. Emma e Pepi

24/11/2009 pranzo Pepi da Charme

29/12/2009 pranzo Pepi alla Scuderia

01/02/2012 ore 11,30 Pepi al Bernini

27/04/2012 ore 21,00 cena con Pepi da Regine (segnalato suo amico Fabrizio Gerardi) (Senn)

05/06/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi al ristorante Regine

17/07/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi

03/06/2013 cena Ribisi, Pepi, Linares squadra mobile Trapani da Charm

16/07/2013 cena Pepi da Charme

18/03/2014 ore 21/22 cena Natale Giunta con Pepi e Agnese

09/09/2014 ore 14/15 pranzo Pepi e poi Ester da Charme

03/02/2015 ore 21,30/22,30 cena Pepi da Charme

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE PEPI GIOVANNI: FABRIZIO GERARDI PA

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) PEPI GIOVANNI

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE nel corso delle perquisizioni esperite a suo carico, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una delibera di Giunta della camera di Commercio di Caltanissetta del 23.6.2015 con cui venivano stanziati 9000,00 euro per “CL PRESS di Michele Maria Spena”.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare allo SPENA.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi allo SPENA Michele:

26/06/2014 ore 10,30/11,30 app. Michele Spena al bar Crem

27/10/2014 ore 13,15/14,15 app. Spena al Caffè Crem

30/11/2014 richiesta spazi pubblicitari Il FATTO NISSENO a Unioncamere Sicilia richiesta di !.10.000,00 protocollata 04/12/2014

04/03/2015 ore 11,00 Spena Michele bar Sicilia CL (Aud)

21/04/2015 ore 17,30/18,30 Spena in CCIAA (Aud)

23/06/2015 ore 15,00 app. Spena CCIAA (Aud)

08/09/2015 ore 15,00 app. Spena Michele al bar Crem

28/09/2015 ore 18,00 app. Spena Michele e Catanzaro in CCIAA CL

12/10/2015 ore 15,25 app. Michele Spena in CCIAA (Aud)

Inoltre, riguardo allo SPENA Michele occorre segnalare che egli, in passato, ha anche curato, unitamente a MAIORCA Corrado, una pubblicazione free press denominata “Sicilia Oggi”.

Proprio a proposito di tale free press, il TORNATORE Pasquale, in data 4.12.2015, riferiva che tra gli inserzionisti vi erano ROMANO Massimo e VENTURI Marco e vi lavorava ARDIZZONE Giuliana, la figlia del colonnello ARDIZZONE Gianfranco, la quale lo aveva contattato per fargli un’intervista.

Perciò il TORNATORE chiamava lo SPENA per avere conferma che la ARDIZZONE fosse una sua collaboratrice e lo SPENA, oltre a confermarglielo, gli diceva anche che lavorava per lui, nonostante risultasse assunta in Confidi, impiego per cui si era rivelata inadatta.

Così riferiva il TORNATORE: …omissis… A.D.R.: Posso anche dire di aver conosciuto la figlia di ARDIZZONE, Giuliana, poiché la stessa mi contattò qualificandosi come una giornalista di “Sicilia Oggi”, una pubblicazione free press all’epoca curata da Michele SPENA e da Corrado MAIORCA. La ARDIZZONE mi propose, al telefono, di realizzare un’intervista, sicché contatati poi lo SPENA per capire se la ragazza fosse la figlia del comandante della Guardia di Finanza del tempo. Lo SPENA mi confermò che era lei e che collaborava con il suo giornale, poiché, pur essendo stata assunta al CONFIDI, gli erta stato chiesto di impiegarla in qualche modo essendosi rivelata inadatta a svolgere le mansioni per le quali era stata assunta al CONFIDI. L’intervista effettivamente ebbe luogo e l’articolo venne poi pubblicato; non so se ne sono ancora in possesso e se così dovesse essere mi riservo di farne avere una copia alla S.V.. Posso anche dire che tra gli inserzionisti pubblicitari di Sicilia Oggi vi furono sicuramente il ROMANO ed il VENTURI. …omissis…

Escusso il ROMANO Massimo in data 18.7.2016, confermava sia di essere inserzionista del free press “Sicilia Oggi” - anche se non ricordava se lo fossero anche il VENTURI Marco ed il MONTANTE Antonio Calogero - sia che la ARDIZZONE Giuliana collaborasse con tale giornale, sebbene fosse assunta in Confidi.

Riferiva però di non conoscere le ragioni per le quali la ARDIZZONE assunse questo incarico, nonostante lavorasse per Confidi.

Così riferiva il ROMANO: …omissis… A D.R.: La S.V. mi chiede se la sig.ra Giovanna ARDIZZONE, all’epoca della sua occupazione presso il CONFIDI, collaborasse anche con una testata giornalistica free press denominata “SICILIA-OGGI” e me ne chiede le ragioni. A tal proposito posso dire di sapere tale circostanza, ma di non conoscere le motivazioni di tale collaborazione. La S.V. mi chiede se io sia stato inserzionista di tale pubblicazione free press ed al riguardo rispondo positivamente, ma non so se oltre a me lo fossero anche MONTANTE e VENTURI. …omissis…

Infine, per quanto riguarda lo SPENA, appare opportuno segnalare anche che il 16.2.2015 su “Il Fatto Nisseno” veniva pubblicato un articolo intitolato: “L’intervista. Legalità? Una parola da abolire. Parla Michele Costa, figlio del procuratore ucciso dalla mafia”. Chiestogli un parere sulla vicenda Montante - esplosa qualche giorno prima con la pubblicazione dell’articolo di Bolzoni il 9.2.2015 – l’avv. COSTA esprimeva un parere sull’opportunità che il MONTANTE si mettesse da parte in attesa della definizione della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito. Ebbene, tale articolo veniva rimosso poco dopo la pubblicazione. A seguito di tale increscioso avvenimento, come anticipato all’inizio del presente capitolo, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015. Per quanto riguarda la figlia del giornalista SOTTILE Giuseppe, nato a Gangi il 15.3.1946, si segnala che effettivamente egli ha una figlia a nome Alessia, nata a Palermo il 30.11.1974. Come evinto dal suo profilo in LinkedIn, la SOTTILE Alessia di professione fa la consulente. Inoltre a SOTTILE Alessia il MONTANTE ha anche regalato una bicicletta, come ricavato dai numerosi elenchi che sono stati rinvenuti presso l’abitazione del MONTANTE in relazione a regali che egli ha fatto urbi et orbi. In questo elenco figurano altri due giornalisti: GIACOMOTTI Fabiana de “Il Foglio” e BARTOLETTI Marino. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi alla SOTTILE Alessia:

28/08/2009 ALESSIA SOTTILE 001-001 TREKKING CARBON DISK

Il MONTANTE manteneva ottimi rapporti con il giornalista SOTTILE Giuseppe - attualmente responsabile dell'inserto del sabato del quotidiano Il Foglio, del quale è stato anche condirettore - come si desumeva sia dalla documentazione sequestrata al MONTANTE sia dalle intercettazioni dalle quali emergeva che il giornalista era accondiscendente alle richieste del MONTANTE.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al SOTTILE Giuseppe:

21/07/2009 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile e Marco Venturi al ristorante piazza C…………..

04/08/2009 ore 21,00 cena con Sottile, Piritore, Di Simone al Bernini

04/11/2009 ore 13,00 pranzo Sottile e Ivan

04/12/2009 pranzo Sottile

16/12/2009 ore 21,00 cena con Sottile e Marco Venturi al Bernini

01/09/2010 ore 21,00 cena con Ivan Lo Bello e Sottile

14/12/2011 ore 13,30 pranzo Cirillo / La Licata Ciccio / Dispenza / Sottile da Tullio

01/02/2012 ore 13,30 pranzo P.Sottile e Ivan

07/04/2012 ore 16,00 a casa Peppino Sottile

17/05/2012 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile

07/06/2012 pranzo Peppino Sottile in Confindustria Roma

21/07/2012 cena Peppino Sottile

20/12/2012 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

27/11/2013 ore 09,30/10,30 colazione Alfano e Sottile al Bernini

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino da Marco Piazza Caprinica

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

27/01/2015 ore 21/22 cena con Peppino Sottile

27/01/2015 ore 21/22 cena Peppino Sottile

17/02/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Sottile Via XII Gennaio,8 Politeama

25/02/2015 ore 09,15/10,15 Sottile in aeroporto

06/03/2015 ore 08,30/09,30 colazione Sottile via Del Gesù,85 (Aud)

22/04/2015 09,15/10,15 Sottile in aeroporto Roma

10/06/2015 ore 17,00 con Sottile + Venturi Bar sotto la redazione IL FOGLIO Roma

30/06/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile, Chiara Mancini + Lo Bello da Tullio

21/07/2015 ore 17,00 Palermo / Roma incontrato in aereo Lo Voi - Sottile - Prof. Pignatone Roberto

22/07/2015 ore 10,00 colazione Chiara Mancini + Sottile al Bernini

05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile 2 15/09/2015 ore 10,00 app. Sottile Peppino sotto casa sua

21/10/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

Nel corso della conversazione nr. 694603 delle ore 18.54 del 9.6.2016, il MONTANTE chiamava il giornalista SOTTILE Giuseppe per lamentarsi di un articolo pubblicato quel giorno, a firma del giornalista SABELLA Accursio, riguardante la polemica sulla questione “rifiuti” in Sicilia e, nel fare riferimento al CATANZARO Giuseppe, era stato evidenziato il legame di quest’ultimo con il MONTANTE. Utilizzando anche un linguaggio scurrile, il MONTANTE ripeteva, più volte, adirato, al SOTTILE che non si dovevano fare questi parallelismi con lui.

Chiestogli se aveva capito cosa intendesse, il SOTTILE rispondeva che era “chiarissimo” e che avrebbe “provveduto”, rimarcando il fatto che il MONTANTE aveva perfettamente ragione.

Conversazione telefonica nr. 694: All’inizio la conversazione ha un carattere amichevole e non inerente alle indagini. Poi a minuti 01.06 la conversazione per il suo particolare contenuto viene trascritta integralmente.

MONTANTE: ..si!.. ti volevo dire solo per.. lo sai che io non, non.. sono cose molto, sono molto rispettoso di quello che si scrive.. eh, eh, oggi ci è stata na, c’è na polemica, naturalmente ..(balbetta).. su a munnizza, rifiuti..

SOTTILE: ..si, si..

MONTANTE: ..csi ca a mia, ca nuatri un ni, ni futti un cazzu come Confindustria..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..però c’è il vice Presidente di Confindustria che è Catanzaro, che, a fa questo mestiere no!.. (inc).. quindi viene..

SOTTILE: ..vabbè, si, si.. (inc)..

MONTANTE: ..però se tu vedi, vedi.. nooo, se tu vedi il tuo pezzo, il vostro pezzo di poco fa dii.. eh, accumencia a parlari di Catanzaru vice presidente, vicino a Montante.. Montante eh, per cui.. ogni volta Accurso eh, direttamnte.. la notizia ci sta va beni.. cose loro.. ma chi c’entra, nun c’entra ne Confindustria ne Montante che.. tutti sono vicini a Montante perché Confindustria..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..è un Presidente.. quindi ogni vota se tu, se tu lo leggi lo vedi.. non ne che siamo bambini diciamo, oooh.. ogni vota se tu lo vedi è veramenti da distu, da azione di disturbo, piccole cose, stiamo parlando di niente.. è per solo per farti notare..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..Accurso ..(inc).. è bravo una vostra punta, però ogni vota eh, avi questa cosa!.. un c’intru, chi cazzu c’entra Confindustria?.. parla della Marcegaglia che, che tratta a Marcegaglia con l’Ilva, non c’entra mai Confindustria o vici presidenti!.. chi c’entra.. Catanzaru ha un problema ..(balbetta).. ca avi a Siculiana..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..quannu pua ci etta un Sinnacu, cafuddra!..

SOTTILE: ..nella, nella, nella sua, certo!..

MONTANTE: ..eh!.. e pua, Montanti amicu, vicinu a Montanti.. ma tutti sono vicini a Mo, se Montante vuol vedere.. sennò mi dimetto, accussì un c’è nuddru chiù vicinu a Montanti..

SOTTILE: ..eh..

MONTANTE: ..e siamu a pustu!.. su questo e il, eeh capisci?.. eeeh..

SOTTILE: ..pronto!..

MONTANTE: ..fin quando scrivi fin.. pronto!..

SOTTILE: ..si ti sento..

MONTANTE: ..no fin quando scri.. nooo scusa, fin quando scrivi.. ì sacciu, giornali faziosi, quel che è.. perché vogliono fo, fottere politico.. però chi c’entra su una polemica che tra Crocetta e un problema di munnizza, che poi ci putissi stari Catanzaru..

SOTTILE: ..cioè, l’unica cosa e che li lui la tira strumentalmente questo Crocetta, perché ovviamente ha scritto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma a Crocetta ci putiti.. a Crocetta ci putiti diri che, coglioni cretinu, fallutu eh, eh, sceccu, tutti cosi ma un c’entra.. chi c’entra Mo, Mo, eh.. ne (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..chiarissimo..

MONTANTE: ..ci putiti mettiri ca puru.. (inc).. co Catanzaru!.. ma nun c’entra nè Confindustria e mancu Montanti in questa cosa no?..

SOTTILE: ..assolutamenti..

MONTANTE: ..ci ana fari trasiri, ci ana fari trasiri a Montanti a tutti i costi, questo è il concetto!.. la notizia va beni.. (inc).. (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..facciamo finta che è un gesto d’amore, provvederemo!..

MONTANTE: ..no, no, no, era solo era.. t’imamgini anchi sempri accussì può scriviri.. era solo per diri.. (balbetta).. e un, un.. non, non mi pare u, u, un taglio di un giornale come quello che, che possa avere la tua vita, questo ..(balbetta).. c’è qualcosa che.. minchia.. a parte che..

SOTTILE: ..hai perfettamente ragione.. ma non che sempre ad un amico puo chiedere (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..eh, però è sempre.. nooo è sempre, è sempre Sabe, sempri Sabella però, sempri..

SOTTILE: ..chiarissimo!..

MONTANTE: ..sempri iddru, va beni?.. okkey!..

SOTTILE: ..un baciuzzu.. MONTANTE: ..auguri in bocca al lupo per te, poi ci sentiamo la prossima settimana.. SOTTILE: ..ciao.. MONTANTE: ..ciao..

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal CICERO Alfonso.

Il CICERO Alfonso, nel documento che allegava alle sommarie informazioni rese a codesta A.G. in data 2.11.2015, annotava delle circostanze riguardanti delle testate giornalistiche. In particolare riferiva della intermediazione del MONTANTE affinchè il CICERO rilasciasse un’intervista a “Il Fatto Quotidiano”; vicenda che aveva visto l’interessamento anche del LO BELLO Ivanhoe. D’altronde nel corpo dell’articolo veniva dato ampio risalto sia all’imprenditore nisseno che a quello catanese. Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 2.11.2015 – pag. 14 …omissis…

24 DICEMBRE 2013: Proprio su “Il Fatto Quotidiano” che appena due mesi prima aveva parlato di dossier contro gli industriali siciliani, veniva pubblicato l’articolo “In Sicilia l’impresa delle ASI: ripulire il sistema industriale”. L’occhiello, sopra il titolo dell’articolo, riportava “Mafia & attentati la trincea degli industriali siciliani” (all. nr. 32) E’ importante evidenziare la genesi di tale articolo. Montante, infatti, mi informava che , per tramite di LO BELLO, sarei stato contattato dal giornalista della citata testata di stampa per fornire informazioni precise sulla mia azione di contrasto ai sistemi mafiosi e mi sottolineava, inoltre, che tale iniziativa poteva concorrere a fare conoscere, opportunamente, diversi aspetti del mio impegno. Nell’articolo, infatti, vengono evidenziati il rischio della mia vita e l’azione contro i sistemi affaristico-mafiosi che da tempo conducevo nelle aree industriali, sebbene grande risalto veniva dato anche a Montante e Lo Bello di cui venivano pubblicate le foto e dato atto del loro sostegno alla mia azione. …omisis…

Il giornalista firmatario dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 24.12.2013 era LILLO Marco, nato a Roma il 21.2.1969, ed effettivamente nell’articolo veniva dato grande risalto all’azione antimafia del MONTANTE e del LO BELLO. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuto il seguente appunto relativo al LILLO Marco: 15/03/2015 ore 20,00 app. Lillo da Pinuccio (Aud)

Nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, egli annotava anche una circostanza riguardante il direttore di “Panorama”, Giorgio MULE’. Un parente di quest’ultimo, VITALE Vincenzo, era stato nominato dalla VANCHERI nell’Assessorato alle Attività produttive da lei all’epoca diretto, su richiesta del MONTANTE. Sempre su richiesta si quest’ultimo, la VANCHERI affidava al VITALE anche il settore della internazionalizzazione delle imprese, a cui era già stata assegnata la gestione dei fondi riguardanti l’EXPO di Milano.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 14 …omissis… MONTANTE – VANCHERI – VITALE VINCENZO – MULE’ GIORGIO – STASSI MARIA – FERRARA (2013/2015) Nell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, fin dal primo periodo del suo insediamento all’Assessorato Regionale della Attività Produttive, la stessa aveva nominato, quale componente, tale VITALE Vincenzo, funzionario della Regione Siciliana. La VANCHERI; nei primi mesi del 2013, ebbe a confidarmi che tale nomina le fu indicata dal MONTANTE in quanto il VITALE sarebbe un parente dell’attuale Direttore del periodico PANORAMA, MULE’ GIORGIO, soggetto, a detta della VANCHERI, legato da profonda amicizia con il MONTANTE. LA VANCHERI mi riferì che il MULE’ godeva di rapporti di un certo “peso” negli ambiti del potere politico, istituzionale e della comunicazione e, per tali ragioni, rappresentava per il MONTANTE un legame più che prezioso. Era questo il motivo per cui il MONTANTE teneva moltissimo alla nomina del VITALE ed all’attribuzione allo stesso di un ruolo “centrale” nello staff della stessa VANCHERI e, altresì, nelle attività correlate ad Expo 2015, le cui rilevanti competenze economiche ed organizzative erano state assegnate, dal Governo regionale, anche al citato Assessorato. La VANCHERI, in alcune occasioni, mi riferì che il VITALE l’aveva messa più volte in fortissimo imbarazzo per le costanti pretese di volersi recare in missione fuori dalla Sicilia e dall’Italia, a spese della Regione Siciliana, per partecipare a svariati eventi, incontri istituzionali e manifestazioni fieristiche molte delle quali inutili e/o non indispensabili. Inoltre la VANCHERI mi confidò che, sempre su input del MONTANTE, aveva affidato al VITALE il compèito di seguire operativamente il settore dell’internazionalizzazione delle imprese, delegandolo, di fatto, anche ad un ruolo preminente e condizionante nelle scelte di competenza del servizio del citato dipartimento a cui, formalmente, spettava la gestione. Il VITALE, altresì, accompagnava, spesso, la VANCHERI insieme alla STRACUZZI Chiara (capo di gabinetto vicario, moglie di LA ROTONDA CARLO, Direttore di Confindustria “Centro Sicilia”, soggetti a cui ho accennato per altri fatti nel documento consegnato alla S.V. il 02.11.2015), soprattutto nel periodo 2013/2014; invece, nel 2015, il VITALE, si recava costantemente a Milano per curare personalmente le attività per Expo, insieme a tale BALSAMO ALESSANDRO, anch’egli componente dell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, soggetto legato al CROCETTA. …omissis…

Il VITALE Vincenzo effettivamente aveva ricevuto l’incarico dalla VANCHERI di occuparsi, unitamente ad altri colleghi dell’Assessorato alle Attività Produttive, dei fondi Expo, come si legge anche in articoli di stampa di cui uno viene allegato. (All. nr. 498 - articolo di stampa su Vitale/Expo) Tra il materiale sequestrato al MONTANTE, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una lettera inviata dal giornalista MULE’ Giorgio, nato a Caltanissetta il 25.4.1968, direttore del settimanale “Panorama” dal settembre 2009.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MULE’ Giorgio:

03/02/2012 ore 13,00 con Giorgio Mulè alla Montadori (dopo un' intervista) Iovino D'Amiano

01/03/2012 cena con Giorgio Mulè con Nino Bevilacqua al Montecristo (non si conoscevano)

03/03/2012 sms 12,37 da Giorgio Mulè: la mamma gli dice che siamo mezzi parenti con Antonello, la madre di tuo nonno Lillu si chiamava Pietra Montante

11/04/2012 ore 21,00 cena Giorgio Mulè al Bernini

30/04/2012 GIORGIO MULE' MD-021 FLORENCE DONNA

30/04/2012 GIORGIO MULE' V-075 VINTAGE FATTORINO UOMO

31/05/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè

05/06/2012 app. regista Moschella e moglie Mulè in Confindustria Sicilia

25/06/2012 ore 15,30 Moschello regista moglie Mulè in Sicindustria

27/06/2012 ore 21,00 cena con Giorgio Mulè a Brera

31/08/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè e moglie

05/12/2012 sms 13,01 Giorgio Mulè: dove ci sarò io, ovunque sarà casa tua. Grazie a te un abbraccio Giorgio

14/12/2012 ore 20,30 cena Giorgio Mulè e moglie da Giacomo

27/11/2013 ore 09/10 app. Mulè Giorgio

06/12/2013 ore 20,30/21,30 cena Mulè e Chiara al Porto Parlato

20/12/2013 ore 15,30/16,30 app. Mulè Giorgio EICMA

21/12/2013 ore 09/10 casa Mulè Giorgio

17/01/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Giorgio e Brumotti da Cavallini

13/03/2014 ore 20,30/21,30 cena Squinzi, Mulè, Fiori e Minoli a Milano La Risacca Blu viale Tunisia

10/07/2014 ore 09/10 app. Giorgio Mulè al Bernini

08/08/2014 ore 13/14 pranzo Giorgio Mulè in via De Amicis di fronte Cioccolati con Agnese

15/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Peppino da Tullio

22/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Granata al Bernini Roma

13/11/2014 ore 15/16 app. Giorgio Mulè, Arcuri e Linda al Bernini

13/11/2014 ore 22/22 cena Mulè Agnese da Tullio

14/01/2015 ore 19/20 app. Giorgio Mulè al Bernini

24/01/2015 ore 13/14 Mulè Giorgio da Cioccolati

06/02/2015 ore 13/14 pranzo Mulè Giorgio

14/02/2015 ore 10,30/11,30 Mulè Giorgio da Cioccolati

26/02/2015 ore 18/19 app. Mulè al Bernini

13/03/2015 ore 18,30/19,30 app. Giorgio Mulè e Savini

17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia

24/04/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Cavallino, Anto e Crippa

22/05/2015 ore 20,00 Mulè fatto vedere esposto 05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile

06/08/2015 ore 19,30 app. Giorgio Mulè da La Mantia Piazza Risorgimento Milano (ex Gold)

04/09/2015 ore 19,00 aperitivo da La Mantia Filippo con Giorgio Mulè

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

15/10/2015 ore 19,00 app. Giorgio Mulè ristorante Filippo La Mantia con Grippa

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) MULE' GIORGIO T

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE MULE' NOTA 17/03/2015

A proposito del giornalista MULE’ Giorgio, si richiama anche la denuncia presentata a codesta A.G. in data 26.3.2015 dal CASAGNI Giampiero, giornalista del settimanale “Centonove”, nel corpo della quale il CASAGNI riferiva che, dopo avere raccolto del materiale inerente i rapporti tra MONTANTE ed ARNONE Vincenzo, aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso un quotidiano nazionale, in particolare “Panorama”. Non essendo riuscito a mettersi in contatto con il direttore del giornale, aveva chiesto ad un amico comune di Caltanissetta, ZAMMUTO Stefano, ex compagno di banco del MULE’ Giorgio, se poteva metterlo in contatto con quest’ultimo, il quale, appreso l’argomento dello scoop gli diceva di inviargli il tutto via mail e che, poi, gli avrebbe fatto sapere. Il CASAGNI inviò la mail il 2.5.2014 ma il MULE’ non gli fece sapere più nulla.

Frattanto, dopo la pubblicazione di un articolo intitolato “La volata di Montante” del 26.2.2015, in cui si dava notizia anche di una consulenza data dall’Irsap alla figlia del Procuratore DI NATALE, oggi in pensione, lo ZAMMUTO gli aveva raccontato di avere ricevuto la visita del citato magistrato, il quale gli aveva riferito che il MONTANTE era in collera con lui e che intendeva denunciarlo perché reputava che fosse in combutta con il CASAGNI, fornendogli persino materiale giudiziario contro di lui, specificandogli che il MULE’ era un grande amico del MONTANTE.

Che sia stato il MULE’ a riferire al MONTANTE del contatto CASAGNI/ZAMMUTO, lo si evince con certezza dal materiale rinvenuto in corso di perquisizione effettuata a carico del MONTANTE.

Infatti, nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuta anche la seguente annotazione: 17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia.

Inoltre, anche nel memoriale depositato dal MONTANTE al Tribunale del Riesame dopo le perquisizioni effettuate a suo carico, egli allega una lettera del 17.3.2015 (quindi dopo la pubblicazione dell’articolo del BOLZONI in data 9.2.2015) in cui il MULE’ riferiva delle vicende sopra indicate.

Sempre nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, si leggeva anche del giornalista CASTALDO Franco, editore del giornale on-line “Grandangolo”.

Il CICERO incontrava quest’ultimo in occasione di un appuntamento con il FIUMEFREDDO e aveva avuto modo di constatare i buoni rapporti di amicizia intercorrenti tra i due. Inoltre, il FIUMEFREDDO stesso gli confidava, dopo che il giornalista si era allontanato, che quest’ultimo era molto legato al CATANZARO Giuseppe, che aveva in cantiere il progetto di finanziare la creazione di una nuova testata giornalistica che sostenesse mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia, di cui CATANZARO – si rammenta – è stato da poco eletto Presidente.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 37 …omissis… FIUMEFREDDO – CASTALDO – CATANZARO (2014) Se mal non ricordo, nel 2014, un giorno festivo, in orario pomeridiano, nello studio del FIUMEFREDDO, incontrai CASTALDO FRANCO, di Agrigento, editore del giornale on line GRANDANGOLO, che aveva già concluso il suo incontro con il FIUMEFREDDO e con il quale, per qualche minuto, scambiammo dei convenevoli prima che lo stesso andasse via. Notai che tra il FIUMEFREDDO ed il CASTALDO vi era una stretta amicizia e che il CASTALDO tenesse in evidente considerazione il FIUMEFREDDO. Il FIUMEFREDDO, prima di iniziare la nostra discussione, mi confidò che il CASTALDO da diverso tempo era legato al CATANZARO e che, proprio su input e sostegno economico del CATANZARO, stavano elaborando un’iniziativa comune con SUDPRESS.IT per lanciare una nuova testata giornalistica di diffusione regionale al fine precipuo di sostenere mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia. …omissis…

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CASTALDO Franco: 29/09/2015 ore 13,00 app. Franco Castaldo al Bar Grandangolo viale Della Vittoria AG.

In data 6.8.2016, veniva intercettata la conversazione nr. 1537 delle ore 15.55, in cui il MONTANTE chiedeva al CASTALDO Francesco di occuparsi - quando glielo avrebbe detto lui - della stesura di uno o più articoli contro PETROTTO, DENI, VENTURI e CICERO, rappresentandogli che aveva presentato una denuncia molto corposa nei loro confronti alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale.

Il MONTANTE gli preannunciava che gli avrebbe fornito le carte e gli anticipava che doveva parlare di una vera e propria “associazione” composta da “fuoriusciti da Confindustria” che avevano dovuto fare tutto ciò che avevano fatto contro di lui perché avevano dovuto cedere alle pressioni della mafia agrigentina.

Il CASTALDO lo rassicurava dicendogli che “aveva capito alla perfezione”.

Conversazione telefonica nr. 1537:

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..chi fa durmivatu, durmivatu?..

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..durmivatu?..

CASTALDO: ..capita!.. ma poi dici ca un durmu mai!..

MONTANTE: ..minchia!.. (ride).. minchia!.. cumu si?..

CASTALDO: ..bonu, bonu!.. eeeh, ..(inc).. tutto oggi, domani mattina alle ore otto già..

MONTANTE: ..vabbè, vabbè okkey..

CASTALDO: ..cioè siamo..

MONTANTE: ..si, ti volevo dire una cosa, ti sto informando.. nooo, ti sto informando solo ca, che ieri Confindustria Sicilia, no!..

CASTALDO: ..si!..

MONTANTE: ..però questo non lo dare, non lo dare..

CASTALDO: ..ti ascolto.. !

MONTANTE: ..no, lo so!.. perché m’interessa dopo.. unni c’è un succu, cioè molto formaggio.. ha fatto una denuncia corposa presentata alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale molto corposa..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..eh, controoo, contro Petrotto, Deni, Ventu..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..Venturi, Cicero.. cose va, na cosa molto corposa!..

CASTALDO: ..si, si, si, si!..

MONTANTE: ..vabbeni?.. però già sappi.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..anch’io mi occupo per adesso di questa vicenda di, di Mariella di cui abbiamo.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. tu sai che non la seguo questa, no sooo, vabbè!..

CASTALDO: ..no!.. io, io, io sono.. io sono il ..(inc).. ho le cose.. ah, ah, appena siamo pronti di, di quest’altra vicenda ora me, me ne occupo pure io..

MONTANTE: ..nooo, ti voglio dire poi ti do, poi ti do le car.. però cunveni ..(balbetta).. ci sono varie puntate no!.. in generali!..

CASTALDO: ..certu, certu!.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ti, ti, ti volevo dire chee, ieri è stata consegnata alla Procura di Agrigento..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..e alla Polizia Postale un corposo, una corposa denuncia, diciamo.. proprio no!.. propria denuncia..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..diii, contro un’organizzazione, va bene?..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..e pirchì l’abbiamo..

CASTALDO: ..organizzazione!..

MONTANTE: ..l’abbiamo chiamata organizzazione, va beni?..

CASTALDO: ..vedi effettivamente, effettivamente parteru ca eranu Lanzichenecchi, maaa ora ehh, c’è troppa cointeressi di tutti.. de, denoto pure io che vico, come si dice, dall’esterno!.. (inc)..

MONTANTE: ..si, si, si!.. no ma poi, appena la leggi ti rendi conto perché mhm, fra gli avvocati eccetera eccetera, eh, hanno capito che c’era pro.. è proprio una, una vera organizzazione eeeh, e una delle scelte di quello che è successo.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..si, si.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. fuorusciti dal sistema Confindustria..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..eh, è rimasto nelle tele della mafia loca, eeh, agrigentina!..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..perchè, pur di ottenere i suoi risultati si è ve.. si è, ha ceduto a questa guerra praticamente no!..

CASTALDO: ..ah, si, si, si.. eh, eh, a queste pressioni.. ho capito, ho capito!..

MONTANTE: ..questa, no questa.. questa è la denuncia no?.. perché alla fine ora solo per.. vabbè molto, molto forte, capito?..

CASTALDO: ..si, si!.. ho capito alla perfezione.. tu, tutto a posto tu?.. ..

Dopo di ciò la conversazione assume un carattere amichevole e non inerente alle indagini.

In data 20.10.2016, progr. 2880605 delle ore 12.25, il MONTANTE diceva alla VACCARO Santa, segretario generale di Unioncamere Sicilia, in ordine a delle assunzioni o a delle consulenze da affidare, di considerare il figlio di CASTALDO e gli chiedeva se aveva un curriculum del figlio. La VACCARO rispondeva negativamente ed il MONTANTE, quindi, le diceva di chiamare il CASTALDO per farsi mandare il curriculum del figlio.

Conversazione telefonica nr. 2880:

VACCARO: Pronto

MONTANTE: Santa?

VACCARO: Ehi Antonello

MONTANTE: ciao Santa VACCARO: (inc)

MONTANTE: senti, ieri mi hai dato…

VACCARO: si

MONTANTE: un cu…, quel curriculum che è arrivato da un certo ingegnere Vella

VACCARO: si

MONTANTE: ora è ... datato quattordici undici, quindi c'è una erra.. un errore (inc)… te lo devi fare dare nuova, invece, dico, c'è scritto quattordici novembre, ancora deve venire il quattordici novembre

VACCARO: Ah, questo io manco infatti l'ho stampato direttamente, vabbè ora lo chiamo e poi mi faccio fare. Si

MONTANTE: va bene? okay?

VACCARO: si, si,si, si. Va bene, Okay.

MONTANTE: Perfetto

VACCARO: Poi stanno arrivando poi i curriculum quelli però... quelli per quanto riguarda le... gli immobili per la valutazione degli immobili… Poi martedì quando ci vediamo...

MONTANTE: (inc)… invece va... va... valutiamo… valutiamo la presenza del... sai di Castaldo

VACCARO: valutiamo?

MONTANTE: quel ragazzo, il figlio di Castaldo che... hai un curriculum o sbaglio.

VACCARO: Eh... no io di questo non ne ho. Io ...

MONTANTE: chiama a Cas ... chiama a Castaldo

VACCARO: ho qualche cosa di (inc) non ho altre cose

MONTANTE: fatti mandare il curriculum

VACCARO: eh, magari lo chiamo, lo chiamo

MONTANTE: il curriculum del figlio, si, si... va bene che è bravo (inc)

VACCARO: si, si perfetto

MONTANTE: okay va bene?

VACCARO: okay lo chiamo e me lo faccio mandare

MONTANTE: chiamalo

VACCARO: va bene!

MONTANTE: Ti abbraccio, a dopo

VACCARO: okay, anche a te

MONTANTE: ciao

VACCARO: ciao ciao

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal TORNATORE Pasquale. In data 4.12.2015, il TORNATORE Pasquale riferiva che il padre del giornalista MARTINES Valerio - già giornalista de “La Sicilia” e già direttore del giornale on-line “Seguo News”, attualmente addetto stampa all’ordine dei medici - gli aveva confidato che, dopo che il figlio aveva pubblicato un articolo su “La Sicilia” critico nei confronti del MONTANTE, era stato contattato dal ROMANO Massimo e dal MONTANTE che gli avevano fatto capire che non avevano gradito quanto pubblicato. Addirittura il MONTANTE, poi, intervenne sulla redazione catanese facendo pressioni per far sì che non venissero più pubblicati articoli di giornale di quel tenore. Il TORNATORE produceva, in sede di escussione, l’articolo di giornale in argomento.

Così riferiva il TORNATORE Pasquale: …omissis… A.D.R. Posso anche dire di aver saputo dal padre del giornalista Valerio MARTINES che, dopo la pubblicazione da parte del figlio di un articolo su “La Sicilia” di una indagine nei confronti del MONTANTE per il reato di falso in bilancio – articolo di cui ho con me oggi una copia e che produco alla S.V. – aveva ricevuto una telefonata a casa da parte di ROMANO e MONTANTE, i quali gli avevano espressamente chiesto “chi ce lo portava il figlio a scrivere ‘ste cose”. Sempre il padre del MARTINES mi disse che MONTANTE successivamente aveva fatto pressioni sulla redazione catanese del giornale affinché si evitasse la pubblicazione di altri articoli sull’argomento. …omissis…

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTINES Valerio gli inviava il suo curriculum vitae, dal cui tenore si desume in maniera evidente che i due avevano chiarito ed avevano anche allacciato un rapporto di amicizia.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare al MARTINES.

Dalle intercettazioni si evinceva che il MARTINES aveva chiesto dei favori al MONTANTE che si era reso disponibile. Nella conversazione nr. 655606 delle ore 08.19 del 4.5.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES, dopo avere visto che lui lo aveva cercato in precedenza e gli chiedeva se poteva fare qualcosa per lui anche se si trovava fuori Caltanissetta. Il MARTINES gli rispondeva che voleva solo chiedergli se c’erano novità per un favore che evidentemente gli aveva chiesto in precedenza ed il MONTANTE rispondeva che “ci stava lavorando”, anche se gli spiegava che, per ovvi motivi, non usava i telefoni e, perciò, lasciava intendere che si adoperava incontrando di persona i soggetti con cui avrebbe dovuto parlare anche della sua situazione. Il MARTINES lo ringraziava e gli proponeva di incontrarsi, magari, una sera a cena e lo avrebbero detto anche a Michele, da identificarsi verosimilmente nello SPENA Michele.

Conversazione telefonica nr. 655: All'inizio della registrazione e prima della risposta dell'interlocutore, si sente MONTANTE Antonio Calogero dire testualmente: "...venti...il tuo numero della stanza all'Hotel...(inc)...di Napoli". Immediatamente dopo:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antò...buongiorno! Come stai?

MONTANTE: Bene, che fà dormi la mattina ah!

MARTINES: No, no, ero nell'altra stanza che stava facinnu colazione...buongiorno!

MONTANTE: No scusami, lo sò...l'ho visto che mi hai chiamato...ho visto i messaggi ma non sono rientrato...quindi...ho avuto un casino...

MARTINES: Chiaro, no no anzi...figurati! Scusa me se ti ho...

MONTANTE: Sono ancora fuori, quindi rientro la prossima settimana...

MARTINES: Ho capito...

MONTANTE: Dimmi se posso fare qualcosa anche a distanza...

MARTINES: No no, così era...solo per...se c'era qualche cosa di novità...

MONTANTE: Ci sto lavorando, nel senso che ci sono...

MARTINES: Perfetto!

MONTANTE: Però volevo capire se c'è...no pensavo che c'era qualcosa...(inc)...

MARTINES: No no no...così era...no no no...solo...

MONTANTE: Se ti viene qualche idea...idea...non ti preoccupare...(inc)...

MARTINES: No no assolutamente...mezza parola...no no...solo...non ci sono problemi allora...a maggior ragione...(inc)...

MONTANTE: Và bene...siccome ho visto...no ho visto...per ora...per ovvi motivi uso poco...anche perchè sono sempre in riunione...

MARTINES: Ovviamente...no no...

MONTANTE: ...non uso i telefoni...quindi diciamo capito...

MARTINES: ...anzi ti ringrazio...

MONTANTE: ...volevo capire se c'era qualche...(inc)...

MARTINES: No assolutamente...poi magari qualche sera andiamo a cena assimi...si ti capita di...con Michele anche e stamu assimi un pocu...và...

MONTANTE: Si si...con piacere...il problema è...il problema è che gli ultimi periodi un c'aiu statu chiù...questo è il problema...

MARTINES: Ovviamente...no no no...l'ho capito...

MONTANTE: Perchè vengo un giorno...spesso e volentieri non vengo perchè mi fermo a Palermo perchè i miei...tu ù sà...tra...le mie figlie sono fuori...

MARTINES: ...sull'asse Londra Milano...è chiaro...no no...và bene Antonellì...ti ringrazio sempre ah?

MONTANTE: Un bacio...

MARTINES: Grazie...obbligato...

MONTANTE: Ciao, un abbraccio...ciao...

MARTINES: Ciao...un bacio...buona giornata...

MONTANTE: ...ciao...

MARTINES: ...ciao.

Qualche mese dopo, progr. nr. 360607 delle ore 19.58 del 12.7.2016, il MARTINES tornava alla carica con il MONTANTE, che chiamava “compà”, chiedendogli se aveva novità che lo riguardavano, visto che era da un po’ di tempo che non si vedevano e non era riuscito ad incontrarlo nemmeno al matrimonio della figlia del MISTRETTA Vincenzo, Graziella. Il MONTANTE lo rassicurava dicendogli che si sarebbero incontrati la settimana prossima a Caltanissetta ed il MARTINES lo ringraziava.

Conversazione telefonica nr. 360:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antonè! Come stai?

MONTANTE: Bene tu? Tutto a posto?

MARTINES: Bene! Tutto a posto! Chi si dici?

MONTANTE: Bene, tutto a posto...cummattimmu Valè...(inc)...

MARTINES: Và bè...eh!

ONTANTE: Tu?...(inc)...

MARTINES: T'ho rotto le palle nì stì giorni...ora infatti dissi...(inc)...

MONTANTE: No e infatti io...(inc)...se non sono reperibile può succedere la fine del mondo purtroppo...

MARTINES: Chiaro! No...e l'altra sera ho chiesto di te a tua moglie, c'era Chiara...Alessandra...al matrimonio di Graziella...

MONTANTE: ...(inc)...avevo un problema mio personale e quindi ero...

MARTINES: ...chiaro...l'ho capito...

MONTANTE: ...ero fuori...si...quindi...

MARTINES: ...ho capito...

MONTANTE: ...mi sono perso questo bel matrimonio...(inc)...

MARTINES: E infatti...e infatti...

MONTANTE: ...(inc)...tutto a posto tu?

MARTINES: Bene, bene compà...niente accussì era...ti chiamavo per finire un pò...ero un poco in tridici và! MONTANTE: Non ti sento bene...come?

MARTINES: No, ti avevo chiamato così per sapere se c'erano novità...qualche cosa...che ero un poco...

MONTANTE: No...si spera la prossima settimana...io torno...torno domenica quindi la prossima settimana ci sarò e...ci vediamo a Caltanissetta!

MARTINES: Và bene và!

MONTANTE: Và bene?

MARTINES: Perchè ero un poco...ero un poco in tridici và!

MONTANTE: U capivu!

MARTINES: Và bene...

MONTANTE: ...(inc)...

MARTINES: Và bene và...anzi grazie sempre ah!

MONTANTE: ciao Valerio ciao...

MARTINES: Grazie...ciao arripigliati...un bacio...ciao.

Una settimana dopo, progr. nr. 656 delle ore 09.38 del 19.7.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES che lo aveva provato a rintracciare, invano, inviandogli svariati messaggi. Il MARTINES gli chiedeva nuovamente se avesse novità relativi, chiaramente, a qualcosa che il MONTANTE doveva fare per lui e quest’ultimo gli rispondeva che non avevano emesso delibere alla Camera di Commercio, poiché si era in una fase di stand-by scaturente dal progetto di unificazione di detti enti, ma che presto avrebbe provveduto. Il MARTINES lo ringraziava, ribadendogli che era a disposizione per qualunque cosa.

Conversazione telefonica nr. 656:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Eh...Valerio...Antonello...Valerio!

MARTINES: Hei...buongiorno! Cumu simmu! Tutto a posto?

MONTANTE: Bene bene...si ma scusami...ho visto che mi hai mandato parecchi messaggi...

MARTINES: No...non ti preoccupare...ti ho solcherizzato...ah ah ah...(ride)...

MONTANTE: Non sono stato be...non sono stato bene e ho fatto delle cose...degli esami...

MARTINES: Ah...questo mi dispiace...ah...questo mi dispiace gioia...scusami allora...scusami davvero...

MONTANTE: Ieri ero a Caltanissetta ma ho fatto toccata e fuga...

MARTINES: Chiaro...ho capito, và bene!

MONTANTE: ...(inc)...dimmi...(inc)...

MARTINES: Niente tutto a posto...no era per sentirci accussì...era per capire un poco se avevamo novità...qualche cosa di MONTANTE: ...(inc)...per quella là...(inc)...non ho fatto...non abbiamo fatto delibere di nessun genere perchè per i motivi dell'accorpamento...a giorni la faremo...

MARTINES: Chiaro...và bene...

MONTANTE: Poi non sò...se tu hai novità...per Caltanissetta...

MARTINES: No...quella cosa di...no và bè...poi magari nì vidimmu con calma...dai ...un ci 'nè prescia...non ti preoccupare...no và bè...quella cosa là di Milano, per capire...

MONTANTE: Si si si...ma questa qua è...

MARTINES: Ah perfetto...no no, avevo sentito male...scusami...và bene...

MONTANTE: Okay...và bene? Okay?

MARTINES: Và bene...và bò! Antonè...per qualsiasi cosa a disposizione ah?

MONTANTE: Và bene...ciao grazie...

MARTINES: Và bene? Un bacio grande! Ciao...in gamba! Ciao gioia!

13.4 Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dalla VIZZINI Maria Sole.

In data 1.4.2016, la VIZZINI Maria Sole riferiva, ex ceteris, di una vicenda dalla quale si evinceva anche altro legame che il MONTANTE aveva anche con il giornalista ABBATE Lirio. Occorre anzitutto premettere, per meglio inquadrare il narrato che sarà di seguito riportato, che la VIZZINI ha rivestito l’incarico di revisore contabile dell’A.S.T. dal 2007 circa sino al marzo 2016 e che aveva espresso sempre forti perplessità sul progetto di fusione tra A.S.T. e Jonica Trasporti, fortemente voluta dal MONTANTE. La Jonica Trasporti è una società partecipata di A.S.T. s.p.a. che detiene il capitale al 51% mentre la restante parte del 49% è della ditta Mediterr Shock Absorbers s.p.a del MONTANTE Antonio Calogero; amministratore unico della Jonica Trasporti è CANONICO Carmine, generale della Guardia di Finanza in pensione che aveva già prestato servizio a Caltanissetta come responsabile della Sezione di p.g. – aliquota G.d.F., soggetto legato al MONTANTE, per come emerge dalle intercettazioni. La VIZZINI dichiarava che, in riferimento alla fusione di A.S.T. con Jonica Trasporti, l’allora vice presidente con funzioni di Presidente dell’A.S.T., avv. CUSUMANO Giulio, si era opposto a tale operazione di fusione ed un giorno le chiese di incontrarla.

Nel corso di tale incontro, il CUSUMANO le confidava di essere stato avvicinato da due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, che lo avevano minacciato dicendogli che, se avesse continuato ad opporsi a tale fusione, avrebbero diffuso delle notizie che riguardavano la sua sfera privata, con particolare riferimento a festini omosessuali da lui frequentati e a vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato. Qualche tempo dopo, il giornalista ABBATE Lirio - che la VIZZINI conosceva e al quale aveva già espresso le sue perplessità circa l’operazione di fusione in argomento - contattava la VIZZINI e le chiedeva informazioni proprio in merito all’avv. CUSUMANO, specificandole che voleva sapere notizie attinenti proprio i due stessi argomenti alla base delle minacce dei due loschi figuri che avevano avvicinato il CUSUMANO e cioè parentele di quest’ultimo con soggetti che avevano avuto problemi giudiziari e frequentazioni di locali omossessuali.

