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Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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LEGOPOLI

 

LA LEGA DA LEGARE

 

 

 

Di Antonio Giangrande

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA LEGA CHE VINCE CON IL SUD.

QUANTO E’ DURATA LA LEGA NORD?

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...

QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...

LA SECESSIONE IDEOLOGICA.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.

IL SUD TARTASSATO.  

QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.

IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.

ALTRO CHE ROMA LADRONA.

PADANIA LADRONA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA. PARE UNA BARZELLETTA.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

LEGHISTI: RAZZISTI ED OMOSESSUALI.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

QUANTI GALLI NELLA LEGA?

LA GARA ALL'INTOLLERANZA. LA LEGA INTOLLERANTE SE LE CERCA E GLI INTOLLERANTI SINISTRI AGGREDISCONO.

IN LEGA TUTTI SI LEGALIZZANO.

LA LEGA SUL LASTRICO PER LADROCINIO?

BESTIARIO NAZIONALE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

SETTENTRIONALI E/O LEGHISTI SE LI CONOSCI BENE …LI EVITI.

INAFFIDABILI. LEGA CONTRO LEGA. PACTA SUNT SERVANDA. NON IN CASA LEGA.

LEGA. SONO SOLO AFFARI LORO……

PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?

C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.

LEGA NORD: I MOSTRI SON SEMPRE GLI ALTRI.

MI RICORDO MUTANDE VERDI............

LEGA MASSONA.

LA POLITICA E GLI ANIMALI.

LA POLITICA ED IL RAZZISMO. DIVERSI SI', MA NON MIGLIORI.

RAZZISMO E NORD ITALIA. BORGHEZIO E CALDEROLI. LA LEGA NORD PADANIA E L’ITALIA SETTENTRIONALE.

LEGA NORD: LA GARA A CHI E' PIU' RAZZISTA.

RAZZISMO TRA ITALIANI DEL NORD E DEL SUD.

LEGA PERMALOSA.

PARLIAMO DELLA LEGA NORD PADANIA: RAZZISTA? LADRONA? TRAFFICONA? MAFIOSA?

PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!

CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE.

CARROCIOPOLI.

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO.

SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI.

I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.

ROMA LADRONA? NO. MILANO LADRONA!

LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI?

LE “CAZZATE” DI BOSSI.

IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.

PREGHIERA PER LA PADANIA LIBERA.

INNO DELLA LEGA LOMBARDA.

IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.

SUD? NO GRAZIE! LA LOMBARDIA DEGLI ONESTI…CHI? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!!!!

STUPIDARIO DELLA LEGA.

SCANDALO LEGA AL SENATO.

CHI C’ERA DIETRO A BELSITO?

EMILIA, CRAVATTE VERDI E FONDI NERI.

QUEL FANNULLONE CHIAMATO BOSSI.

E LA COSCA STA NELLA VILLA A SCHIERA.

I PROBLEMI DI CASTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA.

I PROBLEMI DI MARONI, MINISTRO DELL’INTERNO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

E il Senatùr disse: «Andiamo con Silvio, ha soldi e donne… ». Era il 1994 e il Senatùr Bossi aveva già conquistato mezzo Nord. Silvio Berlusconi capì che senza di lui non avrebbe vinto, scrive Paolo Delgado il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso. «Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri. Solo che Berlusconi non portò solo ‘ soldi e gnocca’ ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista». Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di "Berluskaiser", o "Berluskaz" o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato. Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018. Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ‘ voto utile’. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima. Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più "Polo" ma "Casa" delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa. Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra. Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ‘ federalismo’. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader. Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.

Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un  massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.

Senti chi parla….

Reddito di cittadinanza, Briatore: «Una follia, al Sud la gente non ha voglia di lavorare», scrive Sabato 29 Settembre 2018 "Il Mattino". Al Sud la gente già non ha voglia di lavorare, dare anche un reddito di cittadinanza sarebbe una follia. Parola di Flavio Briatore. «Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza, questa mi sembra una follia vera. Per me è una follia perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze. Investimenti in Meridione? Ci sono difficoltà enormi. E la gente non ha voglia. Chi aveva voglia è andato fuori dal Sud», ha detto l'imprenditore ed ex manager della Formula 1. «Quando abbiamo avuto la possibilità di avviare un’attività a Otranto, nel nostro gruppo c’erano diversi pugliesi. Abbiamo dato la possibilità di tornare, ma nessuno ha voluto. Rimane chi non si sbatte molto per trovare un lavoro, se adesso danno anche il reddito di cittadinanza è finita», sostiene ancora Briatore che tuttavia ha fiducia nel nuovo governo. «Mi sembra ci sia molto entusiasmo - afferma Briatore -. Mi sono simpatici sia Salvini che il grillino, lasciamoli fare. Faccio il tifo per loro, certo. Come dovrebbero fare tutti. Su immigrazione e fisco sto con Salvini. Ha ragione quando dice che i clandestini bisogna bloccarli prima che arrivino. Bisogna bloccare i barconi, ormai sappiamo da dove partono. Investire e creare posti di lavoro lì. La flat tax è da fare subito, immediatamente, subitissimo. Se premia i ricchi va bene perché vuol dire che se uno risparmia con la flat tax, investe più nell’azienda, crea più posti di lavoro».

Flavio Briatore indagato per corruzione: tangenti al fisco per riavere lo yacht, scrive Martedì 25 Settembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Guai per Flavio Briatore. L'imprenditore è indagato in una vicenda di corruzione per la quale il suo commercialista, A.drea P.rolini, è finito agli arresti domiciliari insieme all'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate di Genova Walter Pardini. La guardia di finanza ha eseguito le misure questa mattina. L'accusa è di corruzione. Per la stessa vicenda è anche indagato Flavio Briatore. Secondo l'accusa, il professionista avrebbe corrotto il funzionario pubblico, per tentare di «ammorbidire» la posizione di Briatore per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue.

A Briatore sono gli uomini del sud a non piacergli, ma le donne…Oltre alla ex moglie Elisabetta Gregoraci… Caterina Balivo e Flavio Briatore, l’indiscrezione sul passato spiazza il pubblico, scrive il 31 maggio 2018 La Voce di Napoli. Momenti di imbarazzo si sono vissuti durante una puntata di Detto Fatto quando Giovanni Ciacci, capo-tutor del programma, ha parlato di un ex flirt della conduttrice napoletana con un vero e proprio play boy a cui però Caterina avrebbe dato un due di picche. Indiscrezione che ha imbarazzato non poco la Balivo che ha cominciato a sorridere. Ciacci improvvisamente ha detto: “Caterina è l’unica ad aver detto ‘No’ a un famoso playboy…“. Le parole sono state dette durante la rubrica di Gio Gio, finestra del programma che si occupa di Ballando con le Stelle. Si stava parlando proprio di uomini affascinanti quando Ciacci ha detto: “Per essere playboy devi essere molto ricco e quello che ha corteggiato Caterina lo è veramente”. Parole a cui la conduttrice ha controbattuto ironicamente, dicendo: “Ora però è vecchiarello”. Ciacci ha anche detto che questa persona sarebbe stata con Naomi Campbell, non ha però rivelato il nome. Per il pubblico, però si tratterebbe di Flavio Briatore, il gossip è scoppiato spiazzando il pubblico, non ci resta che aspettare altre rivelazioni.

Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.

A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.

Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».

Diede del “terrone” a Napolitano: la Procura di Brescia ordina la carcerazione per Bossi, subito sospesa. Il fondatore della Lega Nord deve scontare un anno e quindici giorni. E i guai giudiziari non sono ancora terminati, scrive Emilio Randacio il 26/09/2018 su "La Stampa". La condanna definitiva per vilipendio all’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, gli ha fatto saltare ogni beneficio. Per il fondatore della Lega, Umberto Bossi,il rischio di scontare parte delle condanne fin qui inanellate è una ipotesi più che concreta. Il 12 settembre la Cassazione aveva confermato l’anno e 15 giorni per gli insulti al Quirinale. La colpa, riconosciuta, di Bossi è quella di avere del «terrone» a Napolitano durante un comizio. La procura generale di Brescia ha sommato tutte le condanne del senatur - dagli 8 mesi per i finanziamenti illeciti di Carlo Sama - e ha disposto la carcerazione visto che i benefici sono ampliamenti sforati. Provvedimento immediatamente sospeso - Bossi e vicino agli 80 anni-, per permettere al parlamentare leghista di chiedere misure alternative al carcere. Compreso il differimento della pena per i problemi di salute che, da oltre 10 anni, attanagliano l’ex segretario di via Bellerio. Anche se i grattacapi con la giustizia, non sono ancora finiti, visto che tra Milano e Genova si attendono i processi d’appello per le malversazione dei fondi pubblici gestiti dal Carroccio.

Umberto Bossi chiamò Napolitano "terùn"? Massacrato dai giudici: ai servizi sociali, scrive il 27 Settembre 2018 Tommaso Montesano su "Libero Quotidiano". Albino, provincia di Bergamo, 29 dicembre 2011. Umberto Bossi, leader della Lega, partecipa alla seconda edizione della festa provinciale del Carroccio. Nel corso del comizio, quello che fino a poche settimane prima era stato il ministro delle Riforme dell’ultimo governo Berlusconi, appena sostituito con l’esecutivo tecnico di Mario Monti, si scaglia contro Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Il linguaggio è quello tipico delle manifestazioni politiche. Il tono di Bossi, com’era nella natura del Senatùr, è concitato, travolgente. Solo che il fondatore della Lega, per l’occasione, aggiunge qualcosa: l’espressione «terùn» - terrone - e il gesto delle corna con la mano destra all’indirizzo del Capo dello Stato, napoletano di nascita. Otto anni dopo, quell’intemerata polemica è costata a Bossi, dopo l’apertura del procedimento penale per vilipendio al presidente della Repubblica, prima la condanna in via definitiva a un anno e quindici giorni di reclusione (lo scorso 12 settembre); poi, ieri, un ordine di carcerazione. Avete capito bene: Bossi deve andare in carcere per aver dato del «terrone» a Napolitano. Solo la contestuale emissione, da parte del sostituto procuratore generale di Brescia Gian Paolo Volpe, di un decreto di sospensione della pena ha salvato l’attuale senatore della Lega dalla prigione. Un atto, quello dei magistrati, che adesso consente a Bossi di chiedere, entro trenta giorni, di accedere a una delle misure alternative di detenzione: l’affidamento in prova ai servizi sociali (come fece Silvio Berlusconi dopo la condanna per i diritti tv Mediaset); la detenzione domiciliare; la semilibertà; la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva e l’affidamento in prova. Se il fondatore del Carroccio non opterà per nessuna delle pene alternative, la procura generale di Brescia si attiverà per far scontare a Bossi il periodo di reclusione. Il reato di vilipendio è disciplinato dall’articolo 278 del Codice penale e prevede la pena della reclusione, che oscilla da uno a cinque anni di carcere. In primo grado, il 22 settembre 2015, il tribunale di Bergamo aveva inflitto a Bossi un anno e sei mesi di reclusione. In appello, l’11 gennaio 2017, la condanna era stata confermata, seppure con una lieve riduzione della pena (dodici mesi). Pochi giorni fa, il procedimento ha terminato il suo corso con la pronuncia della prima sezione penale della corte di Cassazione. Non paga, la Suprema corte ha condannato Bossi anche a pagare 2mila euro alla Cassa delle ammende. Ieri è arrivato il sigillo delle toghe bresciane, con la firma dell’ordine di carcerazione (poi sospeso). A nulla sono valse, in tutti questi anni, le tesi della difesa, secondo cui le parole di Bossi si sarebbero dovute far rientrare nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nel comizio incriminato, il Senatùr contestò Napolitano con queste parole: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica, che è venuto a riempirci di Tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Quindi il gesto delle corna. Apriti, cielo: alle parole di Bossi seguirono polemiche a tutto spiano, decine di querele e l’esposto che diede vita all’iter giudiziario. Con l’ipotesi di un «attacco sovversivo contro l’Unità d’Italia e i suoi organi costituzionali». A colpi di «terùn».

Regione Lombardia, caso Maroni, condanna a un anno: «Gli incarichi alle collaboratrici? Un suo interesse». Il Tribunale ha motivato la sentenza sull’ex governatore della Lombardia nel processo per i contratti di Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, scrive Luigi Ferrarella il 18 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sarebbe stato un problema sistemare in Regione Lombardia le due amiche della cui collaborazione (già sperimentata al ministero dell’Interno) l’allora presidente leghista della Regione Roberto Maroni non voleva privarsi: sia per l’ipoteca della Corte dei Conti che avrebbe posto «un profilo di danno erariale», sia per la «difficile gestione anche mediatica delle ripercussioni» sul tema «costi della politica, oggetto di interesse del partito di Maroni». È così che il Tribunale di Milano — nel motivare la condanna in primo grado a un anno (pena sospesa) per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e l’assoluzione dall’induzione indebita — inquadra i contratti temporanei a Mara Carluccio in Eupolis (ente di ricerca sotto controllo regionale) e a Maria Grazia Paturzo in Expo. Nel primo caso «Maroni, personalmente (ne è stata acquisita prova diretta) e per il tramite di Giacomo Ciriello» (suo capo staff, 1 anno di pena), «incaricò» il leghista segretario generale del Pirellone, Andrea Gibelli (oggi n.1 di Ferrovie Nord Milano, 10 mesi e 20 giorni di pena), «di segnalare al direttore generale di Eupolis, Alberto Bugnoli», otto mesi patteggiati), il nome di Mara Carluccio (sei mesi di pena). E «l’agire di Brugnoli», che «ricevette da Gibelli il curriculum di Carluccio ben prima dell’avviamento della selezione» sfociata in un incarico su misura da 29 mila euro, fu «rivolto all’esclusivo scopo di compiacere» l’«interesse personale di Maroni» e «non già per soddisfare una esigenza della PA». Nel secondo caso (cioè il viaggio a Tokyo di Paturzo, poi annullato, di cui Maroni nel maggio 2014 cercava di accollare le spese all’Expo di Beppe Sala), il Tribunale riporta due pagine di sms e intercettazioni per dare «la prova diretta della» invece sempre negata «esistenza di una relazione non solo professionale», foriera perciò di atti alla Procura, per ipotesi di false dichiarazioni, a carico di Paturzo e delle testi Isabella Votino (portavoce di Maroni) e Cristina Rossello (avvocato e parlamentare di Forza Italia). Ma negli sms e telefonate che il pm Eugenio Fusco qualificava come «pressioni» di Maroni su Cristian Malangone (il braccio destro di Sala già assolto definitivamente) i giudici Guadagnino-Amicone-Vanore ravvisano invece non «la perentorietà» di una pressione illecita, ma «la riproposizione di una richiesta più sbrigativa delle precedenti».

"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso". Le motivazioni della condanna, scrive Luca Fazzo, Martedì 18/09/2018, su "Il Giornale". E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta». E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».

Maroni pubblicherà a novembre un libro “sulle vittime della giustizia mediatica”. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora su Il Foglio spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione, scrive di Tomaso Bassani su "Varesenews.it" il 21 settembre 2018. Nella nuova vita di Roberto Maroni, ex ministro, ex governatore della Lombardia ed ex segretario della Lega Nord oggi, formalmente, solo consigliere comunale varesino, c’è anche spazio per la scrittura. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione. Lo ha raccontato Maroni stesso nella sua rubrica pubblicata su Il Foglio dove toglie il velo sul libro al quale sta lavorando e che uscirà a novembre. Si tratta di una pubblicazione su quelli che l’ex governatore definisce “le vittime dei casi di giustizia mediatica”. “Tanti processi, tanto risalto mediatico, pochissime condanne – scrive Maroni -. Un principio di civiltà giuridica consacrato dalla Costituzione. Peccato che in questa Italia succeda l’esatto contrario. La sentenza di condanna mediatica arriva subito, talvolta precede persino l’informazione all’interessato di essere sottoposto a indagine. E poi recuperare è quasi impossibile”.

Per denunciare tutto questo Roberto Maroni sta scrivendo il suo libro: “manca il coraggio di parlar chiaro, io lo farò in un libro che uscirà a novembre”.

Lega, Tribunale di Milano dispone sequestro di 1,9 milioni a carico dell’avvocato Matteo Brigandì. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Il Tribunale di Milano ha disposto un sequestro preventivo ai fini della confisca da quasi 1,9 milioni di euro a carico dell’avvocato Matteo Brigandì, storico legale in passato della Lega e dell’ex leader Umberto Bossi, a processo per patrocinio infedele e autoriciclaggio perché, secondo l’accusa, “quale avvocato della Lega (è parte civile, ndr)” rendendosi “infedele ai suoi doveri professionali” avrebbe omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo da lui richiesto per avere appunto quasi 1,9 milioni di compensi per la sua attività. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia. Per questo la Procura ha attivato una rogatoria per arrivare a bloccare quei soldi. Il processo, intanto, è stato aggiornato all’8 novembre. A Brigandì, che è stato anche parlamentare della Lega, viene contestato, infatti, anche l’autoriciclaggio perché avrebbe prima investito quei soldi “sottoscrivendo” una polizza vita e poi dopo un “disinvestimento trasferiva – scrive il pm nell’imputazione – la somma di 1,67 milioni” su un conto di una banca in Tunisia. Oggi il processo è stato aggiornato a novembre, perché il giudice Formentin passerà ad altro ufficio e, dunque, il dibattimento, di fatto non ancora iniziato, verrà celebrato da un altro giudice della decima sezione penale. Nel processo la Lega, rappresentata in aula dal legale Lorenzo Bertacco, è parte civile contro Brigandì per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Oggi avrebbero dovuto presentarsi in aula i primi testimoni dell’accusa, tra cui anche l’ex governatore lombardo Roberto Maroni, ma c’è stato il rinvio per il cambio del giudice. Con un nuovo giudice, tra l’altro, la Procura potrebbe anche richiedere di nuovo l’esame in aula di alcuni testi, tagliati dalle liste nella scorsa udienza, tra cui anche il leader della Lega Matteo Salvini perché, aveva spiegato il pm, in passato aveva firmato un atto di transazione con cui il Carroccio rinunciava ad ogni pretesa nei confronti di Brigandì. Poi, però, già in udienza preliminare, la Lega è entrata come parte civile per chiedere i danni allo storico legale di Bossi. Nel frattempo, è arrivato il provvedimento di sequestro preventivo, anche se il ‘congelamento’ di gran parte dei soldi passerà per l’esito della rogatoria attivata in Tunisia.

25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su "Face Magazine". Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.

25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI

2009. Festa di Pontida. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.

2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.

Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”

Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».

Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”

La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.

2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.

Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario. 

Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”.

E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”.

NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.

“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)

“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)

“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)

“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)

“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)

“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)

“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)

“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)

“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).

Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato.  Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».

Lega, da Bossi a Salvini il nemico è sempre il diverso. L'attuale leader della Lega è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, mutuandone i paradigmi. Così il terrone di ieri è diventato l'immigrato clandestino di oggi, scrive Andrea Pietrobelli il 3 luglio 2018 su "Lettera 43". Viva el leon che magna el teron. Per anni in Veneto, ma non solo, questo è stato uno dei motti che i militanti della Lega intonavano quando si affrontavano temi che riguardavano il Meridione. La gente del Sud - i «terroni» - era descritta come il male del Nord principalmente per tre motivi: l'immigrazione, l'assistenzialismo e la criminalità. Il Mezzogiorno, nella narrazione nordista, non solo era la cancrena della nazione, non solo rubava il lavoro con una massa di persone che occupavano posti che spettavano ai polentoni, ma sprecava anche tutte le risorse che le Regioni settentrionali stanziavano all'odiato Stato centrale per aiutare sostentamento e sviluppo di quella disgraziata parte d'Italia.

IL MEZZOGIORNO PROSECUZIONE DELL'AFRICA. Per i leghisti di allora il 'terrone', oltre che rubare il lavoro, era anche tendenzialmente fancazzista e geneticamente portato alla disonestà e alla mafia. Così il Sud diventava, nelle parole della prima Lega, la prosecuzione dell'Africa e dei suoi abitanti. Più che italiani, erano più simili a marocchini, tunisini, egiziani: non solo per situazione economica e tessuto sociale, anche per questioni di sangue. Tutta propaganda con cui Umberto Bossi ha costruito il suo consenso: dal mito della Padania alla retorica anti-italiana, con tanto di Mondiale di calcio giocato in un campionato a parte, dalla secessione fino all'inseguimento di un federalismo che non ha ancora visto concretamente la luce nonostante anni di governo a trazione Fi-Lega.

L'ULTIMO RUGGITO DI BOSSI. Non stupisce, quindi, che Bossi, nell'intervista al Corriere della Sera del 3 luglio, abbia risfoderato l'antica retorica della 'sua' Lega Nord in chiave anti Salvini, capofila di un neo-nazionalsovranismo (che in realtà di nuovo ha veramente poco) che ha sacrificato l'istanza secessionista sull'altare dell'orgoglio italico. Parlando della sua Pontida "invasa" dai meridionali, il Senatùr non è andato per il sottile: «Ho visto solo un sacco di gente interessata a essere mantenuta». E sul successo dell'edizione "populista" ha commentato sarcastico: «Se ci porti lì anche l'Africa...». C'è una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud bossiani con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire. Ma sono così diversi Bossi e Salvini? Sì e no. L'attuale leader della Lega, che è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, ha lavorato negli ultimi anni, a suon di felpe e territorialismi, per creare un leghismo nazionale. Su questo, rispetto al suo maestro, la sterzata è stata netta e, a vedere i risultati, vincente. C'è però una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire.

POPULISMI DI OGGI, CAMICIE VERDI DI IERI. Per il Capitano e i suoi discepoli, i migranti «non fanno nulla dalla mattina alla sera», sono mantenuti, aumentano la criminalità. Esattamente come un campano o un calabrese che negli Anni 90 si trovava a vivere al Nord, per cercare fortuna o perché spinto dalla fame. Una retorica che qualcuno ha definito dell'egoismo, che strizza l'occhio alla xenofobia e che sembra far breccia nel cuore dei populisti di oggi esattamente come nelle Camicie verdi di ieri.

C'È SEMPRE UNO PIÙ A NORD. Sia Salvini sia Bossi, partendo da problemi reali che andrebbero affrontati seriamente, evocano uno straniero più debole e che sta più a Sud come nemico del popolo, come ragione delle disgrazie del "popolo" e pronto a rovinarci ancora di più la vita. Esattamente come, per gli Stati del Nord Europa, Germania in primis, l'Italia è un peso morto, un Paese corrotto, criminale e assistenzialista, che tendenzialmente non vuole pagare i suoi debiti (non a caso lo Spiegel ci ha definiti «scrocconi») e che gestisce le risorse europee sprecandole. Quindi attento Salvini: parafrasando Pietro Nenni, c'è sempre uno più a Nord che ti epura.

CI VUOLE LA BBC PER RIPESCARE UN GRANDE ANEDDOTO SU SALVINI - L'EX MOGLIE PUGLIESE, FABRIZIA: ''AL MATRIMONIO SI È SPOGLIATO, HA INDOSSATO LA CAMICIA VERDE LEGHISTA MENTRE I SUOI AMICI INTONAVANO CORI ANTIMERIDIONALI, CON I MIEI 200 PARENTI CHE FISCHIAVANO, ULULAVANO 'BUUUU''' - LEI ALLE NOZZE ERA INCINTA, SI SEPARARONO POCO DOPO. TRE ANNI FA DISSE: 'CON QUESTA TIZIA (LA ISOARDI) NON E' UNA STORIA VERA. LA SUA ANIMA GEMELLA E'...'

Da repubblica.it l'8 agosto 2018. Un lungo ritratto di Matteo Salvini, tra pubblico e privato, sotto il titolo: "Può l'Italia fidarsi di quest'uomo?". La Bbc riserva al ministro dell'Interno un articolo del corrispondente James Reynolds che ha un attacco un po' di maniera sull'immagine del leader leghista che a differenza degli altri politici italiani in completo e camicia solo raramente indossa la cravatta ma quasi sempre slacciata. Un Salvini che - mentre parla con i giornalisti durante la campagna elettorale del 4 marzo - fuma e controlla il telefono (ndr, in realtà negli ultimi mesi Salvini ha provato più volte a smettere di fumare"). Si racconta il suo exploit elettorale imprevisto, la coalizione con i 5Stelle, la scelta da parte della coalizione di uno "sconosciuto professore di diritto" come premier sostanzialmente "privo di potere", insomma un percorso che ha portato il leader leghista a diventare l'uomo forte dell'esecutivo italiano. La ricostruzione del passato di Salvini sconfina un po' nel folclore: gli esordi come "secessionista di estrema sinistra", con la "spilletta di Che Guevara" nei comunisti Padani. La mancata stretta di mano al presidente Ciampi, quando era in Consiglio comunale a Milano ("Lei non mi rappresenta"), i cori contro i napoletani e al tempo stesso il matrimonio con una pugliese, Fabrizia Ieluzzi (la coppia ha divorziato nel 2010), che racconta: "Al taglio della torta, ha indossato la maglietta verde e insieme ai suoi amici ha cominciato a cantare cori antimeridionali, con tutti i miei parenti che hanno cominciato a fischiare". Ma l'articolo della Bbc individua alcune chiavi del successo di Salvini: l'aver deciso, a un certo punto, la trasformazione del partito da secessionista a nazionalista e l'aver individuato due nemici: l'Europa e i migranti. L'avversario principale non era più dunque lo Stato italiano: nel mirino entravano Unione europea e immigrazione. In pratica, la chiave del successo per la Bbc è nel suo profilo da camaleonte in grado di adattare il messaggio politico al mutare delle situazioni. Ma anche le sue caratteristiche umane, la capacità di presentarsi come il "ragazzo della porta accanto" - con la passione per calcio e donne - rispetto ai politici italiani per motivi diversi percepiti come distanti, irraggiungibili. E di alternare attacchi feroci ai migranti - dipinti in campagna elettorale come "ladri e criminali" - a selfie e battute. Un ritratto forse più concentrato sulle origini di Salvini che sull'attuale svolta a destra del ministro dell'Interno. Che comunque non tralascia l'evocazione di Mussolini. "Il linguaggio diretto di Salvini ricorda ad alcuni italiani quello di Mussolini negli anni Venti e Trenta, quando gli insulti furono seguiti dalla persecuzione delle minoranze" e dalle leggi razziali, scrive James Reynolds. L'articolo si conclude con una riflessione sull'internazionale sovranista - i legami con Marine Le Pen, ma anche con Trump e Putin - e con una previsione a tinte forti: che il futuro dell'Unione europea possa giocarsi proprio nella competizione tra Matteo Salvini e il presidente francese Emmannuel Macron.

L'aneddoto del Buuu al matrimonio raccontato da Fabrizia Ielluzzi a Sara Faillaci su''VANITY FAIR'' nel 2015. «Quando arrivi in alto, devi tenere gli occhi aperti perché c’è sempre qualcuno che ti liscia il pelo, o che sta con te perché vuole ottenere qualcosa. Teo è un po' ingenuo da questo punto di vista, ci sta che qualcosa ci sia stato con questa tizia (Elisa Isoardi, ndr), non ne ho idea, ma di certo non è una storia». Di Matteo «Teo» Salvini, Fabrizia Ieluzzi è stata l'unica moglie. Si sono sposati trentenni nel 2003, quando lei – già incinta di Federico, primogenito del leader leghista – era una giornalista radiofonica in carriera con la passione per la politica, simpatizzante per Forza Italia, e lui un semplice consigliere comunale milanese. Il matrimonio è durato a malapena due anni, seguito subito dopo dalla lunga relazione tra Salvini e la sua compagna storica Giulia Martinelli, madre della secondogenita Mirta. Rapporto, quest’ultimo, che sarebbe stato messo in crisi proprio dal flirt con la conduttrice Rai. Ma Fabrizia Ieluzzi, che in tutti questi anni non ha mai rilasciato interviste, spiega a Vanity Fair che secondo lei quella con la Isoardi è una storia senza futuro. «Da ex moglie, quindi vale doppio, posso testimoniare che Matteo e Giulia sono due anime gemelle, le metà della stessa mela», dice l'ex Signora Salvini. «Lei è una militante della Lega, sono cresciuti insieme; anzi, posso dire che lui l'amava da quando erano pistolini, c'era anche prima di me. Lei è nel suo cuore, non la levi nemmeno con lo scalpello. Ti pare che bastano due tette che camminano per riuscirci? Io sono pronta a scommettere che torneranno insieme. Una cosa del genere, nell'economia di una vita insieme, si supera». Nell'intervista che Vanity Fair pubblica nel prossimo numero, Fabrizia Ieluzzi racconta tutto della loro storia. L'improbabile colpo di fulmine – lui nordista, lei pugliese –, i romanticissimi sms del corteggiamento di Salvini, la cerimonia di nozze dove lo sposo improvvisa uno striptease (testimoniato dalle foto che Vanity Fair ha ottenuto in esclusiva) per indossare una camicia verde mentre i giovani padani intonano il coro «Secessione» e i parenti meridionali della sposa rispondono a suon di «Buuu!», l'affetto della nonna di lei che lo rimpinza e gli parla in un dialetto per lui incomprensibile. E poi le inevitabili incomprensioni, la separazione, la nuova vita professionale di lei, la serena famiglia allargata costruita con Giulia Martinelli e i due figli, i difetti di Salvini come compagno e i suoi pregi come padre, il suo carisma politico e la sua incapacità di farsi consigliare. E la volta che il piccolo Federico è andato a un concerto di Fedez, «nemico» di papà.

CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.

Accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord. Da Anarcopedia. Le accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord accompagnano la storia della Lega Nord fin dagli esordi sulla scena politica italiana.

Le prime accuse di razzismo anti-meridionale. Fino al 1990 la Lega Nord ha ricevuto principalmente accuse di razzismo anti-meridionale. Una dichiarazione precisa in questo senso fu rilasciata da Gianfranco Fini, all'epoca segretario dell'MSI, dopo le elezioni amministrative del 1988. Solo dopo si parla di razzismo contro l'immigrato extracomunitario, anche se ancora il 27 novembre 2003 Bossi sosteneva che nel Nord c'è una maggioranza etnica, quella del Centro-Sud, messa insieme dal centralismo romano, che ha occupato tutti i posti chiave dello Stato, anche da noi al Nord. Siamo colonizzati». Alla fine del 1990 Mario Pirani, in un editoriale su la Repubblica, si interrogava sulle ragioni del successo della novità leghista sostenendo che il «razzismo, di cui il movimento è accusato e che spiegherebbe anche, secondo una critica facile quanto scontata, il successo incontrato, attribuibile ai demagogici slogan anti-terroni e anti-vu' cumprà. Ora, non che questi slogan non siano diffusi con disinibita improntitudine e non corrispondano a reattività emotive determinate dall'afflusso crescente di immigrati di ogni provenienza, ma, pur tuttavia, non ci sembra questa la radice prima di un così ampio consenso. Se mai ne costituisce il collante che salda gli umori popolari immediati alle paure e alle insofferenze più articolate dei ceti d'impresa. Un po' come il combattentismo degli anni 20 in rapporto al fascismo».

Le prime accuse di razzismo xenofobo (1992-1993). Al suo vero debutto in Parlamento nel 1992, la Lega Nord fu accostata da Marcelle Padovani sul settimanale francese di sinistra Le Nouvel Observateur, in un numero dedicato alle estreme destre europee, alla demagogia di Jean Marie Le Pen, all'estremismo nero di Jörg Haider, al secessionismo del Vlaams Blok, alla xenofobia di Franz Schoenhuber, al populismo di Gerhard Frey. Nell'articolo si affermava «la Lega rifiuta ogni assimilazione ai neofascisti, gioca su temi regionalisti venati di xenofobia». Negli stessi giorni il socialista Rino Formica sostenne che la Lega è uguale al fascismo. Bisogna dire alto e forte che il professor Miglio propone tesi fasciste e rispolvera studi che gli furono commissionati dal signor Cefis negli anni Settanta.» Nel 1993 in Razzismi. Un vocabolario di Laura Balbo e Luigi Manconi, alla voce «leghismo» si afferma, fra l'altro, che «l'ostilità contro gli immigrati extracomunitari (così come l'ostilità contro gli immigrati meridionali fino al 1990) costituisce un tratto qualificante dell'identità della Lega e del suo discorso pubblico; il rifiuto della diversità è elemento costitutivo della subcultura leghista».

Il discorso di Bossi al III Congresso federale (1997). In occasione del III Congresso federale, il 15 febbraio 1997, Umberto Bossi si scaglia contro l'Italia che «tratta i popoli della Padania come colonie interne da sfruttare economicamente e da assoggettare etnicamente, magari spingendovi le masse di immigrati extracomunitari che dovrebbero secondo le analisi degli illuminati di Santa Romana Chiesa raggiungere i 13 milioni di individui in pochi decenni. Evidentemente per Roma e per gli Italiani il più grave problema della Padania è che ci sono troppi Padani. La razza pura ed eletta dei romanofili pensa di poter dirigere dall'alto le terre incognite padane ridotte a colonie penali celtiche-congolesi nel nome sacro ed eterno di Roma». Tali affermazioni saranno commentate dall'allora cardinale Joseph Ratzinger come «cose che fanno male. Questa ideologia di una razza pura che non deve essere inquinata da altre è una malattia del cuore. La razza pura non esiste. La convivenza di diverse provenienze umane è ricchezza culturale. Questa idea di una razza che si deve difendere mi fa pensare troppo al passato».

L'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali (1998). Nel dicembre 1998 viene pubblicato e divulgato dal movimento l'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali a cura di Giorgio Mussa - allora funzionario del dipartimento esteri del Carroccio -, Padania, Identità e Società Multirazziale. Secondo alcuni le idee in esso espresse, che ricalcherebbero i 70 punti antimmigrazione del Vlaams Blok, diverranno la prova di quanto la Lega Nord sia un partito xenofobo e razzista. Allo stesso opuscolo si richiamerà la storica Marcella Filippa, già autrice nel 1998 per la Società Editrice Internazionale di Torino del volume Dis-crimini. Profili dell'intolleranza e del razzismo, quando sarà udita nel 2004 come consulente del Pubblico Ministero dal Tribunale di Verona nel processo, già citato nei rapporti dell'ECRI, che giudicherà colpevoli di incitamento allodio razziale sei esponenti locali della Lega Nord.

Il comizio di Bossi a Crema (1999). In discorsi pubblici contro la globalizzazione come quello di Bossi a Crema del 20 febbraio 1999, secondo Pietro Citati vi si «avvertono gli echi di un libro, Mein Kampf di Adolf Hitler». In quell'occasione Bossi invitava i cittadini a firmare per l'abrogazione della legge Turco-Napolitano avvertendo che «il progetto mondialista americano è chiaro: vogliono importare in Europa 20 milioni di extracomunitari, vogliono distruggere l'idea stessa di Europa garantendo i propri interessi attraverso l'economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale. Ma noi non lo consentiremo. (...) Il disegno dei 20 potenti americani non passerà, anche se usano armi potenti come droga e televisione».

Il dibattito in UE (2000-2001). Il 21 settembre 2000 viene approvata la proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulla posizione dell'Unione Europea nella Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001. Per l'occasione l'eurogruppo dei Verdi europei aveva presentato un emendamento che stilava un elenco delle forze politiche razziste e xenofobe europee, includendo la Lega Nord. L'emendamento sarà respinto con 394 voti contro, 85 a favore, 12 astenuti su suggerimento del relatore della proposta di risoluzione la quale si rammaricò che fosse «stata scelta questa occasione per indicare taluni paesi e partiti attribuendo loro un ruolo particolarmente negativo. (...). Scegliere alcuni paesi, escludendone altri, implica che non è stata effettuata una valutazione complessiva della questione». Alla fine del febbraio 2001 nuove accuse di fascismo alla Lega arrivano dal ministro degli Esteri belga Louis Michel, per il quale «Bossi è un fascista». Bossi reagì liquidando Michel come «un nazista, un nazista rosso... Uno di quelli della sinistra che ha capito che sta perdendo tutto e passa agli insulti». Nel 2002 uno speciale di Corriere.it su estrema destra e xenofobia in Europa affermava che «Bossi e altri principali esponenti leghisti hanno espresso posizioni xenofobe, omofobe e talvolta razziste (come ha sottolineato anche il secondo rapporto della Commissione europea contro l'intolleranza e il razzismo, mai smentito dal governo italiano). La Lega Nord non può comunque essere considerata un partito di estrema destra, non avendo mai assunto posizioni antisemite e nemmeno neofasciste. L'unico tratto comune con i partiti dell'estrema destra europea, a parte la xenofobia, è l'avversione all'attuale politica di integrazione dell'Unione europea».

I rapporti dell'ECRI (2002-2006). La Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI), organo di esperti indipendenti del Consiglio d'Europa, in due rapporti consecutivi sulla situazione italiana, nel 2002 e nel 2006, ha denunciato come «gli esponenti della Lega Nord hanno fatto un uso particolarmente intenso della propaganda razzista e xenofoba, quantunque si debba notare che anche dei membri di altri partiti hanno usato un linguaggio politico xenofobo od in altra maniera intollerante». Quattro anni dopo l'ECRI ha notato «con rammarico che, da allora, alcuni membri della Lega Nord hanno intensificato l'uso di discorsi razzisti e xenofobi in ambito politico. Pur rilevando che si sono espressi in tal senso soprattutto dei rappresentanti eletti locali di questo partito, anche certi importanti leader politici a livello nazionale hanno rilasciato dichiarazioni razziste e xenofobe. Tali discorsi hanno continuato a prendere di mira essenzialmente gli immigrati extracomunitari, ma anche altri membri di gruppi minoritari, ad esempio i Rom e i Sinti». Di seguito si ricorda «che nel dicembre del 2004, Il tribunale di prima istanza di Verona ha giudicato colpevoli di incitamento all'odio razziale sei esponenti locali della Lega Nord, in relazione a una campagna organizzata per cacciare un gruppo di Sinti da un campo temporaneo sul territorio locale. Le sei persone furono condannate a sei mesi di prigione, e al pagamento di 45.000 Euro per danni morali, con divieto di partecipare a qualsiasi attività di propaganda elettorale per tre anni e di presentarsi alle elezioni nazionali e locali».

L'opposizione leghista al mandato d'arresto europeo per razzismo e xenofobia (2001). Alla fine del 2001 la Lega, tramite il suo ministro della Giustizia Roberto Castelli, è stata in prima fila per impedire all'Unione Europea di adottare un mandato di cattura europeo (volto a sostituire nel tempo le estradizioni all'interno della UE) meno estensivo. Parlando da Radio Padania Libera l'8 dicembre 2001 Castelli spiegherà che «tra i trentadue reati proposti (che l'Italia vuole ridurre a sei, ndr) c'è quello di razzismo e xenofobia: chi decide a livello europeo chi è razzista e chi no? Chi garantisce, ad esempio, i cittadini che scenderanno in piazza domani?». E il giorno dopo alla manifestazione leghista No immigrati, sanatoria, terrorismo a Milano Castelli avverte i suoi compagni di partito che «se non mi fossi opposto al mandato di cattura europeo, avremmo corso il rischio di avere un vero e proprio reato di opinione su razzismo e xenofobia. Tutti voi avreste rischiato di essere arrestati da un qualsiasi magistrato europeo di sinistra, e vi assicuro che ce ne sono molti, solo perchè siete qui a manifestare contro l'immigrazione clandestina». Poche ore dopo il governo italiano ritira ogni pretesa, con grande disappunto della Lega. La decisione quadro in Italia è stata attuata con la Legge 22 aprile 2005 n. 69.

L'opposizione leghista alle tesi europee sul reato di razzismo e xenofobia (2002-2008). Il 25 aprile 2002 Castelli dichiara la sua contrarietà alla dichiarazione approvata all'unanimità dal Consiglio dei ministri dell'Unione Europea contro il razzismo e la xenofobia. Castelli contesta che quella dichiarazione ponga anche la necessità di «armonizzare le legislazioni nazionali contro il razzismo e la xenofobia» sulla base della proposta quadro presentata dalla Commissione il 29 novembre 2001 ove «per "razzismo e xenofobia" si intende il convincimento che la razza, il colore, la discendenza, la religione o i convincimenti, l'origine nazionale ed etnica siano fattori determinanti per nutrire avversione nei confronti di singoli individui o di gruppi». Così, secondo il ministro leghista, si «rischia di sconfinare in una limitazione della libertà di pensiero. Per esempio, il reato fa riferimento anche al convincimento che un individuo si ritenga superiore a un altro. Io mi chiedo: come può un magistrato entrare nel convincimento personale di un individuo? Il punto è che stiamo viaggiando su una linea di confine molto delicata: un conto è essere razzista, e noi condanniamo il razzismo e la xenofobia, un conto è esprimere liberamente le proprie opinioni e fare lotta politica». Ma per la Commissione europea «il convincimento in sè non è considerato reato: sono solo le azioni criminose motivate da questo convincimento che vengono punite, e per le quali la motivazione razzista è considerata un'aggravante». Sempre in nome della «libertà di opinione», nel marzo 2003 Castelli porrà il veto dell'Italia al Consiglio dei ministri della Giustizia della UE sull'approvazione della decisione-quadro sul razzismo e la xenofobia. Ancora il 2 giugno 2005 Castelli torna a porre il veto motivandolo stavolta per il «rinvio a giudizio di Oriana Fallaci per xenofobia» avvenuto una settimana prima, e perchè «il Parlamento italiano intende riprendere in mano i reati d'opinione». Come in effetti accadrà con la promulgazione della Legge 24 febbraio 2006, n. 85 che ha alleggerito notevolmente anche le pene contro l'odio razziale o etnico. L'UE arriverà a un accordo su razzismo e xenofobia solo nel novembre 2008.

Il caso Salvini (2009). Nel 2009 la Lega subirà nuove accuse di razzismo per i comportamenti di Matteo Salvini, deputato e capogruppo leghista in Consiglio comunale a Milano, prima (7 maggio) a causa della sua proposta (che lui stesso definisce provocatoria) di «pensare a posti, o vagoni, riservati ai milanesi» o alla «possibilità di riservare le prime due vetture di ogni convoglio alle donne che non possono sentirsi sicure per l'invadenza e la maleducazioni di molti extracomunitari», e poi il (7 luglio) quando è ripreso in un video pubblicato da Repubblica Tv mentre con altri leghisti intona cori contro i napoletani alla festa di Pontida del 13 giugno precedente. In entrambi i casi anche gli alleati spesso prenderanno le distanze.

La condanna di Gentilini, Tosi e altri (2009). Il 14 settembre 2008 dal palco della Festa dei popoli padani, il vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, inveisce contro gli immigrati con modi e tesi giudicate razziste prima dal quotidiano CEI Avvenire, poi da Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa e infine dal Tribunale di Venezia che nell'ottobre 2009 condannerà Gentilini a 4.000 euro di multa e alla sospensione per tre anni dai pubblici comizi per istigazione al razzismo. Analogo provvedimento prenderà in quei giorni la Cassazione contro il sindaco leghista Flavio Tosi per i già citati episodi razzisti del 2001.

Il dibattito in ambiente accademico. Nel 2001 Anna Cento Bull e Mark Gilbert in The Lega Nord and the Northern Question in Italian Politics (Basingstoke, Palgrave) analizzando la Lega hanno sostenuto che fino al 1995 «è sostanzialmente corretto identificare la Lega con una subcultura politica contrassegnata da forti accenti populistici», ma dal 1996, cioè «dalla fondazione della Padania, in ogni caso, questa distinzione è venuta meno e oggi la Lega dovrebbe essere considerata parte della famiglia  di estrema destra dei partiti politici» per via della sua maggiore ostilità al multiculturalismo, all'integrazione europea e alla globalizzazione (p. 106). A tal proposito Duncan McDonnell ha commentato che pur apprezzando «lo sguardo obiettivo e imparziale con cui Cento Bull e Gilbert esaminano l'argomento» ha sostenuto in modo più conciliante che «ormai si dovrebbe capire che le affermazioni della Lega non dovrebbero sempre essere prese alla lettera: le posizioni del partito, per quanto discutibili e a volte espresse grossolanamente, spesso mirano a provocare il dibattito pubblico e politico, attirando l'attenzione su questioni che sono fonte di inquietudine nelle roccaforti leghiste (e non solo)».

La difesa della Lega Nord. La Lega Nord ha sempre respinto le accuse di razzismo e xenofobia definendole come «pretesti» per «demonizzare e isolare la Lega». E il 12 aprile 1996 Bossi riteneva che «il razzismo non è quello che dicono gli altri per farci passare da razzisti. Razzismo è un'altra cosa, è il controllo dell'economia dei popoli da parte di una etnia, è il controllo dell'economia degli altri». Più in là, sempre Bossi il 23 dicembre 1996 dichiarava: «Io non parlo di valore etnico, chiunque, da qualunque parte venga, può partecipare alla nascita della nazione padana. Tutti quelli che vivono in Padania, siano essi bianchi o neri o gialli, da qualsiasi parte vengano, nel '97 devono trovare la forza per fare la Padania». Al momento della pubblicazione del rapporto ECRI del 2002, Bossi aveva difeso sè e la Lega affermando che «La Lega non è razzista e non è xenofoba. Noi siamo democratici. (...) Io sono tranquillo, queste accuse le respingo al mittente. Razzista e xenofoba è la sinistra. Noi siamo in regola, non siamo Le Pen. (...) Noi siamo il contrario di Le Pen e chi ci accosta a un farabutto. Altro che razzisti e xenofobi». Dal giugno 2009 la Lega Nord vanta nel Comune di Viggiù il primo sindaco nero italiano, Sandra Maria detta Sandy Cane, per la quale «la Lega non è affatto razzista chiede solo che sia messo un freno all'illegalità perchè ci sono troppi clandestini».

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona? Scrive il 25 dicembre 2015 Giulio Cavalli. (Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano). Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova. Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996. L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimo blitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura. Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro. E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD (1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)

1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)

1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)

1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)

1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)

1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)

1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)

1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)

1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)

1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)

1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)

1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)

2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)

2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)

2002 € 3.693.849,60

2003 € 4.284.061,62

2004 € 6.515.891,41

2005 € 8.918.628,37

2006 € 9.533.054,95

2007 € 9.605.470,43

2008 € 17.184.833,91

2009 € 18.498.092,86

2010 € 22.506.486.93

2011 € 17.613.520,09

2012 € 8.884.218,85

2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Lega Ladrona, per non dimenticare, scrive Claudio Rossi su "L'Uomo Qualunque". Umberto Bossi e i suoi figli Renzo e Riccardo devono rispondere all’accusa di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici (ottenuti con rimborsi elettorali) che sarebbero stati usati per pagare le spese personali più varie, di tutto e di più, ben elencato qui sotto. Una somma che gli imputati si sarebbero accaparrati insieme all’ex tesoriere dalle casse leghiste, a scopo personale, detto da Uomo Qualunque per farsi i cazzi loro. Lo ha disposto il gip di Milano Carlo Ottone De Marchi nell’ottobre scorso. Niente udienza preliminare e iter accelerato, quindi, per un processo diviso in tre “filoni”. Due di questi resteranno a Milano (compreso quello sul presunto riciclaggio contestato all’ex tesoriere Francesco Belsito, ndr), mentre un’altra parte è stata trasferita a Genova per competenza territoriale. Ovvero, quella relativa alla truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato, per circa 40 milioni di euro. Da quanto si è saputo, Riccardo Bossi, figlio di primo letto di Umberto, punta a patteggiare la pena. Ecco come spendeva i nostri soldi la Lega Nord, per non dimenticare:

– RENZO BOSSI: 145.524,88 EURO

MULTE: 7.821 EURO. Nel solo 2011, tra Bergamo, Brescia e Piacenza, a bordo di vetture diverse (Alfa 159, Audi A5, Volvo S80), prende multe per quasi ottomila euro.

LAUREA A TIRANA: 71.131 EURO. La storia è nota. Di là dell’Adriatico, il figlio del Senatùr, acquistò il titolo di studio.

– RICCARDO BOSSI: 157.933,13 EURO

MULTE: 2.110 EURO. Ne prende circa quattro al mese a bordo di una Bmw X5. Per la maggior parte a Milano.

LEASING MERCEDES ML: 21.350 EURO. È tra i soldi spesi dalla Lega nel 2011.

LEASING CLIO: 6.974 EURO. Anche per questa seconda vettura paga il Carroccio.

LAUREA: 3.413 EURO. È il costo dell’Università dell’Insubria.

ABBONAMENTO SKY: 454 EURO. Pacchetti Sky per la Lega.

EX MOGLIE MARUSKA: 8.050 EURO. Anche l’ex moglie di Riccardo riceve bonifici da via Bellerio.

VETERINARIO: 439 EURO. A tanto ammonta la parcella presentata alla Lega.

– UMBERTO BOSSI: 208.565 EURO

VESTIARIO: 26.786 EURO. Cravatte, camicie e completi del presidente passano sui conti della Lega. Ci sono anche scarpe da ginnastica, pigiama e calzettoni.

GIOIELLI: 220 EURO. È il conto dal gioielliere.

DENTISTA: 1.500 EURO. La Lega come la mutua.

CLINICA PRIVATA 9.901,62. Il Carroccio prende a carico anche le cure in una clinica privata per Sirio, figlio minore del Senatùr.

– FRANCESCO BELSITO: 2.400.000 EURO

ARMI: 2.375 EURO. Il Tesoriere spende in armeria.

UNIVERSITÀ: 5.436. È un po’ una passione, quella dell’istruzione, per la Lega del 2001.

BORSA DI VUITTON: 960 EURO. Non doveva nemmeno essere un modello costosissimo.

CESTO DI FIORI: 290 EURO. Anche il conto del fioraio tra gli scontrini pagati con il finanziamento pubblico dei partiti.

P.S. Ora la Lega queste cose non le fa più, vero Salvini?

Da Garavaglia a Rizzi, la Lega lascia a casa le scope, oggi il nemico è la magistratura, scrive Andrea Carugati, Giornalista, su "L'huffingtonpost.it" il 16/02/2016.  Sono passati quattro anni da quella serata alla Fiera di Bergamo, quando Bobo Maroni guidò la rivolta delle scope contro gli scandali che avevano travolto il cerchio magico di Umberto Bossi e i suoi figli. Una serata all'insegna della rottamazione giudiziaria, con il vecchio Senatur sul palco a chiedere scusa per il Trota, e i "barbari sognanti" di Maroni in platea a gridare cori da stadio contro Rosy Mauro, la vestale del cerchio, che subì una sorta di rogo medievale come una "strega". Una strega "terrona", visti i suoi natali pugliesi. "Rosy pu....a l'hai fatto per la grana", gridavano. Maroni dal palco fu categorico: "Se non si dimette lei, la dimetterà la Lega". "Dobbiamo fare pulizia, chi sbaglia paga". In quella notte di rottamazione ante litteram, con gli scandali e i diamanti che sembravano travolgere il Carroccio, c'era anche l'allora sindaco di Besozzo Fabio Rizzi, senatore maroniano, uno dei protagonisti della faida varesina che vide di colpo su barricate opposte sindaci, quadri, dirigenti e militanti leghisti fino a quel momento uniti contro "Roma ladrona". Tra i barbari che lavoravano per mettere Bobo sul trono di Umberto c'erano Matteo Salvini, Flavio Tosi, l'attuale assessore lombardo Gianni Fava, l'attuale presidente del Copasir Giacomo Stucchi e molti parlamentari. La parola d'ordine era salvare la Lega nel segno della moralità. Fare pulizia. Dopo quattro anni la carriera politica della Mauro è finita. Un ricordo i bei tempi da numero due del Senato, con l'amico bodyguard e aspirante cantante Pier Moscagiuro, agente di polizia dirottato a palazzo Madama, e autore del brano "Kooly Noody", divenuto in quelle settimane una sorta di "inno" dei maroniani contro la vecchia guardia. "Mi sono francamente rotto di Cerchi magici e Kooly Noody", scriveva Maroni su Facebook per dare la carica ai suoi. Dopo quattro anni, però, ironie della storia, Rosy Mauro è uscita pulita dalle inchieste che pure l'hanno riguardata. Nel 2014 l'archiviazione per l'inchiesta in cui era coinvolta insieme all'ex tesoriere Belsito, espulso come lei nel 2012 a furor di popolo. Nello stesso anno archiviazione anche in riferimento alle spese sostenute quando era consigliere regionale in Lombardia. Belsito, Bossi e i figli Renzo e Riccardo, invece, sono ancora sotto processo a Milano con l'accusa di appropriazione indebita di circa 500mila euro di rimborsi elettorali della Lega. E ora che la breve stagione di Maroni alla guida del Carroccio si è conclusa da un pezzo, agli arresti è finito uno dei barbari sognanti, Fabio Rizzi, presidente della commissione Sanità al Pirellone e tra i principali artefici della riforma sanitaria lombarda. L'accusa parla di una presunta tangente di 50mila euro e altri benefit a lui e a un suo stretto collaboratore per aver favorito una società che si occupa di ambulatori odontoiatrici. Due giorni fa, Matteo Salvini, altro beneficiario della rottamazione giudiziaria contro i bossiani, ha tuonato contro la magistratura italiana, definita "una schifezza", in riferimento al rinvio a giudizio del suo fedelissimo Edoardo Rixi (che è anche il vicesegretario della Lega) nell'inchiesta sulla rimborsopoli del consiglio regionale ligure. Frasi che sono costate un'indagine a carico di Salvini, indagato dalla procura di Torino per "vilipendio dell'ordine giudiziario". La squadra di Maroni al Pirellone era già stata colpita ad ottobre 2015 dall'arresto del vicepresidente Mario Mantovani (Forza Italia), poi trasferito ai domiciliari, accusato di corruzione e altri reati. A fine gennaio 2016, il pm Giovanni Polizzi ha chiesto il rinvio a giudizio per Mantovani e, nell'ambito dello stesso filone d'inchiesta, anche per il potente e autorevole assessore al Bilancio della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, per il quale l'ipotesi di reato è turbativa d'asta. Leghista, molto legato al governatore, Garavaglia è stato difeso a spada tratta da Salvini. "La sua colpa sarebbe di aver aiutato una associazione di volontariato del suo territorio, che trasporta malati e dializzati", ha scritto Salvini sul suo profilo Facebook: "Avrebbe quindi truccato un appalto, poi vinto da altri! Se aiutare (senza peraltro riuscirci) una associazione di volontariato è un reato, mi auto-denuncio anch'io: arrestatemi!". Le scope, in casa leghista, sembrano un lontano ricordo. Spazzati via Belsito, la Mauro e i figli di Bossi, l'epoca del "giustizialismo padano" sembra finita. Ora il nemico è la magistratura. Come negli anni Novanta, quando Bossi tuonava contro i pm, e avvertiva che "dalle nostri parti i proiettili costano solo 300 lire...".