Così riferiva la VIZZINI: …omissis… A.D.R.: Per quanto riguarda l’A.S.T., posso riferire su svariati tentativi che ho potuto riscontrare nel corso del tempo finalizzati a mettere in difficoltà la società, ritengo per poi svenderla. In tale contesto si inserisce, a mio parere, la vicenda relativa alla fusione di Jonica Trasporti ed A.S.T.; in particolare, su tale specifica vicenda, posso riferire che una volta, l’Avv. Giulio CUSUMANO, in quel momento Vice Presidente con funzione di Presidente a seguito delle dimissioni di GIAMBRONE per problemi giudiziari, durante più sedute manifestò con assoluta decisione che era contrario all’operazione di fusione. Accadde che il CUSUMANO mi volle incontrare di persona, incontro che avvenne in Palermo nei pressi del mio studio; in quella occasione chiese il mio supporto e di non lasciarlo solo nella sua battaglia contro la fusione, dicendomi altresì che era molto spaventato perché due soggetti, con il volto semi coperto da sciarpe, l’avevano avvicinato, dicendogli che “se avesse continuato a rompere” avrebbero reso pubbliche notizie riguardanti vecchie vicende giudiziarie che riguardavano la sua famiglia nonché la sua partecipazione a festini omosessuali. Se mal non ricordo, successivamente, qualche notizia sul coinvolgimento di CUSUMANO in festini e/o bische clandestine, fu pubblicato. Per far comprendere cosa risposi nell’occasione al CUSUMANO devo premettere che sono solita redigere perizie, a titolo personale, per inchieste giornalistiche ed in tale contesto ho avuto modo di conoscere il giornalista Lirio ABBATE, al quale in più di qualche occasione avevo espresso le mie perplessità sul progetto di fusione. Lo stesso Lirio ABBATE mi consigliò di affrontare la situazione non come mio solito, di spada, bensì di fioretto. Risposi, pertanto, al CUSUMANO in occasione dell’incontro di cui ho parlato che era consigliabile, rifacendomi al consiglio che mi aveva detto tempo prima Lirio ABBATE, che era consigliabile, appunto, agire di fioretto. Successivamente all’incontro che ebbi col CUSUMANO lo stesso ABBATE mi chiamò chiedendomi cosa gli potessi dire del CUSUMANO medesimo e cioè se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se effettivamente questi aveva partecipato a festini. Compresi, pertanto, che la vicenda raccontatami dal CUSUMANO avesse un suo serio e concreto fondamento. Non ho però mai riferito al CUSUMANO della telefonata ricevuta da Lirio ABBATE. …omissis…

I legami dell’ABBATE Lirio con il MONTANTE sono cristallizzati agli atti d’indagine.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ABBATE Lirio:

02/09/2008 ore 13,00 app. Lirio Abbate pranzo Palermo

07/12/2009 ore 15,30 Lirio Abbate al Bernini

17/12/2009 ore 21,00 cena con Lirio Abbate, Cicero e La Licata da Tullio

22/01/2010 ore 13,00 pranzio Lirio Abbate

16/09/2010 ore 09,00 app. Monica Ceravolo moglie Lirio Abbate al Bernini

22/09/2010 ore 09,00 app.Monica x Tamburini / Cerasolo (Lirio Abbate) Bernini

07/10/2010 ore 09,00 app. Bernini con Monica Ceravolo (Lirio Abbate)

09/10/2010 ore 13,30 pranzo con Lirio Abbate al Porticello

27/10/2010 ore 09,00 colazione Lirio Abbate al Bernini

14/12/2010 ore 16,00 app. Lirio Abbate

19/10/2011 ore 09,00 Lirio Abbate Bernini

17/11/2011 ore 10,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 11,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 19,00 app. Lirio Abbate + Liviadotti e Ivan al Bernini

15/08/2012 ore 15,00 con Antonio I., Lirio Abbate, Venturi in barca

05/09/2012 ore 21,00 cena da Tullio con Lirio Abbate e Dispenza

13/12/2012 ore 09,00 colazione con Lirio Abbate

27/02/2013 ore 16,00 Lirio Abbate

21/03/2013 colazione Pitruzzella poi Lirio Abbate

03/04/2013 ore 16,00 Lirio Abbate Sicindustria

23/04/2013 cena Lirio Abbate Bernini

02/07/2013 Venturi, Lirio Abbate Confindustria Sicilia

26/07/2013 Lirio Abbate e Panucci

20/11/2013 ore 16/17 app. Lirio Abbate e Lo Bello al Bernini

16/07/2014 ore 09,30/10,30 app. Lirio Abbate a Villa Igea

20/11/2014 ore 11,30/12,30Lirio Abbate e Monica

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE ABATE LIRIO(MONICA CERAVOLO)

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) ABATE LIRIO T 13.5

Altre risultanze investigative relative ai rapporti del MONTANTE con altri giornalisti. A parte le dichiarazioni sopra dette, dalla complessiva attività di indagine emergevano altri elementi inerenti i rapporti del MONTANTE con giornalisti. 1405 Anzitutto si segnala il rapporto che aveva instaurato con il giornalista de “Il Sole 24 ore” ODDO Giuseppe - di cui si è riferito ampiamente nei paragrafi 4.2.3 e 4.2.4 - che già in re ipsa dà contezza del tentativo del MONTANTE di strumentalizzare l’informazione a suo vantaggio. Al riguardo si richiama quanto veniva rinvenuto, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, attinente al giornalista ODDO Giuseppe.

A proposito si richiama una parte delle dichiarazioni dell’ODDO Giuseppe in cui il giornalista ricordava che il MONTANTE gli aveva chiesto di “attaccare” il giornale on-line “Live Sicilia”, diffondendo notizie a discredito del direttore e di uno degli azionisti di questa testata, rispettivamente FORESTA e AMATO o D’AMATO, sui quali il MONTANTE disse che avevano legami familiari con la mafia. Per questo, qualche tempo dopo, il MONTANTE forniva all’ODDO dei documenti da cui si poteva risalire a queste notizie ma l’ODDO ritenne le carte fornitegli insufficienti per tacciare di mafiosità i suddetti giornalisti.

Così riferiva l’ODDO in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R.: Lavoro come giornalista presso la testata “Il Sole24Ore” dal 1997 e sin dal 1973 ho lavorato all’interno del gruppo di cui fa parte la testata. Sto, comunque, per andare in pensione. A.D.R.: A partire dal 2008 ed anche al fine di poter conciliare esigenze familiari legate alle condizioni di salute di mia mamma, chiesi ed ottenni dal direttore dell’epoca dott. DE BORTOLI di potermi occupare delle vicende siciliane; ricordo infatti che pubblicai, assieme al collega GALULLO, un’inchiesta giornalistica in due puntate sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia. …omissis… Mi torna, tuttavia, alla mente che, in epoca antecedente al luglio del 2013, il MONTANTE “mi parlò male” di “Livesicilia” e mi esortò “ad attaccarla”, dicendomi che FORESTA ed AMATO o D’AMATO, rispettivamente direttore ed uno degli azionisti della testata, avessero familiari legati alla mafia. Successivamente MONTANTE mi consegnò delle carte e documenti – che ricordo essere visure camerali ed atti dei quali forse sono ancora in possesso – da cui si evincevano elementi a mio giudizio irrilevanti e che al più potevano riguardare il padre del FORESTA per vicissitudini giudiziarie non legate alla mafia. Ricordo anche che MONTANTE mi disse che un parente di AMATO o D’AMATO era stato ucciso in un agguato di mafia. …omissis…

Effettivamente il direttore di Live Sicilia era Francesco FORESTA, mentre uno degli editori, nonchè giornalista, è AMATO Giuseppe. Singolare, poi, la notoria circostanza dello stretto legame che il MONTANTE ha invece poi intessuto con il FORESTA Francesco, tanto che quest’ultimo, addirittura in punto di morte609, ha lasciato scritto una lettera in cui ringraziava sentitamente il MONTANTE per tutto quello che aveva fatto per lui. Copia di tale lettera veniva rinvenuta anche tra le carte sequestrate al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate a suo carico.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al FORESTA Francesco:  02/02/2013 ore 10,30 con Foresta a Tusa.  Francesco FORESTA è morto il 3.3.2015.

15/09/2014 ore 21/22 cena Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Milano

16/09/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Drogheria Milanese

30/09/2014 ore 20/21 cena casa Foresta

07/10/2014 ore 12/13 Ismet da Foresta

20/10/2014 ore 21/22 cena Foresta a casa

27/10/2014 ore 20,40/21,40 app. Donata Foresta da Charme

11/11/2014 ore 14,15/15,15 app. Foresta Francesco

02/12/2014 ore 19,30/20,30 app. Foresta per compleanno Villa Sperlinga

07/12/2014 ore 16,30/17,30 da Foresta in ospedale la Maddalena via Resuttana

09/12/2014 ore 09/10 operato Foresta

09/12/2014 ore 20/21 da Foresta in ospedale La Maddalena via Resuttana

26/12/2014 ore 13,30/14,30 pranzo casa Foresta con Salvo Cincimino

20/01/2015 ore 12/13 app. Francesco Foresta e Salvo Cincimino

23/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Foresta con Cincimino

28/01/2015 ore 20/21 andato da Foresta con Eliana

05/02/2015 ore 11/12 a casa Foresta

07/02/2015 ore 17/18 spp. Foresta

23/02/2015 ore 13/14 pranzo con Foresta

24/02/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

03/03/2015 ore 17/18 morto Francesco Foresta

05/03/2015 ore 22,50/23,50 andato lutto Francesco Foresta

06/03/2015 ore 11/12 funerale Francesco Foresta alla Villa Filippina (con video sbobinato)

Il MONTANTE aveva anche chiesto all’ODDO di scrivere, per lui, un libro che poi venne, invece, redatto dal giornalista ASTONE Filippo. Così riferiva l’ODDO sempre in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R. Effettivamente, come mi chiede la S.V., il MONTANTE mi chiese di scrivere un libro, proposta che, però, declinai, avendo compreso quale potesse esserne l’oggetto e non essendomi io mai occupato in maniera assidua di cronaca giudiziaria. Seppi, poi, che il libro era stato redatto da Filippo ASTONE. …omissis… Sul contenuto del libro, intitolato “Senza Padrini” ed incentrato essenzialmente in un panegirico dell’attività legalitaria del MONTANTE ed anche di Confindustria siciliana, nulla si ritiene necessario aggiungere. Senza padrini: resistere alle mafie fa guadagnare Libro di Filippo Astone.  Dei buoni rapporti intercorrenti tra il MONTANTE Antonio Calogero e l’ASTONE Filippo, si ha contezza dal materiale sequestrato nell’abitazione del primo.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ASTONE Filippo:

14/02/2015 ore 13,30/17,30 Astone da Savini

09/05/2015 ore 14,00 pranzo con Astone e Agnese

10/09/2015 ore 21,00 cena con Astone + Anto a Milano

In data 12.10.2016, progr. nr. 3848610 delle ore 18.46, l’ASTONE Filippo chiamava la VANCHERI Linda e parlavano della vicenda giudiziaria che riguardava il MONTANTE che il giornalista non incontrava da un po’ di tempo, avendolo appunto incontrato nei giorni in cui detta vicenda era esplosa. L’ASTONE chiedeva se ci fossero novità in merito ma la VANCHERI rispondeva che per lei era una vicenda “morta e sepolta”. L’ASTONE ragionava sul fatto che oramai i tempi erano maturi affinchè la magistratura chiedesse o un’archiviazione o rinviasse a giudizio il MONTANTE ma la VANCHERI rispondeva che preferiva non pensarci poiché si definiva “schifata” per quello che era stato fatto. Infine, dopo avere brevemente discusso dell’esperienza politica della VANCHERI in un periodo che la stessa definiva metaforicamente “l’autunno dell’autunno siciliano” anziché la “primavera siciliana” che si era preannunciata con l’avvento del nuovo governo Crocetta in Sicilia, i due riprendevano il discorso della vicenda giudiziaria del MONTANTE con specifico riferimento alla posizione del VENTURI Marco, malvista dall’ASTONE, “un disastro è stata la questione di Venturi”.

La VANCHERI incalzava sull’argomento esprimendo pesanti improperi all’indirizzo del VENTURI ed anche di tutti quei soggetti che si erano schierati contro il MONTANTE, definendoli “inutili, squalificati come categoria umana non rientrando nel mondo animale tanto meno in quello vegetale, inesistenti”.

Conversazione telefonica 3848: ...All’inizio della conversazione, parlano del nuovo libro che ASTONE Filippo ah scritto e che doveva mandare a VANCHERI Linda. A minuti 01.17 per il suo particolare contenuto la conversazione viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..e si e si, Antonello è da una vita che non lo sento più ah.. con tutto quello che è successo!..

VANCHERI: ..mamma mia!.. ti immagini!.. eeeh, e vabbè va, mhm mhm, cioè ti riferisci a questa situazione attuale?.. questa qua della Confindustria?..

ASTONE: ..no!.. mi riferisco alle sue cose cioè!..

VANCHERI: ..aaah, vabbè..

ASTONE: ..ci siamo visti, dopo due giorni è venuta fuori quella di Venturi!..

VANCHERI: ..ah, si si si.. è vero è vero.. ah però, ma noi non ci vediamo daa, vabbè siii.. ma ma, ma io già lo so.. morta e sepolta per me quella cosa, infatti dicevo ma aspè va.. (inc).. quant’è che non ci vediamo?..

ASTONE: ..un anno!..

VANCHERI: ..aaah, ho capito!.. si si si, no vabbè ma.. (balbetta).. noi cioè siamo andati oltre, capito?..

ASTONE: ..vabbè d’altronde la vita va avanti..

VANCHERI: ..si no vabbè va, ma siamo andati anche oltre perché poi quando si superano certi livelli di max minchiate, tu vai proprio oltre, sei costretto ad andare oltre capito, per fortuna.. per fortuna comunque poi lo spirito della sopravvivenza ti porta a stare sempre.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. l’inchiesta è un anno e mezzo che attesta senza.. (inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..questo qua.. su questo io purtroppo non.. perché non avere nessun tipo di aggiornamento non, non, non avrei la ben che minima idea, ovviamente..

ASTONE: ..vabbè ma tra poco oh, o fanno un rinvio a giudizio che secondo me no ci.. o chiedono il rinvio a giudizio o archiviano!..

VANCHERI: ..eh, cioè praticamente una delle due, o uno o l’altra..

ASTONE: ..veramente chiederanno il rinvio al giudizio perché, mi sa che dopo.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. perché purtroppo anche li non che sonooo, non sono.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no, non conosco bene.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..poi magari il rinvio a giudizio non viene concesso, io mi aspetto che lo chiedano ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..eeeh.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. io di questa cosa qua, siccome sono abbastanza già, tra virgolette schifata che tutto il resto, no?..

ASTONE: ..mhm..

VANCHERI: ..quindi proprio mi sono staccata completamente, proprio come idea.. e vabbè, pazienza.. chi vivà, vedrà si dice.. (inc).. come voglio eh, Filì!..

...Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda. Poi parlano delle proprie vite a livello sentimentale. Dopo VANCHERI Linda parla della suo passato in politica e per il suo particolare contenuto la conversazione a minuti 09.13 viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..eh ma quando eriii.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..ho fatto sempre ridere..

ASTONE: ..quando eri in politica era più diversa.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..l’importante che facevo ridere.. come?..

ASTONE: ..quando eri in politica eri più, mhm, più dura, adesso più rilassata.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..io ero più ..(inc).. pensieri, ero piùuu.. ed, io ero sempre tesa perché veramente.. perché veramente quella cosa io l’ho fatta seriamente cioè ciò messa tu tutta l’anima, tu tutta la testa..

ASTONE: ..eh, però ..(inc).. tutto perché si.. quello che doveva essere.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. tutto.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..quello che doveva essere la grande primavera siciliana, poi alla fine.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no no no, è stato.. è stato invece l’autunno della, dell’autunno.. vabbè pazienza, iooo, cioè ho solamente, non ho rammarichi perché comunque tutto quello che ho fatto l’ho fatto con, con veramente voglia diii..

ASTONE: ..ah!..

VANCHERI: ..di lavorare e sempre comportata spero bene anche con i tutti i miei collaboratori, e ho creduto in tu.. tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché ci credevo.. buh, poi alla fine laa, contano le soddisfazioni personali, quelle che magari non sono neanche riconosciute daa, dalle persone più vicine però lo sai che quanto vali o non vali, cosa hai fatto e cosa non hai fatto, no?..

ASTONE: ..si ma li comunque in quel casino ha lasciato.. (balbetta).., un disastro è stata la questione di Venturi..

VANCHERI: ..ah vabbè poi questa cosa qui.. vabbè ..(balbetta).. a me fa.. purtroppo no, perché semplicemente io mi sono sentita uno stupida, cioè io non mi ero accorto di essere circondata da persone così cretine, proprio inutili!.. cioè quindi alla fine ho detto vabbè è successo..

ASTONE: ..mah io, tu sei cretina non so!.. avrà perso la testa, gli avrà dato..

VANCHERI: ..no, io inutili non li faccio perché inutili, ma proprio squalificati secondo me come categoria umana, uh, e ma non rientrando neanche nel mondo animale tanto meno in quello vegetale e quindi secondo me proprio sono inesistenti, sono come si dice in siciliano, nuddru amiscati cu nenti.. proprio il niente con nessuno, uguale vuoto, buco nero.. non esistono, io io li vedo così perché proprio non, non c’è nessunaaa, nessun altro modo e siccome tra l’altro per fortuna sono ben lontana da questi modelli..

ASTONE: ..eh..

VANCHERI: ..e per fortuna continua ad avere rapporti meravigliosi con persone meravigliose, che invece non ci vedo tanto, sono felice di essere lontana, distanze cosmiche da queste persone.. vabbè!..

ASTONE: ..beh, che tu sia lontana nessuno ne dubita, liii buh!.. è una roba ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. guarda, da non crederci..

ASTONE: ..eh, la vita è ..(inc).. anche questa..

VANCHERI: ..si.. ...

Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda e del fatto che qualche volta si dovrebbero vedere a Milano.

Per quanto riguarda il GALULLO Roberto, che già aveva collaborato con l’ODDO Giuseppe in un’inchiesta giornalistica sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, si rappresenta che è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” che cura anche il blog denominato “Guardie o ladri”; ha un rapporto molto stretto con il MONTANTE e, come risulta anche da attività tecniche, è a quest’ultimo asservito nell’informazione che attiene tutto ciò che riguarda il MONTANTE. A riscontro del rapporto MONTANTE/GALULLO, si comunica che il giornalista ha anche usufruito di vacanze pagate a Cefalù ed, inoltre, il MONTANTE ha fatto acquistare, a Unioncamere Sicilia, 500 copie del libro del GALULLO intitolato “L’Ora Legale”. Infatti, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, veniva rinvenuta la ricevuta fiscale, conservata da quest’ultimo, inerente il soggiorno del giornalista in Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al GALULLO Roberto:

14/02/2015 ore 11,30/12,30 app. Galullo da Cioccolati

21/02/2015 ore 10/11 app. Galullo via Hoeple

27/02/2015 ore 18/19 Galullo Ariston piazza Carrobbio

27/03/2015 ore 09,30/10,30 app. Galullo

31/03/2015 ore 17/18 app. Galullo in Confindustria

10/04/2015 ore 15/16 app. Galullo in EICMA

16/04/2015 ore 19/20 app. Galullo EICMA memoriale

24/04/2015 ore 15,30/16,30 app. Galullo in EICMA

30/04/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

08/05/2015 ore 15,00 app. Galullo per memoriale

14/05/2015 accettazione di Santa Vaccaro UNIONCAMERE per l'acquisto di n°500 copie libro "Ora Legale" Finanza Criminale di Roberto Galullo Il SOLE 24 Ore !.8,90 totale !.4.450

15/05/2015 ore 16,00 Galullo in EICMA

22/05/2015 ore 18,00 app. Galullo De La Ville

04/06/2015 ore 17,00 app. Galullo EICMA Milano

11/06/2015 ore 18,00 app. Galullo EICMA

19/06/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

03/07/2015 ore 16,00 app. Galullo in EICMA

17/07/2015 ore 12,00 Galullo in MSA ed IDEM poi pranzato alla Grotta Asti, con Anto

23/07/2015 app. Galullo in EICMA

17/08/2015 ore 17,00 arriva Roberto Galullo con moglie Claudia a Cefalù, cenato al Porto alla Tavernetta. Lui ha pernottato al Cefalù Sea Palace lungomare 

18/08/2015 ore 13,30 pranzato a casa Altarello con Roberto Galullo e mogli, poi fatto giro Serradifalco e Caltanissetta, poi andati a cenare al Porto alla Tavernetta Cefalù

19/08/2015 ore 10,00 app. Roberto Galullo a Mazzaforno, lavorato, poi lui parte alle ore 13,00 per Vibo V. Calabria dove incontrerà Marcella Panucci

05/09/2015 ore 10,00 app. Galullo in MSA Asti

11/09/2015 ore 13,00 app. Galullo in EICMA poi pranzato

17/09/2015 ore 15,00 Galullo in EICMA

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

25/09/2015 ore 11,00 app. Galullo in EICMA

02/10/2015 ore 15,30 app. Galullo in EICMA

09/10/2015 ore 08,45 app. Galullo in EICMA 1

6/10/2015 ore 15,00 app. Galullo in EICMA 24/10/2015 ore 13,00 pranzo in MSA con Galullo

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE GALULLO (P…………)

Dalle annotazioni sopra riportate si evince, quindi, che il GALULLO ha collaborato il MONTANTE nella redazione di un memoriale che poi ha depositato in sede di riesame, dopo le perquisizioni effettuate a suo carico il 22.1.2016. Il legame esistente tra il GALULLO ed il MONTANTEemergeva anche dalle intercettazioni esperite nell’ambito del presente procedimento penale. Nella conversazione nr. 323611 delle ore 12.34 del giorno 20.2.2016, il MONTANTE raccontava, in maniera concitata, al GALULLO di un’accesa discussione avuta con il direttore de “Il Sole 24 ore”, NAPOLETANO Roberto, il giorno prima, mentre si trovavano in ospedale da SQUINZI Giorgio. Il MONTANTE aveva rinfacciato pesantemente al NAPOLETANO che aveva fatto scrivere un articolo che lo riguardava al giornalista AMADORE Nino, sempre de “Il Sole 24 ore”, “tu fai scrivere i coglioni”. Il MONTANTE specificava che lo aveva mortificato dicendogli che gli stava parlando da azionista per indurlo a fare ciò che lui voleva ed aggiungeva che il NAPOLETANO; recepito il messaggio, gli aveva detto che avrebbe potuto fare scrivere MANCINI Lionello, altro giornalista della testata in argomento, ma il MONTANTE gli aveva detto che, per le cose che lo riguardavano, doveva fare scrivere il GALULLO ed il NAPOLETANO acconsentiva.

Il GALULLO, che già aveva espresso compiacimento per il modo di fare del MONTANTE all’indirizzo del suo direttore affermando addirittura che “al momento debito” il MONTANTE poteva rivalersi contro quest’ultimo, raccontava all’interlocutore la sua versione dei fatti spiegandogli che il NAPOLETANO gli aveva rappresentato l’esigenza che lui scrivesse gli articoli riguardanti il MONTANTE, narrando in modo distorto le circostanze che lo avevano fatto determinare ad assumere questa decisione.

Il GALULLO diceva che il NAPOLETANO gli aveva detto che non voleva avere niente a che fare con il MONTANTE con il quale i rapporti si erano incrinati alla luce della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito anche perché non poteva escludere qualunque sviluppo della vicenda; Il NAPOLETANO aveva aggiunto che lo aveva chiamato l’avv. CALECA che voleva rappresentare le determinazioni del Tribunale del Riesame di Caltanissetta avverso le perquisizioni subìte dal MONTANTE il mese precedente e, per questo, aveva invitato il GALULLO a chiamare detto legale per affrontare la questione giornalisticamente.

Il MONTANTE spiegava al GALULLO che le cose non erano andate in questo modo e che era stato lui a dire al NAPOLETANO che doveva chiamare l’avv. CALECA e gli aveva scritto il numero di telefono di quest’ultimo, di suo pugno, in un bigliettino.

Il GALULLO gli rispondeva che il NAPOLETANO gli aveva consegnato tale bigliettino e si riprometteva di ridarlo al MONTANTE alla prima occasione in cui lo avrebbe incontrato; quindi esprimeva pesanti considerazioni sul suo Direttore, non solo definendolo un “verme” ma affermando persino che non aveva alcuna deontologia professionale.

Il MONTANTE condivideva questi pesanti commenti all’indirizzo del NAPOLETANO e, galvanizzato, rimarcava come avesse umiliato il direttore del giornale dandogli “disposizioni” precise davanti a SQUINZI e a FIORI, che gli davano ragione, sottolineando che gli aveva rinfacciato anche la sua ingratitudine perché l’incarico che ricopriva lo doveva a lui, “io l’ho massacrato allora, e noi, lui era sotto, inquisito in quel momento, zitto come un verme… lui con le corna abbassate… ci dissi tu sei sempre il solito perché sei ingrato… ti ricordi quando hai fatto il direttore, ti ricordi quello che ho fatto”. Il MONTANTE continuava ancora a narrare quanto rinfacciato al NAPOLETANO che, secondo lui, doveva schierarsi incondizionatamente dalla sua parte perché “glielo doveva” e aveva anche rimarcato il fatto che il Corriere della Sera, invece, lo aveva “appoggiato”.

Il GALULLO, dal canto suo, continuava a denigrare il NAPOLETANO e raccontava al MONTANTE che, durante la presentazione del nuovo sito, aveva relegato i blog in fondo alla pagina web e aveva anche elogiato solo il giornalista GATTI nell’ambito del “giornalismo investigativo” mentre lui rischiava la vita ogni giorno per gli articoli che scriveva, concetto che anche il MONTANTE aveva espresso nel corso del dialogo.

Il GALULLO raccomandava al MONTANTE di salutargli tutta la famiglia e quest’ultimo si auspicava di incontrarlo a Milano a breve, anche con i suoi familiari che la settimana successiva lo avrebbero raggiunto nel capoluogo meneghino. Infine, dopo che il GALULLO rinnovava al MONTANTE la sua “disponibilità”, quest’ultimo gli chiedeva se avesse ancora il file relativo ad un pezzo scritto sulla MARCEGAGLIA e a cui il MONTANTE stesso aveva apportato delle modifiche; il GALULLO lo rassicurava sul fatto che lo avrebbe cercato.

Conversazione telefonica nr. 323:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Roberto, Antonello Roberto...

GALULLO: uè ciao...adesso ti stavo ricercando...

MONTANTE: si non ti...da casa ti sto chiamando da Milano...

GALULLO: ah ho capito...

MONTANTE: tutto a posto? Tutto bene?

GALULLO: si si si si tutto bene...tutto bene...

MONTANTE: no ti volevo raccontare...poco fà non potevo parlare...allora...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: ieri sono stato da Giorgio no...da Giorgio in ospedale...poi...

GALULLO: si si...

MONTANTE: si parlava...sai stiamo lavorando sul rinnovo...Confindustria non Confindustria...Sole 24 Ore eccetera eccetera...e abbiamo parlato...è andata a finire su Roberto...mi sono incazzato nero...ho detto guarda...deve andare via...allora faccio no lo chiamiamo un attimo...e l'ha chiamato...io sono stato due ore e mezzo ed è arrivato Roberto dopo quaranta minuti è arrivato...è arrivato...vabbè sai lui è ruffiano mi ha abbracciato...a più non posso...(inc.)...io in maniera sempre a ridere gli ho sparato due bombe tom tom tom...da destra a sinistra...poi parliamo di Presidenza e Presidente...e gli ho detto guarda questo...tu fai scrivere i coglioni...gli ho detto per Amadore...gli ho detto le mie cose fai scrivere e...dico destra e sinistra...stai tranquillo che ti fidi delle persone sbagliate...e poi è uscita la discussione di questa sentenza del del...considera che erano le sei e mezza erano le sei e mezza...

GALULLO: si si...

MONTANTE: mi fa minchia e non me l'avevi detto perchè non me lo dicevi perchè non mi mandavi il messaggio...Robè...io non mando messaggi a nessuno Robè...non abbiamo fatto nè comunicati...non abbiamo fatto niente...è uscita la notizia perchè forse l'avvocato uhm...io noi non abbiamo fatto nessun comunicato...nessun comunicato nè Confindustria nè io personalmente...allora facciamo scrivere chiamo Amadore...no Amadore non voglio che scriva su mie cose...se tu tu ti assumi la responsabilità io ti parlo davanti a Giorgio...ti giuro sui miei figli...io ti parlo da azionista in questo momento...non ti parlo da associato...da azionista...e siccome sono nel comitato di presidenza io sono il tuo azionista...proprio chiaro ah...ti giuro davanti a Giò davanti a...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: davanti a...a Francesco che era arrivato Francesco e cosa...quindi e…la libertà del giornale c'è il problema…però un pò i coglioni gonfi ce li ho...ma non te li dirò ora Roberto te li dirò perchè ora...

GALULLO: al momento debito...

MONTANTE: no gli ho detto per me è un fatto di delicatezza mia riguarda una cosa mia non te ne parlo ora...saprò aspettare su quest'argomento gli ho detto...saprò aspettare...proprio così...gli ho detto e se io ti devo chiedere una cosa gli ho detto...se io devo chiedere una cosa come mi ha detto Emma e come mi ha detto Giorgio...ti giuro davanti a Giorgio che quello mi ama...tu non sei mai stato con Giorgio...quello mi ama...quello mi abbraccia mi tiene abbracciato come un figlio così no...

GALULLO: si si si si...

MONTANTE: ho detto...io chiederò una cosa chiederò il Sole 24 Ore...no perchè non voglio fare il (inc.) chiederò il Sole 24 Ore...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: però...speriamo che il Signore mi aiuti e mi aiuti...così a botta a botta...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: e allò e allora mi fa...allora mi fa la facciamo scrivere a Mancini no...facciamola scrivere a Mancini...dissi guarda...ho detto Lionello è una brava persona...gli ho detto ci sono due persone che hanno...sono brave di queste...siccome so che il pupillo è Mancini no è il suo pupillo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: gli ho detto...due persone...a perchè lui mi hai detto...ma visto che ho fatto scrivere a Mancini su quelle cose tue no...visto che ha scritto bene...Mancini è bravo ho detto però è sempre...non entra nel merito...rimane sempre no...politico rimane sempre no…cita non cita...no…

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io ho detto...ho parlato bene di Mancini naturalmente...ho detto sai Lionello è bravo...però sai cita non cita...è sempre...invece siccome ne hai due..hai Mancini e Galullo...Mancini è in pensione...davanti a Giorgio...e Galullo...

GALULLO: certo...

MONTANTE: e Galullo è quello che entra nel merito che rischia che prima o poi l'ammazzano...gli ho detto così...prima o poi lo fanno fuori...e lui era in silenzio...Giorgio sai questo chi è...e io ho detto...e Fiori mi appoggiava...questo è entra nel merito...questo lo fanno fuori...sul serio lo fanno fuori...sulla massoneria sulle cose...gli ho detto tutta una serie di cose...e lui fa no effettivamente bè...allora lo facciamo scrivere a Galullo...facciamo scrivere a Galullo...no a me non me nè fotte chi lo scrive...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: sappi che noi abbiamo questi personaggi...questi personaggi...che se perdiamo questi personaggi su questi temi...siamo fottuti...ora lo facciamo scrivere a Galullo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: e io ho ripetuto...non me nè fotte che lo scrive Galullo forse non ci siamo capiti...

GALULLO: certo certo hai fatto non bene di più...hai fatto benissimo a raccontarmi sta cosa...perchè io invece te la racconto di come me l'ha raccontata lui...

MONTANTE: punto va bene?...mah...incazzato nero proprio...sono stato incazzaato nero...non vabbè...andiamo avanti...

GALULLO: adesso io ti dico quello che lui mi ha raccontato...allora alle sei e mezzo lui presenta il sito...il nuovo sito...stiamo guadagnando milioni di euro...

MONTANTE: ma lui fino alle sei e mezzo era là però ah...

GALULLO: si si...

MONTANTE: da me con me era fino alle sei e mezzo...

GALULLO: si si si alle sei e mezzo infatti ha cominciato alle sei e mezza sei e quaranta insomma è arrivato..

MONTANTE: alle sei e mezza era da me...

GALULLO: esatto...ha cominciato a presentare il sito...eccetera eccetera...ma questo qui te lo lascio perchè non ti interessa...te lo racconterò poi ma è una questione interna...

MONTANTE: ma questo non me ne frega (inc.)...

GALULLO: com'è?

MONTANTE: no sono cose che non me ne frega dico è una cosa vostra di giornale...diciamo...

GALULLO: no no no ma poi te la racconto (inc.) tutto il sito nuovo...stiamo guadagnando milioni di euro...(inc.)...esattamente...

MONTANTE: abbiamo risolto i problemi...

GALULLO: perfetto...mi chiama alle nove di sera...alle nove di sera appena finita la riunione ero lì al giornale mi fa...Roberto io ti avevo cercato in realtà per un'altra cosa non per la presentazione del sito...ma perchè sai dice...mi fa...tu sai che io ho rotto con Montante no?...gli ho detto francamente no dico...perchè a me certamente per la delicatezza dei rapporti che intercorrono tra le persone nessuno si permette di raccontarmi quello che succede tra te ed altri quindi non lo so lo apprendo in questo momento da te...dice si si si lui mi ha...lui mi evita non mi vuole parlare...io del resto lo evito non gli voglio parlare perchè lui mi ha detto...mi ha fatto sapere da terze persone...dal suo entourage...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: no no senti...dal suo entourage che il Corriere l'ha trattato benissimo e io invece l'ho trattato malissimo ma a me non mi interessa niente...

MONTANTE: io io...io gliel'ho detto...io gliel'ho detto...

GALULLO: si si no ma io ti dico quello che lui mi ha raccontato...

MONTANTE: io gliel'ho detto io...effettivamente...

GALULLO: invece lui non mi ha assolutamente detto adesso ti continuo e ti dico...

MONTANTE: si si si...

GALULLO: e mi fa dice...io invece non ne voglio sapere...non ne voglio sapere niente perchè lui sostiene determinate tesi che lui non c'entra niente con la mafia poi alla fine verrà fuori questo...ma io l'ho ripetuto anche a Squinzi e ai vertici di Confindustria io voglio restare fuori da questa storia e non mi interessa...e mi fa dice però...mi ha telefonato...io ti dico quello che lui mi ha detto...tant'è che io sono rimasto francamente perplesso dopo che tu mi stai dicendo questa cosa...figurati come rimango...e mi fa dice mi ha telefonato l'avvocato Caleca il quale mi ha detto...dice sa c'è stato oggi questo riesame...io non sapevo niente...

MONTANTE: ti ti ti fermo...io gli ho dà...gli ho scritto su...gli ho detto mi dai il telefono dell'avvocato Caleca gliel'ho scritto su un bigliettino...

GALULLO: e ma infatti me l'ha dato...me l'ha dato...il bigliettino...

MONTANTE: no no...e gliel'ho scritto con la mia calligrafia (inc..)

GALULLO: ce l'ho ancora ce l'ho ancora...

MONTANTE: è mio...è mio il biglietto...

GALULLO: ce l'ho ancora...

MONTANTE: guarda la calligrafia che è quella mia...

GALULLO: si si si si...mi fa mi ha telefonato l'avvocato Caleca che mi ha detto dice...noi apprezziamo quello che voi state facendo....abbiamo visto che sull'argomento ha scritto Galullo e Mancini...sono due ottimi personaggi...sappiamo che tra i due si odiano...io non ho mai manifestato alcun odio di nessuno...figurati anche nei confronti dei carnefici...figurati nei confronti di una persona che sicuramente è lontano non anni luce...più degli anni luce dalla mia idea di deontologia professionale e umana è la stessa distanza che separa te dagli Arnone e da Piddu Madonia tanto per essere chiari...quindi siamo proprio a due persone...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: dice...dice però io gli ho detto a Caleca...no non no facciamo scrivere Galullo...allora mi raccomando adesso chiami Caleca...fai questa cosa...gli dici che te l'ho detto io di chiamare Caleca ed infatti Caleca può essere buon testimone...io l'ho chiamato alle nove e venti più o meno...lui può raccontarti...

MONTANTE: io a Cale...io a Caleca...

GALULLO: esattamente (si accavallano le voci)...concludo no...

MONTANTE: no non no io...ti faccio le intercalate così almeno non riprendiamo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io a Caleca l'ho chiamato in sua presenza e gli ho detto...Nino ti chiameranno dal Sole punto e in sua presenza...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: poi lui ha preso il biglietto e gli ho scritto il numero con la mia penna...e gliel'ho dato...davanti a Giorgio...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi guarda che è subdolo con te...

GALULLO: ma guarda guarda che è una cosa pazzesca…

MONTANTE: si vergogna si vergogna a dirti che ha preso la disposizione...siccome gli ho dato una disposizione...

GALULLO: certo...

MONTANTE: siccome gli ho dato una disposizione...e gliel'ho data da Editore...in presenza del Presidente dell'editoria in persona e quindi praticamente era morto...ha fatto tutta sta moina...ma perchè è un vi...è un pezzo di merda...

GALULLO: si...ma va figuriamoci...io infatti chiamo Caleca ed esordisco con queste testuali parole...piacere di conoscerla avvocato...la chiamo su indicazione del Direttore Roberto Napoletano che mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla decisione del Tribunale del Riesame...mi ha chiesto di farlo attraverso gli atti e sue dichiarazioni ed è quello che faccio...ed ecco lì il risultato che tu hai visto nel pezzo di oggi...che credo che sia di una chiarezza cristallina...e limpida...

MONTANTE: no è chiaro...è molto tecnico in effetti...

GALULLO: esattamente...così come mi ha chiesto il Direttore...Caleca mi ha scritto un messaggio mi ha fatto molto piacere...mi ha detto un esempio di...di limpidezza giornalistica...quindi a me questo ha fatto molto piacere...la cosa poi è che io alle undici sono andato da lui di nuovo...pezzo scritto tutto letto riga per riga mi ha detto qui cambia questo ed io l'ho cambiato...quindi praticamente lui è intervenuto dove ha voluto...e ma sciocchezze e...(inc.) questo...niente...

MONTANTE: cazzate...

GALULLO: e mi fa...dice cosa ne pensi del sito...la parte invece che ti interessa perchè te la dà lunga...sul fatto che...

MONTANTE: ah...

GALULLO: che a voi dice una cosa che a me né dice ovviamente sempre un'altra...mi fà cosa ne pensi del sito...dico no...il sito mi pare molto bello dico però trovo umiliante per la mia professione...umiliante per la mia figura che tu abbia tolto i blog...perchè lui dalla homepage li ha tolti i blog...li ha messi in fondo come se fossero quasi una cazzata gli dico perchè tu non hai idea...di quel sangue che butto sul mio blog...delle migliaia di accessi giornalieri che ho e di quanto io rischi con quello che scrivo...e di quanti giornali mi riprendono quotidianamente...

MONTANTE: gliel'ho detto davanti a Giorgio...

GALULLO: si...esatto...c'era davanti il vice Direttore Vicario De Biasi...gli ho fatto fate il cazzo che volete...perchè Napoletano che con me non si permette di dire nè B nè DA...perchè io lo mado a stendere in un nano secondo perchè io ho una sola faccia da difendere di fronte ai miei figli...gli ho detto dico...Direttore e il Vice Direttore mi fà dice...Roberto dice...hai fatto bene a dire queste cose...Napoletano fà no hai fatto benissimo...guarda caro Direttore io dico sempre quello che penso...è un'umiliazione per chi come me...mette quello che mette...

MONTANTE: aspetta aspetta aspetta...aspetta un attimo...scusa un attimo...aspè che rispondo a Marcella...(Montante parla con Marcella con un altro cellulare)...

GALULLO: come no...

MONTANTE: scusa eh...pronto...

GALULLO: figurati...questo ecco...questo quindi per dirti è il personaggio...ma ti rendi conto...

MONTANTE: si si...si si...e...allora ad un certo punto...quando io ho attaccato lui te lo giuro...seria...tu conosci mio nipote no...Antonio...

GALULLO: certo...

MONTANTE: ti sto giurando sulla testa di mio nipote che io mi ammazzerei per mio nipote e per i miei figli...non ti cambio una virgola...io l'ho massacrato allora...e noi lui era sotto...inquisito in quel momento...zitto come un verme...(inc.)...come un verme...ti giuro sai come un verme...non mi alza la parola...io a capo...capo significa nella qualità di Editore...con Giorgio sul letto...ho fatto la foto...ti faccio vedere la foto...ho fatto la foto per fartela vedere...lui con le corna abbassate...praticamente e gli (inc.)...ma che dici Antò io ti ho fatto uscire il libro...la copia della storia te l'ho fatta uscire io...chi dici io così...ci dissi tu sei sempre il solito perchè sei ingrato...tu lo sai dava...te lo dico davanti...ti ricordi quando hai fatto il Direttore...ti ricordi quello che ho fatto...nella vita bisogna avere i coglioni così...bisogna avere i coglioni...capito!

GALULLO: eh figurati...hai parlato con la persona giusta hai parlato...-

MONTANTE: bisogna avere i coglioni...Fiori mi appoggiava in pieno...bisogna avere i coglioni...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: quindi caro caro...tu...il Corriere della Sera a me mi ha appoggiato...sempre...

GALULLO: certo...

MONTANTE: fin dal primo momento...e ti dico una cosa che continua a chiamarmi fino all'altro giorno per l'intervista...e lui fa ma noi la possiamo fare noi l'intervista...io non ho...io ho deciso di no...l'hai vista...ho parlato o non ho parlato...io io potevo anche obbligare in quanto su una posizione di correttezza...e di amicizia...

GALULLO: chiaro chiaro...chiaro chiaro chiaro...

MONTANTE: chiaro...meno...io sfuggo...giornali nazionali...settimanali...io non parlo...perchè strategicamente ho deciso di non parlare...chiaro...

GALULLO: certo!

MONTANTE: dico e...e infatti poi fa...fa cioè...al massimo ora siccome ora dopo questa cosa io io semmai faccio intervistare l'avvocato...

GALULLO: certo...certo...

MONTANTE: allora lui come un ruffiano...come un ruffiano...sempre sotto il giuramento di mia figlia e di mio nipote...come un ruffiano fa no...facciamo il pezzo facciamo chiamare questo il tuo...come si chiama questo avvocato...gli ho de...Caleca si chiama...e mi dai il numero...scrivimi qua...e gliel'ho scritto con la mia penna...scrivimi il numero gli ho dato il numero...e lo facciamo scrivere a Amadore...no Amadore non lo facciamo scrivere perchè tu a Amadore gli hai detto delle cose dici gli hai detto delle cose...e non ti posso dire quello che gli hai detto va bene...punto...allora fà...ma Mancini lo hai visto che l'ho fatto scrivere a Mancini...si Mancini è bravo Lionello bravissimo...però sappi che Mancini è molto politico rimane no...qua ci vuole uno che dice le cose come stanno...che si legge le carte eccetera eccetera...e sono andato a finire a te...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: (inc.)

GALULLO: e lui in tutto questo non ha fatto...non solo...

MONTANTE: siamo rimasti dopo questo pezzo (inc.)...li facciamo fare un'intervista a Caleca...chiaro....ora per dirti e tanto lo dico io...è un verme veramente gliel'ho detto...tanto gliel'ho detto davanti....

GALULLO: si lo so lo so...(inc.)

MONTANTE: perchè lui replicano...non ha replicato perchè non pote...non può replicare...quindi…

GALULLO: ma lui assorbe tutto e non gliene frega un cazzo...

MONTANTE: ti posso dire una cosa...bravo hai detto bene ass...è una s...è un muro di gomma...è una spugna...che io...posso dirti...con il dieci per cento di quello che gli ho detto ieri il dieci per certo di quello che gli ho detto lui doveva alzarsi e andarsene dalla stanza...in maniera violenta e se ne doveva andare...

GALULLO: il dieci per cento...ma io mi sentirei mi butterei dal ponte...per l'un per mille non per l'un per cento... MONTANTE: quando io gli ho detto ti ho fatto assumere di ho fatto...lui doveva dire Giorgio mi dispiace mi sento offeso da Antonello me ne vado...io io...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: se era uomo...quindi ho capito che è un verme e peg...e sono pericolosi...che quello che si offende e se ne va non è pericoloso...quello che...lui è pericoloso è verme...c'è poco da fare...

GALULLO: ma infatti è così...tu pensa che poi...quando lui ha presentato il sito aveva già parlato con te aveva già parlato dei rischi che io corro...

MONTANTE: eee...a voglia...

GALULLO: e tu pensa che durante la presentazione del sito...ha fatto un solo nome di giornalismo investigativo...un solo nome che io mi sono sentito guarda...

MONTANTE: chi è chi è...

GALULLO: ho detto dico...te lo dico come un fratello sai che non parlo con nessun parlo solo con te...ho detto io me ne devo andare ma...ma subito da questo giornale appena trovo l'occasione...fa dice perchè qui abbiamo delle firme del giornalismo investigativo come Gatti...

MONTANTE: aspetta…anche a me l'ha detto...anche a me l'ha detto...

GALULLO: un tripudio di Gatti...ho detto ma guarda sto testa di cazzo...assurdo...

MONTANTE: ma posso dirti una cosa anche a me l'ha detto...davanti a Giò...ora sto andando in America...lui parte per gli Stati Uniti va a vedere eh...

GALULLO: va a presentare alla British Community...il sito…

MONTANTE: che incontra per la prima volta che sta andando in questo uff...che sta andando in questo ufficio...e incontra pure Gatti...lo sai cosa gli ho detto io...davanti a Giorgio...perchè lui ha parlato male...è bravo Gatti ma è uno al tuo servizio totalmente al tuo servizio...per dire...quello che scrive Gatti è su comando tuo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: gliel'ho detto chiaro...

GALULLO: certo...

MONTANTE: quindi...e gliel'ho detto è al tuo servizio...ma gliel'ho detto in maniera pesante...siccome lui tramite Gatti ha fatto litigare i grandi inserzionisti i grandi i grandi no...

GALULLO: si si...

MONTANTE: azionisti di Confindustria....io gli ho detto davanti a Giorgio...certo perchè tu...quello lavora al tuo comando è al tuo comando...

GALULLO: certo invece lui l'ha presentato non potete capire il tripudio...che ha nella Community internazionale Gatti è un esempio rarissimo di giornalismo investigativo...io gli volevo dire ma brutto stronzo ma vatti a leggere quello che scrivo io è quello giornalismo investigativo è quello rischiare la pelle non andare a leccare il culo come fa su comando come killer...

MONTANTE: aspè che rispondo a Chiara...(Montante parla al telefono con la figlia con un altro cellulare)...scusami ah...

GALULLO: no ma figurati...scherzi...salutami tutta la famiglia non appena hai occasione Chiara Alessandra salutami tutti...

MONTANTE: la prossima settimana a Milano viene...vediamo di incrociarci...viene Antonella viene Alessandra da Londra pure...e il nipotino (inc.)...arrivano tutti la prossima settimana...

GALULLO: comunque questo qui ti dà proprio l'idea di che personaggio guarda...

MONTANTE: ti ho detto...ti ho fatto il quadro...di quello che è successo ieri...guarda che non ha avuto il coraggio e la serietà di dirti...

GALULLO: no non no...lui (inc.) ma totalmente zero...

MONTANTE: perchè perchè doveva giustificarsi in mezzo alla scorsa volta che ha preso una disposizione e siccome è un verme...siccome ha preso come dipendente e Direttore una disposizione dall'Editore...su una notizia vera no su una marchetta...

GALULLO: è chiaro...è chiaro...

MONTANTE: attenzione no su una marchetta...perchè non l'avrei fatto io...perchè lui non gliela chiedo come marchetta...e tu lo sai come sono io...

GALULLO: certo...

MONTANTE: sono una persona seria non ne chiedo marchette alle persone...

GALULLO: certo ma io infatti io la stessa cosa ho detto a Caleca mi ha fatto veramente piacere ho detto dico...perchè lui mi fa dice...so la serietà che la contraddistingue...io gli ho detto avvocato io sono qui per scrivere quello che è successo una cronaca inappuntabile di quello che è successo...quindi ma lui ma la cosa bella che (inc.)...mi ha chiamato Caleca...ma tu ti rendi conto...

MONTANTE: ma ce l'hai il bigliettino? (Si accavallano le voci)...

GALULLO: quando ci incontriamo te lo dò...

MONTANTE: no guarda la calligrafia...guarda la calligrafia...

GALULLO: ce l’ho sotto in una giacca a proposito di quando ci incontriamo...ricordati che quando vuoi basta che suoni il citofono...

MONTANTE: si tesoro mio lo so...

GALULLO: (ride)...

MONTANTE: ti volevo dire ricordati quella nota...la nota di Emma che l'ho persa...la mia copia l'ho persa...

GALULLO: si si si per trovarla...

MONTANTE: no ma lo sai che io te lo ridata no...quella modificata...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi se trovi questa che l'ho strappata buttana da miseria...

GALULLO: e quella lì non lo so...

MONTANTE: se non la trovi va bene quella vecchia...con il pennino vecchio quella tua...

GALULLO: va bene va bene...

MONTANTE: da quello tuo io ho fatto una piccola modifica e poi ti ho dato le modifiche...ti ricordi no...

GALULLO: si me le hai date cartacee non so se ce l’ho ancora...

MONTANTE: no se non ce l’hai va bene la tua vecchia...che me la ricostruire...(inc.)

GALULLO: va bene va bene...va bene...

MONTANTE: la minuta...va bene...senti...saluta a tutti ah...

GALULLO: d'accordo d'accordo...o mi raccomando se oggi o domani ci sei passa…

MONTANTE: si...(inc.)

GALULLO: qualunque cosa...se vuoi parlare sfogarti...mi trovi sempre...

MONTANTE: no ti ho raccontato questa cosa che era simpatica...quando la gente veramente non ci sono parole per...(inc.)

GALULLO: Antonè o le palle si hanno o si è persone oneste con le palle oppure si è disonesti senza palle...

MONTANTE: bravo…bravo...

GALULLO: punto...questa è gente che prima o poi dovrà guardarsi allo specchio ma lo farà davanti al cospetto di Nostro Signore purtroppo...(inc.)...

MONTANTE: bravo al cospetto di Dio questa è la cosa più...

GALULLO: esatto...

MONTANTE: questa è la cosa più...

GALULLO: esatto…esatto...un abbraccione salutami tutti...

MONTANTE: un abbraccio a te ciao…ciao...

Nella conversazione nr. 704612 delle ore 19.49 del 9.6.2016, il MONTANTE dava precise indicazioni al GALULLO Roberto di cosa scrivere in un articolo di cui gli avrebbe fatto avere anche il materiale necessario da cui attingere le informazioni; gli diceva espressamente di non parlare di LO BELLO né di ciò che aveva detto BOCCIA ma di enfatizzare l’attività di SQUINZI. IL GALULLO non batteva ciglio e ripeteva ciò che avrebbe dovuto scrivere, ricalcando gli “ordini” del MONTANTE. Poiché il GALULLO non sentiva bene, il MONTANTE si riservava di richiamarlo utilizzando altro apparecchio telefonico, dicendogli, falsamente, che lo stava chiamando con un cordless da casa.

Conversazione telefonica nr. 704:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Galullo!

GALULLO: eh Antonellone…

MONTANTE: Robertone…come stai? Tutto bene…?

GALULLO: tutto bene e tu?…

MONTANTE: bene sono a Roma…e tutto bene…anzi bellissimo…non ce l’ho fatta stasera a venire a Ro…a Milano…parto domani mattina…presto…quindi se tu domani…ci ci ci vogliamo vedere domani…stiamo un po’…

GALULLO: si si si…dimmi tu a che ora ci vediamo…

MONTANTE: si avevo…aspetta un attimo…domani è venerdì…(inc.) ho prenotato…per me se puoi possiamo fare anche a pranzo…e domani non c’è Squinzi perché domani Squinzi…

GALULLO: ho capito…

MONTANTE: (inc)…io la vedo sabato alle dieci e trenta…va bene…

GALULLO: ah okay okay…

MONTANTE: fatti inviare il documento che o la cosa (inc.) politica…di ordine politico di opportunità non di merito è perfetto…non c’è nulla da…è spettacolare…(inc.) è spettacolare…

GALULLO: okay…

MONTANTE: però sono cose di (inc.) te lo anticipo…così almeno se hai tempo…per esempio…la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: chi scusami?…

MONTANTE: la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: Lo Bello?…ah okay okay okay…

MONTANTE: (inc.) tutto quello che ha detto Boccia fallo sparire pure nel senso parla (inc.)…

GALULLO: però ti sento malissimo Antonello…ti sento malissimo…

MONTANTE: ti sto chiamando dal telefono fisso di casa di Roma…ti volevo dire…

GALULLO: quindi…devo fare…tolgo…

MONTANTE: con un cordless…sono con un cordless ah…

GALULLO: quindi tolgo Lo Bello e poi un’altra cosa ma non ho capito cosa mi hai detto…

MONTANTE: Squinzi…enfatizza Squinzi…no nell’attività di Squinzi…

GALULLO: non ti sento Antonello non sento nulla guarda…non sento niente…

MONTANTE: mi senti mi senti…mi senti…

GALULLO: male malissimo…

MONTANTE: aspetto che ti chiamo…poso il cordless e ti chiamo dal telefono fisso aspetta un attimo…

GALULLO: okay okay okay okay…

Nella successiva conversazione nr. 706613 delle ore 19.52 del 9.6.2016, il MONTANTE ripeteva al GALULLO come doveva impostare l’articolo, la cui bozza gli aveva già inviato, ed il GALULLO lo assecondava, dicendogli che avrebbe provveduto nei termini da lui voluti. Il MONTANTE gli dava indicazioni precise sul fatto che non doveva parlare di LO BELLO, che doveva enfatizzare anche l’attività della MARCEGAGLIA e puntare il focus su una continuità in Confindustria, dando però risalto a SQUINZI, che era il Presidente uscente, e non a BOCCIA né doveva riportare quanto detto da quest’ultimo. Il MONTANTE diceva espressamente che lo SQUINZI non voleva che si diffondesse la notizia nei termini che il successore potesse essere migliore di lui e, perciò, diceva al GALULLO di cancellare tutto ciò che dava adito a tale impressione dalla lettura dell’articolo. Il GALULLO rispondeva che avrebbe provveduto, con un imbarazzante “si, si, si, si, si …. va bene, va bene, va bene”, aggiungendo che quello che diceva il MONTANTE era “correttissimo” e che ancora si trattava di una bozza passibile di ogni cambiamento, sebbene, nel complesso, il MONTANTE avesse gradito lo scritto. Il MONTANTE aggiungeva che, a lavoro ultimato, avrebbero fatto leggere l’articolo anche a SQUINZI e, alla fine del dialogo, si raccomandava con il GALULLO che tutto sarebbe dovuto essere come deciso.

Conversazione telefonica nr. 706:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: ero con un cordless quindi...

GALULLO: ah ecco adesso ti sento bene...

MONTANTE: si...allora ti volevo dire...

GALULLO: quindi Lo Bello lo tolgo tutto quanto ok...

MONTANTE: allora (inc.) perchè...perchè loro ce l'hanno sulle palle...

GALULLO: e certo e certo...

MONTANTE: allora...invece il disco...enfatizza l'attvità...oltre quella della Marcegaglia la continuità...

GALULLO: giusto...giusto...

 MONTANTE: e l'attività di Squinzi...quindi Squinzi Squinzi Squinzi...Squinzi...sulla parte l'ultima di Boccia non la...se la citi la citi come...no come l'ha detto Boccia...perchè tu devi immedesimarti di un Presidente che esce no?...Qual'è (inc.)...

GALULLO: ok...ok...ok...

MONTANTE: di qualsiasi Presidente...che sia Emma che sia Squinzi...cosa vuole...

GALULLO: certo... MONTANTE: vuole che si lasci la faccia più importante...e che quello che viene comunque non sia più bravo di lui questo è il concetto no...(inc.) GALULLO: certo certo certo certo...

MONTANTE: quindi cancella tutto...come se quello di Boccia fosse del Sole 24 Ore...non lo so come se fosse...no...

GALULLO: si si si si si...va bene va bene va bene...

MONTANTE: senza modifica ah...proprio...oppure ne parli astrattamente non come ha detto Boccia non lo dire...capito perchè...

GALULLO: va bene, va bene...

MONTANTE: (inc.) la cosa più brutta...per un Presidente che...è in uscita...è non vedere più la sua faccia e vedere di quello prima e di quello dopo...

GALULLO: è giusto...è giusto...

MONTANTE: ti trasferisco un messaggio che...conosco il mio mondo capito...che conosco molto bene...

GALULLO: certo...è corretto...è correttissimo quello che mi dici...

MONTANTE: e questo non te lo fatto spedire no perchè...

GALULLO: no no..no ma io infatti...(inc.)...

MONTANTE: non era la fine del mondo...però conoscendo i tipi...i tipi...

GALULLO: e certo e certo...certo...

MONTANTE: uhm...

GALULLO: allora a questo punto io domani poi quando ci vediamo...

MONTANTE: il contenu...il contenuto non deve cambiare capito, deve...

GALULLO: si si...

MONTANTE: deve essere tolta qualche parola...non lo devi cambiare il contenuto...

GALULLO: si...ma ti è piaciuto ti piace come cosa?

MONTANTE: è spettacolare...è spetta...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi lavoriamo su questo lavoro spettacolare...

GALULLO: esatto questa è una bozza...

MONTANTE: era era solo per l'opportunità politica di non fare danni diplomatici...capito?

GALULLO: giusto...giusto giusto...senti io domani ne porto quattro copie a questo punto...poi porto anche...e lo metto su internet...

MONTANTE: poi glielo mandi tu...no no...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi glielo mandi...

GALULLO: certo...

MONTANTE: lui mi la lascia una copia...mi lascia una copia domani per noi...

GALULLO: esatto poi io glielo mando per poste elettronica...

MONTANTE: poi glielo mandi via email si...

GALULLO: si...

MONTANTE: poi ci vediamo a metà settimana...e ne parliamo hai capito...quindi...la prossima settimana bene...ho già...

GALULLO: quindi domani non vediamo Fiori comunque e...

MONTANTE: no no perchè Fiori...è con è con...(inc.) a Roma...

GALULLO: ok ok...

MONTANTE: a Roma...(inc.) io torno domani sera e incontro Squinzi e Squinzi alle dieci e mezza è da lui...va bene?

GALULLO: quindi praticamente glielo dai tu dopo a Squnzi?

MONTANTE: a Squinzi tu...se lo mandi a Fiori...Fiori ce l'ha subito da Squinzi è uguale no...è la stessa cosa...

GALULLO: a quindi io lo mando...vabbè faccio una cosa domani me lo porto su chiavetta e poi lo mando domani insomma...non è un problema...

MONTANTE: lo mandi domani...Squinzi glielo girà a Fiori e poi la prossima settimana incontriamo tutti e due...va bene?

GALULLO: si...io la prossima settimana però...Antonello...sono da mercoledì a sabato a Roma...

MONTANTE: e va bene...magari ci vediamo a Roma...(inc.)...

GALULLO: oppure oppure ci vediamo quella ancora dopo insomma tanto voglio dire...cambia poco nel senso che in ogni caso l'importante e che loro abbiano il progetto...

MONTANTE: perfetto...bravo...bravo...ecco va bene...

GALULLO: benissimo...alllora domani a che ora ci vediamo?

MONTANTE: io domani se tu sei d'accordo...sarei ad ora di pranzo...

GALULLO: mi dici tu all'una...dimmi tu a che ora...

MONTANTE: oppure possiamo fare...anche all...stavo guardando poco fà che mi sono distratto...allora domani è venerdì...secondo me io farei domani...alle dodici e mezzo così...poi continuiamo se tu sei libero...

GALULLO: si si si dodici e mezzo...va bene...allora ti raggiungo io domani alle dodici e mezzo...

MONTANTE: va bene ok ci vediamo lì alle dodici e mezzo...ok va bene...

GALULLO: d'accordo un abbraccione...ciao buana serata...

MONTANTE: ciao ciao ciao, Robertone mi raccomando eh… GALULLO: ciao ciao…

Anche alla luce del contenuto delle sopra richiamate intercettazioni, si commenta da solo l’articolo che il GALULLO scrive, sul suo blog, qualche giorno dopo la pubblicazione sul quotidiano “La Repubblica” della notizia delle indagini a carico del MONTANTE (articolo del 9.2.2015). L’articolo del GALULLO, datato 13 febbraio 2015, si intitola “Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti” e, rimandando alla lettura integrale dell’articolo che si allega, pare comunque opportuno evidenziare che il giornalista utilizza toni offensivi nei confronti di “ambienti investigativi e giudiziari”.

Tra il materiale sequestrato al MONTANTE veniva rinvenuta altra documentazione che cristallizza i favori resi dall’imprenditore nisseno ad altri giornalisti, ossia CAVALLARO Felice, inviato del Corriere della Sera, e MORGANTE Vincenzo, giornalista RAI. Il CAVALLARO veniva sostenuto dal MONTANTE per la sua candidatura a sindaco di Racalmuto dopo lo scioglimento del consiglio comunale di quel centro per infiltrazione mafiosa con l’allora sindaco PETROTTO (soggetto che si ricorda essere stato tra quelli oggetto di interrogazione SDI da parte del GRACEFFA Salvatore).

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CAVALLARO Felice:

13/01/2011 da Mimì La Cavera con Felice Cavallaro

19/06/2012 ore 14,00 app. Felice Cavallaro con Vice Prefetto oggi Pref. AG in aeroporto

21/12/2012 ore 17,30 app. Felice Cavallaro e Luigi La Rosa in Sicindustria

22/03/2013 ore 16,10 Luigi La Rosa e Felicae Cavallaro in Confindustria Sicilia

17/04/2013 ore 13,30 app. F.Cavallaro per Cutuli

07/05/2013 cena con Adriana Manganelli dopo la presentazione del libro di Antonio con Questore Zito, Morvillo e Cavallaro alla Cuccagna

21/10/2014 ore 09/10 app. Felice Cavallaro e sindaco di Racalmuto a Villa Igiea

09/02/2015 ore 18/19 app. Felice Cavallaro e Lo Bello Altarello

25/06/2015 ore 13,00 pranzo Bernini con Felice Cavallaro + Eliana + Lo Storto e Patrizia Ferrante

Il MORGANTE chiedeva espressamente al MONTANTE una segnalazione per l’incarico di vicedirettore del TGR Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MORGANTE Vincenzo:

30/01/2008 V. MORGANTE MU-037 KALOS UOMO

16/07/2008 Morgante intervista Emma sulla delega alla legalità

16/07/2008 cena da Saltamacchia con Morgante a Fregene

14/04/2009 pranzo Morgante Vincenzo al Piccolo Napoli

24/07/2012 ore 10,00 Min. Cancellieri e suo gruppo con Morgante a casa Altarello granite poi andati a Racalmuto

28/12/2012 ore 13,30 con Pitruzzella e Morgante da Charme

23/07/2013 app. Morgante e Prof.ssa in Confindustria Sicilia

15/08/2013 Scillia e Morgante a pranzo alla Taverna Presidiana, viene Ferruccio De Bortoli

08/10/2013 ore 21/22 cenato con Morgante e Coccia al Bernini

09/10/2013 ore 08,45/09,45 colazione Pitruzzella, Morgante e Lo Bello al Bernini

30/01/2014 ore 15/16 app. Alfano, Morgante, Blasco e Panucci

06/03/2014 ore 21/22 cena con Morgante, Cirillo e Agnese da Tullio

11/06/2014 ore 21,15/22,15 cena Vincenzo Morgante al Bernini

11/11/2014 Dott. Marino Nicolò rilascia intervista su La Sicilia "la volta che fui convocato da Lumia e Confindustria Sicilia, io e Lari eravamo a CL e sappiamo chi è Montante….. - Il 23/12/2014 Morgante e Lo Bello presentano querela contro Marino per diffamazione aggravata a mezzo stampa

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 22/23 cena a casa di Morgante Vincenzo, con Pignatone Giuseppe, Pitruzzella e Lo Bello

28/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Morgante, De Felice e Lo Bello al Bernini

19/02/2015 ore 08,30/0,30 Pitruzzella e Morgante al Bernini

26/03/2015 ore 21/22 cena con Vincenzo Morgante, Chiara Mancini e Chiara al Yokoama

13/05/2015 ore 21,00 cena Lo Bello + Catanzaro, poi Fiori + Morgante al Majestic

14/08/2015 ore 20,30 Morgante Vincenzo + moglie Barbera e figlio Giuseppe portato regalo Antonio Junior poi cenato al porto alla Tavernetta

21/08/2015 ore 10,00 funerali papà di Morgante Vincenzo (non andato) fatto telegramma + cuscino Unioncamere e cesto Sicindustria

24/08/2015 ore 09,00 a casa di Vincenzo Morgante a Palermo per visita della perdita del papà Giuseppe

16/09/2015 ore 21,00 cena con Lucia Borsellino da Tullio poi ci ha raggiunto Linda, Vincenzo Morgante che non la conosceva e Francesco Fiori. Verso le ore 23,00 ho incontrato Giorgio Squinzi e la moglie Adriana

Tra il materiale sequestrato altre cose riguardanti alcuni giornalisti si rinvengono negli appunti contenuti nel file excel di seguito riportati:

18/10/2011 De Cristofaro Enrico mi invia e-mail dall'indirizzo: e.decristofaro@lasicilia.it alle ore 12,42 dove un certo Pilotta scrive alla redazione La Sicilia, per pubblicare un pezzo contro di me, Lo Bello e Agnello, lui mi comunica che non lo pubblica

12/07/2010 nomina addetto stampa del Presidente CCIAA CL Lucilla Rovetto del 09/12/1970 di Caltagirone moglie di Enrico De Cristofaro (La Sicilia) Delibera di Giunta n.73 del 12/07/2010 voto all'unanimità !. 10.000,00 annui oltre iva.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

Mafia & appalti, una verità scomoda. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros, scrive Luciano Tirinnanzi il 12 luglio 2013 su "Panorama". Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti”. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.

- Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino. - Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.

- L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.

- Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche”, Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello”, bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.

- Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafia-politica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?

La Trattativa secondo Di Pietro. Un lapsus dell'ex magistrato e il dossier “mafia-appalti” archiviato subito dopo la morte di Borsellino, scrive Massimo Bordin l'1 Maggio 2018 su “Il Foglio”. Dopo Violante, Antonio Di Pietro dice la sua sul processo trattativa, con pieno diritto visto che, con i suoi interventi in Commissione antimafia, a suo tempo ne fu uno degli artefici. Naturalmente Di Pietro proclama in prima battuta la sua solidale consonanza coi pm palermitani, poi parla di un suo colloquio con Paolo Borsellino poco prima della strage di via D’Amelio in cui Borsellino ipotizza un raccordo fra le indagini palermitane e quelle milanesi. Emerge una verità possibile, diversa dalla tesi accusatoria. Borsellino, poco prima di essere ucciso, non si occupava della famosa trattativa ma del più corposo dossier “mafia-appalti” preparato dal Ros di Mori. Singolare un apparente lapsus di Di Pietro, quando, a proposito delle stragi e di quelle indagini sugli appalti ha detto: “Hanno fermato le indagini e armato pistole”. Che c’entrano le pistole con Borsellino? Ben altro fu usato in via D’Amelio, ma l’ex pm sa bene di che parla. Parla di Raul Gardini, che un anno dopo via D’Amelio fu ucciso da un colpo di pistola che molti dubitano sia partito dalla sua mano. Parla dell’indagine mafia-appalti che svelò intrecci fra la Ferruzzi e la “calcestruzzi Palermo spa”. “Hanno fermato le indagini” dice l’ex pm e aggiunge che “chi lo ha fatto va individuato”. E’ facile, non ci vuole Sherlock Holmes. Due giorni dopo la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese di archiviare l’indagine. Nasce da lì la polemica fra procura e Ros, sfociata nei processi a Mori e poi in quello sulla trattativa, nel quale la difesa di Mori aveva chiesto che Di Pietro venisse citato come teste. La corte ha rifiutato di sentirlo.

La svolta di Gratteri: «Basta giornalisti innamorati dei pm Abbiamo bisogno di fatti e verità». Il magistrato calabrese scopre la stampa indipendente, scrive Davide Varì il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I giornalisti non devono fare i piacioni, né tantomeno innamorarsi dei magistrati: abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino con coraggio la verità, i fatti. In quanto a noi magistrati, vogliamo essere valutati e giudicati per quel che facciamo». Parole e musica di Nicola Gratteri. Quel Nicola Gratteri: il magistrato simbolo dell’antimafia; lo stesso Gratteri che avrebbe dovuto prendere la poltrona di guardasigilli e che, di fronte al gran rifiuto dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, si scagliò contro i poteri forti del Palazzo, evidentemente impauriti dalla forza “eversiva” e “antisistema” del magistrato calabrese: «Io sono troppo indipendente e il potere vero vuole che ci sia sempre qualcuno sopra di te, che garantisca per te». Lo stesso Gratteri che non disdegna chiacchierate televisive, un tantino celebrative, con Fabio Fazio e Riccardo Iacona; né premi in giro per il belpaese. Premi meritatissimi, s’intende. Insomma, quel Gratteri lì oggi ci fa sapere che il giornalismo che copia e incolla le ordinanze dei magistrati e cha passa ore nelle di loro sale d’attesa non va (più) bene. E del resto che i giornalisti dovessero fare da “cane da guardia del potere”, di tutti i poteri, magistratura inclusa, era un dubbio che in questi anni aveva attraversato qualche temerario. Ma c’è di più, Il procuratore Gratteri ha criticato anche un altro cavallo di battaglia dell’antimafia militante: il sistema dello scioglimento dei comuni. «I Comuni – ha infatti dichiarato Gratteri – vengono sciolti per mafia nel 99% dei casi quando la procura, a conclusione delle indagini, invia gli atti alla prefettura e quindi, dopo l’istruttoria, si procede e viene nominato un ufficiale prefettizio. Il problema, in alcuni casi, è che il commissario si reca in Comune poche volte a settimana. Quindi sostanzialmente l’amministrazione viene congelata per due anni. La popolazione mediamente pensa che era meglio quando c’era il sindaco, che riuscita almeno a dare risposte» E dunque: «Occorre modificare la norma, il Commissario prefettizio deve stare al Comune sciolto per mafia sette giorni su sette», ha aggiunto Gratteri.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Qualcuno dovrà rispondere, scrive Piero Sansonetti il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". A scartabellare le carte, e le vecchie sentenze, appare sempre più surreale lo scenario disegnato dal processo di Palermo. Certo, bisognerà aspettare le motivazioni. Però qualcosa, intanto, la si può dire. E la prima cosa che si può dire è che l’ipotesi dell’accusa – e di alcuni giornali – secondo la quale Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva opporsi alla trattativa stato- mafia, appare sempre più fantasiosa. Mentre, purtroppo, non appare per niente fantasiosa l’ipotesi che Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva portare avanti le indagini avviate dai Ros di Mori, De Donno e Subranni su mafia e appalti. E se questa ipotesi viene confermata, cambia tutto nella ricostruzione di quello che successe in quegli anni e del ruolo avuto dai vari apparati dello Stato. Perché il processo di Palermo si fonda sull’ipotesi che si fronteggiarono una magistratura “limpida” ed “efficiente” e pezzi dei carabinieri e forse dei servizi segreti che invece erano coinvolti in oscure trattative con la mafia. L’ipotesi invece che emergerebbe dai fatti come li ricostruisce nell’articolo che pubblichiamo in prima pagina (e a pagina 3) Damiano Aliprandi, è opposta. Dice che i Ros erano arrivati a un passo dallo sgominare un gigantesco giro di potere che coinvolgeva mafia, imprenditoria, e politica, e che furono fermati per la negligenza della magistratura. I Ros, lavorando con Falcone, avevano raccolto indizi e prove molto pesanti, e se l’inchiesta fosse andata avanti avrebbe fatto saltare un bel pezzo del sistema di potere mafioso. Paolo Borsellino era ben deciso ad impegnarsi lui in questa inchiesta e stava solo aspettando la delega che doveva venirgli dalla Procura. La Procura di Palermo, e in particolare i sostituti Lo Forte e Scarpinato, invece, sottovalutarono clamorosamente la forza di questa inchiesta dei Ros, proseguita e sostenuta da Flacone, e la affossarono. Oggi Roberto Scarpinato è procuratore generale di Palermo. E’ un magistrato colto, molto preparato, dalle idee forti. Sicuramente è una persona onesta. Ma è giusto chiedere a lui e al suo collega: perché quella inchiesta fu affossata proprio pochissimi giorni prima dell’uccisione di Borsellino, visto che, oltretutto, si sapeva che lo stesso Borsellino era interessato a quella inchiesta e avrebbe voluto occuparsene personalmente? Naturalmente nessuno sa il perché. Si può solo supporlo: per scarsa esperienza. (Così come probabilmente per scarsa esperienza Di Matteo e gli altri Pm che si occuparono dell’inchiesta sull’uccisione di Borsellino presero per buone le dichiarazioni false del pentito Scarantino, che mandò su un binario morto tutte le indagini). La Procura di Palermo in quella tragica estate del ‘ 92 sottovalutò il lavoro dei Ros. E probabilmente, soprattutto dopo la morte di Borsellino, entrò in conflitto coi Ros, e forse anche con pezzi dei servizi segreti (penso all’affare- Contrada) proprio per via del “complesso di colpa”, diciamo così, dovuto all’errore commesso sul dossier mafia- appalti. Ora però bisogna fare un po’ di luce su tutto questo. Anche perché al processo di Palermo non si è tenuto conto in nessun modo di questo scenario. E così il processo ha finito per condannare da una parte proprio i carabinieri che si erano impegnati di più nella battaglia contro Cosa Nostra, dall’altro i “berlusconiani” (mi riferisco a Dell’Utri) forse solo perchè, si sa, se dai addosso ai “berluscones” ti conquisti qualche merito e qualche popolarità, a prescindere. E trovi l’appoggio della stampa. Le questioni da affrontare sono tre. La prima è: sono stati condannati, ingiustamente, proprio quelli che avevano dato di più nella lotta alla mafia? La seconda è: il dossier mafia appalti è stato la vera ragione dell’uccisione di Borsellino? La terza è: insabbiando quel dossier si è impedito di dare alla mafia (dopo il maxiprocesso) il colpo mortale? Sono domande impegnative. Qualcuno dovrebbe rispondere.

Mafia anni 90. I “buoni” erano “cattivi” e viceversa? Scrive Piero Sansonetti il 5 Maggio 2018 su "Il Dubbio". La ricostruzione fornita dal Dubbio rovescia i teoremi: i Ros avevano attaccato frontalmente la mafia, la magistratura, persi Falcone e Borsellino, mollò la presa. Da qualche giorno stiamo pubblicando sul “Dubbio” una ricostruzione dei fatti tragici che all’inizio degli anni 90 insanguinarono la Sicilia. Continueremo la settimana prossima. Damiano Aliprandi sta realizzando questa ricostruzione, lavorando su documenti, sentenze, requisitorie, testimonianze, carte, atti giudiziari. Senza violare nessun segreto, senza fidarsi di nessun “uccellino”, senza fonti riservate e coperte, senza basarsi su supposizioni prive di prove. Generalmente l’informazione giudiziaria funziona in un altro modo: non perde tempo a seguire i processi e a verificare le carte, ma “suppone”; e di solito più che supporre prende per buone le supposizioni delle Procure. Qual è la novità che emerge dalla nostra ricostruzione? E’ abbastanza sconvolgente. Ci fa capire che probabilmente la verità è più o meno l’opposto di quello che sin qui si è fatto credere. Vediamo. Recentemente il processo di Palermo (quello sulla presunta trattativa stato- mafia) ha stabilito che un gruppo di carabinieri dei Ros tradì lo Stato e lavorò, insieme alla mafia, per minacciarlo e ricattarlo. Con l’aiuto di Dell’Utri. Se le cose davvero stessero così, sarebbe una cosa gravissima. Un vero e proprio tradimento da parte di un settore molto prestigioso dei carabinieri. Finora, però, non è stata mostrata una sola prova che avvalori questa ipotesi, tranne la testimonianza di un mafioso pentito (Brusca) che in cambio della sua testimonianza ha ottenuto le attenuanti, e quindi la prescrizione, e quindi l’assoluzione. C’è da fidarsi di Brusca, senza un riscontro, senza una carta, un fatto, un documento? Aspettiamo le motivazioni della sentenza e vediamo se esce fuori qualcosa. Per ora, zero. La nostra ricostruzione però giunge a una conclusione del tutto opposta: i carabinieri “traditori” non erano affatto traditori, ma erano investigatori molto competenti che avevano scoperchiato (tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) un gigantesco giro di reati, compiuti per assegnare in modo illegittimo a mafiosi e imprenditori una quantità mostruosa di appalti. La descrizione di questi delitti, e le prove, erano contenute in un dossier chiamato “mafia appalti”, che fu consegnato dai Ros alla magistratura. E precisamente al sostituto procuratore Falcone che iniziò le indagini e giudicò clamorose le scoperte dei carabinieri. Poi Falcone fu chiamato a Roma e il dossier passò ad altri sostituti procuratori. Lo stesso Falcone chiese a Borsellino di occuparsi lui personalmente di quel dossier, perché solo di lui si fidava e perché il dossier conteneva verità scioccanti. Ma prima che il Procuratore Giammanco si decidesse a consegnare il dossier a Borsellino, successero tre cose: fu ucciso Falcone, fu ucciso Borsellino e, nel frattempo, i sostituti procuratori che avevano in mano il dossier chiesero ( e rapidissimamente ottennero) che fosse archiviato. In una parola sola: insabbiarono. Questi sostituti procuratori erano Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo e Guido Lo Forte. E visto che nel frattempo Borsellino e Falcone erano morti, nessuno più mise le mani su quei documenti (che noi abbiamo potuto leggere) i quali contenevano nomi, circostanze, collegamenti, con una tale precisione (e di una tale gravità) che probabilmente avrebbero creato un vero e proprio cataclisma. Sulla mafia, ma anche sulla politica. Non solo su quella siciliana, perché le imprese coinvolte operavano su tutto il territorio nazionale e anche gli appalti non erano solo siciliani ma erano sparsi in ogni regione italiana. Ora le questioni aperte sono tre.

La prima riguarda l’uccisione di Borsellino. In questi anni spesso si è detto che la sua morte è avvenuta perché si opponeva alla trattativa stato mafia. Poi si è detto che stava indagando su Berlusconi. Ora si capisce con una certa sicurezza che non era così. Borsellino non stava indagando su nessuna trattativa né su Berlusconi, ma voleva occuparsi di questo dossier, e negli scandali contenuti in questo dossier non c’era trattativa né c’era ombra di Berlusconi o di Dell’Utri. Dunque tutta la ricostruzione, soprattutto giornalistica (ma presente massicciamente anche nelle requisitorie dei Pm al processo di Palermo) è infondata.

La seconda questione riguarda i Ros. È chiaro che i Ros del generale Mori non solo non trattarono con la mafia, ma avevano una strategia del tutto opposta: quella di andare a scontrarsi frontalmente sia con la mafia sia con quei settori della politica e dell’imprenditoria che con la mafia facevano affari.

La terza questione è la più inquietante. Cosa successe in alcuni settori della magistratura di Palermo? Perché insabbiarono una inchiesta che era una vera bomba atomica e che conteneva i presupposti per annientare Cosa Nostra? C’è un collegamento tra questa decisione di insabbiare e di disinnescare quella inchiesta e il clamoroso depistaggio, seguito dalla magistratura, innescato dal falso pentito Scarantino (primo processo Borsellino)? E ancora: il processo Stato mafia è in qualche modo figlio di questi clamorosi abbagli? Come vedete, la terza questione è formata da domande. Chi può rispondere a queste domande? La magistratura è in grado di fornirci almeno qualche lume?

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania, scrive Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola (la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso. Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada (ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia- appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia- appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: « Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati ». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

Mafia e Appalti: Falcone lavorò su quel dossier sparito. Lo aveva ricevuto nel febbraio del 1991 e lo considerava importantissimo, scrive Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Nel corso dei processi per le stragi siciliane del 1992, dalle persone informate sui fatti (come l’ex generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno dei Ros, e poi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca), era emerso che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia era stato il movente principale dell’attacco mafioso. Cioè era la ragione che aveva indotto “Cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane che portarono all’uccisione di Falcone, Borsellino e molte altre persone. Emerse, in sostanza, l’interesse che alcuni ambienti politico– imprenditoriali e mafiosi avevano ad evitare l’approfondimento dell’informativa dei Ros mafia- appalti, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici. Le indagini, le quali avevano aperto già nel 1991 scenari inquietanti, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”. L’interesse della mafia a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle, si era rafforzato quando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione, riprendendole e indirizzandole nel solco originariamente tracciato da Giovani Falcone. Tutto ha avuto inizio la mattina del 20 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegnò, all’allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni dell’indagine sulla mafia- appalti sottoscritta dal generale Mori. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del ‘ tu’, valendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera (nell’indagine dei Ros ci sono le sue intercettazioni), che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare siciliano, ed aveva elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di rilievo e aziende di primaria importanza. In questo elenco c’erano anche nomi legati a magistrati siciliani. Falcone si interessò molto dell’indagine dei Ros. Infatti, a distanza di un mese dalla consegna dell’informativa, in un importante convegno organizzato a marzo del ’ 91 dall’Alto Commissario Antimafia, dopo avere riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, aveva testualmente affermato: « Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora », alludendo non solo a un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. In pratica aveva non solo intuito l’importanza di mafia- appalti, ma aveva fatto capire la sua intenzione di creare un nuovo ed efficace metodo di investigazione. Fu un campanello d’allarme per quanti, mafiosi e contigui, noti e non ancora noti, avrebbero potuto essere attratti nel cono di luce di questo programma. C’è una testimonianza che conferma il timore di Cosa nostra. Riportiamo un brano tratto dalla sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta del 2000: «A dire del Siino (considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) , le indagini promosse dal giudice Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”, avevano portato alla sua eliminazione. Difatti, in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr. Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”». A distanza di qualche mese dal suo intervento, Giovanni Falcone, dopo essere stato isolato dai suoi colleghi e scansato dal Csm, accetterà dal ministro Martelli la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il ministero della Giustizia. Il dossier dei Ros rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, in seguito il Procuratore Giammanco affiancherà altri sostituti, tra i quali Roberto Scarpinato, cioè l’attuale Procuratore generale di Palermo. Nonostante ciò, Falcone non recise i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo. Si fidava però di uno solo collega, ovvero Paolo Borsellino. In quel frangente si verificò una circostanza molto significativa e che turbò molto Falcone. L’intero rapporto mafia appalti fu consegnato dal procuratore Giammanco al ministro Martelli, che tuttavia lo restituì alla Procura di Palermo, senza aprire il plico, avendo riscontrato in Giovanni Falcone una sorta di lamentela sulla condotta del magistrato, il quale nel consegnare il rapporto aveva inteso delegare alla politica l’intera questione anziché promuovere le dovute indagini di riscontro. E addirittura, la lettera di restituzione fu inviata al Csm per conoscenza, per rimarcare l’anomalo comportamento del procuratore Giammanco. Falcone era interessato a mafiaappalti collegandolo perfino con le indagini milanesi. Di questo si trova riscontro nella testimonianza di Antonio Di Pietro nell’ambito del processo Borsellino ter. Si parla sempre di imprese e casualmente – come raccontò l’ex giudice di Mani Pulite – cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa (quella di Gardini) o la De Eccher, tutte imprese del nord coinvolte in mafia- appalti. Di Pietro disse di averne parlato con Falcone. «Quella era l’essenza della mia inchiesta – raccontò Di Pietro durante il processo – cioè la scoperta che le imprese nazionali dovunque andavano si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino. Ma attenzione – sottolineò Di Pietro-, anche quando Falcone era ancora vivo». Falcone, ribadiamolo, non perdeva di vista quell’indagine, anche se formalmente non era di sua competenza. La conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, aveva lanciato un appello esclamando che «la mafia è entrata in borsa», per dire che società quotate in borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra”. Il grumo di interessi che riguarda gli appalti, fa maturare la decisione della mafia di punire i vecchi referenti politici come Salvo Lima, accusati di non essere più in grado di svolgere utili mediazioni. Mancavano solo 11 giorni all’attentato, il tritolo per Capaci era già partito quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva che stava arrivando la sua ora. Quel pizzino di morte fu l’ultimo avvertimento prima di quel boato che il 23 maggio 1992 sventrò l’autostrada uccidendo con Giovanni Falcone anche sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Solo Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva risalire a quella inchiesta e a quel dossier dei Ros per scoprire gli assassini di Falcone. Alla prossima puntata parleremo di questo.

Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…Era la mattina del 19 luglio 1992, il pomeriggio ci fu la strage, scrive Damiano Aliprandi l'8 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…» «Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu” (affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi. Quindi, ritornando alla testimonianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega? Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa. L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo». Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone. Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento». Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti. Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco. Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

«Tenete quei dossier lontani da Falcone e Borsellino». L’informativa “Caronte” dei Ros sulle collusioni Mafia-imprese, scrive Damiano Aliprandi il 9 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo tratteggiato l’interesse di Falcone e Borsellino per l’informativa dei Ros dedicata a mafia- appalti. L’interesse era quello di approfondire l’inchiesta, ma sappiamo che non avevano la delega e così l’inchiesta fu dapprima depotenziata, indagando solo cinque persone, poi fu diffuso – non si sa da chi – il contenuto del rapporto che arrivò a tutti i soggetti coinvolti; infine fu tutto archiviato, quando il corpo senza vita di Borsellino era ancora caldo. La richiesta di archiviazione – firmata dai sostituti Lo Forte e Scarpinato – fu avanzata pochissimi giorni prima dell’attentato. In seguito ci sono state diverse inchieste giudiziarie “spezzettate” ma che non portarono a nulla visto che c’è stata una sorta di scompenso tra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni Falcone (in qualche modo anticipate al Convegno di Castel Utveggio) puntualmente tracciate dai Ros e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della procura di Palermo dell’epoca. Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, Cosa nostra avesse raggiunto i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992. Ma perché la mafia aveva paura che quell’indagine venisse approfondita? Perché – secondo la testimonianza di Angelo Siino, considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra -, la mafia riferendosi a Falcone avrebbe detto «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»? L’indagine dei Ros che dettero vita all’informativa mafia- appalti è nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che i Ros lo informavano delle indagini ben prima che redigessero il dossier. Infatti due sono le informative dei Ros consegnate a Falcone (e anche a Lo Forte che era sostituto procuratore a Palermo): una datata il 2 luglio 1990 e l’altra il 5 agosto del 1990. Falcone aveva capito che non bastava arrestare gli esponenti dei clan, ma bisognava colpire la ricchezza di Cosa Nostra, frutto di vere e proprie attività imprenditoriali. Del resto già Leonardo Sciascia aveva tratteggiato la figura dell’imprenditore mafioso, Colasberna, ne Il giorno della Civetta. Tuttavia, fino al momento in cui i Ros non misero il becco nel reimpiego dei capitali mafiosi nella gestione degli appalti, la linea investigativa era concentrata essenzialmente sulle indagini bancarie ai fini dell’individuazione delle somme di denaro e dei molteplici prestanomi che ne favorivano l’occultamento. Il meccanismo della gestione degli appalti in mano alla mafia è ben sintetizzato in un passaggio dell’informativa dei Ros dove si dice che i mafiosi “disponevano di una capacità operativa sorprendente, abbinata, tra l’altro, ad una pressoché illimitata forza condizionante la pubblica amministrazione che permetteva loro di aggirare e superare qualsiasi vincolo legislativo e non”, e che non aveva solo la capacità di indirizzare la volontà degli Enti Pubblici, “ma di coartarla in tutti i suoi aspetti, riuscendo in alcuni casi, a programmare essi stessi l’attività economica d’intervento pubblico”. Come accade spesso nelle indagini investigative, le collusioni vengono scoperchiate quasi per caso. Tutto cominciò quando, a settembre del 1989, avvenne l’omicidio di un imprenditore di Baucina, piccolo comune vicino Palermo. Nel corso delle relative indagini era emerso che l’impresa gestita dalla vittima legata alla mafia si era associata, in relazione ad un pubblico appalto di modesta entità, con la società Tor Di Valle Spa, di ben più imponenti dimensioni ed avente sede in Roma: all’epoca gestiva enormi appalti come la costruzione della nuova Casa circondariale di Civitavecchia, il prolungamento della linea ‘ B’ della metropolitana di Roma e altro ancora. È da quel momento che l’indagine si era concentrata su diverse società importanti della Sicilia che sarebbero entrate nel circuito mafioso. Sono società di modeste dimensioni che però erano collegate con le grandi imprese operanti al livello nazionale. Oltre alla Tor Di Valle, tra le tante, compare anche la società del nord Calcestruzzi s. p. a. del Gruppo Ferruzzi- Gardini che si era accordata con l’imprenditore mafioso Buscemi. Sul progressivo cambiamento del ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti dopo la metà degli anni 80, è necessario prendere in considerazione le conclusioni argomentate dai giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta tratte dalla testimonianza di Siino. I giudici nisseni hanno spiegato che la mafia, da un ruolo prettamente parassitario incentrato sulle “messe a posto”, sui subappalti, sulle gestioni dei lavori per conto terzi, era passata a uno imprenditoriale, nel senso che la mafia aveva cominciato “a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine”. Cosa nostra, si era inserita “a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti”, applicando “il pizzo sul pizzo”, cioè decurtando una parte delle tangenti dirette ai politici. Dall’informativa dei Ros mafia e appalti, infatti, si evince che l’obiettivo della mafia era quello di utilizzare il denaro del finanziamento al Mezzogiorno per i lavori da aggiudicare alle imprese dell’organizzazione. E a gestire i soldi del Mezzogiorno era la Sirap. Tale ente verrà poi esaminato dai Ros in un momento successivo tramite l’informativa “Caronte”, solo perché aveva una sua complessità rispetto alle vicende comprese nella informativa del febbraio del 1991 e perché, anche su sollecitazione dello stesso Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale. L’informativa “Caronte” venne tramessa alla Procura di Catania che, al termine delle indagini, formulò una richiesta di misure cautelari verso numerosi esponenti politici. L’allora procuratore Gabriele Alicata, non ritendendo competente il suo ufficio, trasmise le carte alla Procura di Palermo. Tutti gli esponenti politici e amministrativi per i quali la procura di Catania aveva richiesto misure cautelare, non vennero in quella sede perseguiti. La Sirap era incaricata dalla Regione Sicilia – il cui Presidente dell’epoca era l’onorevole Rino Nicolosi – di gestire finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e dell’allora Comunità europea (la ex Cee) per circa mille miliardi, per la realizzazione di venti aree attrezzate da destinare alle piccole e medie imprese artigianali ed industriali. Si trattava, quindi, della gestione di venti gare di appalto dell’importo di circa cinquanta miliardi ciascuna. Erano tanti soldi, miliardi e miliardi delle vecchie lire, che potevano dare potere alla mafia, quello di condizionare la politica e l’economia legale. La Procura di Palermo aveva, come già detto, la delega per le indagini. Ma poteva farlo serenamente? Alcuni magistrati titolari dell’inchiesta avevano parenti di primo grado e anche padri e fratelli legati a quelle imprese ed enti sotto la lente d’ingrandimento dei Ros: uno dei sostituti procuratori aveva il padre presidente dell’Espi, ente economico che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini. Sappiamo che Paolo Borsellino, ad esempio, aveva già chiesto al magistrato Salomone – fratello di uno degli imprenditori coinvolti nell’informativa dei Ros – di operare alla procura di Palermo, ma di non occuparsi di mafia- appalti per questioni di opportunità. Era solo un’informativa e quindi sono tutti innocenti fino a prova contraria, ma per questioni di evidenti “conflitti di interesse” forse sarebbe stato opportuno dare la delega ad altri magistrati, magari proprio a Falcone e Borsellino. Entrambi – come diverse testimonianze e documento lo certificano – informalmente seguivano mafia- appalti, ma furono dilaniati dal tritolo. Il movente che ha concausato la loro morte è stato sepolto con loro, in compenso sono stati condannati, in primo grado, coloro che dettero vita a quello scottante dossier.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. La corte smonta il luogo comune di uno stato inerme e piegato agli interessi di Cosa nostra nel periodo delle stragi, scrive Damiano Aliprandi il 3 luglio 2018 su "Il Dubbio". Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte»: furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale. Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.

Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio? Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Quando il “Corvo” cominciò a volare su chi combatteva Cosa nostra. La prima lettera anonima del “Corvo” contro le istituzioni spuntò nel 1989 e fu ingiustamente accusato il pm Alberto Di Pisa, scrive Damiano Aliprandi il 16 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo raccontato come l’indagine dei Ros su mafia- appalti è stata seguita fin dall’inizio da Falcone e poi portata avanti da Borsellino. Per completare il quadro, però non si può tener conto delle lettere anonime definite giornalisticamente del “Corvo”. Come un uccello del malaugurio hanno svolazzato sempre quando ci sono stati gli attentati. La prima lettera arrivò a ridosso dell’attentato fallito a Falcone, l’altra invece a cavallo tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella in via D’Amelio del 19 luglio 1992. La prima missiva anonima spunta in un anno spartiacque: il 1989. Il mondo cambia letteralmente volto. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre, produce conseguenze politiche, economiche e sociali in tutto il pianeta. Mentre le manifestazioni studentesche in Cina vengono represse nel sangue, in Ungheria si apre la frontiera con l’Austria, creando il primo varco della Cortina di ferro e permettendo la fuga dalla Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, comunemente chiamata Germania Est) di molti suoi abitanti. A novembre, una escalation di pochi giorni, cominciata con la concessione ai rifugiati nelle ambasciate della Germania Ovest di Praga e Varsavia di trasferirsi nella Repubblica Federale, porta alla caduta del Muro di Berlino, festeggiata l’anno seguente con un grande concerto dei Pink Floyd. Il 1989 è un anno rilevante anche nello scacchiere italiano, sotto il profilo politico, criminale e giudiziario. ll 20 febbraio, a Catanzaro, si conclude il terzo processo per la strage di Piazza Fontana: assolti gli imputati ( Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini) per non aver commesso il fatto. La storia si ripete un mese più tardi con l’assoluzione di tutti gli imputati per un’altra strage, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974. I fatti più eclatanti si verificano tra le dimissioni del governo De Mita (19 maggio) e il giuramento del sesto governo Andreotti (23 luglio), pentapartito composto da Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Ma l’anno 1989 è anche quello dove per la prima volta in Parlamento arriva un relazione sulla sicurezza dove viene denunciato che mafia, camorra e ‘ ndrangheta hanno superato il terrorismo nella graduatoria delle minacce nella sicurezza nazionale. Il 12 giugno, Angela Casella, madre di Cesare Casella, ragazzo pavese rapito da diciassette mesi dall’Anonima sequestri calabrese, si incatena nella piazza di Locri per denunciare l’incapacità dello Stato nel combattere la criminalità organizzata. La ‘ ndrangheta, infatti, in quel periodo getta le basi della sua trasformazione e notevole espansione, approfittando soprattutto del cono d’ombra generato dal maxi processo palermitano contro Cosa nostra. Mentre gli esponenti di spicco della mafia siciliana sono ad un passo dall’essere condannati definitivamente dallo Stato italiano, le ‘ndrine calabresi controllano i territori, gestiscono in modo monopolistico il traffico di cocaina e riciclano il denaro acquistando beni immobili e attività commerciali, cominciando progressivamente a scalare le gerarchie criminali nazionali e internazionali. Ma l’anno 1989 è anche quello del fallito attentato a Giovanni Falcone e l’inizio di alcune missive inquietanti sempre ai danni del giudice palermitano. Già da un anno i Ros si stanno interessando di mafia- appalti, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano – come già descritto dettagliatamente nelle puntate precedenti de Il Dubbio ( edizioni del 3, 4, 8 e 9 maggio) – che Cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario ( imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici». Ma ritorniamo al 1989. È il 21 giugno quando cinquantotto candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera ai piedi della villa all’Addaura: assieme a Falcone avrebbero potuto eliminare anche Carla Del Ponte, allora procuratrice a Lugano, e il collega giudice istruttore Claudio Lehmann, che indagavano sul sistema di riciclaggio internazionale di Cosa nostra. Poche settimane prima giunsero continue lettere diffamatorie nei confronti soprattutto di Falcone e inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Giovanni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di Cosa nostra attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Le accuse, ovviamente, si sono rivelate assolutamente calunniose anche nel contesto delle indagini svolte per individuare l’autore delle lettere e che le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia successivamente acquisite hanno concordemente attribuito la responsabilità degli omicidi indicati negli anonimi al gruppo corleonese escludendo la responsabilità di Salvatore Contorno. Verrà accusato ingiustamente il magistrato Alberto Di Pisa, all’epoca sostituto procuratore a Palermo, che ha subito un travagliato processo a seguito delle indagini avviate dall’Ufficio dell’Alto Commissario che lo avevano indicato come autore delle lettere e che, comunque, dopo essere stato condannato dal Tribunale di Caltanissetta, è stato poi definitivamente assolto dalla Corte di Appello di Caltanissetta. Dalla sentenza però emerge chiaramente come le calunniose accuse rivolte a Falcone provengano da un ambito istituzionale e come si pongano in strettissima correlazione logica e cronologica con l’attentato fallito dell’Addaura. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un “atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata” e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, “all’annientamento” di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Tutti questi elementi fanno pensare, a detta di chi scrive, che le lettere del “Corvo” siano state scritte nel consapevole intento di preparare il terreno per l’imminente tentativo di eliminazione fisica di Falcone. Piano poi purtroppo riuscito quel maledetto 23 maggio del 1992. Un altro anno particolare, altro spartiacque della storia del nostro Paese dove spuntò fuori l’ennesima lettera anonima. 