Lega Nord: la politica "idiota". Intervista a Lynda Dematteo del 19 Aprile 2012 su “L’Inkiesta”. Non passa giorno in cui i giornali e le televisioni non amplifichino l’ultima dichiarazione di Bossi, l’ultimo suo grugnito sulla Roma Ladrona, l’ultimo suo avvertimento. Il problema è che lo prendono sul serio. Il problema è che prendono la Lega Nord sul serio, con le proposte razziste, con le affermazioni razziste che contraddistinguono i suoi esponenti. La difesa poi della Padania, resta un capitolo a parte. Questa terra celtica da difendere, come ai tempi di Asterix e Obelix, dai romani di Caio Giulio Cesare. Tutti questi intenti, poi - come si è visto ultimamente - sono miseramente caduti uno dopo l'altro, schiacciati dalle inchieste giudiziarie che hanno travolto mezzo establishment del Carroccio. Oggi però tralasciamo l'attualità e le polemiche che continuano a riempire le prime pagine dei giornali, ed andiamo ad analizzare il fenomeno Lega Nord, dal punto di vista culturale, sociale, cercando di capire come è riuscito ad incidere sulla vita politica italiana. Per farlo, abbiamo contattato tramite mail Lynda Dematteo, antropologa francese, autrice de L’idiota in politica. Questo è ciò che ci ha raccontato.

Come nasce l'idea del suo libro?

<<L’idea de L’idiota in politica, scaturisce dal lavoro etnografico. Quando ho cominciato ad indagare nella provincia di Bergamo, mi sono resa conto che i bergamaschi (non leghisti) chiamavano 'idioti' i seguaci della Lega Nord. Intanto, questo partito di 'idioti' che veniva deriso un pò da tutti per i suoi aspetti 'folkloristici' era al potere nella provincia senza che nessuno si preoccupasse realmente dei danni che poteva fare nelle istituzioni. I leghisti stessi hanno avuto l’intelligenza di giocare con questa immagine di bravi 'idioti' della politica per distinguersi dai politici di professione che disgustavano la gente, dopo le rivelazioni del Pool Mani Pulite. Credo che una tale situazione sia stata resa possibile dalla delusione e dal progressivo distacco dalla politica della maggioranza dei bergamaschi, più interessati al lavoro e al guadagno che ad altre considerazioni collettive>>.

Come nasce la Lega Nord? In quale contesto socio-economico?

<<L’ideologia leghista venne elaborata negli anni ’50 in ambiti democristiani quando Umberto Bossi era troppo giovane per preoccuparsi di politica. All’inizio si trattava di ottenere la messa in pratica degli articoli relativi all’autonomia delle comunità già contenuti nella Costituzione Italiana. Dopo diversi tentativi falliti, il leader varesotto riuscirà nel 1992 a coalizzare i piccoli movimenti autonomisti del Nord Italia e porterà avanti le rivendicazioni federaliste del Nord. Questo salto di qualità fu reso possibile dal sostegno finanziario delle piccole e medie imprese che, in quegli anni, hanno identificato la Lega Nord come il soggetto politico in grado di sostenere la loro attività e di difendere i loro interessi localistici. In quegli anni, molti imprenditori si sono impegnati in prima persona raggiungendo i ranghi leghisti>>.

Dopo la loro entrata nella scena politica, nel '92/'94, quali cambiamenti hanno portato nella società italiana in termini di linguaggio politico?

<<Da questo punto di vista, il leghismo fu una vera rivoluzione. Umberto Bossi ha polverizzato il politichese della vecchia classe politica con le sue provocazioni e le sue violenze di linguaggio. Ha creato un lessico tutto suo, pieno di metafore inattese, a volte umoristiche, che associava cucina politica e volgarità popolana. Le sue performances pubbliche hanno fatto scalpore e sedotto un elettorato stanco dei discorsi dei politici. È lui ad avere segnato il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, aprendo la strada al berlusconismo, anticipando addirittura il porno-pop di questi ultimi anni>>.

Cosa rappresenta, per la Lega Nord, la Padania e come sono riusciti a far passare il messaggio di una difesa di questo 'pseudo-territorio'? Si può inventare, come diceva anche Hobsbawm, la tradizione?

<<La tradizione è sempre un’invenzione. Questa invenzione può attecchire come il kilt scozzese oppure fare un flop. Nel caso leghista, non ha attecchito, perché c’era un vizio originale nell’elaborazione simbolica: come possono i leghisti inventare una nuova tradizione nazionale padana accontentandosi di rovesciare i miti italiani? Ai nazionalisti bretoni non verrebbe in mente di riprendere dei miti repubblicani francesi per spostarne il senso. È un modo piuttosto strano di operare, non trova? Credo che alla fine i leghisti ottengano un risultato opposto a quello che auspicano. La loro Padania avrà rinforzato al contrario il sentimento nazionale italiano>>.

Ho notato, rileggendo gli atti costitutivi del 1989, che si fa più volte menzione di un'ideale etnonazionalista, di un'unione di popoli e movimenti del Nord e di una spiccata lotta al fondamentalismo islamico. Sembrano più ideali medioevali che di un partito politico. Sbaglio?

<<Mi sorprende che la lotta al fondamentalismo islamico sia già presente nei testi della Lega Lombarda. In quegli anni era prevalente il discorso antimeridionalista. L’etno-federalismo, invece, è da sempre stato l’obiettivo politico della Lega Nord. Il leghismo si inserisce in un filone specifico dell’estrema destra europea che trova corrispondenze in altri partiti come il Vlaams Belang fiammingo, la FPO austriaca o il Partito del Popolo danese. La Lega Nord concepisce l’Europa come un insieme di popoli regionali diversi tra di loro per storia, lingua, tradizioni e antiche ascendenze. Questi gruppi, ai quali non corrispondono necessariamente i confini nazionali esistenti, vengono essenzializzati come se fossero sempre esistiti sotto la stessa maschera nel passare dei secoli. Questo può sembrare totalmente retrogrado rispetto ai modelli politici vigenti, ma non deve essere sottovalutato, perché la globalizzazione scardina i confini stabiliti e favorisce l’emergere di nuovi etno-nazionalismi>>.

Stona ancora di più, e denota quanto possano essere strumentali le loro battaglie, questa lotta al centralismo dello Stato e a 'Roma ladrona' quando poi nelle amministrazioni locali, già dagli anni '90, si comportano come gli stessi partiti che criticano. Non le sembra un controsenso? Un'ideale che hanno trasmesso al loro elettorato ma che è palesemente paradossale?

<<Credo che i leghisti si sono fatti propugnatori di una 'doppia morale' italiota. A parole difendono le virtù pubbliche, ma in realtà fanno i loro interessi. Direi che i loro discorsi sulla purezza padana hanno avuto una funzione auto-assolvente. Qui si tocca la dimensione profondamente carnevalesca del movimento leghista. Penso che la Lega finirà per essere scardinata dalle sue contraddizioni>>.

Umberto Bossi è volutamente o involutamente un' "idiota in politica"?

<<Direi che facendo l’idiota, Umberto Bossi, oltrepassa i suoi limiti reali. È riuscito a fare della sua idiozia iniziale una vera forza politica. In questo, sta il suo genio>>. MATTEO MARINI per Wilditaly.net

Lega Nord a Pontida, Bossi: "Obiettivo resta secessione Padania". Il senatur ha rispolverato la vecchia parola d'ordine ma non ha suscitato gli applausi corali, scrive il 18 settembre 2016 “Il Giorno”. Pontida, 18 settembre 2016 - "La Lega è stata fatta per la libertà del nord dall'oppressione del centralismo italiano, non per altri motivi". Lo ha ricordato Umberto Bossi dal palco di Pontida, affermando che la Lega "non potrà mai essere un partito nazionale". L'obiettivo quindi deve rimanere la "secessione" della Padania. Il presidente-fondatore della Lega ha ricevuto un'accoglienza affettuosa, ma le sue parole sulla Padania non hanno suscitato l'applauso corale del pratone. In molti però hanno inneggiato alla Padania e alla secessione, rispondendo all'appello del vecchio capo. "Io ho ascoltato in questi tempi con molta attenzione la Lega - ha detto tra l'altro Bossi -. La Lega è in un momento di grande confusione, è stata né carne né pesce, ma la Padania resta nel cuore e nella testa". Bossi ha osservato che "troppo spesso si sente parlare di uscire dall'euro, ma i fatti dicono che l'Italia si porta via 100 miliardi di euro e l'Europa due: chi è dunque il nemico? State attenti a tirare le conclusioni così». Bossi, senza fare nomi, si è infine rivolto ai leghisti radunati a Pontida nel ventennale della dichiarazione di indipendenza della Padania affermando che "a volte i dirigenti devono essere richiamati dai veri proprietari, i militanti". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia quello di un piccolo partito servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato". Lo ha detto Matteo Salvini dal palco di Pontida, rispondendo indirettamente all'intervento di Umberto Bossi. "Voglio cambiare il paese ma come voglio io, voglio accordi scritti con il sangue", ha aggiunto. "L'Italia di oggi è un'Italia di cui ci si vergogna perché dà 300 euro agli invalidi e 1000 euro alle cooperative che garantiscono gli immigrati". Lo ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini, rispondendo a un cronista che gli ha chiesto se il messaggio di uno degli striscioni che sono comparsi questa mattina sul 'sacro prato' di Pontida, che recita "Italia di m… secessione", sia ancora attuale. "L'Italia o sta insieme riconoscendo le diversità, come Miglio ha insegnato, oppure il Paese di oggi è un Paese di cui vergognarsi", ha aggiunto Salvini. Poi, ancora: "Noi cambieremo la Costituzione" e ha proposto un "presidente della Repubblica eletto dai cittadini, che abbia potere di governare e di scegliere i ministri". Questa riforma, ha aggiunto Salvini, sarebbe in senso federale con "una sola camera con il proporzionale, i referendum sui trattati internazionali, il vincolo di mandato e i giudici eletti dal popolo". Questa riforma costituzionale, federalista e presidenzialista, è stata indicata da Salvini come una discriminante per nuove alleanze in vista delle elezioni politiche, insieme alla posizione critica verso l'Ue. Nell'elenco delle proposte c'è l'eliminazione del vincolo di mandato per i parlamentari, ma anche un forte intervento sull'ordinamento giudiziario. "Vogliamo giudici eletti dal popolo - ha detto il segretario della Lega - se i magistrati fanno bene vengono rieletti, altrimenti vanno a casa. Cancelliamo anche l'obbligatorietà dell'azione penale. E dico ai magistrati: uscite dalla logica delle correnti, non fatevi giudicare da chi va a lavorare poche ore alla settimana e ha sentenze già scritte. Su la testa, magistrati liberi". Per la Pontida del ventennale dalla 'dichiarazione di indipendenza' pronunciata a Venezia da Umberto Bossi, Roberto Calderoli ha portato sul palco una torta di compleanno con venti candeline, "visto che non ci ha pensato nessuno". Il vicepresidente del Senato ha detto "tanti auguri Padania" suscitando un coro "secessione, secessione" dalla folla sul prato. "Siccome dicono che ci siamo dimenticati della Padania - ha aggiunto Calderoli -, rispondo che nell'articolo 1 dello statuto della Lega, che ho scritto io, c'è l'indipendenza della Padania. E fintanto che ci sono io quell'articolo rimane. La Padania non può negarla nessuno. La secessione dobbiamo farla domani mattina dall'Europa e dall'euro, poi vedremo il resto". «Lombardia e Veneto sono le due regioni più avanzate e tartassate da Roma ladrona»: Roberto Maroni ha rispolverato dal palco di Pontida un antico slogan della Lega per sostenere, accanto a Luca Zaia, che c'è «una grande azione comune del lombardo-veneto, perché la nostra missione è di difendere i nostri cittadini, i nostri territori e il nord». «Quale è il nostro programma? Ascoltare il popolo - ha aggiunto poco dopo Zaia -. Oggi esistono due correnti di pensiero. Quella centralista di Renzi e il suo referendum, poi c'è la nostra che dice se c'è un posto di lavoro vicino a casa deve andare prima alla nostra gente». Maroni e Zaia sono saliti sul palco prima dell'intervento finale di Matteo Salvini, attorniati da consiglieri e assessori regionali di Lombardia e Veneto.

Pontida, Salvini attacca Forza Italia: "Mai più schiavi di Berlusconi". Il leader del Carroccio: "Se volete Alfano o Verdini cercatevi un altro". Riferendosi alla convention di Parisi: "Congressi mummificati". Poi attacca Bergoglio: "Chi apre la chiesa all'imam non mi piace", scrive Matteo Pucciarelli il 18 settembre 2016 su "La Repubblica". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia ancora quello di un partitino servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato a capire. Noi non saremo più schiavi di nessuno. Noi accordi al ribasso non ne faremo con nessuno". Matteo Salvini mette i paletti per il futuro del centrodestra nel suo intervento conclusivo a Pontida. Dove si raduna una Lega Nord una e trina: quella delle origini di Umberto Bossi che non vuole abbandonare il sogno secessionista; quella dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, populista ma moderata e pragmatica; infine quella nazionalista e antisistema di Salvini. La tre giorni del Carroccio, a vent'anni esatti dalla dichiarazione di indipendenza della Padania (che poi si chiuse con un nulla di fatto, a parte il gesto simbolico), conferma il lento mutamento in corso all'interno del partito. Il segretario federale deve ricordare la necessità di restare uniti "come un corpo solo", perché poco prima di lui il Senatùr era stato durissimo nei confronti del nuovo corso. Poi ci sono anche le magliette pro Ratzinger dei Giovani Padani e critiche nei confronti di Papa Bergoglio, con la scritta 'Il mio Papa è Benedetto": "Lui aveva le idee chiare sull'Islam - spiega Salvini - chi fa entrare l'imam in chiesa non mi piace". Bossi critico quindi, ma anche Roberto Calderoli, arrivato sul palco con torta e venti candeline. Appunto l'anniversario della Padania. "L'articolo 1 l'ho scritto io e finché sarò in vita rimane com'è", spiega il vicepresidente del Senato, con riferimento al primo capoverso dello Statuto leghista che cita l'indipendenza della Padania come obiettivo fondativo. Per Bossi il primo nemico rimane Roma: "Siamo nati per la libertà del Nord, la Lega non sarà mai un partito nazionale". Parole che hanno un peso perché, seppur acciaccato, il fondatore rimane una voce rispettata e amata dalla base. La Lega di mezzo è quella degli amministratori, e in mezzo alla contesa preferisce mettersi da parte. Zaia e Maroni salgono sul palco con consiglieri e assessori: "Il programma del centrodestra è ascoltare il popolo", dice generico il presidente veneto. Salvini ammette di non aver dormito la notte per preparare l'intervento. "Come gli allenatori del giorno dopo, anche qui ci sono dei segretari federali che hanno la bacchetta magica. Il potere centralista è stato forte, ma possiamo dire che anche noi ci siamo complicati la vita e fatti male da soli?", è la prima risposta a Bossi. Poi: "Se qualcuno pensa di far tornare la Lega un partito del 4 per cento servo di altri non mi interessa, di eleggere venti parlamentari non me ne faccio un cazzo. Se ti chiami Scajola - prosegue Salvini - se stai con Alfano, Fini e Verdini non stai con me. Se voi volete fare patti con questa gente, scegliete un altro segretario federale". La proposta di Stefano Parisi resta inascoltata dal leader della Lega che ieri aveva definito "mummie" gli esponenti politici ospiti della convention dell'ex candidato sindaco di Milano. "Non vogliamo recuperare qualcuno che è solo a caccia di poltrone". Contro l'Europa e contro l'euro, unificando nella battaglia tutto il territorio nazionale: il piano di Salvini non cambia. Che allo stesso tempo chiama anche gli elettori dei Cinque Stelle: "L'onestà va di moda anche qui e lo stesso dovrà essere per i nostri alleati". Oltre alla proposta da presentare al prossimo congresso di mettere il limite di due mandati per gli eletti. La divisione tra destra e sinistra non esiste più - continua Salvini - ma è tra globalisti e sovranisti. Ci scappa anche un elogio a Enrico Berlinguer ("Lui stava con gli operai in fabbrica, non con le banche come la sinistra di oggi") accolto con gli applausi dai militanti, anche se non troppo convinti. Dopo, le proposte per il futuro: il presidente della Repubblica eletto dai cittadini, una sola camera eletta con sistema proporzionale, il vincolo di mandato per i parlamentari, l'Italia suddivisa in tre macro-aree, magistrati anche loro "eletti dal popolo". Quanto a Forza Italia, infine: "Deve scegliere se stare con noi o con la Merkel in Europa. O con noi sempre, oppure mai". Ma è un monito che Salvini ha lanciato decine di volte nei suoi quasi tre anni da leader della Lega. Finora senza mai vere conseguenze.

La Lega feroce sola contro tutti, scrive Ilvo Diamanti il 19 settembre 2016 su "La Repubblica". Vent'anni dopo la marcia lungo il fiume "sacro", trent'anni dopo il primo "raduno" a Pontida, la Lega di Salvini cerca di presidiare ancora il Po. Anche se oggi si tratta di un riferimento simbolico. Non è più il muro del Nord. Semmai, una barriera contro il Mondo. E anzitutto contro l'Europa. Salvini, d'altronde, si rivolge all'Italia e agli italiani. La sua, è la Lega dei tempi feroci, che evoca i muri. Per difendersi dalla burocrazia europea, dalla finanza globale. Dall'invasione dei migranti, che risalgono dall'Africa. E, spesso, finiscono il loro viaggio in fondo al mare. La Lega di Salvini è la Ligue Nationale, evocata da Salvini a Pontida, richiamandosi a Marine Le Pen. (Oltre che a Putin. Anch'egli baluardo anti-europeo.) Il rischio di questa Lega è di "perdere" il legame con il territorio. Riducendolo a un sentimento. Come ha rammentato Umberto Bossi, riapparso, accanto a Salvini, dopo le tensioni dell'ultimo periodo. Per riaffermare il suo sostegno al segretario. In nome dell'unità del movimento. E per ribadire che "la Padania vive nel cuore e nella testa della gente". A Pontida Salvini ha cambiato registro e strategia. Immagine e linguaggio. Perché oggi la politica è anzitutto immagine e linguaggio. Salvini, d'altronde, si muove bene in questo territorio mediale. In TV e sui giornali, compresi i rotocalchi di gossip, lui c'è ogni giorno. È un professionista della comunicazione. Fa ascolti. E sa come sottolineare i cambi d'epoca e di strategia (politica). Così è impossibile che i suoi interventi degli ultimi giorni, da ultrà politico, gli siano sfuggiti. Perché io penso che il leader della Lega non lasci nulla al caso. E la manifestazione che si è svolta ieri a Pontida è, per questo, significativa. Perché "segna" l'avvio di una Lega diversa, anche se coerente con le sue radici. La Lega proposta da Salvini a Pontida è la "Lega dei tempi feroci". Una Lega feroce, nel linguaggio e nell'immagine. Una Lega Nazionale, ma anti-nazionale, per progetto e identità. Come evidenziano, anzitutto, i "nemici" dichiarati "dal" leader. Prima e durante la manifestazione di Pontida. Per questo ha commentato la scomparsa del presidente Carlo Azeglio Ciampi con parole "impietose". Prive della pìetas che, perfino in "guerra", si riserva ai nemici. "Un traditore", l'ha definito Salvini. In modo meditato e consapevole. Perché si attendeva e si attende esattamente le reazioni sollevate. Cioè, sdegno e, per chi come me ha conosciuto il Presidente, disagio. Per le parole pronunciate, ma anche per chi le ha pronunciate. Per Salvini, più che per il suo bersaglio. Tuttavia, si tratta di parole pesate - proprio perché pesanti. Pesantissime. Salvini ha ben chiaro chi fosse Ciampi. Il Presidente che ha sfidato il clima popolare antipolitico, diffuso negli anni dopo Tangentopoli. Ricordo bene quando, nel 1999, venne in Veneto e tutti pensavano che sarebbe stato travolto dalla contestazione. Mentre, al contrario, riscosse grandi consensi popolari. A Vicenza, Treviso. Nel cuore del Nordest padano. A conferma che la rivendicazione di indipendenza significava domanda di autonomia, non secessione. Salvini, dunque, attacca Ciampi perché era ed è il simbolo di uno Stato che suscita rispetto. Rappresentato dal Tricolore e dalla Festa della Repubblica. Simboli ed eventi rilanciati da Ciampi, dopo essere stati quasi dimenticati. Anche per questo Ciampi è la figura istituzionale che ha riscosso il maggior grado di fiducia presso gli italiani, negli ultimi vent'anni. L'80%, nel 2005. L'anno precedente alla scadenza del suo mandato. Nessun'altra figura pubblica, negli ultimi vent'anni, ne ha eguagliato i consensi. Ad eccezione, di recente, di Papa Francesco. Anch'egli, non per caso (di nuovo) marchiato da Salvini con un pollice verso: "Non mi piace". Perché il leader leghista preferiva Papa Ratzinger. Benedetto XVI. Anche se mi riesce difficile immaginare che Salvini conosca davvero il pensiero e la riflessione dell'allievo di Romano Guardini. Tuttavia, il messaggio del leader della Lega è chiaro. Esplicito. Apertamente in contrasto con i principali riferimenti della fiducia nello Stato repubblicano e nell'apertura solidale agli altri. La Lega di Salvini, invece, cerca consenso fra le pieghe della sfiducia e dell'insoddisfazione. Delle paure e della paura. Dei muri. In modo aperto ed estremo. Perfino estremista. Salvini intende marciare da solo contro tutti. Contro Renzi, ma soprattutto contro Grillo. Che gli sta sottraendo i voti del ri-sentimento popolare. Antipolitico. Per questo "lotta" contro Roma, Bruxelles e l'Europa. Ma anche contro Milano. Amministrata da Sala. Cioè, da Renzi. Milano, la città di Parisi. Leader di un Centrodestra "normale". Troppo normale. Troppo simile e compatibile rispetto a Sala. Perché vent'anni dopo la marcia lungo il Po, il problema e l'obiettivo della Lega resta lo stesso. Anche se ridefinito. Perché Salvini ha nazionalizzato la Lega per "padanizzare" l'Italia. Ma, per questo, ha bisogno di alleati. Da solo non ce la può fare. Impossibile governare il Paese senza l'appoggio di Forza Italia. E, soprattutto, di Berlusconi. Perché Stefano Parisi è il clone di Beppe Sala. Tutto meno che un'alternativa a Renzi. Per "forzare" gli equilibri politici in Italia e, prima, dentro Forza Italia, Salvini cerca, dunque, di conquistare la leadership del Centrodestra post-berlusconiano. Senza "mediazioni" e mediatori. Per "non diventare schiavo di Berlusconi", come ha sostenuto apertamente a Pontida. Mira, così, a spostare il Centrodestra e la Destra più a destra. Non solo nel Nord, ma in Italia. Una svolta possibile, ma rischiosa. Perché Marine Le Pen, ha fatto diventare il Front National primo partito in Francia cercando di interpretare un populismo dal volto "più" normale. Meno aggressivo, comunque, rispetto al Fn di Jean Marie. Con il quale ha rotto ogni rapporto. Ma la Lega di Salvini rammenta, piuttosto, il Fn di Jean Marie. Per linguaggio e immagine: evoca gli ultrà. Rischia di spingere la Lega in curva. Nord.

Lega, la marcia del Po 20 anni dopo: il partito anti-Stato ora nazionalizza le paure. Nel ‘96 il primo rito dell’ampolla e il rischio secessione. Poi, da Bossi a Salvini, a tutta forza contro Ue e migranti, scrive Ilvo Diamanti il 16 settembre 2016 su "La Repubblica". Sono passati vent'anni da quando, proprio in questi giorni, il popolo della Lega discese lungo il Po, al seguito di Umberto Bossi. Il leader e padre della Lega, al Monviso, riempì un'ampolla d'acqua di sorgente. Fino ad arrivare a Venezia. Un rito, ripetuto ancora, per segnare i confini padani. Da allora, pare trascorso un secolo. E anche più. Tanto che se ne sono dimenticati tutti. Perfino i leghisti. Eppure, vent'anni fa, quella marcia apparve una sfida eversiva. Alle istituzioni e all'identità nazionale. Vent'anni fa. Tutti gli occhi e gli occhi di tutti erano puntati sul Po. Presentato, dalla Lega, come un muro. Tra due Nazioni distanti. La Padania e l'Italia. La Padania opposta all'Italia. Due società che esprimevano valori e modelli alternativi. Il Nord padano contro Roma ladrona. La società produttiva contro lo Stato assistenziale e il Sud assistito. La marcia padana veniva dopo oltre dieci anni di leghismo. Dal 1983, quando la Liga Veneta aveva fatto la sua comparsa, appariscente, nel Nordest. In particolare, nel Veneto Centrale. A Vicenza, Padova, Treviso, Verona. La Lega delle Leghe: si allargò presto ovunque, nel Nord. In Lombardia e in Piemonte. Soprattutto nelle aree del lavoro autonomo. Così, nel 1993, a Milano, alle prime comunali con elezione diretta del sindaco, la Lega riuscì a imporre il proprio candidato, Formentini. E il "suo" Nord divenne Nazione. La Padania, dove cresceva l'insoddisfazione fiscale e l'insofferenza verso lo Stato assistenziale e il Sud assistito... Alle elezioni politiche dell'aprile 1996, agitando la bandiera dell'indipendenza, la Lega ottenne oltre il 10% dei voti validi. Quasi quattro milioni. Il 23% nel Nord "padano". Ma oltre il 25% in Lombardia e quasi il 30% in Veneto. La Lega, allora marciava da sola contro tutti. Ma soprattutto contro il Polo di Centrodestra. La coalizione costruita da Silvio Berlusconi, intorno a Forza Italia, nel 1994 aveva vinto le elezioni. Sulle macerie dei partiti della Prima Repubblica, aggregò la Lega e i post-fascisti di Alleanza Nazionale. Ma governò pochi mesi. Troppe differenze e troppe ambizioni divergenti, allora. Di partito e personali. Fra Berlusconi, Fini e lo stesso Bossi: chi poteva comandare sugli altri? Così, la Lega riprese la strada dell'indipendenza. Non solo dall'Italia, ma anche dal Polo e, ovviamente, dai partiti nazionali di sinistra. Insomma: da tutti. Alle elezioni politiche del 1996, dunque, la Lega padana e indipendentista corse da sola. Sconfisse il Centrodestra, nel Nord. E, di conseguenza, in Italia, favorì la vittoria dell'Ulivo, guidato da Romano Prodi. Così, per ri-affermare la missione politica e sociale leghista, Bossi decise di mobilitare la protesta dei ceti produttivi del Nord contro lo Stato Centrale. Contro Roma. E si mise in marcia. Non su Roma, ma lungo il Po. La marcia sul Po: nell'estate di vent'anni fa monopolizzò l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica. Riprodusse e amplificò tensioni e paure. Perché si trattava di tensioni e paure reali. La "frattura" tra società, politica e istituzioni era forte, allora. Come il distacco fra i ceti produttivi del Nord e il sistema politico romano. Mentre l'identità nazionale, in vista dell'avvio del sistema monetario europeo, appariva incerta. Tanto da rendere realista la questione, evocata da Gian Enrico Rusconi: cosa può avvenire "se cessiamo di essere una nazione? ". Il sostegno alla secessione fra i cittadini, però, era limitato. Canalizzava, piuttosto, altre domande: il federalismo, l'autonomia fiscale, l'efficienza della macchina pubblica. E intercettava l'insoddisfazione verso i partiti, vecchi e nuovi. Tuttavia, la debolezza delle istituzioni e del sistema politico, dopo la dissoluzione della prima Repubblica, era tale da far temere che le crepe aperte dalla Lega potessero produrre fratture profonde. Facendo diventare la Padania ben altro che una provocazione folclorica. Da ciò la preoccupazione, diffusa. Fino al 15 settembre 1996. Quando a Venezia, destinazione della marcia, arrivarono qualche decina di migliaia di militanti. Mentre lungo il Po marciavano non più di 100 -150 mila persone. Meno di quanto avrebbe potuto attirare una festa popolare di fine estate. Allora finì la "grande paura". Della secessione. Della fine della nazione. Ma non è finita la Lega. Che, però, vent'anni dopo, è cambiata profondamente. Anche se, dal punto di vista geo-politico, conserva il profilo tradizionale. Infatti, nel Nord: governa le Regioni del Lombardo-Veneto. Fino ad alcuni anni fa: anche il Piemonte. In ambito nazionale, ha conosciuto una lunga esperienza di governo, insieme al centrodestra. Accanto a Berlusconi. Ma, nel frattempo, ha cambiato strategia e identità. La secessione ha, progressivamente, lasciato il posto all'in-dipendenza, cioè, all'autonomia. Perché la secessione non la vuole quasi nessuno, neppure fra gli elettori della Lega. Ma tutti vogliono più federalismo. Vent'anni dopo. La Lega non è più il "partito di Bossi". Ma resta un "partito personale". La Lega di Salvini. Che ha trasformato profondamente l'identità leghista. Da partito secessionista a partito di protesta. Agita la politica dell'anti-politica. Intercetta e amplifica l'inquietudine del mondo che ci assedia. La Lega di Salvini: imprenditore politico della paura. Anzitutto: degli immigrati. E poi: portabandiera dell'euro-scetticismo. Interlocutore e alleato di Marine Le Pen, leader del Front National. Così oggi Salvini guida la Ligue Nationale. Nella quale (sondaggio Demos, sett. 2016) prevalgono gli elettori di Destra (36%) e di Centro-destra (26%). Un partito anti-partito. Alternativo a tutti i partiti. Per questo, il suo maggiore avversario, il soggetto politico che più degli altri ne condiziona l'espansione, è il Non-partito per (auto) definizione. Il M5s. La Lega, invece, condivide lo spazio politico con Forza Italia e Berlusconi. Che Salvini tratta da concorrenti. Anche per questo, però, è messo in discussione dai precedenti "capi" della Lega. Bossi e Maroni. Che continuano a considerare Berlusconi un alleato. Obbligato, se non privilegiato. Vedremo domenica, a Pontida, le reazioni del "popolo leghista" a queste scelte. A queste tensioni interne. Politiche e personali. Vent'anni dopo, coerente con la nuova identità, la Ligue Nationale ha cambiato geografia. Si è nazionalizzata. Secondo i sondaggi più recenti, oggi avrebbe superato il 10%, in Italia. E il 15% nel Nord (il 25% nel Nord Est). E sarebbe intorno al 9-11% al Centro, e al 6-7% nel Sud e nelle Isole. Perché la paura non ha confini. E non ha bisogno di marce per venire coltivata. Al contrario. La "Lega degli uomini spaventati" dissemina il Paese di confini. Fra noi e gli altri.

Bossi contro Salvini: “Al Sud vogliono solo soldi da rubare al Nord”, scrive Emanuela Mastrocinque il 21 giugno 2015 su “Vesuvio Live”. Come recita un vecchio detto popolare “tutti i nodi vengono al pettine” basta solo saper aspettare! In questo caso bastava invece aspettare il congresso leghista tenutosi ieri a Milano, tra aspettative nazionaliste e vecchie idee antimeridionali, per vedere emergere il pensiero forse più genuino e reale che animava (e probabilmente anima ancora) la Lega Nord. Come ribadito in un articolo de il FattoQuotidiano più che uno scontro generazionale, a sentir parlare vecchi e nuovi esponenti del Carroccio, sembra assistere ad un vero e proprio scontro politico: perché quel Salvini pronto ad “arraffare” voti un po’ ovunque compreso al Sud, sembra non piacere a nessuno, soprattutto alle vecchie leve leghiste come Bossi che, dalle nuove aspirazioni nazionaliste, sembra prendere ampiamente le distanze. Umberto Bossi, l’uomo del “ce l’ho duro” e del dito medio sempre in vista, torna a parlare del Sud e dei meridionali adottando il solito tono sprezzante e discriminatorio. Una cosa del tutto normale a metà degli anni ’90 quando il motto separatista era praticamente all’ordine del giorno, cosa che oggi, grazie al sentimento populista abbracciato dai nuovi leghisti (sempre meno separatisti e più nazionalisti) sembra essersi dimenticata, così come si sono dimenticati gli insulti che i dirigenti della Lega hanno riservato per anni ai “parassiti” del Sud. Ma bastava attendere, appunto, la giusta occasione per veder emergere nuovamente dal partito il cui motto è sempre stato “Prima il Nord” i veri sentimenti che lo hanno animato. “Sono venuto qui per vedere che partito sta venendo fuori” ha detto l’ex storico segretario ai giornalisti“Se esce un partito nazionale, Salvini resta da solo a farlo” affermando poi che i meridionali i voti “non glieli danno, perché quelli vogliono i soldi e non vogliono cambiare il Paese” aggiungendo che (i meridionali) “hanno sempre compartecipato con Roma nei banchetti con i soldi rubati al Nord”. A queste dichiarazioni Salvini risponde:” “Io ho imparato tutto e devo tutto a chi mi ha preceduto, ma se c’è qualcosa di diverso rispetto al passato sono i voti e i voti contano in politica”. E forse proprio in questa risposta si annida il vero senso di questa nuova virata nazionalista che sembra preoccuparsi anche dei pescatori della Sicilia o dei disoccupati Campani: i voti! Perché rinunciare a quella seppur esigua manciata di voti provenienti dal Sud? Che importa se noi siamo ancora quelli del passato, ciò che conta è farci votare anche da chi, fino a ieri, abbiamo definito parassita e ladrone!

“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive Francesco Pipitone su "Vesuvio Live” il 9 dicembre 2014. In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.

Pino Daniele: “C’è il razzismo verso i meridionali. Lo vivo e l’ho vissuto”, scrive Francesco Pipitone su “Vesuvio Live” il 12 gennaio 2015. È il 1979 e in un’intervista a cura della Rai si parla del blues napoletano, il cui simbolo più conosciuto era diventato Pino Daniele. Il blues è la musica del dolore, della ribellione, del disagio sociale: “Il blues è la ribellione a questi continui soprusi da parte della gente che ora i “negri”, odia la gente di colore, e possiamo dire che c’è una relazione una relazione tra i “negri” e noi. C’è ancora questo, diciamo, razzismo nei confronti dei meridionali. C’è perché lo vivo, l’ho vissuto, e sono convinto che c’è”. Pino Daniele, dunque, afferma esplicitamente di essere stato vittima di razzismo, ma d’altra parte era sufficiente ascoltare bene una delle sue canzoni più famose per accorgersene, ‘O Scarrafone: “io son stato marocchino, me l’han detto da bambino”. Con la parola “marocchino”, al Nord Italia, si indicano i meridionali, i terroni, in senso dispregiativo. Il marocchino è nero, è uno scarafaggio, viene dall’Africa: quante volte ci hanno chiamati “africani”? Quante volte ci hanno detto “Benvenuti in Italia”? Ovviamente essere etichettati quali marocchini o africani non è insulto, tuttavia il fatto che i termini siano usati in quel modo è la dimostrazione di quanto l’Italia sia una nazione ignorante e razzista. Pino Daniele, circa la città di Napoli, dichiara di amarla e odiarla allo stesso tempo, però a quel punto nel video vi è uno stacco che fa saltare tutta la parte in cui spiega il rapporto di amore-odio e le sue motivazioni. Possiamo ascoltare, invece, perché Napule è na carta sporca: “È una carta sporca perché è sporca e non ci sta niente (da fare, ndr). Ma è sporca non perché noi siamo sporchi, questa è la verità. Ti ripeto, è il discorso di strutture che non vanno, certe cose non vanno e bisogna cambiarle”.  Il giornalista poi chiede a quali napoletani faccia comodo la Napoli oleografica, ossia quella irreale, stereotipata, fatta sì di pizza, Sole e mandolino, ma pure di chiasso, furberia, pigrizia: [Fa comodo] “a quelli che ci mangiano su questa cosa. Il napoletano che si fa gioco di questa città, della sua gente, delle sue cose per me non è napoletano”. L’intervista sembra proprio una risposta a quanti oggi, con la morte del cantante, affermano che era andato via da Napoli perché l’aveva ripudiata, ne aveva preso le distanze. Qui si può vedere invece come egli conosca bene la città e i suoi concittadini, come sappia discernere il bene e il male, il quale consiste “nel strutture che non vanno bene”, ossia nel modo di gestirla, nel potere. Non a caso parla di blues e ribellione, di Masaniello, anche se fa un errore associandolo alla cosiddetta Rivoluzione Partenopea del 1799: Masaniello, infatti, fu protagonista della rivoluzione del 1647, mentre nel 1799, al contrario, i francesi profanarono la sua tomba all’interno della Chiesa del Carmine a Piazza Mercato, gettando via le sue ossa, come racconta la lapide commemorativa che si trova nella stessa chiesa. Pino Daniele aveva affermato recentemente di essere tornato, negli ultimi tempi, a scrivere una musica simile a quella dei primi tempi. Egli portava con sé tutto il bagaglio della musica napoletana e a esso attingeva per esprimere la sua arte, continuava a cantare in Napoletano, il Napoletano era la lingua che parlava abitualmente, come riportato da Jovanotti pochi giorni fa, nel momento in cui quest’ultimo ha ricordato l’amico appena scomparso. A Courmayeur ha cantato in napoletano, ha cantato ‘O Scarrafone, introducendo il pezzo con “speriamo che non ci siano più scarrafoni”: cosa poteva intendere se non l’auspicio che il razzismo verso i terroni non esistesse più? L’ultimo tour, Nero a Metà, lo aveva condotto con la band degli anni ’80, quella del grande successo, quella degli amici napoletano tra i quali troviamo Tullio De Piscopo e il nero napoletano, James Senese. Era un ritorno al passato, una riscoperta di se stesso, la riconciliazione con la propria Terra: Pino Daniele era (ancora) napoletano, era ancora un uomo del Sud, che si mettano l’anima in pace.

Pino Daniele e la Lega Nord di Matteo Salvini, la tristezza delle polemiche nel giorno della morte. Dichiarazioni, rettifiche e smentite: i sostenitori della Lega Nord fanno discutere anche nel giorno della morte di Pino Daniele, scrive il 6 gennaio 2015 Claudia Gagliardi. “Questa Lega è una vergogna, noi crediamo alla cicogna e corriamo da mammà” cantava Pino Daniele nel 1991: il brano è il calebre ‘O Scarrafone, pietra miliare del repertorio del bluesman napoletano, che all’epoca fa molto rumore per quella frase riferita al partito di Umberto Bossi. Quando la Lega Nord secessionista e antimeridionale vive il suo periodo d’oro, Pino Daniele non si nasconde e si fa portavoce dello sdegno dei suoi conterranei, così come farà negli anni successivi, quando definirà “una schifezza” lo show di Bossi a Napoli che intona Maruzzella (frasi per cui ha risarcito la bellezza di 500mila euro all’ex leader del Carroccio). Con la sua morte improvvisa, in una giornata di messaggi di cordoglio giunti da tutto il mondo, non sono mancate nuove polemiche intorno al rapporto controverso tra Pino Daniele e la Lega. Se l’ex segretario e musicista per diletto Roberto Maroni aveva commentato “sgomento” il lutto, il nuovo, rampante leader del partito Matteo Salvini si è detto dispiaciuto della morte di Pino Daniele, “perchè era un grande artista e avrebbe potuto fare molto altro ancora”, aggiungendo: “Non voglio però dire ipocrisie. Mi spiace perché era un grande artista ma ascolto altra musica”.

Razzismo, ignoranza, interessi personali: ecco la vera Lega Nord, scrive il 25 novembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". Il video che potete guardare è una piccola raccolta delle perle di alcuni esponenti di spicco della Lega Nord: abbiamo Salvini fannullone e razzista, Umberto Bossi che associa Berlusconi a Cosa Nostra per poi allearsi con lui e governare per anni, l’ignoranza e la violenza di Calderoli, Borghezio e Gentilini. Una Lega Nord razzista e incompetente, ma furba, che facendo leva sugli istinti più bassi della popolazione ha saputo occupare i posti più alti della politica che non ha mai cambiato, anzi, dimostrando di essere perfettamente italiana: non ha mai fatto qualcosa di importante per la “Padania” né per l’Italia, bensì soltanto per le proprie tasche. Se adesso, dopo il processo scandaloso per truffa aggravata ai danni dello Stato, la famiglia Bossi si è data all’agricoltura e quindi al più nobile dei mestieri, quello che permette il sostentamento alimentare, non altrettanto fanno gli altri: Maroni è ancora il presidente della Regione Lombardia nonostante le magnacce dell’Expo di Milano, e Salvini sta recuperando consensi facendo anche affidamento su quei meridionali indifferenti al quarto di secolo di insulti e fango che i leghisti gli hanno buttato addosso: tuttavia si sapeva già, la gente peggiore è quella che si schiera contro la propria Terra, come il sindaco di Salerno che accoglie con soddisfazione ed onore il segretario del partito del Nord. Più di 150 anni dopo il principio dell’operazione di colonizzazione psicologica, oltre che economica, del Mezzogiorno, il bilancio è pesante e triste: l’orgoglio della gente del Sud viene fuori solo davanti a una bella cartolina se si è fortunati, mentre si continua a ignorare la storia e la cultura plurimillenaria della Terra dove si è nati. Il complesso di inferiorità è bene affermato nell’animo e nelle convinzioni delle persone, tant’è vero che molti si sono sentiti onorati e gratificati quando Matteo Salvini è giunto dal civilissimo Nord a chiedere i loro voti, si sono sentiti in dovere di dimostrare di essere diversi da quei terroni malavitosi e nullafacenti e dagli immigrati, non rendendosi conto di essere soltanto dei numeri utili al mantenimento delle poltrone e alla permanenza dello stato di colonia interna del Sud. I peggiori sono questi qua, non a caso Dante fa masticare a Lucifero tre traditori: Giuda, Bruto, Cassio.

L’Italia di Matteo Salvini: egoista e rabbiosa. E pericolosa, scrive il 13/08/2015 Marco Esposito su “Giornalettismo”. Nel Partito Democratico, storicamente, uno dei passatempi più frequentati è il litigio. Dal 2007, anno in cui il Pd è nato, ad oggi sotto questo punto di vista poco è cambiato. Nel 2007 era Walter Veltroni ad essere sotto attacco concentrico della sinistra del partito. Un attacco teso a “consumarlo”, a logorarlo, giorno dopo giorno. Per l’allora ala dalemiana del PD, anche se i democratici dopo le elezioni perse nel 2008 erano all’opposizione, il vero obiettivo da abbattere era il segretario, non Silvio Berlusconi. Più o meno gli stessi che attaccano oggi Renzi, accusandolo di voler fare le riforme con Verdini, all’epoca, piuttosto che attaccare Berlusconi e il suo governo, avevano come unico riflesso culturale quello di bombardare la ditta per riprendersi il partito. Cosa che avvenne, prima con le dimissioni di Veltroni a febbraio del 2009, e poi con la vittoria di Bersani alle successive primarie. Anche oggi, lo schema si ripete. Quella parte del Pd che fa le barricate contro il Pd stesso, cercando di mettere in ogni modo il bastone tra le ruote del proprio segretario e premier, sembra piuttosto disinteressata a quello che accade nel resto della politica italiana. Ossessionati da Berlusconi (e da Renzi) costoro sembrano ignorare il pericolo che la crescita della Lega Nord e di una destra radicale comporta per il nostro paese. Nell’escalation del vilipendio leghista ora sono entrate anche la Chiesa e Papa Francesco. Oggetto del contendere, ovviamente, l’accoglienza agli immigrati. Nulla di sorprendente se si considera che questo è il vero cavallo di battaglia di Matteo Salvini, sul quale ha costruito la rimonta della Lega nei sondaggi in questo ultimo anno. Una crescita evidente, impetuosa, e anche inattesa nelle dimensioni. Ma cosa sta costruendo Matteo Salvini? Il leader della lega, messa da parte la retorica antimeridionale dell’era di Umberto Bossi, punta tutto sulla paura del diverso, mettendo nel proprio mirino soprattutto gli immigrati. Non una novità nella storia della Lega, ma questa volta si è fatto un passo “avanti”, anche rispetto ai tempi dei Governi Berlusconi-Bossi. Salvini non attacca solo l’arrivo degli immigrati clandestini, il segretario della Lega Nord è contro l’accoglienza tout court. Salvini attua una strategia pericolosa e cinica. Si appella a quella che potremmo definire l’Italia egoista. Composta da chi, dopo anni di crisi economica, vede nell’immigrato colui che gli porta via la casa, un ipotetico sussidio di disoccupazione, il lavoro. Ma tra questi cittadini attratti dal flauto magico salviniano c’è anche chi è semplicemente razzista. Salvini, con l’aiuto di Casapound, come abbiamo potuto vedere a Roma, sia a Tor Sapienza sia a Casal di San Nicola, sta creando una saldatura potenzialmente esplosiva tra lega nord ed estrema destra. Una saldatura che – sondaggi alla mano – rischia già oggi di proiettarsi al 20% delle intenzioni di voto. Un’espansione senza precedenti. Salvini, davanti all’assalto verso il centro del Pd Renziano, che alle Europee ha conquistato un pezzo di elettorato una volta vicino al centrodestra Berlusconiano, ha spostato sempre più a destra l’asse della Lega e della sua alleanza, riuscendo ad aggiungere allo zoccolo duro leghista le fasce di cittadinanza più conservatrice e reazionaria del nostro paese. Se Berlusconi e la sua coalizione di governo strizzavano l’occhio a chi non amava pagare le tasse, lasciando intendere che le regole erano spesso più un problema che il presupposto necessario in ogni organizzazione civile, Matteo Salvini e questa nuova destra di regole neanche vogliono sentir parlare. E’ l’Italia che vuole fare quello che dice lei, come dice lei a prescindere dalle regole stesse. Se le regole non lo permettono, non vanno cambiate, ci si passa sopra con la “ruspa”. E’ il leader politico che ha azzerato i concetti, tagliandoli con l’accetta, semplificando al massimo ogni complessità, ogni problema. Il problema dei Rom? Ruspa. Lo sbarco degli immigrati dalla Libia? A casa loro. Dove sistemare i rifugiati politici? Prima gli italiani. Salvini ha messo in piedi un’abile operazione di comunicazione politica: ha preso un problema molto sentito dagli italiani, e ci ha messo una bandierina, agitando una soluzione – il “tutti gli immigrati a casa loro” – che lui per primo sa essere inattuabile. Lo sa lui e lo sa ancora meglio il presidente della Regione Lombari da Roberto Maroni che, da uomo di stato, sa bene come questo problema, con il quale dal Viminale anche lui ha dovuto fare i conti, sia irrisolvibile. Nessuna regola, per quanto ferrea, potrà mai porre un argine invalicabile alla disperazione delle migliaia di persone che scappano dalla guerra. Ma per il leader della Lega, questo è un problema secondario, che almeno nell’immediato poco gli importa. Il suo obiettivo è continuare a drenare consensi da quell’Italia disillusa, impaurita e che la crisi ha reso più debole e più indifesa. Ma, attenzione, anche più incattivita e aggressiva. A questo pezzo di Italia, pronta ad abbracciare – lei sì – un uomo forte –, Salvini offre una ricetta semplice e irrealizzabile. Una ricetta che poggia su due pilastri: no all’Europa (dei banchieri, dell’Euro, della Merkel e della Germania) e agli immigrati. Il leader del carroccio offre un passaggio verso il passato, verso un’impossibile Italia senza rifugiati e senza euro. Un’Italia che soddisfa sia i nostalgici, sia gli egoisti che non vogliono guardare al di là del proprio confine, sia chi non ce la fa e preferisce trovare nel “negro” che serve ai tavoli, la causa dei suoi problemi. Ecco, il crescere dei consensi di questa saldatura tra destra estrema e lega, ci sembra possa mettere in difficoltà la nostra democrazia molto più del Senato delle regioni. Alla “narrazione” di Salvini, e alla sua Italia che, lo confessiamo, ci fa un po’ paura, è necessario contrapporre un’idea di paese, si fiducioso e non rabbioso, ma anche regole certe per un’accoglienza dignitosa, onesta e che non scarichi i problemi che questo comporta sulle fasce più deboli delle nostre città, come avvenuto in passato.

Benzinaio di Varese denuncia Riccardo Bossi: «Non paga benzina». Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri di Varese. Il primogenito del Senatur già condannato per lo scandalo sui fondi di partito, scrive "Il Corriere della Sera” il 28 giugno 2016. Un benzinaio di Buguggiate (Varese) ha denunciato ai carabinieri Riccardo Bossi, sostenendo che il primogenito di Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord, non avrebbe pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti dei carabinieri sulla vicenda. Secondo il racconto del titolare della stazione di servizio, tra ottobre 2015 e lo scorso febbraio Riccardo Bossi più volte si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto in un secondo momento, offrendo come garanzia la notorietà della sua famiglia. Non avendo ricevuto il denaro, il benzinaio nei giorni scorsi ha deciso di presentarsi dai carabinieri e sporgere denuncia per truffa. Riccardo Bossi, in passato, è già stato denunciato da commercianti per episodi analoghi. Rischia di finire a processo a Varese per aver acquistato, secondo l’accusa, gioielli e anche pneumatici per le sue auto senza pagare il conto (il 15 novembre comparirà davanti al gup). Il primogenito del fondatore del Carroccio, inoltre, lo scorso 16 ottobre era stato rinviato a giudizio a Busto Arsizio (Varese) sempre con l’accusa di truffa. Anche in questo caso è accusato di aver comprato gioielli e un orologio di lusso in un negozio senza saldare un conto di quasi 27 mila euro, nonostante i continui solleciti e le promesse di pagamento. Lo scorso 14 marzo, infine, è stato condannato a Milano a un anno e otto mesi di carcere per appropriazione indebita aggravata nel processo con rito abbreviato con al centro le presunte spese personali con i fondi del Carroccio.

“Passerò a pagare”, benzinaio denuncia Riccardo Bossi, scrive, mercoledì 29 giugno 2016, “Diretta News”. Nuovi guai per Riccardo Bossi, figlio primogenito del fondatore della Lega Nord, che è stato accusato da un benzinaio di Buguggiate, nel varesotto, di non aver pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti sul racconto del rivenditore, il quale sostiene che per mesi Riccardo Bossi si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto, ma non l’avrebbe mai fatto poi. Così il benzinaio ha sporto denuncia ai carabinieri per truffa. Non è la prima volta che il figlio del Senatùr si trova coinvolto in vicende simili: Riccardo Bossi è stato infatti rinviato a giudizio dopo la denuncia del titolare di una catena di gioiellerie che lo accusa di non aver pagato un orologio e alcuni preziosi acquistati in uno dei suoi negozi a Varese. Secondo l’accusa, il conto da pagare sarebbe di alcune decine di migliaia di euro. Aveva spiegato Bruno Ceccuzzi, titolare della gioielleria Dino Ceccuzzi, con negozi a Busto Arsizio, Como e Varese, che Bossi jr. – già sotto accusa per truffa e appropriazione indebita insieme al padre e al fratello Renzo – “ha acquistato orologio e gioielli dopo Natale e glieli abbiamo consegnati sulla fiducia, anche se non è un nostro cliente abituale, convinti che un personaggio così noto li avrebbe pagati in tempi brevi”. Il gioielliere aveva aggiunto che “è trascorso del tempo e i soldi non sono arrivati”.