E la lettera del “Corvo 2” spuntò tra le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una lettera di otto pagine dattiloscritte fu indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino, scrive Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2018, su "Il Dubbio". L’anno 1992, come il 1989, è stato l’ennesimo spartiacque nel mondo intero. Negli Stati Uniti inizia l’era – poi finita tra pepate polemiche – del democratico Bill Clinton. È uno spartiacque in Europa, dove entra tragicamente nel vivo il conflitto che dilanierà la Penisola Balcanica e che si concluderà nel 1995. Perfino il cinema non sarà più lo stesso. Nel 1992 verrà presentato prima al Sundance poi a Cannes, l’opera d’esordio di uno stralunato cinefilo di Knoxville – ex impiegato di una videoteca – chiamato Quentin Tarantino. Reservoir Dogs, nell’ottobre dello stesso anno, viene rilasciato anche da noi col titolo Cani da rapina: non lo vedrà praticamente nessuno. Quando poi la distribuzione opta per il titolo che oggi tutti conosciamo – Le iene – anche il nostro pubblico si desta e comprende che da lì in poi il cinema non sarà più lo stesso. Ma il 1992 è stato l’annus horribilis della Repubblica italiana. Un vero e proprio terremoto si abbatte nel nostro Paese, dove sotto le bombe della mafia esplode Tangentopoli. Crolla l’impero delle luci e del benessere dalle mille contraddizioni della Prima Repubblica, si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e si apre la strada per la discesa in campo di un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, che due anni dopo sarà eletto. Ma è l’anno, appunto, della mafia corleonese che teme di essere annientata, e cioè teme che sia intaccata la sua potenza economica, che si fonda non solo sul traffico di droga, ma sulla gestione degli appalti con la connivenza di alcuni imprenditori e politici anche di rilievo nazionale. Un mafia che compie le stragi con il tritolo, uccidendo prima Falcone e dopo Borsellino. Ma ci fu anche l’omicidio di Salvo Lima (capo degli andreottiani in Sicilia), e non fu un caso isolato: il giorno prima a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds e qualche giorno dopo cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. La seconda lettera anonima, giornalisticamente chiamata “Corvo 2” apparve al cavallo tra la strage di Capaci e via D’Amelio. I Ros, in quel convulso periodo, cercavano chi gli consentisse di lavorare efficacemente, mentre l’organismo di punta della magistratura nella lotta contro l’organizzazione mafiosa, la procura della Repubblica di Palermo, era quasi all’impotenza operativa, preda al suo interno di forti contrasti: un “covo di vipere” secondo il parere espresso da Borsellino, nel giugno 1992, ai colleghi Camassa e Russo. Affermazione che non costituiva solo lo sfogo isolato di una persona delusa, visto che in quell’estate, tra i magistrati della Procura di Palermo, si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti dell’allora procuratore capo Giammanco in relazione alla gestione dell’Ufficio. Una lettera anonima che spunta in questo periodo particolare, quando Borsellino riteneva che potesse esserci un legame diretto tra l’attentato di Capaci e la più recente attività di Falcone; e pensava che la continuazione dell’indagine mafia- appalti, che i Ros avevano iniziato con Falcone, avrebbe comunque rappresentato un salto di qualità nel contrasto a Cosa nostra. Parliamo di una lettera di otto pagine dattiloscritte indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino. Otto pagine che ricostruiscono uno scenario siciliano, che indicano piste investigative, che invitano a seguire con più attenzione certi indizi, che gettano ombre su alcuni uomini importanti. Una lettera che fa tremare Palermo e i palazzi romani. Questa volta si firma con un “noi”. L’hanno messa in circuito fra il 22 e il 23 di giugno, per una decina di giorni solo sussurri e bisbigli. Poi, improvvisamente, un giornale, La Sicilia di Catania, decide di pubblicare ampi stralci di quell’anonimo. Le otto pagine sono diventate un ‘ caso’, tanto da far scaturire un’interrogazione parlamentare da parte del senatore Lucio Libertini di Rifondazione Comunista. Gli anonimi del “Corvo 2” riportano il tentativo della Dc di rinnovare il partito liberandosi di Andreotti. In particolare facevano riferimento esplicito all’attività degli onorevoli Sergio Mattarella e Calogero Mannino volta a scalzare il potentato politico detenuto in Sicilia da Giulio Andreotti, attraverso l’onorevole Salvo Lima, in vista delle elezioni politiche del 5 e 6 di aprile di quell’anno. Entrando nei particolari l’anonimo descriveva, tra gli altri, anche di un incontro, facilitato dal professionista palermitano Pietro Di Miceli, che sarebbe avvenuto in una chiesa di San Giuseppe Iato, tra Mannino e Salvatore Riina nel corso del quale gli accordi raggiunti avrebbero anche previsto l’eliminazione fisica dell’onorevole Lima. I conseguenti sviluppi dell’intesa avrebbero poi determinato, in successione di tempo, anche l’assassinio di Falcone. Una lettera, insomma, che – come fu per quella precedente che infangò Falcone e persone dello Stato a lui vicine -, fa accuse pesantissime, a tratti deliranti. Tanto da sostenere che Totò Riina si sarebbe messo d’accordo per farsi arrestare in cambio di alcuni punti da rispettare. Ricorda qualcosa? Sì, sembra il prototipo del teorema giudiziario sulla presunta trattativa stato- mafia che si basa, appunto, su un papello (inattendibile quanto la lettera anonima) con diversi punti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare. Ma come accade in tutte quelle lettere dove dietro c’è la mano di qualcuno che vuole depistare, c’è un mix di qualche notizia vera, di pubblico dominio, insieme ad altre verosimili e ad altre visibilmente surreali. Ad esempio – noti- zia vera – viene citato mafia- appalti, comprese alcune aziende coinvolte, facendo riferimento ai magistrati di Palermo che, di fronte a un informativa di 900 pagine, si sono limitati ad arrestare persone di basso profilo. Ma – c’è da dire – questa era roba nota visto che montò una polemica pubblica su quell’episodio. Chi è stato l’autore della lettera? La serie di considerazioni e notizie di dettaglio riportate nel testo attribuito al “Corvo 2”, vennero esaminate dagli organismi delegati alle indagini che, in data 2 febbraio 1993, trasmisero, a firma del questore Achille Serra e del generale Antonio Subranni, l’informativa n. 123G/ 628271/ 100B protocollo del Servizio centrale operativo e n. 10102/ 14 protocollo Ros. Il documento prendeva in esame dettagliatamente gli sviluppi della vicenda, nel cui ambito anche il generale Mario Mori fece una personale attività d’indagine, ricostruendone gli antefatti e individuando l’estensore dell’anonimo, ma solo come dato probabilistico, in tale Angelo Sciortino, le cui affermazioni avevano trovato “elementi di notevole somiglianza” nel contenuto dell’anonimo stesso, con quello riferito da una fonte informativa del Sisde, denominata “Spada“, e da altre risultanze testimoniali acquisite. Il Sisde però non comunicò mai il nome della sua fonte. Quello che sappiamo è che le inchieste delle procure di Caltanissetta e Palermo non portarono all’accertamento e all’attribuzione di specifiche responsabilità. Le rivelazioni anonime, però, hanno avuto il potere di distogliere per un po’ di tempo le energie giudiziarie e di polizia dalla caccia agli autori della strage di Capaci. Il dato certo, come documentato da questa inchiesta de Il Dubbio, è che negli ultimi giorni di vita, Borsellino era impegnato con tutte le sue forze a individuare mandanti ed esecutori della strage di Capaci e la sua attenzione particolare era rivolta all’inchiesta mafiaappalti, a suo tempo avviata da Giovanni Falcone, che lui riteneva l’indagine da sviluppare prioritariamente. A differenza di quanto sostenuto dai titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato– mafia, l’attività professionale di Borsellino era concentrata su quello, e nessun cenno, anche indiretto, egli aveva fatto a ipotesi di trattative o contatti tra istituzioni dello Stato e “Cosa nostra”.

Un pentito accusa la Procura di Palermo: «Così favorì la mafia». Il pentito Giuseppe Li Pera racconta perché la procura di Palermo non volle ascoltare la sua versione sull’inchiesta mafia-appalti, scrive Damiano Aliprandi il 23 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I magistrati della Procura di Palermo non mi hanno voluto ascoltare sui fatti». A denunciarlo è Giuseppe Li Pera, allora capo area per la regione Sicilia della società Rizzani de Eccher, anch’essa coinvolta nell’inchiesta mafia- appalti, condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e seguita fin dall’inizio dal magistrato Giovanni Falcone, che la coordinò sino al giorno della sua morte. A distanza di 26 anni, ancora rimane un mistero la ragione per cui Giovanni Falcone fu ucciso. Così come il mistero rimane per le sorti di Paolo Borsellino che, prima di essere dilaniato dal tritolo, attendeva di avere in mano la delega per Palermo: in tale modo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Diverse sono le testimonianze che attestano il suo interessamento, a partire da quando, nell’incontro riservato con Mori e De Donno per parlare dell’inchiesta, ribadiva la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – testimoniò Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». Ma ritorniamo a mafia- appalti. L’indagine dei Ros era nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che veniva informato delle indagini ancora prima che fosse redatto il dossier. Esattamente due furono le informative dei Ros che vennero consegnate a Falcone, ma anche a Lo Forte che era allora Sostituto Procuratore a Palermo: l’una datata 2 luglio 1990 e l’altra 5 agosto del 1990. Informative, soprattutto quella del 2 luglio, nelle quali erano contenuti espliciti riferimenti ad asserite cointeressenze, di natura illecita, di interi gruppi politici oltre che riferimenti a singoli esponenti di rilievo nazionale. Quindi non solo Falcone, ma anche Borsellino e i successivi altri suoi colleghi che si sarebbero occupati delle sorti dell’inchiesta mafia- appalti, erano a conoscenza del contenuto della prima informativa di carattere generale, che fu depositata proprio dietro volere di Falcone, in attesa di altri approfondimenti soprattutto in merito alla posizione dell’ente regionale Sirap che gestiva i soldi per gli appalti. Fu infatti in un momento successivo che i Ros, solo nell’informativa “Caronte”, approfondirono la posizione della Sirap nell’ambito dei fatti dell’inchiesta. In seguito alla prima informativa, vennero emessi solamente cinque mandati di cattura rispetto ai 44 personaggi coinvolti. Ed è in questo momento che si inserisce il geometra Li Pera, uno dei coinvolti nei fatti dell’indagine, che decise di collaborare con la giustizia. Ma, a detta sua, non venne ascoltato dai magistrati di Palermo. In effetti, noi de Il Dubbio abbiamo potuto verificare la circostanza nel provvedimento di archiviazione del Gip Gilda Loforti del Tribunale di Caltanissetta, dove viene confermata la denuncia che Li Pera espose al Sostituto Procuratore Felice Lima. Tra le denunce, anche il fatto che i magistrati di Palermo avrebbero fatto pervenire il rapporto dei carabinieri del Ros su mafia- appalti nelle mani degli avvocati, ancora prima che scattasse il blitz. Accusa che anche lo stesso carabiniere dei Ros De Donno fece nei confronti dei magistrati. Scaturirono querele vicendevoli e nell’ordinanza del Gip Loforti, dove entrambe furono riunite e finirono per essere archiviate, si legge: «Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati». Un’ordinanza che getta ombre, addirittura sull’ipotesi che gli inquirenti possano essere stati coinvolti per denaro o ragioni d’amicizia. Ora Giuseppe Li Pera vuole rinnovare le sue obiezioni e ha scelto di rispondere alle nostre domande: occorre rammentare a questo proposito che egli già altre volte, davanti agli inquirenti, aveva lamentato che la Procura di Palermo avesse usato con lui una mano più pesante rispetto a quella adottata nei confronti del suo titolare e dei suoi dirigenti, seppur a fronte del fatto che la maggior parte dell’impianto accusatorio fosse composto da intercettazioni telefoniche. No, ma solo dopo alcuni mesi, quando ebbi la certezza che la Procura non voleva sentirmi. Dopo il mio arresto avevo studiato le carte in mio possesso ed avevo deciso di mettere alla prova la buona fede dei Pm. Io partivo dall’assunto che era assurdo che i Pm avessero potuto separare la mia posizione da quello del mio titolare e dei miei dirigenti, e al primo interrogatorio di garanzia avevo predisposto una trappola. In quell’interrogatorio avevo citato la parola chiave “PASS”, che è il meccanismo della illecita spartizione degli appalti, e dissi a me stesso, se mi chiedono che cosa vuol dire il sistema dei PASS, chi e perché si usa, vuol dire che non hanno capito di cosa parla il Dossier dei Ros e quindi mi sarei messo a disposizione per chiarire tutto, se invece non mi chiedono cosa vuol dire PASS, significa che hanno fatto una scelta politica di proteggere i potenti sia essi imprenditori che politici e far volare solo gli stracci. Quando poi per due volte si rifiutarono di sentirmi ebbi la certezza che la loro decisione era irrevocabile.

Nel 1992 venne sentito dal Pm Felice Lima di Catania? Perché? Aveva fatto già qualche denuncia in quell’occasione?

«No. Feci mandare un esposto anonimo. Ricordo che di primo acchito il Pm Lima non era convinto della bontà delle mie affermazioni, cosicché io gli dissi “dottor Lima non si preoccupi, se lei non trova le prove di quanto io dico, ed io le dico quali prove cercare e dove cercarle, amici come prima”. Il dottor. Lima, ovviamente trovò tutte le prove necessarie, non solo, chiese anche l’arresto di 22/ 23 persone tra cui, se la memoria non mi inganna, anche di due Pm di Palermo, solo che l’allora Procuratore Capo di Catania gli levò la delega e lo mandò, da brillante Pm antimafia ad occuparsi di divorzi».

Lei fece una denuncia per corruzione in atti giudiziari nei confronti di quattro magistrati, uno tra i quali fu il Procuratore Giammanco. Ne scaturì un’indagine? È a conoscenza di quanto emerse in seguito?

«Certo, io ho sempre sostenuto e ne sono sempre più convinto che i Pm di Palermo decisero a tavolino chi processare e chi salvare. Per me neanche un chirurgo avrebbe potuto separare la mia posizione da quella del mio titolare e dei miei dirigenti. Ovviamente quando si ufficializzò la mia collaborazione con la Procura di Catania, i Pm di Palermo si scatenarono contro. Le potrei fare decine di esempi, ma gliene cito uno solo. I Pm di Palermo avevano chiesto in dodici diversi interrogatori a Leonardo Messina, dell’operazione “LEOPARDO”, se mi conosceva, e lui per ben dodici interrogatori affermò di non avermi mai visto, finchè qualche giorno dopo l’ufficializzazione della mia collaborazione con il dottor Lima, improvvisamente il Messina è folgorato sulla via di Damasco e dice testualmente: “Lo conosco e sono andato con lui a portare una tangente di 100 milioni di lire al capo mafia di Pietraperzia, ( ovviamente morto), per il lotto dell’autostrada per Pietraperzia, vinto dalla Rizzani de Eccher”. Va innanzitutto detto che non esiste un’autostrada per Pietraperzia, ma uno scorrimento veloce Caltanissetta – Gela ed era previsto uno svincolo per Pietraperzia. Ricordo che all’epoca dei fatti io ero il capocommessa più anziano in Sicilia della Rizzani de Eccher. Bene il signor Messina alla domanda del mio legale, il compianto avvocato Pietro Milio, che gli chiese in che anno avvenne questa dazione di denaro rispose a dicembre 1991. “Ma a dicembre 1991 il geometra Li Pera era già arrestato”, ribatté Milio. Rispose che allora è stato nel 1990. Ma quella gara non venne esperita che a giugno/ luglio 1991, quindi a che titolo si andava a pagare una tangente per un lavoro non ancora aggiudicato? Ma la cosa più umoristica è che la Rizzani de Eccher a giugno/ luglio si aggiudicò un lotto della Caltanissetta – Gela a 60 Km dallo svicolo di Pietraperzia. Chiaro che il tutto era stato imboccato al Messina con molta superficialità. Per rispondere, infine, alla sua domanda, sì in effetti ci furono due indagini, la prima fu archiviata e poi fu riaperta a seguito della denuncia dell’allora Capitano De Donno. La Gip dottoressa Gilda Loforti archiviò l’indagine dopo alcuni anni, ma la frase più gentile che usò nei riguardi dei suoi colleghi di Palermo fu “hanno indagato su se stessi e si sono autoassolti”».

In questi giorni ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Una ventina di anni fa lei fu ascoltato dagli inquirenti e in un’occasione manifestò delle perplessità sulla dinamica, relativamente alla preparazione della strage, così come era stata riferita da Giovanni Brusca. A che titolo venne sentito dagli inquirenti?

«Volevano sapere se durante il periodo della mia detenzione avevo sentito notizie relative all’attentato, la mia risposta fu negativa».

Cosa non la convinceva nella dinamica della strage di Capaci, al punto da manifestare le sue perplessità pur a fronte alle ricostruzioni di Giovanni Brusca?

«Premetto che sono un discreto esperto di dinamite, avendo lavorato per tanti anni in Italia ed all’estero in cantieri in cui si utilizzava la dinamite per lo scavo di gallerie, di trincee, per l’apertura di cave etc., per cui posso tecnicamente affermare che quanto dichiarato da Brusca Giovanni, circa la preparazione dell’attentato, a mio modesto avviso, non è convincente».

Alla luce del suo coinvolgimento nella vicenda e sulla base delle sue conoscenze dei fatti e dello sviluppo dell’inchiesta mafia- appalti, conosce un qualche legame tra l’uccisione di Giovanni Falcone e la circostanza che stesse conducendo l’inchiesta e che volesse portarla in fondo?

«Io sono convinto che l’indagine su mafia- appalti non sia il vero motivo della strage “Falcone”, ci deve essere qualcosa di più grave e di più devastante per la vita della Repubblica Italiana. Le rivelo un particolare che pochi sanno. Il compianto avvocato. Pietro Milio stava scrivendo un libro, che purtroppo fu pubblicato dopo la sua morte con il titolo “Giustizia Assistita”. Bene, io ebbi l’occasione di visionare le prime bozze ed io collaborai anche alla stesura di un capitolo, quello relativo alla strage di Capaci, dove contestai pezzo per pezzo le affermazioni di Giovanni Brusca, grande fu la mia sorpresa nel vedere che nel libro pubblicato questo capitolo era sparito. Come era sparito il capitolo dove Milio si chiedeva cosa era venuta a fare l’Fbi, le sue testuali parole erano “l’Fbi è venuta a cercare le prove o è venuta a cancellarle?”»

Che lei sappia, con riguardo alla strage di Capaci, qualche potere, politico o giudiziario, poteva sapere o aver agito in favore della Mafia, anche inconsapevolmente, considerati gli interessi economici e politici in gioco?

«Io sono sempre stato convinto, e lo era anche il compianto avvocato Pietro Milio, che il ruolo della mafia in questa strage sia stata solo quella di esecutore, ma i mandanti sono altri. Lui parlava spesso di un collegamento tra la strage di Capaci, l’attentato al giudice Palermo, che trent’anni fa costò la vita ad una mamma ed ai suoi due gemellini, ed al fallito attentato dell’Addaura».

Scarpinato: «Non ci diranno mai cosa c’è dietro le stragi». Le parole del procuratore generale di Palermo, scrive Damiano Aliprandi il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  «È inquietante che ci sono tante, troppe cose, e quello che ancora più inquietante è che ci sono tante persone che sanno e che continuano a tacere. Perché?», ha detto il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato durante un incontro organizzato in occasione delle commemorazioni per ricordare i magistrati uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi fa i nomi. «I Graviano, ad esempio, hanno ancora 50 anni e potrebbero rifarsi una vita, eppure stanno in silenzio. C’è una storia inquietante anche da questo punto di vista». Eppure, non è del tutto vero. Anzi, adesso il silenzio è stato imposto dai pm antimafia. Il caso vuole che lo scorso 12 dicembre, Fiammetta Borsellino – figlia minore del giudice assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio ’ 92 – è andata a fare un colloquio con i fratelli Graviano al 41 bis, nei due penitenziari di massima sicurezza. Qualcosa le hanno detto. Giuseppe Graviano ha fatto un piccolo accenno a Berlusconi è di quando faceva la bella vita a Milano. «Lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi – ha lanciato lì a sorpresa – più che io era mio cugino che lo frequentava». Ma finisce lì, nessun riferimento alle stragi come forse altri ben speravano. Infatti la stessa Fiammetta non era minimamente interessata e ha cambiato discorso, perché quello che le premeva è la verità sull’omicidio di suo padre. A quel punto – grazie a un articolo del Corriere della Sera a firma di Giovanni Bianconi – veniamo a sapere cosa le rispose: «Lei ha fiducia della magistratura attuale? Come mai non hanno scoperto ancora chi ha ucciso la buonanima di suo papà?». Fino a diventare quasi aggressivo: «A nessuno interessa far emergere la verità della morte di suo padre, sono due cose distinte con la morte di Giovanni Falcone… A lei non interessa sapere chi ha ucciso suo papà… se qualcuno non era amico di suo papà… meglio morire e non far emergere la verità». Ma non solo, il fratello più grande, Filippo, dopo averle detto di essere estraneo alle stragi, dopo varie insistenze a dire la verità, le ha detto: «Io una volta ho detto ai magistrati “se dovessi dire la verità sulla mia vita passata… voi mi rimandereste in cella come per dire ci sta facendo perdere tempo”». I Graviano, quindi, hanno cominciato a parlare, dicendo qualcosa di diverso rispetto alla narrazione vigente. Cosa è accaduto? Le Procure antimafia di Palermo, Caltanissetta e Firenze, hanno detto «no» alla possibilità di un nuovo incontro tra Fiammetta Borsellino e Filippo Graviano, perché potrebbero essere possibili depistaggi. Ritornando alle affermazioni di Scarpinato, quindi no, i Graviano si stavano piano piano confidando con la figlia di Borsellino e i magistrati antimafia stessi hanno deciso che si tratta di depistaggio. Eppure, non si spiega come mai sono state usate per il processo sulla presunta trattativa Stato- mafia le intercettazioni ambientali fatte a Graviano, quando sapeva benissimo – anche in quel caso – di essere ascoltato. Fiammetta Borsellino, che ha appreso in via ufficiosa del no delle procure antimafia, ha lasciato questa dichiarazione: «Hanno ignorato la mia richiesta di un altro incontro e questa è la cosa peggiore che si possa fare». Sempre Scarpinato, durante il suo intervento, ripercorre anche altre tappe dolorose della storia d’Italia citando la strage di Portella della Ginestra del 1947 e di quella di Bologna, parlando, appunto, dei vari depistaggi messi in atto. Da lì, cita dei possibili documenti spariti e della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino e di possibili infiltrati nella Polizia. Da notare che, questa volta, non cita i Ros che pure li ha inquisiti, ma soltanto la polizia. Ma non cita nemmeno le preoccupazioni di Borsellino nei confronti di alcuni suoi colleghi e il suo interessamento su mafia- appalti, tanto da discuterne riservatamente con i Ros in una caserma, anziché in procura. Poi Scarpinato parla di Falcone e il fatto che sia stato ostacolato tanto da andarsene via da Palermo – a causa del suo interessamento dell’omicidio dell’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato, Sergio. Vero, era interessato, anche perché Falcone era Procuratore aggiunto. Però Scarpinato si è dimenticato di dire che quelli erano gli stessi anni in cui Falcone seguiva attentamente l’inchiesta dei Ros su mafia- appalti che avrebbe colpito il cuore di Cosa nostra: ovvero i soldi derivati dalla gestione degli appalti, anche di rilievo nazionale, con l’ausilio anche di politici importanti. Inchiesta giudiziaria che come sappiamo fu poi archiviata definitivamente il 14 agosto del 1992, meno di un mese dalla morte di Borsellino. Quando quest’ultimo era ancora in vita, a chiederne l’archiviazione è stato lo stesso Scarpinato assieme al collega Lo Forte.

Lei però dica perché ha archiviato mafia- appalti (Se non è vero, smentisca). Scarpinato ha firmato la richiesta? Scrive Piero Sansonetti il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti. Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario. Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino? In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no? Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmare.

 “Oltre la trattativa” di Vincenzo Zurlo: le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie, scrive Massimo Martini su "Magazine sicurezza" il 23/08/2017. “Quello che leggerete nelle prossime pagine è molto più di un libro: è un’opera di verità. Un’opera coraggiosa perché si incarica di risalire controcorrente un fiume dove sono passati e continuano a scorrere, perché con la forza dei fatti supera le rapide insidiose dell’omologazione, perché con il rigore della ricostruzione storica non teme di infrangersi nelle rocce a pelo d’acqua della delegittimazione”. Così si apre la prefazione di Giorgio Mulè, direttore di Panorama, al libro di Vincenzo Zurlo “Oltre la trattativa -Le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie”. Come un attento timoniere, in rotta verso la verità in un mare di atti giudiziari, Zurlo, come sottolinea Mulè riesce a non essere “risucchiato dai mulinelli più pericolosi intorno ai fatti di mafia e dell’antimafia: la distorsione della realtà”. Sì, perché da quel lontano 1992, che strappò alla vita e alla lotta contro il Male nazionale, la mafia, prima Falcone e poi Borsellino, le acque hanno fatto in tempo a intorbidirsi, la verità a esser contesa tra i venti di una narrazione più necessaria che aderente alla realtà dei fatti. “E’ alla fine degli anni ’80 che bisogna iniziare il viaggio” scrive ancora Mulè “per comprendere quello che accadrà nell’estate del 1992. E’ necessario iniziare da giovedì 21 settembre 1989 quando Giovanni Falcone interroga l’ex sindaco di Baucina, un piccolo paese in provincia di Palermo. Si chiama Giuseppe Giaccone, uno stimato professore universitario di algologia con un passato da sacerdote: è un democristiano e quando si presenta a Falcone è un uomo terrorizzato.” Cosa teme l’ex sindaco Giaccone? Perché si reca risoluto dai carabinieri di Palermo della Caserma Carini, lì dove gestisce le operazioni un “signor” colonnello Mario Mori? Le sue rivelazioni, “l’alpha della tangentopoli italiana”: i meccanismi opachi che costeggiano l’aggiudicazione degli appalti pubblici, daranno vita a uno straordinario lavoro, condotto da Giovanni Falcone con il contributo di Mori e De Donno. Da quel fascicolo ripartirà, dopo la strage di Capaci, Borsellino, trovando a sua volta la morte. Mulè, cronista di “nera” del giornale di Sicilia ai tempi delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ricorda come l’informativa mafia-appalti, redatta da Mori e De Donno, venne colpevolmente tralasciata sin dall’inizio, par far strada alla presunta trattativa stato-mafia, al centro del “processo del secolo”, in corso a Palermo. Il direttore di Panorama non esita a definirlo, con Zurlo: una farsa, concludendo con logica disarmante e fiducia nel futuro: “L’autore non ha la necessità di assumere l’onere della difesa, paradossalmente è l’accusa la sua migliore arma: perché non solo è contraddittoria e illogica, ma surreale. La storia dirà che il processo show e il processo “farsa” si riveleranno per quel che sono: un’impostura. E insieme il più grande affronto agli eroi dell’antimafia, a coloro che sono stati uccisi e a quelli sopravvissuti ai quali però è toccato vivere il tempo lurido dell’infamia”.

"Quell'indagine su mafia e appalti". La strage Borsellino e il movente. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci è stato audito dalla commissione Antimafia, scrive il 3 luglio 2017 "Live Sicilia". "Il discorso mafia-appalti inizia nel 1989 e vede quel famoso rapporto che l'allora colonnello Mori e il capitano De Donno depositano, se non sbaglio nel febbraio del 1991, e che consegnano a Giovanni Falcone. Ma Giovanni Falcone il giorno dopo o qualche giorno dopo migra per Roma. Quel rapporto contiene, nei suoi allegati, elementi molto circostanziati che riguardano non solo la tangentopoli siciliana, che però rispetto alla tangentopoli milanese ha il problema che l'altra gamba del tavolino è rappresentata da Cosa nostra, ma contiene anche degli elementi che riguardano proprio il dottore Giammanco". A parlare della pista del rapporto mafia-appalti come possibile movente della strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino è il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, audito dalla commissione Antimafia. Il resoconto è stato depositato nei giorni scorsi. "Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala. - prosegue Paci - Altro dato che emerge inquietante è che, spesso ci siamo soffermati a pensare a quest'aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest'attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D'Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all'eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala". "Che cosa ha fatto Paolo Borsellino nel 1991 di particolare? - si chiede il magistrato - Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti? Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto tra mafia e appalti, di tutto quello che è collegato a mafia e appalti. Non viene a conoscenza del fatto solamente che c'è un'appendice del rapporto tra mafia e appalti a Pantelleria. Evidentemente, viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano la De Eccher, il rapporto con imprenditori del nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l'amministratore della società, comunque legato mani e piedi al potere politico romano". (ANSA).

"Borsellino avrebbe voluto arrestare Giammanco", scrive Martedì 22 Febbraio 2011 "Live Sicilia". I rapporti tra Borsellino e l'allora procuratore Piero Giammanco erano talmente tesi che una volta il giudice poi ucciso in via D'Amelio, arrabbiato, disse in modo provocatorio che se avesse potuto lo avrebbe arrestato. A dirlo è il tenente Carmelo Canale, per anni braccio destro del magistrato assassinato che lo volle con se a Palermo, sentito oggi come testimone della difesa al processo per favoreggiamento aggravato al generale dei carabinieri Mario Mori. "Un giorno vidi Borsellino scrivere convulsamente sulla sua agenda rossa. Non so cosa stesse appuntando, ma mi disse, arrabbiatissimo, che ce n'era per tutti e che era finito il tempo di scherzare, ma bisognava scrivere". Canale ha ricordato l'episodio, avvenuto una settimana prima della strage di via D'Amelio. Il teste, che fino a pochi momenti prima che il giudice scrivesse sulla sua agenda, poi sparita dopo l'attentato, aveva scherzato con Borsellino, ha proseguito: "Non mi disse cosa era accaduto nel frattempo e perché fosse così adirato. So solo che il suo cruccio in quel momento era l'omicidio di Giovanni Falcone e che su quella vicenda c'erano fatti che solo lui conosceva e sui quali non fu mai sentito a Caltanissetta". Canale ha ricordato anche un altro episodio in cui vide il giudice molto arrabbiato. "Fu quando - ha spiegato - seppe che l'allora procuratore Giammanco voleva andare al funerale di Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del '92. Un omicidio che lui riteneva non di mafia, ma che per Falcone era invece un fatto di enorme peso in Cosa nostra''. "Mi disse - ha aggiunto - anche forzando un po' i toni che avrebbe voluto arrestare Giammanco". Canale ha poi dato un giudizio molto negativo sul colonnello dei carabinieri Michele Riccio, grande accusatore di Mori. "Lo incontrai - ha spiegato - perché sosteneva di avere una cassetta registrata con le dichiarazioni di un suo maresciallo sulla morte di mio cognato (il maresciallo Lombardo suicidatosi in caserma in circostanze mai chiarite ndr). Ma quella cassetta non me la diede mai, mi parlò solo di affari suoi e l'unica cosa certa era che ce l'aveva a morte con Mori". Il processo è stato rinviato all'8 marzo per sentire un altro teste della difesa, l'ex capitano del Ros e braccio destro di Mori, Giuseppe De Donno. Nel corso della mattina, Canale aveva parlato invece dei rapporti tra i Ros e il giudice assassinato in via D'Amelio: “Tra il Ros del generale Subranni e del colonnello Mori e il procuratore Borsellino - ha detto Canale - c’erano ottimi rapporti. Mai Borsellino mi riferì giudizi critici su Mori”. Canale, dopo una lunga vicissitudine processuale, è stato assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, che gli ha comportato 5 anni di sospensione dall’Arma, e reintegrato in servizio col grado di tenente colonnello. Per lungo tempo braccio destro del giudice Paolo Borsellino il teste ha ripercorso in aula, davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo, la sua carriera. A riprova della bontà delle relazioni tra l’imputato e Borsellino e più in generale tra il Ros e il magistrato, Canale riferisce di due cene a cui il giudice ed altri magistrati parteciparono insieme ad ufficiali del raggruppamento. “Organizzammo una cena a Terrasini tra ufficiali del Ros, tra i quali c’era anche l’allora Maggiore Obinu (coimputato insieme a Mori ndr) – ha aggiunto – e alcuni magistrati come Borsellino, Lo Voi e Natoli. Al termine della cena Borsellino tenne un discorso che finì con questa frase: “questa è la cena delle persone oneste”. Poi Canale ha raccontato di un altro incontro conviviale tra Mori e Subranni, rispettivamente vice e comandante del Ros, e Borsellino. “Avvenne – ha spiegato – nella sede del comando generale a Roma una settimana prima che Borsellino venisse ucciso. Poi andammo a Salerno in elicottero con Subranni”. (fonte: Ansa) 

Se ti querelano due magistrati antimafia, scrive Piero Sansonetti il 23 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Sono stato denunciato all’autorità giudiziaria, insieme al nostro Damiano Aliprandi, da due magistrati siciliani che ci accusano di diffamazione. Non so perché si sentano diffamati, conosco però gli articoli che Damiano ed io abbiamo scritto e per i quali ci vorrebbero mandare in carcere. Sono articoli che riguardano il famoso dossier chiamato “mafia e appalti” e al quale lavorò per diversi anni Giovanni Falcone insieme ad alcuni ufficiali dei carabinieri. Noi ci siamo limitati a raccontare cosa c’era scritto in questo dossier e a riportare notizie (tutte prese da atti giudiziari ufficiali, o da interviste con testimoni, nessuna ricevuta da fonti riservate) e poi a mettere in fila queste notizie, per cercare di capire se c’è ancora qualcosa da capire sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. I magistrati che si sono sentiti diffamati, e che ci hanno querelato (ora si aspetta che il Pm di Avezzano decida se chiedere o no il rinvio a giudizio) sono Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di Palermo, e Guido Lo Forte, ex Pm ora in pensione. Noi effettivamente avevamo chiesto, nelle pagine del “Dubbio”, a Scarpinato e a Lo Forte, perché nel luglio del 1992, proprio nei giorni di fuoco della morte di Paolo Borsellino, chiesero l’archiviazione di quel dossier, e la ottennero molto rapidamente. In un mio articolo ho usato il termine “insabbiato”, riferendomi a questa archiviazione, ma non penso che questo termine, giornalistico, abbia dato la sensazione che volessi accusare Scarpinato o Lo Forte di errore volontario, anche perché ho scritto più volte, e molto sinceramente e chiaramente, di essere convinto e certo della loro buonafede. Non conosco personalmente Scarpinato e Lo Forte, ma ricordo di averli seguiti, un quarto di secolo fa, proprio negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alle stragi mafiose, quando facevo il giornalista all’Unità e il mio giornale fu molto impegnato nelle vicende siciliane. Penso di loro – soprattutto di Scarpinato, che conosco meglio, anche per la sua attività pubblicistica – che spesso tendano a confondere le proprie idee politiche e il proprio impegno civile, lodevolissimo, con le prerogative del magistrato, che non ha il compito di moralizzare la società ma solamente quello di accertare e perseguire i reati. In questa vicenda però c’entrano poco le caratteristiche intellettuali e professionali dei due magistrati, e tantomeno il giudizio che io do su di loro. C’entra invece un problema gigantesco. Che ruota attorno a questa domanda: perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino (e in particolare Borsellino)? Ci sono due sentenze recenti, che danno risposte opposte. Le ha raccontate molto bene Damiano Aliprandi. La sentenza del processo cosiddetto stato- mafia, la quale immagina che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto che alcuni apparati dello Stato trattavano con la mafia per indurla a sospendere la sua attività militare. Poi c’è la sentenza del processo Borsellino- quater (quello sul depistaggio compiuto da picciotti della mafia e uomini dello Stato che indagavano sull’uccisione di Borsellino), la quale invece avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare ancora sul dossier mafia e appalti. Ciò che rende ancora più clamorosamente in urto tra loro le due sentenze è il fatto che il dossier mafia e appalti fu curato da due alti ufficiali dei Ros che si chiamano Mario Mori e Giuseppe De Donno, e che erano collaboratori stretti di Falcone. I quali, dunque, se si dà retta alla sentenza del Borsellino- quater, sono vittime. Se si dà retta invece alla sentenza di stato- mafia sono colpevoli, perché partecipi della trattativa. Trattativa con chi? Con Totò Riina, che curiosamente è il capomafia che poi fu arrestato proprio da Mori e De Donno, i quali, di conseguenza, avrebbero messo nel sacco la primula rossa con la quale trattavano. Circostanza abbastanza curiosa. Non è una questione di lana caprina, quella della quale ci occupiamo. Se è vero che Falcone teneva particolarmente a questo dossier, se è vero che Borsellino avrebbe voluto prenderlo in mano e svilupparlo, se è vero che questo dossier scoperchiava la realtà di un rapporto “intimo” tra la mafia e un pezzo assai consistente dell’imprenditoria italiana, beh, capite bene che c’è la possibilità di avere una idea su cosa successe tra gli anni ottanta e novanta in Sicilia (e ovviamente non solo in Sicilia) molto diversa da quella corrente. Per questo abbiamo chiesto ai due magistrati che ora ci querelano di spiegarci come mai quel dossier fu archiviato. Non era una domanda polemica: era una domanda domanda. Ho sempre pensato che il nostro lavoro, di noi giornalisti, consista essenzialmente in questa attività: vedere le cose, metterle in ordine, cercare di capire come sono connesse le une alle altre, e raccontarle ben bene ai lettori. Senza fermarsi davanti all’autorità. Né all’autorità politica né all’autorità giudiziaria. Probabilmente non tutti la pensano così. Forse ci sono alcuni magistrati che invece sono convinti che chi critica la loro opera si mette di fatto contro la legge. Ostacola la giustizia. E se è così, capite bene, anche per noi non è facile lavorare. Anche perché i magistrati sono potenti, molto più potenti dei politici… 

Hai ragione, Scarpinato, ma…, scrive Piero Sansonetti il 30 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lettera al pg: Ho letto il discorso pronunciato dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all’apertura dell’anno giudiziario. Scarpinato è un magistrato con una lunga storia, anche gloriosa, ha mosso i primi passi in magistratura come allievo di Falcone, nel pool antimafia. È una persona preparata, colta, non un improvvisatore. Il suo discorso era molto interessante e da me condiviso quasi al 100 per cento, salvo un particolare piccolo piccolo che ora dirò. Scarpinato ha denunciato con asprezza la crisi sociale ed economica che attanaglia la Sicilia e che la sta rovinando. La povertà è sempre più grande e profonda. Caro Scarpinato, hai ragione. La povertà è sempre più grande e profonda. I ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. La Sicilia – dice Scarpinato – è la regione con le differenze sociali più forti di tutt’Italia e di tutt’Europa. Naturalmente è difficile in queste condizioni combattere la mafia. Perché la mafia prospera dove c’è più povertà, meno diritti, maggiori differenze di classe. Io, personalmente, non ho mai nascosto le mie simpatie per le idee della sinistra. Di conseguenza trovo giusta l’analisi di Scarpinato ( è una analisi di sinistra che spesso la sinistra politica non riesce a fare). Anche se poi non mi convince la seconda parte del suo discorso, quella nella quale snocciola tutte le cifre che dimostrano l’aumento della corruzione: provata dall’aumento dei procedimenti penali avviati. Già, ma non dalle condanne. Perché se invece consideriamo le condanne, allora la corruzione, in tutt’Italia, da qualche anno è in netta discesa, tanto che oggi l’Italia è giunta a un livello di corruzione inferiore alla media europea. Il punto è questo: a Scarpinato non interessano le condanne ma le denunce. Almeno, così mi pare di aver capito. Lui ritiene che il fenomeno sociale è testimoniato dalle denunce, e che la diminuzione delle condanne sia solo la spia di un cattivo funzionamento della giustizia e della burocrazia. Ecco, è qui il mio dissenso con la sua relazione. Trovo che seppure molto robusta dal punto di vista sociologico e politico, sia stata una relazione molto povera dal punto di vista del diritto e della giurisprudenza. E penso che invece un Procuratore generale dovrebbe occuparsi della giurisdizione, e non dell’amministrazione politica di una regione. La magistratura, io credo, non è chiamata a governare un paese e a renderlo socialmente e strutturalmente più giusto. E’ chiamata a giudicare i reati, a vedere se ci sono, e dove sono, e a condannare se ci sono e son provati, e sennò ad assolvere. Io capisco perfettamente la sofferenza di un magistrato, chiamato a indagare o a giudicare, e che nel corso del suo lavoro vede in modo nitido la grandiosità delle ingiustizie sociali, e sente di dovere di combatterle, di denunciare, di opporvisi, o di correggerle. Il problema è che non è stato chiamato in magistratura per questo, ma per altro. Se ritiene che il suo compito sia quello di lottare, fare battaglia politica e governare, benissimo: però deve lasciare il suo lavoro di magistrato. Voglio fare un esempio estremo, e forse non perfettamente pertinente, ma che rende l’idea: un chirurgo chiamato a operare al cuore un capo di governo che lui ritiene un pessimo capo di governo, che sta rovinando il paese, deve operare nel modo migliore possibile per salvargli la vita. Poi, la sera, quando non ha più il camice addosso, può organizzare una oceanica manifestazione contro di lui. Ma senza il bisturi. Purtroppo c’è una parte non grandissima ma vistosissima della magistratura che di questo mio ragionamento non vuol sentir parlare. È convinta di avere un compito molto più alto del compito, banale, di indagare, cercare le prove, giudicare con la massima oggettività. Il compito di salvare l’Italia dai malvagi e consegnarla ai giusti. E non è solo un pezzo di magistratura a vedere così le cose. C’è una fetta molto larga di intellettualità e di giornalismo. Domenica è uscito su Repubblica un editoriale di Liana Milella. La quale sosteneva che la legislatura si è conclusa con una netta vittoria della politica sulla magistratura. E si doleva di questa vittoria. Diceva che ormai la magistratura è fuorigioco, e che non ha più nessuna possibilità di condizionare le leggi, e che il parlamento va per conto suo e non rispetta più le esigenze della giustizia. Io penso che purtroppo non sia affatto vero. La legge che allunga la prescrizione è stata imposta dai magistrati ai politici. Le regole sulle intercettazioni restano tali da permettere all’Italia di essere il paese più intercettato del mondo (storicamente secondo solo alla Germania di Honecker) 100 volte più intercettato della Gran Bretagna (pur avendo un indice di criminalità molto inferiore a quello inglese). La legge (incostituzionale) che estende alla corruzione la legislazione antimafia (e i sequestri preventivi dei beni) l’ha voluta l’Anm, e l’ha avuta, così come ha voluto una legge saponetta sulla responsabilità civile dei magistrati e ha impedito che fosse presa in considerazione la separazione delle carriere. Ma quel che mi colpisce non è l’affermazione (discutibilissima) della Milella secondo la quale i magistrati sarebbero stati privati della possibilità di imporre le proprie leggi. Mi colpisce la chiarezza con la quale la Milella ci presenta il suo parere, secondo il quale, i magistrati, in tema di giustizia, dovrebbero disporre del potere legislativo. È questo il grande equivoco che sta provocando un corto circuito nella nostra democrazia fondata sulla divisione dei poteri. E’ l’equivoco secondo il quale i poteri, sì, sono tre, ma uno – quello giudiziario – è sovraordinato agli altri due, e li condiziona, e li dirige, e li punisce. E a questo equivoco la politica non si oppone, o si oppone troppo blandamente. Ed è il motivo per il quale la relazione di Scarpinato per certi versi mi affascina, per altri mi terrorizza.

Il “metodo Falcone”, scrive il 15 maggio 2018 su "La Repubblica" Attilio Bolzoni. Hanno lavorato con lui, fianco a fianco fin da quando ha iniziato ad ideare quel capolavoro d'ingegneria giudiziaria che è stato il maxi processo a Cosa Nostra. Con loro ce n'erano altri che non ci sono più - come Rocco Chinnici e i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà, o come Antonino Caponnetto e Antonio Manganelli - ma quelli che ritroverete qui lo possono raccontare ancora oggi. L'hanno incontrato tutti nel piccolo bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo, hanno visto nascere sulla sua scrivania le prime e più rilevanti indagini antimafia, hanno accompagnato per almeno un decennio la straordinaria avventura di un magistrato italiano. Dopo le celebrazioni fastose del venticinquesimo anniversario del 2017 per commemorare le vittime di Capaci e di via D'Amelio, un anno dopo vogliamo ricordare Giovanni Falcone attraverso voci che portano memoria diretta del giudice, del suo talento investigativo, della sua passione civile, della forza delle sue idee e - per riprendere le parole di Giuseppe D'Avanzo - dell'«eccentricità rivoluzionaria del suo riformismo». In questa pagina annunciamo il contenuto della serie del blog Mafie che ogni mattina è su Repubblica.it e che, da oggi e per quasi due settimane, è riservato a quello che tutti indicano come il "metodo Falcone”. Fuori dalla retorica e fuori da quell'enfasi che ha snervato e a volte anche sfregiato la figura di quello che è stato un "italiano fuori posto in Italia" (come lo sono stati Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri caduti in Sicilia), queste sono testimonianze che ci ripropongono il Giovanni Falcone magistrato e la sua sapienza giuridica. Cosa era quello che poi è stato definito il suo "metodo”? Cosa ha inventato dalla fine degli anni '70 di tanto fondamentale in quella piccola stanzetta del tribunale siciliano? Come è cambiata - grazie a lui - la storia della lotta alla mafia nel nostro Paese nonostante le umiliazioni che ha dovuto subire da vivo e poi anche da morto? Ce lo spiegano una dozzina di personaggi, tutti rappresentanti delle istituzioni che nelle fasi più significative della sua esistenza gli sono stati molto vicini. Giudici, poliziotti, carabinieri, finanzieri, impiegati civili del ministero della Giustizia. Alcuni ci hanno offerto un contributo inedito, altri hanno preferito ripescare nei loro archivi un testo già dedicato al ricordo di Falcone e della sua attività. Ciascuno di loro ha raccontato un "pezzo” di una vicenda siciliana iniziata nei primi mesi del 1980 e in parte chiusa con le stragi del '92. Tante analisi per spiegare la “rivoluzione” avvenuta a Palermo. Nel piccolo bunker hanno avuto anche origine i reparti speciali investigativi italiani come lo Sco della Polizia di Gianni De Gennaro e il Gico della Finanza. E anche il Ros dei carabinieri. Proprio dalla visione ampia degli scenari mafiosi che aveva quel giudice e dalla necessità di oltrepassare con le indagini i confini provinciali, Falcone ha avuto l'idea di creare gruppi super-specializzati che potessero operare con grande libertà di manovra su tutto il territorio nazionale. Suo interlocutore principale nell'Arma, al tempo era il capitano Mario Parente, che poi del Raggruppamento operativo speciale ne è diventato il comandante. Una stanza di Tribunale che è stato un “laboratorio” della lotta alla mafia in Italia e che ha formato funzionari dello Stato che hanno dato grande prova di sé nei decenni successivi. Tra gli autori di queste testimonianze i magistrati del famoso pool (Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli), l'ex presidente del Senato Pietro Grasso che il maxi processo l'ha "visto” come giudice a latere della Corte di Assise, Giuseppe Ayala che ha sostenuto l'accusa. E il capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro, oggi comandante delle Fiamme Gialle in Sicilia, l'ufficiale dei carabinieri Angiolo Pellegrini che insieme a Ninni Cassarà e Beppe Montana firmò il rapporto "Michele Greco+161” che diede origine al maxi processo, il giovane funzionario della Criminalpol Alessandro Pansa che negli anni a seguire sarà nominato prefetto e diventerà il capo della polizia italiana. C'è anche la preziosa testimonianza di Guglielmo Incalza, il dirigente dell'"Investigativa” della squadra mobile di Palermo, il primo poliziotto che ha collaborato con Falcone nell'indagine sugli Spatola e gli Inzerillo. Un articolo è firmato da Vincenzina Massa, giudice palermitana che ha iniziato la sua carriera come uditore proprio nella stanza di Falcone. Un altro ricordo è di Giovanni Paparcuri, il fidato collaboratore informatico del giudice che ha voluto un museo in onore di Falcone e Borsellino nei locali dove i due lavoravano. E' stato Paparcuri, qualche mese fa, a suggerirci di dedicare una puntata del blog al "metodo Falcone”. Una buona idea.

Quella “squadra speciale” nel bunker delle indagini, scrive il 16 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio Gibilaro - Generale della Guardia di Finanza. Nella tarda serata del 9 novembre 1983, il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo fece il suo ingresso in quella che sarebbe stata la sua casa per i successivi quattro anni, la “Caserma Cangialosi” della Guardia di Finanza. La scelta di alloggiare Antonino Caponnetto in un'austera foresteria militare era stata imposta dalla terribile eco dell’autobomba che pochi mesi prima aveva ucciso Rocco Chinnici, suo predecessore al vertice dell’Ufficio giudiziario palermitano. Ebbene, il destino (o forse la Provvidenza) volle che proprio tra le sicure mura dell’ex convento accadesse un episodio determinante per il futuro sviluppo di quello che diverrà “il metodo Falcone”. Infatti, nel dicembre di quell’anno, passeggiando nel chiostro dell’antico complesso domenicano, Caponnetto ed il colonnello Gaetano Nanula concordarono di dare concreta attuazione ad un’idea di Giovanni Falcone: distaccare presso i locali dell’appena costituito “pool antimafia” un piccolo nucleo di investigatori del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria che fossero in grado di procedere all’esame dell’enorme quantità di documenti bancari sequestrati nell’ambito di tutte le principali inchieste su Cosa Nostra. La richiesta di Falcone traeva origine dall’esperienza che il giudice aveva maturato allorchè, sul finire degli anni ’70, Rocco Chinnici gli aveva affidato l’istruttoria contro Rosario Spatola. Lo stesso magistrato ha più volte ricordato che proprio durante tale inchiesta, mentre ricostruiva il traffico di eroina gestito dalle famiglie mafiose tra la Sicilia e gli Usa, si era convinto che nelle banche dovevano pur essere rimaste delle tracce contabili delle ingenti somme scambiate e così, per “seguire il denaro”, diede inizio alle prime indagini bancarie nei confronti dei clan. Ma ben presto Falcone giunse all’ulteriore consapevolezza che gli esiti dell’incrocio dei flussi bancari con le risultanze delle tradizionali indagini di polizia e con le dichiarazioni dei “pentiti”, dovevano essere ulteriormente integrati con delle approfondite investigazioni sui reticoli patrimoniali e societari riconducibili ai criminali ed ai loro insospettabili prestanomi. Da qui la consapevolezza che, per essere efficaci, le attività di acquisizione, analisi e rielaborazione di tali enormi masse di dati dovevano essere condotte in modo sistematico ed organico, avvalendosi di personale altamente qualificato. Fu proprio in tale prospettiva che, nei primi giorni del gennaio 1984, i marescialli Angelo Crispino e Paolo Scimemi si insediarono a pochi metri dall’ufficio di Falcone, nello stanzone in cui era stata accatastata un’impressionante montagna di documenti contabili, verbali di interrogatori e rapporti di polizia. Nel giro di poche settimane i due sottufficiali furono raggiunti da altri finanzieri, finendo con il costituire una vera e propria “squadra speciale” che, da quel momento in poi, lavorò fianco a fianco dei giudici istruttori dello storico pool sino al suo definitivo scioglimento. Questi militari vennero inizialmente selezionati tra gli esperti della “Sezione Economia e Valuta” del Nucleo di Palermo ed operarono sotto la direzione di un vero segugio dell’antiriciclaggio, il capitano Carmine Petrosino. Successivamente la responsabilità della squadra fu attribuita a me, giovane capitano che avevo già collaborato con diversi autorevoli magistrati di Torino, Milano e Palermo in una serie di indagini concernenti un imponente traffico di eroina proveniente dalla Turchia e destinata all’Europa ed agli USA. Ebbene, proprio in concomitanza del cambio di comandante, la squadra del pool divenne parte integrante di quella “Sezione Indagini Economico-Fiscali Criminalità Organizzata” che è stata la prima unità specializzata creata dalla Guardia di Finanza per il contrasto alla criminalità mafiosa, nonché la storica progenitrice degli attuali G.I.C.O. e S.C.I.C.O.. In breve tempo il team investigativo assunse il ruolo di propulsore delle attività di polizia svolte sul campo dagli altri componenti della Sezione, trasformandosi anche in una sorta di cinghia di trasmissione tra i giudici istruttori palermitani e tutti i reparti del Corpo progressivamente lanciati sulle tracce del black money, in Italia ed all’estero. Fu così realizzato un immane lavoro di ricostruzione della multiforme ragnatela di rapporti patrimoniali e societari che avviluppava coloro che venivano progressivamente individuati come “soldati” o “capi militari” dell’organizzazione mafiosa; i magistrati furono pertanto in grado di “cementare” con immodificabili prove documentali le ben più volubili dichiarazioni testimoniali, giungendo anche all’individuazione di nuove filiere di soggetti (talora del tutto insospettabili) legati agli “uomini d’onore” da non più negabili interessi affaristici. Un mero dato numerico può forse esemplificare la straordinaria rilevanza delle indagini economico-finanziarie svolte: ben 4 dei 40 volumi dell’ordinanza di rinvio a giudizio del “I° Maxi processo” sono costituiti dagli esiti delle indagini bancarie e 19 degli ulteriori 22 volumi di allegati sono composti dalla relativa documentazione. Concludendo questo personale ricordo della “squadra silenziosa” di giovani Fiamme Gialle che ho avuto il privilegio di comandare, mi permetto di riportare alcune frasi tratte da una lettera scritta da Giovanni Falcone il 6 novembre 1989: “Nel lasciare il mio incarico di Giudice Istruttore sento di esprimere il mio più vivo apprezzamento per la preziosa collaborazione svolta in questi anni dai militari del Nucleo Regionale P.T. di Palermo distaccati presso questo Ufficio. Senza l’apporto della Guardia di Finanza non sarebbe stato possibile effettuare complesse e numerose indagini bancarie e patrimoniali che hanno contribuito a far ottenere notevoli risultati giudiziari. Tali indagini, svolte nell’ambito di importanti procedimenti contro la criminalità organizzata, hanno posto in evidenza l’elevata professionalità dei militari operanti e, tenuto conto della notevole pericolosità sociale dei soggetti nei confronti dei quali sono state effettuate, il loro alto senso del dovere e spirito di sacrificio”.

Un uomo e un cambiamento epocale, scrive il 17 maggio 2018 su "La Repubblica" Alessandro Pansa - Prefetto della Repubblica. L’arricchimento del mio bagaglio professionale grazie all’esperienza che mi ha visto collaborare con Giovanni Falcone in molte inchieste di particolare rilievo, specie sul piano internazionale, è stato enorme. L’esperienza umana forse lo è stata anche di più, ma questa resta nella sfera personale che conservo come mio ricordo. Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolgevano direttamente anche quello della criminalità economica. In tale contesto venivano alla luce costantemente intrecci, sovrapposizioni o identificazioni di interessi occulti, che facevano capo a centrali d’intermediazione tra realtà politica o economica con quella criminale. Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza indotta, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica. In quegli scenari tre erano gli attori principali che comparivano: personaggi della politica locale e non, esponenti del mondo economico e di quello criminale. Alcune volte i tre insiemi cooperavano tra loro, altre volte solo alcuni di essi agivano congiuntamente. La storia della criminalità di questo Paese, in aggiunta a quella di alcune vicende del mondo dell’imprenditoria nazionale, ha portato alla luce una realtà che consente di individuare il collegamento tra mondi diversi nella presenza di agenti che facilitano o rendono possibile l’incontro tra le parti. Come già dalle prime inchieste degli anni '80 sul mercato della droga, che vedeva Palermo al centro del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti, il ruolo di quegli agenti emergeva nella duplice veste sia di supplenza alla carenza di quella professionalità di cui Cosa Nostra aveva bisogno per muoversi nei mercati internazionali, sia di riduzione dell’asimmetria informativa che grava sulla criminalità organizzata. Complessi e profondi, e per certi versi sorprendenti, emersero gli intrecci che in quegli anni il crimine organizzato era riuscito a tessere nell’ambito del sistema economico e finanziario, rendendo la distinzione tra il legale e l’illegale sempre più difficile e sfumata. Tutto questo Giovanni Falcone lo aveva prima intuito, attraverso l’attenta lettura di fascicoli processuali, e poi lo aveva dedotto dagli eventi ricostruiti nel corso delle indagini. Lo aveva documentato in diverse occasioni con atti processuali ed alla fine il tutto era stato cristallizzato in giudicati, a cui si era giunti partendo proprie dalle sue istruttorie. Oggi si discute con facilità di indagini patrimoniali, del sequestro dei beni, delle misure antiriciclaggio. Bene: credo che tutto questo insieme di strumenti, fondamentali nella lotta alla mafia e basilari per gran parte dei successi più importanti conseguiti sino ad oggi in questo campo, sono frutto dell’esperienza operativa di Giovanni Falcone e di coloro che hanno da lui appreso e con lui sperimentato quelle vie dell’investigazione. Seguiva le piste dell’inchieste passo passo, anche all’estero, studiando prima di partire gli ordinamenti penali e civili di quei paesi per poter nel modo giusto chiedere informazioni, dati e documenti utili alle istruttorie italiane. Nel lavoro d’indagine di Giovanni Falcone, l’esigenza di confrontarsi di continuo con una realtà multiforme e sommersa, insieme all’esigenza di preservare l’attitudine a comprendere le dinamiche criminali ed a seguirle, anche per tempi lunghi, nel loro evolversi, ha portato a sviluppare competenze che sono divenute parte integrante delle metodologie investigative più moderne. L’insegnamento che è venuto dal lavoro svolto da Giovanni Falcone e l’esperienza maturata nell’averlo affiancato in diverse inchieste rappresentano quello che viene definito il “metodo Falcone”. Seguire le tracce, specie quelle dei soldi, collegarle tra loro attraverso documenti, testimonianze, accertamenti bancari o altre acquisizioni probatorie. Ma questo non bastava, bisognava interpretare ognuno dei passaggi individuati: attraverso le regole comportamentali che caratterizzavano l’ambiente in cui si collocavano, attraverso la mentalità ed il codice non scritto dei mafiosi quando essi operavano direttamente oppure attraverso la prassi che caratterizzava le operazioni e gli operatori che la mafia utilizzava consapevolmente e non. Anche quando l’accertamento o quanto accertato diventavano ripetitivi nel tempo non bisognava mai dimenticare che tutto ciò consentiva di affrontare, per analogia o per esclusione, quegli scenari criminali che stavano cambiando e che facevano riferimento a regole comportamentali nuove e mai prima individuate. I confini tradizionali delle indagini sulla criminalità, in tempi rapidi, si dissolsero, aprendosi ad orizzonti nuovi in varie parti del mondo ed a livelli impensati. Da un lato, la criminalità italiana estendeva i propri tradizionali confini di attività utilizzando strategie eterogenee, stringendo alleanze nuove e cimentandosi in ambiti operativi di norma non di loro interesse. Dall’altro le organizzazioni criminali di altri paesi ampliavano il loro raggio d’azione e soprattutto intrecciavano i loro interessi con quelli delle cosche dell’Italia meridionale. I fenomeni emergenti potevano spiazzare l’investigatore tradizionale, ma non Giovanni Falcone e chi seguiva le sue metodologie di lavoro. L’analisi economica del crimine, sulla scorta dell’esperienza di Giovanni Falcone, produceva, infatti, una serie di risultati che permetteva di comprendere la natura e la meccanica delle relazioni pericolose che possono instaurarsi tra crimine organizzato, da un lato, e dinamiche della produzione e degli scambi, reali e finanziari, dall’altro lato. Grazie a questo metodo, che non va confuso con la mera indagine di tipo finanziario, si poteva scoprire che il crimine organizzato non inquina solo il versante bancario e finanziario, ma anche il versante reale del sistema economico, e forse con danni ancora più gravi, misurabili non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi: impoverimento e imbarbarimento del sistema. Con grande agilità e pervasività, i membri delle organizzazioni criminali si muovevano nell’ambito dell’economica legale, reale e finanziaria, proponendosi non solo per la loro capacità di violare l’ordine costituito, ma come fonte autonoma di norme e regole alternative a quelle democratiche. Il mafioso non si accontentava di infrangere la legge, ma provava sempre a proporsi come soggetto regolatore, che produce fiducia in alternativa a quella legale che assicura il sistema attraverso gli strumenti democratici. Forse una riflessione tardiva, quando ormai non mi occupo più di attività investigativa, mi consente meglio che in passato di comprendere quando quel periodo di collaborazione sia stato fecondo. Si è trattato di un periodo di grandi cambiamenti nell’approccio alle inchieste contro le associazioni mafiose che, a seguito della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e grazie a loro è divenuto un vero e proprio cambiamento epocale. Sintesi tratta da Il profumo della libertà Edizione 2011 Ministero della Gioventù

Le geniali intuizioni di un giudice, scrive il 18 maggio 2018 su "La Repubblica" Giuseppe Ayala - Magistrato, negli anni '80 sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pm al maxi processo a Cosa Nostra. Per comprendere meglio il significato e l’importanza del cosiddetto “metodo Falcone” è opportuno riflettere brevemente sui significativi mutamenti intervenuti, a partire della seconda metà degli Anni Settanta, nell’universo del crimine mafioso. I principali sono tre: l’ingresso massiccio dell’organizzazione nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti; l’inedito attacco diretto alle Istituzioni, concretizzato dalle uccisioni di suoi esponenti vittime dell’adempimento del dovere in contrasto con gli interessi mafiosi e lo scoppio della cosiddetta “guerra di mafia” nel 1981. Cosa nostra, rompendo una lunga tradizione, usciva dalla clandestinità e accendeva i riflettori rendendosi drammaticamente visibile. A nessuno era più consentito riproporre il vecchio interrogativo: “Ma siamo sicuri che la Mafia esiste?”. A quel tempo, peraltro, neanche nel codice penale italiano era rinvenibile la parola “mafia” Per trovarla bisognerà attendere il 29 settembre 1982, data dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre con il suo inedito art. 416-bis (associazione di tipo mafioso). Incredibile, ma vero, si dice in questi casi. Giovanni Falcone prese servizio all’ Ufficio Istruzione di Palermo sul finire degli Anni Settanta. Nel 1980 il capo di quell’ Ufficio, Rocco Chinnici, gli affidò un processo che riguardava un traffico di stupefacenti gestito da esponenti dell’organizzazione mafiosa. Nell’istruirlo Falcone maturò il primo pezzo della sua visione innovativa. Inutile inseguire la droga che spesso non lascia tracce. Quello che, invece, le lascia di sicuro è il denaro collegato a quel traffico. Così nacque il famosissimo “follow the money,” destinato ad assicurare successi giudiziari sino ad allora impensabili. Ne offro una testimonianza. Lavorammo assieme alla cosiddetta “Pizza connection”, un enorme traffico di eroina tra la Sicilia e gli USA che coinvolgeva esponenti mafiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Sostenni l’accusa e ottenni pesantissime condanne senza che nemmeno un grammo di eroina fosse mai stato sequestrato. La documentazione bancaria certosinamente raccolta da Falcone si risolse in un impianto probatorio inespugnabile per la difesa. Come ho già accennato, l’aumento assai significativo dei delitti di matrice mafiosa comportò un pari incremento dei fascicoli processuali che li riguardavano. La loro “veicolazione” all’ interno dei vari uffici giudiziari continuava, però, a seguire l’ordinaria prassi, per cui, per esempio, era del tutto normale che un giudice istruttore lavorasse ad uno di questi senza sapere nulla di quanto stesse facendo il collega della porta accanto impegnato nella trattazione di un fascicolo riguardante un altro delitto di analoga matrice. Falcone si rese conto che, così stando le cose, non si andava da nessuna parte per la semplice ragione che ciascuno dei delitti mafiosi altro non rappresentava che la manifestazione criminale di una logica associativa. C’era, insomma, qualcosa che, pur nella loro diversità, li accomunava. Una sorta di “fil rouge” che li legava e che, di conseguenza, li rendeva diversi da tutti gli altri, ma tra loro omogenei. Ritenne, insomma, necessario compiere un salto di qualità verso quella che definì la necessità di procedere verso una “visione unitaria del fenomeno mafioso”. L’unico modo possibile per realizzarla fu quello di procedere alla riunione di tutti i fascicoli processuali che riguardavano i delitti di mafia. Un accentramento delle conoscenze orientato verso l’individuazione dell’immanente “fil rouge.” Col senno di poi può sembrare una svolta ovvia e scontata. Col senno di prima, però, nessuno ci aveva mai pensato. Fu una vera e propria rivoluzione destinata ad assicurare successi giudiziari sino ad allora inimmaginabili. La riunione di tutti i fascicoli processuali concernenti i delitti mafiosi comportò la nascita di una sorta di enorme monolite giudiziario che nessun giudice istruttore da solo avrebbe mai potuto portare avanti. Neanche se possedeva la straordinaria capacità di lavoro di Falcone. Solo una squadra capace e ben affiatata poteva farcela. Nacque così il mitico “pool antimafia.” Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, con la sapiente guida di Antonino Caponnetto, successore di Rocco Chinnici, ne furono i primi protagonisti. L’ ultimo “tocco” voluto da Falcone, per rendere ancora più efficace il suo “metodo,” fu quello di coinvolgere, sin dalla fase istruttoria, almeno un pubblico ministero per metterlo, così, nelle migliori condizioni di sostenere l’accusa davanti ai Giudici del dibattimento. Il fatto che la scelta sia caduta sul sottoscritto poco importa. La circolazione informativa di ogni risultato acquisito divenne la regola. Si scoprì, così, per esempio, che ciò che appariva non rilevante nell’ambito di un determinato fascicolo, lo era invece in relazione ad altra e diversa, ma pur sempre collegata, vicenda processuale. I risultati delle indagini di un’eccellente polizia giudiziaria e gli ulteriori approfondimenti istruttori possiamo paragonarli alle tessere di un mosaico. Il problema era che, sino ad allora, mancando la configurazione dei contorni di ciò che nel loro complesso quelle tessere avrebbero dovuto rappresentare, non si capiva dove e come collocarle. La “visione unitaria” voluta da Falcone, e il successivo inedito contributo dei collaboratori di giustizia, consenti di superare quel limite. Ogni tessera trovò la sua precisa collocazione. Il “quadro” che ne conseguì risultò, finalmente, chiaro e completo. Così nacque una grandiosa opera d’arte giudiziaria: il maxiprocesso. La prima vera vittoria dello Stato e la prima vera sconfitta di Cosa Nostra. Per quella definitiva restiamo, purtroppo, ancora in attesa.

Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo, scrive il 19 maggio 2018 su "La Repubblica" Guglielmo Incalza - Dirigente della sezione "Investigativa” della Squadra Mobile di Palermo nel 1980 e nel 1981. Il 7 gennaio 1980, il giorno successivo al brutale assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella – si erano già evidenziati nel corso dell'anno precedente segnali di una forte e violenta recrudescenza mafiosa con gli omicidi del giornalista Mario Francese, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina, del vice questore di polizia e capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, del Consigliere Istruttore del Tribunale Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza. Lenin Mancuso –, sono stato designato a capo della Sezione Investigativa ed Antimafia della Squadra Mobile palermitana. Ebbi così modo non solo di conoscere, ma di frequentare con assiduità il compianto Giovanni Falcone al quale, nel maggio dello stesso anno, era stato assegnato dal Conigliere Istruttore del Tribunale Rocco Chinnici, il procedimento penale sulla prima grande inchiesta degli anni '80, più nota come processo su “Mafia e Droga”, originata dal rapporto di denunzia della Squadra Mobile di Palermo contro Spatola Rosario + 54, tutti ritenuti essere responsabili di associazione per delinquere mafiosa e dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Su tale rapporto giudiziario molto è stato già scritto ed è ampiamente noto, in particolare sulla ferma e decisa determinazione del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, barbaramente poi ucciso dalla vile mano mafiosa nell'agosto dello stesso anno 1980, a pochissimi mesi dall'essersi assunto, in perfetta solitudine ed in evidente e plateale disaccordo dei suoi sostituti, la responsabilità di firmare “da solo" i relativi provvedimenti di cattura nei confronti di tutti i denunziati, noti esponenti di una delle più influenti “famiglie “ mafiose italo-americane, quella dei Gambino, Spatola ed Inzerillo, la maggior parte dei quali  legati tra loro da stretti vincoli di parentela ed implicata, tra le altre svariate attività delittuose, principalmente in un imponente traffico di eroina che, partendo dalla Sicilia, aveva gli Stati Uniti d'America come destinazione finale. All'incirca alla fine del maggio dell'80 dunque, fui convocato dal questore pro-tempore ed invitato, mi si disse, su specifica richiesta del dottor Chinnici, a mettermi a disposizione, con tutti i componenti della mia sezione investigativa, del dottor Falcone, che da poco tempo ricopriva l'incarico di giudice istruttore della VI Sezione penale e cui intanto era stato assegnato il fascicolo del processo “Spatola” dopo che la Procura della Repubblica ne aveva richiesto la formalizzazione. E' opportuno evidenziare che il rapporto giudiziario all'origine di tale inchiesta, costituiva la risultanza di due filoni investigativi, quello come sopra detto del traffico di droga, individuato attraverso alcune mirate intercettazioni telefoniche sui componenti della consorteria mafiosa dei succitati Spatola/Inzerillo/Gambino con le sue diramazioni americane (ma anche di  appartenenti ad altre “famiglie” palermitane come ad esempio Vittorio Mangano della “famiglia di Porta Nuova”, più noto poi come lo “stalliere” di Arcore ) e quello messo in luce dalle indagini svolte dal Centro Criminalpol di Palermo sul rapimento simulato del finanziere siculo-americano Michele Sindona, gestito e condotto sin dalla sua prima fase in territorio americano, fino alla sua permanenza in clandestinità a Palermo e la sua successiva riapparizione sul suolo americano, ad opera di componenti dello stesso clan mafioso che contava negli USA sugli strettissimi collegamenti con una delle più potenti ed agguerrite tra le 5 “famiglie” americane, quella capeggiata per l'appunto dal Capo dei Capi Charles Gambino. Imponente ed arduo apparve certamente il compito di portare avanti una istruttoria così vasta e frammentata tant'è che lo stesso Falcone, successivamente alla emissione della sua sentenza-ordinanza del 25 gennaio 1982 di rinvio a giudizio di Spatola Rosario +119 per associazione aggravata di tipo mafioso e per traffico internazionale di stupefacenti, ebbe a dichiarare ad alcuni giornalisti della carta stampata: “... La mafia, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve un mondo enorme , smisurato , inesplorato...”. Ed anche per questo, ritengo, che il Consigliere Chinnici, nell'assegnare a suo tempo a Falcone il relativo fascicolo processuale, avesse formulato al Questore una cortese ma ferma richiesta di fornire una collaborazione investigativa più corposa del solito, per la complessità dell'istruttoria stessa. Quest'ultima, dunque, portata avanti con la ferma, caparbia ed assai innovativa guida di Giovanni Falcone, non solo confermò le responsabilità dei soggetti denunziati, ma mise in luce numerose altre complicità, sia nel traffico della droga, ma anche nella partecipazione e nella conduzione del finto sequestro di Michele Sindona, oltre che a porre le basi di successive grandi operazioni di polizia sul territorio nazionale, come quella nota col nome di “ San Valentino”, condotta a  Milano sul riciclaggio dei narcodollari ad opera di noti imprenditori locali (immobiliaristi, ma anche finanzieri e liberi professionisti ) e personaggi mafiosi collegati al gruppo Spatola. La frequentazione di  tutti costoro ( tra i quali anche un noto latitante mafioso palermitano come poi verrà accertato) in un  ufficio milanese di via Larga 13, cui facevano capo numerose società ombra riconducibili ai predetti personaggi, era  stata evidenziata dal traffico telefonico delle intercettazioni condotte dal mio ufficio ( in specie alcune conversazioni del Mangano Vittorio con uno tra gli Spatola inquisiti ), e lasciato chiaramente sottintendere alla consumazione di losche attività. A seguito dell'emissione di un decreto di perquisizione di Falcone e dell'esito della relativa operazione di polizia giudiziaria effettuata da personale della mia sezione investigativa, vennero quindi acquisiti importanti indizi di un imponente riciclaggio dei proventi criminali del traffico di narcotici che, confermati da una breve ma intensa rogatoria dello stesso Falcone a Milano,  divennero la base per la prosecuzione delle indagini  meneghine poi  culminate per l'appunto col blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983. Relativamente al cosiddetto “metodo Falcone”, cui spesso si fa riferimento, per il modo di condurre le sue attività istruttorie sulle organizzazioni mafiose, ritengo che quel metodo si sostanzi semplicisticamente nel suo essere perseverante e dotato di una grande ed infaticabile capacità lavorativa oltre che di un eccezionale intuito. Tali sue doti lo portavano a considerare che solo assumendo la effettiva direzione delle indagini, cosa inconsueta al tempo della vigenza del vecchio codice di procedura penale, ed a confrontarsi direttamente con i responsabili degli uffici e comandi operativi delle tre principali forze di polizia (delegando di volta in volta le attività di indagine in un rapporto di effettiva e costruttiva sinergia), si potessero raggiungere risultati apprezzabili. Il giudice Falcone era, ancora, convinto, proprio tenuto conto degli scarsi risultati giudiziari sin allora raggiunti nell'individuazione degli autori dei singoli delitti di mafia, soprattutto a causa del senso diffuso di una persistente omertà, che bisognasse capovolgere il metodo d'indagine sin allora seguito, cercando prima di mettere in luce e far emergere il vincolo associativo con le sue varie sinapsi, per poi ricollegarvi i singoli e specifici delitti  che sarebbero altrimenti apparsi scollegati. La percezione, poi, dell'esistenza in Sicilia di laboratori per la raffinazione della morfina base in eroina (peraltro poi avvalorata dall'individuazione di uno di essi nell'agosto dello stesso anno in una villa di Villagrazia di Carini), lo portò ad una grande intuizione e, cioè, che all'enorme flusso della droga verso gli Stati Uniti dovesse necessariamente corrispondere un altrettanto enorme flusso di valuta americana a compensazione. In pratica ...la scoperta dell'uovo di Colombo, solo che nessuno ci aveva pensato prima. La sua precedente esperienza di giudice fallimentare gli venne certamente d'aiuto e pertanto dispose una serie di accertamenti bancari mediante ordinanze di esibizioni di distinte di versamento per cambio di valuta USA, libretti di risparmio, documentazione di conti correnti e di assegni con la individuazione del nominativo dei firmatari e beneficiari degli stessi. Alle iniziali reticenze nella esecuzione dei provvedimenti da parte di alcuni istituti bancari, come nel caso di una Cassa Rurale ed Artigiana dell'hinterland palermitano, fu necessario procedere direttamente, facendovi irruzione, Falcone stesso in testa, allo scopo di costringere alla collaborazione ed alla esibizione immediata della documentazione richiesta. Come dimenticare la sua incessante e meticolosa ricostruzione dei collegamenti che riusciva ad individuare attraverso la visione della gran mole delle distinte di cambio di dollari e degli assegni che, numerosi, inondavano la sua scrivania? Armato di santa pazienza, registrava a penna all'epoca i computer erano oggetti pressocchè sconosciuti) singole schede dei personaggi coinvolti, su cui annotava sia gli estremi dell'operazione effettuata che il nominativo dei soggetti comunque implicati nel rapporto bancario, per poter poi procedere alle verbalizzazioni delle dichiarazioni ed alle contestazioni di quanto riscontrato. Ricordo al riguardo un episodio altamente significativo della pericolosità di tale consorteria criminale. Una mattina, regolarmente convocato in Tribunale, si presentò nell'ufficio di Falcone il noto Michele Greco detto il “Papa” per rendere conto, me presente, della natura dei suoi rapporti con il capo mafia Stefano Bontate, il “principe” del quartiere palermitano d Villagrazia, rapporti rilevati dallo scambio tra di loro di alcuni assegni per rilevanti importi. Alle domande sempre più incalzanti del giudice, il Greco (indicato poi dal noto collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come il capo della “Cupola” mafiosa siciliana, anche se sottomesso ai diktat del sanguinario boss corleonese Totò Riina) ebbe improvvisamente ad inalberarsi e, con fare oltremodo stizzito ebbe a fare un vero e proprio sermone, quasi pontificando con fare ieratico e lanciando velate minacce. Alla fine dell'interrogatorio, licenziato il teste, con Falcone ci guardammo sgomenti negli occhi, concordando sul fatto che l'atteggiamento e le parole del Greco sottintendevano un vero e proprio classico avvertimento mafioso. Il giudice, tuttavia, alla mia osservazione sul perchè mai non avesse provveduto a richiedere nell'immediatezza l'intervento del Pubblico Ministero per la contestazione di reato, mi fece rilevare l'inutilità di tale iniziativa, giacchè non si sarebbe mai potuto riscontrare in giudizio alcun chiaro elemento di colpevolezza, essendo state le minacce mai palesemente esplicitate. Gli feci comunque presente che di quanto accaduto avrei immediatamente riferito al Questore con relazione scritta per le opportune valutazioni della vicenda e, provveduto in tal senso, fui incaricato di assicurare temporaneamente la sua sicurezza, in attesa della costituzione di un ufficio scorte, all'epoca inesistente, con gli stessi uomini della mia Sezione investigativa, che già si occupavano a tempo pieno dell'attività di supporto alla indagine istruttoria. E come non porre in risalto la sua capacità di dialogare con i suoi colleghi di altre sedi giudiziarie, interessate anch'esse da attività delittuose di tipo mafioso, nel tentativo di convincerli a riconoscere la unicità di tale fenomeno criminale e la centralità di Palermo come sede dei vertici mafiosi, al fine di concentrare nel capoluogo siciliano anche le indagini che avevano riferimento alle sue propaggini al di fuori della Sicilia? Non sempre fu ascoltato ed anzi, fu anche da taluni aspramente criticato. Molti di loro, però, credo che nel tempo si siano ravveduti. La sua passione ed il suo impegno personale, non disgiunto dalla sua ferrea determinazione a portare avanti la sua attività di qualificato contrasto al crimine organizzato, lo portò anche a richiedere ( ed ottenere ) non solo la collaborazione degli organismi centrali operativi delle tre principale forze di Polizia, ma anche quella preziosissima della Drug Enforcement Administration e del Federal Bureau of Investigation, rispettivamente l'agenzia federale antidroga e  la polizia federale investigativa, entrambe americane. L'aver mantenuto con i suoi rappresentanti di vertice un'attiva e duratura collaborazione in costanza di rapporti di vera stima e considerazione, gli valsero, post mortem, un tributo di riconoscenza e di onore al suo valore senza eguali, costituito dal collocamento di una statua col suo busto nel cortile principale del quartier generale della F.B.I. a Washington. Concludo questo ricordo di Giovanni Falcone, della sua figura di grande magistrato e dell'uomo da me conosciuto e frequentato nel corso del mio affiancamento alla sua attività istruttoria nel primo grande processo contro Cosa Nostra, affermando di aver tanto imparato da lui e non solo dal punto di vista professionale. Abbiamo via via, approfondito la nostra conoscenza, particolarmente in occasione delle poche ore lasciate libere dagli impegni delle varie rogatorie effettuate insieme, anche al di fuori della Sicilia, quando talvolta, prima o poco dopo cena, ci si lasciava andare a liberi pensieri ed egli appariva nello splendore del suo gran sorriso, a volte anche canzonatorio e di gradevole sarcasmo con le sue battute al fulmicotone. La continua frequentazione tra di noi, soprattutto in ambito lavorativo, mi valse persino l'epiteto di “Falconetto” con cui all'epoca mi indicava a mo' di sfottò l'amico e collega Ninni Cassarà, che era a capo della sezione Omicidi della squadra mobile e poi succedutomi all'Investigativa a seguito del mio trasferimento da Palermo. Non potrò mai dimenticare di una sera dell'inverno 1980/81. Insieme ad un mio collega della Criminalpol e ad alcuni Ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza - lo avevamo accompagnato a Milano per procedere ad una importante rogatoria con l'assunzione a verbale delle dichiarazioni testimoniali di alcuni noti personaggi, tra i quali il noto banchiere Enrico Cuccia, ognuno di essi legato per alcuni versi alla vicenda del rapimento simulato del faccendiere Sindona. A sera, eravamo in un albergo di Milano e, mentre dopo cena e prima di ritirarci nelle rispettive camere eravamo sprofondati in alcune poltrone della hall, Falcone, sorseggiando un whisky, a conclusione di alcune valutazioni sull'andamento della istruttoria del processo, ebbe a dire chiaramente di essere cosciente del fatto che la mafia lo avrebbe ucciso, ma che bisognava comunque andare avanti continuando a fare il proprio dovere. Che dire di più? Dico solo che sento ancora i brividi al ricordo di queste sue parole che manifestavano chiaramente la sua consapevolezza del grande rischio cui andava incontro. E' inutile dire che il pomeriggio del 23 maggio 1992 la drammatica notizia, appresa a Roma telefonicamente, mi provocò una intensa emozione e non riuscii a frenare le mie lacrime e la mia disperazione.

Io, uditore nella stanza del dottor Falcone, scrive il 20 maggio 2018 su "La Repubblica" Vincenzina Massa - Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell'ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone. Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò - me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo - adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene - ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo - che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione.

E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” - quel che colpiva particolarmente - da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso - e le custodisco gelosamente - di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra - quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio "Affidatario", noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.

Uno “scienziato” dell'investigazione, scrive il 21 maggio 2018 su "La Repubblica" Angiolo Pellegrini - Generale dell'Arma in pensione, nei primi anni '80 capitano della “sezione Anticrimine” dei carabinieri di Palermo. Il 23 maggio 1992 si verificava l’attentato più grave nella storia della giovane Repubblica italiana: l’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo, posti all’altezza di Capaci e, di conseguenza, la morte del magistrato Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta. Perdeva la vita quel “giudice” che mi piace definire ”lo scienziato dell’attività istruttoria ed investigativa” mente e coordinatore del pool antimafia che, in soli 4 anni (1980 – 1984), era riuscito a dimostrare che la mafia esisteva come organizzazione unitaria e gerarchicamente strutturata, e, nello spazio di poco più di dieci anni, al termine del più grande processo mai celebrato al mondo, ad ottenere la condanna per i capi a 19 ergastoli e per gli appartenenti all’organizzazione a 2665 anni di reclusione. La mafia, nata come associazione segreta, radicata in una subcultura ben definita era riuscita per lungo tempo a far pesare sulla società la sua forza intimidatrice e, nel contempo, a fare sorgere nei suoi confronti il consenso, adattandosi apparentemente ai canoni di giustizia propri della società delle aree meridionali. Ma, come si sarebbe potuto e dovuto prevedere, i settori d’intervento della mafia all’inizio degli anni 70 non erano più limitati a quelli tradizionali della Sicilia agricola: in pochi anni si sarebbe assistito a sempre più stretti collegamenti delle organizzazioni mafiose siciliane con quelle della Calabria e della Campania, prima nel settore del contrabbando dei T.L.E. e, poi, nel traffico degli stupefacenti, gradualmente esteso in tutto il mondo. La mafia, con l’aumento vorticoso del consumo delle droghe, ha sentito la necessità di disporre di grossi capitali con conseguenti enormi utili che attrassero nel “gioco” anche coloro che potremo definire di “terzo livello”. Quando la mafia – divenuta ricchissima - tanto da ritenersi più forte dello “Stato legale” – esce allo scoperto, la lotta si radicalizza ed, in conseguenza, della più decisa azione di contrasto degli organi investigativi dello Stato, si assiste ad una reazione quanto mai violenta, sfociata negli omicidi del T.C. Russo, dei Capitani Basile D’Aleo, del Maresciallo Ievolella, del V. Questore Boris Giuliano, dell’agente Zucchetto, dei Magistrati Terranova, Costa, Chinnici e del Prefetto dalla Chiesa. Ma, nello stesso tempo si verificano alcuni fatti importanti: la perdita progressiva del consenso da parte della popolazione, l’affermarsi di nuovi metodi d’indagine, la convergenza degli sforzi della magistratura e delle forze di Polizia, l’approvazione della c. d. “legge Antimafia”. E’ vero che il traffico internazionale di stupefacenti coinvolge una vera e propria multinazionale del crimine: i produttori di oppio del Medio Oriente, i contrabbandieri italiani, francesi e greci, addetti al trasporto della morfina, i gestori dei laboratori di produzione dell’eroina in Sicilia, i corrieri siciliani e italo – americani per la distribuzione degli stupefacenti in USA ed in Canada e per il ritorno in Sicilia di ingentissime quantità di dollari e le collusioni politiche per il riciclaggio del denaro. Ma, se è vero che la complessità degli accertamenti comporta grandi difficoltà per gli investigatori e per i magistrati, sono proprio tali difficoltà ad introdurre metodi d’indagine nuovi: in particolare si prende coscienza che il punto debole del fronte della mafia è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di denaro. Falcone, proseguendo su questa strada, riesce a dimostrare dopo ben 18 secoli la mancata attualità dell’assunto, tramandatoci dallo storico latino Svetonio, “Pecunia non olet”. E’ nato quello che sarebbe divenuto il famoso “metodo Falcone”. Falcone, infatti, capovolse il metodo d’indagine: il Giudice Istruttore anziché lavorare, come era stato sempre fatto, su quanto riferito dalle forze di Polizia, assunse in prima persona lo svolgimento delle indagini, compiendo direttamente atti istruttori e delegando una serie impressionante di accertamenti, approfondimenti, indagini, riuscendo così a pervenire ad una visione unitaria del fenomeno mafioso. Riunì vari processi, pur se sembravano non riconducibili a gruppi criminali tra loro collegati (Spatola  più 119, Gerlando Alberti, Mafara Francesco, sequestro Sindona, arresto del belga Gillet e poi Greco Michele  più 161, Riccobono Rosario più 39, Provenzano Bernardo più 29 ), evidenziando che avevano tutti numerosi dati in comune e, soprattutto, il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio del denaro. In sostanza, la capacità di sintesi, la memoria eccezionale, la visione strategica del problema consentì a Falcone di realizzare una sorta di enorme mosaico, sul quale riuscì a porre, ciascuno al posto giusto, migliaia di tessere, fornendo così una rappresentazione attuale ed aggiornata di “Cosa Nostra”, un’organizzazione unitaria, verticistica, con i propri organi di comando a livello provinciale e regionale, con collegamenti in tutta Italia e nel mondo intero. Lo stesso Falcone in un suo intervento alla tavola rotonda, organizzata a Palermo nel 1984 da Unicost, ha affermato: “Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle FF.PP. ha cominciato in più parti d’Italia ad impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno ed i risultati non si sono fatti attendere. E’ cominciata ad emergere una realtà di enormi dimensioni ed inquietante, solo intuita nel passato”……… “Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, fra l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa cominciandosi ad ottenere i primi risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse riguardanti organizzazioni mafiosi ed efferati delitti di stampo mafioso”……. “Dall’iniziale separatezza fra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso, si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli ed incomprensioni di ogni genere, ad un clima di collaborazione di reciproca fiducia, impensabile fino a poco tempo addietro”.

La mossa vincente di seguire il denaro, scrive il 22 maggio 2018 su "La Repubblica" Leonardo Guarnotta - Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni '80 componente del pool antimafia dell'ufficio istruzione. La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell'800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all'etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell'isola. E' stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all'epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all'Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l'uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta - io - i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all'impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell' omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all'intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell'apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l'azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni '60 e '70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l'accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l'assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l'acquista.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all'estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni. Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro. Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all'estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all'altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall'allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile uno scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell'incipit dell'ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all'estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice, scrive il 23 maggio 2018 su "La Repubblica" Pietro Grasso - Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica. Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell'azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell'espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE. Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima.

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA. Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L'FBI E CON RUDOLPH GIULIANI. Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia. Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO. Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta “camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA "GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l'associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell'organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l'inequivocabile contesto probatorio sull'esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell'associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell'area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall'organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l'assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all'improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un'adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell'identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant'è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l'uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l'inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all'interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, “Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con..., Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l'estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell'omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA'. Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell'informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l'infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l'esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l'impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all'ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l'appartenenza. Si infranse così il mito dell'invincibilità e dell'impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l'aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l'opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL "METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO. In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana, la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell'esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell'ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il “metodo Falcone”.

Quello che ha rappresentato per lo Stato, scrive il 24 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio De Francisci - Giudice del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo nei primi anni '80, oggi è procuratore generale della Repubblica di Bologna. Dopo ventisei anni dall’assassinio di Giovanni Falcone mi viene chiesto di raccontare cosa fosse il “metodo Falcone”. Ho esitato a lungo prima di accogliere la richiesta di Attilio Bolzoni perché mi sembrava di dire sempre le stesse cose e quindi essere poco utile o, peggio, inutilmente ripetitivo. Poi ci ho ripensato, e ciò sia per la cortese insistenza di Bolzoni sia perché sempre più spesso, incontrando giovani colleghi o studenti, specie qui in Emilia Romagna, mi rendo conto quanto la figura e le opere di Giovanni Falcone siano poco conosciute e quindi non siano diventate memoria collettiva. Troppo poco si sa di lui e quindi torno a parlare di lui, di quello che ha rappresentato per l'azione dello Stato italiano contro la mafia. Troppe volte, quando dico che il 23 maggio devo essere a Palermo, mi si chiede il perché; questa data non è entrata nella comune memoria e invece dovrebbe essere scolpita nella coscienza di ogni italiano. Il segreto del metodo Falcone non aveva nulla di segreto; era tutto nella persona di Falcone, nelle sue qualità umane prima ancora che professionali. La sua assoluta serietà nel lavoro, impegno totalizzante di tutta la sua vita. Lavorare con lui, che per me fu un grande privilegio, significava adottare i suoi ritmi di lavoro o almeno cercare di avvicinarsi a quelli. Falcone non aveva hobby, passatempi, non giocava a calcetto, non scalava montagne, lui stava in ufficio. Le trasferte di lavoro, anche all'estero, con Falcone sono state per me una scuola di elevato livello, con esami continui, con lui sempre in prima fila e tu dietro a seguire, a imparare, a stare zitto, a fare domande dopo, nelle pause. Si imparava a interrogare i detenuti, con calma, a volte col sorriso, sempre con serenità e rispetto. Mi tornano in mente mille episodi, alcuni anche divertenti, che per me hanno significato apprendimento di tecniche, di stile, di vita professionale. La prima trasferta a Milano con lui, interrogatori nella sede della Criminalpol. Gli chiedo il permesso, a fine pomeriggio, di andare in piazza Duomo, non ci andavo dagli anni dell'infanzia. Gli chiedo di andare insieme, mi risponde di no: vai tu, io devo finire di leggere qualche carta. Lui non mollava mai. E poi ancora a Marsiglia, seconda metà degli Anni Ottanta, indagine per un traffico di stupefacenti tra Italia, Francia e Stati Uniti. La polizia francese ci invita a pranzo prima degli interrogatori fissati nel pomeriggio; era una splendida giornata di sole, ristorante sul mare, mi ricordo ancora quasi tutto il menu. Lui mangia come tutti, ma finito il pranzo è pronto per iniziare a lavorare, io molto meno, cerco di stare al passo, ma con esiti molto modesti. Quel giorno ho imparato che quando si lavora, meno si mangia e meglio è. Lui capì la mia difficoltà, non mi disse nulla, ma io sapevo che aveva capito e, almeno quella volta, perdonato. E poi la sua lealtà nei confronti di tutti i colleghi, specie quelli giovani, che trattava con rispetto e con grande umanità. Mi correggeva qualche mio scritto sempre in punta di piedi, senza commenti sgradevoli, con brevi tratti di penna stilografica. Non sopportava i superficiali, gli spregiudicati, gli arruffoni. Era coraggioso come sanno esserlo le persone serie che hanno consapevolezza dei rischi che corrono, ma credono di avere gli strumenti per superarli. Ricordo perfettamente, durante un interrogatorio di alcuni mafiosi americani negli Stati Uniti, le minacce che uno di questi gli rivolse; in tono untuoso e con la faccia che dice più delle parole, in perfetto stile mafioso. Io percepii la serietà della situazione, ma non lo vidi particolarmente preoccupato, ma conscio che quella inchiesta aveva smosso acque stagnanti. Aveva una fiducia illimitata nel rapporto con gli organi investigativi degli Stati Uniti, preparava con precisione ogni viaggio oltre Atlantico tutte le carte, le domande pronte, l’elenco degli atti da chiedere ai colleghi americani. Si entusiasmava financo del caffè americano che ci veniva offerto ovunque con generosità. Apprezzava quel sistema giudiziario, ma senza le approssimazioni utilizzate da chi vuole importarlo da noi solo nei limiti della convenienza del momento. Sognava un pubblico ministero nuovo, non poliziotto ma che guidava la polizia giudiziaria, che partecipava attivamente alle indagini, delegando solo l’indispensabile, interrogando imputati e testi, e soprattutto conoscendo ogni carta del processo. Sono passati 26 anni. Che ne è dell'insegnamento di Falcone? Quanto è stato realizzato della sua visione del mondo giudiziario? Non sono il più indicato per rispondere a queste domande. Certamente il Ministero della Giustizia (dove egli dette il meglio di sé), negli anni, ha portato avanti molte delle sue idee e i metodi di indagine da lui inventati e sperimentati sono stati diffusi in tutte le Direzioni Distrettuali Antimafia, organismo che lui ideò e che ha consentito di accentrare in sede distrettuale le indagini di mafia, obiettivo che oggi sembra facile aver raggiunto, ma che, allora, fu una rivoluzione e che ha impiegato anni per funzionare a regime. La Direzione Nazionale Antimafia, altro frutto delle sue idee, anche se diversa da quella da lui pensata, si muove comunque nel solco del metodo Falcone e del suo esempio. E non è poco.