Lega corrotta, sanità infetta. Tangenti, società occulte, appalti pilotati, consulenze d’oro: ecco i verbali dei leghisti lombardi arrestati per corruzione, che imbarazzano anche il governatore Roberto Maroni, scrive Paolo Biondani il 30 giugno 2016 su "L'Espresso". Roberto Maroni e, sullo sfondo, Fabio Rizzi «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». E' il passaggio cruciale di un lungo interrogatorio di Fabio Rizzi, già senatore leghista e poi braccio destro di Roberto Maroni in Regione Lombardia: con quelle parole il politico, arrestato nel febbraio scorso per corruzione e altri reati, ha ammesso di aver ricevuto una tangente di 20 mila euro dall'imprenditrice Maria Paola Canegrati, la regina lombarda dell'odontoiatria. Soldi utilizzati per pagare «i gadget elettorali con il logo della Lega Nord per le regionali del 2013». A rivelarlo è L'Espresso, che nel numero in edicola da venerdì 1 luglio e già online su Espresso+ pubblica i verbali degli interrogatori in carcere, finora inediti, di tutti i principali imputati nell'inchiesta della procura di Monza sulla corruzione nella sanità lombarda. Il politico varesotto e il capo del suo staff, Mario Longo, hanno anche ammesso che erano «soci occulti» dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, cioè i veri titolari delle azioni intestate sulla carta alle loro conviventi. Oltre agli utili, scrive sempre il settimanale, i due esponenti leghisti hanno così incassato anche consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: almeno 63 mila euro per Rizzi, altri 147 mila per Longo. La Procura di Monza ha contestato a Longo e Rizzi anche altre presunte tangenti. Nei verbali dell'imprenditrice Canegrati, inoltre, compaiono i nomi di vari direttori e funzionari delle strutture sanitarie lombarde, accusati di aver intascato soldi e regali in cambio di appalti o per omettere i controlli. Dopo questi interrogatori, scrive ancora l'Espresso, tutti gli imputati principali hanno chiesto il patteggiamento. Maria Paola Canegrati ha fatto istanza per una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato una pena di due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila con una condanna a due anni e otto mesi. Ma il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Roberto Maroni non è coinvolto nell’inchiesta di Monza, ma i verbali dei leghisti arrestati contengono passaggi imbarazzanti anche per il governatore lombardo. Rizzi, in particolare, ha ammesso di aver raccomandato Longo e un altro amico leghista per farli assumere nella società regionale Eupolis. «Gli incarichi in Eupolis sono stati dati a Longo e Caronno – ha dichiarato Rizzi, incalzato dalle intercettazioni dei carabinieri – grazie al fatto che io li ho segnalati a Gibelli, che a sua volta ha interceduto con Eupolis». Il governatore Maroni è imputato a Milano, in un diverso processo, di aver fatto assumere proprio a Eupolis una protetta, Mara Carluccio, attraverso lo stesso Andrea Gibelli, allora segretario generale della Regione. Un’eventuale condanna obbligherebbe Maroni a dimettersi in forza delle legge Severino.

Le ruberie della Lega nella sanità lombarda. Chiusa l’inchiesta sugli scandali negli ospedali della regione. Ecco le ammissioni dei fedelissimi che imbarazzano Maroni, non indagato ma sotto assedio, che mettono in luce un vero e proprio sistema criminale, scrive Paolo Biondiani il 29 giugno 2016 su "L'Espresso". Lega corrotta, sanità infetta. La Procura di Monza ha chiuso in appena quattro mesi l’inchiesta sulle ruberie padane negli ospedali della Lombardia. Mentre Roberto Maroni rimane aggrappato alla poltrona di governatore di una regione che non è mai stata così rossa, con dodici città su dodici passate dal centrodestra al centrosinistra, compresa la natia Varese dove la Lega fu fondata, i suoi fedelissimi abbandonano la politica e si arrendono alla giustizia. Tra gli arrestati nella retata per corruzione del 16 febbraio scorso, ora l’unico slogan è limitare i danni: tutti i principali imputati hanno chiesto il patteggiamento. A cominciare dal medico-politico varesotto Fabio Rizzi, che prima di entrare in carcere era il braccio destro di Maroni: il regista di una riforma della sanità che lo stesso governatore ha dovuto controriformare di corsa, dopo l’ennesimo scandalo. Che questa volta non si può liquidare con la storiella delle presunte mele marce in un mercato sano: le nuove accuse dei pm brianzoli e le ammissioni degli stessi indagati (finora inedite) fotografano il fallimento del cosiddetto modello di sanità lombarda. Al di là dei reati specifici, di per sé gravi, l’esito dell’inchiesta dimostra che la decantata alleanza pubblico-privato, inventata dai big ciellini nell’era Formigoni e riciclata dalla Lega, è una favola che illude i malati, imbavaglia i medici, impoverisce la sanità di tutti e arricchisce le aziende di pochi. Sono le sei di pomeriggio del 4 marzo 2016 quando Fabio Rizzi, 50 anni, ex anestesista, già senatore e poi consigliere regionale della Lega, firma la capitolazione dopo una giornata d’interrogatorio: «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». Maria Paola Canegrati è la grande corruttrice: una manager di ferro che in pochi anni è diventata la regina lombarda dell’odontoiatria. Con quella tangente di 20 mila euro è lei che ha pagato sottobanco «i gadget elettorali del 2013 con il logo della Lega Nord». Quindi il pm Manuela Massenz chiede al politico se veniva dalla stessa imprenditrice anche il pacco di banconote sequestratogli dai carabinieri quando lo hanno arrestato. Rizzi risponde così: «Il capo del mio staff, Mario Longo, mi ha dato 20 mila euro in contanti, diecimila alla volta: sono i soldi che avete trovato in cassaforte, tranne cinquemila euro che ho speso. Ma io non gli ho chiesto da dove provenissero... Ero totalmente inconsapevole che la Canegrati versasse soldi a Longo, in parte oggettivamente arrivati a me». Questa tesi del politico comprato a sua insaputa non convince nessun giudice di Monza, anche per un problema ben documentato: Rizzi e Longo risultano addirittura soci occulti dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, con quote intestate alle loro conviventi. E così, oltre agli utili, dal 2013 al 2015 hanno intascato pure consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: «almeno 63 mila euro» per Rizzi, altri 147 mila per Longo. Visti gli atti, l’ex capo della commissione sanità non nega di aver preso anche quei soldi. Però sostiene che, in cambio, non avrebbe usato il suo potere pubblico per favorire la manager che lo pagava: «Fu Longo a propormi di entrare in società con la Canegrati... Ma erano progetti privati. Da portare avanti solo nelle cliniche italiane o all’estero». Insomma, soldi sì, ma senza vere corruzioni né conflitti d’interessi. Il problema è che il leghista arrestato non conosce le ammissioni degli altri, anch’esse parziali, ma diverse. Il primo a metterlo in crisi è proprio il suo segretario politico Mario Longo, 51 anni, ex odontoiatra, già socio di Rizzi nella Lorimed (altra impresa privata, che ha nel nome le iniziali dei due leghisti). L’otto marzo l’uomo che si autodefinisce «il factotum di Rizzi» mette a verbale un bel pasticcio di conflitti tra ruoli pubblici, aziende private e conviventi-prestanome. «Io e la Canegrati eravamo già soci nella Sytcenter», dichiara Longo: «Nel 2013 o 2014 l’ho incontrata all’ospedale pubblico Icp, dove io lavoravo per la Lega e lei aveva già cinque centri odontoiatrici. In quel momento avevo gravi difficoltà economiche. Quindi convenimmo che la mia convivente collaborasse con la Canegrati... Pur essendo socio di fatto, ho ritenuto inopportuno figurare in quelle società commerciali, visto il mio ruolo politico in Regione». Longo aggiunge che «probabilmente» anche Rizzi ha intestato la sua quota alla convivente «perché riteneva inopportuno politicamente figurare nella società». I verbali dei leghisti mostrano che i proclami per la chiusura delle frontiere valgono per gli esseri umani, ma non per i soldi: Rizzi ammette di avere una società-cassaforte in Lussemburgo, mentre Longo giustifica con «consulenze per progetti in Cina» altri 50 mila euro, sborsati dalla solita Canegrati grazie a due fatture false emesse da un loro complice, Stefano Lorusso, arrestato a Miami. A demolire l’alibi cinese è però la stessa Canegrati, il 21 aprile: «Ho sempre detto a Longo che il suo progetto in Cina non mi interessava... Lui mi mandò una lettera di Rizzi che lo incaricava di essere portavoce della Regione Lombardia per la sanità all’estero... Gli dissi chiaramente che consideravo quei viaggi una perdita di tempo». Il vero motivo dei pagamenti, per l’imprenditrice, è ovvio: «Ho finanziato la campagna elettorale di Rizzi, su richiesta di Longo, perché uno dei punti del suo programma era promuovere l’odontoiatria». Semplice impiegata fino a dieci anni fa, Canegrati ha creato dal nulla, con vari appoggi politici, prima nel Pdl e poi nel Carroccio, il primo gruppo odontoiatrico lombardo: una dozzina di società che ha in parte venduto nel 2015 per 13,5 milioni, premurandosi di girare altri 50 mila euro ai due leghisti «grazie ai cui favori aveva potuto incrementato il valore delle sue aziende». Tutti questi incroci pericolosi di tante mezze confessioni hanno convinto perfino l’avvocato berlusconiano Michele Saponara, difensore di Rizzi, a trattare la resa. E alla fine Maria Paola Canegrati ha chiesto di patteggiare una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila per farsi infliggere due anni e otto mesi. E il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Maroni non è coinvolto nell’inchiesta, ma è politicamente assediato dalle rivelazioni sull’«associazione per delinquere» creata dai suoi luogotenenti con decine di corruzioni, appalti truccati, soldi e regali ai direttori leghisti degli ospedali, poltrone d’oro per amici e parenti. Per fermare lo scandalo, il governatore ha creato un’autorità lombarda anti-corruzione. Ma qui non si tratta di tangenti isolate: l’inchiesta investe il cuore del sistema che caratterizza la Lombardia. Da vent’anni i politici di Cl, Forza Italia e Lega raccontano ai cittadini che “il modello pubblico-privato” rende tutti felici: i pazienti trovano le cliniche private dentro gli ospedali, a prezzi controllati; le aziende si arricchiscono con questi “service”; e le strutture pubbliche partecipano agli utili. Ora l’inchiesta di Monza ha messo a nudo il trucco: la spesa pubblica ha un limite. L’imprenditrice Canegrati non può curare i denti a troppi poveri, altrimenti fallisce; quindi deve tagliare le cure, gonfiare le liste d’attesa pubbliche e dirottare i pazienti nel privato a pagamento, come dimostrano le intercettazioni. Ma il peggio è che con questo sistema l’ospedale diventa complice perfino delle truffe: se il pubblico è un socio che si divide gli utili, non ha nessun interesse a controllare il privato. Come prova la nuova accusa sui rimborsi gonfiati: i medici eseguono un impianto chirurgico, ma Canegrati se ne fa rimborsare due, in centinaia di casi. E quando arriva un controllo, i funzionari pubblici non solo preavvisano, ma aiutano i privati a falsificare le carte. Un reato che la manager confessa così: «Confermo che quei tre funzionari ci hanno aiutato a sistemare le cartelle per il controllo: ovviamente l’interesse a far vedere tutto a posto era sia nostro sia dell’ospedale pubblico».

Inchiesta sulla sanità lombarda, l'ombra della massoneria. Nelle pagine delle intercettazioni dell'inchiesta che ha travolto la sanità lombarda spunta l'interesse per la massoneria: "Una volta entrato, se non si fanno errori, ci sono buoni contatti con alcune istituzioni", scrive "L'Espresso" il 25 febbraio 2016. Figli, parenti e amici massoni. C’è anche questo nelle centinaia di pagine di intercettazioni dell’inchiesta sulla sanità lombarda. Mario Longo, il braccio destro del consigliere Fabio Rizzi, si dà un gran da fare per smistare favori ed usa la Regione Lombardia come un ufficio di collocamento. Mentre il suo amico Roberto Caronno, medico di fede leghista, pensa di iscriversi alla massoneria per «migliorare i contatti dell’intero gruppo» e usarli come trampolino per business futuri. Enzo Brusini è il direttore generale dell’ospedale San Paolo di Milano: viene intercettato mentre cerca di piazzare la figlia e chiede aiuto a Longo. Brusini (non indagato) è considerato molto vicino al segretario Matteo Salvini e per anni ha finanziato il Carroccio con un contributo volontario. Gli investigatori prendono nota delle continue lamentele per il suo mancato trasferimento dal San Paolo: «Sono in ansia perché so che qui c’è una barca che tra un po’ affonda, sai che la tengo in piedi con gli spilli, tutti i giorni», racconta al telefono. Siamo nella primavera del 2014 e il manager pubblico è più interessato alla sua vita privata che alle sorti dell’ospedale: chiede aiuto a Longo per trovare un posto alla ragazza. Lei lavora in un museo ma non si trova bene. E subito il leghista promette di «inserirla in Regione». Arriva un “affiancamento senza stipendio” nel settore moda e turismo, ma il braccio destro di Rizzi fa capire che a breve potrebbe ottenere incarichi più delicati. Brusini si affretta a precisare che la «figlia è onesta ed è una tomba assoluta». A quanto pare l’omertà fa curriculum. Gli sforzi però riprendono quando l’incarico regionale finisce. Questa volta Longo accenna a un possibile impiego della ragazza nel gruppo Techint dei Rocca (coinvolto anche nel progetto di ospedale in Brasile sponsorizzato dalla Regione) e spiega che l’eventuale assunzione «sarebbe un buon colpo dato che consentirebbe di avere occhi e orecchie nella più grande azienda medicale italiana». Addirittura. Il gruppo capeggiato da Rizzi punta anche agli affari oltre frontiera. Progetti in campo umanitario, come l’ospedale in Brasile, che aprirebbero spazi commerciali per le imprese italiane in cerca di nuovi business. Rizzi ne parla proprio con il medico Roberto Caronno, primario di chirurgia vascolare all’ospedale Sant’Anna. E quest’ultimo gli rivela che sta pensando di entrare nella massoneria. Il braccio destro di Maroni però non vuole iscriversi. Meglio di no, spiega, visto il suo ruolo pubblico in commissione sanità. Caronno però sembra entusiasta. Racconta all’amico di aver fatto una «chiacchierata con quei massoni e ci sono buoni contatti all’estero. Una volta entrato, se non si fanno errori, ci sono buoni contatti con alcune istituzioni. Cercano persone di elevato rango sociale, specialmente ricche, in modo da costituire delle lobby». Alla fine Rizzi dà via libera al medico aspirante massone, perché «avere dentro uno del gruppo è comunque meglio che non avere nessuno».

Sanità, gli affari segreti della cricca lumbard. Società offshore, affari all’estero, traffici internazionali. Le indagini sulla sanità della procura di Monza scoperchiano una holding del malaffare. Targata Lega. E gestita da un amico di Maroni, scrivono Paolo Biondiani, Vittorio Malagutti e Michele Sasso su "L'Espresso". Holding a Panama, società in Lussemburgo, conti a Montecarlo, progetti a Dubai, traffici assortiti tra Cina, Russia, Brasile e Romania. Eccola, la multinazionale lumbard. Una multinazionale del malaffare. E il capo era lui, Fabio Rizzi, leghista della prima ora, amico e stretto collaboratore di Roberto Maroni, il presidente della Regione Lombardia. Questo, in estrema sintesi, è quanto raccontano migliaia di pagine agli atti dell’inchiesta della procura di Monza che il 16 febbraio ha scoperchiato quella che appare come una gigantesca ruberia ai danni della sanità pubblica. L’indagine che ha portato in carcere Rizzi ruota intorno all’incredibile carriera di Paola Canegrati, l’imprenditrice brianzola partita dal nulla che nell’arco di una quindicina d’anni è riuscita a metter le mani sul business delle cure odontoiatriche in Lombardia. Un business finanziato con i soldi della Regione grazie agli appalti che “Lady Dentiera”, anche lei arrestata, vinceva a raffica in molti ospedali. Il consigliere regionale leghista Fabio Rizzi, arrestato nell'indagine sulla sanità pubblica in Lombardia, racconta il progetto sponsorizzato dalla Regione di cooperazione umanitaria con il Brasile. Secondo quanto emerge dall'indagine della procura di Monza, Rizzi e i suoi collaboratori avevano cercato di sfruttare la copertura istituzionale per guadagnare in proprio grazie ai rapporti con le autorità brasiliane e alcune imprese italiane, tra cui il gruppo Techint. Il segreto del successo, secondo le accuse, erano le tangenti. Denaro e favori vari, anche l’assunzione di parenti e amici, che Canegrati elargiva ai direttori di Asl e ospedali. In cima alla lista dei beneficiati c’era Rizzi, che l’amico Maroni aveva piazzato alla presidenza della commissione Sanità della Regione, postazione chiave per influenzare il flusso miliardario dei finanziamenti alle strutture pubbliche. Insieme a Rizzi, 49 anni, varesotto di Besozzo, è finito in carcere anche il suo inseparabile amico, confidente, collaboratore Mario Longo, che dagli atti dell’inchiesta appare coinvolto in mille trame affaristiche, dal Sudamerica fino in Cina. La giostra milionaria girava da anni. Alla grande. Canegrati, a capo di un gruppo con oltre 50 milioni di ricavi, aveva appena messo a segno il colpo della vita. Anzi due: l’acquisto del suo principale concorrente in Lombardia, la Egm di Luca Rottoli, e poi l’alleanza con il fondo d’investimento internazionale Argos Soditic, sede a Parigi e attività in tutta Europa. In sostanza, il nuovo socio metteva i soldi e la signora restava al comando almeno fino al 2017, quando aveva un’opzione per vendere tutto e passare alla cassa. Nel frattempo, però, Lady Dentiera, 54 anni, continuava a correre come sempre e studiava l’espansione in Veneto, Piemonte, Toscana, Liguria, fino in Svizzera, dove aveva già aperto una filiale e progettava di prendere la residenza. «Altro giro, altro regalo», sbotta a un certo punto l’imprenditrice (intercettata dai carabinieri) quando capisce che Rizzi sta per bussare a quattrini. L’amico di Maroni non era il tipo che passava inosservato. A Varese e dintorni era facile vederlo scorrazzare con un gigantesco fuoristrada Hummer di colore giallo. In affari però il presidente della commissione Sanità si muoveva sottotraccia, tra prestanome, la sua compagna Lorena Lidia Pagani e schermi societari. Dagli atti d’indagine emerge che Rizzi e i suoi sodali si erano organizzati come un comitato d’affari, con tanto di holding in Lussemburgo. Ed è proprio il politico leghista, ascoltato tramite una cimice piazzata sulla sua auto, a spiegare alla convivente gli equilibri azionari in quella che appare come la cassaforte della cricca. A libro soci troviamo Longo con la sua compagna Silvia Bonfiglio (30 per cento in totale). Rizzi, proprietario di una quota del 25 per cento, aveva aperto le porte anche a convivente e segretaria (10 per cento ciascuna), mentre il resto del capitale se lo dividevano altri due fedelissimi: Donato Castiglioni (10 per cento), anche lui arrestato, e il medico Roberto Caronno con il 15 per cento. Per fare chiarezza bisognerà attendere i risultati delle rogatorie internazionali. Certo è, però, che i protagonisti della vicenda vengono più volte intercettati al telefono mentre discutono di complicate architetture societarie nei paradisi fiscali. A far da sponda c’era spesso Stefano Lorusso, affarista con base a Miami. «Tu mi devi dire quando mi porti a Panama a parlare col panamense», gli dice Longo che ha fretta di creare una nuova società nel Paese centroamericano, noto e impenetrabile centro offshore. «Io e te abbiamo il controllo di tutta la baracca», dice Longo in un’altra occasione riferendosi alla holding panamense Insideout, di cui, secondo l’intercettazione, Rizzi avrebbe avuto non più di un terzo del capitale. Da Panama si arriva in Costa Azzurra. Lorusso dice di aver creato a Montecarlo una società per gestire il marchio della sua azienda, la “More Than Lux” di Miami (immobiliare, affitto di aerei e auto di lusso). Un’attività che l’imprenditore era pronto a condividere con i due leghisti. L’ultima tappa era Dubai, dove Lorusso, intercettato, dice di voler trasferire i soldi di Montecarlo. Nella loro frenetica rincorsa al denaro, ai danèe, direbbe il varesotto Rizzi, la cricca leghista pensava in grande. I loro progetti, a volte un po’ sgangherati, spaziano da Pechino fino all’altra sponda dell’Oceano Atlantico. Nel febbraio del 2015, Longo telefona a Lorusso dicendo che hanno la necessità di «esportare dal Brasile in Cina 100 tonnellate al mese di zucchero bianco già raffinato». Dagli atti d’indagine non si capisce se questo affare sia mai andato in porto. È invece naufragata un’altra operazione a cui il gruppo di sodali lumbard aveva lavorato a lungo. L’obiettivo sembrava nobile: la costruzione di un ospedale pediatrico, sul modello del milanese Buzzi, nello stato brasiliano del Goiás. Il progetto viene presentato in pompa magna già nel 2013, con tanto di sponsorizzazione della Regione presieduta da Maroni. «Un’eccellenza lombarda al servizio dei bambini brasiliani», si vantava Rizzi. Solo che, dietro le quinte, il gruppo dei suoi soci si muoveva, d’accordo con lui, per farsi gli affari propri. Longo e gli altri puntavano a incassare ricche commissioni per mettere in contatto alcune imprese italiane con i governanti del Goiás. Non solo per il progetto dell’ospedale, ma anche .per altri futuri lavori. Per raggiungere lo scopo avevano agganciato Alexandre Baldy, vicepresidente della Regione autonoma brasiliana, che nel novembre 2014 si reca in visita al Buzzi, a Milano, per promuovere l’iniziativa. A febbraio 2015 il cerchio sembra vicino a chiudersi. Una delegazione italiana guidata da Longo si incontra in Brasile con le autorità. Del gruppo fanno parte i rappresentanti di tre aziende impegnate nel settore sanitario: la Techint dei Rocca, Servizi Italia e Giglio Santa Lucia. L’affare però non va in porto, perché i brasiliani si mettono di traverso. Al telefono Longo si lamenta con Lorusso perché il governatore del Goiás, Marconi Perillo, chiede 50 mila dollari per sbloccare l’operazione. «Una richiesta che appare fin troppo chiaramente come una tangente», si legge nell’informativa dei Carabinieri. Ma c’erano anche altre preoccupazioni. «Bisogna trovare una soluzione per non fare figure di merda», dice Longo intercettato. Perché, spiega, «ci sono documenti ufficiali, c’è Maroni (…) e questi dicono “scusa e i trentamila che abbiamo messo sul tavolo per mandarvi lì”». Queste parole fanno supporre che la Regione avesse finanziato almeno in parte la missione in Brasile. Per questo e altri affari Rizzi e soci incrociano la rotta di Alessandro Albano, un consulente in camicia verde, visto che fino al 2014 era consigliere provinciale a Torino per la Lega Nord. Albano (non indagato) appare coinvolto in molti progetti. Lavora per la Servizi Italia e vanta entrature politiche in diverse regioni del Nord Italia. Frequenta il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Dagli atti risulta che Albano si informa con un interlocutore sui costi e i tempi per creare una società in Bulgaria. Ma anche la Russia interessa Rizzi, il quale vorrebbe spedire a Mosca il suo collaboratore Longo. Quest’ultimo però se ne lamenta al telefono: «Quando torniamo come glielo spieghiamo alla magistratura che ci andiamo con l’embargo?». Rizzi e i suoi sodali, scrivono i pm, «usavano il potere politico come strumento per accumulare ricchezze». Un’immagine in particolare racconta questo intreccio malato. Proprio mentre parte l’inchiesta, al terzo piano del Pirellone, sede del Parlamento lombardo, sulla porta di una stanza compare una targa con i nomi di Longo e Caronno, primario di chirurgia vascolare all’ospedale Sant’Anna di Como. Entrambi infatti sono inseriti nello staff di Rizzi, presidente della commissione Sanità. Caronno, più volte citato nelle intercettazioni, è a libro paga (36 mila euro annui) di Eupolis, l’ente regionale per la ricerca e la formazione già finito al centro di un’altra indagine. Quella sull’assegnazione di un contratto da 29.500 euro cucito su misura per Mara Carluccio, ex collaboratrice del governatore Maroni. Il medico, varesino di origini, è un leghista militante partecipa in prima fila ai congressi, e soprattutto è uno degli undici dell’auto-nominato “gruppo strategico Lega Nord Sanità”. Che sia strategico lo si capisce scorrendo l’elenco dei nomi: tutti con pedigree di fedeltà «maronita», tutti di Varese e dintorni e con incarichi di vertice negli ospedali pubblici: ecco l’ex assessore alla famiglia Maria Cristina Cantù, amica personale di Bobo, come Giovanni Daverio in arte Johnny e Giuseppe Rossi detto Gegè. Daverio da due anni ha un incarico da direttore generale in Regione. Rossi è invece alla testa del polo ospedaliero di Lodi, dopo aver guidato Lecco. Le intercettazioni svelano che a un certo punto l’attivissima Canegrati mette un piede anche negli ambienti militari. Negli atti d’indagine compare il nome del generale Angelo Giustini, cardiologo e responsabile sanitario della Guardia di Finanza, oggi a riposo. Un contatto importante per l’imprenditrice, che punta agli ambulatori delle Fiamme Gialle. Nel novembre 2014 il generale Giustini e il suo aiutante vengono ospitati a spese della Canegrati: notte in hotel e cena per «intrecciare relazioni per prepararsi al futuro», spiega lo stesso Giustini, che si prepara ad andare in pensione. Un anno dopo i due si ritrovano ancora. L’occasione è il premio Sciacca nell’Aula Magna della Pontificia Università Urbaniana della città del Vaticano. Canegrati riceve un premio speciale della giuria e a consegnarlo è proprio il generale Giustini. Nel network lumbard compare anche un generale in pensione dei Carabinieri, tale Alberto Bellotti, che, annotano gli investigatori, incontra Canegrati per sondare “eventuali prospettive di collaborazione”. Una curiosità: Bellotti risulta collaboratore della Regione per il progetto del numero d’emergenza 112 e allo stesso tempo rappresentante per l’Italia di Genesis International Health System, un gruppo israeliano con la casa madre a Giv’at Shmuel. Rizzi è un leghista innamorato della Sardegna. Trascorre le vacanze sull’Isola Rossa, in provincia di Olbia-Tempio Pausania, dove ha fondato nel 2009 la prima sezione della Lega Nord Sardinia. Sarà per questo che il politico lumbard ha sposato la causa dei pescatori spingendo per la candidatura del suo «fraterno amico» Mauro Morlè (con lui esce in barca) alle Europee del 2014. Dalle urne arrivano 3.300 voti e così l’instancabile Rizzi si mette in pista per far avere al suo protetto un tesserino da lobbista proprio a Bruxelles. Decine di mail e telefonate alla pattuglia di barbari sognanti all’Unione europea: chiede a Mario Borghezio un incarico di consulente per «andare e venire quando vuole gratis con vitto e alloggio assicurato». Affare fatto. Dopo mille manovre l’agognato tesserino finalmente arriva. Il leghista pescatore sbarca a Bruxelles. A spese nostre, perché all’Europarlamento i lobbisti sono pagati con denaro pubblico. Ha collaborato Janaina Cesar.

Sanità lombarda: 20 anni di scandali giudiziari. L'arresto di Rizzi è soltanto l'ultimo capitolo. Da Poggiolini a Poggi Longostrevi fino a Mantovani: i casi di appalti pilotati, corruzione e malaffare in Regione, scrive di Francesca Buonfiglioli il 16 Febbraio 2016 su “Lettera 43”. Appena il tempo di spiegare la portata della riforma - o, meglio, «evoluzione» come la preferisce definire Roberto Maroni - del Sistema socio-sanitario lombardo, «perché 'riforma'», spiegava il governatore il 18 gennaio 2016, «evoca qualcosa che non funziona, mentre il Sistema socio-sanitario in Lombardia è una eccellenza» - che ecco piombare sul Pirellone un nuovo scandalo. Tra i 21 arresti spiccati il 16 febbraio nell'ambito dell'operazione Smile su presunte irregolarità in appalti odontoiatrici presso aziende ospedaliere lombarde c'è pure Fabio Rizzi, presidente della Commissione Sanità e Politiche sociali del Consiglio regionale nonché braccio destro di Bobo e padre di quell'«evoluzione» della Sanità più volte decantata dal governatore. L'accusa nei confronti del leghista è pesante: associazione per delinquere. L'indagine della procura di Monza è però solo l'ultimo capitolo del libro nero della Sanità lombarda. Che va dall'arresto di Duilio Poggiolini, il Re Mida della Sanità o il boss della malasanità, e arriva fino alle manette scattate ai polsi di Mario Mantovani, console berlusconiano, ras della sanità regionale ed ex vice presidente lombardo. In mezzo ci sono mazzette, truffe, vacanze e viaggi sospetti, turbative d'asta. Ma anche emoderivati infetti e cliniche degli orrori.

1993: Tangentopoli scoperchia gli affari di Poggiolini. Nella bufera milanese di Tangentopoli finì nel 1993 Duilio Poggiolini, presidente della Commissione per i farmaci dell'allora Comunità economica europea e iscritto alla P2. Secondo il pool di Di Pietro, Poggiolini era a libro paga delle case farmaceutiche per fare inserire i farmaci nei prontuari manipolandone i prezzi. A riscuotere le mazzette delle multinazionali era la moglie Pierr di Maria, anch'essa arrestata e morta nel 2007. Quando venne catturato latitante sotto falso nome in una clinica di Losanna, gli inquirenti trovarono su un conto svizzero intestato alla consorte 15 miliardi di vecchie lire. Nulla in confronto al cosiddetto 'tesoro Poggiolini': lingotti d'oro, gioielli, quadri, monete antiche, rubli e banconote nascoste perfino nei puff e nei materassi della sua abitazione all'Eur. Il boss della malasanità è poi tuttora sotto processo nell'ambito dell'inchiesta napoletana sul plasma infetto fornito dal Gruppo Marcucci. Secondo l'associazione politrasfusi, tra il 1985 e il 2008 le vittime di trasfusioni sono state 2.605. Ironia della sorte, l'ottobre 2015 l'87enne Poggiolini è stato trovato in una casa di riposo abusiva alle porte di Roma, tra anziani maltrattati, ammassati e confezioni di sedativi.

1997: Poggi Longostrevi e lo scandalo delle prescrizioni d'oro. Per un Re Mida della Sanità nazionale, ce n'era uno di quella lombarda: Giuseppe Poggi Longostrevi, medico e proprietario di una rete di cliniche private nel Milanese. Nel 1997 un'inchiesta mise con le spalle al muro centinaia di medici di famiglia che prescrivevano scintigrafie presso le strutture convenzionate di proprietà di Longostrevi dietro compenso (dalle 50 alle 100 mila lire) più il 15% del valore degli esami di laboratorio e regali da parte del manager. Secondo l'accusa, molti esami non vennero nemmeno effettuati. In compenso fioccavano i rimborsi da parte della Regione. La Corte dei conti stimò i danni causati all'erario in 60 miliardi. Ma c'è di più: Poggi Longostrevi tra il '96 e il '97 aveva pagato una mazzetta da 72 milioni di lire a Giancarlo Abelli, allora presidente della Commissione Sanità in Regione Lombardia. «Una consulenza», spiegò Abelli, già braccio sanitario di Roberto Formigoni. «Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione», confessò invece Longostrevi, che dopo nove mesi agli arresti si tolse la vita con una overdose di barbiturci. «Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto... Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore». Ciò che accadde ad Abelli che dopo lo scandalo delle ricette ottenne la poltrona alla Sanità. Alla fine se la cavò con un processo per false fatture. Ma visto che non si dimostrò la volontà di evadere le tasse, fu assolto dall'accusa di frode fiscale, continuando la sua carriera al Pirellone al fianco del Celeste e poi come fedelissimo di Silvio Berlusconi a Roma. È scomparso il 26 gennaio 2016.

2011: Daccò e l'impero del Celeste. In piena era formigoniana la sanità regionale è stata sconvolta da un altro scandalo: il crac della Fondazione San Raffaele, centro d'eccellenza di Don Verzé. Nel mirino nel novembre 2011 è finito Pierangelo Daccò, uomo vicino a Comunione e liberazione, accusato di distrarre milioni dall'ospedale: avrebbe ricevuto denaro in contante dal vice di Verzé, Mario Cal, poi finito suicida. Tra l'altro fu lui a gestire l'acquisto del nuovo aereo privato del prete-manager, intascandosi una consulenza da un milione di euro. Affare che provocò 10 milioni di buco nel bilancio dell'ente. Il nome di Daccò però è legato anche all'inchiesta sui fondi neri del Pirellone alla clinica Maugeri in cui è accusato di aver distratto circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e finti appalti. Vicenda che vede imputato anche l'amico ed ex governatore lombardo Formigoni con cui il faccendiere condivideva feste, cene, vacanze e viaggi. Che, secondo l'accusa, in realtà erano benefit per ottenere favori dalla Regione. Il Celeste è stato così rinviato a processo per associazione a delinquere e corruzione assieme, tra gli altri, all'ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone e allo stesso Daccò. Nel 2012 Formigoni si difese parlando di quelle vacanze in Sardegna come «scambi tra persone amiche» e «viaggi di gruppo in cui alla fine si conguagliano le spese», negando di aver mai ricevuto «regalie». Ferie a tre che la moglie di Simone Carla Vites - accusata di riciclaggio - aveva invece definito «weekend “romantici” a cui mio marito non mi portava. Daccò trascinava in vacanza gente che aveva fatto voto di castità, povertà e obbedienza, facendoli ballare come bambini deficienti».

2015: bufera sul ras della Sanità lombarda Mantovani. I guai della Sanità lombarda dall'impero del Celeste passano alla gestione di Roberto Maroni, colui che brandendo una ramazza aveva promesso di disinfestare la Lega dagli scandali bossiani. Eppure il Barbaro sognante si è dovuto arrendere alla realtà dei fatti. A ottobre del 2015 è infatti finito in manette il suo vice ed ex assessore alla Sanità, il forzista Mario Mantovani con l'accusa di corruzione e concussione per appalti nella sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. In carcere sono finiti pure il collaboratore del berlusconiano, Giacomo di Capua, capo di gabinetto dell'assessorato e mente dei manifesti «Via le Br dalla procura», e Angelo Bianchi, ingegnere del provveditorato alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria, già rinviato a giudizio per presunti appalti truccati in Valtellina. Tra i 12 indagati compare anche il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e vicinissimo a Maroni. Avrebbe agito per turbare la gara «per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico». Mantovani - signore di Arconate di cui è stato sindaco per quasi 15 anni, badante di Mamma Rosa, la madre di Berlusconi, che ha assistito fino all'ultimo e organizzatore dei pullman di anziani in occasione delle manifestazioni di Silvio - è un altro dei ras della Sanità lombarda: alla sua famiglia fanno capo la società Immobiliare Vigevanese che realizza residenze socio assistenziali e la Fondazione Mantovani che gestisce alcune di queste strutture. Come slogan ha: «Il valore della vita, il calore della famiglia, la forza della solidarietà».

2016: Rizzi, Longo e il legame tra imprenditoria e politica. E ora con l'arresto di Rizzi, medico anestesista e rianimatore, segretario provinciale del Carroccio di Varese dal 2006 al 2008, e dal 2008 al 2013 senatore, Bobo deve fare fronte a un nuovo terremoto. L'indagine, coordinata dalla procura di Monza, ha ricostruito l'operato di un gruppo imprenditoriale accusato di aver corrotto funzionari delle gare di appalto pubbliche lombarde, bandite da diverse aziende ospedaliere per la gestione esterna di servizi odontoiatrici, riuscendo ad aggiudicarsele. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, alla corruzione e alla turbativa d'asta per i servizi odontoiatrici esternalizzati in Lombardia. Con Rizzi è finito in carcere l'imprenditore Mario Valentino Longo, componente dello staff del consigliere. I due sarebbero stati pagati dal gruppo imprenditoriale al centro dell'inchiesta con il finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali del 2013. E successivamente con versamenti tra cui una tangente di 50 mila euro e una serie di finte consulenze, per 5 mila euro al mese, fatturate dalla moglie di Longo. Al centro dell'inchiesta c'è l'imprenditrice Maria Paola Canegrati, considerata il «vertice» del sistema corruttivo. Secondo gli inquirenti, le società a lei riferibili tra cui la Elledent e la Service Dent (del gruppo Odontoquality con sede ad Arcore-Monza), in 10 anni avrebbero preso il monopolio dei servizi odontoiatrici appaltati in esterno dagli ospedali lombardi. Rizzi e Longo avrebbero favorito l'imprenditrice in gare di appalto bandite dalle Aziende Ospedaliere Istituti Clinici di Perfezionamento (del 2015, da 45 milioni di euro) e Ospedale di Circolo di Busto Arsizio (del 2014, da 10 milioni di euro). Gare che secondo l'accusa erano puramente formali. Canegrati stessa, dal 2013, avrebbe tessuto una rete di azione a livello amministrativo con funzionari pubblici corrotti, i quali erano a libro paga del suo gruppo imprenditoriale. Si parla di un giro di affari di 400 milioni di euro.

2007: non solo tangenti, anche i morti della clinica Santa Rita. Ma la malasanità lombarda non è solo fatta di mazzette, benefit e appalti truccati. È fatta anche di morti. Nel 2007 un'operazione della Guardia di finanza e della procura di Milano hanno portato alla luce gli orrori della clinica Santa Rita di Milano dove venivano effettuate operazioni chirurgiche senza che fossero necessarie solo per incassare i rimborsi della Regione. Il primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone è stato condannato all'ergastolo anche in Appello con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e 45 casi di lesioni.

Lega: da secessione a nazionalismo, scrive Elia Rosati Domenica 05 giugno 2016. L’articolo è tratto dalla serie Viaggio nell’estrema destra europea, un progetto dell’Anpi – Associazione nazionale partigiani d’Italia, curato dal ricercatore storico e collaboratore dell’Università Statale di Milano Elia Rosati. Breve storia della Lega Nord (LN). Dal secessionismo comunitarista al nazionalismo identitario.

“Roma Ladrona!” (1987-1995). Nata nel 1989 come confederazione elettorale di alcuni movimenti regionalisti del Nord Italia e capitanata da un gruppo dirigente con al vertice Umberto Bossi, senatore dal 1987 per la formazione localista Lega Lombarda e segretario del Carroccio fino al 2012. Inizialmente la LN chiedeva una radicale riorganizzazione della Nazione in senso federale, maggiore autonomia fiscale per le amministrazioni regionali e provinciali del Nord, un drastico taglio delle tasse e la fine di una politica di investimento dello Stato che privilegiasse le regioni del Meridione a discapito di quelle settentrionali. La proposta politica della Lega prese rapidamente piede nelle zone pedemontane (principalmente del lombardo-veneto), deluse dalla politica democristiana e protagoniste di un vorticoso sviluppo economico, caratterizzato da medio-piccole imprese a conduzione familiare, che rese il Nord-Est uno dei territori più ricchi d’Europa. La politica leghista fu da subito caratterizzata da un populismo volgare e provocatorio, che dipingeva la classe politica come corrotta ed il Sud del Paese come popolato da parassiti che vivevano solo dell’assistenzialismo statale, finanziato, secondo i leghisti, dalla tasse delle regioni settentrionali. Un certo razzismo verso i migranti era già fortemente diffuso nella base leghista, anche se il Carroccio nei primi anni ’90 concentrava i suoi anatemi contro gli italiani meridionali, chiedendo che venissero allontanati dalla pubblica amministrazione nelle regioni del Nord, perché incompetenti e lavativi. Nelle elezioni amministrative del Maggio 1990 raccolse il 4% a livello nazionale, diventando però il secondo partito in Lombardia con il 18,9%; successivamente sull’onda del sentimento di indignazione per l’inchiesta di Tangentopoli, nelle elezioni nazionali del 1992, pur avendo il suo elettorato esclusivamente nel Nord-Italia, ottenne l’8,6% con 3.400.000 voti (quarto partito) e nel 1993 conquistò a sorpresa il Comune di Milano (uno dei consiglieri comunali sarà il giovanissimo Matteo Salvini). Dopo questi exploit, Bossi strinse nel 1994 un accordo elettorale con Forza Italia (FI), la neo-formazione politica dell’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, vincendo le elezioni (le prime con un sistema di voto maggioritario), partecipando per la prima volta al governo con cinque ministri e ottenendo anche la presidenza della Camera per Irene Pivetti. Tuttavia il primo esecutivo Berlusconi non durò a lungo: fu proprio la Lega Nord nel 1995 a ritirare il suo appoggio parlamentare in disaccordo sulla riforma delle pensioni, aprendo la strada al governo di Lamberto Dini, un gabinetto sostenuto dalle opposizioni di centro-sinistra e dal partito di Bossi.

Soli contro tutti, per una Padania libera e sovrana (1996-2001). Nelle successive elezioni del 1996, la Lega Nord si presentò da sola, raccogliendo il 10% e quasi 3.800.000 voti, ma fu anche il momento in cui il Carroccio ristrutturò la sua identità diventando una forza poltica etnoregionalista molto più radicale. Cominciò quindi il progetto di “Indipendenza della Padania”: la secessione dall’Italia delle regioni del Nord che sarebbero andate a formare, nella mente di Bossi, una macro-regione sovrana e autonoma; tutta la forza organizzativa e propagandistica del partito (una struttura militante ben radicata nel territorio) venne dirottata nel costruire questa nuova identità nazionale. Venne creato un simbolo, una bandiera e la Lega si dotò anche di un quotidiano (“La Padania”, appunto) e di una emittente radiofonica (“Radio Padania Libera”), dando vita anche ad un simbolico “parlamento padano” a Mantova ed organizzando periodiche kermesse sul fiume Po e a Venezia, per celebrare la lotta indipendentista “dei popoli padani”. Parallelamente la Lega Nord radicalizzò le sue posizioni ideologiche sull’immigrazione, avvicinandosi molto anche al tradizionalismo cattolico e strinse alleanze europee con analoghe formazioni liberiste e xenofobe come il FPÖ austriaco di Jorg Haider o i neonazisti fiamminghi del Vlaams Blok. Quello che era stato un partito localista di protesta fiscale con forti venature razziste, virava decisamente verso destra diventando una forza identitaria, comunitarista e xenofoba, che cominciò ad essere un interlocutore anche per il mondo neofascista italiano.

Silvio e Umberto di nuovo insieme (2001-2006). Nel 2001, dopo un rinnovato accordo con Forza Italia ed Alleanza Nazionale (più alcune formazioni cattoliche), Bossi ed i suoi tornarono nuovamente al governo con Berlusconi: il risultato elettorale fu scarso (3,4% e 1.500.000 voti), ma il Carroccio ottenne il Ministero delle Riforme, della Giustizia e del Lavoro. Durante questa seconda esperienza alla guida del Paese (2001-2006) la Lega Nord si distinse per una intransigente attività di governo che portò all’approvazione, in particolare, di una dura legge sull’immigrazione (la “Bossi-Fini”), della riorganizzazione del sistema penale (riforma Castelli) e di una mini-riforma costituzionale (la “Devolution”) che avrebbe dovuto attribuire alla regioni molti poteri dello Stato centrale e creare un Senato Federale, ma che venne bocciata dal Referendum del 2006. In generale la LN fu interna a tutta l’azione di governo del centro-destra, appoggiandone, quando non radicalizzandone, ogni iniziativa legislativa (in primis la riforma elettorale Calderoli, detta il “Porcellum”) e mantenendo un notevole potere contrattuale in materia economica (spesso in polemica con lo statalismo di Alleanza Nazionale) anche grazie al forte legame con Giulio Tremonti, il super-ministro per l’economia di Berlusconi. Dal congresso del 2002 inoltre il partito di Bossi completò la sua mutazione, adottando ufficialmente la linea della “difesa della razza padana” contro “la società multirazziale” e accogliendo tra le sua fila esponenti o tematiche appartenenti alla destra radicale, mentre l’associazionismo vicino ai “Giovani Padani” cominciò a tingersi di nero. In questa fase emerse nettamente la figura dell’eurodeputato piemontese Mario Borghezio, un ex-neofascista, leghista della prima ora, che divenne il citofono del Carroccio col mondo del radicalismo di destra. Un terreno di convergenza era rappresentato dallo stop alla immigrazione: la LN si fece interprete di una politica securitaria, propagandata in modo martellante, che dipingeva l’immigrato o il rom solo come un potenziale criminale. La Lega invitò i cittadini a controllare le strade e utilizzò il servizio d’ordine del partito (“la Guardia Nazionale Padana”) per organizzare delle ronde serali “contro il degrado”; l’incontro con i fascisti nacque, dunque, nella politica di strada più che nei cortei o nei congressi. Inoltre i numerosi amministratori leghisti in Lombardia e Veneto continuarono ossessivamente a varare regolamenti comunali discriminanti verso i migranti, i diritti dei gay e le forme di socialità giovanili, presentandosi come “sindaci sceriffo”. Nel Marzo 2004 Umberto Bossi venne ricoverato in ospedale per un ictus, ma nonostante la lunga convalescenza mantenne la leadership del partito, potendo contare su di un gruppo dirigente lombardo (soprattutto varesotto-bergamasco) coeso e a lui molto fedele, in primis i ministri Maroni, Castelli e Calderoli.

“Affezionati alla cadrega” (2006-2011). Dopo una breve parentesi all’opposizione (durante il secondo esecutivo Prodi, 2006-2008), il Carroccio ritornò al governo nel 2008 sempre in coalizione con Forza Italia ed Alleanza Nazionale (dal 2009 unitisi nel “Popolo delle Libertà”), ottenendo l’8,3% (3.020.000 preferenze) e risultati incoraggianti anche nel centro-Italia, uscendo per la prima volta dal suo tradizionale bacino elettorale territoriale. Il consenso parlamentare del nuovo Governo Berlusconi (in cui la Lega ebbe tre ministeri, tra cui l’Interno) risultò molto ampio, anche se l’azione legislativa risultò poco incisiva, se si esclude la contestatissima Riforma dell’Università (“Legge Gelmini”), molti interventi sulla Giustizia (“Lodo Alfano”, “Scudo Fiscale”) a vantaggio del Premier e alcune manovre finanziarie, composte quasi esclusivamente da tagli alla spesa pubblica. Questa avanzata nelle regioni del centro, tradizionalmente di sinistra, continuò anche nelle Europee del 2009, quando la Lega Nord ottenne il 10,2%, dopo una campagna elettorale molto polemica contro la UE specie sul tema delle migrazioni, raccogliendo l’11% in Emilia-Romagna, il 5,4% nelle Marche, il 4,3% in Toscana ed il 3,6% in Umbria. Mentre nelle Regionali del 2010 la Lega ottenne (in coalizione con il centro-destra) la Presidenza del Veneto (LN: 35,1%) per Luca Zaia e del Piemonte (LN: 16,7%) per Roberto Cota. Nel frattempo anche in Italia cominciava a farsi sentire la crisi economica ed il partito di Bossi si trovò tra due fuochi: l’ostentato ottimismo governativo di Berlusconi e Tremonti e le paure dei suoi ceti sociali di riferimento, sempre più preoccupati dalla difficile congiuntura economica; tutto questo mentre Gianfranco Fini con la scissione di Futuro e Libertà indebolì ancora di più l’esecutivo. Mentre nelle elezioni amministrative della primavera 2011 lo schieramento di centrodestra cominciò ad incassare alcune sonore sconfitte (in particolare a Milano), all’interno del Carroccio iniziò lo scontro tra Bossi, i suoi collaboratori più stretti (il “cerchio magico”) e Roberto Maroni (numero due del partito e ministro dell’Interno): in discussione c’erano appunto il futuro dell’alleanza con Berlusconi ed i rapporti di forza interni alla coalizione. Durante tutto questo per effetto delle turbolenze economiche e degli scandali, il Premier rassegnava le dimissioni, aprendo la strada al Governo tecnico di Mario Monti; la Lega Nord frastornata dalla precipitosa caduta dello storico alleato tornava all’opposizione.

Bossi addio (2011-2013). Umberto Bossi, l’onnipotente segretario del partito dal 1989, cominciò ad essere considerato troppo legato e compromesso con Berlusconi e le fronde interne acquistarono notevole forza; quando poi il leader del Carroccio venne indagato (aprile 2012) per aver sottratto indebitamente soldi alla Lega a vantaggio della sua famiglia e del “cerchio magico”, la caduta fu inevitabile. Si riaccese un atavico scontro, presente nella LN fin dalla sua formazione, tra la componente veneta (da sempre costretta in seconda fila) guidata dal governatore Zaia e dal sindaco veronese Flavio Tosi e quella lombarda (ex-bossiana) capitanata da Roberto Maroni e dall’eurodeputato milanese Matteo Salvini. Il mondo leghista si trovò in subbuglio e nelle amministrative del giugno 2012 il risultato fu scarso, anche in storiche roccaforti come Como e Monza. In un clima di emergenza, il nuovo segretario divenne Maroni che provò ad imprimere una svolta al partito, rottamando la vecchia dirigenza bossiana e tornando alla carica con lo slogan “Prima il Nord!”, rivendicando un welfare su base regionale, lo stop dell’immigrazione e una drastica riduzione delle tasse per le regioni settentrionali. Nonostante questo ritorno alle tematiche classiche della Lega Nord, la decisione fu di restare alleati di Berlusconi nelle Politiche del 2013: il Carroccio precipitò al 4% con 1.400.000 voti, dimezzando il suo consenso, pagando una forte emorragia di consensi verso il Movimento 5 Stelle; la restaurazione maroniana non era bastata. Tuttavia Maroni, strumentalmente, usò l’accordo con il centrodestra per venire candidato, sempre nel Febbraio 2013, come governatore in Lombardia, riuscendo ad essere eletto, nonostante la LN avesse perso 400.000 voti (12,9% rispetto al 26,2% del 2010) nella sua regione natale. Il Carroccio, arroccatosi come all’inizio della sua storia nel lombardo-veneto e ridotto al minimo, provò a guardare avanti organizzando per il congresso federale del Dicembre 2013 delle elezioni primarie, per motivare la base; dopo il ritiro del venetista Tosi e con Maroni e Zaia impegnati nei governi regionali, lo scontro fu tra il vecchio Umberto Bossi ed il quarantenne Salvini: quest’ultimo venne eletto segretario con l’82% dei voti. Finiva per sempre un’era. Mentre negli stessi giorni del 2014 Matteo Renzi scalava la vetta del PD e disarcionava il governo di Enrico Letta, “l’altro Matteo” (Salvini), messo da parte definitivamente Umberto Bossi, avviava spedito il suo progetto di rifondazione leghista e di conquista della leadership del centrodestra.