Mafia: Fico, meglio mano in tasca che su cuore di traditori Stato, scrive Adnkronos riportato il 23 Maggio 2018 da "Il Dubbio". “Il rispetto per il Paese - scrive Fico - passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle […] “Il rispetto per il Paese -scrive Fico- passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle emozioni, piuttosto che tutto quanto detto e fatto in questa meravigliosa giornata. Preferisco una mano in tasca per qualche secondo alla mano sul cuore di chi poi tradisce lo Stato”. Poi il presidente della Camera prosegue sulla strage di Capaci: “Ciò che avvenne quel 23 maggio del 1992 ha smosso l’anima del nostro Paese, come ha smosso la mia. Ricordo perfettamente quel pomeriggio, quando si diffuse la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta”. “Il percorso che ho intrapreso in questi anni deriva anche da quella giornata, da quella sensazione e da quella presa di coscienza che non avrei più dimenticato: bisogna decidere da che parte stare, ogni giorno. Perché ogni giorno possiamo lottare contro la mafia attraverso il nostro lavoro e le nostre azioni”.

Memoria d'accusa: quando Giovanni Falcone denunciava il caso Palermo. Ecco l'intervento del giudice ucciso che L'Espresso ha pubblicato in esclusiva il 18 settembre 1988. «C'è un senso di scoraggiamento. Ci hanno messo nella condizione di non muoverci», scrive Pietro Calderoni il 23 maggio 2018 su "L'Espresso". Ecco l'atto d'accusa che il giudice palermitano Giovanni Falcone ha fatto domenica 31 luglio (1988 ndr) davanti al Comitato antimafia del Consiglio superiore della magistratura. È una testimonianza eccezionale (l'audizione era segreta) e sconvolgente con la quale il magistrato più esposto nella guerra contro “Cosa nostra”, per la prima volta, ha parlato esplicitamente degli intralci nel suo lavoro, dei contrasti insanabili col suo capo, il consigliere istruttore Antonino Meli, del tentativo di smembrare e di fatto disinnescare il “pool” antimafia, dell'impossibilità - visto il clima che tira nell'Ufficio istruzione di Palermo - di continuare a istruire i processi. Insomma, dice Falcone, qualcosa si è inceppato nella lotta alla mafia. E spiega il perché. Falcone denuncia che, al Palazzo di giustizia di Palermo, è in corso uno scontro, decisivo, tra due modi d'intendere la lotta alla mafia. Da una parte, il consigliere Meli, reo di voler gestire il delicatissimo momento giudiziario in forma esclusivamente burocratica, rallentando l'iter dei processi più importanti e svilendo il lavoro del pool; dall'altra parte, appunto, i giudici del pool antimafia, con Falcone in testa, preoccupati per questo calo di tensione negli uffici giudiziari palermitani. È una polemica che nasce, in realtà, il 20 luglio dopo una intervista, a “Repubblica”, del giudice Paolo Borsellino, fino a qualche tempo prima nel gruppo dei giudici antimafia di Palermo e poi passato a dirigere la procura della Repubblica di Marsala. Borsellino fa pesanti accuse: «Stiamo tornando indietro come vent'anni fa», dice. E aggiunge: «Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata come prima, più di prima». Non solo: Borsellino sostiene che Meli ha cominciato a smantellare, con i pretesti più diversi, il pool anti mafia. Meli replica stizzito che non è vero. Le gravi parole del giudice Borsellino, però, non cadono nel vuoto. Nemmeno 24 ore dopo l'intervista, infatti, è addirittura il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, a intervenire chiedendo che sia fatta piena luce su quello che sta accadendo all'interno del Palazzo di giustizia di Palermo. Lo scontro fra Meli e Falcone, fino a quel momento covato sotto la brace, emerge in tutta la sua crudezza. Uno scontro che, il 19 di gennaio (1988 ndr), aveva avuto il suo prologo, quando il Consiglio superiore, premiando l'anzianità rispetto alla professionalità e alla competenza specifica, aveva deciso di nominare, a strettissima maggioranza, dopo lunghe discussioni e spaccature, consigliere istruttore di Palermo proprio Meli invece di Falcone. Alla fine di luglio, dunque, in una Roma oppressa da un caldo africano, le porte del palazzo dei Marescialli, dove ha sede il Csm, si aprono per ascoltare le ragioni dei protagonisti. È un'indagine il cui epilogo è destinato a emergere dalla riunione del Consiglio fissata a partire da martedì 13 settembre. A luglio, il giudice Borsellino conferma le sue parole. Subito dopo, davanti agli 11 membri del Comitato antimafia del Csm, si siede Giovanni Falcone. Ha appena consegnato una lettera in cui chiede di essere trasferito in un altro ufficio; lui, l'uomo che ha istruito il maxiprocesso, che per primo ha raccolto le confessioni di Tommaso Buscetta, che ha incriminato il sindaco democristiano Vito Ciancimino, che ha indagato per scoprire gli assassini dei grandi delitti eccellenti, da quello di Piersanti Mattarella a quello di Pio La Torre, dice che così non ha più senso andare avanti. E ricorda, accusa, elenca, davanti agli altri giudici del Consiglio superiore della magistratura, portando esempi, rievocando fatti, rivelando episodi rimasti fino a quel momento segreti. Il lungo intervento di Falcone è introdotto dal consigliere Carlo Smuraglia: «Falcone, la ringraziamo per essere qui. Lei conosce le ragioni... la preghiamo di parlare». E il giudice parla.

Parole di Falcone. «Si è verificata purtroppo una situazione di stallo che ci sta portando verso quella gestione burocratica dei processi di mafia che è stata la causa non secondaria dei fallimenti degli anni, dei decenni trascorsi. Cosi vengono a confronto due filosofie del fare il giudice: quella che prevede una gestione burocratica-amministrativa-verticistica dell'Ufficio e quella che tende ad ottenere i risultati dell'istruttoria. Il consigliere Meli spesso, molto spesso, mi sollecita a chiudere le istruttorie, ma certi processi hanno bisogno del loro sfogo, certi processi politici, come l'omicidio Mattarella [era il presidente democristiano della Regione, dc, ndr.], quello La Torre [era il segretario regionale del Pci siciliano, ndr.] o quello Parisi [Roberto Parisi, presidente del Palermo calcio, ndr.] non si possono chiudere, a meno che non si voglia fare il solito fonogramma al Commissariato chiedendo l'esito di ulteriori indagini e, alla risposta che l'esito è negativo, chiudere la solita bellissima sentenza contro ignoti. «Il problema è cominciato a diventare più pressante con l'insediamento del consigliere Meli. Ci saremmo aspettati quanto meno di essere convocati per uno scambio di idee, per discutere dei problemi enormi, materiali e di gestione di tutti questi processi, ma nulla di tutto questo è avvenuto... Se c'è una filosofia del pool, del lavorare insieme in materie così intimamente connesse come quelle che riguardano le attività mafìose, era proprio quella di cercare di seguire sempre l'evolversi delle varie indagini per vedere attraverso un esame globale del fenomeno di poter incidere in maniera più efficace; senonché ci siamo accorti che mano mano le cose cambiavano. I processi venivano assegnati con un criterio da noi non conoscibile e in contrasto coi criteri predisposti e approvati dal Consiglio superiore della magistratura, criteri che prevedevano che a quel gruppo di sezioni dovessero essere affidati tutti i processi di mafia... Tutto questo invece non veniva osservato: non soltanto non veniva osservato, ma noi non ne conoscevamo il perché».

IL SEQUESTRO MISTERIOSO. «Faccio un esempio, il processo per l'omicidio di Tommaso Marsala [industriale, ucciso nel 1987, titolare dell'appartamento-base dei killer del vicequestore Ninni Cassarà, ndr.]: Marsala era imputato dell'omicidio Cassarà, era stato scarcerato per mancanza d'indizi ma permanevano sul suo conto pesanti sospetti. A un certo punto Marsala viene ammazzato: dopo l'inchiesta sommaria il processo contro ignoti viene formalizzato e assegnato al giudice Lacommare. Egli prospetta dci motivi di opportunità [poiché evidentemente non fa parte del pool antimafia, ndr.], ma gli viene risposto che un po' tutti si devono occupare d'indagini di mafia. «Lo stesso avviene col processo per il sequestro di Claudio Fiorentino [il maggior gioielliere palermitano, rapito il 10 ottobre 1985, ndr.], che è uno dei fatti più gravi e più significativi su cui occorre, a mio avviso, approfondire le indagini. I Fiorentino erano già venuti fuori nel 1980, ai tempi del processo Spatola [il clan mafioso in contatto anche con Michele Sindona, ndr.] per una sorta di attività di riciclaggio di denaro, dollari statunitensi di provenienza illecita, Il sequestro appariva abbastanza anomalo e soprattutto in contrasto con un divieto di compiere sequestri di persona stabilito da Cosa Nostra in Sicilia. Quindi delle due l'una: o il sequestro era finto o erano cambiate le regole di Cosa Nostra; fra l'altro il sequestro era avvenuto in territorio Partanna-Mandello, cioè in una zona molto vicina ai Corleonesi e quindi si trattava di cercare di fare luce sull'episodio. Bene, questo processo il Consigliere istruttore se lo assegna a se stesso senza dare nessuna spiegazione in merito. A questo punto prendiamo atto di questa realtà e gli chiediamo copia degli atti, una richiesta che ci consentiva di vedere se e quali agganci potessero esserci con altri processi in corso. Tra l'altro segnaliamo al Consigliere, nella nostra richiesta, l'esigenza indifferibile del potenziamento del pool; gli abbiamo detto, nei modi più garbati, che in questa maniera si smembra tutto, gli abbiamo spiegato i motivi per cui noi ritenevamo che quei processi avessero attinenza al gruppo antimafia; infine gli abbiamo ricordato che all'Ufficio istruzione esiste uno strumento informatico molto importante, creato da noi giorno dopo giorno, per cui la conoscenza di quel processo ci serviva anche per inserire gli atti nell'elaboratore elettronico...«Succede che, di fronte a queste nostre richieste, il consigliere avoca la titolarità del processo contro Cosa Nostra... E poi si rifiuta di trasmetterei copia degli atti richiesti affermando che dovevamo chiedere atti determinati e non tutti gli atti. Io mi chiedo com'é che potevamo chiedere atti determinati se non li conoscevamo! «Poi sono cominciati ulteriori problemi, da ultimo questo processo per l'omicidio di Antonio Casella (grosso imputato, chi si occupa di queste indagini sa bene che significa questo nome: Edilferro eccetera), fatto di gravità inaudita, perché significa una spaccatura all'interno della maggioranza egemone [di Cosa Nostra, ndr.]. Naturalmente chiedo ai colleghi della Procura: "Quando lo formalizzate, me lo fate sapere". Il processo viene assegnato al collega Grillo, il quale, appena lo legge, va da Meli e gli dice: "Ma guardi, cosa c'entro io?". Risponde Meli: "Ah, non me ne ero accorto''. Allora io dico, come si fa a non accorgersi di un fatto del genere, significa non aver letto nemmeno il rapporto, cioè fare l'assegnazione solo sulla copertina. Allora, per rimediare, è un po' maligna la cosa, il Consigliere Meli assegna il processo per l'istruttoria di questo omicidio a otto persone! Ora io chiedo, come si fa a istruire così, un processo del genere? La risposta la lascio alla vostra intelligenza. «E poi in queste assegnazioni, stranamente, alcuni colleghi del gruppo antimafia non vengono presi in considerazione, nel senso che non vengono loro assegnati questi processi, ma processi ordinari, processi per rapine... Tutta una serie di processi del carico ordinario li abbiamo istruiti sempre; ma, se si aumenta indiscriminatamente il carico ordinario, ci fermiamo tutti e difatti quando io parlo di situazione di stalla, intendo dire che adesso le indagini, gli interrogatori, gli esami testimoniali, li posso fare soltanto io perché gli altri sono occupati a gestirsi l'ordinario. E a questo punto ci blocchiamo tutti. «Ecco io non lamento altro; però una cosa è molto seria, questa mancanza di comprensione dei problemi. Il Consigliere non ha letto ancora una pagina del processo di cui è formalmente assegnatario, ma ha determinato tutta questa serie di reazioni a catena per cui ci siamo inevitabilmente fermati tutti. E io personalmente non intendo avallare una gestione di processi di questa gravità in una visione burocratico amministrativa».

IL BLOCCO TOTALE. «Io non intendo assolutamente sovraccaricare nulla e ho sempre ispirato la mia condotta alla volontà di sdrammatizzare tutti i problemi, ma le condizioni obiettive sono queste: noi ci troviamo bloccati da fatti che, presi uno per uno, sembrano delle miserie, ma presi globalmente bloccano tutto. Tutta questa situazione all'interno dell'Ufficio in realtà ha prodotto il blocco totale. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci».

Domanda il consigliere Guido Ziccone, del Sindacato magistrati: «Da come lei ha riferito i fatti, mi sembra di aver capito che c'è una serie di difficoltà che mano a mano sono emerse, evidenziate dal modo in cui questo pool ha ragionato e operato. È un modo che il Consigliere istruttore avrebbe voluto o vorrebbe modificare?»

Falcone: «Io non so nemmeno se vuole che ci sia un pool, e con quali persone, perché non ce ne ha informato ancora!».

Ziccone: «La cosa che mi colpisce, che colpisce tutto il Paese... è come si arrivi a questa diagnosi d'impossibilità di andare avanti... ».

Falcone: «C'è un senso di scoraggiamento da parte dei colleghi... Le faccio un altro esempio (ma ne potrei fare centinaia di questo esempi): processo per truffa di miliardi alla Sicilsud Leasing, processo molto importante sorto fra l'altro da indagini che avevamo fatto noi (io in particolare) e che poi sono state sviluppate dalla Procura della Repubblica e dalla Guardia di finanza; processo in cui ancora una volta viene a trovarsi coinvolto, come perno, Tommaso Marsala.

IL PROCESSO NEGATO. «Essendo un processo molto importante, aspettiamo che arrivi all'ufficio istruzione; finalmente un giorno telefono alla cancelleria c mi dicono che è arrivato da una decina di giorni; chiedo a chi è assegnato c mi rispondono che è assegnato anche a me. Pensando di dover lavorare anch'io, chiamo il collega assegnatario e gli chiedo quando ci riuniamo per parlarne. Risponde di no, che è inutile riunirsi, che io posso richiedere la sola copia degli atti. Pensando che ci fosse l'assegnazione congiunta, vado a vedere e l'assegnazione è in questi termini: il processo è assegnato al giudice istruttore Barrile e, limitatamente agli atti che potrebbero essere importanti nelle indagini su Marsala, anche ai giudici Falcone e Lacommare; s'inserisce una terza persona ed ecco che siamo in quattro. Ora io vi chiedo: sulla base di questa delega, come ci possiamo muovere noi?... Cosi mi si mette in condizioni di non muovermi, non posso fare nulla. Giorno dopo giorno c'è un problema, poi quando cerchiamo di far capire queste cose, ti spunta sul “Giornale di Sicilia” un comunicato: basta coi miti, queste beghe fra magistrati, queste sono beghe fra cordate di magistrati, tutti sono in grado di fare tutto. Voglio dire che è tutta una serie di colpi di spillo che ti mette in condizione di non muoverti. Certo, se scomponiamo e rianalizziamo queste vicende, sono tutte risolvibili, però, poi, in concreto ti accerchiano c non ti muovi. Tutto questo ti delegittima, tutto questo t'impedisce di andare avanti; diceva Dalla Chiesa che Palermo era una città dove il “prestigio” conta...».

Domanda il consigliere Smuraglia: «Rispetto a quando è venuto a Palermo il Comitato antimafia del Consiglio, cioè a fine gennaio, la situazione complessiva è migliorata, è rimasta uguale o è peggiorata?».

Falcone: «io direi che al peggio non c'è mai fine, ma certo migliorata non è... Recentemente mi è capilato di dover rivivere quegli stessi errori che abbiamo censurato per il passato. Agli inizi degli anni '60 certe frasi come “rappresentante”, “famiglia mafiosa”, “reggente” (tutto un insieme di notizie che poi ci sarebbero state dette anche da Tommaso Buscctta) c'erano già scritte nei rapporti. Poi, dagli anni '70 in poi, tutto questo sparisce, perché? Per la mancanza di memoria storica, per la mancanza di professionalità specifiche per questi problemi. Cosi noi ci troviamo adesso in una situazione identica a quella di prima che iniziassimo le indagini istruttorie... Adesso constatiamo scarsezza di collaborazione e di entusiasmo, io non vedo funzionari di Polizia nel mio ufficio da mesi, mesi e mesi...».

L'AUTISTA AL COMPUTER. Smuraglia: «Il Procuratore Borsellino ci ha detto che adesso dei computer, dell'impiego degli elaboratori elettronici si occupa il collega De Francisci».

Falcone: «Se ne occupava! Perché Dc Francisci, occupato anche lui nell'ordinario, è costretto a diradare il suo impegno nell'informatica ed il laboratorio viene gestito da un commesso, l'ex autista di Chinnici...»

Smuraglia: «Non è arrivato un tecnico?»

Falcone: «No, no, no. Queste elaborazioni vengono affidate a questa persona dotata di sensibilità, che però può omettere dei dati che per noi sono significativi e per lui non lo sono».

Domanda il consigliere Pietro Calogero: «Il ricorso al carteggio che si è dispiegato in questi mesi fra i componenti del pool e il consigliere Meli a cosa è dovuto? Qual è la ragione del ricorso allo scritto tra componenti dello stesso ufficio?».

Falcone: «Noi abbiamo fatto ricorso allo scritto solo dopo che ci siamo resi conto che non c'era alcun dialogo. Io stesso più d'una volta l'ho detto al Consigliere: incontrati con noi, non vogliamo altro che lavorare in piena armonia. Non è stato possibile».

Calogero: «Quindi anche la richiesta di copia degli atti in ordine al sequestro Fiorentino, era stata preceduta da richieste verbali di conoscere gli atti del processo?».

Falcone: «Erano andati a parlare con Meli sia Natoli che Trizzino... Insomma nel concreto: ci siamo resi conto che se l'è assegnato lui, ritenendo che fosse un qualcosa di ordinario e credo che forse tuttora non sia convinto che sia importante questo processo, ma in realtà è molto importante».

Calogero: «In relazione ai processi che si è autoassegnato, processi di mafia s'intende, risulta che Meli abbia svolto atti istruttori?».

Falcone: «No...».

Il consigliere Massimo Brutti: «Vorrei che Falcone ci desse tutte le indicazioni possibili sulla base della buona volontà per uscire dall'impasse, perché si possa risolvere tutto questo problema nella chiarezza».

Falcone: «La buona volontà da parte nostra c'è tutta. Io penso che il punto focale è che il Consigliere Meli dovrebbe comprendere che non c'è nessun complotto di nessun genere. Meli, a mio avviso, è stato male informato. Io credo che non abbia compreso un fatto fondamentale: che noi non abbiamo altri interessi che non siano quelli istituzionali. Ma, vivaddio, tutte le responsabilità, tutte le colpe saranno perseguite, a qualsiasi partito appartengano coloro che abbiano commesso determinati reati. Solo a queste condizioni io sono disponibile per continuare. Ripeto, purché tutti quanti ci si renda conto che bisogna lavorare serenamente, in buona fede e senza fini di altro genere».

"Ho tollerato le accuse in silenzio". Le parole di Giovanni Falcone, tratte da lettere e libri del giudice ucciso, scrive il 23 maggio 2012 "L'Espresso".

Lettera di Giovanni Falcone al CSM, Palermo, 30 luglio 1988, ora in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti/L’Unità, Roma, 2007, pp. 88-90. Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia. […] Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta. 

Da "Cose di Cosa nostra", in collaborazione con Marcelle Padovani, 1991, edizione del maggio 2004, p.8'2-83 e p.170-171. Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. […] Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia […] Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito […] Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. 

Da "Interventi e proposte" (1982-1992), Sansoni editore, pp.304-305. Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di "emergenza", in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali […].

Dopo le inchieste della magistratura, ora la politica ritrovi le responsabilità di quegli anni. La nuova Commissione antimafia deve continuare il lavoro interrotto. E svolgere nuovi approfondimenti per fare luce sui lati oscuri di quel periodo, scrive Lirio Abbate il 22 maggio 2018 su "L'Espresso". Le indagini su gravi episodi di omissione e depistaggio hanno portato negli ultimi anni a nuovi processi per le stragi del 1992, aperti a Caltanissetta. Processi rifatti e nuovi imputati alla sbarra. E nuove sentenze di condanna sono arrivate. Per l'attentato di Capaci si sta ancora processando il latitante Matteo Messina Denaro, considerato uno dei mandanti. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, alla partenza della nave della Legalità che porta gli studenti di tutta Italia a Palermo ha detto: «Il 23 maggio è una data che non si può dimenticare, viene ricordata ogni anno la data del vile attentato di Capaci. Da allora si è sviluppato un movimento di reazione civile prezioso e importante, contro la mafia che ha ottenuto risultati importanti ma che richiede ulteriori impegni». Del periodo stragista di ventisei anni fa e si è occupata la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi che ha affrontato il carattere politico-mafioso di quelle stragi. Sono stati sentiti i magistrati di Palermo e Caltanissetta, i componenti della famiglia Borsellino, dalla sorella Rita, al fratello Salvatore, alle figlie Fiammetta e Lucia. È stato audito anche il magistrato Gianfranco Donadio, per il suo ruolo di procuratore aggiunto della direzione nazionale antimafia, e per i peculiari compiti che gli erano stati affidati, per il quale è stato un protagonista delle indagini sulle stragi «con un inevitabile strascico di polemiche e di ulteriori vicende anche giudiziarie». I commissari hanno svolto un grande lavoro che però non si è potuto allargare, per mancanza di tempo, e di fine legislatura. È adesso compito della prossima Commissione antimafia a svolgere ulteriori approfondimenti, tentando – sempre che ci sarà la volontà politica - di far luce su alcuni aspetti di queste oscure vicende. Le inchieste giudiziarie faranno il loro corso, ma è opportuno dare maggiore spazio all’inchiesta politica e all’analisi storica sulle responsabilità – politiche? - di quegli anni.

Perché Giovanni Falcone vive ancora oggi. Dal giorno dell'attentato il giudice ha cominciato a rinascere, a diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Sino a essere, con Paolo Borsellino, punto di riferimento di chi crede in una giustizia capace di schiacciare la sopraffazione e la mentalità mafiosa. Per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2016. Giovanni Falcone ha iniziato a rinascere proprio su quel cratere dell'autostrada squarciata 24 anni fa da cinquecento chili di tritolo fatti esplodere dai mafiosi. C'è voluta questa strage, con il pesante sacrificio umano che si è trascinata, per scuotere le coscienze. E far cambiare idea non tanto ai mafiosi ma a quella pletora di nemici, pubblici e privati, che il dottor Falcone ha avuto durante la sua carriera. E a quei siciliani che continuavano a ripetere fino a quel momento: tanto si uccidono fra di loro i mafiosi. Magistrati e professionisti, politici e borghesi, che hanno attaccato il dottor Falcone in vita, dopo la sua morte come per un incantesimo hanno iniziato a dire che erano tutti amici di "Giovanni", che stimavano "Giovanni" e che gran magistrato era "Giovanni". Dopo la sua uccisione il dottor Falcone sembrava di colpo aver conquistato più amici. Anche e soprattutto fra i nemici. Che strana è la vita di questo uomo-magistrato che durante la sua carriera si è dovuto confrontare prima contro i mafiosi, che hanno cercato in più occasioni di ucciderlo, poi contro una maggioranza di suoi colleghi che proprio perché erano maggioranza lo mettevano in minoranza quando Falcone chiedeva di poter andare a ricoprire altri incarichi dove avrebbe potuto mettere a frutto l'esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Poi contro i politici che difendevano gli interessi dei mafiosi. E poi contro i veleni di "palazzo". Non si è fatto mancare nulla. La gente, che però non era una maggioranza, lo sosteneva. Ma i corvi avevano sempre la meglio. Ma una giustizia arriva sempre. Per tutti. Sono però tutte storie dimenticate. La strage ha fatto dimenticare - non a tutti - queste cose. Ma il dottor Falcone proprio da quell'attentato di Capaci ha iniziato a rinascere. A diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Oggi Giovanni Falcone è il punto di riferimento, come lo è anche Paolo Borsellino, di chi crede in una giustizia che può schiacciare la sopraffazione mafiosa con i loro clan e i loro affiliati. Ma anche la mentalità. Per questo Giovanni Falcone ancora oggi vive. E per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto. I magistrati di Caltanissetta dopo aver istruito diversi processi ai mandanti ed esecutori della strage, ancora oggi si trovano a puntare il dito su altri responsabili che fino adesso erano rimasti fuori dalle indagini e grazie alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia è stato possibile individuare. Come pure il latitante Matteo Messina Denaro che per 24 anni è rimasto lontano dalle indagini e adesso i pm nisseni hanno provato il suo coinvolgimento, insieme a Totò Riina, come mandante dell'attentato. Il lavoro di Falcone dava fastidio a Cosa nostra, e per questo è stato ucciso. I pm di Caltanissetta escludono l'intervento di soggetti esterni alla mafia nell'esecuzione della strage di Capaci. Lo ha voluto ribadire poche settimane fa il pm Stefano Luciani durante la requisitoria del nuovo processo per la strage. "Abbiamo diverse dichiarazioni generiche sull'intervento di soggetti esterni, in particolare componenti dei servizi. Dichiarazioni che arrivano da persone estranee a Cosa nostra o da chi era ai piani bassi dell'organizzazione, ma nessuno di coloro che stava ai piani alti della mafia e che poi ha deciso di collaborare con la giustizia, come ad esempio Giovanni Brusca, ha mai parlato dell'intervento di esterni nell'esecuzione della strage. E allora cosa dovremmo fare? Teorizzare un enorme complotto che mirava a tappare la bocca a questi collaboratori?", ha detto il magistrato Luciani. "Ci stiamo occupando di un fatto che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese, a livello di ipotesi si può dire tutto, ma quando dobbiamo andare sul concreto dobbiamo agire sulla base degli elementi raccolti. Sono stufo di sentire dire che questo ufficio tiene la polvere nascosta sotto il tappeto. Si è parlato anche del coinvolgimento di Giovanni Aiello (ex agente di polizia reclutato dai Servizi indicato come "faccia di mostro" ndr). Abbiamo sentito molti testi, ma riscontri sicuri non ne sono arrivati. I suoi familiari hanno detto di non sapere che collaborasse con i servizi e quando ad alcuni testi è stato chiesto di descriverlo sono stati commessi errori". La Procura di Caltanissetta, che dal 2008, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, sta cercando di riscrivere la verità sui due attentati di Capaci e di via D'Amelio, ha messo insieme gli elementi raccolti individuando mandanti ed esecutori materiali rimasti per lungo tempo impuniti. Falcone intanto risorge.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su "L'Espresso". Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto.

Macerie dappertutto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco».

Uno sguardo ormai chiuso. «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta».

L’ultima parola: “Scusi”. «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità».

Le mani che tremavano. «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti. La drammatica testimonianza di Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti che si trovavano sulla terza auto blindata che seguiva quella del giudice Falcone e della scorta, scrive Lirio Abbate il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell'autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci. L’esplosione impatta sulla prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggia il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Nella prima auto ci sono gli agenti della Polizia di Stato Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani mentre in quella che segue immediatamente dopo ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede però nel sedile posteriore. Falcone aveva preferito mettersi lui alal guida con accanto la moglie. La potente deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l'auto del magistrato. Appena dietro c'è la terza blindata del corteo in cui c'erano i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono all'attentato. I tre poliziotti dopo l'esplosione scendono dall'auto e cercano di dare aiuto al magistrato, alla moglie e all'autista. Nonostante le ferite riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere e per questo è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Come racconteranno Corbo, Capuzza e Cervello, Falcone, Morvillo e Costanza erano vivi. La giudice Morvillo respirava, ma priva di conoscenza, mentre il dottor Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli chiedono i soccorritori. Dal luogo dell'attentato dunque, Giovanni Falcone e la moglie escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione, mentre Costanza ricoverato con la prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apriva il corteo, nell’immediatezza dell'esplosione non c'era nessuna traccia sull'autostrada, tanto che i primi soccorritori pensano in un primo momento che fosse riuscita a sfuggire alla deflagrazione e che sarebbe corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma viene ritrovata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri completamente distrutta. È in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre poliziotti morti. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l'attentato vengono così ricostruiti dai tre poliziotti che sono sopravvissuti alla strage di Capaci. Sono queste le prime “immagini” della strage descritte grazie al racconto dei sopravvissuti.

Angelo Corbo: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d'aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l'esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far si' che c'era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all'autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c'era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e uscita dall'abitacolo della macchina. Invece il dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l'altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c'era stato anche un cercare di spegnere questo principio d'incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L'autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell'abitacolo della macchina».

Gaspare Cervello: «Dopo il rettilineo, diciamo, all'inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un'esplosione che neanche il tempo di finire un'espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioé se erano vivi; l'unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c'era il terriccio dell'asfalto che proprio copriva la macchina; c'era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l'unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: "Giovanni, Giovanni", però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l'ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l'autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: "Ormai tutti e tre non ce l'hanno fatta", mentre la macchina davanti, non l'ho vista... Ho pensato che ce l'avevano fatta, ce l'avevano fatta, che erano andati via... ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo dare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima».

Giuseppe Costanza: «Io l'ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: "Lunedì mattina", io gli dissi: "Allora, arrivato a casa cortesemente mi dà le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: "Cosa fa? Così ci andiamo a ammazzare". Questo è l'ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: "Scusi, scusi". Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c'è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perché la marcia era rimasta inserita era la quarta».

Paolo Capuzza: «Io ero rivolto, diciamo, un po' nella sedia della parte destra e guardavo un po' sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un'esplosione ed un'ondata di caldo è arrivata, ed in quell'attimo mi sono girato nella parte anteriore dell'autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l'asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l'autista abbia sterzato l'autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all'autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l'autovettura del magistrato. Mentre eravamo all'interno dell'autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioé non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiché siamo usciti dall'autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l'M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall'autovettura e per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c'era davanti all'autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c'erano delle fiamme ed abbiamo preso l'estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l'autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c'era più il vano motore e... ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come... poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». 

Queste dunque le prime immagini della strage tratte dal racconto dei sopravvissuti.

VOTO DI SCAMBIO E LE IMPUNITA’ DELLE PROMESSE ELETTORALI.

Voto di scambio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il voto di scambio è un fenomeno che, nell'ambito della politica, si riferisce all'azione di candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore di ricambiare il voto da parte di quest'ultimo con un tornaconto personale, o con una promessa dello stesso. Perché ci sia reato non c'è bisogno dello scambio di beni o di prestazioni, ma è sufficiente la promessa o l'accordo fra le due parti. È praticato talvolta da organizzazioni criminali, spesso di tipo mafioso, d'intesa con gruppi politici: questa fattispecie nell'ordinamento italiano definisce il reato di scambio elettorale politico-mafioso.

Oltre 1,7 mln di italiani "comprati" con soldi o favori per un voto alle elezioni. Dall'Istat arriva un dato allarmante sulla corruzione e sul voto di scambio. Al 3,7% della popolazione fra i 18 e gli 80 anni, sono stati offerti denaro, favori, regali o anche la promessa di un lavoro, scrive Antonella Serrano su TGLa7 del 12.10.2017.

Probabilmente sono molti, ma molti di più.

Le elezioni e la legge sul voto di scambio che si applica solo per i nemici: “se mi voti ti prometto un posto di lavoro: reato anche senza assunzione”, scrive "Il Circolaccio" il 2 novembre 2017. La campagna elettorale è al termine ma le promesse fioccano. Chi sta al governo “promette” stabilizzazioni e aumenti di stipendio. Chi è all’opposizione “promette” altri vantaggi. Sarà voto di scambio? Cosa dice la legge? Sembra non temere, certa politica, la persecuzione dei magistrati sul voto di scambio. Tanti candidati “promettono” anche carriere ai burocrati regionali e possibili incarichi e non sono preoccupati. E’ tutto normale? Chi indaga sulla campagna elettorale? O si cerca lo scoop solo per “fottere “l’avversario di turno?. Cosa dice la legge: Chiunque, per ottenere, a proprio od altrui vantaggio, la firma per una presentazione di candidatura, il voto elettorale o l’astensione dal voto, dà, offre o promette qualunque utilità ad uno o più elettori (lavoro) è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 3000 a lire 20.000, anche quando l’utilità promessa sia stata dissimulata sotto il titolo di indennità pecuniaria data all’elettore per spese di viaggio o di soggiorno o di pagamento di cibi e bevande o rimunerazione sotto pretesto di spese o servizi elettorali.

ALTRO CHE MAFIA. L'ITALIA E' UCCISA DAL CLIENTELISMO E DAL VOTO DI SCAMBIO.

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. E le istituzioni. Beh, loro non fanno nulla, anche perchè sono proprio loro ad essere reclutati con il trucco. Bene. Allora cosa si pensa delle continue cronache di malaffare che danno ragione a colui che denunciando è vittima di ritorsioni. Concorsi truccati per l'acceso in Magistratura o in Avvocatura o nel Notariato o in ambito accademico, giusto per citarne alcune. Senza menzionare le innumerevoli notizie di cronaca che ci parlano di concorsi pubblici ministeriali minori o di enti territoriali. Certo, un episodio del genere non sorprende poi molto in Italia, nazione bella, ricca di cultura e con un patrimonio artistico non indifferente, ma piena di raccomandati e con un nepotismo senza eguali. IN TEMPI DI ELEZIONI: FARLOCCATE E VOTI DI SCAMBIO.

Ma la legge è uguale per tutti?

Elezioni 2013. Promessa di rimborso IMU fatta da Berlusconi. Solita promessa per accaparrarsi il voto dei creduloni italici? Per Monti è «un tentativo di corruzione, compra i voti». Per Bersani «demagogia». Secondo Vendola è la solita promessa del «Vanna Marichi» della politica. Il nuovo coniglio tirato fuori dal cilindro da Silvio Berlusconi è la restituzione agli italiani della gravosa Imu sulla prima casa. Una mossa che provoca la reazione rabbiosa dei competitori. Nel day after Mario Monti interviene di prima mattina in radio: «E’ un voto di scambio, ma anche un tentativo simpatico di corruzione: io ti compro il voto con dei soldi e i soldi sono dei cittadini», tuona dai microfoni di Rtl 102,5. Berlusconi vuole «comprare il voto degli italiani con i soldi degli italiani», aggiunge il premier uscente che ieri aveva definito Silvio «un incantatore di serpenti che non ha mai mantenuto le promesse». E conclude: «Quando sento un simpatico, molto simpatico, signore che dice che lui aveva lasciato i conti in ordine e io ho fatto disastro, un po’, perché mi sembra uno schiaffo ai sacrifici degli italiani, mi rattristo e a volte mi innervosisco. Ma non mi sono sentito toccato dalle accuse. Del resto, io sono ancora più imbecille perché ho dato attuazione ad aumenti di tasse in gran parte già decisi da lui». Più tardi il Professore interviene dai microfoni di La7 e rincara la dose: «C’è qualche elemento di usura».

A Porta a Porta del 5 febbraio 2013, il candidato per il PD Pietro GRASSO, già Procuratore di Palermo, ha dichiarato che basterebbe anche una sola denuncia da parte di un cittadino per attivare la Procura. Proponendo l’ennesimo condono tombale, potrebbe essere altresì configurabile l'ipotesi di istigazione all’evasione fiscale. Rimborso dell’IMU: Truffa o Voto di scambio? «Guardi, intanto il presidente Berlusconi ha inviato una lettera ai singoli elettori e forse non si è reso conto, ma proprio si va a cercare queste situazioni, che esiste un articolo del testo unico della legge elettorale che è l’art. 96 della legge del 57 che punisce chiunque offre o promette denaro, punisce con la pena da 1 a 4 anni e una multa da 400€ e punisce anche chi li riceve nel senso che è l’ipotesi tipica del voto di scambio elettorale, cioè che la nostra legge elettorale prevede. E quindi mi fa sorridere perché poi non mi stupirei se qualcuno presentasse un esposto. Mi fa sorridere questa… se qualcuno presentasse una denuncia o un esposto qualche magistrato sarebbe obbligato a valutare questa ipotesi perché esiste una legge che vieta che si offrano o promettano danaro o altre utilità in cambio del voto e punisce anche chi li riceve. È quindi questa la situazione che mi pare paradossale così come prospettata perché non è l’abolizione di una tassa, è una legge retroattiva che restituisce dei soldi e lo fa con una lettera diretta personalmente agli elettori. A me pare che sia una cosa assolutamente diversa da quelle leggi che si è generalmente abituati a vedere. Io quand’ero giovane studente la legge doveva essere erga omnes ed avere generalità ed astrattezza. In caso promettesse la restituzione non si capisce perché prima la mette e nel caso di Prodi con l’euro – tassa si sa già che è una tassa temporanea. Qui si tratta di una tassa che ha già raggiunto i suoi effetti, per cui è già entrata nel bilancio dello Stato; adesso si fa una legge retroattiva con cui si riprendono quei soldi e si restituiscono ai cittadini in cambio del consenso, o no? 

Art. 416 ter c.p. – La pena stabilita dall’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione di denaro». Il voto di scambio è il voto dato regolarmente da un elettore, ma non motivato da scelte politiche frutto di riflessioni sincere e disinteressate, bensì corrotto da qualche tornaconto ricevuto da parte di chi si candida o chi per lui.

Tranquilli, nessuno tra i 60 milioni di cittadini presenterà una sola denuncia. Sennò che Italiani buonisti e mafiosi saremmo?...

Elezioni 2013: Grasso, Monti e il voto di scambio, scrive Aldo Bianchini su “Il Quotidiano di Salerno”. Andando con ordine, anche se in politica è molto difficile, bisogna dire che il primo a sparare la cavolata più grossa è stato Pietro Grasso, già capo della “DNA” e attuale candidato al Parlamento nelle liste del PD; niente di che, con la sua mentalità da magistrato tutto gli è ancora possibile, anche il fatto di strumentalizzare le norme di legge che regolano il “voto di scambio”. Ma che il Presidente del Consiglio in carica, Mario Monti, cadesse subito nella trappola di eclatare la cavolata di Grasso è davvero troppo. Sarà anche una super balla gigante quella annunciata da Silvio Berlusconi per la restituzione dell’IMU ma siamo abituati alle sorprese del Cavaliere e, soprattutto, siamo abituati al fatto che quando dice di abolire qualcosa lo fa davvero. Nessuno si è lanciato così apertamente e maldestramente sulla via del cosiddetto “voto di scambio” come Monti a ruota di Grasso, neppure quotidiani nazionali come Il Corriere della Sera e La Repubblica. Bastava aspettare qualche ora per assistere a come Pietro Grasso, probabilmente ispirato dalle ”anime morte” del PD (appellativo che De Luca ama lanciare verso i vertici del suo partito), è subito rimasto solo ed allo scoperto per non fare la figura dell’incauto persecutore; macchè, il professore continua ad insistere ed anche il giorno dopo ritorna sull’argomento evocando addirittura le regalie di Achille Lauro ai suoi più che probabili elettori; tutto questo dopo che aveva promesso di non citare più il nome degli avversari in campagna elettorale. Peccato che fino a questo momento, ma il tempo è signore, nessun magistrato (milanese !!) ha avviato un procedimento giudiziario a carico di Silvio Berlusconi per “voto di scambio”, sarebbe davvero il toccasana per il Cavaliere che potrebbe guadagnare in un sol colpo quei pochi punti che gli mancano per l’insperata vittoria. Ma non è ancora detto, il tempo è signore dicevo prima e tutto può ancora accadere lungo le rive del “fiume Lambro” che con i suoi 130 km. di lunghezza porta le acque dell’Olona fino al Po’. Alle dichiarazioni di Mario Monti sono rimasto sinceramente perplesso e, pur comprendendo l’ignoranza del professore in materia di leggi che regolano il “voto di scambio”, assolutamente incredulo; con tanti consulenti ridursi a fare la mia stessa fine (umile giornalista di periferia) mi sembra un po’ troppo. Gli consiglio di leggere qualche volta questo giornale online, solo così forse capirebbe qualcosa in più su un argomento difficile e complesso che la magistratura ha usato e usa, spesso, in maniera non omogenea tra procura e procura. Come dimenticare, difatti, gli sfasci che l’accusa di “voto di scambio” ha determinato per la classe politica della prima repubblica agli inizi degli anni ’90 quando era sufficiente dire che un parlamentare aveva scritto una lettera di comunicazione ad un elettore per avviare l’accusa devastante di “voto di scambio”. Molti non ricordano come furono sequestrati e rastrellati gli archivi delle segreterie politiche di Paolo Cirino Pomicino, di Enzo Scotti, di Francesco De Lorenzo e di Giulio Di Donato; i primi tre ministri e l’ultimo addirittura vice segretario nazionale del PSI. Insomma sia Grasso ma soprattutto Monti dovrebbero andare a rileggere l’art. 86 del D.P.R. 570/1960 che regola il “REATO DI VOTO DI SCAMBIO”. Solo per la cronaca è necessario ribadire che il “voto di scambio” si realizza allorchè “taluno dà, offre o promette qualunque utilità” per ottenere il voto. Ebbene nessuna di queste ipotesi si concretizza nelle parole di Berlusconi che ha, invece, promesso la restituzione di quanto ingiustamente (sul piano squisitamente politico !!) versato da tutti quei cittadini che hanno già pagato la tassa denominata IMU (Imposta Municipale Unica) sugli immobili. In pratica Berlusconi non offre per avere ma promette di restituire ciò che è stato ingiustamente tolto. Insomma mi sembra davvero difficile ipotizzare il reato di voto di scambio, anche se come dicevo all’inizio il tempo è galantuomo e probabilmente il piacere a Berlusconi qualche magistrato comunque glielo farà, tanto c’è ancora tempo.

CAMPAGNA ELETTORALE 2018: LA COMMEDIA DEGLI INGANNI E LA NECESSITA’ DELL’OPPOSIZIONE, scrive Franco Astengo il 22 gennaio 2018 su "ancorafischiailvento.org". Il tema più importante che emerge in questo avvio di campagna elettorale sembra proprio essere quello della “commedia degli inganni”. Un conto è fare della propaganda, com’è d’uso in queste occasioni scontando anche una certa quota d’iperbole sia nel mettere in rilievo ciò che si è fatto, sia nell’accentuare la facilità delle promesse. Iperbole sicuramente amplificabile con facilità di questi tempi, attraverso la molteplicità di strumenti di comunicazione di massa utilizzabili, fra i quali i cosiddetti “social” che risultano alla fine incontrollabili nella possibilità di alimentare un dibattito infinito nella forma del ping – pong tra promesse, insulti, bugie varie. Ma il livello di falsità che si sta raggiungendo in questa fase al riguardo del quadro generale evidenziato dalla campagna elettorale da parte dei 3 schieramenti maggioritari del PD, del centro destra e del M5S, francamente pareva sulla carta irraggiungibile, anche rispetto alla stessa forma dello scontro elettorale. Limitiamo l’analisi a soli due punti che emergono in questa vera e propria “commedia degli inganni”:

1)      Mentre il PD cerca di dimostrare la validità delle scelte compiute dai suoi pasticciati governi e omette – facendolo cancellare dalla capacità servile dei mezzi di comunicazione di massa a sua disposizione – il ricordo della vero punto di rottura della legislatura appena trascorsa rappresentato dall’esito del referendum sulla deforma costituzionale del 4 dicembre 2016, gli altri due spezzoni di schieramento politico contendenti si abbandonano a un’orgia di promesse assolutamente campate in aria al punto. Talmente campate in aria che sarebbe il caso di presentare una denuncia penale per “voto di scambio”. Un “voto di scambio” non personalizzato, come accadeva in passato (la promessa del posto di lavoro o cose consimili) ma generalizzato all’intero corpo elettorale. Che il “voto di scambio” fosse la specialità di Berlusconi era noto, ma che così in fretta lo diventasse anche per il Movimento 5 stelle e che da quella parte (mi riferisco alla filosofia del “reddito di cittadinanza” e dei sussidi in luogo del lavoro) diventasse così pericoloso forse non era così facile aspettarselo. Torniamo però alla vicenda della deforma costituzionale: nella campagna elettorale non può essere omesso il ricordo del tentativo svolto dal PD di violare spirito e lettera della Carta Costituzionale per transitare verso un regime nel quale il Parlamento non fosse più centrale, ma subalterno a un governo a vocazione presidenzialista, espresso da un “partito unico” fondato sulla personalizzazione più esasperata, con le “primarie di partito” diventate istituzionali (quasi come il “Gran Consiglio” al tempo del fascismo. In tempi di chiara ripresa delle istanze di stampo fascista questo tema della qualità della democrazia repubblicana deve restare, come fu nel 2016, argomento centrale;

2)      Il secondo punto riguarda addirittura la forma stessa dello scontro elettorale. L’ambiguità contenuta nelle norme della legge elettorale permette, infatti, a questi signori di falsificare impunemente, drammatizzando fintamente, i cosiddetti “duelli” nei collegi uninominali. I principali giornali della borghesia questa mattina ne sono pieni. Su questo argomento debbono essere chiarite due questioni del tutto vitali per il regolare andamento delle elezioni. Non c’è nessun duello all’ultimo sangue. Il trucco è candidare qualcuno reso artatamente popolare attraverso la televisione nel collegio uninominale (fornendo il soggetto in questione di robusti paracadute attraverso le candidature in 5 collegi plurinominali) in modo da far scattare, in maniera incongrua, la trappola del voto utile. Votando per il presunto o la presunta leader nel collegio uninominale perché impegnato/a in una sorta di “duello finale” si trasferisce direttamente il voto alla lista apparentata, grazie al meccanismo che impedisce il voto disgiunto: un impedimento questo del voto disgiunto che potrebbe, è bene ricordarlo, rappresentare una delle cause d’incostituzionalità. Incostituzionalità sula quale sarà ancora una volta chiamata a decidere (per la terza volta consecutiva) la Corte Costituzionale. Come del resto l’altro trucchetto della “spalmatura” dei voti ottenuti, tra l’1% e il 3%, dalle “liste civetta”. Oltre, naturalmente, alla questione dei listini bloccati.

Intanto, parola di Cottarelli e non di un pericoloso estremista, è falso anche il deficit del bilancio dello Stato in quanto sono stati omessi 55 miliardi di perdite dovute, pensante un po’, al salvataggio delle banche e alle rate dei derivati. Banche e derivati un problema enorme che come quello della difesa della Costituzione e della qualità della democrazia appaiono completamente assenti dal dibattito che si sta svolgendo nella campagna elettorale, dai titoli dei giornali, dai post su blog e social network. In questo quadro (desolante) “Potere al Popolo”, della cui esistenza tutti quanto proseguono nell’ignorare, si trova addosso un compito forse superiore alle sue forze ma che i suoi dirigenti e candidati debbono saper assolvere: quello di non apparire minoritari difensori soltanto di alcuni segmenti sociali, ma di rappresentare per intero la necessità dell’opposizione, in Parlamento e fuori. Occorre cimentarsi con un profilo d’identità politica di grande respiro all’altezza di questa grande contraddizione politica come quella che si sta presentando in una fase di forte riallineamento del sistema e dell’opportunità che si presenta per l’entrata in scena di nuove soggettività politiche. Nuove soggettività politiche come quella che debbono in mente i rappresentanti della sinistra d’opposizione (e quindi “Potere al Popolo) per fare in modo da risultare di essere in grado – appunto – di opporsi al tentativo di verticalizzazione del potere nei riguardi di una società che, invece, si sta organizzando, in larghe sue parti, democraticamente in forma orizzontale e che ha bisogno di essere rappresentata politicamente e nelle istituzioni per non finire progressivamente emarginata nell’economia, nella cultura, nella struttura stessa dell’organizzazione sociale. Ancora la legge precisa: “Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma”.