L’Era Salvini: il “fascioleghismo” e la “politica della Ruspa” (2014-2016). Salvini decise subito di rompere alcuni tabù storici e di invertire la rotta rispetto all’arroccamento macro-regionalista di Maroni, approfittando dell’appannamento della figura di Silvio Berlusconi e della diaspora interna a Forza Italia con l’uscita del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (Autunno 2013). La nuova Lega, per la prima volta, trovava campo libero e poteva candidarsi a guidare l’intero centrodestra, ovviamente imprimendo ad esso una svolta radicale soprattutto sui temi della crisi, dell’Euro e dell’immigrazione. Il quarantenne Salvini, in previsione delle Europee 2014, cominciò a parlare apertamente di “welfare per soli italiani” e di “uscita dall’Euro” per risollevare l’occupazione e l’intera economia del Paese, secondo lui strozzata dalle tasse, dal peso dell’Ue e, neanche a dirlo, dai costi dei programmi di accoglienza per immigrati. Tutto questo in sinergia con altri partiti europei, in primis il Front National di Marine Le Pen, l’FPÖ austriaco di Christian Strache ed il PVV olandese di Geert Wilders. Gli sforzi del neosegretario furono premiati, alle elezioni infatti la LN prese il 6,15% (1.690.000 voti), riconfermando a Strasburgo Salvini e altri cinque deputati, tra cui Mario Borghezio che, candidato a sorpresa nella circoscrizione del centro-Italia, riuscì a farsi eleggere, non nascondendo di aver ricevuto parte dei suoi voti dalla galassia neofascista, in primis Casa Pound. Salvini, ospite fisso in tutti i talkshow televisivi, passò all’attacco proponendo un referendum contro la Legge Fornero, scioperi fiscali contro le tasse, campagne xenofobe, l’eliminazione di tutti campi rom (la cosiddetta “politica della ruspa”), pieno sostegno alle forze dell’ordine ma anche il diritto all’autodifesa armata dei cittadini. In breve la notorietà del segretario del Carroccio crebbe notevolmente e vennero create liste di appoggio (“Noi con Salvini”) in tutto il centro-sud, in aggiunta ad una alleanza formale con i “Fascisti del Terzo Millennio” di Casa Pound, rappresentati dalla lista “Sovranità”. La LN rivoluzionò la sua comunicazione inondando la rete, Facebook, Twitter e Instagram di messaggi contro la politica economica di Renzi, le scelte economiche dell’UE e gli immigrati; il vecchio quotidiano “La Padania” e l’emittente “Radio Padania Libera” vennero sbrigativamente chiuse, mentre Salvini era onnipresente nelle televisioni nazionali e sui rotocalchi. Non mancarono inoltre le adunate di piazza come a Milano (Ottobre 2014), Roma (Marzo 2015) e Bologna (Ottobre 2015) a cui parteciparono in quanto alleati, con tanto di intervento dal palco, sia Fratelli d’Italia che Casa Pound. Salvini, girando in lungo ed in largo per l’Italia, ha incentrato la sua campagna su un welfare per soli italiani, la difesa dell’agricoltura nazionale, della piccola impresa manifatturiera e la militarizzazione delle periferie, continuando a dipingere ossessivamente la criminalità come un effetto dell’immigrazione. Nelle Regionali 2015 il Carroccio avanzò ancora, costruendo coalizioni oltrechè con Giorgia Meloni anche con l’indebolito Berlusconi, ottenendo trionfalmente la riconferma a Governatore del Veneto per Luca Zaia, contribuendo alla vittoria del forzista Toti in Liguria e diventando il secondo partito nella rossa Toscana (16,6%), il terzo in Umbria (14%) e nelle Marche (13%); il tutto doppiando i voti di Forza Italia. Il Carroccio marciava compatto dietro al suo leader, nonostante l’opposizione venetista di Flavio Tosi (poi cacciato dal partito) ed il freddo sostegno dei “due governatori”, Zaia e Maroni, un po’ insofferenti nei confronti di un segretario così ingombrante. Ma nonostante i brillanti risultati del nuovo corso salviniano, la base del partito ha metabolizzato a fatica questa “svolta nazionale”, non riuscendo mai ad abbandonare completamente le liturgie ed il punto di vista “padano”. Sicuramente la Lega Nord, avendo incentrato tutta la sua comunicazione politica sulla figura del dinamico e popolarissimo segretario, detiene oggi saldamente le redini della discussione pubblica su questioni chiave come la tassazione ed i flussi migratori, rappresentando una vera e propria nemesi per l’ostentato ottimismo di Matteo Renzi e del suo PD. Va detto però che, nonostante il rapporto con Berlusconi sia sempre più deteriorato (vedi le Comunali 2016 a Roma), la Lega Nord oggi risulta bloccata tra il 15% ed il 18%: un risultato che la obbliga ancora a dover convivere con Forza Italia ed a cercare nuove alleanze (in aggiunta a Fratelli d’Italia e Casa Pound) in attesa di conquistare la candidatura a Premier e poter sfidare realisticamente Matteo Renzi.

Quando tutti si leghistizzano. Muore il leghista Buonanno. E i centri sociali lo insultano. Scrive Antonio Angeli su "Il Tempo" il 5 giugno 2016. Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di...Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di Petrolini, a sedici anni si iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante dove militò per anni, per confluire negli anni Duemila nella Lega Nord. Al coro addolorato di amici e politici sconcertati dalla morte improvvisa, si sono aggiunti attacchi e insulti via web da parte degli immancabili cialtroni. Gianluca Buonanno, europarlamentare e sindaco di Borgosesia (Novara), ha perso la vita ieri pomeriggio, in auto sulla Pedemontana a Gorla Maggiore (Varese). Il leder del Carroccio, Matteo Salvini, lo ha salutato così: «Non ho parole. Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, concreta, onesta, generosa, sempre fra la sua gente da Sindaco e parlamentare. Un pensiero ai suoi famigliari e alla gente della sua valle. Un impegno: non molleremo mai, anche per Te. Ciao Gianluca, mancherai». Cordoglio da tutti i principali esponenti leghisti a cominciare da Calderoli. Il premier Renzi ha telefonato a Salvini esprimendo il suo dolore. Politici di tutti gli schieramenti, da Giorgia Meloni a Toti di Forza Italia, ma anche dal MoVimento 5 Stelle alla presidente della Camera Boldrini hanno espresso il loro cordoglio. Buonanno cantò senza troppi complimenti la sua contrarietà a omosessuali e rom, una volta, in Parlamento, portò provocatoriamente un finocchio. Ieri, dopo la sua scomparsa il web è impazzito: un tal Marco scrive: «L’Italia è quel posto in cui dei morti se ne deve sempre parlare bene, anche se in vita sono stati degli emeriti imbecilli #Buonanno». E ancora: «Signor Bossi, è morto Buonanno! Grazie, anche a voi». Da Pirata 21: «È morto Gianluca #Buonanno della Lega. Mi dispiace era proprio una brava... vabbè mi dispiace». E molti altri che definire di cattivo gusto è un complimento: «Lega Nord: è morto #Buonanno in un incidente stradale. Molti di voi lo ricorderanno per avergli augurato un incidente stradale». «È morto #Buonanno, in cielo uno appena arrivato voleva uno sparring partner». «Ad Alì serviva un sacco da boxe che gli ispirasse violenza... e così #Buonanno». «È morto #Buonanno. Il proprietario dell’altra auto ora invoca la legittima difesa». Da Luca Maccioni: «Tutti felici per la morte di #Buonanno. Che ci crediate o no, ne è felice pure la famiglia che ora si becca un bel vitalizio». Una doppia imbecillità: nel 2011 Buonanno ha formalmente rinunciato al vitalizio.

Morto Gianluca Buonanno: la festa della vergogna dei "cretini" di Twitter. Diversi utenti su Twitter dopo la notizia della morte hanno "festeggiato" a colpi di tweet ignobili: il rispetto non c'è nemmeno davanti alla morte, scrive Claudio Torre, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale". Una morte improvvisa. Gianluca Buonanno è morto in un incidente stradale tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Due auto si sono scontrate, forse complice anche il maltempo: uno scontro terribile che ha causato la morte di Buonanno, deceduto praticamente sul colpo nonostante i tentativi di soccorso da parte dell’équipe dell’automedica del 118. Subito dopo la notizia della morte il mondo politico si è stretto alla famiglia e soprattutto alla moglie che anche lei a bordo dell'auto e attualmente ricoverata con ferite ha visto il marito che li moriva accanto. Un dramma che ga colpito la Lega Nord e tutto il mondo politico. Ma sui social network chi non condivideva le idee di Buonanno si lascia andare ad uno sciacalaggio vergognoso. Soprattutto diversi twittaroli hanno fatto "festa" subito dopo la notizia. Gli insulti non si fermano nemmeno davanti alla morte. "Per cosa verrà ricordato un uomo di merda come Buonanno?", scrive un utente su Twitter. Qualcuno aggiunge: "R.i.p. Buonanno" aggiungendo alla scritta anche una foto con i botti d'artificio. A questo si aggiunge la creazione dell'hashtag "buonanno" in senso di festa usando il cognome del povero europarlamentare della Lega Nord. C'è chi prova a dire che "non si fa festa su chi muore", ma qualcuno che appartiene a quella parte feroce popolo di Twitter risponde così: "Quindi bisognerebbe portare rispetto a #buonanno?ma rispetto de che?". E ancora: "Muore un razzista, ignorante e ignobile "uomo". Di che dispiacersi?". Ma la realtà della bassezza e della pochezza di alcuni commenti è riassunta in questo tweet che critica aspramente questa festa ignobile a colpi di cinguettii: "Le reazioni alla morte di #buonanno dimostrano che la madre degli imbecilli non fa in tempo ad essere incinta ma sforna pargoli dopo pargoli".

Il Tg1 ignora Buonanno: morte cancellata dai titoli. Nell'apertura del Tg1 non è stato dedicato nemmeno un titolo alla morte dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale".  Nessun titolo per la morte di Gianluca Buonanno. Il Tg1 ha ignorato la tragica scomparsa dell'europarlamentare leghista. C'è tutto, nei lanci del telegiornale della prima rete Rai. Ci sono le affluenze al voto, la tragedia degli immigrati nel mare della Libia, l'offensiva contro l'Isis in Iraq, la musica, il reddito di cittadinanza, il motomondiale e anche la morte di Muhammad Alì. Ma non Buonanno. Eppure la notizia della morte del sindaco della Lega Nord è stata battuta dalle agenzie di stampa alle 18.43. E i quotidiani locali avevano dato l'annuncio ancora prima. Come è possibile che nella redazione del telegiornale di Rai1 non abbiano trovato il tempo di confezionare, se non un servizio, almeno un titolo di due righe sulla tragica scomparsa dell'esponente del Carroccio? Che per quanto possa essere "poco apprezzato", ha comunque un certo peso politico. La mancanza del Tg1 non è passata inosservata alla rete. Che appena finiti i titoli del telegiornale hanno iniziato a bombardare il profilo Twitter del Tg1. "Che scandalo - scrive Serenella - è morto l'europarlamentare della Lega, di incidente stradale e il tg1 non dice niente". "Mentana sempre avanti - ribatte Luca - Buonanno subito dopo le elezioni. Il tg1 manco considerato nei titoli, in compenso ancora Muhammad Alì". Di tweet in tweet, l'indignazione corre sul web. "È vergognoso che il tg1 non parli della morte del leghista", aggiunge Antonio. Alcuni avanzano anche l'accusa di pilotaggio da parte del governo, che avrebbe "imposto al tg1 di coprire la notizia su Buonanno per non dare spazio alla Lega". Complice anche il maltempo, il leghista ha perso il controllo dell'auto e ha colpito un'auto sulla Pedemontana, tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Il leghista è morto sul colpo. Ferita anche la moglie dell'europarlamentare, poi trasportata all'ospedale di Busto Arsizio. Le sue condizioni sono gravi. Nell'incidente sono state ferite anche altre tre persone.

"L'ultima provocazione di Buonanno": il commovente ricordo di chi lo conosceva bene, scrive di Matteo Pandini il 6 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Pensavamo non potesse lasciarci senza parole, Gianluca Buonanno da Borgosesia, sindaco ed europarlamentare della Lega, famoso per provocazioni e battutacce ma amatissimo nella sua Valsesia, Vercelli, e non solo. Eppure, ieri, ci ha spiazzato. Nel tardo pomeriggio. Quando è morto a 50 anni in un incidente stradale sulla Pedemontana lombarda all’altezza di Gorla Maggiore, Varese. È andato a sbattere contro un’auto, ferma per un guasto. Lascia due figli piccoli. La moglie, che era con lui, è ricoverata in ospedale a Busto Arsizio in codice rosso. Altre tre persone sono rimaste ferite. Di solito, sentivi il nome Buonanno e immaginavi subito qualche sceneggiata, una dichiarazione scorretta, uno dei tanti show che l’avevano fatto diventare un personaggio. Sapeva indignare, a turno, tutto l’arco costituzionale. Ma dietro le quinte, anche molti dei suoi critici lo trovavano simpatico. A Roma, Laura Boldrini aveva cercato inutilmente di contenerlo. A Bruxelles, Martin Schulz aveva intimato al personale di marcarlo stretto dopo che aveva indossato una maschera di Angela Merkel e aveva esibito rotoli di carta igienica. Per dribblare i divieti, il leghista si era presentato vestito e truccato da Hitler, con tanto di capelli impomatati e baffetti: era il suo modo di provocare i fan della Cancelliera. «Mica possono obbligarmi a non pettinarmi…» ridacchiò. Schulz decise di multarlo. Poi varò una norma, ribattezzata anti-Buonanno, per impedire cartelli e magliette in Aula. Insuperabile - Perfino nel Carroccio molti non reggevano le sue trovate. Anche perché riusciva ad alzare sempre l’asticella. Alla Camera, portò un enorme forcone (finto) per pungolare la maggioranza. Cosa poteva fare di più? Be’, utilizzò le bolle di sapone soffiandole nell’emiciclo. Eccolo con le manette, sventolate per criticare lo svuota-carceri. Una volta, spuntò improvvisamente davanti allo scranno della presidente Boldrini. Cacciando un urlo. Lei trasalì. Lui rise di gusto. Quindi si superò sventolando un pesce, per l’esattezza una spigola, che la terza carica gli fece sequestrare dai commessi. «Dove è finita la mia spigola?» domandò il giorno dopo. Si era perfino dipinto la faccia di nero, per denunciare il governo «che discrimina gli italiani». Davanti alle telecamere, Buonanno realizzò un video in cui si spogliava, boxer esclusi: «Renzi ci lascia in mutande!» urlava dandosi manate sulle chiappe. Poi, in un’intervista su Sky, mostrò una pistola per parlare di legittima difesa. Matteo Salvini, in privato, gli chiese di smorzare i toni. Lui rilanciò: bonus di 200 euro per chi vuole una rivoltella per difendersi. La carriera politica da amministratore ruspante, Buonanno la comincia nella destra. Figlio di padre artigiano e nonno pugliese che faceva l’attore girovago (era spalla di Ettore Petrolini), l’effervescente Gianluca prende la tessera dell’Msi a 16 anni, per poi passare ad An che rappresenta anche nel consiglio provinciale di Vercelli. Fa il sindaco di Serravalle Sesia per due mandati, al timone di una lista civica, e quando scatta l’ineleggibilità scende in campo alle Politiche del 2001 con una formazione che porta il suo nome. Incassa più del 22%. Un successone. Poco dopo, passa alla Lega. Nel 2002 viene eletto sindaco di Varallo. Un drago: riconfermato nel 2007. La fama - Si guadagna la ribalta nazionale: decide di battezzare alcune rotonde e strade a personaggi famosi ancora in vita e trasmissioni tv, ma soprattutto piazza delle sagome di cartone con la divisa da vigile (e la sua foto al posto della faccia) sul ciglio della strada. Obiettivo: far rallentare le macchine, senza tartassarle con gli autovelox. All’imbocco della sua Valsesia, fa piazzare cartelli con scritte anche in arabo per vietare veli e burqa vari, oltre ai vu cumprà. Quindi annuncia di voler distribuire profilattici agli extracomunitari, per aiutarli a «non fare figli che poi non riescono a mantenere». Promette premi ai concittadini sovrappeso che dimagriscono, pensa di regalare galline ai residenti in difficoltà, ipotizza di recintare con filo spinato il suo Comune, sostiene che il grana padano «è la prova che la Padania esiste». Per incrementare la produttività dei dipendenti del municipio, fa spostare la macchinetta del caffè dal corridoio al suo ufficio. Tra il 2008 e il 2014 fa il deputato. Record di presenze. Nel 2010 diventa consigliere in Piemonte. Nel 2014, eccolo sindaco di Borgosesia. Uno dei suoi fiori all’occhiello è il festival dell’Alpàa di Varallo: grazie ad alcuni sponsor, richiama artisti di fama per concerti gratuiti. In piazza. Nell’elenco di chi fa capolino nella sua roccaforte, negli anni, spuntano pure Fedez e J-Ax. Buonanno punta Bruxelles nel 2014: becca quasi 27mila voti, tra i leghisti fa meglio solo Salvini. A Bruxelles non cambia registro. Esempi. Per «dare la sveglia» suona la tromba alla fine di un intervento in Aula. Poi, si presenta in divisa militare. E col burqa. Diventa un protagonista di alcune trasmissioni, a partire dalla Zanzara di Radio 24. Ne dice di cotte e di crude. Il conduttore, Giuseppe Cruciani, sghignazza. L’altro giornalista, David Parenzo, impersonificazione del politicamente corretto, s’indigna. Memorabili corpo a corpo. Parenzo: «Vai al circo!!». Buonanno: «Pidocchio!! Comunista!!».  Pure sui gay, Buonanno non si tira indietro. A un dibattito mostra un finocchio. E quando un omosessuale lo incrocia e gli dice di smetterla, lui va a Radio 24 per cospargersi il capo di cenere: «Scusami, non lo faccio più-più-più» detta con vocina esageratamente effemminata (sì, certo, voleva sfottere). Propone chip per controllare i profughi, suggerisce di espropriarli dei cellulari, dopo gli attentati a Bruxelles acquista paginate di giornali belgi per arrivare a Molenbeek: «Lotterò per difendere i valori cristiani». Quando scoppiano le bombe nell’aeroporto di Zaventem, lui le schiva per un improvviso impegno in Municipio. Spiega l’episodio a Canale 5 e si commuove. Proprio in tv, su La7, attacca i rom e li definisce «feccia della società». Buonanno ha dato dei piangina ai napoletani e accusato Garibaldi «di aver unito l’Italia ma diviso l’Africa». Ha fatto inferocire chiunque. Da Gad Lerner, a cui ha dato del tirchio, fino alla comunità ebraica per non parlare di Cécile Kyenge e Sel, il partito di Vendola ribattezzato «Sodomia e libertà». Ha accusato gli islamici di essere «bestie» per le morti durante il pellegrinaggio alla Mecca: «Dai, non si può morire così». In piazza, godeva nell’andare in bocca ai contestatori. L’aveva fatto anche a Bologna, pochi mesi fa, beccandosi gli urlacci di qualche leghista. Ieri, sui social, è esondata la fogna di chi festeggia per la sua morte. Ma da Renzi a Fi fino al Pd, al M5S e ad Alfano, sono piovute le condoglianze. Anche della Boldrini, della Kyenge, di Fassina, di Schulz, della Le Pen, della Meloni, di Maroni e Zaia. Un elenco sterminato. Scioccato Salvini: «Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, onesta». Addolorati, tra gli altri, Barbara d’Urso e Parenzo. Disperato Cota, che da leader della Lega piemontese l’aveva lanciato. Buonanno chiamava spesso Libero: «Hai visto cos’ho fatto?». E ridacchiava. Gianluca, non avremmo mai pensato di avere tue notizie e restare senza parole. Ci sbagliavamo.

Tarallucci e Toghe". Il Csm sentenzia che alla Procura di Milano (dove il plenum ha appena nominato nuovo capo l' altro ex vice di Bruti Liberati, Francesco Greco) l'ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo non può più fare il pm, però a Torino può di nuovo fare il pm e persino tornare a fare il vicecapo della Procura: è il singolare esito del giudizio disciplinare a carico di Robledo non per lo scontro di lavoro con Bruti, ma per i contestati rapporti con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello, nelle intercettazioni 2012 di Reggio Calabria su Aiello, scrive di Luigi Ferrarella l’1 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un anno e mezzo fa in via cautelare d' urgenza gli stessi 5 giudici Csm di ieri avevano tolto le funzioni di pm a Robledo e l'avevano trasferito come giudice di Tribunale a Torino. Dove invece ora decidono che vada sì punito (oltre che con la perdita di 6 mesi di anzianità) con il trasferimento stabile, ma come procuratore aggiunto: quasi che nel 2015 il procedimento disciplinare fosse davvero stato impropriamente usato per risolvere (spostandolo da Milano) quel contrasto con Bruti che il Csm non ha mai voluto risolvere alla radice del nodo della gerarchizzazione delle Procure. In attesa delle motivazioni del relatore Luca Palamara, dal dispositivo (contro il quale il difensore di Robledo, Antonio Patrono, ricorrerà in Cassazione) si comprende che il Csm, dopo aver assolto Robledo da 2 delle 4 imputazioni (aver dato ad Aiello copia di una consulenza segreta, ed essere stato scorretto con suoi pm), lo ha condannato per i 2 capi d'accusa sulla «contiguità» con l'avvocato dei leghisti indagati per truffa dei rimborsi in Regione. Un «rapporto privilegiato improntato allo scambio di favori», nel quale il Csm (da intercettazioni di Aiello con altre persone) contestava a Robledo di aver «indebitamente veicolato informazioni coperte da segreto», quali la futura messa sotto indagine pre-elezioni anche di altri partiti, l'esistenza di gravi intercettazioni contro il Pdl e di una gola profonda contro la Lega: tutto in cambio dell'«interesse personale del pm ad acquisire tramite l'avvocato copia di atti di natura riservata e non ostensibili a terzi», circa l'immunità che l'ex sindaco Gabriele Albertini chiedeva al Parlamento europeo in una causa fatta da Robledo. Patto salutato il 29 gennaio 2013 da due dei pochi sms tra il legale («Uomo di parola! Poi grande magistrato») e il pm («Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio»). Nelle udienze Csm (sul sito di Radio Radicale) è però riemerso che nell' indagine di Robledo non esistevano né intercettazioni, né gole profonde; che molti legali di altri indagati a metà dicembre 2012 avevano avuto da Robledo le stesse assicurazioni date ad Aiello, e cioè parità di trattamento tempistico senza distinzione di partiti per evitare turbolenze sotto elezioni; e che Robledo ebbe da Aiello un pubblico ordine del giorno della commissione giuridica dell' Europarlamento, e lo stesso atto che Albertini aveva già notificato a Robledo nella causa civile al Tribunale di Brescia.

Robledo incompatibile a Torino. Lo scivolone del Csm nel verdetto. La sezione disciplinare lo nomina pm nella città dove era giudice. Ma la legge non lo consente, c’è incompatibilità tra le due funzioni, scrive Luigi Ferrarella il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato che stia esercitando le funzioni di giudice in un tribunale può passare a esercitare le funzioni di pm nella Procura della medesima sede? Certo che no: per le norme sull’ordinamento giudiziario ormai da molti anni non è piu possibile, c’è incompatibilità tra le due funzioni, nella stessa sede il giudice non può diventare pm, e viceversa. Eppure è l’errore commesso proprio dal Consiglio superiore della magistratura (Csm) una settimana fa quando, decidendo nel processo disciplinare di merito di condannare alla perdita di 6 mesi di anzianità l’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo per i suoi contestati rapporti con l’avvocato della Lega Domenico Aiello, ne ha disposto il trasferimento alla Procura di Torino con le stesse funzioni di vicecapo dei pm: dimenticando che il futuro pm torinese Robledo già da un anno sta esercitando proprio nel tribunale di Torino le funzioni di giudice alle quali nel febbraio 2015 il Csm lo aveva obbligato allorché lo aveva rimosso d’urgenza da Milano nella fase cautelare dell’azione disciplinare. Trasferimento che di fatto aveva risolto lo scontro con il procuratore Bruti Liberati, di cui Robledo nel 2014 aveva denunciato al Csm l’asserita violazione dei criteri di lavoro della Procura. Poiché non si è mai creata una situazione analoga, è difficile prevederne le conseguenze o le toppe che il Csm potrà mettervi. Tanto più che le motivazioni di questo errato dispositivo di sentenza — ormai votato martedì scorso dalla camera di consiglio (dopo oltre 3 ore) e letto in udienza — devono ancora essere scritte dai giudici disciplinari Leone-San Giorgio-Palamara-Clivio-Pontecorvo: gli stessi che nel 2015 nel giudizio cautelare avevano già trasferito d’urgenza Robledo da Milano e che, richiesti perciò dal difensore Antonio Patrono di astenersi per opportunità nella causa di merito, hanno invece ritenuto di restare in forza della giurisprudenza sulla specificità della giustizia disciplinare. Al netto di tesi e antitesi sulle 4 imputazioni (due concluse con assoluzione, due sfociate in condanna su presupposti di fatto che la difesa lamenta travisati), il pasticcio finale nel verdetto è l’ultima peculiarità di un procedimento disciplinare già singolare per come ad esempio era maturata nella prima udienza in aprile l’audizione dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. I procuratori generali di Cassazione, Gaeta e Viola, avevano infatti chiesto al collegio di acquisire una lettera inviata da Albertini dopo che questi (i pg ipotizzavano in qualità di «parte offesa» dalle condotte disciplinari contestate a Robledo) era stato ammesso dal presidente Csm Giovanni Legnini ad accedere agli atti. I giudici disciplinari, sorpresi, avevano ordinato l’espunzione della lettera dagli atti del disciplinare, escludendo che Albertini potesse esserne ritenuto «parte offesa»: a posteriori si è peraltro saputo che Legnini aveva autorizzato l’accesso di Albertini agli atti non come «parte offesa» nel giudizio disciplinare su Robledo, ma come parte «interessata» in cause bresciane penali e civili con Robledo (anche se ad esempio proprio il gip di Brescia aveva risposto no all’analoga richiesta di Albertini di accesso alle intercettazioni dell’archiviazione penale di Robledo). I pg avevano allora proposto al Csm l’audizione di Albertini; la difesa aveva obiettato che Albertini non era inserito nella lista testi dell’accusa, i cui tempi erano scaduti da tempo; ma i giudici disciplinari si erano richiamati ai propri poteri di convocare chiunque ritenessero utile per l’istruttoria. E così Albertini, uscito dalla porta come lettera, era rientrato dalla finestra come audizione al Csm: non esattamente neutra, posto che di Albertini la Procura di Brescia mesi fa aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio (il processo finirà dopo l’estate) con l’accusa di aver in precedenza calunniato proprio Robledo.

La scopa di Maroni s’è rotta: l’abbuffata di Lega ladrona, scrive Gianni Barbacetto su "Il Fatto Quotidiano". Slogan Il leader del Carroccio Salvini parla di attacco dei giudici. Ma la storia del partito è piena di ruberie, inchieste e processi. Quiz: chi ha detto “La sanità lombarda è eccellenza, quello dei giudici è un attacco politico”? E ancora: “L’intervento dei giudici è un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia”? No, non è Roberto Formigoni. La prima frase è del suo successore al vertice della Regione Lombardia, Roberto Maroni. La seconda è del leader della Lega, Matteo Salvini. Nervi tesi nel Carroccio, dopo gli arresti di Mario Mantovani e soci per l’inchiesta del pm Giovanni Polizzi che ha tra gli indagati anche Massimo Garavaglia, leghista doc e assessore regionale all’economia. Maroni si è preso il partito di Umberto Bossi esibendo nei comizi le scope che dovevano fare pulizia nella Lega. Ma oggi deve ricominciare tutto da capo. Garavaglia è accusato di aver affiancato Mantovani nel far azzerare la gara da 11 milioni per il trasporto dializzati: i due si erano “attivati”, scrive il giudice, per “favorire e compiacere le realtà associative operanti nei territori dai quali entrambi i politici attingono consensi”.   Così tornano in scena i fantasmi (o i sorci?) verdi del passato. Il primo è quell’Alessandro Patelli che Bossi definì “il pirla”, nel 1993, per aver intascato in nero, per il partito, 200 milioni di lire donati dalla famiglia Ferruzzi: briciole del tangentone Enimont spartito tra tutti i partiti italiani. Vent’anni dopo, un altro tesoriere della Lega, Francesco Belsito,è arrestato per truffa, appropriazione indebita e riciclaggio. Aveva aperto conti a Cipro e fatto fantasiosi investimenti in diamanti in Tanzania. Non un bel vedere, per il popolo leghista che si era unito al grido di “Roma ladrona”. Anche perché quei soldini finivano a finanziare vizi e vizietti della famiglia Bossi, a pagare una laurea (in Albania) per il Trota, a finanziare la scuola (Bosina) della moglie. Un trauma. Bossi si dimette.   Negli stessi mesi era scoppiato lo scandalo delle spese allegre dei consiglieri regionali. E se ne erano viste delle belle. Renzo Bossi detto “il Trota” con i fondi regionali (ben 15 mila euro) aveva comprato videogiochi, sigarette, lattine di Red Bull, gomme da masticare, mojito, campari, negroni, patatine, barrette ipocaloriche, sigarette, un i-Phone. Stefano Galli, capo gruppo della Lega in Lombardia, aveva chiesto 62 mila euro di rimborsi, tra cui 6.180 per il pranzo di nozze (103 coperti) della figlia Verdiana, festeggiata il 16 giugno 2010 al Ristorante Toscano di Robbiate, sulle rive dell’Adda. Alessandro Marelli a spese del gruppo del Carroccio frequentava pizzerie napoletane (O Vesuvio, Il golfo di Napoli…), ma si faceva rimborsare anche le spese in macelleria, i fuochi d’artificio di Capodanno e qualche distrazione: drink a ore piccolissime in locali notturni come il Colibrì, lo Cherry Dance, il Pub the Party. E che dire di Roberto Cota, governatore del Piemonte? Decade a causa delle firme false raccolte da una lista che lo appoggiava. Ma inciampa nelle mutande verdi: nell’ottobre 2014 va a processo per peculato, per le aver speso malissimo soldi pubblici. Ha già dovuto restituire 32 mila euro. E il suo ex assessore Massimo Giordano proprio ieri è stato rinviato a giudizio per corruzione e concussione, per via di scambi di favori con imprenditori, quand’era sindaco a Novara e poi assessore regionale allo sviluppo. Belsito era estroso, ma in genere i leghisti con gli investimenti non ci azzeccano. Ci avevano provato con un villaggio turistico in Croazia, 2.300 appartamenti, un valore di 2 miliardi di lire. Un disastro. Bancarotta, con conseguente condanna per l’ex deputato Enrico Cavaliere. Coinvolto nella vicenda anche il tesoriere della Lega–un altro – quel Maurizio Balocchi che poi nel 2010 muore ed esce di scena. Ma lo shock finanziario più drammatico si chiama Credieuronord: era la banca della Lega, ma è durata poco. Un crac completo, con centinaia di militanti leghisti che in assemblea piangono i loro risparmi, affidati ai banchieri per caso con il fazzoletto verde e persi per sempre. Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 15/10/2015.

Tribunale Milano: «Dopo la malattia, Bossi e i suoi mantenuti dalla Lega». Le spese per l’affitto, per il canone della tv a pagamento, per il veterinario, e pure le rate dell’università: coi soldi del Carroccio, che arrivavano dai rimborsi elettorali, ci viveva tutta la famiglia Bossi. Lo rivelano le motivazioni della sentenza, scrive Valentina Santarpia il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Non solo Bossi, ma anche sua moglie e i suoi figli, venivano mantenuti dalla Lega dopo l’ictus del fondatore, che lo aveva reso parzialmente inabile. È quanto emerge dalle intercettazioni tra l’ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito e l’ex segretaria di via Bellerio Nadia Dagrada, riportate nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 14 marzo, il giudice dell’ottava sezione penale di Milano, Vincenzina Greco, ha condannato con rito abbreviato Riccardo Bossi, primogenito del Senatur, a un anno e otto mesi per appropriazione indebita aggravata. Il processo - il primo arrivato a sentenza dopo lo scoppio dello scandalo sui fondi del partito, emerso nel 2012 - vedeva al centro le presunte spese personali con i soldi nelle casse del Carroccio e, in particolare, con i contributi pubblici derivanti dai rimborsi elettorali. Per il giudice «l’impianto probatorio» a carico di Riccardo Bossi, imputato per spese con i fondi della Lega per circa 158mila euro, «è ponderoso e granitico». E tra gli elementi che hanno portato alla condanna del figlio dell’ex segretario del Carroccio, il magistrato in una quarantina di pagine di motivazioni richiama proprio le intercettazioni tra Belsito e Dagrada, finite agli atti dell’inchiesta milanese coordinata all’epoca dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano. «L’impressione è che con questa sentenza si sia voluto coinvolgere, a tavolino, il figlio nel reato al massimo commesso dal padre. Il padre - ha chiarito il legale - autorizzò un suo collaboratore a dare quei soldi al figlio, figlio che non sapeva nulla del fatto che quei soldi derivassero, secondo l’ipotesi d’accusa, da finanziamento pubblico», replica il legale di Riccardo Bossi, l’avvocato Francesco Maiello. Il giudice, condannando Riccardo Bossi a un anno e 8 mesi, con la sospensione condizionale della pena e il riconoscimento delle attenuanti generiche, è andato oltre la richiesta di 1 anno del pm Filippini. Il figlio di Umberto Bossi era imputato per una serie di spese con soldi pubblici che avrebbe usato, tra il 2009 e il 2011, per pagare «debiti personali», «noleggi auto», le rate dell’università dell’Insubria, l’affitto di casa, il «mantenimento dell’ex moglie», l’abbonamento alla pay-tv, «luce e gas» e anche il «veterinario per il cane». Per il giudice, tra l’altro, Riccardo Bossi nel suo interrogatorio in aula «è incorso in una palese contraddizione»: dopo «aver sostenuto la sua convinzione che le elargizioni di denaro provenissero dai conti correnti del padre» ha «di fatto, ammesso (...) la sua piena consapevolezza che le somme di cui beneficiava erano prelevate dalle casse del Movimento, sostenendo che compensava tali esborsi non percependo gli emolumenti ai quali aveva diritto». Non solo: nelle motivazioni, il magistrato richiama alcune dichiarazioni di Belsito, il quale ha raccontato a verbale che il precedente tesoriere «Balocchi e Umberto Bossi stabilirono di dare all’imputato un vitalizio di circa tremila euro, sotto forma di rimborso spese in relazione a un contratto che non è stato registrato». E sempre Belsito «ha precisato che decine di persone percepivano compensi dalla Lega in conformità a tipologie di contratti di tal fatta, pur non rivestendo alcun ruolo e non svolgendo alcuna prestazione». Nessuna «attività concreta in favore della Lega faceva Riccardo Bossi - scrive il giudice - come tanti altri familiari di Umberto, ai quali Belsito era tenuto a versare un rimborso forfettario delle spese». Belsito, spiega ancora il giudice, «intendeva utilizzare» la ormai famosa cartella chiamata The Family «come arma di ricatto con Umberto Bossi per scongiurare la sue destituzione» da tesoriere. Belsito, Umberto Bossi e l’altro figlio Renzo, detto il Trota, sono anche loro imputati per appropriazione indebita ma con rito ordinario e il processo è ancora in corso a Milano. La parte principale dell’inchiesta che nel 2012 ha travolto il Senatur e la sua famiglia è stata trasferita, invece, tempo fa a Genova dove è in corso il processo per la presunta truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali che vede imputati di nuovo Umberto Bossi, Belsito e tre ex revisori del partito.

Milano, fondi Lega: «Bossi prese i soldi e fu addirittura istigatore». Le motivazioni del Tribunale di Milano per la condanna dell’ex leader del Carroccio a 2 anni e 3 mesi. «Appropriazione di denaro per coprire spese di esclusivo interesse personale e della famiglia», scrive il 5 gennaio 2018 "Il Corriere della Sera". Umberto Bossi è stato «consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro» della Lega, ma proveniente «dalle casse dello Stato», «per coprire spese di esclusivo interesse personale» suo e della sua «famiglia». Condotte portate avanti «nell’ambito di un movimento» cresciuto «raccogliendo consensi» come opposizione «al malcostume dei partiti tradizionali». Lo scrive il Tribunale di Milano nelle motivazioni della condanna a 2 anni e 3 mesi per l’ex leader del Carroccio. Lo scorso 10 luglio, il giudice dell’ottava sezione penale Maria Luisa Balzarotti ha condannato il Senatur, ma anche il figlio Renzo Bossi a un anno e mezzo (l’altro figlio Riccardo era già stato condannato in abbreviato), tutti accusati di aver usato fondi del partito a fini personali, assieme all’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, a cui sono stati inflitti 2 anni e 6 mesi. Nelle motivazioni, da poco depositate, della sentenza sul cosiddetto caso `The Family´ (dal nome della cartelletta trovata nella disponibilità di Belsito) il giudice spiega che «non si può ignorare il disvalore delle condotte» contestate ai tre imputati «poste in essere con riferimento alle elargizioni provenienti dalle casse dello Stato», tanto che il fondatore della Lega è stato anche già condannato a 2 anni e 2 mesi a Genova, sempre assieme all’ex tesoriere (4 anni e dieci mesi), nel processo `parallelo´ sulla presunta maxi truffa al Parlamento sui rimborsi elettorali. Il giudice, inoltre, evidenzia il «disvalore» delle condotte perché portate avanti «nell’ambito di un movimento nato, ormai decenni orsono, e successivamente cresciuto raccogliendo consensi da chi vedeva in esso un soggetto politico in forte opposizione al malcostume dei partiti tradizionali». Stando alle indagini dell’allora procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano, tra il 2009 e il 2011, Belsito si sarebbe appropriato di circa 2,4 milioni di euro e l’ex leader del Carroccio avrebbe speso con i fondi del partito oltre 208mila euro. Mentre a Renzo Bossi erano stati addebitati più di 145mila euro, tra cui migliaia di euro in multe, 48mila euro per comprare un’auto e 77mila euro per l’ormai famosa «laurea albanese». Il giudice parla di «completezza e coerenza» delle prove raccolte di fronte alle quali «ben poca strada riesce a fare la tesi difensiva» di «un Umberto Bossi dedito in maniera esclusiva e totalizzante alle questioni politiche e, per converso, per nulla interessato alle vicende economiche della Lega». In ballo c’era, infatti, la «erogazione di fondi nell’interesse dei più stretti congiunti» del Senatur, «erogazione autorizzata dal segretario federale e risalente alla gestione del precedente tesoriere» Maurizio Balocchi. Ciò di cui «Umberto Bossi non si rendeva conto, secondo i discorsi tra Belsito, Dagrada e Cantamessa (ex segretarie del leader, ndr) era solamente l’ammontare di tali spese».

Le motivazioni della condanna: "Bossi consapevole di appropriazione di denaro pubblico". I giudici che hanno condannato il senatur a due anni e tre mesi sostengono che il fondatore della Lega fosse al corrente dell'uso da parte della sua famiglia di denaro preso dalle casse del partito. Renzo e Riccardo Bossi, i figli, sono stati condannati a pene minori, scrive Franco Vanni il 05 gennaio 2018 su "La Repubblica". Il fondatore della Lega, Umberto Bossi, è stato "consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro" del partito, ma proveniente "dalle casse dello Stato", "per coprire spese di esclusivo interesse personale" suo e della sua "famiglia". Condotte portate avanti "nell'ambito di un movimento" cresciuto "raccogliendo consensi" come opposizione "al malcostume dei partiti tradizionali". Lo scrive il Tribunale di Milano nelle motivazioni della condanna a 2 anni e 3 mesi per l'ex leader del Carroccio, decisa lo scorso 10 luglio dai giudici dell'Ottava sezione penale. Con Umberto Bossi furono condannati il figlio Renzo, a un anno e sei mesi, e l'ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, a 2 anni e 6 mesi. Per tutti, il reato è appropriazione indebita. I giudici hanno ritenuto che i tre (insieme a Riccardo Bossi, altro figlio di Uberto, giudicato separatamente con rito abbreviato) abbiano speso per fini privati i fondi destinati al partito. La decisione del giudice Maria Luisa Balzarotti è arrivata al termine del processo denominato "The Family", così ribattezzato per il nome scritto sulla cartella di documenti sequestrata allora a Belsito in cui comparivano quelle che sono state giudicate spese private della famiglia Bossi pagate però con i soldi del Carroccio arrivati anche dai rimborsi elettorali. La tesi della procura è che per Bossi "sostenere i costi della sua famiglia" con il patrimonio della Lega è stato "un modo di agire consolidato e concordato". Nelle carte della motivazione si elencano le spese private sostenute dagli imputati per centinaia di migliaia di euro: multe, cartelle esattoriali, cene al ristorante, trattamenti di bellezza, casse di vino.

Milano, processo 'The Family': Riccardo Bossi si difende. "Io chiedevo i soldi a papà". In aula ha sostenuto di non aver mai saputo che "pagava la Lega". L'avvocato: "Riceveva 3.200 euro al mese per sponsorizzare il Carroccio all'estero durante i rally", scrive il 14 dicembre 2015 "La Repubblica". "A mia insaputa pagava la Lega". E' in sintesi quello che avrebbe sostenuto, rispondendo alle domande del pm Paolo Filippini, Riccardo Bossi il figlio del fondatore del Carroccio, interrogato al processo in abbreviato (e quindi a porte chiuse) in cui figura come unico imputato per appropriazione indebita per le presunte spese personali con i fondi del partito. "Come tutti i figli chiedevo a papà - è la sua spiegazione - e papà mi diceva di parlare con i suoi segretari. Poi mi arrivavano i soldi". Quanto all'emolumento mensile di 3.200 euro ricevuto dal partito, il primogenito del Senatur, che all'epoca dei fatti aveva più di 30 anni, ha detto di aver "perso" il contratto e di essere stato pagato in contanti. Ha poi riconosciuto di aver ricevuto soldi non solo nel 2011, ma anche nel 2010 e 2009. Il difensore di Bossi jr, che depositerà al Tribunale una memoria, ha spiegato che il suo cliente, "non ha mai chiesto i soldi all'ex tesoriere" del Carroccio, Francesco Belsito, ma ad altri collaboratori del padre al quale "non si rivolgeva direttamente perchè con lui aveva rapporti difficili o era sempre impegnato". Soldi, ha ripetuto l'avvocato, "di cui non sapeva la provenienza". "Lui non c'entra con il partito" dal quale però, ha proseguito l'avvocato, "riceveva un emolumento di 3.200 euro al mese per sponsorizzare la Lega all'estero durante le gare automobilistiche". Al primogenito dell'ex leader della Lega sono state contestate spese personali attorno ai 158mila euro, denaro usato - sostiene l'accusa - per pagare anche 'il mantenimento dell'ex moglie', l'abbonamento della pay-tv, luce e gas e anche il veterinario per il cane. L'avvocato Maiello ha spiegato al pm Paolo Filippini che il suo cliente "non può rispondere di queste somme" e poi che "ci sono addebiti per 20/25 mila euro relativi alle macchine che proprio non lo riguardano". E per dimostrare questa tesi, l'imputato ha depositato una serie di documenti che "riguardano le sue fonti di reddito". Precisa l'avvocato: "Il mio assistito è indipendente da quando ha 22 anni: per una sola vola nella sua vita, nel 2011, ha avuto bisogno del padre, per il resto se l'è sempre cavata da solo". "Per quell'anno non aveva disponibilità finanziarie - spiega l'avvocato Maiello - in quanto è venuta meno una sponsorizzazione consistente. Così ha pensato di rivolgersi alla segretaria del padre, Loredana Pizzi", la cui richiesta di citazione come teste della difesa "non è stata accolta dal giudice".  Belsito "l'avrà visto sì e no una decina di volte - ha aggiunto il difensore - e non conosceva gli addetti ai lavori della Lega. Lui era un semplice militante e nulla di più", anche se "ha ricevuto un emolumento mensile di circa 3.200 euro per sponsorizzare" il Carroccio durante i rally all'estero. Ora Riccardo Bossi - è l'unica cosa che ha detto prima dell'interrogatorio - lavora per un'azienda estera che tratta petrolio.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

LA LEGA CHE VINCE CON IL SUD.

Elezioni, il boom di Matteo Salvini sporcato dai sospetti. Successo del leader leghista che ha trasformato il Carroccio in forza nazionale. Per riuscirci ha dovuto sfondare al Sud imbarcando riciclati di ogni tipo e candidati con parentele scomode. Pronti a entrare in Parlamento. Intanto dal quartiere di Scampia a Napoli giungono le prime segnalazioni di clan interessati al voto padano, scrive Giovanni Tizian il 5 marzo 2018 su "L'Espresso". È il giorno di Matteo Salvini. “Il Capitano” che ha conquistato il centrodestra. E poco importa in questa giornata di giubilo leghista se incombe già un'ombra decisamente inquietante. Ombre che si allungano dal Sud, proprio il territorio dove Salvini ha scommesso di più in questa campagna elettorale. Si tratta della denuncia di un rappresentante di lista di Potere al Popolo presente al seggio della scuola Levi-Alpi del quartiere Scampia di Napoli. Rione che non ha bisogno di molte presentazioni, roccaforte di clan spietati e potenti. Ebbene proprio qui, durante la giornata elettorale alcuni sgherri della camorra avrebbero fatto mercanzia di voti. L'esponente del partito di sinistra ha segnalato la vicenda alla digos di Napoli. Nella sua denuncia ha spiegato nei dettagli quanto accaduto e la leader Viola Carofalo lo conferma all'Espresso: «Il nostro rappresentante ha assistito a una vera e propria compravendita fin alla mattina, ma è continuata anche dopo. Lui ha segnalato il fatto alle autorità competenti presenti al seggio ed è stato minacciato da questi personaggi con atteggiamento camorristico. Purtroppo non ci stupiamo, sono dinamiche che si ripetono ad ogni elezione». Stupore no. Ma i fatti riportati dal rappresentante della lista sono gravi. E meritano di essere approfonditi. Anche perché proprio nelle zone da cui proviene la segnalazione la Lega sfiora il 3 per cento al Senato. Un successo se confrontato allo 0,15 del 2013 nel comune di Napoli. Intanto Matteo Salvini si gode il successo. L'exploit elettorale è certamente frutto di voto nordico, ma le percentuali al Sud che queste prime ore di scrutini ci restituiscono sono decisamente notevoli per un partito che fino all'altro ieri era d'origine padana al 100 per cento. Con la Lega primo partito, la coalizione con Silvio Berlusconi vira decisamente a destra. Anche perché se si aggiungono i voti raccolti da Giorgia Meloni, Lega e Fratelli d'Italia insieme sfondano quota 20 per cento. Tra sovranismo, toni razzisti, antieuropeismo, la coppia Salvini-Meloni è una forza paragonabile al Front National di Marine Le Pen. Tanto che proprio Le Pen è stata una delle prime a congratularsi con l'amico Matteo, l'ex padano doc. La ricetta di Matteo Salvini ha funzionato. Togliere dal simbolo il “Nord” e trasformare il Carroccio in un partito nazionale sta dando i primi frutti. Non solo. Si rafforza anche in territori in cui il Pd era abituato a raccogliere consensi bulgari, vedi Emilia Romagna. Salvini ha costruito una Lega nazionale. Ha archiviato il periodo degli scandali e dei processi creando nuove alleanze strategiche sotto Roma. Lo ha fatto imbarcando nel partito politici navigati del Sud. Ha pescato al centro, tra gli autonomisti siciliani, e a destra in Calabria e Campania. Elezione quasi certa, per esempio, per Angelo Attaguile, candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con l'ex governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. L’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Alcuni giorni fa, quasi alla vigilia del voto, Attaguile si è lasciato andare a una battuta: «Se vince il centrodestra potrei fare il ministro». Di padre in figlio. Insomma, un leghista scudocrociato. Altro seggio quasi sicuro per Alessandro Pagano, da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Più dura l'elezione per Filippo Drago, anche se non impossibile. Il sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Pure in Calabria, la Lega, rischia di elegere parlamentari. Per esempio Domenico Furgiuele, candidato al primo posto al proporzionale. Su di lui, uomo della destra sociale, pesa una parentela ingombrante: il suocero è sotto i riflettori dell'Antimafia, che gli ha sequestrato i beni. Non solo. Lo stesso Furgiuele è finito, non da indagato, in un'informativa della polizia relativa a un caso di omicidio del 2012: i killer hanno dormito gratis nell'hotel del suocero di Furgiuele, a pagare le stanze sarebbe stato proprio il leghista calabrese. In Campania tra chi probabilmente verrà eletta con la Lega c'è Pina Castiello di Afragola. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. A Napoli seggio quasi certo per Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. E forse oggi si troverebbe anche lui a sposare il sovranismo padano di Matteo Salvini, detto “il Capitano”. Tuttavia anche su Cantalamessa junior incombe un'ombra del passato: da imprenditore è stato socio, fino al 2004 in un'azienda in cui tra i consiglieri compariva Valerio Scoppa. Il fratello di Scoppa ha sposato la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergastolo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani.

Salvini, l’allievo di Bossi che ha liquidato il bossismo. Il nuovo corso di Matteo Salvini: erede di Umberto Bossi se non nel progetto politico certamente nel modo di proporsi e intendere la politica, scrive Paolo Delgado l'1 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Su 58 senatori leghisti uno solo, la settimana scorsa, ha disobbedito all’ordine di votare per Anna Maria Bernini affondando così il candidato di Berlusconi, Paolo Romani. È lo stesso senatore che, mentre tutti si spellavano le mani per la mossa vincente di Matteo Salvini, lo bersagliava per aver messo a rischio le giunte della Lombardia e del Veneto: «Se saltavano lo impiccavano come il suo amico Mussolini». Trattasi di Umberto Bossi, fondatore e per decenni capo assoluto della Lega. Che a Bossi l’erede proprio non vada giù è noto, e il poco cordiale sentimento è più che ricambiato. Per inserire il Senatur in lista, unico sopravvissuto in Parlamento della vecchia guardia, c’è voluta l’intercessione di Berlusconi, un tempo arcinemico poi legato a Bossi da sincero affetto. Salvini non voleva saperne. La Lega del 2018 in effetti ha ben poco a che vedere con quella nata nel 1989 dall’unificazione di sei liste locali tra le quali la Lega lombarda fondata tra il 1982 e il 1984 da Bossi. A Salvini la Padania va stretta, la secessione deve sembrargli una barzelletta di dubbio gusto, la parola ‘ federalismo’, che Bossi riusciva a ripetere 150 volte al minuto, non gli è scappata di bocca una volta in campagna elettorale. Senza contare le nostalgie antifasciste che spinsero Bossi a presentarsi addirittura alla grande manifestazione milanese contro il primo governo Berlusconi, nel 1994, rivendicando per il suo Carroccio «l’eredità della antifascista e partigiana». Il successore, al contrario, ha prudentemente resistito a ogni tentativo di costringerlo a pronunciarsi in materia, prima delle elezioni. Alle orecchie di Bossi il progetto di una ‘ Lega Italia’ deve suonare come il più stridente tra gli ossimori. Non c’è percentuale, ai suoi occhi, che valga il sacrificio della sola ragion d’essere della Lega per come la aveva voluta e costruita lui: la difesa degli interessi della Padania. Per Salvini, temi del generale sono archeologia politica. Eppure i due sono molto più simili di quanto possa apparire. Matteo Salvini è in tutto e per tutto erede di Umberto Bossi, se non nel progetto certo nel modo di proporsi e di intendere la politica. Del resto hanno una storia si- mile, con le dovute differenze generazionali. Bossi era approdato alla politica simpatizzando per il movimento rivoluzionario dei primi anni ‘ 70 e prima di approdare al federalismo era passato per il Pci, con tanto di tessera in tasca. Salvini, vent’anni dopo, aveva annusato l’aria bazzicando cenri sociali e anche dopo essere approdato nella Lega aveva continuato a considerarsi, ‘ comunista padano’, area interna al Carroccio di cui era leader. Finiti entrambi a destra, il primo senza mai ammetterlo, il secondo senza andare troppo per il sottile, hanno tuttavia entrambi mantenuto uno sguardo privilegiato sulla base sociale che un tempo era tradizionalmente di sinistra. La celebre battuta di Massimo D’Alema, che nel 1995 definì la Lega ‘ una costola della sinisastra’, è a tutt’oggi universalmente derisa ma assolutamente a torto. L’allora segretario di un Pds che non aveva perso del tutto di vista le radici Pci non parlava a sproposito. Era del tutto consapevole della matrice operaia, e spesso Fiom, di una parte sostanziosa del voto leghista. Sapeva che quei voti, più che da localismo sciovinista, erano dettati dalla speranza di trovare una nuova rappresentanza d’interessi. Salvini fa la stessa colotta Se il voto che premia M5S è in larghissima misura voto d’opinione quello leghista, soprattutto nella sua terra d’origine al nord, è invece difesa di interessi specifici e spesso popolari. Lo sapeva benissimo il Bossi dei primi anni ‘ 90, quando ridicolizzava la componente leghista che faceva capo alla ex Liga veneta di Rocchetta: «Quello pensa davvero che la gente voti Lega per la lingua o i costumi veneti. Mica si rende conto che gli elettori leghisti spesso sono meridionali immigrati che difendono i loro interessi». Lucia Annunziata, sull’Huffington Post, ha sintetizzato perfettamente il modus operandi di Salvini: «Predicare al “fuori” della politica riversando poi il peso di questo voto d’opinione sul “dentro” del circuito politico» . Si può discutere sul fatto che il voto leghista sia o no solo d’opinione, non sul gioco “dentro- fuori” rispetto al palazzo che è invece colto con precisione. Era lo stesso gioco in cui era maestro Bossi: tribunizio e molto più estremo di Salvini sui plachi, pragmatico e accorto nelle aule parlamentari. Persino l’accoppiata tra Salvini il Ruggente e Giorgetti il Riflessivo, ricorda il gioco di coppia nel quale eccellevano Bossi e il molto più calmo Bobo Maroni ai bei tempi. A prima vista sembra impossibile sostenere che la Lega non è cambiata. Ma forse è proprio così: o più precisamente si è adeguata ai tempi, ha cambiato tutto senza modificare, in fondo, il dna impresso a suo tempo proprio dall’ormai isolato e tramontato Umberto Bossi.

Trasformisti, fascisti, impresentabili e ras delle clientele: ecco le liste al Sud di Matteo Salvini. La rete del consenso nel meridione si fonda su figure spesso note e di lungo corso. Con non poche ombre. Ecco regione per regione i casi più interessanti, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 febbraio 2018 su "L'Espresso". «Se hanno preferito gli uomini di Lombardo e Cuffaro lasciando fuori noi mi hanno fatto un favore...». Così parlò Matteo Salvini, detto il Capitano, all’indomani della presentazione del governo siciliano di Nello Musumeci. Il neo governatore ha lasciato ai margini della giunta il deputato di Salvini. Il leader della Lega si aspettava quantomeno un assessorato per celebrare il risultato storico ottenuto in Sicilia che ha consacrato la vocazione nazionale del partito di Salvini. Tuttavia, il capo del Carroccio - nella sua stizzita analisi - omette di rivelare il profilo del primo leghista della storia a palazzo dei Normanni: è un riciclato e per di più indagato per appropriazione indebita. Si chiama Tony Rizzotto, 65 anni, chioma folta e improbabile, fan di Mimmo Cavallo autore della hit anni ‘80 “Siamo meridionali” e dipendente pubblico del comune. Si è fatto le ossa con l’ex governatore Totò Cuffaro condannato per favoreggiamento alla mafia. Il salto di qualità, però, avviene da deputato all’Ars col Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, il successore di Cuffaro anch’egli finito nei guai ma per voto di scambio. Il Carroccio nazional-popolare è una salsa fatta in casa, come nelle migliori tradizioni meridionali, mistura di democristiani, estrema destra e figure equivoche. Fascioleghismocrociato, una truppa organizzata da Matteo Salvini per conquistare un pezzo d’Italia che fino a ieri era a lui pressocché sconosciuto. Da Andreotti ad Almirante, ipotetico pantheon ideale. Il regista del casting della classe dirigente della Lega del Sud è Raffaele Volpi, scelto da Salvini. La selezioni sembra aver seguito tre rigide regole: godere di uno spiccato carisma clientelare, possedere uno spirito politico camaleontico, essere il referente di un blocco elettorale tramandato di padre in figlio, a prescindere dalla sigla del partito.

Quel palazzo nel centro di Roma. Un palazzo signorile al centro di Roma. In uno dei quartieri dell’upper class della Capitale. In via Federico Cesi, a due passi dal Lungotevere, c’è l’incarnazione dello sposalizio tra democristiani e leghisti. Qui al secondo piano si trova la sede ufficiale di “Noi con Salvini”. Almeno questo dicono gli atti ufficiali. «In realtà da quattro mesi, si sono traferiti per le regionali siciliane», precisa il portiere dello stabile. Una sede fantasma, quindi? Un documento svela l’arcano. Gli appartamenti al secondo piano sono divisi tra la famiglia Attaguile. E la sezione si trova proprio in quello di proprietà di Angelo Attaguile. Segretario nazionale di Noi con Salvini, coordinatore del movimento in Sicilia, e candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con Lombardo sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. Eh sì, l’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Un sostegno indispensabile che ha permesso all’aggregazione parlamentare di avere il numero necessario per sopravvivere. Lunga vita ad Attaguile, dunque, che due anni dopo verrà incoronato segretario nazionale di Noi con Salvini, embrione del Carroccio nazionale. Il movimento entra così all’interno di Montecitorio e alla sigla Lega Nord-Autonomie si aggiunge Noi con Salvini, che da allora ha iniziato a usufruire della quota dei rimborsi ai gruppi: quasi 1,8 milioni negli ultimi due anni, a cui si è aggiunto un contributo liberale di 500mila euro dal gruppo Lega Nord Padania, in auge nella legislatura precedente dei governi Berlusconi e Monti. Che sia questione anche di affari la liason con gli autonomisti siciliani è evidente dal sostegno economico ricevuto da questi ultimi negli anni passati: circa un 1,4 milioni fino al 2010. Sebbene Attaguile sia un recente acquisto di Salvini, con i leghisti c’è sempre stata un’intesa. Lo scopriamo tornando in via Cesi. Tra il ‘93 e il ‘99 la proprietà dello stesso appartamento era suddivisa tra Attaguile e Michele Baldassi di Udine, leghista, manager in aziende pubbliche in quota Carroccio e sposato con Federica Seganti, pezzo grosso del partito friulano, ex assessora regionale, alla cui campagna elettorale è cresciuto un giovanissimo Massimiliano Fedriga, astro nascente della Lega versione Salvini. Un leghista e un democristiano a Roma. Negli anni in cui si raccoglievano le macerie della prima Repubblica, con il partito di Bossi che si scagliava contro le clientele della Dc e i tangentari di Mani pulite, per non parlare dei meridionali. Tuttavia Baldassi per pochi mesi nel periodo di comproprietà ha ottenuto anche un incarico nell’Ast, la società del trasporto pubblico della Regione Sicilia. Uscito Baldassi dalla proprietà, mai Attaguile avrebbe immaginato che 16 anni più tardi in quel di via Cesi avrebbe riabbracciato altri leghisti.

Il Drago e Il Padano. Attaguile non è il solo, con un papà potente Dc, a salire sul Carroccio di Salvini. Filippo Drago sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Nel club dei Salvini boys della Trinacria si è iscritto anche Alessandro Pagano da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Lo ha seguito il cugino, dipendente del centro di accoglienza per migranti. Chi è rimasto fuori, ma lo sosterrà, sono il cognato, Raimondo Torregrossa, in passato sindaco di San Cataldo, e la cognata Angela Maria Torregrossa, amministratrice della rinomata clinica Regina Pacis, convenzionata con la Regione. Torregrossa fa il suo ingresso nella struttura sanitaria di San Cataldo nel periodo in cui Pagano guidava la Sanità. Il cognato, invece, è stato primo cittadino di San Cataldo quando lui era deputato all’assemblea regionale. Poi, quando Pagano va Montecitorio, Torregrossa va a palazzo dei Normanni. I maligni hanno definito questa alternanza sancataldese “Operazione Montante”, perché voluta da Antonello Montante, l’imprenditore, cavaliere del lavoro, fino a un anno fa capo degli industriali sicialiani e sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Montante come Pagano è di San Cataldo, fino al 2009 i rapporti erano ottimi. Poi tra i due è sceso il gelo.

Ombre nere sullo Stretto. Superato lo Stretto, da Reggio Calabria in su, i Salvini boys non hanno nulla a che spartire con la tradizione democristiana. Qui prevale il nero degli eredi politici del Movimento sociale. Giuseppe Scopelliti, per esempio, sosterrà Salvini con il suo nuovo Movimento nazionale per la sovranità fondato insieme a Gianni Alemanno, sotto processo per finanziamento illecito in un filone scaturito da Mafia Capitale. Scopelliti non si candiderà, per non creare imbarazzo al Capitano. Ha una condanna in appello a cinque anni per abuso e falso per la vicenda del dissesto milionario del municipio che governava. E poi è in attesa di capire l’evoluzione di un’inchiesta dell’antimafia sul livelo occulto della ‘ndrangheta, in cui è indagato. Ma l’ex governatore e già sindaco di Reggio lavorerà dietro le quinte, metterà, cioè, a disposizione il suo blocco elettorale mobile che fa gola a molti. A Salvini quei voti sicuri fanno comodo. Dal canto suo Scopelliti non rinuncia certo a piazzare sue pedine nelle liste. Una su tutte: Tilde Minasi, fedelissima fin dalla prima giunta comunale. Dalla destra sociale proviene anche il segretario sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini. Si chiama Domenico Furgiuele, un passato nella Destra di Storace, e, ora, candidato alla Camera. Di mestiere fa il geometra, a tempo perso lavora nella tv locale di famiglia. Le sue passioni, il calcio e la storia. Quando era un ultras del Sambiase ha collezionato un Daspo, che la Questura affibbia solo ai tifosi più agitati. Sulla storia recente ha le sue idee. Ritiene, per esempio, il neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore della fuorilegge Avanguardia nazionale, «più una vittima che un carnefice». E su questo sarà in sintonia con Scopelliti, visto che Delle Chiaie - un legame fraterno con la frangia più torbida della Calabria - è stato protagonista del fronte nero nei moti di Reggio negli anni Settanta. Una delle prime apparizioni di Matteo Salvini in Calabria è del 2015, quando insieme a Furgiuele hanno organizzato una conferenza stampa all’Aerhotel Phelipe, di proprietà della famiglia dell’imprenditore Salvatore Mazzei, suocero di Furgiuele. Il parente del candidato di Salvini a Lamezia ha i beni sotto sequestro dall’antimafia. Lui rigetta ogni accusa, sostiene di essere una vittima, forte anche di un assoluzione da un processo per concorso esterno. Di certo, però, Mazzei è sfortunato nella scelta dei partner: un suo vecchio socio, imprenditore delle sale bingo, è stato pizzicato di recente dalla guardia di finanza di Lamezia per una presunta bancarotta fraudolenta. Dettagli per Furgiuele, fiero di aver portato la Calabria a Pontida, incluso il gazebo con l’insegna della regione. Così tra un “Va, pensiero”, vichinghi in delirio e mutande verdi, ha ormai quasi cancellato dalla memoria quel passaggio di un informativa della polizia in cui viene tirato in ballo per aver offerto alle persone sbagliate due stanze dell’hotel di famiglia, lo stesso in cui Salvini è stato ospite tre anni fa. I detective che indagavano su un caso di omicidio del 2012, infatti, scoprono che i sicari dopo la spedizione hanno alloggiato nel quattro stelle senza pagare alcunché. «Erano ospiti del signor Domenico Furgiuele, genero del signor Mazzei, proprietario dell’Hotel», si legge nel documento. L’episodio non ha avuto alcun rilievo penale, Furgiuele non poteva immaginare che quelli fossero gli autori del grave delitto. Si era fidato di un amico, a sua insaputa coinvolto con quella gentaglia. Una storiaccia, insomma, da dimenticare. Furgiuele, ora, è concentrato sulla campagna elettorale. Nella sede leghista di Lamezia campeggia un celebre motto di Codreanu: «Per noi non esiste sconfitta o capitolazione...». Il fascista rumeno, per i camerati d’Europa semplicemente “Il Capitano”.

Lo chiamavano ‘o Criminale. Tra Napoli e Caserta nessuna nostalgia del passato. Si vive alla giornata, elezione dopo elezione. E qui il Capitano Salvini ha ben altri pensieri. Primo fra tutti l’ingombrante presenza di Vincenzo Nespoli nella composizione delle liste della Lega in Campania. Nespoli è stato tre volte deputato, sindaco della sua città, Afragola, e condannato in secondo grado a cinque anni per bancarotta fraudolenta. Seppur nell’ombra, come Scopelliti in Calabria, anche lui offre la merce migliore che ha disposizione, i voti. Sporchi, volendo dar credito a un pentito di camorra nuovo di zecca: «È amico intimo della famiglia Moccia... quando è stato al potere al Comune, là erano tutti schiavi... è un SS, lo chiamano o’ Criminale». Nespoli, quindi, meglio che resti dietro le quinte, in attesa. Palco libero per la front woman di Salvini in Campania, Pina Castiello, anche lei di Afragola e legata a Nespoli da militanza comune e da solida amicizia. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. La copertina dell'Espresso in edicola dal 11/2Ma di Afragola è anche un altro candidato pro Salvini. Ciro Salzano, imprenditore, patron dell’Aias, l’associazione per la cura dei disabili. Non c’è che dire, tornata elettorale fortunata per Afragola. Con l’Aias del neoleghista Salzano ha collaborato il medico no vax radicale Massimo Montinari, sospeso per sei mesi dall’Ordine dei Medici. Non è nota la posizione di Salzano sui vaccini, mentre quella di Salvini sì: «Con noi al governo via l’obbligo». Chissà, magari è stata questa la molla che ha spinto Salzano a correre con il Capitano.

Salvini alle pendici del Vesuvio. Alla fine, quindi, quel “Napoli colera”, urlato a squarciagola, era solo una goliardata da tifoso. Il presente è un selfie con il fuoriclasse azzurro Lorenzo Insigne. Insomma, i tempi sono ormai maturi per issare lo stemma di Alberto da Giussano nella capitale del Regno delle due Sicilie. Il segretario regionale campano è Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. Il figlio l’ha seguito come meglio ha potuto, per esempio organizzando incontri nel ricordo di Almirante. Il giorno del funerale del papà dichiarò: «Grazie a mio padre ho capito cosa significa essere un uomo, che cos’è la destra, che cosa sono i valori». Su questo nessun dubbio. Il 28 aprile 2003 Cantalamessa senior aveva partecipato a una messa in onore di Mussolini e dei caduti della repubblica sociale italiana. Cinque anni più tardi viene nominato presidente di Equitalia Polis, l’agenzia di riscossione che il capo del Carroccio promette di abolire. Il figlio si è limitato a fare l’imprenditore, in ambito assicurativo e immobiliare. In passato anche nel settore farmaceutico. Socio, per esempio, fino al 2004 della New.Fa.Dem di Giugliano. Ai tempi in cui Cantalamessa era azionista, tra i consiglieri c’era Valerio Scoppa. Famiglia importante la sua, papà radiologo di fama, zio generale dei carabinieri in pensione legato alla curia, il fratello sposato con la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergasotlo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani. Storie passate. Oggi Cantalamessa è un Salvini Boy, impegnato a contrastare l’invasione straniera.

Matteo Salvini su Facebook con l'amica del boss. Attivista della Lega, vicina all'esponente di una famiglia ai vertici della 'ndrangheta e a rappresentanti lombardi del partito, prima delle ultime elezioni si è fatta fotografare con il futuro ministro dell'Interno, scrive Fabrizio Gatti l1 giugno 2018 su "L'Espresso". Lei, con i capelli biondi a caschetto, si chiama Marta Prato. È un’attivista della Lega. E nel suo piccolo ha contribuito al successo del partito: eccola in fotografia, durante l’ultima campagna elettorale, accanto a Matteo Salvini, allora segretario federale e oggi ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio. L’altro nella foto è l’amico di entrambe, Giacinto Mariani, che in provincia di Monza e Brianza è l’ambasciatore del leader leghista. Ma sempre lei, la signora Prato, è ugualmente molto amica di Umberto Cristello, esponente di una famiglia ai vertici della ‘ndrangheta al Nord. Uno che, come ha scritto la Direzione distrettuale antimafia di Milano, faceva arrivare bancalate di cocaina: eccoli insieme a una festa all’aperto, Umberto e la bionda attivista sorridenti con il bicchiere di birra in mano, oppure nella discoteca di cui è comproprietario Mariani, o seduti al ristorante, con il boss calabrese cresciuto in Lombardia che si nasconde dietro a un calice di vino.

Il senatore Salvini, eletto il 4 marzo proprio in Calabria e da oggi capo del Viminale, è sicuramente all’oscuro delle frequentazioni della sua volontaria brianzola. Ma queste foto rivelano cosa si nasconde, in mezzo a milioni di sostenitori, sotto la base elettorale della Lega: proprio nel momento in cui Salvini ha unito sia il voto di protesta da Nord a Sud, sia i militanti di estrema destra sparsi per l’Italia. Le immagini le trovate sulla pagina Facebook di Marta Prato, finora accessibile a tutti. Basta cliccare l’album fotografico e sulla stessa schermata vedrete: lo scatto con Salvini, lei di nuovo con Cristello, poi abbracciata all’amico Mariani, a cena con l’europarlamentare Angelo Ciocca e il deputato Paolo Grimoldi, segretario nazionale della Lega Lombarda. E ancora Marta Prato con il cartello blu “Salvini premier”. Oppure accanto all’allora presidente della Regione, Roberto Maroni, o bene in vista con l’attuale vicepresidente lombardo, Fabrizio Sala di Forza Italia, immortalati il 5 febbraio, un mese prima del voto regionale. Ed eccola perfino con Ilaria Cerqua che ancora non è sindaco, ma solo la candidata di destra alle prossime amministrative del 10 giugno a Seregno: la cittadina di mobilieri vicina a Monza è il collegio elettorale brianzolo che il 4 marzo ha dato quasi il 30 per cento alla Lega e il 49 per cento alla sua coalizione. Marta Prato fotografa con il telefonino. E pubblica tutto su Facebook. La mania dei selfie ci rivela così una Lega a due facce: Salvini, neo ministro dell’Interno, che all’anniversario della strage di Capaci scrive «la mafia mi fa schifo e se avrò l’onore di andare al governo, la combatterò con ogni sforzo e con ogni mezzo» e, contemporaneamente, il suo ambasciatore abbracciato all’amica di un esponente della famiglia Cristello.

A Seregno Giacinto Mariani, 53 anni, è stato due volte sindaco e poi vicesindaco. Fino allo scandalo di cinque mesi fa. Lo scorso autunno la giunta si è dovuta dimettere in blocco perché con Mariani, l’allora sindaco Edoardo Mazza e altri amministratori sono finiti sotto inchiesta per presunti favori a un costruttore calabrese, Antonino Lugarà, che nel frattempo è stato intercettato in Brianza mentre chiede altri favori al nipote del boss della ‘ndrangheta, Giuseppe Morabito, il famoso Peppe Tiradrittu. La fotografia con Matteo Salvini risale all’inizio della campagna elettorale. La sera del 5 settembre 2017 il leader è in Brianza a diffondere il suo slogan: «Salvini premier». E Marta Prato lo incontra con Mariani, che in quei giorni, gli ultimi prima della retata della Procura di Monza, è ancora vicesindaco. Seguendo il diario delle immagini, il 26 agosto l’amica di Mariani passa la serata con Umberto Cristello, 51 anni, già condannato due volte, originario della provincia di Vibo Valentia, ma da tempo residente con tutta la famiglia patriarcale tra Seregno e Mariano Comense, nel cuore della Brianza.

Il primo settembre la signora e l’esponente della famiglia ai vertici della ‘ndrangheta si rivedono e festeggiano la fine dell’estate al Molto Club di Carate Brianza, discoteca di cui è comproprietario proprio l’ambasciatore di Salvini. Il 4 settembre, Giacinto Mariani e l’amica di Cristello accompagnano alla festa della Lega a Seregno l’allora presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni. Il 5 arriva Salvini. La sera del 6 settembre Prato, Mariani e il segretario nazionale della Lega Lombarda, il deputato Paolo Grimoldi, partecipano insieme alla campagna per il sì al referendum sull’autonomia regionale. Il 24 settembre lei pubblica un’altra foto di Cristello. Gli amici politici si rivedranno, tranne Salvini, alla cena del primo dicembre in un ristorante, sempre a Seregno: ecco Mariani, ormai indagato, l’onorevole Grimoldi, rieletto il 4 marzo, l’europarlamentare Ciocca. E l’immancabile Marta Prato.

Il 22 dicembre l’amica sente il bisogno di pubblicare una nuova immagine di lei con Umberto Cristello. Questa volta sono al ristorante Dorsia di Seregno, altro locale i cui proprietari sono soci di Mariani nella discoteca Molto Club. Si avvicina domenica 4 marzo e il segretario-onorevole-candidato Grimoldi chiude la sua campagna elettorale al Noir, nightclub della zona di cui sono titolari altri soci di Mariani nella sua discoteca. Il luogo, però, non è famoso per questo: ma perché in passato offriva champagne e serate gratis ai boss della ‘ndrangheta, poi arrestati nell’operazione Infinito. Il partito del ministro dell'Interno non ha trovato di meglio per incontrare i suoi elettori a 36 ore dall'apertura dei seggi. Oltre a Salvini, anche Grimoldi, Sala, Ciocca, Mariani e Cerqua, fino a prova contraria, sono ignari delle frequentazioni dell’attivista. Ma il sottofondo politico qualche domanda la impone. Umberto Cristello, interpellato anche sulle pendenze giudiziarie per una condanna in primo grado per associazione mafiosa, risponde così: «Non sono affari suoi». Marta Prato: «Non devo rendere conto a nessuno. Quindi, cortesemente, ti chiedo di pensare alla tua vita e non alla mia». Giacinto Mariani: «La diffido formalmente dal proseguire questo atteggiamento fortemente provocatorio nei miei confronti».

Umberto Cristello e la sua famiglia riempiono decine di pagine nelle operazioni Infinito, Ulisse, Tenacia e Quadrifoglio. «I Cristello», racconta il collaboratore Antonino Belnome rivelando il ruolo di Umberto, «erano i numeri uno della zona. All’epoca io ho visto portare bancalate di cocaina». Ci sono poi le indagini concluse con l'arresto di Paolo De Luca, 48 anni, accusato di essere il riferimento in Lombardia del clan Mancuso di Limbadi, presunto capo della cosca di Seregno schierata proprio contro i Cristello. Secondo gli accertamenti De Luca, con il fratello Giuseppe, in Brianza avrebbe il monopolio della sicurezza sui locali: sarebbero loro a proteggere bar e discoteche come il Noir. Ma Umberto Cristello fa paura. Il 29 giugno 2016 l'amico di Marta Prato esce dal carcere in libertà vigilata. E il pubblico ministero Paolo Storari, della Direzione distrettuale antimafia di Milano, trascrive questa breve conversazione intercettata ai telefoni: «Umberto è uscito, lo sai? Non ti devi fidare mai tutto di lui. Che dei Cristello è il più pericoloso». Aggiungono i magistrati della Dda di Milano: «Cristello Umberto ha due precedenti penali per reati tipici di chi opera in contesti mafiosi, ovvero: una condanna per detenzione e porto di una pistola con il relativo munizionamento e una successiva condanna a dieci anni di reclusione... relativa a un’attività continuata di spaccio». La sua amica Marta Prato nel frattempo conferma il suo sostegno a Salvini. Lunedì 28 maggio, dopo il momentaneo stop al governo Lega-5 Stelle, ha postato su Facebook il monologo del leader contro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se il segretario della Lega è ora ministro dell'Interno, bisogna riconoscere il ruolo della base: l'amica del boss, l'ambasciatore e tutti gli altri non hanno mai smesso di avere fiducia in lui.

L'attivista di Matteo Salvini e la 'ndrangheta: «In Brianza tutti i politici sono amici del boss». La leghista replica all'inchiesta dell'Espresso. E rivela la presunta infiltrazione nella politica di Seregno, la città vicino a Monza dove domenica 10 giugno si torna a votare per il Comune. Un caso imbarazzante per il neo ministro dell'Interno, scrive Fabrizio Gatti il 4 giugno 2018 su "L'Espresso". Marta Prato, l'attivista della Lega molto amica dei rappresentanti in Brianza del ministro dell'Interno Matteo Salvini, risponde con una rivelazione clamorosa all'inchiesta dell'Espresso. E conferma ciò che, secondo lei, in provincia di Monza è ormai consuetudine: la lunga “amicizia trasversale” tra politici e Umberto Cristello, esponente di una famiglia ai vertici della 'ndrangheta al Nord. Durante la campagna elettorale per il voto del 4 marzo, la leghista aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook le sue foto con Salvini; con l'amico e ambasciatore locale del leader, Giacinto Mariani; con il deputato Paolo Grimoldi. E, negli stessi giorni, lei con Cristello: eccoli insieme a una festa all'aperto, in discoteca e al ristorante. «I Cristello», racconta il collaboratore Antonino Belnome ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, «erano i numeri uno della zona. All’epoca io ho visto portare bancalate di cocaina».

Marta Prato, fino alle dimissioni della giunta di Seregno per le indagini sui presunti favori a un costruttore in contatto con altri boss della 'ndrangheta, ha anche rappresentato la maggioranza Lega-Forza Italia in Comune come segretaria della Consulta cultura. Proprio domenica 10 giugno si torna a votare. «Ripubblico una delle 17 fotografie pubblicate sull'Espresso, quella che ritengo più significativa», scrive l'attivista nella lettera di replica inviata al sito locale Seregno.tv e linkata anche sulla sua pagina Facebook: «Nella foto vengono oscurati tre volti... L'ultimo sulla destra è un candidato alle prossime elezioni comunali del 10 giugno 2018, lista “Noi per Seregno”. Anche lui, come me, al fianco di “Umberto Cristello, dell'omonima famiglia ai vertici della 'ndrangheta al Nord, nella discoteca Molto Club di Carate Brianza, di cui è comproprietario l'ambasciatore di Salvini, Giacinto Mariani” (come ha scritto L'Espresso)».

«L'occasione nella quale è stata scattata la foto risale al 31 agosto 2017 durante una serata di chiusura estate», continua Marta Prato: «A tale serata presenziarono innumerevoli persone, essendo normale apertura del locale Molto di Carate Brianza. Tra le innumerevoli persone, la presenza di personaggi pubblici della realtà seregnese è da considerarsi trasversale. Così come trasversale è l'amicizia che lega me e Umberto fin dai tempi dell'adolescenza e che lega, appunto trasversalmente, Umberto a numerosi personaggi pubblici di Seregno. Tutto ciò, cioè l'amicizia, non può essere legata a qualsivoglia forza politica e/o malavita e cosche mafiose. Se tutto ciò che è stato scritto fosse un attacco personale, non capisco il male che posso avere fatto per provocare simili infamie. Altresì se fosse un attacco a fini politici, vista la vicinanza con le elezioni comunali, credo sia giusto espandere il concetto di amicizia a tutti i rappresentanti politici».

Il 23 maggio scorso il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, sulla sua pagina Facebook ha pubblicato la sua foto davanti al monumento che ricorda la strage di Capaci, l'attentato nel quale furono uccisi il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: «A 26 anni dalla strage di Capaci, un pensiero e una preghiera per i nostri Martiri», ha scritto quel giorno Salvini sopra la sua fotografia: «La mafia mi fa schifo e se avrò l’onore di andare al governo, la combatterò con ogni sforzo e con ogni mezzo». Le misure di prevenzione contro i contatti tra pubblica amministrazione, politica e criminalità organizzata, sono di competenza del ministero dell'Interno. Ecco, ora che è al governo, se proprio vuole mantenere la promessa, il ministro Salvini può cominciare dagli amici e dai suoi rappresentanti che hanno fatto campagna elettorale per lui e lo hanno eletto in Brianza.

I rapporti della Lega con uomini vicini alla 'ndrangheta. «È finita la pacchia per i mafiosi», ripete Salvini. Ma i documenti ottenuti da L'Espresso dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, è stato per anni in società con uomini legati alle cosche, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 6 luglio 2018 "L'Espresso". Reggio Calabria, Rosarno, Lamezia Terme. Centrotrenta chilometri lungo i quali si snodano i legami pericolosi tra la Lega di Matteo Salvini e la 'ndrangheta. Dopo le recenti dichiarazioni di del ministro dell'Interno contro i mafiosi («È finita la pacchia in Italia», ha detto domenica scorsa a Pontida promettendo «una guerra che combatteremo con tutte le armi che la democrazia ci mette a disposizione») L'Espresso pubblica un'inchiesta giornalistica, in edicola da domenica 8 luglio, sui leghisti calabresi che hanno garantito al ministro di farsi eleggere senatore e al suo partito di sfondare il muro della doppia cifra a Rosarno, il paese in provincia di Reggio Calabria feudo di potenti famiglie di 'ndrangheta e simbolo dello sfruttamento dei braccianti africani nei campi. Qui, alle elezioni del 4 marzo scorso, la Lega sovranista ha infatti raccolto il 13 per cento dei consensi. Cinque anni fa l'asticella si era fermata allo 0,25. Un exploit possibile grazie al responsabile della sezione locale leghista, Vincenzo Gioffrè. Candidato non eletto alla Camera, Gioffrè è stato uno degli organizzatori della festa-comizio post elettorale con Salvini ospite d'onore nel liceo del paese. Il responsabile del partito di Rosarno custodisce però un segreto che L'Espresso, attraverso documenti inediti, è in grado di svelare. Per oltre dieci anni ha avuto rapporti d'affari con uomini sospettati di essere contigui ai clan locali. Gioffrè, classe '81, a soli 19 anni ha infatti fondato una cooperativa agricola con un personaggio legato clan Pesce, marchio doc della 'ndrangheta, con ramificazioni nel Nord Italia e in Europa, e leader nel narcotraffico internazionale. Secondo alcuni atti giudiziari, il partner d'affari di Gioffrè è stato tra gli armieri della cosca. Nel 2012 fu peraltro indagato dalla procura antimafia di Reggio Calabria per favoreggiamento della 'ndrina rosarnese, tuttavia quel filone non ha avuto finora uno sbocco processuale. Ma questo non è l'unico legame pericoloso del capo dei leghisti di Rosarno. Gioffrè risulta infatti tra i fondatori di una seconda azienda, un consorzio di produttori agricoli. Tra gli azionisti, indicano i documenti societari, ci sono due uomini che l'antimafia collega direttamente alla famiglia Bellocco, alleata del clan Pesce. Insomma, amicizie borderline per la spalla del ministro dell'Interno in terra di 'ndrangheta. Dove il problema principale, sostengono i salvinisti di Calabria, sono gli immigrati. Gioffrè ha aderito alla Lega nel 2016 dopo aver lasciato Fratelli d'Italia. Il primo a dargli il benvenuto ufficiale è stato Domenico Furgiuele, responsabile regionale del partito e, dal 4 marzo, deputato della Repubblica. Su Furgiuele pesa una parentela ingombrante. Come già raccontato dal nostro giornale, il suocero è infatti in carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso e ha i beni sotto sequestro su richiesta dell'antimafia: per i giudici di primo grado, l'uomo è contiguo alle cosche di Lamezia. Ora L'Espresso ha scoperto che nel congelamento del patrimonio societario e immobiliare è finita anche la moglie del deputato calabrese. A lei il tribunale ha sequestrato un immobile e una società.

Quanto guadagna (veramente) Matteo Salvini? Stipendio e pensione del leader della Lega, scrive Alessandro Cipolla il 22 Maggio 2018 su "Money". Quanto guadagna Matteo Salvini? Facciamo i conti in tasca al leader della Lega, in procinto ora di diventare ministro del governo con i 5 Stelle. Quanto guadagna Matteo Salvini? Questa è la domanda che si pongono molti italiani anche in virtù della annunciata stretta ai costi della politica annunciata dal governo Lega-Movimento 5 Stelle. Quello degli stipendi dei politici nostrani è un tema che da sempre indispettisce l’opinione pubblica. Spesso si è discusso di un taglio a stipendi e vitalizi dei parlamentari, ma nonostante le buone intenzioni poco si è fatto di concreto a riguardo. Andiamo allora a fare i conti i tasca a Matteo Salvini che, abbandonata l’ipotesi di essere lui il premier, sarà sicuramente nella squadra di governo di questo in qualche modo storico esecutivo giallo-verde. Per quantificare quanto guadagna Matteo Salvini attualmente bisogna dividere le varie voci di introito. Come segretario della Lega, nel bilancio del partito non è specificato quale sia e se ci sia un compenso. Come consigliere comunale di Milano invece, il gettone di presenza è una cifra molto bassa, oltre il fatto che il leader del carroccio è considerato tra i più assenteisti dell’assemblea. Fino allo scorso marzo (si è dimesso subito dopo le politiche) Matteo Salvini era un europarlamentare eletto nelle elezioni del 2014. Vediamo allora il leader del carroccio quanto ha incassato in questi quattro anni passati a Bruxelles.

Lo stipendio lordo di ogni europarlamentare è di circa 8.000 euro al mese, pari a 6.200 euro netti. Per ogni giorno di presenza poi, Bruxelles elargisce un gettone pari a 304 euro. Ci sono poi diverse voci riguardanti i rimborsi spesa. Per ogni europarlamentare infatti è previsto anche un’indennità per le spese generali pari a 4.300 euro al mese. Ci sono poi i rimborsi per le spese di viaggio e l’indennità di viaggio annuale che è stimata nella cifra di 4.200 euro. In totale quindi, Matteo Salvini guadagna mensilmente come europarlamentare una cifra che può oscillare tra i 16.000 e i 19.000 euro, a seconda naturalmente di quante volte il politico si è recato a Bruxelles.

Oltre questo, ogni europarlamentare ha diritto ad un’indennità di fine mandato, a patto che non si ricoprano altre cariche, oltre che di una pensione al compimento dei 63 anni calcolata in base a quante legislature sono state svolte. Matteo Salvini nella sua attività politica ha svolto tre legislature come europarlamentare, quindi al compimento dei 63 anni al momento avrà diritto ad una pensione di 2.748 euro al mese.

Adesso che invece è stato eletto senatore, Salvini percepirà un’indennità mensile lorda di 11.555 euro. Al netto la cifra è di 5.304,89 euro, più una diaria di 3.500 euro cui si aggiungono un rimborso per le spese di mandato pari a 4.180 euro e 1.650 euro al mese come rimborsi forfettari fra telefoni e trasporti. Facendo un rapido calcolo e senza considerare le eventuali indennità di funzione i componenti del Senato guadagnano ogni mese 14.634,89 eurocontro i 13.971,35 euro percepiti dai deputati. Nonostante sia stato già in precedenza deputato, non ha comunque maturato gli anni necessari per ottenere anche una pensione come parlamentare italiano visto al seggio di Roma ha preferito quello di Bruxelles.

Salvini: "Mai avuto soldi da Mosca", scrive il 3 giugno 2018 "Rai News". "Non ho mai ricevuto una lira, un euro o un rublo dalla Russia, ritengo Putin uno degli uomini di stato migliori e mi vergogno del fatto che in Italia venga invitato a parlare uno speculatore senza scrupoli come Soros". Lo ha detto il ministro dell'Interno e leader della Lega Matteo Salvini in replica alle parole di George Soros.

Lega, caccia alla sede fantasma: pacchi, raccomandate (e pizze) respinti da mesi. Entra solo l’ufficiale giudiziario. In Via delle Stelline 1, Milano c'è la sede della nuova Lega di Salvini, costituita dopo che le procure si sono messe alla ricerca dei fondi di quella vecchia. La portinaia respinge la posta, le consegne vanno a vuoto. Solo l'ufficiale giudiziario raggiunge lo studio del commercialista dove il partito che esprime mezzo governo e il ministro degli Interni ha trovato riparo. Allo stesso indirizzo spuntano società schermate, scrivono L. Franco e T. Mackinson il 5 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “La Lega qui? Mai sentito, no che non c’è”. In via Privata delle Stelline 1 a Milano cadono tutti dalle nuvole. Eppure lì c’è la sede le gale del partito di Salvini. E’ scritto nello statuto, è riportato nella Gazzetta Ufficiale. Lì è domiciliato il segretario. È vero, solo che nessuno lo sa. Non lo sa la portinaia che da 33 anni lucida le scale dello stesso palazzo a mattoni rossi: “Vi garantisco che qui non c’è, viene un sacco di gente a chiedere. Arriva della posta, ma ho ordine di rimandare tutto indietro. Non so perché diano questo indirizzo”. Neppure il postino lo sa, le raccomandate degli iscritti tornano indietro: “Destinatario sconosciuto”. I condomini neanche lo sospettano. Il partito che esprime metà del governo, a partire dal ministro degli Interni e vicepremier, alberga in zona De Angeli con molta discrezione, anche troppa. Proviamo allora a consegnare una pizza, a mo’ di pretesto per fare domande a chiunque viva o lavori nell’edificio: nulla di nulla. Alla fine, dopo molti tentativi andati a vuoto, è toccato scomodare l’ufficiale giudiziario chiedendo al tribunale di notificare alla Lega in via delle Stelline una intimazione a ritirare la posta. Stavolta la consegna va a buon fine, impresa in cui per sei mesi hanno fallito aspiranti tesserati, comuni cittadini e improvvisati garzoni di pizzeria. Non senza stupore, però: “Prima d’ora non avevo mai consegnato lì un atto per la Lega”, confida il responsabile per la zona dell’ufficio notifiche del Tribunale di Milano. Perché gli atti, ragiona, corrono sempre e solo otto chilometri più a Nord, nella storica sede di via Bellerio. Apprende così che la vecchia Lega, quella con il Nord e secessionista, è stata messa in soffitta. Sei mesi fa è stata creata la Lega per Salvini Premier. Sotto questo simbolo sono stati eletti i parlamentari a marzo e qui sono stati dirottati il 2 per mille e le nuove entrate, mettendole al sicuro dalla pretese della giustizia. La Procura di Genova dà ancora la caccia ai 48 milioni frutto della truffa allo Stato per cui un anno fa sono stati condannati in primo grado Umberto Bossi e Francesco Belsito. Sinora né ha trovati solo 3 e per questo ha chiesto di sequestrare ogni fondo riferibile al partito oggi guidato dal ministro dell’interno Matteo Salvini.  “Sequestrate ovunque siano i soldi della Lega”, ha confermato la Cassazione. Solo che nel frattempo qualcuno l’ha clonata in via delle Stelline, dove non c’è quasi nulla, dove non si può consegnare una raccomandata. Giusto l’amministratore del condominio, alla fine, si fa sfiorare dal dubbio: “C’è uno studio di commercialisti, provate a chiedere a loro”. Si tratta dello studio Scillieri-Zito. Antonio Zito dice di saperne poco o nulla: “E’ una domiciliazione e basta, qui non c’è proprio nulla. Della Lega ho scoperto per caso, ma non conosco i clienti del collega perché non siamo soci, dividiamo solo gli spazi”. Il collega è Michele Scillieri. Ma non sono bastati due giorni di telefonate alla segretaria per parlare con lui.

I misteri di via delle Stelline e la società schermata. Eppure le domande sono tante, a iniziare da una: perché in via delle Stelline 1? I pm di Genova sospettano che i fondi delle vecchia Lega siano stati nascosti in Lussemburgo. Inchieste giornalistiche accreditano uno spostamento del baricentro finanziario della nuova Lega (di Salvini) da Milano a Bergamo. L’Espresso, in particolare, ha raccontato come proprio una holding del Granducato sia dietro sette società con sede legale allo stesso indirizzo di due commercialisti di Bergamo, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba.  Insieme al tesoriere del partito Giulio Centemero hanno creato l’associazione “Più voci”, destinataria di un contributo da 250mila euro del costruttore romano Luca Parnasi, arrestato nell’inchiesta sullo stadio della Roma. Manzoni e Di Rubba sono anche direttore amministrativo del gruppo leghista alla Camera e revisore di quello al Senato. Insomma sono i commercialisti scelti da Salvini, insieme al tesoriere Centemero, per gestire i conti del Carroccio. Ma non sono i soli, visto che ora è saltato fuori pure lo studio di commercialisti di via delle Stelline 1. Dalle ricerche de ilfattoquotidiano.it emerge che, oltre alla Lega, ha sede a questo indirizzo anche la società Taaac srl, i cui proprietari sono nascosti dietro una fiduciaria con in pancia il 100% delle quote e il cui atto costitutivo è stato firmato nemmeno un anno fa nello studio di Alberto Maria Ciambella. E chi è? Proprio il notaio che ha registrato gli atti costitutivi delle società bergamasche e i rogiti con cui – secondo il settimanale – la Lega avrebbe disseminato il suo ricco patrimonio tra le varie sezioni regionali. A schermare la proprietà di Taaac è la San Giorgio Fiduciaria srl di Giorgio Balduzzi, un nome che si ritrova anche dietro alcune delle società bergamasche citate da L’Espresso. Amministratore unico è Vanessa Servalli, titolare di un bar a Clusone (Bergamo) che, oltre a Taaac, amministra anche un’altra società, la “Non solo auto”, che appartiene a Manzoni e Di Rubba, vale a dire i famosi fondatori di “Più Voci”. Se gli incroci non sono già abbastanza, Servalli è anche moglie del cugino di Di Rubba. Tutte coincidenze o ci sono legami tra Taaac e Carroccio? Sul punto Balduzzi è evasivo: “Non lo so, non rientra nelle mie conoscenze”, risponde, pur sapendo chi sono i proprietari di Taaac che hanno scelto la sua fiduciaria per restare anonimi. “Non c’è nessun legame”, sostiene il leghista Centemero. Ma i tentativi di avere anche la versione di Servalli vanno a vuoto, visto che due giorni di telefonate al bar non sono sufficienti per riuscire a parlare con lei. Resta così un mistero. Cosa ci faccia la società amministrata da una barista di Clusone e con soci senza volto in via delle Stelline 1. Allo stesso indirizzo della sede della nuova Lega.

Lo sconcerto dei militanti, impossibile capire a cosa si tesseri un leghista che paga la quota. "Scrivi, nessuno risponde". Salvini cambia statuto e sede legale, che non è più via Bellerio dove bussano i magistrati. Ma qualcosa non va: nella nuova le raccomandate dei potenziali iscritti tornano indietro, mentre le mail per il tesseramento si moltiplicano, tanto che alla fine uno crede di tesserarsi al partito che fu di Bossi, mentre si iscrive a quello di Salvini. Il secondo partito più potente d'Italia poggia oggi su un coacervo di sigle, indirizzi, articolazioni. Eccole, scrive Giuseppe Pietrobelli il 5 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Provate a scrivere alla Lega Nord, o meglio alla “Lega per Salvini premier” chiedendo di aderire al movimento e di ricevere le coordinate di pagamento. Inviate una lettera all’indirizzo indicato all’articolo 4 dello statuto approvato sei mesi fa, che non corrisponde alla storica via Bellerio, ma a un anonimo condominio nel quartiere De Angeli, in via Privata delle Stelline 1 a Milano. La raccomandata con ricevuta di ritorno non sarà recapitata perchè l’utente è sconosciuto. E quindi tutto tornerà al mittente, con l’indirizzo barrato e la specificazione del postino di aver lasciato un avviso. Incredibile, ma vero. Possibile che il partito del neo ministro dell’Interno sia un contenitore vuoto? O per lo meno un luogo dove la corrispondenza non può arrivare? Eppure per un movimento politico il luogo della sede, anche amministrativa, è importante. Non a caso deve essere indicato negli atti costitutivi, titolo necessario per ottenere i finanziamenti in base alla legge 149 del 2013 che abolì il finanziamento pubblico, per reintrodurlo sotto forma di benefici, e impose norme di trasparenza nella gestione dei partiti e nel controllo dei loro bilanci. E’ difficile pensare che le scatole cinesi delle sigle e degli indirizzi, che di solito accompagnano le società di comodo, si debbano estendere anche a quello che è uno dei due partiti più potenti d’Italia. Eppure è così, la Lega di Salvini è in buona parte una clonazione della Lega Nord per l’indipendenza della Padania creata e voluta da Umberto Bossi. Ma la mutazione genetica del Carroccio ha portato a un coacervo di sigle, che riflettono il passaggio dal sogno della Padania al più concreto partito nazionalista italico, in realtà una entità giuridica diversa dalla Lega Nord, rendendo perlopiù impossibile capire a che cosa si tesseri un leghista che paga la quota. Forse anche per evitare che siano pignorati beni e denaro, visto che i magistrati di Genova aspettano dalla Lega Nord la restituzione di 48 milioni di euro per le malefatte dell’epoca in cui il segretario era Bossi e il cassiere era Pasquale Belsito. Ad accorgersi delle lettere che non possono essere recapitate è stato un vecchio leghista del Nord Est, piuttosto arrabbiato nel vedere la nomenklatura bossiana messa in un angolo. Come testimoniano le foto delle buste tornate al mittente, a tre mesi dal deposito dello Statuto “non ho trovato sul territorio di Bolzano e provincia una articolazione territoriale regionale o provinciale che rilasci la tessera riferita al nuovo partito e da non confondere con un partito simile di nome ma giuridicamente differente, ovvero la vecchia Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. Chiede poi a quanto ammonti la quota da versare per l’iscrizione al partito di Salvini. Era il 21 marzo quando ha spedito la raccomandata, non ha più ricevuto risposta se non il tagliando della notifica a vuoto in via Privata delle Stelline 1, sede legale della nuova Lega, dove neppure una pizza va in porto e la portinaia rispedisce la posta al mittente. Vediamo allora da dove nasce questa strana storia. Il 14 dicembre 2017 la Gazzetta Ufficiale pubblica lo statuto del Movimento politico “Lega per Salvini premier”. E’ il preludio alla campagna per le politiche di marzo. La nuova Lega è senza confini territoriali, visto che le “articolazioni” (articolo 2) comprendono regioni appartenenti a quella che un tempo veniva chiamata la Terronia: Lazio Campania Puglia Basilicata e Calabria. All’articolo 4 ecco il nuovo indirizzo. La parola Lega compare, ma mai abbinata a quella del Nord. Salvini ha archiviato la Padania e indica quale finalità “la pacifica trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali”. Tanto per scacciare le antiche ombre delle inchieste veronesi del procuratore Guido Papalia su “camicie verdi” e secessionismo come attentato all’integrità dello Stato. La struttura imponente della Lega per Salvini prevede congresso federale, consiglio federale, segretario federale… Ma per entrare nel consiglio servono almeno cinque anni consecutivi di militanza come soci ordinari, eventualità che potrebbe verificarsi solo a partire dalla fine del 2022. Che la sede non sia un accessorio lo dimostra l’articolo 13: il segretario federale “elegge domicilio legale presso la sede di cui all’articolo 4 dello Statuto”. Quindi in via Privata delle Stelline 1, dove però la corrispondenza non può essere recapitata. La Lega per Salvini è un fatto di sostanza, visto che raccoglie (articolo 34) i parlamentari eletti (124 deputati e 58 senatori) e riuniti in gruppo con quel nome nuovo (e non più quello della Lega Nord), che contribuiscono alle spese. Gli amanti delle scadenze congressuali non abbiano fretta. Perché nelle “disposizioni transitorie” è previsto che “a far data dalla costituzione della Lega per Salvini premier i soci fondatori compongono il Congresso federale e agiscono, altresì, in qualità di consiglio federale sino al successivo Congresso federale elettivo, che dovrà essere svolto entro 12 mesi dall’approvazione del presente statuto”. Per il dibattito c’è tempo. E Salvini ha anche la facoltà di cambiare la sede del suo partito, mentre la magistratura aspetta di entrare in possesso dei 48 milioni di euro delle truffe addebitate alla Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, che a questo punto è un’entità separata dalla Lega per Salvini premier, anche se la sede operativa resta in via Bellerio. Cosa deve fare un fan del ministro dell’Interno che voglia iscriversi alla Lega (o Lega Nord…) se non può utilizzare le poste? Semplice, andare in rete e digitare Salvini premier, che a questo punto dovrebbe cambiare la ragione sociale in “Lega per Salvini ministro dell’Interno”, se non vuole fare la figura di chi è stato anestetizzato nelle sue velleità dai grillini diventati compagni di strada. Clic. Da uno dei molti siti compaiono il faccione barbuto del segretario e il suo dito che indica il dovere. “Sei un leghista vero! Aspetto anche te. Lega da Nord a Sud con Salvini premier”. Ed ecco il primo dei molti indirizzi a cui rivolgersi: tesseramentolega@gmail.com. Il problema è che uno crede di iscriversi al partito che fu di Bossi, mentre si iscrive a quello di Salvini e non ci capisce più niente. Cliccate su wwwleganord.org ed entrerete nella homepage del Carroccio. La parola “Nord” appare ancora nell’intestazione, ma già depotenziata. Perché è tutto un tripudio di “Lega – Salvini premier” che costituisce il nuovo brand nazional-populista. Con un trionfante culto della personalità. Nella sola home-page di un giorno qualsiasi, con qualche finestra che si apre sulle news, la sola fotografia del segretario (in realtà “il capitano”) compare 45 volte. Neanche Berlusconi, neanche Mao Tse-Tung. Ed ecco per un attimo il nome di Bossi alla presidenza degli organi federali. Ma il sito è ondivago, fuorviante e sicuramente smemorato. Perché mostra inizialmente lo statuto della vecchia Lega Nord approvato nel 2015 (quello in cui sono ancora citati i “padri fondatori della Padania” che fecero lo storico annuncio a Venezia il 15 settembre 1996). Ma la storia del movimento è inspiegabilmente aggiornata solo al 2010. Poi il nulla. E quando si aprono le finestre del tesseramento il balletto vecchio-nuovo viene mascherato astutamente con una citazione contraddittoria – “Sostieni la grande battaglia federalista per la Libertà della Padania!” e una varietà frastornante di indirizzi. Le informazioni sono in tesseramento.federale@leganord.org. Gli indirizzi delle sedi locali cui rivolgersi sono in www.leganord.org. Ma a Treviso, per fare un esempio, la segreteria locale risponde via mail chiedendo dove risiede chi vuole tesserarsi, poi, avuta la risposta, nessuno si fa più vivo. E chi voglia farlo in rete deve andare sul sito www.tesseramentonline.leganord.org. Qui i residenti nelle 13 storiche Nazioni bossiane possono tesserarsi a “Lega Nord – Salvini premier” dove il Nord compare ancora. Cambiano gli indirizzi ma per Antonio Da Re, segretario regionale della Liga Veneta, non cambia nulla: “Chi si iscrive alla Liga Veneta si iscrive alla Lega Nord, il Movimento per Salvini premier è fatto per intercettare le adesioni del centro-sud dell’Italia”. Gli altri si devono rivolgere a tesseramento.legapersalvinipremier.it, che è la sigla del partito che ha sede nel condominio dove la corrispondenza non può essere recapitata. Per il semplice fatto che il destinatario è sconosciuto. Fossimo il ministro dell’Interno, manderemmo qualcuno a dare un’occhiata.

Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un  massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.

Senti chi parla….

Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.

A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.

Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».