Il lavoro nella campagna elettorale: impegno o “voto di scambio”? Scrive il 2 febbraio 2018 Dario Montanaro, Presidente Nazionale ANCL, su "anclsu.com". Conclusa la composizione strategica degli schieramenti, la campagna elettorale è entrata nel vivo. Il confronto politico oscilla tra promesse e tentativi di riforma di ogni tipo. Sullo sfondo, in realtà, ci sono tre grandi questioni che hanno un importante impatto sociale: la tassazione, il sistema previdenziale e il lavoro. In questi giorni, infatti, stiamo assistendo ad animati dibattiti sulla flat tax, sull’abbassamento dell’età per l’accesso alla pensione, all’avvicinamento tra alcune forze politiche e qualche sigla sindacale per fare fronte comune sulla presunta abolizione della L. n. 92/2012. In tale quadro che ruolo gioca il tema del lavoro? Quest’ultimo si è spesso prestato ad essere oggetto di speculazione (da anni, si sente parlare spesso del famigerato “milione” di posti di lavoro) o, ancora, a merce di scambio per ottenere maggior consenso politico, o meglio come “specchietto per le allodole” con la finalità di catturare dei consensi dall’una o dall’altra parte. Molte campagne elettorali, infatti, sono state incentrate sul lavoro con la finalità di catalizzare consenso. Dichiarare guerra all’art. 18, infatti, è forse servito a ricercare un consenso da parte della classe imprenditoriale; difendere la reintegrazione, al contrario, è servito ad aggregare consenso attorno a quelle forze politiche rappresentanti il precariato e la diseguaglianza sociale. Alla fine di questa battaglia, è poi iniziata la conta dei territori conquistati e delle ferite subite. Da una parte, ci si vantava dell’incremento percentuale dell’occupazione grazie ad alcune riforme di semplificazione normativa (un’operazione che tuttavia si è rivelata inefficace); dall’altra, invece, è continuata la denuncia contro le riforme del lavoro – a partire dalla riforma Fornero sino ad arrivare al Jobs Act – che nulla hanno fatto se non aumentare la frammentazione del lavoro, l’instabilità dei rapporti, l’indebolimento delle tutele e la vanificazione del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo. Questo è lo scenario di riferimento. Tuttavia, è bene evidenziare come il 4 marzo si giochi una partita del tutto diversa: questo Paese ha bisogno di un impegno politico concreto che, al di là dei numeri, al di là di quel “milione di posti”, riesca ad unire il mondo della formazione con il mondo del lavoro, evitando che la dispersione aumenti. Diversi dati confermano anche che il nostro paese è quello con il più alto tasso di soggetti inattivi, con problematiche legate anche al mismatch tra domanda ed offerta di lavoro. Rispetto a queste tematiche, le forze politiche vogliono prendere un impegno serio e concreto oppure continuare a scambiare numeri e statistiche in cambio di una fiducia che svanisce sempre di più?

Elezioni: quel reato – gravissimo - chiamato voto di scambio che nessuno denuncia…, scrive Emilia Urso Anfuso il 04/02/2013 su gliscomunicati.it/agoravox.it. Cos’è un voto di scambio? Lo dice la stessa frase. Io – candidato – ti do o prometto qualcosa, in cambio del tuo voto. Questa è la base. Poi, volendo approfondire, c’è una vera e propria organizzazione nell’approvvigionamento dei voti di scambio. Un conto infatti è lo scambio uno a uno. Ogni singolo candidato dovrebbe entrare in contatto con ogni singolo potenziale elettore: un “lavoro” enorme e disumano. Non è fattibile. Meglio magari, avere un “network” di persone che conoscono persone che conoscono… Così si creano veri e propri bacini di “elettorato” che garantisce – più o meno – un certo tipo di risultato elettorale. E’ un dato di fatto. Da sempre. Basta partecipare ad una riunione di un qualsiasi partito già poco prima dell’apertura di una campagna elettorale. Molti sanno addirittura di poter contare su un numero non indifferente di aficionados pronti a mettere la crocetta a comando. Previo o post pagamento attraverso… Qui si apre un mondo, nel vero senso della parola. Il voto di scambio è una vera e propria attività politica. Ben conosciuta a livello nazionale. Esistono migliaia e migliaia di nominativi ben custoditi in ogni singolo PC di qualsiasi organizzazione politica. Nomi che, al momento opportuno, generano già un primo dato fondamentale: su quanti voti possiamo contare già da ora? Un caso per tutti da ricordare: Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia che ha basato per anni la sua poltrona sui voti di scambio. Furono scoperti migliaia di files in una sorta di faldone, che conteneva nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono ed ovviamente, i desiderata di ogni singolo elettore. Questi files poi, furono messi per un breve periodo a disposizione sul web da una testata nazionale che denunciò all'epoca il fatto. Nonostante questo, nulla di grave accadde a chi si macchiò da un lato di corruzione dall'altro di corruttibilità. Questa tipologia di voto di scambio generalmente poi, produce un reale effetto sull’elettore, che si vede “ricompensare” per la fedeltà dimostrata. Dimostrata ancor oggi, nonostante le tante ammonizioni a non entrare nei seggi elettorali con cellulari dotati di macchina fotografica, con una bella fotografia della scheda elettorale con la croce messa al punto giusto. C’è però una tipologia più espansa di voto di scambio, inquietante perché quasi sfugge alla percezione dell’intera nazione che invece, avvolge del tutto. Poniamo un esempio generico: ogni candidato che dichiari una promessa da realizzare “dopo essere stato eletto” è una forma di voto di scambio generalizzata. Altro esempio: il candidato che generi una forte pressione su qualsiasi tipologia di elettore tentando con le solite promesse di aggiudicarsi addirittura una parte di elettorato altrui, non solo si macchia di voto di scambio, ma ad esso aggiunge la beffa del tentato ladrocinio di una fetta di elettorato. Ecco quindi generarsi -proprio in un periodo, quello elettorale in cui maggiormente la cittadinanza dovrebbe potersi fidare di questo o quel candidato - un reato malsano: corruzione allo stato puro e palese. Partendo da questo presupposto, come si può prendere anche in minima considerazione la possibilità di potersi fidare di chiunque chieda voti prima di aver generato almeno una parte delle promesse proferite anzitempo? Se tizio o caio mi ammaliano al solo scopo – intanto – di ottenere il mio voto, mi promettono qualcosa per cui sono pronto a farmi corrompere – perché è bene ricordare che di corruzione si tratta – come posso poi io prima di tutto fidarmi del candidato e poi ancora di me stesso, pronto a vendere un valore inestimabile (il voto/scelta del cittadino facente parte del Popolo Sovrano) in cambio di qualcosa? L’atto corruttivo fondamentale è proprio questo. Ed è lo stesso atto che, coerentemente, non dovrebbe poi lasciar libero ogni cittadino vendutosi a questo tipo di corruzione, di elevarsi al di sopra del personaggio eletto di turno, nel momento in cui lo steso personaggio presentasse al paese intero la parte peggiore di se, magari con uno scandalo di qualsiasi entità.  In poche parole, come dice un vecchio motto “se è con soldi tuoi che paghi, allora puoi scegliere”. In questo caso, significa solo che se si conserva intatta la libertà di scegliere, si può poi instaurare quella dinamica ormai scomparsa nella nostra nazione, per i motivi appena elencati; la libertà – anche – di mandare a casa chi sbaglia. La lotta alla corruzione in Italia, deve partire davvero dal basso. Finché i cittadini saranno corrotti senza quasi accorgersene, non ci sarà mai speranza di poter sollevare da qualsiasi incarico chiunque si macchi di altra corruzione. Ovviamente poi, nei classici periodi storici di “grande crisi economica” questa metodica non solo si espande ma trova maggiore presa da parte di cittadini, pronti a vendere la propria libertà di individuo per il classico tozzo di pane o per la speranza che – assurdo solo a pensarci – qualcuno restituisca a tutti, miliardi di imposte già pagate, senza peraltro sapere nemmeno dove trovare questo denaro… 

Meditare prima, è la scelta migliore.

ELOGIO DEL VOTO DI SCAMBIO, scrive Il Foglio il 12 febbraio 2013. [L’Imu, la sanità, i vantaggi dello spread basso. Si vota per questo. No?] – Il voto di scambio, nella sua accezione giuridica, consiste in un contratto illecito tra un elettore e un candidato, o un’organizzazione che intende favorirlo, basata sulla scambio del voto, che in qualche modo deve essere documentato (il che contraddice il principio della segretezza), con benefici ricevuti personalmente. E’ bene ricordarsene, visto che la polemica politica pre-elettorale tende a determinare un’estensione del concetto di “voto di scambio” allo scopo di sminuire l’avversario, attraverso la forzatura logica di apparentare a un reato specifico la promessa di benefici estesi a intere categorie, che rappresentano invece l’effetto di scelte politiche o amministrative annunciate del tutto legittimamente (anche se non sempre razionalmente). Quando Mario Monti spiega che un suo successo elettorale comporterebbe, per effetto della sua scelta di fedeltà europeista, una riduzione del costo del servizio del debito pubblico, che a sua volta consentirebbe di attenuare la pressione fiscale e i tassi di interesse richiesti alle aziende, propone uno scambio. Quando Pier Luigi Bersani si impegna ad aumentare il personale e i fondi a disposizione della sanità e della scuola statali, promette un beneficio a categorie specifiche, in cambio del sostegno elettorale richiesto. Sono fin troppo note le promesse elettorali di Silvio Berlusconi in materia soprattutto di tassazione della prima casa – che vanno anch’esse valutate, come quelle degli altri competitori, per la loro effettiva realizzabilità e per il loro effetto e non sulla base di un pregiudizio moralistico sul “voto di scambio”. La demonizzazione dell’impegno concreto in vista di misure specifiche come asse della competizione elettorale, per la verità, è una specialità tutta italiana, quando non diventa addirittura un’arma strumentale di propaganda. La campagna elettorale americana si è giocata principalmente sulle promesse fiscali, le ultime consultazioni in Germania e in Francia anche. In Gran Bretagna tutti ricordano che un monumento della politica nazionale come Winston Churchill fu battuto dalla promessa dei laburisti di dare ai cittadini le dentiere gratis, e che poi tornò al governo quando quella promessa si rivelò illusoria. Il pragmatismo delle promesse di benefici e vantaggi concreti e immediati è senz’altro più prosaico della prospettazione di “meravigliose sorti e progressive” connesse all’applicazione di qualche ideologia salvifica, oltre a non costituire un reato. Promettere il paradiso sovietico o il destino imperiale dell’Italia è stato, in fondo più dannoso che promettere riduzioni delle tasse o dello spread.

PARTITI E SERIETÀ. Promesse e debiti (nostri), scrive Mario Monti su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2018 - pagina 1. Se un candidato promette a un elettore denaro o favori, in certe circostanze è perseguibile penalmente. Se un’impresa fa un’offerta al pubblico e qualcuno l’accetta, l’impresa è giuridicamente vincolata. Ma se un partito promette agli elettori benefici o riduzioni fiscali e non dice nulla sugli oneri per il bilancio e sulla copertura, non rischia nulla. Mentre un mini voto di scambio, fatto con soldi suoi, giustamente può mettere un politico nei guai, un maxi voto di scambio, proposto da un partito agli elettori a valere sui soldi dei cittadini, non gli crea alcun problema. Stessa cosa in caso di violazione delle promesse. Le leggi impongono una certa serietà ai comportamenti tra individui. Ci lasciano invece esposti, come cittadini, a gradi elevati di irresponsabilità proprio nella fase più importante e delicata della nostra vita collettiva: quella in cui scegliamo chi farà le leggi e governerà. L’attuale campagna elettorale sta battendo ogni record, per l’irrealismo delle proposte. Le cause sono probabilmente due. Queste sono le prime elezioni italiane dell’era del Fake. L’assuefazione alle fake news ha aperto la strada a fenomeni collegati: i fake programs, particolarmente immaginativi per partiti nuovi, che non possono per ora attrarre sulla base di comprovate capacità di governo, e le fake histories, con le quali viceversa partiti che hanno governato in anni recenti o recentissimi cercano di riscrivere gli episodi meno felici di quelle fasi.

L’ altra ragione, che contribuisce a spiegare il fiorire di proposte poco responsabili sulla finanza pubblica, è la perdurante accondiscendenza monetaria della Banca Centrale Europea. Qualche anno fa questa ha svolto una funzione essenziale per superare la crisi finanziaria della zona euro e favorire la ripresa economica. Il protrarsi del quantitative easing ha peraltro causato, con il finanziamento facile del settore pubblico e i tassi di interesse molto bassi, un effetto anestetico, un artificiale offuscamento delle reali condizioni della finanza pubblica e dell’economia. Si sono così attenuati gli stimoli a completare il risanamento finanziario e le riforme strutturali. Il tema non è nuovo. Erano di questo tipo le ragioni per le quali il Corriere, alla fine degli anni Settanta, chiedeva che la Banca d’Italia fosse meno subordinata alle esigenze di finanziamento del Tesoro e nel 1981 appoggiò il «divorzio», deciso consensualmente dal ministro Beniamino Andreatta e dal governatore Carlo Azeglio Ciampi. Tre anni fa, per motivi contingenti ma validi, si è in parte disfatto a Francoforte quel che era stato fatto allora a Roma. Questa temporanea facilitazione, come ha annunciato il presidente Mario Draghi, è destinata a terminare. Sarebbe un grave errore se i partiti lanciassero programmi pensando che questa bonanza possa durare per i cinque anni della prossima legislatura. Tra i diversi partiti, nelle ultime settimane si sono osservate due convergenze: una dichiarata e positiva, l’altra non dichiarata e pericolosa. Da un lato, nessuno sembra più promuovere passi per un’uscita dall’euro. Dall’altro, i partiti propongono politiche molto diverse, come è naturale, ma che sembrano avere un elemento in comune: quale più, quale meno, comportano effetti sul bilancio pubblico che rischiano di rendere impossibile o precaria la permanenza dell’Italia nell’euro. L’affacciarsi di tali dubbi azzopperebbe il nostro Paese proprio nel momento in cui si sta aprendo un’occasione irripetibile per essere a fianco della Germania e della Francia nel ridisegno dello scenario e forse delle regole dell’Unione Europea. Ogni promessa è debito, dice il proverbio. In questo caso, però, le promesse sono dei partiti ma il debito è nostro. Non possiamo restare inerti. È vero che le leggi non ci proteggono, ma non siamo disarmati. Mai come questa volta, mi pare, i giornali e i media in genere stanno facendo un lavoro serio. Non abboccano. Anche ricorrendo a istituti di ricerca, cercano di esplicitare i costi e le conseguenze dei diversi programmi. Se l’opinione pubblica non accetterà di essere presa in giro, i partiti hanno ancora un mese per rimediare. Anche nel commercio, la legge prevede che l’offerta al pubblico possa essere revocata. Almeno quei partiti che tengono a non essere considerati «populisti» potranno rivedere o integrare la loro offerta. Per esempio, c’è qualcuno che si sentirebbe di promettere anche qualche sacrificio ben distribuito, qualche riduzione di rendite di posizione, qualche obiettivo e strumento in più per la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione? C’è qualcuno che, addirittura, si impegnerebbe a non fare nessun condono (fiscale, previdenziale, valutario, edilizio o altri) per tutta la legislatura? In altre parole, c’è qualcuno che aspira al voto di quegli elettori che vorrebbero, semplicemente, un’Italia più seria?

Elezioni 2018, programmi sotto la lente. Bonus e promesse ma conti alle stelle. Meno tasse, più lavoro e incentivi. Cosa propongono i partiti (e con quali coperture), scrive Antonio Troise il 18 febbraio 2018 su "Quotidiano.net". Dentro c’è ogni cosa: meno tasse per tutti, stop ai superticket e alle file negli ospedali, pensioni flessibili e magari anche un po’ più ricche, occupazione stabile con tanti contratti a tempo indeterminato, stimolati da ricchi incentivi fiscali. E, poi, tanti investimenti pubblici, una raffica di bonus, sconti a pioggia per famiglie e imprese. Insomma, chi più ne ha più ne metta di promesse e impegni. Secondo un rapporto di Crédit Suisse, la coalizione che presenta il conto maggiore dal punto di vista delle spese è sicuramente il centrodestra con un programma che vale, più o meno, fra i 104 e i 130 miliardi di euro. Non hanno badato ai costi neanche i Cinquestelle, che si presentano agli elettori con un piano che si attesta sul 4% del Pil, con misure che oscillano fra i 50 e i 60 miliardi. Più moderate le suggestioni che arrivano dal Pd e che non dovrebbero superare i 18 miliardi, ma si tratta di stime molto indicative: secondo altri osservatori i costi sarebbero più che doppi. Del resto molti capitoli dei programmi sono appena abbozzati. E basta poco per far saltare i conti: lo stop alla riforma Fornero, giusto per fare un esempio, costerebbe qualcosa come 140 miliardi entro il 2035, con una punta di 20 miliardi proprio alla fine della prossima legislatura. Ma le zone più in ombra sono le coperture. Quasi nessun partito si è esercitato più di tanto su questo terreno. Due gli interventi più gettonati (ma, anche, non a caso, più difficili da quantificare): spending review e tax expenditures. Che, tradotti in italiano (e in soldoni), significano più tagli alla spesa pubblica e meno sconti fiscali per famiglie e imprese. Per il resto, si naviga praticamente a vista. In questo senso, le idee più chiare sono nelle punte estreme degli schieramenti: da un lato la Lega, che vuole uscire dall’euro e far saltare il patto di stabilità. Dall’altro, la sinistra-sinistra che ripropone la patrimoniale sui redditi più ricchi. In mezzo c’è di tutto: dai condoni alla carbon tax, dalle privatizzazioni alla valorizzazione del patrimonio dello Stato fino alle varie forme di rottamazione delle cartelle esattoriali. Tutte voci che da anni si ripetono e non hanno impedito la trasformazione dei programmi elettorali della vigilia in tanti libri dei sogni una volta chiuse le urne. Vedremo se la prossima legislatura riuscirà a evitare l’ennesima metamorfosi.

Sconti per i figli e 80 euro a largo raggio. Il Pd lancia la soluzione Eurobond. Capitolo famiglie: 240 euro di detrazione Irpef mensile per i figli a carico fino a 18 anni e 80 euro fino a 26 anni, per i redditi sotto i 100mila euro. Altre misure: ridurre il cuneo fiscale, 80 euro estesi alle partite Iva, raddoppio dei fondi del reddito di inclusione, pensione di garanzia per i giovani, incentivi fiscali per badanti. Per molte voci mancano i dettagli. Le proposte valgono fra i 35 e i 57 miliardi; circa 30 miliardi dovrebbero arrivare da una nuova stretta sull’evasione fiscale. Si annuncia un nuovo piano di spending review, dalla razionalizzazione degli acquisiti della Pa e dalla digitalizzazione della burocrazia. Si propongono anche gli Eurobond. Via il canone agli over, Gentiloni ci prova con i regalini elettorali. Avanti popolo. Centomila anziani non pagheranno la tassa tv Lega e 5stelle: «Una delle tante marchette per il voto». Dopo Prodi domenica anche Veltroni sarà sul palco con il premier Leu attacca, D’Alema al Professore: «Un compagno che sbaglia», scrive il 20 febbraio 2018 Daniela Preziosi su "Il Manifesto". Il 5 gennaio Matteo Renzi aveva proposto l’abolizione del canone Rai. Ma era stato accolto da una salva di fischi. «Una stravaganza, una presa in giro», aveva commentato il ministro Carlo Calenda, ed era stato il più composto. Non a caso poi nel programma elettorale la proposta era sfumata. Ieri il presidente del consiglio Paolo Gentiloni ha annunciato un atto di governo fresco di giornata: «Un decreto che aumenta la fascia di reddito per le persone over 75 esentate dal pagamento del canone della Rai. I nuclei familiari over 75, che saranno esentati diventeranno 350 mila dai 115mila di oggi». In sostanza 235mila anziani non abbienti in più non pagheranno la tassa sulla tv pubblica. La fascia di reddito esentata passa dai 6mila agli 8mila euro l’anno. «So quanto la tv sia importante soprattutto per queste fasce sociali in difficoltà e sole», chiosa il premier. Una scelta dell’ultimo momento? Da Palazzo Chigi si assicura che era prevista da tempo. Il decreto è bollato dai leghisti e dai cinquestelle come «mancia elettorale» (Calderoli: «Lieti che centomila anziani in più non debbano pagare per vedere la tv, ma perché queste misure non sono state adottate prima e sono state tenute per le ultime settimane come marchette elettorali?»). Nonostante l’evidenza, le sinistre non si impegnano nella polemica: si tratta pur sempre di una meritevole riduzione di tasse per una fascia debole. Ma il gesto parla al paese ed è l’ennesima sottolineatura del Gentiloni style. Persino sul canone Rai il premier porta a casa un risultato concreto e più credibile delle pirotecniche promesse di Renzi. E quel Calenda (di giorno in giorno più popolare) che aveva attaccato Renzi sull’abolizione del canone, stavolta è uno dei firmatari del decreto, con il collega Padoan. La politica del poco ci compra col canone Rai, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Il premier Gentiloni ha annunciato ieri che ha allargato la platea dell'esenzione dal canone Rai: resta fissa l'età degli aventi diritto, 75 anni, ma si alza il reddito minimo annuo, da 6.713 a 8.000 euro. A dieci giorni dal voto, l'annuncio sa molto di spot elettorale, per di più sulla pelle di anziani indigenti. Perché, se vogliamo, la notizia è che con il governo della sinistra continueranno a pagare il canone Rai pensionati a poco più del minimo, con cioè un reddito mensile di 650 euro e per il quale il balzello televisivo imposto in bolletta vale più del dieci per cento dei loro introiti. Uno può obiettare: meglio poco che niente. Certo, questo provvedimento viene incontro in qualche modo ad alcune decine di migliaia di cittadini che non saranno sicuramente offesi per l'inaspettata sorpresa. Ma per quanto ancora ci dovremmo rassegnare alla «politica del poco» che ha caratterizzato, per mano della sinistra, la sciagurata legislatura che sta per chiudersi? Pochi sgravi fiscali, poche esenzioni e poche pensioni, oltre a poche espulsioni di clandestini, hanno portato ovviamente a poca crescita, poco benessere e tanta disoccupazione, come dimostrano i dati economici che vedono l'Italia fanalino di coda dell'Europa nella ripresa, che pure altrove c'è eccome. In ogni dove e in ogni comparsata televisiva, Matteo Renzi si vanta di questo «poco» (ripete come un mantra: «Certo, si poteva fare di più») e il suo successore Paolo Gentiloni si impegna, con un certo vanto, a proseguire su quella strada. La sinistra, dai famigerati ottanta euro in poi, è diventata il «partito del poco» e forse non a caso a giorni incasserà anche pochi voti. Io mi auguro che le imminenti elezioni siano l'occasione per riscoprire la «sfida del tanto» perché non si può continuare a curare un malato grave con l'Aspirina. Vogliamo tanto taglio delle tasse (la flat tax, per esempio, va in questa direzione), tanti investimenti in opere pubbliche, tanto aiuto a chi non ce la fa e tante espulsioni di stranieri non aventi diritto. Di recente Paolo Gentiloni ha detto, affrontando questi temi, che non è tempo di cicale. Siamo d'accordo, no a sprechi e bagordi. Però non vogliamo passare il resto della nostra vita a vivere da formiche che, per quanto sagge siano, prima o poi finiscono schiacciate, vittime della loro lentezza e fragilità.

Irpef e Iva rimodulate all’ombra della Ue. Lista Bonino a basso rischio di buco, continua Antonio Troise il 18 febbraio 2018 su "Quotidiano.net". È agganciato a Bruxelles il programma della lista +Europa guidata da Emma Bonino, a cominciare dalla difesa della legge Fornero. Fronte fisco: riduzione delle imposte dirette, tre aliquote Irpef (20% fino a 40mila euro; 30% fino a 60mila e 40% oltre), Ires al 20%. Iva rimodulata. Prevista un’Agenzia per la ricerca. Il rischio coperture è fra i più bassi. Rimodulare l’Irpef potrebbe costare fra 9 e 12 miliardi. Implementare il piano 4.0 supererebbe i 10 miliardi all’anno. L’ossigeno arriverebbe dal congelamento della spesa per 5 anni e dal taglio dei sussidi. Il frutto della lotta all’evasione ridurrà le imposte e non alimenterà nuova spesa corrente.

Lorenzin punta su welfare e imprese. Tagli alla spesa e autofinanziamento. Il welfare secondo Civica popolare: nidi gratuiti, defiscalizzazione aziendale, taglio delle liste d’attesa della sanità, via il super ticket. Reddito di inclusione per contrastare la povertà. Imprese: super e iper ammortamento strutturali, incentivi alle start up. Lavoro: decontribuzione dei neoassunti, taglio del cuneo. Il programma non indica le coperture, ma è prevista una sorta di autofinanziamento. Fra le misure messe in campo per fare fronte al programma elettorale, oltre alla spending review, sono in campo anche una stretta all’evasione e una forte semplificazione del nostro sistema fiscale e burocratico.

Articolo 18 e sostegno allo studio. Leu rispolvera la carbon tax. Tema centrale il diritto allo studio, con la cancellazione delle tasse universitarie per gli studenti in regola con gli esami. Importanti la lotta alla criminalità e la reintroduzione di tutele per i lavoratori eliminate dal Jobs Act (ripristino dell’articolo 18). Previsti un reddito di inclusione e l’adozione dello ius soli. I capitoli più costosi sono l’estensione del reddito di inclusione e lo stop all’innalzamento dell’età pensionabile previsto dalla Fornero: operazione che, da sola, costerebbe circa 20 miliardi. Più altri 1,6 per abolire le tasse universitarie. Leu punta a introdurre una carbon tax per finanziare gli interventi in infrastrutture. 

Il M5S sogna il reddito di cittadinanza. Sovrastimato lo stop alle grandi opere. Il piatto forte è il reddito di cittadinanza: 812 euro al mese per un single, 1.706 per una famiglia di due adulti con due figli sotto i 14 anni. Al quale fa da sponda la pensione di cittadinanza. Inoltre: cambiare la legge Fornero e aumentare le risorse per la sanità pubblica e gli aiuti alle famiglie. No tax area fino a 10mila euro. Il programma vale circa 78,5 miliardi, di cui 62,5 di maggiori spese e 16 di minori entrate: la spending review dovrebbe dare circa 32 miliardi, poi c’è il taglio delle grandi opere inutili (7 miliardi, ma l’importo è sovrastimato). Sul fronte entrate, la parte del leone la fa la riorganizzazione di esenzioni, detrazioni e deduzioni. 

Pensioni minime più alte e flat tax. Forza Italia taglia detrazioni e aiuti. Il punto principale è una riforma fiscale basata su una flat tax basata sull’aliquota al 23% con una no tax area innalzata a 12mila euro. In programma: cancellazione dell’Irap, aumento delle pensioni minime a 1.000 euro per tredici mensilità, ‘reddito di dignità’ contro la povertà, abolizione di bollo auto e tasse sulla prima casa. Il programma di Forza Italia vale più o meno 100 miliardi: la flat tax a regime costerebbe circa 50 miliardi e sarebbe finanziata abbattendo detrazioni e incentivi a famiglie e imprese. Invece un’altra quota (30-40 miliardi) arriverebbe dal recupero dei cattivi trasferimenti alle imprese e dal recupero dell’evasione fiscale. 

Salvini cancella la legge Fornero. Le risorse? Sforando i parametri Ue. Oltre alla flat tax subito al 15%, propone la sostituzione integrale della legge Fornero, con lo stop all’adeguamento dell’età pensionabile e la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Cavallo di battaglia resta il contrasto dell’immigrazione clandestina. Abolizione della Fornero e aliquota Iperf unica al 15% valgono circa 100 miliardi. Salvini resta convinto sull’uscita dall’euro: la maggior parte delle risorse dovrebbe essere raccolta andando contro le regole del fiscal compact. Buona parte delle coperture (35 miliardi) arriverà dalla rottamazione delle cartelle. 

Meloni, famiglia e sicurezza al centro. Costi variabili per l’ordine pubblico. Famiglia al centro: asili nido gratuiti, reddito d’infanzia (assegno da 400 euro mensili per nuovi nati fino ai 6 anni), congedi parentali retribuiti all’80% fino al 6° anno, deducibilità del costo del lavoro domestico. Altro cavallo di battaglia è la sicurezza: stipendi più alti alle forze dell’ordine e nuova legge sulla legittima difesa. Le misure per le famiglie costerebbero circa 20 miliardi. Ai quali aggiungere oltre 4 miliardi per retribuire all’80% i congedi parentali. Più difficile, invece, quantificare il costo degli interventi in materia di sicurezza: molto dipenderà dalle decisioni sugli aumenti e sull’incremento di organico delle forze dell’ordine. 

Voto di scambio, non è necessario lo «scambio» basta la promessa, scrive Alessandro Galimberti l'11 agosto 2017 su “Il Sole 24 ore". La corruzione elettorale è un reato di pericolo astratto, di pura condotta e a dolo specifico: non è necessario pertanto lo scambio dei beni o delle prestazioni, ma solo la promessa o l’accordo tra le due parti. La Terza sezione penale della Cassazione (sentenza 39064/17) ha reso definitiva la condanna a 8 mesi di reclusione e a 12mila euro rideterminata dalla Corte d’appello di Napoli nei confronti di un cittadino elettore. Questi, in concorso con altri due coimputati - una candidata alle comunali e il fratello - aveva promesso il sostegno in cabina elettorale non tanto proprio, in quanto residente altrove, ma di tre familiari abitanti nel piccolo centro all’epoca della consultazione incriminata, nel 2009. Due anni più tardi il fratello dell’imputato, destinatario della promessa di voto di scambio, era stato assunto in un’agenzia di sicurezza (peraltro a tempo determinato e per soli 3 mesi). A fronte delle lamentele contenute nel ricorso, in cui i difensori dell’elettore lamentavano la genericità delle contestazioni e - appunto - il riscontro molto scolorito alla promessa della candidata, la Terza penale ribadisce che la struttura del reato di corruzione elettorale prescinde del tutto, in ogni sua formulazione, dal vero e proprio scambio delle prestazioni e, anzi, anche dalla realizzazione di una sola di esse.

La sentenza di Cassazione 39064/2017: Il primo comma (l’articolo è l’86 della legge 579/1960) punisce il candidato (o chi per lui) offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori, anche utilità dissimulate (per esempio rimborsi, vitto alloggio o spese e servizi). La seconda ipotesi punisce l’elettore che, per dare o negare firma o voto, accetta offerte o promesse o riceve denaro o altra utilità. In entrambe le fattispecie, annota l’estensore della Terza, si prescinde completamente dalla realizzazione del pactum sceleris, avendo il legislatore del 1960 arretrato la soglia di punibilità al momento dell’accordo e/o della promessa. Ciò è reso ben evidente nel caso in cui l’iniziativa spetta al “politico” - o a chi per lui - in cui il reato, che peraltro è a concorso eventuale e non necessario, si consuma al momento in cui viene profferita la promessa a vantaggio del terzo. Se poi si realizzerà la promessa, come nel caso di specie e a “scoppio” ritardato, ciò è del tutto indifferente per far scattare la punibilità. Ma anche nell’ipotesi più strutturata del comma 2 - il vero e proprio accordo tra elettore e candidato - il reato si consuma al momento dell’accettazione dell’offerta o della promessa (e ovviamente anche alla ricezione del denaro), restando indifferente ogni e ulteriore esecuzione dell’accordo. Tra l’altro la corruzione elettorale è reato plurioffensivo, perchè presidia sia l’interesse dello Stato a libere e corrette consultazioni, ma anche allo stesso tempo il diritto politico di ogni elettore alla libera espressione, e prima ancora determinazione del voto.

Non c' è dibattito tv in cui, parlando di programmi elettorali, alla fine non spunti la domanda sui costi delle promesse. Abolire la Fornero? Sì, ma quanti soldi servono? Scrive Maurizio Belpietro per la Verità il 23 gennaio 2018. Ridurre le tasse a una sola aliquota, magari del 15 per cento? Ok, ma il denaro dove lo troviamo? Aumentare le pensioni al minimo? Fantastico, ma se l'Inps è già in deficit, come si fa? L' elenco naturalmente potrebbe continuare, perché la fantasia dei leader politici in campagna elettorale spazia dai bonus agli incentivi, senza farsi mancare nulla. Tuttavia il problema non sono le promesse, che in buona parte non sono realizzabili per totale mancanza di fondi, ma ciò che i partiti e il governo hanno già speso proprio in vista del voto del 4 marzo. Infatti, non ci sono solo le balle che si raccontano agli elettori per invogliarli a votare un partito o un candidato. Ci sono anche le marchette elettorali, quelle operazioni fatte tenendo un occhio agli sbandierati interessi della collettività e un altro alla ricaduta che potrebbero avere i provvedimenti decisi al momento del voto. Non stiamo parlando solo dei famosi 80 euro prima delle elezioni europee o del più recente contratto degli statali, che - quando si dice il caso - garantirà aumenti di stipendio proprio con la busta paga di febbraio. No, stiamo alludendo a qualcosa di più subdolo, che adesso vi spieghiamo subito. Prendete per esempio il caso di Maria Elena Boschi, la cocca del segretario del Pd. Dopo la vicenda di Banca Etruria, trovare un collegio che se ne facesse carico era diventato un problema. Di candidarla in Toscana, cioè a casa sua, dove tutti la conoscono, non c'era neanche da parlarne, perché da quelle parti gli elettori che hanno visto andare in fumo i propri risparmi sono tanti e si rischiava una rivolta anche tra i compagni. A qualcuno dunque era venuta l'idea di farla emigrare in Campania, dalle parti di Ercolano, dove il Pd renziano andrebbe alla grande. Ma è bastato parlarne per far insorgere i militanti, per cui anche da quelle parti la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio si è trovata le porte sbarrate. Che fare, si devono essere chiesti dalle parti del Nazareno? E allora ecco spuntare l'idea risolutiva: spedirla in Alto Adige, sotto l'ala protettiva della Südtiroler Volkspartei, il partito altoatesino da sempre alleato del centrosinistra che in cambio, come è noto, ha fatto più di una concessione alla Provincia autonoma. Certo, l'ex ministra delle riforme è un boccone difficile da mandar giù anche per la Svp, perché il flop della revisione costituzionale, ma soprattutto le polemiche relative alla banca di cui era vicepresidente il padre, non sono cose che si dimenticano in fretta. Tuttavia i sudtirolesi non potevano scordarsi del regalo che proprio pochi mesi fa il governo Gentiloni ha fatto a Trento e Bolzano. A novembre, con un emendamento al decreto fiscale, alla società che gestisce l'autostrada del Brennero è stata generosamente garantita la proroga trentennale della concessione. Nessuna gara, nessun bando, ma un semplice protocollo d' intesa fra ministero e i presidenti delle due Province. I quali, ovviamente, sono anche quelli che indicano i vertici. Insomma, invece di essere privatizzata, l'autostrada è rimasta in famiglia e anche gli utili, di cui ovviamente gode il Trentino Alto Adige. Due mesi fa il senatore di Forza Italia, Lucio Malan, calcolò che il dono valesse 5,5 miliardi, senza contare l'indotto politico. Vi sembrano troppi tutti questi soldi per un seggio? Forse, ma qualcuno deve aver pensato che per impedire la caduta della Boschi non si dovesse badare a spese. Anche dalle parti di Siena c' è un'altra operazione che ai contribuenti è costata un occhio della testa e, guarda caso, anche da quelle parti verrà candidato l'uomo che ci ha messo la faccia, ovvero il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, colui che ha licenziato il precedente amministratore delegato Fabrizio Viola. L' ad voleva fare in fretta e chiudere la partita della ricapitalizzazione prima del referendum del 2016, ma la botta per il governo sarebbe stata grossa. Così si decise di rinviare. Quanto sia costata l'attesa è noto: subito 4 miliardi, che naturalmente ha dovuto mettere lo Stato, cioè i contribuenti, e che poi sono diventati 5,5. E, quando si dice la coincidenza, il ministro che ha seguito l'operazione andrà a chiedere il voto proprio ai senesi, pur essendo romano, emigrato per anni in giro per il mondo. Attenzione, non si tratta di voto di scambio, che in questo caso non c' entra nulla, ma di una campagna elettorale dove per non essere spazzati via non si bada a spese. Con i soldi degli italiani.

Bonus pensioni, la promessa di Renzi costa tre miliardi. "80 euro anche sulle pensioni minime". Il premier Matteo Renzi adesso fa le sue promesse in vista delle amministrative e prova a sedurre i pensionati con promesse che probabilmente non riuscirà a mantenere, scrive Claudio Torre, Mercoledì 06/04/2016, su "Il Giornale".  "80 euro anche sulle pensioni minime". Il premier Matteo Renzi adesso fa le sue promesse in vista delle amministrative e prova a sedurre i pensionati con promesse che probabilmente non riuscirà a mantenere. Ma dando credito alle sue parole i pensionati cominciano a farsi i calcoli chiedendo aiuto anche a qualche commercialista per capire chi davvero potrebbe ottenere il bonus. Se infatti gli 80 euro venissero dati a tutti i pensionati che hanno un reddito pensionistico non superiore al minimo, la platea scenderebbe a 2,3 milioni di anziani (questo perché una parte dei pensionati al minimo beneficia anche di altre prestazioni, come per esempio la reversibilità). In questo caso, quindi, la maggior spesa annuale scenderebbe a 2,3 miliardi di euro l’anno. La cosiddetta pensione minima viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello fissato ogni anno per legge, considerato il "minimo vitale" di sopravvivenza. Il calcolo cambia a seconda che la persona sia singola oppure sposata. Per il 2016 è 501,89 euro al mese. Nelle intenzioni del governo ciò che sembra evidente è che difficilmente sarà toccato il limite di legge, portandolo dai quasi 502 euro di oggi a 582 euro. Alberto Brambilla, direttore di Itinerari previdenziali, ex consigliere di amministrazione dell’Inps e sottosegretario al Lavoro nel governo Berlusconi 2001-2005, spiega a Repubblica le sue perplessità: "Il messaggio che si dà è pericoloso. Perché sforzarmi di versare contributi, anziché lavorare in nero, se poi mi viene assicurata comunque una minima da quasi 600 euro? Un livello questo assai vicino alle pensioni a calcolo, oggi attorno ai 650-700 euro, cioè quelle pensioni basse perché frutto di una vita contributiva intermittente. La differenza è che in questo caso il lavoratore precario ha pagato tasse e contributi per tutta una vita, il pensionato minimo no".

Voto di scambio di Grillo: prestiti con i nostri soldi. Il trucco dei Cinque stelle per captare consensi: aiutano le imprese con il microcredito ma dimenticano che il fondo è foraggiato dagli stipendi pubblici dei parlamentari, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Quando si dice l'allievo che supera il maestro. Il Movimento Cinque stelle è riuscito in un'impresa leggendaria. I grillini sono passati dal vecchio assunto della sinistra cachemire et champagne «abbiamo una banca!», di fassiniana memoria, a «siamo una banca!».  Direttamente. L'idea è ghiotta, non c'è che dire, e anche furbona. Lo slogan efficacissimo: «Possiamo salvare un'impresa al giorno per i prossimi 10 anni, i soldi li mettiamo noi dai nostri stipendi». Nemmeno quel gran ganassa di Matteo Renzi con lo spot elettorale degli 80 euro al mese seppe fare di meglio. I Grillo boys annunciano fino a 25mila euro di finanziamento (con una possibile ulteriore integrazione di 10mila, per un totale di 35mila euro) di cui potranno godere subito duemila imprese. Un fondo di rotazione alimentato dalle rate restituite e dai nuovi stanziamenti che arriveranno dagli stipendi del M5S e dal ministero dello Sviluppo economico. E c'è pure un sito, www.microcredito5stelle.it , che spiega tutto. Il gran capo Beppe specifica sul blog: «Non servono garanzie reali, basta un business plan e un'idea sostenibile di impresa. Il credito viene erogato a tassi molto bassi su un termine fino a 7-10 anni». Tutte le persone che vogliano intraprendere una nuova attività imprenditoriale o che abbiano un'impresa da meno di 5 anni da oggi possono bussare a casa Grillo. Microimprese fino a 5 dipendenti, società a responsabilità limitata semplificata e cooperative fino a 10 dipendenti, lavoratori autonomi e società di professionisti. Un bel consulente del lavoro e il gioco è già fatto. La Banca (nazional) popolare Cinque Stelle ha aperto gli sportelli. Il Movimento dice di avere già 50 milioni di euro disponibili. Soldi che arrivano dai due Restitution day , quando i parlamentari Cinque Stelle hanno versato la metà delle loro indennità insieme alle eccedenze della diaria non rendicontata, compresi i famigerati scontrini. Tradotto: soldi pubblici. L'iniziativa è nobile. I parlamentari grillini hanno deciso di destinare quei soldi a un fondo per le imprese e non al loro conto corrente. Ma va comunque specificato che il loro bel gesto non è stato reso possibile grazie ai fondi personali, ma bensì con parte dei soldi pubblici che gli stimatissimi onorevoli-cittadini ricevono ogni mese da Camera e Senato. La cosa è ben diversa. Tutti coloro che da ora in poi riceveranno soldi dalla Bank of Grillo («40 imprese al mese»), matureranno un enorme debito di riconoscenza nei confronti di chi gli ha fornito quei finanziamenti. Riconoscenza che potrebbe essere sfruttata da Grillo, Casaleggio & Co. al momento più opportuno. Sotto elezioni per esempio. Silvio Berlusconi è stato accusato di voto di scambio per molto meno. Ma, come insegna il nostro presidente del Consiglio, in politica non conta tanto quello che si fa, ma quello che si fa credere di aver fatto. Occhi sgranati, voce tremante, sguardo spiritato, Alessandro Di Battista (che, infatti, da grande aspira a fare il premier) ha pubblicato sul blog di Grillo un video per presentare questo «giorno storico» e invitare tutti al mercato romano del Testaccio insieme al vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio con il quale si è cimentato nello sport preferito dai Cinque Stelle: lo srotolamento dello striscione (con cifra dell'assegno da 10 milioni per il fondo microcredito). Strette di mano al banco del pesce, sorrisi a quello dei formaggi, selfie con gli ambulanti. Passa dall'auto congratulazione («È una cosa buona, datecene atto») alla lezione di filosofia («Un mare è fatto di tante gocce»). Il banchiere Di Battista della Bank of Grillo ora è pronto a incassare.

Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”. Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.

Politiche 2018, voto di scambio: il listino prezzi, scrive Iacchite l'1 febbraio 2018. La campagna elettorale è partita e con essa tutta la giostra di promesse e di impegni che difficilmente saranno mantenuti. In tanti hanno lanciato l’allarme per il concreto pericolo di voto di scambio, in questa tornata elettorale: i vescovi, le procure, e i tanti politici che di giorno hanno una faccia e la sera un’altra. Anche questa volta nessuno riuscirà a fermare lo squallido mercimonio del voto che ad ogni tornata elettorale si ripete sempre. Nonostante i finti appelli alla correttezza e al rispetto della libertà di espressione del cittadino. Una chimera da noi. Qui lo sanno anche le pietre: il voto non è mai stato libero. Perché il “bisogno” è tanto, e c’è chi, pur di soddisfare le proprie necessità materiali magari solo per qualche giorno, è disposto a vendere il proprio voto. E questo i politici mascalzoni lo sanno bene. Approfittarsi della miseria altrui per scopi elettorale è la cosa più squallida che un politico possa fare. Ma da noi è prassi. La macchina organizzativa dei marpioni è in moto, e i tanti galoppini al loro servizio sono già in piena attività. Ed è inutile denunciare, tanto da noi anche se li fotografi mentre cedono denaro in cambio del voto, nessuno interviene. Specie la procura di Cosenza che più che far rispettare la Legge, è impegnata, per mero tornaconto personale, a tutelare proprio quei politici disposti a pagare pur di essere eletti. E’ così che funziona, e tutti lo sanno. Del resto basta guardare le denunce fatte alla procura di Cosenza sul voto di scambio, anche alle ultime amministrative (una depositata dall’avvocato Paolini) tutte sistematicamente insabbiate, per capire che niente e nessuno può fermare questo squallido mercimonio. Gira da diversi giorni in città il listino prezzi dei voti, che noi riportiamo così come lo abbiamo sentito: Un voto da noi vale 50 euro, o due buoni spesa da 25 euro. Ma c’è anche chi si offre di pagare le bollette, ma per usufruire di questo “servizio” bisogna assicurare al marpione il voto di tutta la famiglia. Oltre al denaro gira da giorni a Cosenza la “promessa”, in cambio del voto, di un posto di lavoro nella sanità privata, o in nascenti cooperative che non nasceranno mai. C’è anche chi promette una casa popolare a chi non ce l’ha. O la sistemazione del figlio, anche per pochi mesi: i famigerati corsi di formazione. E poi promesse del tipo: di aiuto a farti prendere la pensione, ti aiuto a sbrigare quella pratica, ti aiuto a far diventare il tuo terreno edificabile, ti trovo un posto all’ospedale di Parma per l’operazione di tuo padre, ti faccio cancellare tutte le multe, ti apparo quel processo, ti stabilizzo tuo nipote, ti faccio avere gli arretrati, e se vinco ti mando anche in vacanza una settimana a Guardia. E per finire ci sono gli accordi con le organizzazioni masso/mafiose che vengono trattate “in altre sedi” e con maggiore riguardo. La lista è lunga, e potrebbe continuare, e tutti sanno che non diciamo niente di nuovo. E’ così che funziona da noi: vince chi più spende. Chi riesce a mobilitare più famiglie possibili comprando la loro miseria. E questo spiegherebbe come mai alla fine vengono eletti sempre gli stessi. Perché i marpioni politici sanno bene che per conservare il loro potere hanno bisogno di mantenere nell’indigenza più gente possibile, che tradotto significa: più morti di fame ci sono, più voti da comprare per i marpioni. Ed è per questo che rubano e sperperano il denaro pubblico, piuttosto che farlo arrivare a chi ne ha veramente bisogno: non gli conviene sistemare veramente le cose, altrimenti dove troverebbero i voti? Senza i morti di fame molti di loro non sarebbero mai eletti. La miseria è funzionale a questo sistema. Ed proprio sulla miseria della gente che vivono, calpestando la dignità di chi è costretto a rivolgersi a loro, per risolvere un problema, perché non c’è altra alternativa. Sta qui la loro forza. In un “sistema” dove i principi cardini della Costituzione sono sistematicamente calpestati nell’impunità assoluta. Per dirla come la direbbe Cetto: tu mi voti, ed io ti sistemo, tu non mi voti, ‘nto culo attia e a tutta la tua famiglia. Quando la realtà supera l’immaginazione, persino quella di Cetto Laqualunque.