IL GIUSTIZIALISMO CHE VERRÀ, scrive Giuseppe Sambataro il 14 giugno 2018 su The Vision. Il governo Lega-5Stelle è finalmente realtà, e con esso quel brivido lungo la schiena ogni volta che viene nominato il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. A poche ore dalla conferma dell’esecutivo, il leader leghista ha promesso che renderà lo slogan “A casa loro” una delle sue priorità. “Sogno un Paese con qualche tassa in meno e molta sicurezza in più,” ha aggiunto il neo-ministro, “basta sconti di pena per assassini, pedofili e stupratori. Uno che mette le mani addosso a un bambino o a una donna non deve più uscire di galera.” In questo intervento vengono ribadite, se mai ce ne fosse bisogno, le intenzioni del nuovo governo in tema di sicurezza e giustizia, già messe nero su bianco nell’ormai iconico “Contratto per il Governo del Cambiamento”. Una frase in particolare, nelle cinque pagine del capitolo dedicato alla giustizia, sembra riassumere al meglio la visione grilloleghista: “È opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi.” Tra le modifiche proposte, da una parte pene più alte, più carcere (anche per i minori), tempi di prescrizione più lunghi e più legittima difesa; dall’altra, meno depenalizzazioni, meno garanzie per gli indagati, meno possibilità di accedere ai riti alternativi e di scontare parte della pena fuori dalle mura carcerarie. In generale si registra una netta inversione rispetto alla riforma penitenziaria quasi approvata al termine della scorsa legislatura, che cercava di ridurre al minimo la risposta punitiva in favore di misure di reinserimento sociale più in linea con il dettato costituzionale. Non si è fatta attendere la reazione degli avvocati penalisti, che hanno definito la proposta, in ordine di bontà, una risposta “puramente demagogica”, l’espressione di una “cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti” e una “supercazzola forcaiola”. Marco Travaglio – tifoso grillino della prima ora nonché uno dei più grandi equivoci degli elettori di sinistra durante il ventennio berlusconiano – ha accolto con entusiasmo il contratto giallo-verde, che “non ha paura di parlare di più carcere e più carceri, meno prescrizioni, pene più severe e più certe […] meno garanzie per chi commette i reati e più garanzie per chi li denuncia e li subisce. I puristi […] del sesso degli angeli e del giudiziariamente corretto storcono il naso con argomenti triti e ritriti […] Dei loro slogan i cittadini si infischiano: se vedranno qualche delinquente a spasso in meno, qualche irregolare espulso in più […] saranno felici e grati al governo (e noi con loro).” Considerato il peso che i due partiti firmatari hanno sempre dato a questi temi, e visti i risultati delle scorse elezioni, sembra purtroppo che Travaglio abbia ragione. L’idea di giustizia che emerge dal “Contratto” è infatti un ibrido dei leitmotiven delle due forze politiche, che sul tema sembrano essere riuscite particolarmente bene a trasformare in programma di governo il consenso populista di cui hanno sempre goduto. C’è innanzitutto l’idea di sicurezza della nuova Lega salviniana, costruita attorno ai concetti di ordine pubblico e di difesa dal nemico, poco cambia se è un immigrato che scavalca il confine o un ladro che scavalca il muretto di casa. Chi sbaglia paga, meglio se finisce in carcere e meglio ancora se ci rimane. A tutto questo si aggiunge il dogma grillino dell’onestà, alla luce del quale il disonesto è un criminale da mettere alla gogna con rabbia tangentopolesca. Non è un caso che Danilo Toninelli, concentratissimo capogruppo dei cinquestelle al Senato e ora ministro delle Infrastrutture, abbia promesso di rendere l’Italia uno “Stato etico”. Voluto o meno, il riferimento al modello teorico dei regimi totalitari, in cui ciò che è immorale è anche illegale, non fa ben sperare. Il fascino di questo mix di securitarismo e giustizialismo si spiega in buona parte con il bisogno degli elettori – banale ma quantomai diffuso in questo periodo di forte instabilità – di essere rassicurati. Impoveriti, incazzati, quotidianamente bombardati dalla retorica dell’invasione e da quella della casta, i cittadini proiettano le loro incertezze economiche su un sentimento di insicurezza sociale e rabbia indiscriminata contro il Palazzo, sfogando le loro frustrazioni nella richiesta di forche e manette. I dati però fanno emergere un’altra realtà. Dal 2014 a oggi si assiste infatti a un calo costante di reati, con percentuali impressionanti per quanto riguarda i crimini che più colpiscono l’opinione pubblica: -25,3 % di omicidi, -20,4% di furti e -23,4% di rapine. Aumenta la sicurezza oggettiva, ma evidentemente non quella percepita. Come risulta da un sondaggio realizzato prima delle scorse elezioni, il 70% degli italiani dice di sentirsi insicuro. Candidandosi alla guida del paese, Lega e M5S hanno preferito seguire gli umori dei cittadini piuttosto che prendere atto della realtà. È emblematico in questo senso il paragrafo del “Contratto” sulla legittima difesa: nonostante le aggressioni alla proprietà privata diminuiscano, alcuni casi assumono rilievo mediatico a livello nazionale, tanto basta per incentivare i cittadini ad armarsi. Già oggi la difesa da un’aggressione ingiusta è considerata legale quando necessaria e proporzionale. Presumere che lo sia sempre equivale però a dare licenza di uccidere al minimo sentore di pericolo. La parte sul carcere poi sembra il copia-incolla dei commenti incattiviti sotto le notizie di cronaca nera su Facebook. Anche in questo caso vengono ignorate, più o meno consapevolmente, alcune acquisizioni scientifiche ben consolidate. E non solo perché allargare l’utilizzo della pena detentiva contrasta con il principio penale per cui la si dovrebbe invece limitare il più possibile, ma sopratutto perché, numeri alla mano, il carcere è inutile. Lo dimostrano i tassi di recidiva: il 68% di chi sconta la pena dietro le sbarre torna infatti a delinquere. Non servono grandi studi per capire perché. Tra le mura di un istituto di pena ci sono buone probabilità di entrare in contatto con subculture criminali da cui sarà quasi impossibile emanciparsi una volta fuori. Il sovraffollamento patologico e le precarie condizioni delle infrastrutture — problematiche già più volte condannate anche a livello europeo — non fanno che aggravare la situazione. È proprio alla luce di queste considerazioni che la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto le cosiddette misure alternative, che consentono al condannato di scontare tutta o parte della pena fuori dal carcere attenendosi agli obblighi stabiliti dal giudice. La percentuale di recidiva, per chi ne beneficia, si ferma circa al 19%. In spregio a queste evidenze empiriche, nell’architettura grilloleghista il carcere è una colonna portante, un edificio con molte entrate ma con le uscite sbarrate. In generale, la tesi per cui se si aumentano le pene diminuiscono i reati non regge, come dimostra quanto accaduto con il reato di omicidio stradale. Introdotto dal governo Renzi, ha ottenuto risultati a dir poco deludenti nonostante le sanzioni stratosferiche previste. Questa stessa visione semplicistica si ritrova nel “Contratto” di Lega e 5Stelle, dove l’unica risposta possibile è quella repressiva, anche quando finisce col danneggiare l’intera collettività. Il discorso è valido anche per le altre proposte, tutte tese a ridurre le garanzie di chi deve difendersi da una pubblica accusa, nonostante il fatto che per il nostro sistema un indagato sia innocente fino a prova contraria. L’allungamento della prescrizione e le limitazioni alla possibilità di accedere ai riti alternativi, che accorciano i tempi processuali, possono avere come unico e logico risultato quello di appesantire ulteriormente una giustizia penale già costretta ad arrangiarsi come può. Sarà questa la forma dell’ingiustizia del futuro, al continuo inseguimento delle paure dei cittadini, a prescindere dall’efficacia delle misure che si propone di introdurre. Concetti come “giustizia” e “sicurezza” diventeranno vuoti simulacri, strumenti al servizio della sola volontà di punire. Niente di nuovo, del resto. Fino al XVIII secolo la pena veniva espiata sotto gli sguardi eccitati del popolo, che accorreva nelle piazze per assistere estasiato ai pubblici supplizi. Certo, oggi nessuno viene più decapitato, lapidato o smembrato vivo, ma la sete di vendetta collettiva rimane la stessa. Che il futuro ci riservi un Far West di giustizieri dal grilletto facile, piuttosto che pattuglie dell’onestà pronte ad ammanettare chi non timbra il biglietto in tram, poco cambia. Avremo comunque rinunciato ad analizzare la criminalità come un fenomeno sociale, preferendo rinchiudere in gabbia chi commette un reato piuttosto che investire in sistemi di recupero davvero efficaci. Di certo, la sicurezza non aumenterà e la giustizia non sarà più efficiente.  “È il populismo penale, dolcezza,” e non importa che sia contrario a tutte le conoscenze che si hanno in materia, non importa che il risultato ottenibile sia l’esatto opposto di quello sperato, basta che tranquillizzi, almeno per un po’.

Riciclati, parenti, amici e partiti su misura, così Salvini ha modificato geneticamente la Lega Nord, scrive Giovanni Drogo l'11 dicembre 2018 NextQuotidiano. Lega Nord per l’indipendenza della Padania, Lega, Lega per Salvini Premier, Noi con Salvini; quanti sono i nomi che in questi ultimi anni ha assunto il partito fondato da Umberto Bossi? Quando c’era il Senatùr e la Lega se la prendeva con Roma ladrona e i terroni a Nord di lega (o liga) ce n’erano più d’una: erano i vari movimenti “nazionali”, le anime regionali del partito federale e federalista per eccellenza. Con l’avvento di Matteo Salvini e l’avventura al Sud il partito ha abbandonato la vocazione nordista per abbracciare quello che è il suo nuovo slogan: Prima gli Italiani.

Quante Leghe ci sono attorno a Salvini. Il problema però è che di Lega non ce n’è una sola. Come ha rivelato il Fatto Quotidiano a luglio esistono sia la Lega che la Lega per Salvini premier (quest’ultimo nato nel 2017). Anche la sede del partito non è più quella storica di via Bellerio ma quella – non meglio identificata – in via Privata delle Stelline 1 dove la nuova Lega ha la sede legale. Della Lega il segretario è Matteo Salvini, della Lega per Salvini premier invece non si sa chi sia, perché non il segretario da statuto andrebbe eletto con un congresso. Che però non è mai stato celebrato. Il vicepremier risulta essere così “solo” il proprietario del simbolo. Ma c’è di più, come ha rivelato ieri il servizio di Claudia Di Pasquale per Report chi si tessera in Nord Italia si iscrive alla Lega (la vecchia Lega Nord) che ancora ha al primo punto dello statuto il raggiungimento dell’indipendenza della Padania. Chi invece si iscrive al Sud lo fa al nuovo partito, la Lega per Salvini Premier che invece ha come obiettivo la trasformazione dell’Italia in uno stato federale.

Quarantanove milioni di Lega sotto i mari. Ma perché la Lega ha creato questo strano sistema di partiti doppione? Il motivo non è solo quello di riuscire a sfondare al Sud facendo dimenticare l’odio dei polentoni per i terroni. Secondo Report tutto nasce dalla vicenda che ha visto coinvolto Umberto Bossi, attuale presidente federale della Lega, e l’ex tesoriere Belsito. È la storia dei 49 milioni della Lega Nord per cui la procura di Genova ha chiesto il sequestro e dei quali Salvini ha annunciato di procedere con una restituzione a rate. Creando un nuovo partito sarebbe più difficile per la procura sequestrarne i conti della Lega per Salvini Premier per quanto “legato” alla vecchia Lega.

I bilanci della Lega mostrano che negli anni sono usciti 30 milioni di euro alla voce “oneri diversi di gestione”. C’è poi il sistema su cui sta indagando la Procura di Bergamo, si tratta di 250.000 euro donati dal costruttore romano Parnasi all’associazione Più Voci di cui è presidente proprio il tesoriere della Lega Giulio Centemero. Soldi che sono finiti a “Il Populista”, considerato l’house organ del partito e che è di proprietà – attraverso un’altra società – della Pontida Fin, l’immobiliare della Lega. Secondo quanto dichiarato a Report da Centemero Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era a conoscenza di quello che “stavamo facendo” (con l’associazione Più Voci e le donazioni di Parnasi).

Come la Lega sta “svuotando” Forza Italia al Sud. Ma se la Lega di Salvini, quella del prima gli italiani, è maggiormente radicata al Sud (tant’è che Salvini è stato eletto in Calabria) chi sono i “nuovi” leghisti? Report ha inviduato il caso di Domenico Furgiuele, ex Alleanza Nazionale ora coordinatore della “Lega per Salvini premier” in Calabria, suocero di Salvatore Mazzei finto in carcere per cumulo di pena e ritenuto il “tramite tra l’imprenditoria e l’organizzazione mafiosa”. A Mazzei è stato sequestrato un patrimonio di 200 milioni di euro. Tra i beni sequestrati anche un immobile – di proprietà di una delle figlie di Mazzei, la moglie del deputato leghista – dove risultava avere domicilio proprio l’onorevole Furgiuele. Furgiuele sostiene di avere come l’unica colpa quella di essersi innamorato di una ragazza che poi è diventata sua moglie. Eppure risultava essere socio della Terina Costruzioni, una società che ha sede in una cava sequestrata di proprietà di Mazzei. Ma non è l’unico leghista del Sud finito nel mirino dell’inchiesta di Report. I leghisti del Sud provengono da altri partiti, molti sono ex Forza Italia che si sono “riciclati” grazie a Salvini. Tra questi l’ex consigliere comunale e provinciale di Reggio Calabria Michele Marcianò, ora nella Lega, che nel 2006 venne intercettato, ma non indagato, mentre conversava di a casa del boss Cosimo Alvaro dell’omonima cosca di Sinopoli. In Puglia tra i leghisti ex FI e “fittiani” c’è il senatore leghista Roberto Marti finito nell’indaginesui voti elettorali ottenuti in cambio di case popolari. Secondo i Pm nel 2015 Marti avrebbe partecipato insieme ad altri amministratori, al tentativo poi fallito di far assegnare un’abitazione già confiscata alla mafia al fratello di un boss. In Campania l’assessore leghista all’Igiene di Afragola Camillo Giacco – nipote dell’ex sindaco Vincenzo Nespoli – è indagato e rinviato a giudizio assieme allo zio. Curiosamente il senatore leghista Gianluca Cantalamessa (ex AN), segretario regionale per Lega Salvini Premier in Campania non era a conoscenza del fatto che Giacco fosse indagato. Cantalamessa non sapeva nemmeno della parentela tra Damiano Genovese, ex consigliere della Lega ad Avellino e Amedeo Genovese (suo padre). Genovese senior, attualmente all’ergastolo, è ritenuto il capo dell’omonimo clan. Rispetto alle vicende del padre Genovese ha dichiarato che «sono fatti di mio padre di vent’anni fa, e in questi anni niente, vita normale, vita serena». Cantalamessa ha detto che non l’avrebbero candidato «se avessimo saputo di una parentela» ma che Genovese si è dissociato. Ma non è così perché Genovese ha detto «per noi non era niente vero, diciamo non è mai esistito niente, cioè ci sono i pentiti e basta». In Sicilia va forte invece Noi Con Salvini il partito personale del Capitano che è sbarcato sull’isola nel 2015 e ha imbarcato un discreto numero di riciclati. Qui la vicenda diventa farsa, con la storia incredibile di Salvino Caputo, dirigente di Noi con Salvini arrestato con l’accusa di voto di scambio. Non potendo candidare Salvino NCS ha puntato tutto sul fratello Mario presentato in lista con il nome Di Caputo Mario, detto Salvino. A completare il quadro dei leghisti siciliani sotto indagine c’è anche Antonino “Tony” Rizzotto. Rizzotto è stato il primo “leghista” eletto all’Assemblea regionale siciliana e subito dopo “scoprì” di essere indagato per appropriazione indebita aggravata ai danni di un istituto di formazione di cui era Presidente. Non c’è che dire al Sud Salvini si sta dando davvero da fare, al punto che dopo le regionali del 2017 il partito è stato Commissariato e dal Nord è arrivato Stefano Candiani.

Riccardo Marchetti, l'enfant prodige della Lega che non riconosce neanche i fake su Facebook. Responsabile dei giovani del Centro-Sud del Carroccio, è molto vicino a Matteo Salvini. Ma fino a oggi è riuscito a farsi conoscere soprattutto per la gaffe sui social network, scrive Elena Testi il 05 dicembre 2018 su "L'Espresso". Capelli rasati, barba incolta alla Matteo Salvini in un gesto di piena emulazione venerante. Una carriera politica fulminea. Viene descritto, da chi lo ha incontrato all’inizio del suo cammino, come un giovane un po' arrogante, senza tanti scrupoli, e con un infantilismo latente. Riccardo Augusto Marchetti, classe 1987, è uno degli enfant prodige della Lega, nonostante i suoi 31 anni. Nominato da pochissimi giorni responsabile dei giovani del Centro-Sud del partito. Tra una scivolata e un post sui social network, questo liquidatore assicurativo, entrato in Parlamento dopo aver vinto nella circoscrizione Umbria 2 (Foligno - Alto Tevere), si sta facendo notare. Ha promesso dall’Umbria “oltre 300 persone (e il numero é destinato a salire ancora)” per la manifestazione della Lega fissata il prossimo 8 dicembre in Piazza del Popolo. Stessa cifra, neanche a farlo apposta, degli umbri partiti nel lontano 2013, quando Silvio Berlusconi fece il suo ultimo grande show, proprio in piazza del Popolo. Viene da chiedersi se non siano sempre gli stessi 300. Riccardo Augusto Marchetti, eletto consigliere comunale a Città di Castello nel 2016, è stato scelto da Matteo Salvini in persona per la scalata verso Montecitorio. Il giovane rampante, consapevole del ruolo istituzionale che andava a ricoprire, per un po' di tempo ha scelto come immagine di copertina Facebook: "L'Italia è una Repubblica fondata sul calcetto". Rispettoso anche dei basilari principi democratici, tanto che, quando, nelle zone colpite dal terremoto, ha prevalso il Pd alle amministrative, Riccardo Augusto Marchetti, in una spinta di senso auto-critico, ha scritto: "Il Pd vince nelle zone terremotate, si vede che amano il campeggio". Gentile e pronto sempre al dialogo, soprattutto con gli avversari politici: “I compagni non meritano un cazzo – scrive su Facebook -, neanche le buone maniere. Con loro botte da orbi, sempre e comunque”. Un giovane dal curriculum vitae rassicurante, dove alla voce competenze si legge: “Ottimo utilizzo della pistola con tiro al bersaglio anche mobili” e “conoscenza avanzata di armi d’assalto con corsi specifici svolti presso poligoni da tiro”. E infine “tiro a volo con arma liscia, tiro al bersaglio con armi a corda”. Un cv che lo ha sicuramente aiutato a depositare una proposta di legge, insieme ad altri colleghi di partito, “finalizzata a restituire il giusto e corretto equilibrio in materia di rilascio delle licenze di portare armi. Si registra, difatti, negli ultimi anni, un’applicazione delle norme che prescrivono i criteri per il rilascio delle licenze di portare armi che sta, irrazionalmente, rendendo questo diritto sempre meno accessibile”. C’è chi negli ultimi giorni lo ha visto aggirarsi per i corridoi di Montecitorio con un lieve rossore sul viso, tutta colpa di quel post condiviso sulla sua bacheca. L’onorevole Marchetti, laureato in Scienze dell’Investigazione a Narni, ha pubblicato con entusiasmo un post del falso account di Paolo Savona: "Raramente ho visto riassumere la situazione politica internazionale – ha scritto - in maniera tanto chiara e sincera in così pochi caratteri!!! Come sempre, immenso ministro Savona!!". Insulti e sberleffi. Quando la parlamentare del Pd Anna Ascani, oltretutto concittadina (sono entrambi di Città di Castello), si è permessa di fargli notare che quello non era il vero ministro per gli affari europei, è subito scoppiata una guerra sui social network. Il giovane leghista ha infine rimosso il post, ma ha sferrato l’attacco contro la nemica giurata: “Anna Ascani è la parlamentare più brava di tutti”. Accompagnato da un “ohhh scusate!!! Non mi ero accorto che fosse un fake”. Non è nuovo però a frasi a effetto criticate dall’opposizione, come quando scoppiò la polemica in consiglio comunale, sempre a Città di Castello. La lite si innescò dopo che Marchetti chiese per il “cittadino europeo islamico”, un’“espulsione di massa” e la “messa al bando della religione islamica”. Quando gli fecero notare che il suo ruolo istituzionale non gli permetteva l’uso di toni tanto accesi, rispose che “si trattava della sua bacheca personale” e che proprio per questo di un giudizio da “libero cittadino”. Insomma il nuovo enfant prodige della Lega emula perfettamente le orme del leader e non solo in fatto di barba. A quanto pare.

Lega, a Bergamo nuova inchiesta sui conti: indagato il tesoriere Centemero. Salvini: "Niente da cercare". La procura indaga sui 250mila euro versati dall'imprenditore Parnasi a una associazione legata al Carroccio. L'ipotesi: finanziamento illecito per aggirare la confisca dei 49 milioni di rimborsi, scrive La Repubblica" il 10 dicembre 2018. La procura di Bergamo ha aperto un filone di inchiesta sui conti della Lega: l'ipotesi sarebbe quella di finanziamento illecito ai partiti e nel fascicolo sarebbe indagato il tesoriere del “nuovo” Carroccio di Matteo Salvini, Giulio Centemero. La vicenda è quella dei presunti finanziamenti illeciti ai partiti da parte dell'imprenditore Luca parnasi, che avrebbe finanziato con 250mila euro l'associazione 'Più voci', con sede a Bergamo e riconducibile appunto alla Lega. Per i magistrati quei soldi rappresenterebbero un sistema per 'mettere al riparo' da possibili sequestri - dopo la sentenza della Corte d'Appello di Genova sui 49 milioni di euro confiscati alla Lega per la truffa dei rimborsi pubblici - qualsiasi altra somma arrivi dai privati al Carroccio. In mattinata il blitz della Finanza nella sede dei commercialisti del partito dove è registrata l’associazione 'Più voci'. Le Fiamme Gialle hanno acquisito documenti negli studi di due commercialisti di fiducia della Lega a Bergamo, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. "Ognuno faccia il suo lavoro. Non c'è nulla da trovare né da cercare. Spero facciano in fretta": così il segretario della Lega e ministro dell'Interno Matteo Salvini ha commentato l'inchiesta, all'arrivo nella sede di Assolombarda a Milano. L'indagine - come scrive “La Stampa” sarebbe alle battute iniziali: da Roma sono stati trasmessi gli atti che riguardano l'inchiesta sullo stadio della Roma per la quale era finito in carcere l'imprenditore Parnasi. I magistrati di Bergamo stanno quindi cercando di ricostruire i flussi di denaro in entrata e in uscita dall'associazione “Più voci” e da altre società collegate, che hanno sede sempre a Bergamo e allo stesso indirizzo, come la Mc srl, a cui fa capo la testata online 'Il populista', molto attiva nella diffusione della propaganda leghista.

Matteo Salvini, indiscrezione terrificante: "Nuova indagine sulla Lega, conti correnti al setaccio", scrive il 16 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". La magistratura punta ancora i fari sulla Lega di Matteo Salvini. Dopo Genova, questa volta è la Procura di Bergamo, scrive Repubblica, ad aprire un nuovo filone di indagine sul Carroccio: la Finanza vuole vederci chiaro sui dipendenti in nero e sta passando al setaccio i conti correnti di decine di impiegati del partito. L'indiscrezione del quotidiano diretto da Mario Calabresi su questa inchiesta tenuta finora "nel massimo riserbo" rischia di abbattersi come una tempesta sul traballante patto tra Lega e M5s, visto che già l'indagine sul tesoriere leghista Centemero ha provocato la reazione scomposta dei grillini. Sullo sfondo di una partita così delicata come quella della manovra, in cui ciascuno dei due alleati tenta di guadagnare il massimo in termini di misure-bandiera e successo mediatico, difficile che Luigi Di Maio e compagni manettari (solo coi polsi degli altri, però) si lascino scappare l'occasione nei prossimi giorni di una bella polemica giustizialista.

Lega, ora la Finanza indaga sui dipendenti pagati in nero. Nuovo filone di indagine a Bergamo. Al setaccio i conti correnti di decine di impiegati, scrive il 15 dicembre 2018 Paolo Berizzi su "La Repubblica". Dipendenti pagati in nero. Alla faccia del contratto di lavoro, dei contributi, delle tasse, della trasparenza. Dipendenti non di un'azienda privata, ma di un partito - oggi al governo - che riceveva rimborsi elettorali e dunque soldi pubblici. C'è un nuovo filone di indagine sui conti della Lega: è un lavoro scrupoloso che la Guardia di Finanza sta portando avanti nel massimo riserbo in Lombardia. A partire proprio da quelle province roccaforti storiche del Carroccio:...

L’indagine sul lavoro nero nella Lega, scrive NeXt quotidiano il 16 dicembre 2018. C’è un nuovo filone d’indagine sulla Lega in Lombardia: la Guardia di Finanza sta lavorando sulle province storiche del Carroccio, Bergamo e Brescia, e Repubblica fa sapere oggi che sotto la lente ci sono i rapporti di lavoro che legano qualche decina di dipendenti al partito.

L’indagine sul lavoro nero nella Lega. Secondo le prime indagini sarebbero stati pagati in modo irregolare: e questo è il terzo “scandalo” politico sul lavoro nero che investe l’establishment italiano dopo le accuse al padre di Luigi Di Maio e a quello di Matteo Renzi. La Lega sta sommando indagini su indagini, visto che ci sono anche accertamenti sui 49 milioni di euro spariti e quelli sui finanziamenti alla Fondazione Più Voci in cui è indagato il tesoriere Giulio Centemero, oltre alle schermature lussemburghesi per movimentare i soldi.

Paolo Berizzi su Repubblica racconta la storia da cui è partita l’indagine: C’è un matrimonio. Lei è una dipendente di una sezione del Carroccio. Per tutelarla (in questa vicenda sarebbe parte lesa), la chiameremo Daria. Lui è un impiegato di Brescia. I due si sposano e quel sobrio banchetto nuziale che passerebbe altrimenti inosservato diventa invece uno spunto per i detective delle Fiamme gialle. Daria – da quanto emerso – per anni sarebbe stata pagata “off record”. Senza busta paga. E come lei altre decine di dipendenti leghisti. Una prassi che – stando ai primi accertamenti – sarebbe continuata e la cui anomalia adesso va a incastrarsi nel più complesso garbuglio dei soldi volatilizzati. Tre sono le procure al lavoro sulle finanze della Lega: Genova, Roma e Bergamo. La lente dei pm sta ingrandendo ad ampio spettro: si va dalla “rotta” percorsa da decine di milioni di rimborsi elettorali (l’ex tesoriere leghista Stefano Stefani sarà sentito dai magistrati genovesi: è lui che nel 2013 apre il primo conto in Sparkasse dove vanno i 10 milioni trasferiti dalle casse del Carroccio) alle donazioni del costruttore Luca Parnasi ad un’associazione (“Più voci”) legata al partito e costituita dal tesoriere (indagato) Giulio Centemero e da due amici commercialisti bergamaschi.

Il matrimonio leghista e l’indagine. Le ispezioni bancarie hanno riguardato anche alcuni dirigenti e deputati della Lega. Ma perché pagare in nero i lavoratori? Al di là dell’ovvio (risparmio su tasse e contributi) viene automatico ipotizzare altri motivi: non gravare sulle spese di bilancio o destinare i soldi “stralciati” ad altre voci, quegli “oneri diversi di gestione” avvolti da una nebulosa. La presunta “cresta” su cui sta lavorando la Finanza riguarderebbe una quarantina di dipendenti. Sull’organico dal 2015 si è abbattuta la spending review leghista: da allora molti sono in cassa integrazione in deroga, in vigore tuttora. E sono scesi da 80 a 29.

Legacadabra e i soldi sono spariti: il nuovo numero in edicola da domenica 16 dicembre. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo "Legacadabra" ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, disegnato da Makkox nel panni di un abile presitigiatore. Ma sul nuovo numero anche l'inchiesta sui crac di Condotte e le consulenze renziane del colosso e l'intervista a Gilles De Kerchove, numero uno dell'antiterrorismo europeo dopo l'attentato di Strasburgo.

Esclusivo: riciclaggio 49 milioni, perquisizioni in casa Lega. Blitz della finanza a Bergamo nella sede dei commercialisti del partito dove è registrata l’associazione Più voci finanziata dal costruttore Luca Parnasi, scrive Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 10 dicembre 2018 su "L'Espresso". Non c'è pace per la Lega di Matteo Salvini. Dopo la notizia dell'indagine sul finanziamento illecito in corso a Bergamo pubblicata dalla Stampa, c'è un'altra tegola che potrebbe provocare molta preoccupazione al ministro dell'Interno. Secondo quanto risulta all'Espresso, infatti, sono in corso una serie di perquisizioni a Bergamo presso lo studio di due commercialisti di fiducia del partito. La richiesta è partita dalla procura di Genova, che ha il fascicolo più scottante, quello sull'ipotesi di riciclaggio di parte dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali. Quasi 50 milioni oggetto di sequestro dopo la condanna in appello di Umberto Bossi e Francesco Belsito, l'ex tesoriere del Carroccio, colpevoli di truffa ai danni dello Stato. L'operazione in corso coordinata dai pm liguri è stata condivisa con la procura di Bergamo, che invece indaga sul finanziamento illecito all'associazione culturale leghista. Usata, è l'ipotesi, come schermo per incamerare donazioni senza farle passare dai conti del partito, finiti nel radar dei giudici per il sequestro milionario. Le perquisizioni di oggi si inseriscono proprio nello sviluppo di quest'ultima inchiesta coordinata dai magistrati e dalla guarda di finanza di Genova. Questa mattina gli investigatori hanno così suonato al civico 24 di via Angelo Maj, a Bergamo, per sequestrare i documenti della Dea Consulting, lo studio dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Si tratta di due professionisti di fiducia del partito, con incarichi in società della Lega e ruoli di controllo nei gruppi parlamentari del Carroccio. Insieme all'attuale tesoriere Centemero, Di Rubba e Manzoni hanno fondato nel 2015 l'associazione Più Voci, proprio quella al centro dell'ipotesi di finanziamento illecito secondo due procure, Bergamo e Roma. Nella Capitale il tesoriere è indagato per i soldi ricevuti dalla Più Voci tra il 2015 e il 2016 dal costruttore Luca Parnasi (250 mila euro) e da Esselunga (40 mila euro). Una vicenda giudiziaria nata dalla nostra inchiesta giornalistica dell'aprile 2018.L'associazione ha sede in via Angelo Maj, registrata presso lo studio Dea Consulting oggi intestato interamente a Di Rubba (poco dopo la nostra inchiesta Manzoni gli ha ceduto tutte le quote). È qui che i finanzieri sono giunti per acquisire materiale che possa aiutarli nel prosieguo dell'indagine sul riciclaggio. Dallo stesso studio si dipana il reticolo societario che porta in Lussemburgo via Svizzera: sette aziende italiane controllate da una holding del Granducato, la Ivad Sarl, che fa capo a una fiduciaria. Insomma, impossibile conoscere il proprietario delle sette aziende italiane domiciliate presso lo studio dei commercialisti della lega. E forse la guardia di finanza con il blitz di oggi sta cercando di capire proprio questo. L'attenzione degli investigatori genovesi, da quanto trapela, si sta concentrando oltreché su via Angelo Maj anche su Angelo Lazzari, il manager bergamasco di stanza in Lussemburgo. Proprio l'uomo che anni fa ha fondato la Ivad, la cui quota di controllo è stata in seguito trasferita alla Prima fiduciaria Spa e dunque schermata. Tutte notizie che L'Espresso aveva pubblicato in due servizi di copertina usciti tra aprile e giugno 2018. Fatti che evidentemente hanno attirato l'attenzione dei magistrati di Roma, Bergamo e Genova.

Esclusivo: ecco le reti segrete della truffa dei 49 milioni della Lega. Le associazioni per ottenere finanziamenti. E quelle per nascondere i soldi. Sullo sfondo l'ipotesi di riciclaggio in Lussemburgo, con un'azienda amministrata dal tesoriere del partito Centemero, scelto da Salvini. Ecco su cosa indagano i magistrati. L'inchiesta sulle piste calde in edicola domenica, scrive Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 14 dicembre 2018 su "L'Espresso". Un network di associazioni per ottenere finanziamenti illeciti. Un altro giro di sigle per nascondere i 49 milioni della truffa ai danni dello Stato. In più, una serie di società anonime sospettate di aver avuto un ruolo nel riciclaggio, tra cui una amministrata proprio dall'attuale tesoriere leghista Giulio Centemero. Ecco tutte le piste setacciate dalla magistratura. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo “Legacadabra” ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, e provano a dare una risposta a due domande. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo "Legacadabra" ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, disegnato da Makkox nel panni di un abile prestigiatore. Ma sul nuovo numero anche l'inchiesta sui crac di Condotte e le consulenze renziane del colosso e l'intervista a Gilles De Kerchove, numero uno dell'antiterrorismo europeo dopo l'attentato di Strasburgo.

Come riesce a finanziarsi la Lega visto che ha i conti correnti sotto sequestro? E dove sono finiti i 49 milioni? I dubbi sulla fine del tesoro padano nascono dai bilanci stessi del partito. Tra la fine del 2011 e il 2017 la Lega ha infatti speso 32 milioni di euro. I rendiconti ufficiali si limitano a dire che buona parte di questi soldi sono stati usati per “contributi ad associazioni” e “oneri diversi di gestione”. Né Maroni né Salvini hanno mai spiegato i dettagli di quelle operazioni. E soprattutto non hanno mai reso pubblici i nomi di queste organizzazioni che hanno beneficiato dei denari padani. Ora gli investigatori della guardia di finanza del capoluogo ligure coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal sostituto Paola Calleri stanno cercando di risolvere l’enigma. Dall'altro lato ci sono invece le associazioni create sul modello di fondazioni politiche. Usate per incamerare finanziamenti da privati. Una di queste è l'associazione Più Voci, la cui esistenza è stata scoperta dall'Espresso molti mesi prima che diventasse di dominio pubblico con l'arresto del costruttore romano Luca Parnasi. Il quale, come avevamo rivelato nell'aprile 2018, era nella lista dei finanziatori dell'associazione leghista insieme alla catena di supermercati Esselunga. Dalla rivelazione dell'Espresso è nata la seconda indagine nella Capitale con l'ipotesi di finanziamento illecito, che vede indagati sia l'attuale tesoriere leghista Centemero che il suo omologo del partito democratico, Francesco Bonifazi, dato che pure la fondazione legata al Pd ha ricevuto una donazione di Parnasi. Stesso reato ipotizzato nel fascicolo aperto dai pm di Bergamo, dove ha sede la Più Voci. Secondo quanto risulta all’Espresso, nel capoluogo orobico sono stati ascoltati alcuni testimoni. Oltre alla Più voci c'è poi almeno un'altra associazione finita nel mirino dei magistrati. Un'organizzazione operativa in Liguria, anche in questo caso usata per raccogliere donazioni anonime da girare poi al partito. Un altro fronte caldissimo delle indagini giudiziarie è il Lussemburgo. La settimana scorsa sono state eseguite delle perquisizioni nello studio di commercialisti di Bergamo, in via Angelo Maj 24 (stesso indirizzo della Più voci), di cui avevamo scritto nel giugno scorso nel servizio di copertina dal titolo “L'Europa offshore che piace a Salvini”. A questo indirizzo hanno sede sette imprese controllate da una anonima holding lussemburghese. Sono tutte registrate presso lo studio del commercialista Alberto Di Rubba, che insieme al collega Andrea Manzoni gestisce i conti dei gruppi parlamentari della Lega. Il sospetto della procura di Genova e del nucleo di polizia tributaria della finanza del capoluogo ligure è che attraverso questa rete di aziende sia stato commesso il delitto di riciclaggio di parte dei 49 milioni, quelli incassati con la truffa sui rimborsi firmata Bossi e Belsito. C'è però un dettaglio rilevante: una delle imprese bergamasche finite nel mirino dei pm è amministrata dal tesoriere del partito, Centemero, scelto proprio da Salvini. Un'altra è gestita invece da Manzoni, professionista di fiducia di Centemero e direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera. 

Così la Lega ha fatto sparire 49 milioni di euro. Un network di associazioni per nascondere i soldi. Un altro giro di sigle per ottenere finanziamenti al riparo dalla giustizia. Anche con Salvini segretario.  Ecco su cosa indaga la magistratura, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 20 dicembre 2018 su "L'Espresso". Una rete di associazioni us a ta per svuotare i conti della Lega. Una rete di associazioni usata per finanziare la Lega senza passare dai conti ufficiali. Sembra un gioco di prestigio, ma è proprio questa l’ipotesi sui cui lavorano i magistrati della procura di Genova, da mesi impegnati a rintracciare i 49 milioni di euro frutto della truffa ai danni dello Stato architettata da Umberto Bossi e Francesco Belsito. Soldi che escono, soldi che rientrano. Tutto finalizzato a far sparire il tesoro padano e a farlo riapparire sotto altre spoglie, ripulito e pronto per essere utilizzato. Riciclaggio, insomma: questo è il reato su cui indagano i magistrati genovesi. Ma anche finanziamento illecito, un’ipotesi su cui si sono messi a lavorare contemporaneamente le procure di Roma e Bergamo. E poi Milano, che ha ricevuto gli “atti relativi” senza tuttavia aprire un vero fascicolo d’indagine. Per non perdere l’orientamento in questo vorticoso giro di denaro, società straniere, associazioni e schermi fiduciari vale la pena di partire da via Angelo Maj 24, a Bergamo. È da questa palazzina residenziale color verde acqua che L’Espresso aveva iniziato, sei mesi fa, la caccia ai soldi pubblici del Carroccio. «Fate inchieste su cose vere, non perdete il vostro tempo», ci aveva risposto Matteo Salvini, intanto diventato vice premier e ministro dell’Interno. Il palazzone a sei piani di Bergamo Bassa è però diventato nel frattempo interessante anche per diversi magistrati italiani. Qui ha sede infatti lo studio Dea Consulting, fino a pochi mesi fa di proprietà di due commercialisti bergamaschi poco noti: Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Dopo la pubblicazione del primo articolo del nostro settimanale su di loro, Manzoni ha ceduto tutte le sue quote a Di Rubba. Ma questo è un dettaglio. Ciò che conta è che sono stati Manzoni e Di Rubba, insieme al collega e tesoriere leghista Giulio Centemero, a creare l’associazione Più Voci, domiciliata proprio in via Angelo Maj 24 e scoperta il primo aprile scorso nell’inchiesta di copertina dal titolo “I conti segreti di Salvini”. La Più Voci, avevamo scritto, tra il 2015 e il 2016 ha ricevuto parecchie donazioni. Oltre 300 mila euro in tutto, di cui 250 mila dal costruttore romano Luca Parnasi e 40 mila da Esselunga. Che c’è di strano? Di strano c’è che subito dopo l’associazione Più Voci ha girato quei soldi a due società: Radio Padania e Mc Srl, controllata direttamente dal partito e editrice del quotidiano online Il Populista. Perché Parnasi e Esselunga hanno deciso di sponsorizzare la sconosciuta associazione leghista? E come mai quest’ultima ha girato i denari ricevuti a delle società collegate al Carroccio? Il sospetto era che si trattasse di un finanziamento occulto. Un escamotage utile teoricamente a entrambe le parti: agli imprenditori, per non dover dichiarare ufficialmente il loro sostegno alla Lega; alla Lega, per non vedersi sequestrare quei soldi vista l’inchiesta in corso per truffa. L’unica a rispondere in qualche modo alle nostre domande era stata Esselunga. “Contributo volontario 2016”, recitava la causale del bonifico. Davanti alla richiesta di commento, Esselunga non ha spiegato perché ha scelto di dare soldi all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito. Si è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perché non versare il loro contributo direttamente a Radio Padania? La risposta di Esselunga non è quindi stata esaustiva, ma per lo meno la catena di supermercati ha fatto seguito alle nostre richieste di commento. L’altro donatore, Parnasi, aveva invece deciso di non rispondere proprio. Il motivo lo abbiamo scoperto qualche mese dopo, quando il costruttore è finito in carcere con l’accusa di corruzione al termine di un’inchiesta giudiziaria sul nuovo stadio della Roma, quello che le sue aziende avrebbero dovuto realizzare. È la stessa indagine che ha portato all’arresto del presidente dell’Acea Luca Lanzalone, indagato insieme ad altri esponenti del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico e di Forza Italia. Le carte dell’inchiesta - condotta dalla procura di Roma - raccontano bene perché Parnasi avesse scelto il silenzio di fronte alle nostre domande. Aveva preferito non parlare perché quel finanziamento doveva rimanere segreto. Intercettato a parlare con i suoi collaboratori, l’immobiliarista mostra infatti una certa agitazione dopo aver ricevuto la nostra chiamata. Tramite il suo commercialista contatta Andrea Manzoni. «Ragionando sulle possibili conseguenze dell’articolo», scrivono i magistrati nell’ordinanza, «Parnasi e il suo commercialista ipotizzano di creare una falsa documentazione contabile, retrodatata, per giustificare l’erogazione». Il motivo lo ha spiegato lo stesso Parnasi in un’altra intercettazione. Lui ha finanziato Più voci per la campagna elettorale delle comunali di Milano, quando la Lega sosteneva Stefano Parisi a sindaco di Milano. Altro che contributo alla libertà di informazione, come ha sempre sostenuto Centemero. E non era l’unica donazione in programma. Alle domande dei pm di Roma uno dei più stretti collaboratori dell’imprenditore ha raccontato che, dopo la Più voci erano previste altre due elargizioni a Radio Padania, «cento più cento». Ufficialmente per la pubblicità. Tuttavia, quando il collaboratore è andato da Parnasi a chiedere in quale fasce orarie preferiva collocare la pubblicità, la risposta è stata chiara: era solo un modo per finanziare la Lega, nessuna pubblicità effettiva. Tre mesi dopo le intercettazioni Parnasi verrà arrestato su ordine della procura di Roma. E tra i magistrati capitolini e quelli di Genova, che già da tempo stavano indagando sul possibile riciclaggio del tesoro leghista, inizierà una collaborazione, un filone investigativo che unisce i 49 milioni scomparsi agli oltre 300 mila incassati tramite l’associazione Più Voci, i soldi vecchi e quelli nuovi. Nel frattempo la procura di Roma ha messo sotto inchiesta Centemero per finanziamento illecito proprio per la vicenda della Più voci. Questa opacità nella gestione dei finanziamenti privati avrebbe dovuto far scattare la denuncia dell’opposizione, ma il Pd sul tema può dir poco: anche la fondazione Eyu del tesoriere renziano Francesco Bonifazi era stata foraggiata dal costruttore. E infatti Bonifazi è indagato con Centemero. Avversari in Parlamento, uniti dalla necessità di fare cassa. Il finanziamento illecito della Più voci e quindi della Lega è lo stesso reato ipotizzato dalla procura di Bergamo, che ha un fascicolo ancora contro ignoti. Da quanto risulta all’Espresso, in questo filone bergamasco sono stati sentiti dai magistrati come persone informate dei fatti i rappresentanti di Esselunga. La risposta ha chiamato in causa il fondatore, Bernardo Caprotti, nel frattempo deceduto. Fu sua la decisione di donare 40 mila euro alla Più Voci, hanno spiegato ai magistrati i dirigenti della catena di supermercati. Ma la Più voci non sarebbe stato l’unico strumento usato dalla Lega per incamerare finanziamenti privati al riparo da occhi indiscreti. Gli investigatori stanno analizzando diverse altre associazioni. Tra queste ce n’è una di recente costituzione, la Now con sede a Genova. La sigla non ha nemmeno un sito internet. Le uniche notizie pubbliche che la riguardano arrivano dalla pagina Facebook di Giovanni Toti, il governatore della Liguria sostenuto dall’alleanza Forza Italia-Lega. Nell’ottobre del 2017 Toti scriveva: «Alla presentazione dell’associazione Now con Matteo Salvini, Edoardo Rixi e Marco Bucci». Insomma, dai nomi presenti sembrerebbe una scatola utilizzata per sostenere l’alleanza della giunta nella regione. Di certo Now nel maggio scorso ha versato 67mila euro alla Lega Nord Liguria. Non si conoscono, tuttavia, i nomi dei benefattori dell’associazione, che non è tenuta a dichiararli pubblicamente. Una segretezza che, come nel caso della Più voci, non può non far sorgere sospetti.

I sospetti di via Angelo Maj. Per capire, invece, dove nasce l’attuale ipotesi del riciclaggio è necessario tornare in via Angelo Maj. Qui infatti non ha sede solo la Più voci ma una lunga lista di società i cui proprietari sono schermati da una complessa architettura di scatole cinesi, che porta in Lussemburgo. Al centro dell’indagine della procura di Genova c’è proprio questa ragnatela. Stessi personaggi, stesse holding e società che avevamo svelato nel servizio di copertina “L’Europa (offshore) che piace a Salvini”, anche in quel caso suscitando l’ilarità del vicepremier. I fatti degli ultimi giorni dimostrano, però, che la nostra pista è stata seguita anche dai magistrati. La conferma arriva dal decreto di perquisizione con cui il nucleo di polizia tributaria di Genova ha bussato alla porta dello studio di via Angelo Maj. L’ipotesi dei pm: una parte dei 49 milioni frutto della truffa avrebbero fatto rotta verso il Granducato per poi rientrare in Italia sparpagliati in mille rivoli. Per questo i finanzieri hanno setacciato anche le abitazioni di Manzoni e di Di Rubba oltreché il casale a Bergamo Alta di Angelo Lazzari. Proprio Lazzari è l’uomo su cui la procura di Genova ha puntato il suo faro ultimamente. Bergamasco di Sarnico, 50 anni, si presenta sul web come ingegnere ed ex promotore finanziario, prima in Mediolanum e poi in Unicredit, oggi manager con base in Lussemburgo e attività in Italia e Regno Unito. Di Lazzari avevamo scritto per la prima volta sei mesi fa, raccontando gli affari di alcune società domiciliate presso lo studio dei commercialisti leghisti. Piccole imprese, con capitale sociale di 10 mila euro l’una, tutte fondate tra il 2014 e il 2016. Dopo la presa del potere di Salvini e la nomina di Centemero a tesoriere del partito. I nomi dicono poco: Growth and Challenge, B Design, Biotetto, Areapergolesi, Alchimia, Sasso, Ma.Se. Alcune di queste sono dirette proprio dai commercialisti della Lega. Amministratore della Growth and Challenge è ad esempio Centemero, mentre Manzoni lo è di Areapergolesi. Ma il dato rilevante, cristallizzato nel decreto di perquisizione, è che entrambe sono nell’elenco delle Srl sospettate dai detective della finanza del riciclaggio. Ruoli, quelli di Centemero e di Manzoni che rischiano di mettere in serio imbarazzo il governo, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli alleati a 5 stelle, che iniziano a perdere la pazienza di fronte alle continue grane giudiziarie del partito del ministro dell’Interno. Tornando agli incastri societari, sappiamo per certo che la proprietà delle sette aziende di via Angelo Maj è della Seven Fiduciaria di Bergamo. E qui inizia il giro d’Europa. La Seven Fiduciaria è infatti a sua volta controllata da un’altra impresa bergamasca, la Sevenbit. Il cui presidente del consiglio d’amministrazione è Lazzari. La Sevenbit, anch’essa fondata nel 2015, conta una trentina di piccoli azionisti, tra cui lo stesso Lazzari e la nipote di Berlusconi, Alessia. La maggioranza delle quote, il 90 per cento, è però in mano alla Ivad Sarl, sede in Rue Antoine Jans 10, Lussemburgo, fondata nel 2008 dallo stesso Lazzari. Impossibile conoscere l’origine dei capitali attraverso cui l’azienda è cresciuta a dismisura, arrivando già un anno dopo la fondazione a un attivo di 1,6 milioni di euro, in gran parte investimenti finanziari. E impossibile è anche conoscere l’identità dei proprietari attuali di Ivad. Dal dicembre del 2015 la holding lussemburghese ha infatti un nuovo titolare ufficiale, e anche questa volta è italiano. Si chiama Prima Fiduciaria ed è specializzata nella creazione di trust, cioè fondazioni anonime. Tra gli azionisti della Prima Fiduciaria troviamo un’altra lussemburghese, la Arc advisory company, anch’essa al centro delle perquisizioni della Guardia di finanza della settimana scorsa. La Arc ci riporta dritti al punto di partenza, visto che è stata fondata nel 2006 proprio dal bergamasco Lazzari. Anche in questo caso è però impossibile tracciare l’origine dei capitali: il socio di controllo della Arc advisory company è infatti la Ligustrum, una società immobiliare svizzera, con base a Lugano, le cui azioni sono intestate al portatore. Perché tutta questa riservatezza dietro a sette piccole imprese della bergamasca registrate nell’ufficio dei due commercialisti di fiducia della Lega? Ci sono legami tra queste società e il partito? Sei mesi fa, alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni avevano risposto allo stesso modo. Non fornendo informazioni sui beneficiari ultimi della Seven Fiduciaria, ma assicurando che le sette aziende in questione non hanno legami né diretti né indiretti con la Lega. La stessa versione ci è stata fornita da Diego Occari, commercialista veronese che presiede la Prima Fiduciaria, lo schermo usato dal proprietario della società lussemburghese: «Il nostro cliente che detiene le quote di Ivad Sarl è un soggetto istituzionale di primo piano e totalmente estraneo alla politica».

La Lega delle associazioni. Come hanno fatto a uscire i soldi dai conti del Carroccio? Dove sono finiti i 49 milioni? Di certo tra la fine del 2011 e il 2017 la Lega ha speso quasi 40 milioni di euro, dilapidando in soli sei anni 32 milioni di euro tra liquidità e investimenti finanziari. Non è colpa del costo del lavoro visto che i dipendenti nello stesso periodo sono passati da 80 a 7 e di conseguenza la spesa complessiva. I rendiconti ufficiali si limitano a dire che buona parte di questi soldi sono spesi per “contributi ad associazioni” e “oneri diversi di gestione”. Solo tra il 2012 e il 2015 sono evaporati così oltre 31 milioni, di cui un quarto ad associazioni non meglio specificate. Né Maroni né Salvini hanno mai spiegato i dettagli di quelle operazioni. E soprattutto non hanno mai reso pubblici i nomi di queste organizzazioni che hanno beneficiato dei denari padani. Ora gli investigatori del capoluogo ligure coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto stanno cercando di risolvere l’enigma. Credono che attorno alla Lega orbiti una galassia di associazioni e società ufficialmente slegate dal partito ma in realtà contigue. La loro funzione: fare da sponda con il Carroccio per svuotare le casse del partito ed evitare così il sequestro dei soldi. Un’ipotesi investigativa che non sarà facile dimostrare. Si tratta di centinaia di migliaia di operazioni bancarie sotto osservazione della finanza. Il periodo va dal 2012 a oggi. Una selva di transazioni, versamenti, bonifici, nella quale è difficile districarsi. Ogni movimentazione può nascondere un dettaglio utile. Per esempio i pagamenti ai fornitori amici. Un altro modo, al pari delle associazioni, per far fuoriuscire denaro con una formale fattura. Ipotesi di chi indaga, e non più solo inchieste giornalistiche, che hanno già avuto un effetto concreto: creare la prima frattura visibile nel governo gialloverde.

"La Lega restituisca i 49 milioni". Ora che Salvini non ha più scuse i 5S che diranno? Condannati anche in Appello Bossi e Belsito. I giudici ritengono provata la truffa ai danni dello Stato. Per questo vanno resi i rimborsi ottenuti nel periodo incriminato. E la questione non è più solo giudiziaria ma rischia di creare imbarazzo con gli alleati di governo, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine su "L'Espresso" il 26 novembre 2018. La Corte d'appello di Genova ha condannato Umberto Bossi ad 1 anno e 10 mesi, mentre per Francesco Belsito condanna a 3 anni e 9 mesi nell'ambito del processo per la maxi truffa ai danni dello Stato da 49 milioni. Per i tre revisori contabili: Stefano Aldovisi 4 mesi, Antinio Turci 8 mesi, Diego Sanavio 8 mesi. E poi la parte del verdetto più attesa: i giudici d'appello hanno confermato la la confisca dei 49 milioni di euro, la somma cioè dei rimborsi elettorali incassati irregolarmente dalla Lega. Una sentenza che creerà qualche imbarazzo agli alleati di governo della Lega. Di Maio e i grillini non potranno più fare finta di niente. E non potranno più dire è roba del passato. Dopo la doppia conferma in Cassazione, dunque, sulla legittimità del sequestro della cifra milionaria, arriva la sentenza nel merito della vicenda. Un secondo grado che conferma in pieno quanto stabilito dal tribunale di Genova più di un anno fa. Si andrà avanti, perciò, con la raetizzazione della somma da restituire allo Stato. Circa 600 mila euro al mese che la procura preleverà dai conti del Carroccio. Certo, Umberto Bossi e Francesco Belsito potranno ricorrere ancora alla suprema corte. Ma intanto è Matteo Salvini che dovrà rendere conto sul piano politico di questa decisione. Così come Roberto Maroni, anche lui beneficiario di parte dei rimborsi ottenuti con i bilanci irregolari presentati da Belsito. Prima Maroni e poi Salvini da segretari hanno percepito le due tranche di rimborsi elettorali del biennio incriminato.  Sul sito dell'Espresso avevamo pubblicato i documenti che smentivano quanto ha sempre sostenuto il ministro dell'Interno: «Non ho mai visto un euro di quella somma». Eppure le carte in nostro possesso raccontano una storia diversa. E cioè che quando Matteo Salvini è alla guida della Lega ha percepito quasi un milione di euro dei rimborsi ottenuti con la rendicontazione sballata dell'ex tesoriere Francesco Belsito.  Insomma, la questione non si può ridurre a una vecchia storia del passato. Perché riguarda, eccome, il presente del partito. «Se qualcuno ha sottratto ai fondi della Lega, 500 mila euro o 800 mila, come fai a contestarmi un finanziamento di 49 milioni, basato sul numero di voti presi?». La tesi leghista non ha retto davanti ai giudici. Ma riassume bene la posizione della Lega sulla vicenda dei quasi 50 milioni messi sotto sequestro dalla magistratura. Le stesse argomentazioni sono state ripetute dal tesoriere Giulio Centemero e dal vice premier Salvini. Da qui l’ipotesi «ci attaccano perché diamo fastidio» e le accuse ai magistrati di aver confezionato «una sentenza politica». In realtà le cose sono molto più semplici. Per capirle basta leggere la sentenza di condanna per truffa ai danni dello Stato comminata in primo grado dal tribunale di Genova lo scorso luglio contro Bossi e Belsito. E la memoria di 60 pagine depositata dall’avvocatura dello Stato in difesa di Camera e Senato, costituitesi parti civili nel processo per truffa. Per questo motivo la coppia Bossi-Belsito è stata ritenuta colpevole anche in appello. I giudici hanno stabilito di confiscare i rimborsi elettorali percepiti negli anni 2008-2009-2010 poiché i bilanci presentati dal partito in quei tre anni erano stati falsificati. «La liquidazione», si legge infatti nella sentenza, «è subordinata all’accertamento della regolarità del rendiconto». Lo prevede la legge, la numero 2 del 1997. L’erogazione dei rimborsi era vincolata alla presentazione di un bilancio regolare. Il problema è che in quei tre anni, come dimostrato al processo, i conti del Carroccio erano stati truccati. Attraverso «artifici e raggiri», si legge nella sentenza, sono state «riportate nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico». Proprio in relazione a quest’ultima frase, quella sulle spese estranee alla Lega, i giudici spiegano che «si è proceduto separatamente nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e Renzo Bossi». Questo è il punto su cui si rischia di fare confusione, per lo meno stando alle dichiarazioni di Calderoli. Perché il fatto che Bossi e colleghi abbiano speso soldi per fini personali - le lauree in Albania, ad esempio - non coincide con la truffa nei confronti dello Stato. Quella si chiama appropriazione indebita, reato per il quale il vecchio leader, l’allora tesoriere Belsito e il “Trota” sono stati condannati dal tribunale di Milano. In altre parole, i soldi che Salvini si dice disposto a mettere di tasca propria non hanno nulla a che fare con i 49 milioni messi sotto sequestro. Quelli, hanno deciso i giudici, la Lega li deve restituire perché percepiti illegalmente. Spiegato ciò, tuttavia, restano ancora parecchie ombre sul dopo Bossi e Belsito. Per esempio, che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? Che ruolo ha l’associazione “Più voci”? E perché il partito ha investito in prodotti finanziari (obbligazioni societarie e derivati) vietati per un partito politico?

Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti quasi 50 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Belsito. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali? Interrogativi che vanno oltre la sentenza sulla truffa, che travalicano la mera questione giudiziaria e diventano questione politica. Chissà la conferma in appello scuoterà gli alleati di governo di Matteo Salvini, o se continueranno a ritenere la vicenda come un'eredità del passato bossiano. Chissà se inizieranno a porsi anche loro delle domande sulle menzogne del ministro e del suo tesoriere Giulio Centemero, indagato a Roma per sospetto finanziamento illecito all'associazione Più voci da parte del costruttore Luca Parnasi. Una storia, quella della Più voci e del suo donatore segreto, che L'Espresso ha rivelato in esclusiva, ad aprile. E sulla quale molte cose non tornano.

L'eredità (tradita) del saggio Miglio, scrive Giordano Bruno Guerri, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". In vista dell'omaggio reso ieri a Gianfranco Miglio al Pirellone, ho pubblicato un cinguettio: «Oggi Miglio avrebbe 100 anni, ma se fosse vivo mi sentirei più tranquillo». Qualcuno mi chiede perché. Io invece mi chiedo perché, avendolo avuto a portata di mano tanti anni fa, non andai a cercarlo. Frequentavo l'Università (...) (...) Cattolica di Milano, la stessa dove lui è stato preside della facoltà di Scienze politiche per trent'anni, dal 1959 al 1989. Sarebbe bastato bazzicare una sua lezione per conoscerlo, parlargli, imparare. Ma c'era tanto altro da fare, lo studio, il lavoro, le ragazze e altre allegrie. I miei erano altri studi, è vero, ma mi avevano colpito i suoi su Economia e società di Max Weber, un saggio che non conoscevo e che - per la verità - pochi conoscevano. Anche i suoi studi per la Fisa (Fondazione italiana per la storia amministrativa), fondata da lui, erano eccezionali: il progetto, ambiziosissimo sotto quel nome noioso, voleva ricostruire l'evoluzione storica dello Stato moderno, dal Medioevo in poi. E anche gli «Acta Italica», una collana della Fisa, promettevano risultati notevoli: studiava l'amministrazione degli Stati italiani preunitari. Qualcosa bolliva nella grande pentola di Miglio, insomma. Ma quasi tutti ce ne accorgemmo soltanto quando diventò l'«ideologo» della Lega Nord di Umberto Bossi, ai primi successi. Furono in molti, allora, a cercare un suo saggio del 1969, fondamentale, su Le contraddizioni dello stato unitario. Vi aveva scritto, fra l'altro, che fu un clamoroso errore costringere tutte le regioni annesse a adottare le norme piemontesi. Invece Cavour, al momento dell'annessione della Lombardia, aveva voluto che la regione mantenesse una parte delle norme austriache. È quello che la Regione Lombardia sta cercando di ottenere oggi, dopo il referendum sull'autonomia. Costringere tutta l'Italia, d'improvviso, a adottare leggi e norme che andavano bene (se andavano bene) in Piemonte, fu come «far indossare a un gigante il vestito di un nano», scrisse: me ne sarei ricordato, sempre rimpiangendo di non averne parlato con lui, quando nel 2011 pubblicai Il sangue del Sud - Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio. Quella decisione sciagurata dei successori di Cavour fu appunto una delle cause della guerra civile che venne chiamata «lotta al brigantaggio». Miglio lanciò poi, negli anni Ottanta, idee sulle quali si dibatte ancora oggi, ma che allora nessuno prese in considerazione: l'elezione diretta del capo del governo insieme a quella della Camera, maggiori poteri al primo ministro, fine del bicameralismo perfetto, Senato delle regioni. Con un'altra sua anticipazione degli anni Ottanta, al crollo del Muro, intuì che - con l'aumentato benessere dovuto all'economia di mercato e alla tecnologia - il cittadino avrebbe avuto sempre meno fiducia nell'apparato statale e nella sua lenta, complessa burocrazia: e che sarebbero nate nuove forme di aggregazione politica, capaci di mettere in crisi i partiti. E infatti esplode il successo di Bossi e della Lega, figli inconsapevoli di Miglio, che aveva teorizzato già negli anni Quaranta un'Italia fatta di tre grandi regioni federate, sul modello svizzero. Divenuti adolescenti, Bossi e la Lega rigettarono il padre, dopo averlo fatto diventare senatore. Normale: loro volevano conquistare il potere, da politici, lui voleva costruire lo Stato ideale, da studioso. Litigarono fino al pubblico scambio di insulti, anticipatori anche in quello. Il suo sorriso ironico e grintoso, il suo parlare direttissimo spiazzavano: «Un partito non è molto diverso da una cosca mafiosa, anche se è fatto di santi, perché implica, a un certo punto, un rapporto di omertà». I partiti, gli intellettuali, i giornali, lo temevano come un cane rabbioso, e si capisce: metteva in piazza qualcosa che era nell'aria, ma che si preferiva far finta di non vedere. Trovai irritante che si attaccasse in un simile modo un pensatore, anche se faceva politica e, insieme a Claudia Rocchini, pensammo di tirare uno scherzo a Cuore, il più accanito denigratore di Miglio. Fabbricammo una notizia falsa (un appunto autografo che Claudia girò a Michele Serra, dicendogli che l'aveva trovato sotto il letto di Miglio, malato in ospedale). Era la dichiarazione d'indipendenza della Padania e Cuore la pubblicò clamorosamente in tutta la prima pagina, a fine ottobre 1993. Peccato per Cuore che lo stesso mattino ci fosse in edicola il Giornale con - sempre in prima pagina - la notizia che lo scherzo era riuscito: in realtà quel testo era di Lenin. Miglio avrebbe voluto costituire un laboratorio politico, composto da studiosi che elaborassero regole completamente nuove per la convivenza civile. C'era, in Italia, negli stessi anni Novanta, un'altra studiosa che voleva la stessa cosa e che pubblicò Per una rivoluzione italiana. Ida Magli cercò di seminare le sue idee con i potenti, da Berlusconi in giù. Ci riuscì con Bossi e Miglio, ma non ne venne fuori nulla. Lei, così rivoluzionaria da essere sbalzata fuori dall'università, non si accontentava di voler riformare le istituzioni, voleva cambiare la società, il mondo di vivere, di imparare, di insegnare. Diceva dell'Europa, a metà degli anni Novanta, ciò che gran parte degli italiani avrebbero cominciato a dire quindici e vent'anni dopo, inascoltata se non sbeffeggiata. Un'altra Cassandra. Tutti e due non potevano che essere scansati dalla politica. Adesso mi chiedono, da Twitter, perché sarei più tranquillo se Miglio fosse ancora vivo. Perché, a voi una maggiore presenza in politica dell'intelligenza, della sapienza, della capacità di guardare oltre, non tranquillizzerebbe?

«I Pm come in Turchia» Salvini furioso per la Diciotti e i 49 milioni. Carabinieri al Viminale, ira del ministro: “Io sono stato eletto, i giudici no”, scrive Simona Musco l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «È arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Matteo Salvini annuncia in diretta Facebook di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, nello stesso giorno in cui le forze dell’ordine avevano “dato la caccia” ai migranti della Diciotti fuggiti da Rocca di Papa. «Qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi».

LE DICHIARAZIONI. «Mi è arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Con queste parole il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, annuncia ufficialmente, in diretta Facebook, di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, dichiarandosi disponibile ad andare «a piedi a Palermo anche domani a spiegare cosa ho fatto, perchè l’ho fatto e perchè lo rifarei. Io avrei privato della libertà questi migranti che sono scomparsi, che non vogliono farsi identificare», presegue il capo del Carroccio. «Ci sarà sicuramente qualcuno, Boldrini, Renzi, Boschi, Saviano, Chef Rubio, che staranno festeggiando. La maggior parte degli italiani invece non festeggia», è convinto. Ma il problema, per il vice premier, è che «qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi», spiega in diretta. «A questo ministro avete chiesto di controllare i confini, contrastare gli sbarchi clandestini. Non sono preoccupato nè terrorizzato. continuerò a fare oggi, domani e in futuro. Non mi toglie il sonno; ecco, lo appendo qua, una medaglietta». Salvini, già imbufalito dalla sentenza del Riesame di Genova che conferma il sequestro dei fondi del suo partito – unico precedente «in Turchia», ironizza – vuole sfruttare politicamente la situazione. «Non mollo di un millimetro, non si molla di un millimetro, se gli italiani mi chiedono di andare avanti, io vado avanti. E se domani dovesse arrivare un’altra nave, non sbarcano. In questo ufficio si sta facendo quello che altri in 5 anni non hanno fatto», dice. «Grazie al procuratore di Palermo, di Agrigento e di Genova, rispetto il vostro lavoro, fate bene e in fretta. Un bacione e buon venerdì sera a tutti».

LE REAZIONI. Si smarca il vicepremier Luigi Di Maio, presagendo il conflitto che potrebbe attanagliare i 5 Stelle che sul fronte della giustizia sono sempre stati sensibili: “Non si possono sostenere le accuse ai magistrati”. Corre ai ripari anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Il ministro dell’Interno può ritenere che un magistrato sbagli ma rievocare toghe di destra e di sinistra è fuori dal tempo. Non credo che Salvini abbia nostalgia di quando la Lega governava con Berlusconi. Chi sta scrivendo il cambiamento non può pensare di far ritornare l’Italia nella Seconda Repubblica”. Immediata la replica anche dell’Anm: “Le dichiarazioni di oggi del ministro dell’Interno, intervenute dopo la notifica degli atti da parte della Procura di Palermo in merito alla vicenda della nave Diciotti, rappresentano un chiaro stravolgimento dei principi costituzionali, che assegnano alla magistratura il compito e il dovere di svolgere indagini ed accertamenti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è titolare di cariche elettive o istituzionali”. Il vicepresidente del Csm Legnini: “Giudici legittimati dalla Costituzione, non dal voto”. Pd all’attacco, Renzi: “Leader Lega farnetica, da lui idee aberranti”.

Salvini indagato per sequestro di persona Lui: "Sui migranti non mollo". Il ministro accusato di sequestro di persona aggravato per la vicenda Diciotti: atti trasmessi al tribunale dei ministri, scrive Chiara Sarra, Venerdì 7/09/2018 su "Il Giornale". Dopo quello di Agrigento, pure il pm di Palermo ha deciso di indagare Matteo Salvini per la vicenda della Diciotti, a cui fino al 25 agosto fu impedito di attraccare al porto di Catania e far sbarcare i migranti recuperati nel Mediterraneo. Il reato contestato al ministro dell'Interno è quello di sequestro di persona aggravato. Reato che - recita la comunicazione arrivata al vicepremier - è stato "commesso nel territorio siciliano fino al 25 agosto 2018, in pregiudizio di numerosi soggetti stranieri". Gli atti sono quindi stati trasmessi al tribunale dei Ministri, l'unico organo che ha la competenza di indagare su un membro del governo. Salvini ha voluto aprire l'atto trasmesso dal tribunale di Palermo in diretta Facebook, rispondendo immediatamente alle accuse rivoltegli dalla magistratura. "Vado a memoria, ma credo che saranno almeno 15 anni di galera come pena massima di galera, a cui bisogna aggiungere le aggravanti", ha detto Salvini parlando a chi lo seguiva sui social, "Un organo dello Stato ne indaga un altro. Con la differenza che io sono stato eletto da voi cittadini, miei complici. Altri non sono eletti da nessuno e non rispondono a nessuno". Po si è rivolto ai magistrati: "Interrogatemi domani, vengo a piedi domani, vi spiego perchè lo rifarei", ha aggiunto Salvini, "Non ho tempo da passare con gli avvocati. Non mi toglie il sonno, questo foglio lo appendo nel mio ufficio: medaglietta. Venitemi a trovare a san Vittore con le arance, ma io non mollo di un millimetro finchè gli italiani mi chiedono di andare avanti. E se domani dovesse arrivare un'altra nave carica di clandestini in Italia non sbarca. Dopo la Diciotti non è arrivata nemmeno una nave".

Secondo fonti del Viminale, il ministro vuole farsi difendere dall'Avvocatura dello Stato.

Gian Carlo Caselli: «Difendo Patronaggio: è in corso una crociata antigiudiziaria». Intervista all’ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli, che analizza la polemica che si sta consumando intorno all’inchiesta sulla nave Diciotti. Intervista di Giulia Merlo del 29 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Sì, è ancora in atto una crociata antigiudiziaria senza eguali». Ne è convinto Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta. L’analisi parte dall’inchiesta agrigentina sulla nave Diciotti, che ha riaperto la ferita del conflitto tra magistratura e politica, eppure Caselli non se ne stupisce: «La storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati che adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno».

L’iniziativa del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che ha indagato il ministro Matteo Salvini per la gestione del caso della nave Diciotti, ha diviso le opinioni sia della classe politica che della magistratura. Lei ha condiviso la scelta del pm?

«Premetto che mi sono sempre astenuto dal prendere posizioni specifiche su inchieste in corso. Pertanto, anche in questo caso mi limiterò a considerazioni generali e astratte. Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. E’ vero che a questa concezione di democrazia una “robusta” corrente di pensiero vorrebbe sostituirne un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti. Ma il perimetro rimane sempre quello della Costituzione vigente. Quindi se “la sovranità appartiene al popolo” - il che significa che in democrazia chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto- dovere di operare le scelte politiche che vuole – è chiaro anche che ogni potere democratico incontra dei limiti prestabiliti, che la nostra Costituzione fissa fin dal suo primo articolo, là dove stabilisce che la sovranità si “esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”».

E questo come si traduce nel caso di specie? Per il ministro Salvini è stato ipotizzato il reato di sequestro di persona.

«Uno dei limiti di cui dicevo è scolpito nell’articolo 13 della Carta, che proclama “la libertà personale è inviolabile”, nel senso che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Dunque, il primo interrogativo che ci si deve porre – tenendo conto anche delle regole che la comunità internazionale ed i singoli stati si sono date, a partire dalla Convenzione di Amburgo del 1979 – è se vi sia stata o meno lesione del principio dell’inviolabilità della libertà personale ( con le eventuali conseguenze sul piano processual- penale) nella fattispecie della nave Diciotti, col suo “carico” di persone bloccate a bordo per giorni e giorni per disposizione del ministro degli interni. In altre parole, si tratta di stabilire se il caso in esame appartiene alla sfera della dignità e dei diritti di tutti, una sfera non decidibile, cioè sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi ( una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia».

Lei ritiene sia così?

«Senza entrare nel merito, che sarà verificato nelle successive fasi di giudizio, le rispondo che nel nostro ordinamento l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e la legge uguale per tutti: per cui definire infondata l’iniziativa della procura agrigentina sarebbe quanto meno azzardato».

L’iniziativa del procuratore Patronaggio ha avuto enorme risalto mediatico e le immagini di lui che sale sulla Diciotti hanno colpito molto. Ritiene si possa parlare di spettacolarizzazione di quest’iniziativa giudiziaria?

«Il procuratore di Agrigento, ispezionando la nave, ha compiuto un atto necessario ed utile per valutare in presa diretta la situazione sulla quale eventualmente intervenire. Se fosse rimasto chiuso nel suo ufficio mentre la tempesta imperversava avrebbe dimostrato insensibilità. Invece, conoscere per meglio giudicare è la strada giusta per i magistrati non burocrati che si ispirano, oltre che al rispetto delle regole, anche all’etica della responsabilità. Certo è che in questo modo ci si espone e si può diventare protagonisti senza protagonismo. Semplicemente facendo il proprio dovere».

La procura di Agrigento, tuttavia, è stata oggetto di attacchi dopo l’iniziativa. È il prezzo da pagare, oggi, per ogni pm che indaga su vicende al centro del dibattito pubblico?

«Con “Tangentopoli” e “Mafiopoli” si è registrata la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti”. Costoro non potevano rimanere indifferenti. E difatti hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali».

C’è chi parla, all’inverso, anche di crociata “antipolitica” da parte della magistratura.

«Ma è un paradosso. Se un magistrato si occupa di un politico, ricorrendo gli estremi in fatto e in diritto di un’accusa di corruzione o collusione con la mafia, subito scatta il riflesso pavloviano secondo cui a fare politica sarebbe il magistrato. Ma c’è di peggio. Non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si è assistito nel nostro Paese, con un crescendo impressionante: un diluvio quotidiano di insulti e calunnie volgari, da osteria, ma ossessivamente riproposti fino a trapanare i cervelli. E si sa che a forza di ripeterle anche le fandonie più clamorose finiscono per sembrare vere. Contemporaneamente, ha preso a dilagare l’idea, terribilmente italiana, di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé. Infine, si è verificata l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Fino al punto, che si è verificato proprio nel caso di cui stiamo parlando, che un importante esponente politico del Carroccio abruzzese ha minacciato i magistrati con parole vergognose: «Se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa… occhio». Si è tornati alle intimidazioni squadristiche».

Volendo fare l’avvocato del diavolo, verrebbe da dire che la magistratura come categoria ha avuto reazioni diverse all’iniziativa di Patronaggio. L’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, ha scritto che "L’idea che le Procure possano intervenire nella scelte migratorie è non solo bizzarra, ma irrazionale ed ingestibile".

«La magistratura, per quanto mi risulta, si è schierata compattamente a difesa dell’indipendenza dei magistrati di Agrigento. Questo e non altro, insieme alla tutela dei diritti di tutti attraverso il doveroso controllo di legalità, è il fulcro del problema».

Allargando lo spettro, ritiene che questa sia stata la proverbiale goccia che ha fatto di nuovo traboccare il vaso, infiammando di nuovo lo scontro tra magistratura e politica?

«Una delle maggiori anomalie italiane degli ultimi 25 anni è stata il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro, la difesa non tanto “nel” quanto piuttosto “dal” processo, con una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura» da parte di pezzi di Stato – e mi riferisco a inquisiti “eccellenti” o comunque soggetti forti mentre in passato a praticarlo erano sue antitesi, vale a dire opposizioni radicali, fino alle “Brigate rosse”. Dunque, la storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati “scomodi”, perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno e con “troppa” indipendenza. Questo malvezzo si è articolato anche a colpi di leggi ad personam, lodi assortiti, commissioni bicamerali e sistematici dinieghi di autorizzazioni a procedere. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio».

Una patologia di sistema, in cui lei non distingue tra governi di destra e sinistra?

«Io credo si sia disegnato un vero e proprio circolo vizioso che ha coinvolto trasversalmente le forze politiche, alcune più attive e altre meno, ma in ogni caso tutte interessate a limare le unghie della magistratura. Un circolo vizioso che si dovrebbe spezzare nell’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale».

Tornando all’oggi e dunque al nuovo governo, l’Anm ha chiamato in causa il Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Secondo lei avrebbe dovuto intervenire in modo più forte in difesa della magistratura?

«Alla fine il ministro della Giustizia qualcosa ha detto, sia pure con un certo ritardo e attestandosi sul minimo sindacale».

Il ministro Salvini, invece, ha parlato di necessità di una riforma della giustizia. È strumentale farlo in concomitanza di un’inchiesta a suo carico?

«Mi preoccupa che abbia parlato dell’inchiesta di Agrigento come di un possibile “boomerang”. Se voleva dire – ma spero non volesse farlo – che ne deriverà una riforma della giustizia, mi limito ad osservare che le riforme “ab irato” sono sempre le peggiori».

La giustizia già è o potrebbe diventare il banco di prova di questo governo?

«Sono 58 le cartelle del “contratto per il governo” grillo- leghista. Una dozzina, quasi il 20%, riguardano la “giustizia rapida ed efficiente” e altri temi a vario titolo connessi, come la corruzione, i reati ambientali, l’ordinamento penitenziario, la sicurezza nelle sue molteplici declinazioni eccetera. In generale si tratta di linee guida piuttosto generiche e talora persino ambigue o fumose. Soltanto ove e quando fossero tradotte in specifici e articolati progetti concreti sarà possibile valutarne la portata effettiva, le implicazioni e gli effetti. Qualcosa di chiaro, però, c’è».

Che cosa?

«Trovo che sia precisa e ben articolata la linea di intervento in tema di corruzione, con una sequenza di misure forti: l’inasprimento delle sanzioni; l’esclusione dei riti alternativi; la previsione del cosiddetto Daspo e dell’agente sotto copertura; la valutazione dell’agente provocatore; la tutela del Whistleblower e l’ampliamento della possibilità di intercettazioni. Nel complesso si tratta di un pacchetto idoneo a conseguire l’obiettivo fondamentale in materia: rendere la corruzione sempre meno appetibile e non – come oggi – decisamente conveniente in base al calcolo costi/ benefici».

C’è altro che la convince?

«Paradossalmente, la cosa più positiva del “contratto” è un’omissione. Vale a dire che non parla di separazione delle carriere fra pm e magistrati giudicanti, uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi & company».

Eppure il dibattito è ancora aperto, per lo meno in ambito giuridico.

«Checché se ne dica, è dimostrato che il risultato ineludibile e verificabile di tale separazione – ovunque nel mondo – è la dipendenza del pm dal potere esecutivo, che influisce sull’azione penale con ordini o direttive vincolanti. Un grave pericolo per l’indipendenza della magistratura italiana scolpita nella Costituzione come premessa all’effettiva uguaglianza dei cittadini, anche perché nel nostro paese le “tentazioni” di certa politica, corrotta o collusa col malaffare, sono sempre dietro l’angolo. Non tenerne conto sarebbe – per gli onesti – un’astrazione masochistica. Ovviamente, va ricordato che la separazione delle carriere è cosa ben diversa da quella delle funzioni, ormai una realtà acquisita dal nostro ordinamento».

Aquarius e migranti, l'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Salvini. L'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Matteo Salvini sul caso Aquarius e sulla politica migratoria. E il ministro dell'Interno lo cita al Senato, scrive Giovedì 14 giugno 2018 Affari italiani. Un importante nome della giustizia italiana dà ragione a Matteo Salvini sulla vicenda Aquarius. Stiamo parlando dell'ex magistrato Carlo Nordio, uno che di legge se ne intende insomma. Lo ha fatto in un articolo pubblicato su il Messaggero dal titolo "Diritto e diritti/ La lezione che nessuno può dare al nostro Paese". Una presa di posizione molto importante che ha portato lo stesso ministro dell'Interno a citare l'articolo durante l'informativa in Senato sul caso Aquarius: "Ringrazio l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio" ha detto Salvini, "che ha scritto un articolo che mi ha confortato". Ma che cosa dice Nordio? "Il diritto internazionale, come tutto il diritto, non è una scienza esatta, e su ogni questione esistono opinioni diverse, e addirittura opposte", scrive l'ex pm di Venezia. "L’ultimo esempio lo abbiamo avuto poche settimane fa, quando illustri costituzionalisti, anche appartenenti alla stessa area culturale, si sono divisi sulla legittimità del veto posto dal Presidente Mattarella alla nomina del professor Paolo Savona. Nel diritto internazionale, tuttavia, esistono alcuni punti fermi, che risalgono ai tempi di Ugo Grozio, cioè alle prime teorizzazioni di questa disciplina. Sono i seguenti: 1) pacta sunt servanda; 2) rebus sic stantibus; 3) bona fides". In merito al diritto internazionale sui migranti, Nordio scrive: "I trattati sono molti, e ambigui. (...) Tutti comunque concordano nell’imporre l’obbligo, in caso di soccorso in mare, di trasferire i naufraghi in un porto sicuro. Quello di Dublino ha un oggetto diverso: prevede i doveri dello Stato di prima accoglienza. Ma restiamo al salvataggio dei naufraghi. La nave olandese (o tedesca, non si è capito) ha tratto in salvo i migranti al largo delle coste libiche: i porti più sicuri e (vicini) erano in Tunisia e a Malta, paesi pacifici che garantiscono il rispetto dei diritti umani. Perché allora portarli in Italia? Perché, si dice, l’Italia avrebbe coordinato le operazioni di salvataggio. Ma questo non è previsto dalla legge del mare, che parla, appunto, solo del porto più sicuro". "Ammettiamo, per assurdo, che questo nostro obbligo esista", prosegue Nordio. "Orbene, la disciplina dei naufraghi si applica a coloro che, in circostanze occasionali e impreviste si trovano in pericolo d vita. Ora è indubbio che i poveretti soccorsi in questi giorni versassero in pericolo. Alcuni, temiamo, saranno anche annegati. Ma è possibile affermare che queste navi tedesche battenti bandiere olandesi ( o viceversa), che incrociano a poche miglia dalla Libia e spesso sono in contatto con gli scafisti, è possibile, dicevo, sostenere che raccolgano “naufraghi”, o non piuttosto disgraziati cacciati in quella carrette secondo programmi elaborati da organizzazioni criminali? Ed è possibile che gli Stati di partenza, e anche quelli di bandiera delle navi, siano davvero ignari di questo traffico sciagurato? E allora da che parte sta la buona fede, che dovrebbe presiedere all’interpretazione e all’esecuzione dei trattati?". Nordio passa poi all'aspetto politico: "Il presidente Macron non ha nessun titolo per impartire lezioni di morale. Le vergogne di Calais e di Ventimiglia, dove i francesi hanno tenuto ammassati migliaia di migranti, fanno il paio con la macroscopica violazione della nostra sovranità con l’arrogante sconfinamento dei “gendarmes” a Bardonecchia. Ma la Francia non è l’unica. I primi a chiudere le frontiere sono stati i “progressisti” Stati baltici, la Svezia e la Danimarca. Poi la Gran Bretagna ha chiuso Dover, quindi tutta l’Europa dell’est ha sbarrato i confini, e l’Austria ha minacciato i carri armati al Brennero. L’Italia, ormai è quasi banale dirlo, è stata lasciata a sbrigarsela da sé". Dunque, conclude Nordio, "il nostro nuovo governo si sta comportando con coerenza e dignità. I migranti raccolti dall’Aquarius sono, e sarebbero stati comunque, assistiti: il ministro Salvini aveva anche proposto lo sbarco delle donne incinte e dei bambini. E’ comprensibile che l’Europa si rammarichi di aver perso il nostro universale centro di raccolta che la esonerava da tanti impegni umani e finanziari, ma deve farsene una ragione. E in effetti qualcosa si sta muovendo. Dopo una politica di remissività passiva, occasionalmente corretta dal ministro Minniti, alzare un po’ la voce non fa male". Insomma, la linea di Salvini promossa a pieni voti.

Ma il razzismo peggiore è quello dei buonisti, scrive Karen Rubin, Sabato 08/09/2018, su "Il Giornale". Esistono due forme di razzismo: manifesto, vecchio stile, carico di sentimenti ostili che impediscono qualsiasi forma di contatto con il migrante, e latente, più sottile, che si esprime in forme socialmente accettabili. Gli episodi di razzismo, dell'uno e dell'altro tipo, scaturiscono da un'ipotesi naïf per cui tunisini, ghanesi, siriani e nigeriani, a prescindere dalla loro singolarità e dallo status, di migranti o di rifugiati sarebbero tutti uguali: criminali alla ricerca di ricchezze facili o vittime miserabili in fuga dalla guerra e dalla povertà. Stereotipi che creano un pregiudizio da ambo le parti, avvalorato da una politica che oggettivizza il migrante come strumento per creare una contrapposizione ideologica tra presunti comunisti schierati con i deboli, e supposti fascisti odiatori dello straniero, categorie che non esistono più. Nel razzismo manifesto il migrante va rispedito al mittente, anche se il luogo da cui fugge è stato raso al suolo e imperversano guerre intestine. In quello latente il razzista dichiara solo quello che andrebbe fatto, accogliere tutti in nome dell'umanità e dell'uguaglianza tra i popoli e mai quello che realisticamente è possibile fare. L'intolleranza palese nasce quando chi accoglie ritiene insufficienti le risorse economiche e culturali finanche per se stesso, e alla luce di questa competizione ritiene legittimo difendere l'interesse del suo gruppo sociale. Il buonista convinto di combattere il razzismo lo alimenta, negando l'esistenza dei «buoni» da accogliere e dei «cattivi» da rispedire al mittente salva i secondi penalizzando e discriminando i primi. A livello conscio è egualitario ma inconsciamente è razzista perché nasconde un pregiudizio che trasforma ogni africano in un bisognoso del suo aiuto perché da solo, nel suo Paese mai progredirà. L'immigrato senza distinzioni d'identità sociale, culturale e nazionale, deve fuggire da casa sua e ritrovarsi in una baracca a Rosarno dove troverà un'accoglienza fatta di clandestinità, assenza di un lavoro dignitoso e di una casa in cui dormire perché anche l'Italia peggiore è migliore del Paese da cui proviene. In nome di questo pregiudizio all'immigrato e alle minoranze è perdonata l'illegalità. Lasciare che i rom trasformino i loro campi in zone franche dove tutto è possibile e nessuno può entrare non è egualitario, è razzista. Si autorizzano ghetti dove lo zingaro non ha doveri ma neanche pari diritti di sicurezza, e i ghetti generano razzismo. Il razzista latente è solidale al punto da non tollerare una giusta politica di regolamentazione dell'immigrazione, volta ad interrompere un traffico di esseri umani che frutta alle mafie mondiali 150 miliardi di dollari l'anno, di cui neanche uno andrà ai paesi africani che così perdono la loro forza lavoro e la loro gioventù e con loro la possibilità di un futuro.

Caso Salvini indagato: quando l’ipocrisia trapassa le nuvole e sfonda la cupola del cielo, scrive Enzo Sanna martedì 28 agosto 2018 su Agora Vox. Ci siamo arrivati! Il punto di non ritorno sembra essere stato raggiunto. Superfluo riassumere la nota vicenda della richiesta di messa sotto accusa di Salvini per i reati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. La faccenda è arcinota. Chi ipotizzava (ed evocava) epocali cambiamenti a opera del governo grillino-leghista è servito. Chi già sapeva della truffa mediatica, o anche chi solo l’aveva intuita, oggi si può concedere un attimo d’ilarità, tanto amara, d’accordo, ma pur sempre accompagnata da una sonora risata liberatoria. Chi ha assistito al comizio di Salvini (andate a rivederlo in TV) a distanza di pochi minuti da quando gli è giunta notizia dell’operato della Magistratura nei suoi confronti, avrà colto in pieno il patema d’animo dell’uomo il quale, a caldo, forse non ancora istruito in merito dai suoi “consigliori”, sparava dal palco le solite trite e ritrite stupidaggini, ma ansimante, stordito, impaurito. E sì! Il “condottiero” se la stava facendo addosso. Altro che uomo forte, difensore degli italiani e dell’italianità, sfidante la magistratura; costui è apparso infine per ciò che è in realtà: un pallone gonfiato, un bulletto che cerca (e purtroppo trova) schiere di bulletti in giro per l’elettorato, gli stessi che gonfiarono di consensi prima Berlusconi, poi Renzi, poi Grillo e lui, Salvini. Vale per costoro, Berlusconi, Renzi, Salvini e Grillo (lasciamo al posto che meritano le mezze cartucce del M5S) ciò che potremmo definire il “paradosso del dirigibile”. Ai loro tempi, i dirigibili furono ammirati, invidiati, osannati, perfino venerati, sino a che una scintilla li trasformò un giorno in un inferno di fuoco, al pari dei loro inventori e realizzatori nazisti. Definire Salvini (o Grillo, o Renzi, o Berlusconi) un dirigibile può apparire esagerato. Però, fatte le dovute proporzioni, considerare l’attuale Matteo, al pari del suo omonimo predecessore e del mentore di entrambi, di nome Silvio, un palloncino gonfiato pronto a esplodere alla prima spina di rovo che incrocia il suo svolazzare, rende bene l’idea. Il paradosso è destinato a divenire paradigma? Passato il primo istante di confusione mentale procurata dalla paura, Salvini, di certo imboccato dal suo staff, si atteggia ora a vittima, avendo metabolizzato nel frattempo la assoluta certezza di trovarsi nella classica botte di ferro. Lui, povera vittima, fa parte degli impunibili, grazie ai suoi scudieri, alla sponda in Parlamento dei reduci berlusconiani e degli autodefinitisi Fratelli d’Italia, nonché (ve ne stupite?) dei grillini; per essere sintetici, dell’intero schieramento parafascista. I grillini mostrano finalmente al Paese il loro vero volto, quello degli imbroglioni; gli altri il volto che hanno sempre avuto. Martina, segretario del PD, accusa i grillini di servilismo nei confronti di Salvini, ma sbaglia; è qualcosa di molto peggio, è collusione. Toc toc… Provate a bussare alle porte del grillini “duri e puri”, quei forcaioli che si dicevano pronti a rivoltare la società in nome di una giustizia che in un tempo non troppo lontano somigliava tanto al giustizialismo. Dove sono finiti? Costoro, l’inconsistente Di Maio in testa, plaudono Salvini, gli assicurano salda l’immunità parlamentare, al pari degli altri fascistoidi in Parlamento, dai Fratelli d’Italia ai reduci berlusconiani in una sorta di “brodo primordiale” andato a male, del quale i putridi effluvi iniziano a permeare la società intera. Salvini godrà dell’immunità, dunque continuerà a fare e a disfare non solo su faccende riguardanti il Ministero al quale è stato nominato, ma scantonando ben oltre, dato che il presunto Presidente del Consiglio, tale Conte Giuseppe, latita, ben felice di dormire sonni tranquilli, tanto per lui non c’è problema. L’indimenticabile Fortebraccio, il corsivista dell’Unità quando il giornale era ancora di sinistra, avrebbe descritto così il Presidente Giuseppe Conte all’atto di apparire nella sala del Consiglio dei Ministri: “La porta si aprì. Non entrò nessuno. Era il Presidente Conte.” L’ultima “stellare” ipocrisia sulla vicenda si consuma nella dichiarazione di Salvini di rinuncia all’immunità parlamentare, ben sapendo che il cosiddetto “Tribunale dei Ministri” se ne può infischiare (?) dei suoi propositi falsamente dichiarati, della serie, prendiamo ancora per i fondelli gli italiani, tanto sono assuefatti alla vasellina. A tanto siamo ridotti! L’ipocrisia grillo-leghista ha raggiunto livelli “celesti” che neppure i ciechi mentali potranno ignorare di aver visto. A tal punto non è fuori tema rivolgerci la seguente domanda: in questo contesto, che fine ha fatto la sinistra, quella vera? Chissà! Ci dovremo affidare alla trasmissione RAI “Chi l’ha visto”, oppure qualcuno individuerà una sponda sulla quale approdare iniziando a mettere a dimora le semenze di una nuova cultura progressista, solidaristica, umanistica e socialista?

Salvini e la Lega sono nel mirino, scrive Marco Bertoncini. Italia Oggi, numero 212, pag.4 dell'8 settembre 2018. Sul piano giudiziario la partita giocata sui 49 milioni da sottrarre alla Lega non è ancora chiusa, tanto c'è chi ritiene che la Cassazione potrebbe trovare valide le tesi sostenute dai legali del movimento. Del resto, la pensano così non pochi giuristi, laddove Il Foglio, quasi fotocopia del Fatto, s'intestardisce nell'annichilire la posizione del Carroccio perfino sotto l'aspetto di stretto diritto. Sul piano mediatico passa la bufala che l'importo milionario sia stato truffato dai leghisti sottraendolo alle casse dello Stato. Ciò non giova all'immagine della Lega, perché una larga maggioranza d'italiani è giustizialista, anche fra gli elettori di Matteo Salvini. Sul piano governativo, i grillini, che in altre circostanze si sarebbero scatenati in nome del più forcaiolo giacobinismo, abbozzano. Non possono far altro se non ripetere l'assunto del rispetto per la magistratura, stante pure la propensione pentastellata per i più colpevolisti fra i magistrati (del tipo: è indagato, è colpevole, è un morto civile). Sul piano storico, assistiamo a un nuovo episodio della guerra fra magistrati e politici che ha trovato il culmine nella lotta a Silvio Berlusconi. Non c'è bisogno di parlare di complotti, di azioni guidate, di coordinamento tra poteri forti. È sufficiente che singoli magistrati, procuratori ma non solo, usino i propri poteri per schiacciare quelli che considerano avversari, sovente gettando le fondamenta per una successiva e lucrativa carriera politica. Lo strumento di cui si possono servire è il più confacente: il diritto. Nulla oggi è più stiracchiabile di una legge, sovente interpretabile ad libitum per l'oscurità che la caratterizza (la condanna della Lega ne è un esempio).

«Gli italiani sono con me». Salvini sfida il Riesame. Confermato il ricorso: sequestrati i fondi del Carroccio, scrive Rocco Vazzana l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Temete l’ira dei giusti». Inizia così il post con cui Matteo Salvini commenta le notizie che arrivano da Genova, dove il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso della Procura, autorizzando il sequestro dei fondi della Lega. Gli inquirenti cercano 49 milioni di euro milioni di euro di rimborsi elettorali non dovuti per cui sono stati condannati in primo grado l’ex segretario Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Il sequestro preventivo ha «il fine di ristabilire l’equilibrio economico alterato dalla condotta illecita», scrivono i giudici del Riesame, convinti che il partito di Salvini abbia tratto un indiscutibile vantaggio patrimoniale dalle somme confluite nelle sue casse. Ma il ministro dell’Interno non gradisce affatto il responso che di fatto congela l’attività politica della Lega. «Lavoro per la sicurezza degli Italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa», scrive sui social. «Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro con ancora più voglia. Sorridente e incazzato». I toni prudenti di qualche giorno fa hanno lasciato il posto a un attacco duro nei confronti della magistratura. «Se vogliono toglierci tutto facciano pure, gli italiani sono con noi», ammonisce il vice premie. «Spero che la procura di Genova impegni il suo tempo sul disastro dell’autostrada». Anche se Salvini si dichiara assolutamente «tranquillo», la notizia imbarazza comunque la maggioranza di governo. Il Movimento 5 Stelle, da sempre paladino della legalità senza se e senza ma, si sente in dovere di scagionare l’alleato di governo tra i mugugni dell’ala dura e pura del partito. «I fatti riguardano il periodo antecedente alla gestione della Lega da parte di Matteo Salvini», dice il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, assicurando tutti sulla tenuta del governo. La sentenza «fornisce ai magistrati tutti gli strumenti per reperire i fondi. Come ho sempre detto in questo momento i fatti di cui viene accusata Lega risalgono ai tempi di Bossi. Le sentenze si rispettano e si va avanti», dice il capo grillino, in sintonia con quanto dichiarato poco prima dal presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che poco prima aveva preso atto di come «diventa difficile svolgere l’attività politica nel momento in cui non c’è la possibilità di avere risorse finanziarie». Ma se il governo fa quadrato attorno al segretario del Carroccio, per le opposizioni di sinistra il sequestro dei conti diventa il pretesto per attaccare a testa bassa la maggioranza. «Ufficiale: la Lega Ladrona ha fatto sparire 49milioni», twitta Matteo Renzi. «Salvini dice: “Mi spiace, non li ho più, ma tanto gli italiani sono con noi”. Ma come? Qui si parla di sentenza, non di sondaggi. Un Ministro non rispetta una sentenza? E i cinque stelle? Tutti zitti per tenersi la poltrona?». Poco dopo tocca a Maria Elena Boschi rilanciare: «Mi hanno massacrata due anni per un incontro con un dirigente di banca. Per un incontro! Se invece rubassi 49 milioni e mi rifiutassi di restituirli, cosa mi farebbero? Lega Ladrona», scive sui social l’ex ministra. E per il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza, «nessuno può sentirsi al di sopra della legge per le funzioni che ricopre o il consenso che ha». Con la Lega si schiera invece apertamente tutto il vecchio centro destra. La capogruppo dei deputati azzurri, Mariastella Gelmini, esprime piena «solidarietà agli amici ed alleati del Carroccio», dice. «Trovo ingiusto che un movimento politico paghi un conto così salato a causa di comportamenti personali di ex dirigenti. Una comunità non può rispondere di colpe dei singoli. Non si può sequestrare un partito». Anche Giorgia Meloni si schiera senza indugi: «Non sarà una sentenza ingiusta a fermare l’azione politica di un partito», dice la leader di Fd’I.

Le toghe rosse all'attacco: "Da Salvini parole eversive e intimidatorie". Magistratura Democratica contro Salvini: "Da lui parole eversive e intimidatorie". L'Anm: "Stravolge principi costituzionali", scrive Chiara Sarra, Venerdì 07/09/2018, su "Il Giornale". "Le parole di Salvini sono eversive e intimidatorie". L'affondo arriva da Magistratura Democratica, l'associazione dei magistrati di sinistra, che punta il dito contro il vicepremier dopo la sentenza del Riesame che ha confermato il sequestro di 49 milioni di euro alla Lega. "Non siamo di fronte alla valutazione critica di provvedimenti e di iniziative giudiziarie che in uno stato di diritto è legittima ed essenziale, ma ad affermazioni inaccettabili, che evidenziano toni e contenuti intimidatori", attaccano Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, "L'accusa alla magistratura di intervenire per scopi politici e di agire per ribaltare le scelte compiute democraticamente dagli elettori ha una portata eversiva, e realizza una grave interferenza rispetto all'esercizio delle prerogative che alla giurisdizione spettano a tutela dei diritti e della legalità". Ieri, dopo la pronuncia della sentenza, Matteo Salvini aveva evocato "l'ira dei giusti", ricordato ai magistrati che pur svuotando le casse della Lega sarebbero rimasti gli elettori: "Lavoro per la sicurezza degli Italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa", aveva detto il leader del Carroccio e ministro dell'Interno, "Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato". Segretaria e presidente di Magistratura Democratica sostengono invece che "contrapporre l'accertamento giudiziario alla volontà espressa dal consenso elettorale significa riproporre una visione falsamente democratica del potere come immunità dal controllo di legalità, svolto da un'autorità giudiziaria indipendente". "La magistratura è consapevole e attenta ai limiti delle sue funzioni e non si interessa di chi esercita la funzione di indirizzo politico", dicono, "Come in passato, temiamo la pretesa di esercitarla al di fuori dei vincoli che pone la Costituzione a tutela dell'eguaglianza di tutti di fronte alla legge e dell'indipendenza della magistratura". A rincarare la dose - dopo che Salvini ha aperto la lettera della procura di Palermo che ha trasmesso gli atti al tribunale dei Ministri - ci pensa l'Associazione nazionale dei magistrati (Anm) che parla di "un chiaro stravolgimento dei principi costituzionali, che assegnano alla magistratura il compito e il dovere di svolgere indagini ed accertamenti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è titolare di cariche elettive o istituzionali". "È completamente errato sostenere che i magistrati non possono svolgere indagini nei confronti di chi è stato eletto", dicono dall'Anm, "Così come appare fuori luogo sostenere che taluni magistrati svolgono le proprie indagini anche sulla base di orientamenti politici. In questa vicenda, come in ogni altra, la magistratura tutta agisce sulla base delle prerogative conferite dalla Costituzione e dalle leggi, prerogative che tutti, anche i membri del governo, devono tutelare e rispettare".

Conte: "Se non fossi il premier difenderei la Lega per sequestro dei fondi". Giuseppe Conte sta con Matteo Salvini: "Capisco il suo scoramento, immaginate un leader di un partito che da oggi in poi non può più disporre di un euro per poter svolgere attività politica", scrive Giovanna Stella, Venerdì 7/09/2018, su "Il Giornale". E mentre Luigi Di Maio si mette di traverso a Matteo Salvini criticandolo per l'attacco alla magistratura in merito al caso della nave Diciotti, Giuseppe Conte scende - in parte - in campo per il vice premier leghista. Il premier lo ha fatto durante l'evento La Piazza a Ceglie Messapica. Dopo aver affrontato diversi temi, dall'Ue all'immigrazione, Giuseppe Conte fa una riflessione anche sul sequestro dei fondi della Lega e sull'attacco di Matteo Salvini ai magistrati. "Immaginate un leader di un partito che da oggi in poi non può più disporre di un euro per poter svolgere attività politica - ha detto -. Non ha senso banalizzare il problema. Capisco lo scoramento di Salvini". E proprio dopo il suo "capisco", scende in campo per il leader della Lega: "Se non avessi fatto il premier mi sarei offerto per difendere la Lega, sarebbe stato stimolante. E non lo dico per offendere i legali che se ne occupano". Poche parole, ma che sicuramente faranno piacere a Salvini.

Fondi Lega, Bonafede: "Salvini non ci faccia tornare alla Seconda Repubblica". Alfonso Bonafede commenta così le parole che Matteo Salvini ha espresso dopo la decisione del Riesame di Genova, scrive Giovanna Stella, Venerdì 7/09/2018 su "Il Giornale". Dopo l'ok per il sequestro dei fondi alla Lega, Alfonso Bonafede condanna chiaramente il comportamento di Matteo Salvini. "Io non commento mai i singoli casi. In generale devo dire che un ministro può ritenere che un magistrato stia sbagliando nei suoi confronti, ci mancherebbe, però rievocare politicizzazioni, pensare che un magistrato sbaglia perché è una toga di destra o di sinistra significa andare fuori dal tempo", ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo al programma Zapping quando gli viene domandato delle critiche del vice premier leghista sulla decisione del Riesame di Genova. E ancora: "Io non credo sinceramente che Salvini abbia nostalgia di quando la Lega governava con Berlusconi e siccome sta scrivendo insieme a noi il cambiamento del Paese non può pensare di far tornare l'Italia alla seconda Repubblica". Ma dopo queste prime dichiarazioni neanche troppo leggere, Bonafede cerca di alleggerire i toni contro Matteo Salvini e butta tutto sulla grande generalizzazione: "Ma è un concetto generale, ripeto, non riguarda il singolo caso". E intanto il primo attacco contro il ministro dell'Interno c'è stato. È evidente.

Alessandro Sallusti a Matteo Salvini: "Condanna folla, ma come puoi appoggiare il giustizialismo M5s?", scrive il 7 Settembre 2018 Libero Quotidiano". "Che giustizia è quella che non si pone il problema, applicando le leggi, dell’esistenza in vita di un partito che rappresenta milioni e milioni di cittadini, cioè della democrazia?". Apre così Allessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, l'editoriale di venerdì 7 settembre, un commento sulla sentenza del Riesame che ha condannato la Lega a pagare oltre 49 milioni di euro per la questione dei rimborsi fiscali. "Non c’è dubbio che, se la vecchia dirigenza del partito (i fatti contestati risalgono alla gestione Bossi-Belsito) ha sbagliato o, peggio, truffato, debba pagare. Ma che c'entrano il presente e il futuro?". Insomma, la critica di Sallusti alla condanna è netta. Il direttore, però, mette poi nel mirino l'alleanza gialloverde, quel governo Lega-M5s che guarda con sospetto per la componente grillina. Sallusti coglie l'occasione della sentenza per chiedere alla Lega "come possa appoggiare le manie giustizionaliste dei colleghi Cinquestelle" e approvare - ciò che è accaduto poche ore fa con il ddl anticorruzione - "un decreto che sembra scritto da Robespierre e che consegna ancora di più la vita degli imprenditori (e della politica) nelle mani, non necessariamente pulite, dei magistrati". Tra i riferimenti del giornalista, il Daspo per i tangentisti, per il quale d'ora in poi chi è condannato in via definitiva per corruzione non può più stipulare accordi con la Pubblica amministrazione. Chiaro il messaggio di Sallusti: come può un partito (la Lega) che ad oggi appare perseguitato dalla magistratura collaborare con un Movimento giustizialista?

Follia dei giudici: sequestrata la Lega. Confermata la sentenza che azzera i conti del Carroccio. L'ira di Salvini, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 07/09/2018, su "Il Giornale". Franklin Foer, autorevole giornalista americano autore tra l'altro del libro controcorrente I nuovi poteri forti (fresco di stampa da noi per i tipi Longanesi, lettura consigliata) sostiene che «l'Italia è un Paese in cui i meccanismi di potere non sono mai chiari, in cui le regole esistono ma non vengono mai applicate in modo convincente». Una sintesi perfetta che anche ieri ha trovato conferma nella sentenza della magistratura che, bloccando i suoi conti da qui all'eternità, ha di fatto sequestrato la Lega, primo partito nei sondaggi più recenti. Non c'è dubbio che, se la vecchia dirigenza del partito (i fatti contestati risalgono alla gestione Bossi-Belsito) ha sbagliato o, peggio, truffato, debba pagare. Ma che c'entrano il presente e il futuro, che giustizia è quella che non si pone il problema, applicando le leggi, dell'esistenza in vita di un partito che rappresenta milioni e milioni di cittadini, cioè della democrazia? Come ha intuito Foer osservando l'Italia dall'altra parte dell'oceano, da noi «i meccanismi non sono mai chiari». E tra i tanti, quelli della magistratura sono particolarmente oscuri. Successe con Mani Pulite all'inizio degli anni Novanta, quando un meccanismo perverso azzerò tutti i partiti meno che il Pci. È successo lungo tutti gli anni Duemila con un accanimento giudiziario senza precedenti contro l'imprenditore Silvio Berlusconi, che aveva provato con successo a scardinare l'assetto politico immaginato dagli ex comunisti e anche da larga parte della magistratura politicizzata. Da un lato tutto questo, come abbiamo già avuto modo di scrivere, è acqua al mulino della propaganda di Matteo Salvini. Ma dall'altro è la prova che l'Italia è una repubblica che continua a non «fondarsi sul lavoro», ma sul «lavoro dei magistrati», categoria non meno inquinata da corrotti, partigiani e cretini di qualsiasi altra. Per questo ci sfugge come possa la Lega appoggiare le manie giustizialiste dei colleghi di governo Cinquestelle e approvare, cosa fatta ieri, l'ennesimo decreto anticorruzione che sembra scritto da Robespierre e che consegna ancora di più la vita degli imprenditori (e della politica) nelle mani, non necessariamente pulite, dei magistrati. Per questo non capiamo come possa Salvini andare a braccetto con chi Grillo e Di Maio, fino a prima del 4 marzo, sosteneva che il ladro era proprio lui. No, anche in questa innaturale alleanza, alla pari della sentenza di ieri, non c'è proprio nulla di chiaro, né di convincente.