Voto di scambio. Vendersi per trenta denari. I due casi - uno sulle presenti elezioni del 2015, l’altro su quelle del 2012 - seminano sconforto nell’elettorato. L’attualità viene dalla Puglia: la Digos avrebbe scoperto (il tutto è ancora da dimostrare) che alcuni comitati elettorali pugliesi hanno promesso compensi in denaro ai attivisti e rappresentanti di lista, scelti tra giovani disoccupati in difficoltà economiche. L’accordo sarebbe un classico: lavorare nei seggi come contropartita per l’assicurazione di facili voti, con tanto di tariffario. I giovani venivano retribuiti dai 30 ai 50 euro e per aggirare abilmente il rischio di incorrere nel reato i loro compensi figurano come “rimborso spese”. La gravità del fenomeno e il pesante rischio di un reale condizionamento del voto in Puglia ha persino richiesto l’intervento delle autorità tramite una squadra speciale della Digos pronta a vigilare e intervenire in caso di irregolarità durante la giornata di domenica. Scene da Paese in guerra, dove sono i caschi bianchi dell’Onu quelli che garantiscono libere elezioni. Il caso “storico” di voto di scambio viene invece dalla Sicilia: spunta oggi un’inchiesta, nata da un’indagine di mafia coordinata dal procuratore Vittorio Teresi, su una fitta compravendita avvenuta durante le elezioni regionali siciliane dell’ottobre 2012 per il rinnovo dell’Assemblea Regionale e quelle comunali di Palermo del maggio 2012. Cinque le persone indagate dalla Guardia di finanza: due consiglieri dell’Assemblea regionale, di cui uno è l’attuale presidente della Commissione Bilancio dell’Assemblea, un ex deputato regionale, un consigliere comunale che non risultò alla fine eletto, e, quello che è persino peggio, anche un finanziere, per il quale l’accusa sarebbe di corruzione per aver fatto favori a uno dei consiglieri indagati. In cambio di voti, i candidati promettevano agli elettori posti di lavoro in centri e corsi finanziati con fondi europei, ma spesso la moneta di scambio consisteva anche in pochi euro.

Per trenta denari. Fa discutere in queste ore l’indagine aperta dalla Procura di Bari in merito alla scoperta di un presunto tariffario per remunerare procacciatori di voti per le prossime elezioni regionali. Al centro delle accuse la candidata barese del Partito Democratico Anna Maurodinoia. Rappresentanti di lista, sarebbero stati pagati dai 30 ai 50 euro in base al numero di preferenze assicurato. La scoperta dell’acqua calda: il voto di scambio è una vera e propria attività politica, scrive Cosimo Giuliano su "Cosmopolismedia”. La campagna elettorale per le regionali pugliesi è ufficialmente entrata nel vivo. E con essa tutti i trucchetti posti in essere dai candidati per assicurarsi quel numero di voti necessari per venire eletti. La Procura del capoluogo pugliese ha infatti aperto un'indagine sull'esistenza di un presunto tariffario per remunerare rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze per le prossime consultazioni elettorali. Agenti della Digos di Bari, nella giornata di ieri, hanno depositato presso l'ufficio del procuratore aggiunto, Lino Giorgio Bruno, il video di un servizio di Telenorba andato in onda nel telegiornale di mercoledì sulle modalità di reclutamento dei rappresentanti di lista, pagati dai 30 ai 50 euro in base al numero di voti assicurato. Gli investigatori indagano per il reato di voto di scambio, ma per il momento non ci sono indagati.  Al centro delle accuse la candidata del Partito Democratico Anna Maurodinoia, attualmente consigliere comunale nel comune di Bari, che ha già depositato una denuncia per diffamazione nei confronti dell’uomo intervistato da Telenorba. In vero è stata scoperta l’acqua calda. Il voto di scambio è una vera e propria attività politica: voti in cambio di vil danaro, buoni benzina o promesse di lavoro, controllo coatto e mafioso sull'elettorato, in questi luoghi dimenticati dal buon Dio sono sempre esistiti. Il dramma della disoccupazione, le difficoltà economiche di giovani e meno giovani sono la scintilla che consente alla longa manus di politicanti in doppiopetto e senza scrupoli di innescare il rogo delle coscienze, l’olocausto dell’Io pensante e gerente. Il voto di scambio, è cosa arcinota. E’ un fenomeno gravissimo e ampiamente consolidato in Italia. Si riferisce all'azione di un candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore un tornaconto personale. Viene alla mente l’aneddoto legato all’ex sindaco di Napoli Achille Lauro. Durante la campagna elettorale del 1952 era solito regalare cibo e soldi, prometteva mari e monti, dava ai potenziali elettori la metà di mille lire o una sola scarpa, promettendo di dare l’altra metà a elezioni finite.  Ma non è il caso di andare così indietro nel tempo. Durante il periodo elettorale, soprattutto nelle piccole realtà, il “porta a porta” dei candidati diventa incessante e perpetuo; austeri personaggi di cui non conoscevi l’esistenza vengono a farti visita a tutte le ore. Una sorta di tramvai religioso al pari di Lourdes o Medjugorje, Fatima o San Giovanni Rotondo. Le case diventano una meta imprescindibile del politico beghino più oltranzista che, tronfio, prospetta un mondo più buono e giusto, migliore, un futuro pericolosamente troppo roseo, un Eden pagano e clientelare nel quale è difficile non immedesimarsi. Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia fu accusato di aver costruito la sua intera carriera politica proprio sui voti di scambio. Furono scoperti migliaia di documenti che contenevano nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono ed ovviamente, i desiderata di ogni singolo elettore. La domanda a questo punto sorge spontanea: dove sono le autorità preposte a controllare il legale e democratico svolgimento di una campagna elettorale? Forse sono tutti a spasso a bighellonare con 30 denari?. “La democrazia - asseriva Bernard Shaw - sostituisce l'elezione da parte dei molti incompetenti all'incarico affidato dai pochi corrotti”.

Tariffario dei rappresentanti di lista. Così si «paga» il voto: 40 euro l’uno. La «confessione» di un addetto al comitato elettorale in vista delle regionali. Il servizio del Tg Norba sequestrato dalla Digos: si indaga su possibili reati, scrive Francesco Strippoli su “Il Corriere della Sera”. Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Gli investigatori intendono appurare se i fatti raccontati nel servizio costituiscano reati da perseguire a norma di legge. Il servizio non lo dice, ma la scena è girata al quartiere Japigia di Bari. Nelle immagini si vede il cronista affacciarsi sull’uscio di un comitato elettorale. Pare quello della candidata del Pd Anita Maurodinoia. Per lo meno quello è il cognome ben visibile sui manifesti elettorali di varia dimensione riprese nel filmato. Un addetto, interpellato dal cronista, spiega come essere reclutati: si arriva al comitato, ma poi lo stesso addetto li «manda lì». Non viene specificato dove, ma si intuisce sia un ufficio centrale che funga da riferimento per la città. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. A spoglio completato, infatti, come spiega l’addetto interpellato, si controllano le preferenze conquistate dal candidato-committente e se corrispondono all’accordo stipulato al momento del reclutamento, arriva la remunerazione. Appunto: 30, 40 o 50 euro, non si capisce se a voto conquistato o in totale per il seggio che si è chiamati a presidiare. A chi bisogna riferire dei voti riportati nel tabulato elettorale? L’addetto non ha incertezze: «Alla persona giusta». Ossia la stessa che ha provveduto al reclutamento.

In una nota inviata alla stampa l’avvocato Vito Perrelli, per conto della candidata Anna Maurodinoia, «comunica di aver sporto un esposto presso la questura di Bari per quanto mandato in onda dall’emittente televisiva Telenorba». «Il sottoscritto - prosegue la nota - ritiene doveroso rappresentare che il soggetto intervistato dal giornalista qualificato come custode e/o addetto al reclutamento non ha alcun tipo di rapporto, men che meno fiduciario, incarico formale e/o mandato né con il sottoscritto né con il proprio mandante. Le diffamatorie dichiarazioni rese - manifestatamente influenzate dal tenore delle domande poste dal giornalista, assolutamente suggestive, nocive e già contenenti le risposte - sono assolutamente prive di ogni fondamento per non aver mai con nessuno il sottoscritto e/o la candidata Maurodinoia, stipulato accordi per la presunta compravendita di voti»Regionali Puglia, 30 euro per il voto “anche della famiglia”. Video su candidato di Emiliano, scrive Luca De Carolis su "Il Fatto Quotidiano". Il caso di Gianni Filomeno, della lista civica appoggiata dal Pd, è simile a quello quello mostrato due giorni fa da TgNorba, in cui un presunto collaboratore del comitato elettorale di Anna Maurodinoia, in lista per il Pd, recita il tariffario per un rappresentante di lista. "Cerchiamo rappresentanti di lista retribuiti". La donna che recluta ragazzi “per sostenere il nostro candidato” lo dice al telefono: “Portati la tessera elettorale, abbiamo bisogno del riscontro del tuo voto”. Lui, Gianni (o Giovanni) Filomeno, candidato a Bari per la lista civica “La Puglia con Emiliano”, parla davanti alla telecamera (nascosta): “Sono 30 euro. Ma non è voto di scambio, è un rimborso spese”. Parole e scene da un video in possesso dei Cinque Stelle pugliesi, che settimane fa hanno lanciato il sito votolibero.it proprio per raccogliere denunce su tentativi di compravendite elettorali. Il prodotto è un filmato di quasi 6 minuti, visionato dal Fatto Quotidiano, in cui compare Filomeno, in corsa per una civica collegata al candidato del Pd Michele Emiliano. Un video simile a quello mostrato due giorni fa da TgNorba, in cui un presunto collaboratore del comitato elettorale di Anna Maurodinoia, in lista per il Pd, recita il tariffario per un rappresentante di lista: “Trenta, quaranta, cinquanta euro”. Ma un rappresentante non può essere pagato: neppure con un rimborso spese. Maurodinoia, eletta in Consiglio comunale a Bari per il centrodestra, ora con l’ex pm, ha annunciato querela contro il presunto collaboratore, smentendo tutto. Mentre la Digos di Bari ha aperto un’inchiesta. Ora c’è anche il filmato su Filomeno: 43 anni, residente a Castellana Grotte (Bari), titolare di uno studio di consulenza aziendale specializzato in “finanza agevolata”. Nel settembre scorso ha presentato a Castellana, come “consulente dell’associazione Logos”, il Piano garanzia giovani: “Un programma dell’Unione europea finalizzato a favorire l’occupazione e l’avvicinamento dei giovani al mercato del lavoro”. Tra i relatori, anche il segretario regionale del Pd Emiliano. Filomeno: “Sono 30 euro. Ma non è voto di scambio, è un rimborso spese”. Da qui si arriva al video, che inizia con l’audio di una telefonata. Un ragazzo chiede informazioni a tale signora Tina: “Ho saputo che cercate personale per volantinaggio”. E lei parte: “Stiamo cercando ragazzi che possano sostenere il nostro candidato alle Regione. Cerchiamo giovani che possano fare volantinaggio, rappresentanti di lista e attacchini: ovviamente, tutto retribuito”. La donna lo invita quindi a un incontro per “domani pomeriggio” in un locale di Corato (Bari), aperto “a tutti coloro che vogliono far parte dello staff”. E aggiunge: “Porti documento di identità e tessera elettorale”. Il ragazzo chiede: “Perché anche la tessera?”. E la signora spiega: “Per dare riscontro del tuo voto. Abbiamo bisogno dei vostri voti e dei vostri parenti, è ovvio”. La donna non cita mai Filomeno. Ma il video mostra subito dopo l’invito a un incontro dell’associazione Logos per il pomeriggio del 12 maggio, presso lo stesso locale della stessa città citata dalla signora. Il testo è in un italiano stentato: “Il responsabile dell’associazione Logos, Giovanni Filomeno, e il suo staff sono lieti di invitare i giovani under 29 e le imprese per conoscere le opportunità date dal programma garanzia giovani”. Proprio quello illustrato da Filomeno assieme a Emiliano. Il ragazzo chiede: “Perché anche la tessera?”. E la signora spiega: “Per dare riscontro del tuo voto. Abbiamo bisogno dei vostri voti e dei vostri parenti, è ovvio”. Si riprende con le immagini, e si sente di nuovo la voce della signora Tina, che si rivolge a dei ragazzi: “Ascoltatemi, io sono Tina, questo è il mio recapito, sono reperibile anche di notte”. Segue numero di cellulare (coperto dal bip). “Andate oltre i familiari, allargate… allargate”, esorta. Una ragazza obietta: “Non ci abbiamo capito molto, siamo venuti per altro”. Compare Filomeno. Giacca e camicia azzurra, spiega: “Quello che ci serve è organizzare, uno per famiglia. Quello da dire ai ragazzi è: ‘Tu sei libero di votare, di fare campagna elettorale? La tua famiglia è libera?”. Qualcuno chiede: “Trenta euro?”. E Filomeno replica: “Sì, sì, certo, è normale: un rimborso spese”. Una ragazza: “Ma è voto di scambio”. Lui nega: “No, è rimborso spese”. Lei non molla: “Sono venuta per fare la rappresentante di lista, perché la signora Tina mi ha detto che cercava un rappresentante in cambio di 30 euro”. Filomeno si irrigidisce: “Ti hanno dato un’informazione sbagliata, tu lo devi fare perché ci credi”. Tina irrompe: “Gianni, qualche problema?”. Lui: “Sì”. La donna allora precisa: “Non c’è nessun tipo di scambio”. La ragazza insiste: “Perché mi avete chiesto di portare la tessera elettorale?”. Risposta: “Perché voglio mettere una persona in ogni seggio”. Segue Filomeno che spiega propositi e idee. Fine. Da Il Fatto Quotidiano del 22 maggio 2015.

Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO: Il mercato degli eletti

Così è il titolo dell’inchiesta di Piero Colaprico, Riccardo Di Gricoli ed Andrea Punzo su “La Repubblica”. Lo scacchiere degli uomini d'onore. Da nord a sud il controllo delle urne. In una Regione su due le Procure indagano su presunte compravendite di pacchetti di voti da parte della malavita organizzata. Da il caso di Nicola Cosentino in Campania fino agli scandali in Liguria passando attraverso l'operazione Minotauro in Piemonte. Dal cellulare al trucco delle schede, tutti i modi per pilotare il voto. Cambiano i sistemi elettorali e le organizzazioni rivedono il modo per condizionarne i risultati. L'elettore che vuole vendere la sua preferenza sa già a chi rivolgersi e quali tecniche usare. Non solo la foto con il telefonino ma anche lo scambio della scheda già compilata.

La lunga mano dei boss sul voto nell'Italia delle elezioni inquinate. Metà delle regioni conta almeno un caso di voto di scambio. Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. E aumentano i comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord. Una Regione su due conta almeno un caso di compravendita di voti. Dal 2010 a oggi il numero di inchieste su politici arrivati nelle stanze del potere grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Nelle borgate dei grandi centri come nei paesi più piccoli, spesso ai margini della cronaca. Senza contare i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: oltre 200 dal '91. La mappa dell'Italia è costellata da scandali che ruotano attorno al voto di scambio. Da Milano a Casal di Principe, da Ventimiglia a Torino, il Paese è una gigantesca scacchiera dove i calcoli a tavolino dei boss permettono di consegnare le chiavi dei palazzi istituzionali a "uomini fidati". A politici conniventi del clan di turno, che diventano così appendici delle cosche nei luoghi della democrazia del Paese. Rispetto a qualche anno fa, è il nord ad aver compiuto il balzo in avanti più significativo. Piemonte, Lombardia e Liguria, un tempo triangolo industriale e motore del Paese, si sono trasformate nei presìdi delle 'ndrine, il cui controllo territoriale passa anche dalla vendita di migliaia di voti. Un voto costa 50 euro. Ma può arrivare anche a 80 o 100. A seconda della Regione o delle condizioni dettate dai vertici della criminalità locale. In cambio di una semplice "x" che segni una preferenza, alcuni possono arrivare a offrire un panino, un pasto caldo oppure il pagamento di una bolletta. Sono le schede elettorali sporche di mafia. Migliaia di voti in cambio di migliaia di euro. Pratica che ha compromesso sul territorio nazionale decine e decine di assessori, consiglieri e ex presidenti di Regione. E che, in numerosi casi, li ha costretti a concedere favori su favori, strozzati dalla loro stessa voglia di potere.

Il voto di scambio si può raccontare attraverso tre storie. Eccole.

Operazione Minotauro. È il 6 giugno 2011. A Volpiano, cittadina di 15 mila abitanti in provincia di Torino, si riunisce il nuovo Consiglio comunale. È la prima seduta dopo le elezioni e sulla poltrona di sindaco esordisce Emanuele De Zuanne (lista civica). Aprono i lavori. Si susseguono gli interventi. I presenti, oggi, ne ricordano uno più di altri: "Con i soldi pubblici bisogna saper osare. Spenderli, ma senza rubare". Qualche applauso, ma anche fischi. L'oratore, secondo eletto dopo il Sindaco con il 33% dei voti, è Nevio Coral, già sindaco di Leinì (piccolo centro a due passi dal capoluogo piemontese), imprenditore di successo e politico molto noto nella zona. Due giorni dopo, la mattina dell'8 giugno, scatta a Torino e provincia l'Operazione Minotauro, la più vasta azione anti 'ndrangheta nella storia del Piemonte: 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di custodia cautelare spiccati dal gip, sequestri preventivi di beni per un valore di oltre 117 milioni di euro. Associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d'azzardo, riciclaggio sono solo alcuni dei reati contestati. Tra gli arrestati c'è un solo politico: Nevio Coral. Lo stesso che due giorni prima invocava un uso onesto del denaro pubblico. Il discorso di Volpiano diventa così l'ultimo atto politico di un uomo costretto a difendersi da una doppia infamante accusa: concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. "La criminalità organizzata - scrive il prefetto di Torino Alberto Di Pace nella relazione consegnata al Ministro Anna Maria Cancellieri il 29 febbraio - sarebbe arrivata a infiltrarsi tra le maglie dell'ente comunale (e non solo) realizzando un fattivo concorso nella gestione deviata della cosa pubblica". L'uomo chiave, il tramite tra lo Stato e il malaffare sarebbe sempre lui: Nevio Coral. Intrattiene rapporti con affiliati e pluripregiudicati come Vincenzo Argirò, originario di Locri classe 1957, residente a Caselle Torinese. I due vengono più volte intercettati, al telefono parlano come chi si conosce da tempo: "Bisogna proprio dire che i vecchi amici si trovano sempre" dice Coral al presunto boss. Si danno appuntamento nel ristorante dell'albergo Verdina a Volpiano, proprietà del figlio di Coral, Claudio. È il 18 maggio del 2009, Nevio cerca voti per l'altro figlio Ivano, all'epoca candidato alla Provincia di Torino. Una cena tra amici, una riunione per spartirsi il territorio. Garantiscono voti nella zona di Leinì, Volpiano e Borgaro Torinese. In cambio Coral promette loro lavoro: "Quando le strade si fanno - dice intercettato dai Carabinieri - i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti... e innanzitutto prendiamo uno, lo mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro lo mettiamo in una proloco...". Ivano Coral, già sindaco, verrà da lì a poco eletto anche consigliere provinciale.

'Ndrangheta a Ponente. Biglietti da visita di alcuni esponenti politici locali, carte su misteriosi giri d'affari Italia-Germania-Stati Uniti-Emirati Arabi, oltre ad alcune lettere di un padre ergastolano. Quello che nel giugno 2011 gli agenti della Dda trovarono a casa di Michele Ciricosta, boss del "locale" (come si chiamano le 'ndrine) di Ventimiglia della 'ndrangheta, sembrava un vero e proprio "arsenale" malavitoso. Non armi ma contatti, relazioni, numeri di telefono. Durante la perquisizione un particolare colpì più di tutti i Carabinieri: una scritta dietro un santino elettorale: "E' andata tutto bene", firmato Alessio Saso (Pdl). Consigliere regionale della Ligura eletto un anno prima con oltre 6330 preferenze. Secondo la Dda di Genova, mille di quei voti sarebbero arrivati proprio grazie alla "collaborazione" della 'ndrangheta e in particolare di Domenico Gangemi, professione verduriere, capo del "locale" di Genova. Per far arrivare le preferenze a Saso, mise in moto appunto la 'ndrina di Ventimiglia. Ossia Ciricosta. "Le intercettazioni del telefono di Gangemi - si legge nelle oltre 200 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Nadia Magrini - consentivano di registrare già nel mese di novembre 2009 le telefonate con il consigliere regionale. Il primo contatto telefonico tra l'amministratore locale e il 'capo bastonè avveniva il 28 novembre e lasciava chiaramente intendere una loro pregressa conoscenza". Dai tabulati telefonici emerge un rapporto stretto tra Gangemi e Saso. Si sentono più volte. Prima delle elezioni il consigliere regionale ha un unico obiettivo, rassicurare il suo interlocutore: "Io sono una persona seria... sono una persona che anche dopo ci si può contare... se uno mi chiede un lavoro, mi chiede un finanziamento... do anche quello... eh... io sono sempre rimasto in buoni rapporti con tutti". Non è solo su Genova che le mafie allungano i loro tentacoli in cerca di agganci politici. Secondo la relazione della Divisione distrettuale antimafia "a Ventimiglia, al confine con la Francia, esiste una "camera di controllo" della 'ndrangheta calabrese". Nel febbraio scorso, il Consiglio dei Ministri decideva per lo scioglimento del comune di confine. Infiltrazione mafiosa, l'accusa. Secondo le indagini si era trasformata in una roccaforte di quelle famiglie mafiose, 'ndrangheta in primis, che avevano trovato un comodo e redditizio rifugio per fare gli affari loro. Anche grazie alla politica. Ventimiglia non è sola però. Perché proprio un anno prima simile sorte era toccata a Bordighera. Dalle indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Imperia erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

L'urna è Cosa Nostra. "È inutile che viene per cercare voti perché voti non ce n'è più per Raffaele... quello che ho fatto io quando lui è salito per la prima volta... e siccome io ho rischiato la vita e la galera per lui...". A parlare è il boss di Palagonia (Catania) Rosario Di Dio. Dall'altra parte del telefono c'è Salvo Politino, attuale direttore della Confesercenti etnea. Un suo amico. Il Raffaele di cui si fa riferimento, invece è - ritiene la Procura - Raffaele Lombardo, presidente dimissionario della Regione Sicilia, accusato insieme al fratello Angelo (deputato nazionale Mpa) di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. L'oggetto della telefonata, secondo le ricostruzioni dei pm, sarebbero dei presunti favori elettorali fatti al governatore. "Le intercettazioni - si legge negli atti del pool di Catania - hanno dimostrato l'esistenza di rapporti diretti tra Di Dio Rosario, uomo d'onore ed esponente di primissimo piano dell'associazione criminale Santapaola, e Lombardo Raffaele". L'ex presidente si è sempre difeso, rimbalzando le accuse. Ha ammesso di aver incontrato mafiosi, presunti o acclarati, ma allo stesso tempo ha parlato di contatti fortuiti e occasionali, nati da conoscenze politiche. Attualmente sono due i fascicoli "paralleli" nati da stralci dell'inchiesta "Iblis" su Raffaele e Angelo Lombardo, con reati in qualche modo assimilabili: voto di scambio e reato elettorale aggravato dall'avere favorito l'associazione mafiosa. Per questo l'ipotesi accreditata, da fonti dell'accusa e della difesa, è che le due inchieste vengano riunite in un solo processo, ma questo, con molta probabilità, comporterà un allungamento dei tempi dell'udienza preliminare. La motivazione che ha portato ad aggiungere l'aggravante mafiosa è che "nel rione di Agrigento o di Catania si sarebbe esercitato un potere intimidatorio di massa, una sorta di voto di opinione mafioso, non rivolgendo la richiesta di voto a tizio o a caio, ma un clima di intimidazione per cui si sapeva che si sarebbe dovuto votare Lombardo, e nessuno avrebbe fiatato". Nei giorni scorsi è iniziata l'udienza preliminare davanti al Gip di Catania, Marina Rizza, sulla richiesta di rinvio a giudizio coattiva dell'ex governatore Lombardo.

La Procura di Catania ha depositato i verbali con le dichiarazioni dell'ex assessore regionale Marco Venturi e di un nuovo collaboratore di giustizia, Giuseppe Mirabile. Nel suo verbale, Venturi ricostruirebbe le "anomalie nelle convocazioni delle riunioni di Giunta" nella stesura dei verbali e quello che definisce il "sistema clientelare" di Raffaele Lombardo.

Dai voti facili ai business milionari. "Così la regione si è venduta ai clan". Nelle carte dell'inchiesta su Zambetti il patto stato-mafia-politica-affari. Intercettato il boss Eugenio Costantino confida "I sindaci qui sono tutti amici nostri...tutti di destra! Non ce n'è uno che non abbiamo aiutato a vincere". Uno è Eugenio Costantino, e cioè "l'elegantone", il faccendiere legato ai clan, quello che con le sue leggerezze ha distrutto l'assessore regionale Mimmo Zambetti e azzerato la giunta di Roberto Formigoni. L'altro si chiama Vincenzo Evolo, taglia extralarge, mani come pale, ritenuto il soldato del recupero crediti, il "cattivo". È il marzo del 2011, Ilda Boccassini è diventata il procuratore aggiunto antimafia, insieme con Giuseppe Pignatone Lombardia, Roma e Calabria, ha arrestato centinaia di persone, tra cui medici, magi-strati, politici, è la zona grigia che per la prima volta comincia a venire stanata. Da dove spunta un assessore che a sessant'anni paga 200 mila euro per i voti della 'ndrangheta? E dove ha preso quei contanti? I carabinieri del comando provinciale di Milano e il pubblico ministero Paolo D'Amico si sono mossi nel totale segreto per non dare scampo agli indagati. Sono stati sequestrati solo ieri i computer di Enrica Papetti, la segretaria fidatissima di Zambetti per sedici anni.

Il faccendiere della 'ndrangheta la descrive così: "Fa tutto lei, tutti gli imbrogli (...) quella è proprio complice in tutto ". Un dettaglio inedito arriva persino dalla Milano da bere. Erano gli anni '80, Pepè Onorato e Mimmo Teti erano i boss "dei calabresi" (allora si diceva semplicemente così), e un brigadiere fa un controllo in un night. Identifica i clienti: spuntano Teti e il futuro assessore Zambetti. L'avvocato dice che Zambetti è stato in fondo un po' superficiale, ma anche nel maggio 2009 rispunta il nome dell'assessore. Lo fanno due calabresi finiti travolti da altre indagini: "Vedi se organizzi una quindicina di giovanotti che andiamo a Cinisello e ci prendiamo un aperitivo che c'è Zambetti (...) roba di elezioni, ma non devono votare niente, andiamo solo lì per presenza, passo con il pullman e li prendo". La campagna elettorale della 'ndrangheta ha però sempre e solo uno scopo primario: "Zambetti ce l'abbiamo in pugno, gli facciamo un culo così". Zambetti si mette a disposizione con favori che fa e appalti che promette. E così diventa più che legittimo domandarsi: da quanto tempo "lavorano" come portavoti questi clan che si muovono alla grande tra Nord e Sud? Eugenio Costantino parla con suo padre del boss Pino D'Agostino, e gli dice, papale papale: "Con Scopelliti in Calabria, hai visto come ha fatto? Sono andati là, li hanno pagati, ed hanno comprato i voti. Se non paghi i voti non vinci!.. Pure Pino è stato due mesi l'anno scorso con la pol...", cioè con la politica, per Giuseppe Scopelliti, pdl. È lo stesso Scopelliti che ieri parlava a favore del sindaco di Reggio Calabria, comune "chiuso" per 'ndrangheta. Più le si leggono, più le si ascoltano, queste clamorose, anzi spaventose intercettazioni diciamo di ultima generazione, più emerge al Nord un salto di mentalità. Tanto da parte della 'ndrangheta, più moderna, anche se ancoratissima alle tradizioni. Tanto - attenzione - da parte degli imprenditori. Ne devono ascoltare presto sessanta, e di questi, la metà non ha radici al sud. Eppure, hanno pagato e pagano i boss per varie ragioni e non li hanno mai denunciato. Mai. Solo per paura? C'è infatti da riconsiderare grazie al lavoro svolto in strada il concetto sin qui noto di infiltrazione. Esempio perfetto è la vicenda dell'ultimo arrestato, il ristoratore cremonese Valentino Gisana.

Gisana subisce un tentativo di estorsione, va dalla polizia e fa una denuncia generica, ma consegna a uomini della 'ndrangheta il telefonino dei ricattatori. E così tra il gigantesco Vincenzo Evolo e gli altri gangster ci si annusa, ci si capisce e Gisana non deve più pagare l'esoso pizzo. Ma "qualche cosa bisogna pagare, il tempo che hanno perso", gli dicono in sintesi. E Gisana paga. Poi gli impongono di assumere un cameriere, e ok, assunto. A quel punto Gisana, che vanta un credito nei confronti di un debitore che però non si fa trovare, domanda agli "amici" calabresi se lo aiutano loro. E così la "macchina da guerra" del clan si muove, ma Gisana alla fine si sfoga con un amico: "Troppa gente che mi pressa, adesso quelli lì (e cioè i ricattatori) non mi hanno rotto più i coglioni, ma adesso io ho paura che (i "calabresi") mi mettono sotto (...) lo "Zio" mi manda gli altri, cambiami l'assegno, cambiami l'assegno (...) per me è una storia infinita". È, nel suo orrore, una frase bellissima. Una frase-chiave. La giriamo a un vecchio maresciallo che spiega: "Questi cominciano perché uno gli dà fastidio, chiedono aiuto, funziona, poi hanno bisogno di prestiti, o di recuperare i crediti, e quando i boss li mettono sotto, che cosa devono fare? Vengono qui a raccontarci che hanno cominciato loro questa catena?". Più di tante sociologie, vale dunque quest'indagine: sono gli imprenditori del Nord che adesso vanno a cercare i boss di riferimento? Sia gli imprenditori sia i politici diventano però presto come "un pacchetto", che viene passato da mano mafiosa a mano mafiosa, tanto non si può ribellare nessuno: "Hai visto quel "pisciaturu" di Zambetti come ha pagato. Ehh, lo facevamo saltare in aria. Si è messo a piangere, ohh, davanti a me a zio Pino". Il 5 maggio del 2011, l'"elegantone " fa a bordo della sua Bmw imbottita di microfoni come un'emittente radiofonica una specie di piccola mappa: "Magenta, Sedriano, Vittuone, Corbetta, anche che noi qui, dato che diamo una mano a tutti nella politica, allora conosciamo tutti. I sindaci qua sono tutti amici nostri... tutti di destra! I sindaci di questi paesi non ce ne è uno che non conosciamo, in qualche modo l'abbiamo aiutato noi a vincere ", dice Costantino. Come ottengono questi voti i boss? Perché nell'ordinanza viene usato l'aggettivo "coercitivo"? "Una volta - spiegano in via Moscova - votavi come ti diceva il boss perché ti faceva paura, ora lo voti perché dice: "Ci guadagniamo tutti". La coercizione sta nel fatto che chi vota sa perfettamente che chi chiede è legato alla mafia calabrese". In effetti, nelle intercettazioni del chirurgo Marco Scalambra, arrestato, si sente citare spesso la "lobby dei calabresi". Lobby? sono clan, ma l'unico voto a forza di mazzate viene estorto a due truffatori. Hanno "zanzato" il calabrese sbagliato, e finiscono per cedere soldi e diamanti dopo con un sequestro di persona. Si salvano, ma "Vi diremo per chi votare". Ecco perché la procura antimafia dichiara apertis verbis che in Lombardia oggi abbiamo "il prodotto di un perfetto ed autorevole coordinamento di un'unica struttura organizzata, insediatasi, ed ormai radicatasi, anche nella provincia di Milano". Più chiaro di così, ed è proprio il caso di dirlo, si muore.

Ammazzati.

Tra fiumi di denaro e politici "cavallucci", il sistema Camorra per controllare il voto. "I candidati sono come cavalli, persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo" Il racconto di Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. Pubblichiamo un articolo di Roberto Saviano sul voto di scambio uscito su Repubblica nel febbraio del 2011. Più la gente si allontana dalla politica, più sente che sono tutti uguali e tutti incapaci più noi riusciamo a comprare voti. E noi puntavamo sul rinnovamento degli amministratori locali.

Abbiamo fatto eleggere quello che all'epoca fu il più giovane sindaco italiano: Alfredo Cicala sindaco di Melito. Uscirono mille articoli su di lui, il giovane sindaco della Margherita, dicevano. Ma era un uomo nostro". È l'ultimo colloquio con Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. E la storia che racconta, quella del sindaco di Melito, è una storia tragicamente comune in Campania.

Cicala, dopo il trionfo e qualche anno in carica, finisce in carcere, arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico: gli vengono sequestrati beni per 90 milioni di euro. Una somma enorme per un sindaco di un paeso, impensabile poter guadagnare in breve tempo una cifra così grande e impensabile poter essere proprietario di interi agglomerati condominiali del suo territorio senza che dietro ci fossero i capitali dei clan. In questo caso sono i soldi del narcotraffico dei Di Lauro-Prestieri. Ma Cicala non è uno qualunque: prima dell'arresto fa due carriere parallele, in politica e nel clan. Diventa membro del direttivo provinciale della Margherita e secondo le indagini riesce ad influenzare anche l'elezione successiva della giunta Di Gennaro, poi sciolta per infiltrazione mafiosa. Chiamato dai camorristi "ò sindaco" è l'unico politico a poter presenziare alle riunioni dei boss. Naturalmente partecipa a diverse manifestazioni per la legalità contro la camorra e i camorristi (soprattutto contro le famiglie nemiche del suo clan).

Insomma: la personalità perfetta per coprire affari e governare un territorio. L'inchiesta "Nemesi" della Dda di Napoli che indaga sul sistema elettorale a Melito descrive il clima del territorio come "la Chicago degli anni '30". Cicala diventa il candidato dei clan per sconfiggere Bernardino Tuccillo, candidato sindaco da un altro pezzo del centrosinistra. Tuccillo è stimato, ascoltato, risoluto, è stato sindaco e la camorra cerca di boicottarlo in tutti i modi. Ha i mezzi per farlo. "Alcuni candidati - ha raccontato Tuccillo - venivano da me piangendo, supplicandomi di stracciare i moduli con l'accettazione delle loro candidature. Altri, pallidi e impauriti, mi comunicavano che avevano dovuto far candidare le proprie mogli nello schieramento avversario". Una mattina trovò i manifesti a lutto che annunciavano la sua scomparsa affissi per tutta la città di Melito. Capì che era l'ultimo avviso. Come molti altri amministratori per bene campani Tuccillo fu lasciato solo dalla politica nazionale.

Ora nel Pd locale ci sono molti membri che sostennero e collaborarono con Alfredo Cicala. Prestieri conosce bene la politica campana. "Per i politici durante la campagna elettorale la camorra diventa roba onesta, come un'istituzione senza la quale non puoi fare niente. Io mi ero fatto uno studio. Uno studio elegante, avevo comperato antiquariato costoso, pezzi antichi d'archeologia, quadri importanti in gallerie dove andavano tutti i grandi manager italiani per arredare le loro case. E la tappezzeria l'avevo fatta con le stoffe comprate dai decoratori che stavano tappezzando il teatro La Fenice di Venezia. In questo studio ricevevo le persone. Davo consigli, mi prendevo i nomi per le assunzioni da far fare ai nostri politici. Raccoglievo le lamentele delle persone. Se avevi un problema lo risolvevi nel mio studio, non certo andando dai sindacati, dagli inesistenti sportelli al Comune. Anche in questo la camorra è più efficiente. Ha una burocrazia dinamica". Maurizio Prestieri in realtà viveva sempre meno a Napoli sempre più tra la Slovenia, l'Ucraina e la Spagna. Ma non quando c'era il voto alle porte. Durante la campagna elettorale era necessaria la presenza del capo in zona. "Io provengo da una famiglia che votava Partito comunista, mio padre era un onestissimo lavoratore e quand'ero piccolo mi portava a tutte le manifestazioni, io mi ricordo i comizi di Berlinguer, le bandiere rosse, i pugni chiusi in cielo. Ma poi siamo diventati tutti berlusconiani, tutti. Il mio clan ha sempre appoggiato prima Forza Italia, e poi il Popolo delle Libertà. Non so com'è avvenuto il cambiamento, ma è stato naturale stare con chi vuole far fare i soldi e ti toglie tutti i problemi e le regole di mezzo". Prestieri sa esattamente come si porta avanti una campagna elettorale. Dalle mie parti i camorristi chiamano i politici "i cavallucci" : sono solo persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo. "Io una volta ho fatto anche il presidente di seggio, 11 anni fa. Noi facciamo campagna elettorale a seggi aperti, quando è vietato, non solo per convincere e comprare quelli che ancora non hanno votato, ma per farci vedere dalle persone che vanno a votare, come a dire: vi controlliamo. A volte facevamo circolare la voce che in alcuni seggi mettevamo le telecamere: era una fesseria, ma le persone si intimorivano e non si facevano comprare da altri politici o convincere da qualche discorso". La campagna elettorale è lunga ma i clan riescono a gestirla con l'intimidazione da una parte e il consenso ottenuto con un semplice scambio. "Io me li andavo a prendere uno per uno. Ho portato vecchiette inferme in braccio al seggio pur di farle votare. Nessuno l'aveva mai fatto. Garantivo che i seggi negli ospedali funzionassero, pagavamo la spesa alle famiglie povere, le bollette ai pensionati, la prima mesata di fitto per le giovani coppie. Dovevano tutti votare per noi e li compravamo con poco. Organizzavo le gite con i pulmini per andare a votare. I clan di Secondigliano pagano 50 euro a voto e spesso corrompendo il presidente di seggio capisci più o meno se qualche famiglia, dieci quindici persone, si è venduta a un altro. Facevamo sentire la gente importante con un panino e una bolletta pagati. Se la democrazia è far partecipare la gente, noi siamo la democrazia perché andiamo da tutti. Poi questi ci votano e noi facciamo i cazzi nostri. Appalti, piazze di spaccio, cemento, investimenti. Questo è il business". Oggi Prestieri è quasi disgustato quando parla di queste cose, sente di aver giocato con l'anima delle persone, ed è una cosa che ti sporca dentro. E per la politica italiana ha un disprezzo totale, come tutti i camorristi. Gli chiedo se aveva sempre e solo appoggiato i politici di una parte. Prestieri sorride: "Noi sì, a parte piccole eccezioni locali, come a Melito, ma la camorra si divide le zone e così si divide anche i politici. Ci scontravamo ogni volta con i Moccia che hanno sempre sostenuto il centrosinistra. Noi festeggiavamo alle elezioni politiche quando vinceva Berlusconi e loro festeggiavano alle comunali o regionali quando vincevano Bassolino e compagnia. Napoli città è sempre stata di sinistra, e a noi ci faceva pure comodo, tutti quelli di estrema sinistra che a piazza Bellini o davanti all'Orientale fumavano hascisc e erba, o si compravano coca ci finanziavano. Libertà, libertà contro il potere dicevano, contro il capitalismo e poi il fumo e la coca a tonnellate la compravano. Quindi quelli votavano pure a sinistra ma poi i loro soldi noi li usavamo per sostenere i nostri candidati del centrodestra". Gli chiedo se ha mai incontrato politici di centrosinistra. "No, mai ma sono certo che il clan Moccia assieme ai Licciardi appoggia il centrosinistra, perché erano nostri rivali e quindi ne parlavamo continuamente tra noi e anche con loro della spartizione dei politici. Noi ce la prendevamo con loro quando vinceva la sinistra, perché significava che per loro erano più affari, più appalti, più soldi, meno controllo". E politici di centrodestra, mai incontrati? "Sì certo, io sono stato per anni e anni un attivista di Forza Italia e poi del Pdl. Ho incontrato una delle personalità più importanti del Partito delle Libertà in Campania. Non posso fare il nome perché c'è il segreto istruttorio, ma mi ricordo che nel marzo del 2001, pochi mesi prima delle elezioni, questa persona, seguita da una marea di gente, si fermò in Piazza della Libertà sotto casa mia. Ero affacciato al balcone, godendomi lo spettacolo della folla che lo seguiva (tutta opera nostra che avevamo spinto la gente ad acclamarlo), e questo politico, incurante perfino delle forze dell'ordine che lo scortavano, incominciò a salutarmi lanciando baci a scena aperta. Scesi e andai a salutarlo, ci abbracciammo e baciammo come parenti, mentre la folla acclamava questa scena. Questa cosa mi piaceva perché non si vergognava di venire sotto la casa di un boss a chiedere voti e mi considerava un uomo di potere con cui dover parlare. Sapeva benissimo chi ero e cosa facevo. Ero stato già in galera avevo avuto due fratelli uccisi in una strage. Era nel mio quartiere, chiunque fosse di Napoli sapeva con chi aveva a che fare quando aveva a che fare con me. Nel mio studio, invece, venne in quel periodo un noto ginecologo, una delle star della fecondazione artificiale in Italia. Quando si voleva candidare a sindaco venne ad offrirmi 150 milioni di lire in cambio di sostegno. Non potetti accettare poiché il clan già aveva già scelto un altro cavallo". I politici sanno come ricambiare. Le strategie dipendono da che grado di coinvolgimento c'è con il clan. Se si è una diretta emanazione, non ci sarà appalto che non sarà dato ad imprese amiche. Se il clan invece ha dato solo un "appoggio esterno", il politico ricambierà con assessori in posti chiave. Poi ci sono i politici che devono mantenere le distanze e quindi si limitano ad evitare il contrasto, a costruire zone franche o a generare eterni cantieri per foraggiare il clan e dargli il contentino. "Io mi sono sempre sentito amico della politica napoletana del centrodestra. Per più di dieci anni ho avuto persino il permesso dei disabili avuto perché ero un sostenitore attivo del Pdl. In gergo di camorra quel pass noi lo chiamiamo il mongoloide. Con quello parcheggiavo dove volevo, quando c'erano le domeniche ecologiche giravo per tutta Napoli deserta. Bellissimo". Padrone della coca, padrone della politica negli enti locali, il clan Di Lauro - Prestieri diventa sempre più ricco, trova nuovi ambiti di investimento: dalla Cina dove entra nel mercato del falso agli investimenti nella finanza. C'era il problema di gestire i soldi, riciclarli, investirli. "Enzo, uno dei figli di Paolo Di Lauro col computer ci sapeva fare e spostava in un attimo soldi da una parte all'altra. E mi stupii una volta che c'era una nostra riunione, loro parlarono di acquistare un pacchetto di azioni della Microsoft. Loro avevano un uomo in Svizzera, Pietro Virgilio, che gli faceva da collettore con le banche. Senza banche svizzere noi non saremmo esistiti". Ma in realtà è proprio l'ascesa la causa della caduta. Tutto sembra mutare quando arriva l'attenzione nazionale su di loro, e arriva perché il clan ormai viaggia sempre di più, tra la Svizzera, la Spagna, l'Ucraina e Di Lauro affida tutto ai figli. Questi tolgono autonomia ai dirigenti, ai capizona, che il padre considerava come liberi imprenditori. I figli gli tolgono capitali e decisioni e li mettono a stipendio. Si scindono. E scoppia una guerra feroce, un massacro in cui ci sono anche quattro morti al giorno. "Io lo dico sempre: non dovevamo essere Vip, ma Vipl". Vipl? Chiedo. E cioè? "Si laL sta per Local". Very Important Person, Local! L'importante è essere importanti solo nel recinto. "Il danno più grave che avete fatto scrivendo dei camorristi è che gli avete dato troppa luce. Questoè stato il guaio. Se sei un Vipl a Scampia puoi sparare, vendere cocaina, mettere paura, avere il bar fico di tua proprietà, le femmine che ti guardano perché metti paura: insomma sei uno efficiente. Ma se mi metti sotto la luce di tutt'Italia il rischio è che la notorietà nazionale mi incrina quella locale, perché per l'Italia risulto un criminale e basta. L'attenzione mi sputtana, dice che sono uno violento uno che fa affari sporchi e costringono pure magistrati e poliziotti ad agire velocemente, e non ci sono più mazzette che ti difendono". Prestieri ha deciso di collaborare, però non parla di sé come di un pentito, ma come di un soldato che ha tradito il suo esercito. "No, non sono un pentito, sarebbe troppo facile cancellare così quello che ho fatto, oggi sono solo una divisa sporca della camorra". Ma il peso di quello che ha fatto lo sente. "Le morti innocenti che faceva il mio gruppo mi sono rimaste dentro. Soprattutto una. C'era un ragazzo che dava fastidio a dei nostri imprenditori, gli imponeva assunzioni, gli rubava il cemento. Dovevamo ucciderlo ma non sapevamo il nome. Solo dove abitava. Così uno che conosceva la sua faccia si apposta sotto casa con due killer. Doveva stringere la mano alla vittima: quello era il segnale. Passa un'ora niente, passano due niente, esce poi un ragazzo, prende e stringe la mano al nostro uomo, al che i killer sparano subito ma questo urla "nunnn'è iss, nunn'è iss, non è lui!!" Inutile. Non solo è morto, ma poi tutti hanno detto che quel ragazzo era un camorrista, perché la camorra non sbaglia mai. Solo noi sapevamo che non c'entrava nulla. Noi e la madre che si sgolava a ripetere che suo figlio era innocente. Nessuno a Napoli le ha mai creduto. Io moralmente mi impegnerò nei prossimi mesi a fare giustizia di questo ragazzo, nei processi". Chiunque entra in un'organizzazione criminale sa il suo destino. Carcere e morte. Ma Prestieri odia il carcere. Non è un boss abituato a vivere in un tugurio da latitante, sempre nascosto, sempre blindato. È abituato alla bella vita. E probabilmente anche questo lo spinge a collaborare con la giustizia. "Il carcere è durissimo. In Italia soprattutto. Noi tutti speravamo di essere detenuti in Spagna. Lì una volta al mese, se ti comporti bene, puoi stare con una donna, poi ci sono palestre, attività nel carcere. Se mi dici dieci anni in Spagna o cinque a Poggioreale, ti dico dieci in Spagna". Così come il carcere di Santa Maria Capua Veterea Caserta l'hanno costruito le imprese dei casalesi anche il carcere di Secondigliano l'hanno costruito le imprese dei clan di Secondigliano. "Ce lo fecero visitare prima che il cantiere fosse consegnato. E ci scherzavamo. O' cinese qui finisci tu. O' Sicco su questa cella c'è già il tuo nome.

Visitammo il carcere dove ognuno di noi poi sarebbe finito. Ho fatto più di dieci anni di galera, e mai un giorno mi sono fatto il letto.

Quando sei un capo della mafia italiana in qualsiasi carcere ti mandano, c'è sempre qualcuno che ti rifà il letto, ti cucina, ti fa le unghie e la barba. In carcere quando non sei nessuno è dura. Ma alla fine tutti stiamo male in galera e tutti abbiamo paura. Io ho visto con i miei occhi Vallanzasca, che era un mito giusto perché al nord uomini mafiosi non li conoscono, quasi baciare le mani alle guardie.

Poverino, faceva una vita di merda totale in galera, era totalmente succube delle guardie. E io mi dicevo, questo è il mitico Vallanzasca di cui tutti avevano paura? Che si mette sull'attenti e mani dietro la schiena appena passa un secondino? Dopo dieci anni di galera in verità sei un agnellino, tutti tremiamo se sentiamo che stanno venendo i GOM, (gruppi operativi mobili) che quando qualcosa non va in carcere arrivano a mazziare". Faccio l'ultima domanda, ed è la solita domanda che nei talk show pongono agli ex criminali. Ridendo faccio il verso "Cosa direbbe ad un ragazzino che vuole diventare camorrista?" Prestieri ride anche lui ma in maniera amara. "Io non posso insegnare niente a nessuno. Sono tanti i motivi per cui uno diventa camorrista, e tra questi la miseria spesso è solo un alibi. Ho la mia vita, la mia tragedia, i miei disastri, la mia famiglia da difendere, le mie colpe da scontare. Sono felice solo di una cosa, che i miei figli sono universitari, lontani da questo mondo, persone perbene. L'unica cosa pulita della mia vita".

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.

Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.

Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.

Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………

Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria ("Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro.  "Ma per favore non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it - qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. "Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.

Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.

RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.

SINONIMI E CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. "Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata "con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere "150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto. 

Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.

Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.

QUANDO L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a 'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. Il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. Inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l'applauso della ‘ndrangheta.

Guai però a schierarti contro il conformismo.

Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»

Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.

«Caro procuratore De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere un’azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo.
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio…
Con Stima. Piero Sansonetti».

Ed ancora......Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista” - critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.

Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi è in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»

Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene vogl