Garantismo: se è a ore non va. Editoriale di Piero Sansonetti dell'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Ha ragione Matteo Salvini, credo, a protestare per l’eccesso di attenzione della magistratura nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. (Non ha ragione però a paragonare l’Italia alla Turchia: lì ci sono centinaia di prigionieri politici, non scherziamo). Ha ragione perché la decisione di paralizzare economicamente la Lega con il blocco di tutti i finanziamenti passati, presenti e futuri (per recuperare i 49 milioni che i magistrati ritengono siano stati percepiti irregolarmente, anni fa, dalla Lega di Bossi) sembra proprio una prepotenza, e un atto – deliberato o meno – di invasione nel campo della battaglia politica. E’ evidente che mettere il “bloccasterzo” al partito che oggi è di gran lunga il più popolare e il più forte politicamente nell’agone politico, è un atto che molto difficilmente può avere una interpretazione puramente “tecnica”. La ricaduta politica è evidentissima e bisogna ragionare sulle sue cause e sui suoi effetti. Prima diciamo che è ancora più clamorosa la decisione di scagliarsi contro il capo della Lega, accusandolo di reati da vero e proprio gangster (come sequestro di persona aggravato: roba da anonima sarda) per la vicenda, anche quella assolutamente politica, della Nave Diciotti e del blocco degli immigrati che ospitava. Personalmente ho considerato una iniziativa politica gravissima e sconsiderata quella di Salvini sulla Diciotti (usare 150 esseri umani come “ostaggi politici” per le trattative con l’Europa o, peggio ancora, come utili strumenti per guadagnare consensi elettorali). Ma se ogni volta che si apre un conflitto serio sui temi della politica dovesse scattare l’incriminazione giudiziaria di uno o di tutti e due i contendenti, questo paese sarebbe trasformato in una bolgia, in un inferno. Mi ricordo di quando, tanti tanti anni fa, consideravo sbagliata e prepotente l’iniziativa di Bettino Craxi – capo del governo e segretario del Psi – di tagliare la scala mobile ( che era un meccanismo di rivalutazione automatica degli stipendi), e mi ricordo di come su quel tema si accese uno scontro asperrimo, che portò ad una rottura profondissima nei rapporti politici a sinistra: provo a immaginarmi cosa sarebbe successo, allora, se qualche magistrato un po’ alla Patronaggio avesse deciso di mandare a Palazzo Chigi un avviso di garanzia per appropriazione indebita di salari… Non successe, per fortuna, perché l’Italia, in quegli anni, era un paese dove ancora il rapporto tra potere giudiziario e potere politico era un rapporto paritario ed equilibrato ( qualche anno dopo, invece, la magistratura partì all’attacco e Craxi fu davvero raggiunto da avvisi di garanzia in grado di annientarlo e di radere al suolo il suo partito). Credo che non ci siano dubbi sulla mia assoluta solidarietà con Salvini (dal quale dissento politicamente più o meno al 100 per cento…) per l’aggressione giudiziaria che sta subendo. Poi però sono costretto a fare alcune domande. Mi limito a quelle indispensabili. Anzi, a due sole, evitando la litania delle dieci domande. Come mai quando la magistratura napoletana (anche sulla base di documentazioni risultate poi false, e giungendo fino al punto da intercettare del tutto illegalmente dei colloqui tra avvocati ed assistiti) tentò di mettere in mezzo il segretario del Pd, parlo di Renzi, la Lega non scattò in sua difesa? Eppure era abbastanza chiaro che si trattava di un’iniziativa pretestuosa, appoggiata da una forte campagna di stampa, che oltretutto produsse dei danni irreparabili al partito democratico. Come mai, mentre lui denuncia l’eccesso di potere della magistratura, il suo partito ( cioè i suoi ministri) votano un disegno di legge ( quello anti- corruzione) che aumenta a dismisura il potere della magistratura, che rende legittime pratiche di dubbia compatibilità con la Costituzione, che introduce la daspo a vita, l’agente provocatore o qualcosa del genere, la confisca dei beni anche senza condanna, la sterilizzazione della prescrizione, l’esagerazione della già molto esagerata legislazione sui pentiti, eccetera eccetera? Mi sembrano difficili da spiegare queste contraddizioni. Così come mi sembra un po’ difficile spiegare come si concili il garantismo, giusto e rigoroso, per i reati che riguardano la Lega, e molti atteggiamenti della Lega (“buttate la chiave, buttate la chiave! ”) per tutte le situazioni di illegalità che invece riguardano i poveracci, e soprattutto gli immigrati e i rom. Il mio non è un ragionamento moralistico, o ideologico. Né tanto meno vendicativo. Semplicemente sono profondamente convinto che il garantismo sia un elemento essenziale di una possibile modernità liberale, e la rinuncia al garantismo sia una vera e propria promessa di autoritarismo. Il garantismo esiste solo se e quando si riesce a renderlo assoluto. Per gli amici e per i nemici. Per i vicini e per i lontani. Per gli italiani e per gli stranieri. Un garantismo a “scartamento ridotto” non è garantismo, anzi, è prepotenza. Poi nella battaglia politica ciascuno fa ciò che vuole e sostiene le idee che gli pare. Senza dover chiedere placet o timbri ai «titolari dell’etica». Non esistono i titolari dell’etica. Ma perché non esistano davvero è necessario affermare il garantismo (ciò, con una parola più semplice ed essenziale: il Diritto), come pilastro ineliminabile della democrazia. E convincersi che il garantismo non è una cosa che può essere sospesa, che può funzionare a intermittenza, ad ore. Capisco che è molto difficile fare questo in alleanza coi 5 Stelle. Però, allora, se si preferisce la via legalista, bisogna rinunciare alle proteste contro la magistratura. Naturalmente il discorso può anche essere rovesciato: il Pd, o almeno il Pd renziano che giustamente difese il suo segretario quando era finito sotto il tiro dei Pm, perché ora dà del ladro a Salvini? Possibile che, almeno in questo campo, l’unico coerente sia il vecchio e vituperato cavalier Berlusconi?

La Lega garantista alla carta. Editoriale di Piero Sansonetti del 6 luglio 2018 su "Il Dubbio". L’origine del moderno giustizialismo italiano sta in quel cappio che fu sventolato in Parlamento da un deputato della Lega. Era il 16 marzo del 1993 (giusto il quindicesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, il “colosso” della prima repubblica) e l’on. Luca Leone Orsenigo si alzò in piedi è mostrò all’aula una corda legata col nodo scorsoio. Voleva impiccare i politici corrotti. Cioè, quelli accusati dai magistrati di Milano. Giorgio Napolitano, che era presidente della Camera, perse le staffe: «La smetta con queste buffonate», gridò tre volte. E’ vero che si dice che il padre della Lega, e cioè Umberto Bossi, chiamò il giovane Orsenigo e gli fece, in privato, una lavata di capo. Però l’immagine resta quella. Da allora il giustizialismo dilaga. Ha avuto successo soprattutto a sinistra e nella destra non forzista, ed è molto complicato immaginare la Lega come un partito garantista. Del resto, appena l’altroieri Matteo Salvini ha messo online un auto-video nel quale grida forsennatamente: «arrestando, arrestando, arrestando». Ripete per sette volte questo gerundio. E invita i giudici ad essere severi e a condannare. Si riferisce alla mafia, ai mafiosi. Ma voi sapete che spesso – sempre più spesso – finiscono in prigione per mafia persone che non c’entrano niente, e che aspettano anni per essere assolte. Quando un politico nel giro di un paio di minuti grida per sette volte la parola “arrestando”, ve lo dico per esperienza, è molto improbabile che sia un garantista. Perciò ha fatto un certo effetto la denuncia di Matteo Salvini contro la magistratura che ha ordinato il sequestro di tutti i possibili beni della Lega Nord finchè non si trovano almeno 49 milioni che sarebbero il malloppo che la Lega avrebbe sottratto allo Stato. I giudici, in questo modo, hanno deciso di bloccare qualunque attività economica della Lega. Non mi voglio pronunciare sul merito giudiziario della vicenda. Certo che quando la magistratura prende un provvedimento che rischia di paralizzare l’attività di un partito politico (protetta dall’articolo 49 della Costituzione) specialmente se questo partito è il principale partito di governo, legittimamente spinto al governo da un voto popolare, beh, viene da pensare che quello della magistratura sia un intervento politico. E che rischi di avere conseguenze che contrastano con il normale svolgimento democratico della lotta politica. Non è la prima volta che succede. Silvio Berlusconi è stato il bersaglio preferito della magistratura in questo quarto di secolo. Una volta è stato cacciato dal governo, una volta dal Senato, una volta gli sono stati levati 250 milioni e sono stati consegnati al suo principale avversario in politica e in economia, una volta è stato condannato alla detenzione e poi ai servizi sociali, una volta è stato tenuto fuori dalla campagna elettorale con risultati molto negativi per il suo partito. Ma Berlusconi non è l’unica vittima. Anche Prodi è stato scalzato dal governo dalla magistratura. E il numero di esponenti politici, sindaci, presidenti di Regione, parlamentari, ministri, rasi al suolo dalla magistratura, è altissimo. Qualcuno di loro mentre scrivo sta in prigione e paga con la propria esistenza la subordinazione della politica alla magistratura. Poi c’è Renzi, mai inquisito, ma abbattuto da una specie di congiura tra alcuni magistrati e alcuni giornali che si sono inventati una campagna di demolizione della sua figura, fondata su carte false. Quindi penso che Salvini abbia le sue ottime ragioni per protestare. E per parlare di decisioni politiche della magistratura. Il problema – come ha sottolineato anche Augusto Minzolini sul “Giornale” – è che Salvini è alleato al governo con il partito che più di tutti gli altri ha sempre sostenuto quella parte della magistratura a cui piace intervenire in politica. E che questa alleanza non sembra del tutto casuale. Si possono chiedere riforme che pongano un freno allo strapotere di settori della magistratura, ma per farlo bisogna decidere che è lo Stato di diritto il pilastro e il cuore della democrazia. E che lo Stato di diritto va rafforzato e non indebolito. Ecco, non si rafforza, per esempio, lo Stato di diritto annunciando che l’Italia è pronta a ridurre il diritto d’asilo, cancellando così l’articolo 10 della Costituzione. Non si rafforza lo stato di diritto riducendo i diritti umani. Né proibendo i soccorsi in mare. Né invocando arresti, arresti, arresti. Né proponendo libertà di sparare ai ladri. Tutto qui. Solidarietà alla Lega vittima. Ma sapendo che in gran parte è vittima di se stessa.

Salvini garantista slalomista, l’Alberto Tomba della destra, scrive il 24 marzo 2015 su "Il Fatto Quotidiano" Luisella Costamagna, Giornalista e autrice. Caro Matteo “Doppio Slalom” Salvini, Certo ne ha dovuta mangiare di cassoeula per diventare, da “nullafacente” negli studi Mediaset, segretario della Lega. E portarla addirittura al 15% nei sondaggi (occhio però, sono solo sondaggi). Coerente nell’opposizione al governo Renzi, e prima ai governi Letta e Monti, nelle battaglie contro l’Europa-Forcolandia e l’immigrazione (sia pure, oggi, con maggiori cedimenti alla destra neofascista), non sembra esserlo altrettanto nelle prese di posizione su moralità e giustizia. Su questi temi, deve ammettere, riesce a fare slalom sorprendenti, degni di Alberto Tomba. Oggi che Renzi difende i suoi sottosegretari indagati, lei giustamente tuona: “È garantista coi suoi amici ed è inflessibile con chi non sta nella sua cerchia”; così come giustamente era intervenuto contro il decreto del governo sulla non punibilità dei reati più lievi: “Niente galera per chi commette furto, danneggiamento, truffa – scrisse su Facebook – con la sinistra al potere l’Italia diventa il paradiso dei delinquenti”. Peccato però che poi, tra il dire e il fare, lei e la Lega abbiate messo di mezzo un mare più vasto di quello che vorreste sbarrare ai migranti. La sua Lega Nord ha appeso molto presto al chiodo il cappio dei tempi di Mani Pulite: è stata l’alleato più fedele di Berlusconi, e pur avendo i ministeri strategici (per Berlusconi) della Giustizia e dell’Interno, ha votato tutte – dico tutte – le leggi ad personam. Alla faccia della legge uguale per tutti. Poi, per non essere da meno, anche voi siete stati travolti dagli scandali: Belsito, Bossi, il Trota, soldi pubblici finiti (pare) in diamanti, investimenti in Tanzania e lauree farlocche. Certo, le colpe dei padri non possono ricadere sui figli neanche in politica, quindi si aspetta: cosa farà Salvini, il nuovo segretario tutto d’un pezzo che rivolta la Lega come un calzino? Chiede la galera per i ladri d’appartamento, ma non si costituisce parte civile contro quelli che hanno rubato in casa sua (e nostra). Non solo: a proposito dell’“essere garantisti solo con gli amici”, la Lega si schiera contro la decadenza di Berlusconi e, nell’ultimo anno, si astiene sulla riduzione delle pene per il voto di scambio politico-mafioso e sull’autoriciclaggio, e dice no all’ordine del giorno del M5S sulla sospensione dei vitalizi per i parlamentari in carcere (tipo “l’amico” Marcello Dell’Utri), nonché all’uso delle intercettazioni per il senatore Ncd Azzollini (indagato per una presunta maxi-frode da 150 milioni di euro) e per l’ex senatore Pd Papania (sotto inchiesta per voto di scambio e corruzione). Alla faccia della tolleranza zero contro il malaffare. Per arrivare alla sua recente richiesta di dimissioni del ministro Lupi, che “tiene famiglia”. Ma pure lei non è certo un agnello, visto che ha piazzato la sua ex compagna in Regione Lombardia. Caro Salvini, non è che anche per lei valgono due pesi e due misure: evoca “manette di ghisa” per poveri cristi e immigrati, e “tenuità del fatto” per gli amici potenti? Da uomo del Nord, forse, potrà dare lezioni di sci a Renzi, ma non di questione morale. Su questa, temo, il vostro è uno slalom parallelo. Un cordiale saluto. Il Fatto Quotidiano, 24 Marzo 2015

Quando Grillo urlava: Matteo bugiardo e ladro, scrive Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 7/09/2018, su "Il Giornale". Le bugie hanno le gambe corte, in compenso la rete ha una memoria lunghissima. In questi giorni tumultuosi per il Carroccio, i Cinque Stelle fanno i pesci in barile. Abbozzano frasi che dicono tutto e niente. Nicchiano. Parlano d'altro. Sono in imbarazzo. E c'è da capirli: come fa il movimento più giustizialista in circolazione a diventare improvvisamente garantista con il proprio alleato di governo? Quando scoppiò il caso Belsito, il governo gialloverde era fantapolitica difficilmente ipotizzabile e, cercando in rete, si scopre che i Cinque Stelle non trattarono il Carroccio con le stesse cautele di oggi. «Padania ladrona (...) ( ...) la Tanzania non perdona» è il sobrio titolo di un articolo pubblicato da Grillo sul suo blog nel gennaio del 2012, poco dopo lo scoppio dello scandalo. «Chissà perché proprio la Tanzania? I leghisti gli immigrati non li vogliono, ma fanno emigrare i soldi dei rimborsi elettorali. Cosa può fare un partito come la Lega con milioni di euro di finanziamenti pubblici? Investirli in Btp per aiutare il Paese a risollevarsi dal debito pubblico di cui è diretta responsabile o, piuttosto, in fondi esteri? La seconda». Grillo nel 2012 aveva già emesso la sua sentenza, senza appello. Ma il bubbone dell'affaire dei fondi africani non è mai andato giù al comico genovese. Lo scorso ottobre, siglato l'accordo elettorale del centrodestra, Grillo tornava all'attacco: «Matteo Salvini è un traditore politico. Oggi ha perso definitivamente qualsiasi tipo di credibilità. La sua Lega Nord, dopo gli scandali degli investimenti in Tanzania e dei diamanti comprati da Belsito con i soldi pubblici, era arrivata al 3%. Per risollevarsi Salvini in questi mesi ha fatto un lavoro sporco: ha copiato i temi del Movimento ed ha iniziato una finta campagna elettorale contro il sistema dei partiti. Ma è tutto un bluff. Urlavano Roma ladrona e, oltre a non tagliarsi mai lo stipendio, si sono intascati 180 milioni di euro di finanziamento pubblico ai partiti (di cui 48 milioni utilizzati in maniera illecita)». Il 10 dicembre 2014, in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, andava oltre e puntava il dito contro il leader padano: «Quei soldi rubati sono andati anche a maglioncino nella notte (il nome in quel periodo affibbiato dal comico a Salvini)». Ma lo scambio di gentilezze tra 5 Stelle e Salvini è infinito, vi proponiamo un piccolo florilegio di qualifiche appioppate al leader leghista nel corso degli anni: ladro, razzista, impresentabile, piccolo uomo, ignorante fondamentalista, totalmente inaffidabile. E poi tutti gli hashtag ad hoc: #SALVINIBUGIARDO, #SALVINIBALLISTA, #SALVINIPROEURO, #SALVINISENZAPROFUGHINONCISASTARE. E, adesso, coerentemente, sono al governo insieme. E Grillo tace.

Il vizio del giustizialismo per gli avversari. Tutti gli attacchi di un forcaiolo doc. Da Berlusconi e Lupi, l'ex comico ha sempre chiesto processi, manette e gogna, scrive Fabrizio Boschi, Mercoledì 04/01/2017, su "Il Giornale". Indulgente con i suoi. Forcaiolo con gli altri. Il garantismo grillino, ripiego al quale, negli ultimi tempi, si sono aggrappati i discepoli della setta M5s, adatto a giustificare le infrazioni e le tante incompetenze commesse dai loro sindaci e parlamentari, è bello che finito. Si è tornati nella vecchia e cara fase forcaiola e giustizialista che più si addice al Karma cinquestelle. Nel 2012 l'attuale governatore della Lombardia, Roberto Maroni, appartenente a quella Lega Nord che mostrò un cappio in Parlamento, etichettò quella di Grillo come «una forma di lotta politica violenta e forcaiola». Forse aveva ragione. Da allora Beppe non smise più di chiedere dimissioni, galera e manette per i suoi avversari, anche se solo indagati. Giulia Grillo, altra esaltata, nel 2013 si scagliava contro Silvio Berlusconi: «È inaccettabile che un condannato per via definitiva continui a condizionare le sorti economiche del nostro Paese solo al fine di evitare l'esecuzione di una sentenza di condanna». Il garantismo è svanito da quando anche loro hanno scoperto che rispettare le regole nelle città che governano non è facile. Fa più comodo invocare la forca. Il vizietto dei grillini è sempre stato lo stesso: forcaioli con gli altri e garantisti con se stessi. L'ex ministro Maurizio Lupi fu crocifisso dai Cinque Stelle senza essere indagato, per lo scandalo del Rolex ottenuto in regalo da una persona coinvolta nell'inchiesta sulle tangenti per le grandi opere. I grillini lo attaccarono violentemente in aula, chiedendone le dimissioni. E le ottennero. Dimissioni che invocarono anche per il ministro Angelino Alfano, quando saltò fuori la storia del fratello assunto in una società delle Poste, e per la ex ministra Maria Elena Boschi per lo scandalo di Banca Etruria che coinvolge il babbo. In questi due casi senza ottenere successo però. La colla che usano per le loro poltrone è Super Attak. Nel settembre 2015, Beppe Grillo dall'alto del suo blog sognava «un Paese autoritario, illiberale e forcaiolo», «un partito unico, al 96%, senza opposizione dove ogni idea diversa è considerata inutile e dannosa». Nel mondo a cinquestelle il primo grado di giudizio sarà definitivo. «Abbiamo abolito la prescrizione», delirava. Luigi Di Maio l'intransigente, sempre nel 2015, rincarava la dose: «Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare». E questo vale per tutti tranne che per loro. I casi del doppiopesismo grillino si sprecano. Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, finita nell'inchiesta sui condizionamenti della camorra alle elezioni, venne difesa a spada tratta. Quando a finire nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta fu il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin, i pentastellati si spellarono le mani. Lo stesso per la fiducia accordata a Virginia Raggi combina-guai. «Onestà! Onestà!». Come scrive Spinoza: «Grillo propone sul blog una giuria popolare per valutare le bufale. Le migliori finiranno dritte in homepage».

"Sbagliato sequestrare i soldi della Lega. Vanno cercati solo i frutti del reato". Parla l'ex pm di Venezia, Carlo Nordio: "È giusto provare a recuperare le risorse usate da Belsito nei suoi 'magheggi' ma non lo è toccare le donazioni arrivate nel partito negli anni successivi. La Cassazione è stata ambigua", scrive Stefano Zurlo, Sabato 08/09/2018 su "Il Giornale". È la solita, eterna illusione del giustizialismo italiano: nuove leggi e pene più alte per combattere il mostro della corruzione. Carlo Nordio allarga le braccia: «Il disegno di legge anticorrotti farà cilecca, anche se il governo lo sta presentando come la panacea di tutti i mali».

Cominciamo con i soldi della Lega: sequestro sacrosanto?

«Il punto chiave è la pertinenza e io ho moltissimi dubbi sul modo in cui l'hanno interpretata».

Tradotto?

«Io posso pure andare avanti con i sequestri, anche anni dopo, anche per equivalente come affermano i tecnici, purché io stia seguendo i soldi o i beni frutto di quel reato».

È quel che sostiene la procura di Genova.

«Un attimo, la pertinenza non può essere data solo dal destinatario, ovvero la Lega che, fra l'altro, è cambiata e ha un altro segretario. Troppo poco».

Ma allora che cosa caratterizza la pertinenza?

«Un conto sono i soldi frutto della truffa consumata a suo tempo, altra cosa sono, a mio parere, le donazioni degli imprenditori, dei politici, del 2 per mille che arrivano oggi. Queste non sono il frutto di quel reato. Che c' entrano tali somme con i magheggi dell'era Belsito? Io non vedo alcun nesso, alcuna continuità. Oltretutto, in questo modo si suscita sconcerto nell'opinione pubblica che crede nella democrazia e nel suo funzionamento. Un minimo di cautela sul punto non guasterebbe».

Ma la Cassazione non ha ispirato la scelta del tribunale del riesame di Genova?

«La Cassazione ha scritto un verdetto ambiguo, sfuggente che non chiarisce bene il punto. Oggi, purtroppo il diritto è volatile, siamo in un'epoca in cui i giuristi possono dire tutto e il contrario di tutto. Ma resta, secondo me, il problema: gli oboli di oggi non dovrebbero essere aggrediti dalla magistratura sulla base dei comportamenti di ieri».

E qui si torna all'anticorruzione. Dov'è l'errore?

«Minacciare sfracelli serve a poco o niente. È già successo con altri interventi legislativi varati negli anni scorsi fra squilli di tromba e puntualmente rivelatisi inutili, o peggio, controproducenti. È vent'anni che lo ripeto, nel frattempo sono anche andato in pensione e ho lasciato la procura di Venezia, ma non cambia mai niente».

Nemmeno questa volta?

«Ci vogliono meno leggi, meno norme, poche regole chiare e precise. Invece siamo ai fuochi d' artificio. Ai proclami mirabolanti».

Il pezzo forte del disegno di legge è il daspo per i corrotti. Sbagliato?

«No, inutile».

Per Di Maio rappresenta una svolta nella lotta al malaffare.

«Se il daspo mette fuori gioco un manager, l'azienda può sostituirlo in corsa e continuare tranquillamente a fare i propri affari».

E se invece colpisce l'azienda che ha violato la legge?

«Esiste già un'arma, a suo tempo venduta come risolutiva: la legge 231».

Ovvero?

«La responsabilità amministrativa delle aziende. Purtroppo la 231 ha funzionato poco e male. Il daspo ne è la brutta copia».

L'agente infiltrato?

«Inapplicabile. Si può infiltrare qualcuno in un'organizzazione criminale, in una rete formata da molti malfattori, non fra due persone, un corruttore e un corrotto».

Non sarà che lei è troppo pessimista?

«No, sono realista. Affastellano soluzioni, in un eterno cantiere, che non risolvono niente. E poi, mi lasci dire, il corrotto non va spaventato, ma disarmato. Invece il sindaco furbetto ha a disposizione un ventaglio strepitoso di leggi e può scegliere quale applicare, in base ai propri interessi, in un contesto confuso e contraddittorio, in cui c'è grande spazio per le peggiori manovre. Altro che nuovi strumenti, la foresta andrebbe disboscata, invece si piantano sempre nuovi alberi, si introducono nuovi reati, si alzano le pene e si coltiva l'idea ingenua che questo serva per fermare le mani rapaci degli amministratori e degli imprenditori senza scrupoli. Ci rivedremo alla prossima riforma mancata».

Lega. Le sentenze si rispettano, scrive il 6 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Legittimo condividere chi si chiede, in quale altro Paese europeo (e non solo) sarebbe stato possibile per un partito appropriarsi di oltre 38milioni di euro senza subire alcuna conseguenza? Ed inoltre in quale altro Paese civile e democratico il ministro degli Interni, nonchè vice presidente del Consiglio dei Ministri può sfacciatamente dichiarare che “il consenso popolare vale più di una sentenza della magistratura”? Per capire, però, come si è arrivati a questa sentenza, occorre fare un lungo passo indietro e seguire le date a partire dalla data di inizio di tutta la vicenda: il 23 gennaio 2012. Quel giorno un militante della Lega si presentava in Procura a Milano con un esposto contenente una serie di articoli di stampa in cui si parla di investimenti anomali fatti dal Carroccio in diamanti in Tanzania e conti offshore a Cipro. È lo scandalo che travolge Bossi (il quale il 5 aprile di quello stesso anno deve dimettersi dalla guida del partito da lui fondato) e la sua famiglia: soldi pubblici entrati nelle casse del partito come rimborsi elettorali e usciti senza giustificativi in quanto usati in spese personali per “the family” come riportava la scritta sulla cartelletta sequestrata dalla Guardia di Finanza negli uffici della Lega alla Camera dei Deputati. La cartellina con tutte le spese pazze della famiglia Bossi. Nella cartellina erano riportate e trascritte una serie di spese contabilizzate: 10mila euro per l’operazione di rinoplastica del figlio di Bossi, Sirio, le multe pagate con soldi pubblici all’altro figlio Renzo, soprannominato “il Trota”, e le spese per la ristrutturazione della casa di Gemonio acquistata dalla moglie di Umberto Bossi. Alcune pagine della cartellina sono dedicate all’Università albanese Kriistal di Tirana, dove Renzo “il trota” aveva ottenuto il diploma di primo livello in “Gestione aziendale”. Tutto questo materiale investigativo aveva consentito ai magistrati di ottenere la condanna e il sequestro dei fondi custoditi sui conti della Lega. Il 4 settembre 2017 la Procura “otteneva– si legge nei documenti – dal Tribunale l’emissione di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta nei confronti della Lega” di una somma pari a 48 milioni 969mila 617 euro. Lo scorso 3 luglio, con la propria sentenza n. 29923 la 2a sezione (Presidente Cammino, Relatore Verga) della Suprema Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Genova rinviando, per un nuovo esame nei confronti della Lega Nord, al medesimo Tribunale – Sezione per il riesame e gli appelli relativi alle misure cautelari reali, ma andiamo a spiegarvi meglio nel dettaglio, documenti alla mano cosa è successo. Con sentenza in data 24.7.2017 il Tribunale di Genova condannava gli imputati BOSSI Umberto, BELSITO Francesco, ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego e TURCI Antonio per violazione dell’art. 640 bis c.p. e, ai sensi del combinato disposto degli artt. 640 quater e 322 ter c.p., disponeva, in accoglimento della richiesta del P.M., la confisca diretta a carico della “Lega Nord” della somma di C 48.696.617,00, somma corrispondente al profitto – da tale ente percepito – dai reati per i quali vi era stata condanna. Conseguentemente, il pubblico ministero chiedeva ed otteneva dal Tribunale l’emissione di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta nei confronti della Lega Nord dell’ingente somma di denaro. Il Tribunale di Genova, in data 19 settembre 2017, precisava tuttavia che le somme da sottoporre a sequestro erano quelle depositate sui conti correnti bancari e/o libretti di risparmio e/o depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord, nonché altri beni fungibili nella disponibilità della stessa non oltre l’importo oggetto di confisca e non quelle depositande che sarebbero affluite in un momento successivo alla notifica ed esecuzione del provvedimento. Il pubblico ministero procedente  chiedeva allora al Tribunale di Genova di estendere l’esecuzione del sequestro preventivo anche alle somme depositate sui conti correnti bancari e/o libretti di risparmio e/o depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord dopo la notifica del decreto di sequestro ma, in data 20 ottobre 2017, ma il Tribunale di Genova respingeva tale richiesta sostenendo che ai fini della confisca diretta, anche quando il profitto è costituito da denaro, è comunque necessario stabilire un nesso di pertinenzialità tra i reati e le somme da apprendere e che tale nesso è interrotto dalla intervenuta esecuzione del sequestro. Il sostituto procuratore della repubblica di Genova,  appellava detta pronuncia avanti il Tribunale del Riesame che respingeva il gravame ritenendo non condivisibile la scelta di proseguire nella richiesta di sequestro in forma diretta nonostante l’esito infruttuoso dell’esecuzione sia perché ciò avrebbe comportato una estensione del sequestro cautelare a tempo indeterminato, sia in quanto era la stessa legge a consentire il sequestro di valore, una volta tentata infruttuosamente la via del sequestro diretto. Contro questa decisione ricorreva per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Genova. La Cassazione ha ritenuto il ricorso della Procura di Genova assolutamente fondato ricordando, anzitutto, che secondo le Sezioni Unite “ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, nonché Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015, ). D’altronde, sempre le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che «proprio la natura fungibile del bene – che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere, per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza, qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica – rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie in questo caso dell’ente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo“. Gli ermellini della Suprema Corte, proseguivano osservando che “l‘impossibilità di reperimento e sequestro dei profitti illeciti, che condiziona l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo in funzione della confisca per equivalente, non deve necessariamente essere assoluta e definitiva, ma può riguardare anche un’impossibilità transitoria o reversibile, purché esistente nel momento in cui viene richiesta e disposta la misura cautelare reale finalizzata alla confisca per valore”. E concludevano osservando che “la richiesta avanzata in corso di esecuzione dal Pubblico Ministero di estendere l’originario provvedimento cautelare anche alle somme affluite in un momento successivo alla data di esecuzione del decreto di sequestro, nei limiti del quantum del provvedimento ablatorio originario, non comporta novazione, stante l’irrilevanza della fonte del sequestro perché l’oggetto della misura cautelare è sempre quella del decreto originario, che tra l’altro non è stata oggetto di contestazione, e cioè l’esistenza di disponibilità monetarie della percipiente Lega Nord che si sono accresciute del profitto del reato, legittimando così la confisca diretta del relativo importo, ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico“. C’era molto attesa quindi per la decisione odierna del Tribunale del Riesame di Genova, dopo la decisione della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso della Procura del capoluogo ligure, dando via libera al sequestro dei fondi della Lega al fine di recuperare i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali. Ma Matteo Salvini ancora una volta, ritenendosi immune attacca e afferma: “Gli italiani sono con noi”.  Come faccia ad affermarlo, onestamente non è dato capirlo. I difensori della Lega potrebbero ora impugnare la decisione e ricorrere ancora in Cassazione, ma dopo l’ultima decisione della Suprema Corte sarebbe pressochè impossibile vedersi dare ragione. Se questa sentenza rappresenterà la fine della Lega, come aveva detto nei giorni scorsi il sottosegretario alla presidenza del consiglio on. Giorgetti, non è dato saperlo. Ma un concetto è certo: le sentenze vanno rispettate anche quando riguardano un partito di governo. Ed oggi che il Tribunale del Riesame di Genova ha condiviso la sentenza della Cassazione stabilendo che la Lega ha truffato lo Stato, (e i quindi i cittadini italiani) utilizzando ben 49 milioni di euro, di denaro pubblico, per usi personali, per la Lega si apre un vero problema. Scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui hanno dato il via libera ai sequestri dei soldi presenti e futuri nelle casse della Lega: “Non solo non esiste alcuna norma che stabilisca ipotesi di immunità per i reati commessi dai dirigenti dei partiti politici, ma anzi – scrivono ancora i giudici del Tribunale del Riesame genovese – esiste una precisa disposizione di legge che impone la confisca addirittura come obbligatoria nel caso in esame”. Dopo il semaforo verde al sequestro dei fondi della Lega espresso oggi dal tribunale del Riesame dopo che la Cassazione aveva accolto la richiesta della Procura di poter sequestrare somme al Carroccio oltre a quelle già prelevate, scatta l’iter per attuare il sequestro. La Procura dovrà quindi rivolgersi al tribunale per avere il provvedimento con il quale procedere effettivamente al prelievo. I soldi verranno poi “congelati” nel Fug, il Fondo Unico della Giustizia, in attesa che la sentenza di condanna di Bossi e Belsito diventi definitiva, ma come farà la Lega a sopravvivere senza fondi? La somma nasce dall’appropriazione di rimborsi elettorali non dovuti dal 2008 al 2010, periodo in cui Salvini non era un estraneo alla Lega, in quanto era stato eletto parlamentare alla Camera dei deputati nella circoscrizione Lombardia 1.alle elezioni politiche del 2008, successivamente il 7 giugno 2009 venne eletto al Parlamento europeo, con 70 000 preferenze, ed  il mese successivo si dimise da parlamentare italiano, scegliendo il seggio parlamentare europeo ben più remunerativo. Proprio a seguito di queste condanne, circa 3 milioni di fondi della Lega Nord erano stati da subito sequestrati in via preventiva, ma mancano ancora 45 milioni di euro all’appello. A seguito della scomparsa di questi ingenti fondi pubblici la decisione del Tribunale del Riesame che ha disposto, “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta anche delle somme di denaro che sono state depositate sui conti correnti e depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord successivamente alla data di notifica ed esecuzione del decreto di sequestro preventivo emesso dal tribunale di Genova in data 4 settembre 2017, fino a concorrenza dell’importo di 48.969.617 euro”. Spiegato per chi non “mastica” giurisprudenza, gli ufficiali giudiziari devono sequestrare tutti i beni, anche quelli futuri, del partito, ovunque vengano reperiti. Dal contenuto della sentenza, viene spiegato infatti come la procura potrà procedere al sequestro, quindi l’iter giudiziario è molto chiaro e non basterà (come si prevedeva in un primo momento) cambiare il nome della Lega per cancellare le proprie responsabilità penali e civili. Attualmente dai bilanci pubblici nelle casse della Lega sono rimasti 5 milioni di euro. Legittimo quindi chiedersi: ma che fine hanno fatto tutti gli altri soldi (e non sono pochi!) che ad oggi mancano in cassa? Il leader della Lega, Matteo Salvini non ha mai saputo dare risposte convincenti a dei legittimi interrogativi che sarebbe il momento di sciogliere. Quali? Questi: come sono stati spesi i soldi? Perché sono stati spesi e non restituiti all’erario, visto che dagli atti del processo di Genova emerge e risulta documentalmente che quella somma si trovava nelle casse della Lega quando Umberto Bossi fu sostituito da Roberto Maroni e successivamente da Matteo Salvini? E soprattutto come mai il “Capitano” Salvini in qualità di segretario nazionale non si è costituito parte civile nel processo che è stato fatto contro la precedente dirigenza della Lega? Il leader della Lega continua a manifestare un’arrogante ingiustificata tranquillità unita a rabbia a stizza e la sua reazione sui social per aizzare i suoi fedelissimi, non lascia equivoci: la “botta” del Tribunale di Genova è arrivata a destinazione forte e chiara. Salvini oggi commentando la sentenza del Riesame ha dichiarato: “E’ una vicenda del passato, sono tranquillo, gli avvocati faranno le loro scelte: se vogliono toglierci tutto facciano pure, gli italiani sono con noi”. Quali italiani? Legittimo condividere chi si chiede, in quale altro Paese europeo (e non solo) sarebbe stato possibile per un partito appropriarsi di oltre 38milioni di euro senza subire alcuna conseguenza? Ed inoltre in quale altro Paese civile e democratico il ministro degli Interni, nonchè vice presidente del Consiglio dei Ministri può sfacciatamente dichiarare che “il consenso popolare vale più di una sentenza della magistratura”? Oltre ad aspettarci come cittadini e contribuenti delle risposte dalla Lega, siam ancora in attesa anche di una qualsiasi dichiarazione da parte del M5S alleati di governo. Per ora dal Movimento 5 Stelle stride un imbarazzante silenzio. Un silenzio “complice”. Imbarazzante ancora una volta il vicepremier Luigi Di Maio che a chi oggi gli chiedeva se la questione imbarazzi il M5Srisponde “no, i fatti riguardano il periodo antecedente alla gestione Salvini della Lega”. Alla domanda se la sentenza avrà ricadute sulla vita del governo, ha risposto “Da parte nostra no. Sappiamo benissimo che c’è una sentenza, le sentenze si rispettano e si va avanti”. Molto più saggio il premier Conte, che ha commentato “Ne prendo atto ma non commento, da avvocato lo avrei fatto. E prendo atto che ora per un partito politico sarà difficile svolgere attività politica”, ha detto Conte. Rispondendo a chi gli chiede se ci saranno ripercussioni sul governo dopo la sentenza, il premier ha detto: “Direi di no” allineandosi alla posizione del M5S. Qualcuno gentilmente si sforzi di spiegare a Luigi Di Maio che a volte prima di parlare è il caso di documentarsi. Le sue limitati conoscenze e competenze giuridiche come ben noto non glielo consentono. E’ la politica…tristezza. Altro che il Governo del cambiamento!

Sentenza Lega, la giustizia non è uguale per tutti: per i reati di Lusi paga il tesoriere, scrive il 7 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". In Italia la giustizia non è uguale per tutti. Basta confrontare la vicenda del sequestro dei fondi della Lega con il caso giudiziario di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, a cui, lo scorso dicembre, la Cassazione ha confermato sette anni di reclusione per aver sottratto 25 milioni di euro dalla casse dell'ex partito di Francesco Rutelli. Lusi fu indagato nel 2012 dalla Procura di Roma per appropriazione indebita di somme di denaro relative a rimborsi elettorali. Ma perché si chiede il Tempo, i soldi finiti nelle tasche di Belsito, Bossi & C. devono essere sborsati dalla Lega, mentre quelli di Lusi dovrà restituirli lui, di proprio pugno? La domanda è quantomeno legittima.

Sì della Cassazione al sequestro dei conti della Lega Nord. La decisione legata alla condanna di Umberto Bossi e Francesco Belsito per la maxi-truffa sui rimborsi elettorali, i Pm genovesi chiedono di bloccare fino a 49 milioni di euro di fondi, scrive Marco Lignana il 13 aprile 2018 su "la Repubblica". La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura di Genova, che ha chiesto di poter sequestrare i soldi che arriveranno in futuro sui conti della Lega Nord. Quei soldi che il partito, secondo i magistrati genovesi, deve restituire dopo la condanna di Umberto Bossi e Francesco Belsito per la maxi truffa sui rimborsi elettorali dal 2008 al 2010. I giudici della seconda sezione penale della Suprema Corte, hanno annullato con rinvio al tribunale del Riesame di Genova l'ordinanza con la quale i giudici genovesi avevano fermato il sequestro. Bisognerà però attendere le motivazioni, di norma depositate entro un mese, per capire come la Cassazione ha indicato al Riesame di rivalutare il caso. La Cassazione ha rigettato anche il ricorso di Bossi contro il sequestro disposto nei suoi confronti, così come ha rigettato quelli sui sequestri presentati dai tre ex revisori dei conti condannati con la sentenza dello scorso luglio. Mentre ha accolto, disponendo pure in questo caso il rinvio al Riesame, quello depositato dalla Lega Nord Toscana. La questione su cui si è dovuta pronunciare la Suprema Corte riguarda appunto la richiesta, da parte dei pm genovesi, di continuare a sequestrare tutti i fondi che in futuro dovessero arrivare nelle casse del Carroccio, fino al raggiungimento di circa 49 milioni. Somma finita sui conti della Lega senza che il partito, secondo i giudici, ne avesse diritto perché frutto di una truffa a Camera e Senato. Una vicenda nata dopo la sentenza dello scorso luglio che ha portato alle condanne di Bossi a 2 anni e due mesi e dell’ex tesoriere Belsito a 4 anni e dieci mesi, oltre a quelle di altri cinque imputati: i tre ex revisori contabili del partito Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi (rispettivamente condannati a due anni e otto mesi, due anni e otto mesi e un anno e nove mesi) e i due imprenditori Paolo Scala e Stefano Bonet (cinque anni ciascuno). Il tribunale aveva stabilito la confisca di quasi 49 milioni dai conti della Lega, ma la Procura aveva trovato quasi due milioni sui conti del Carroccio e aveva chiesto più volte di poter sequestrare anche le somme che in futuro sarebbero entrate nelle casse del partito. I giudici del Riesame avevano negato tale possibilità spiegando che il denaro andava cercato nei conti e tra gli immobili delle persone fisiche, in primis il Senatur e poi tutti gli altri. Ma i giudici avevano deciso che a Bossi può essere prelevato solo il quinto del vitalizio da parlamentare europeo. Nel frattempo, uno degli ex revisori contabili, Stefano Aldovisi, ha presentato un esposto in Procura e il procuratore aggiunto Francesco Pinto e il sostituto Paola Calleri ha aperto una inchiesta per riciclaggio. Gli accertamenti, per questo filone di indagine, riguardano il possibile reimpiego occulto dei “rimborsi truffa” ottenuti da Bossi e Belsito, secondo l’ipotesi accusatoria travasati attraverso conti e banche diverse, al fine di metterli al riparo da possibili sequestri. In altre parole, nell’opinione dei pm, quei fondi sono stati incamerati, riutilizzati e forse messi al sicuro dai sequestri consapevolmente dalla Lega durante le gestione di Umberto Maroni e quella, attuale, di Matteo Salvini. Un arco temporale in cui il partito, che all’inizio si era costituito parte civile contro il suo fondatore, aveva rinunciato a ogni pretesa.

Cassazione: "Ecco perché bisogna sequestrare i conti alla Lega ovunque siano". Le motivazioni della sentenza della suprema corte contro il partito del vicepremier Matteo Salvini, che dice: "E' un processo politico", scrive il 3 luglio 2018 "La Repubblica". "Ovunque venga rinvenuta" qualsiasi somma di denaro riferibile alla Lega Nord - su conti bancari, libretti, depositi - deve essere sequestrata fino a raggiungere 49 milioni di euro. È quanto scritto nelle motivazioni della sentenza di Cassazione che accoglie il ricorso del pm di Genova contro la Lega. Al partito di Matteo Salvini sono stati bloccati fino a oggi 1 milione e mezzo di euro. I 49 milioni di cui si parla sono quelli che la Lega ha sottratto durante la gestione Bossi-Belsito secondo una sentenza che ha condannato il fondatore e l'ex tesoriere del Carroccio rispettivamente a 2 anni e mezzo e 4 anni e 10 mesi per truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali. "49 milioni non ci sono. Posso fare una colletta - ha detto in serata Matteo Salvini a In onda - E' un processo politico su fatti di più dieci anni fa su soldi che non ho mai visto. Posso portare i soldi datici dai pensionati a Pontida per comprare magliette, cappellini e patatine fritte". Secondo la Cassazione, però, la Guardia di Finanza può procedere al blocco dei conti della Lega in forza del decreto di sequestro, emesso lo scorso 4 settembre dal pm di Genova. Non serve quindi un nuovo provvedimento per eventuali somme trovate su conti in momenti successivi al decreto. L'avvocato del Carroccio, Giovanni Ponti, sostiene invece che le uniche somme sequestrabili sono quelle trovate sui conti "al momento dell'esecuzione del sequestro" con "conseguente inammissibilità delle richieste del pm di procedere anche al sequestro delle somme depositande". La tesi della difesa della Lega è che il pm potrebbe chiedere la confisca "anche delle somme future" solo durante il processo di appello. Ma la Cassazione ha obiettato che i soldi sui conti potrebbero non essere stati trovati al momento del decreto "per una impossibilità transitoria o reversibile" e il pm non deve dare conto di tutte le attività di indagine svolte "altrimenti la funzione cautelare del sequestro potrebbe essere facilmente elusa durante il tempo occorrente per il loro compimento". La reazione del partito è stata per ora affidata a Giulio Centemero, deputato e amministratore del partito: "Siamo stupiti di apprendere dalle agenzie, prima ancora che dalla Cassazione, le motivazioni della sentenza per cui dovrebbe proseguire il sequestro relativo a 48 milioni di euro di rimborsi elettorali. Forse l'efficacia dell'azione di governo della Lega dà fastidio a qualcuno, ma non ci fermeranno certo così". E poi fonti della Lega fanno sapere che sono pronte decine di querele nei confronti di chi parla di "soldi rubati dalla Lega".

Ecco perché la Lega deve restituire i 49 milioni. Lo dicono i giudici. Una memoria dell’avvocatura di Stato e la sentenza di Genova spiegano il motivo per cui i soldi dei rimborsi vanno sequestrati, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 19 luglio 2018 su "L'Espresso". Se qualcuno ha sottratto ai fondi della Lega, 500 mila euro o 800 mila, come fai a contestarmi un finanziamento di 49 milioni, basato sul numero di voti presi?». La tesi esposta lunedì scorso sul Corriere della Sera da Roberto Calderoli, uno dei pochi esponenti storici rimasti al vertice del partito anche adesso che comanda Matteo Salvini, riassume bene la posizione della Lega sulla vicenda dei quasi 50 milioni messi sotto sequestro dalla magistratura. Le stesse argomentazioni sono state ripetute dal tesoriere Giulio Centemero e dal vice premier Salvini. Da qui l’ipotesi «ci attaccano perché diamo fastidio» e le accuse ai magistrati di aver confezionato «una sentenza politica». In realtà le cose sono molto più semplici. Per capirle basta leggere la sentenza di condanna per truffa ai danni dello Stato comminata in primo grado dal tribunale di Genova lo scorso luglio contro Bossi e Belsito. E la memoria di 60 pagine depositata dall’avvocatura dello Stato in difesa di Camera e Senato, costituitesi parti civili nel processo per truffa. La coppia Bossi-Belsito spera nel processo d’Appello. Il 12 luglio è stato il giorno della requisitoria della procura generale, che rappresenta l’accusa in secondo grado. Difficile che si arrivi a sentenza entro la fine di luglio. Più probabile che i giudici decidano a settembre. Di sicuro a sostenere la tesi dei pm c’è di nuovo l’avvocatura dello Stato. Che, nella memoria depositata nel giudizio di primo grado, spiega i motivi per cui la Lega non avrebbe dovuto ottenere i rimborsi, e quindi la ragione della richiesta di sequestro dei 49 milioni. I giudici hanno stabilito di confiscare i rimborsi elettorali percepiti negli anni 2008-2009-2010 poiché i bilanci presentati dal partito in quei tre anni erano stati falsificati. «La liquidazione», si legge infatti nella sentenza, «è subordinata all’accertamento della regolarità del rendiconto». Lo prevede la legge, la numero 2 del 1997. Insomma l’erogazione dei rimborsi era vincolata alla presentazione di un bilancio regolare. Il problema è che in quei tre anni, come dimostrato al processo, i conti del Carroccio erano stati truccati. Attraverso «artifici e raggiri», si legge nella sentenza, sono state «riportate nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico». Proprio in relazione a quest’ultima frase, quella sulle spese estranee alla Lega, i giudici spiegano che «si è proceduto separatamente nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e Renzo Bossi». Questo è il punto su cui si rischia di fare confusione, per lo meno stando alle dichiarazioni di Calderoli. Perché il fatto che Bossi e colleghi abbiano speso soldi per fini personali - le lauree in Albania, ad esempio - non coincide con la truffa nei confronti dello Stato. Quella si chiama appropriazione indebita, reato per il quale il vecchio leader, l’allora tesoriere Belsito e il “Trota” sono stati condannati dal tribunale di Milano. In altre parole, i soldi che Salvini si dice disposto a mettere di tasca propria non hanno nulla a che fare con i 49 milioni messi sotto sequestro. Quelli, hanno deciso i giudici, la Lega li deve restituire perché percepiti illegalmente. La linea della difesa leghista è molto semplice e si basa su una anomalia del meccanismo: i rimborsi elettorali erano legati al numero di voti presi dal partito, quindi la rendicontazione delle spese era una pura formalità. La sentenza dei giudici di Genova e la memoria dell’avvocatura dello Stato fanno valere una tesi diversa. Come abbiamo detto, la legge del ’97 regolava i rimborsi vincolandoli alla presentazione di regolare bilancio. La successiva modifica del ’99, spiegano i giudici, «attribuiva un rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei Consigli Regionali». A un patto, però: che i bilanci non presentassero irregolarità, pena la sospensione dell’erogazione. Ecco perché i giudici, sostenuti in questo dai legali di Camera e Senato, sottolineano il fatto che i conti del Carroccio presentavano «false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute». E non si è trattato di spiccioli: nella sentenza si legge che nei tre anni analizzati «mancavano pezze giustificative per i due terzi delle spese del Movimento». Vale a dire circa 46 milioni di euro usciti dalle casse della Lega senza motivo. Per queste ragioni i giudici hanno deciso di sequestrare tutto il rimborso ottenuto dal Carroccio per quegli anni e non solo, come vorrebbe Salvini, il malloppo utilizzato da Bossi e Belsito per scopi privati. Come mai lo stesso trattamento non è stato riservato alla Margherita? La domanda è stata proposta più volte in questi giorni su giornali e social network. Perché Luigi Lusi, ex tesoriere del partito guidato da Francesco Rutelli, è stato protagonista di vicende molto simili a quelle di Bossi e Belsito, avvenute peraltro negli stessi anni e raccontate da L’Espresso con diverse copertine esclusive. In sostanza Lusi si era intascato parecchi milioni di euro frutto dei rimborsi elettorali, eppure i giudici non hanno sequestrato i soldi al partito. Il motivo sta tutto in una formuletta giuridica: costituzione di parte civile. Mentre la Margherita aveva infatti chiesto i danni a Lusi, ottenendo come conseguenza la restituzione del tesoro, la Lega di Salvini ha scelto di non farlo con Bossi e Belsito. «Sarebbe uno spreco di tempo e soldi», spiegò all’epoca il ministro dell’Interno. Che non aveva fatto bene i calcoli: la maledizione della truffa è ricaduta infatti anche sull’attuale partito, il quale non solo non otterrà alcun risarcimento ma dovrà restituire il maltolto. Una punizione aggravata dalle valutazioni dell’avvocatura dello Stato. Nella conclusione della memoria, i legali che rappresentano Camera e Senato definiscono «inqualificabile e scellerato» il comportamento dei protagonisti della truffa, soprattutto perché nel frattempo l’Italia viveva «un buio periodo», scrivono gli avvocati dello Stato, «nel quale i vertici del Paese sono stati costretti ad emanare disposizioni di rigido contenimento della spesa pubblica, tra le quali il blocco della contrattazione e l’aumento dell’età pensionabile con la riforma Fornero e via dicendo. Si rimane pertanto sbalorditi nel sapere che negli stessi anni venivano distribuiti migliaia di euro in nero a dipendenti della Lega tramite le “buste Buffetti”». L’atto d’accusa dei legali di Camera e Senato mette in relazione l’allegra gestione dei soldi pubblici da parte dei partiti, nel caso specifico della Lega, con il ricorso a drastiche politiche di austerity, come la legge Fornero. Quasi un contrappasso per Matteo Salvini, che sull’abolizione della riforma ha eretto un pezzo del suo successo elettorale.

Sentenza sui fondi al partito, la Lega chiede un incontro a Mattarella: "Messi fuorilegge come in Turchia". Durissima offensiva del Carroccio: "Vogliono mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano". Csm: toni inaccettabili. Di Maio: lo scandalo riguarda Bossi. Il capo della procura di Genova: "È come dire che un chirurgo compie un intervento perché il paziente è di un partito o di un altro". L'Anm: i magistrati non attaccano la democrazia, scrivono Tiziana Testa e Concetto Vecchio il 4 luglio 2018 su "La Repubblica". Matteo Salvini aveva parlato di una sentenza politica. Oggi la Lega va oltre e fa sapere di voler chiedere un incontro al capo dello Stato Sergio Mattarella, appena ritornerà dalla visita in Lituania. Le dichiarazioni dei vertici del Carroccio sono durissime: "Si tratta di un gravissimo attacco alla democrazia per mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano. Un'azione che non ha precedenti in Italia e in Europa". Il caso è quello della sentenza sui 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato: soldi frutto di una truffa, secondo quanto stabilito dal tribunale di Genova dopo la condanna di Umberto Bossi e dell'ex tesoriere Belsito. Ieri la Cassazione ha fatto conoscere le motivazioni per cui quei soldi vanno cercati ovunque e sequestrati. Da via Bellerio si parla addirittura di "attacco alla Costituzione, perché si nega il diritto a milioni di italiani di essere rappresentati". Nel corso della giornata lo scontro si è trasformato in uno scontro con il Csm. La Lega ha evocato addirittura la Turchia. E' scesa in campo l'Anm che ha specificato che i giudici non attaccano la democrazia. Un crescendo che ricorda gli attacchi di Berlusconi alla magistratura negli anni di governo del centrodestra. Nessuno al Csm risponde alle critiche della Lega alla sentenza della Cassazione sui fondi del partito, ma a Palazzo dei Marescialli si è tenuto un confronto al termine del plenum, durante il quale, a quanto si apprende, è stata espressa "seria preoccupazione" per parole e toni che vengono ritenuti "non accettabili". La reazione della Lega, in serata, non si è fatta attendere, ed è stata durissima: "Solo in Turchia un partito democratico, votato da milioni di persone è stato messo fuorilegge dalla magistratura", riferiscono ambienti vicini a Salvini. "Sarebbe ora che non ci fossero più correnti di sinistra né di nessun genere fra i magistrati, che dovrebbero essere imparziali": hanno specificato i capigruppo leghisti Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari e il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. Dal Quirinale non trapela nessun tipo di commento circa la richiesta di un incontro. In ambienti parlamentari però, si osserva che mai in passato i presidenti della Repubblica abbiano interferito con decisioni della magistratura. "Evidentemente le sentenze vanno rispettate in qualunque Paese democratico del mondo. Si possono criticare le sentenze ma non attaccare i giudici, perché questo è contrario al principio di separazione dei poteri", ha spiegato il segretario nazionale dell'Anm, Alcide Maritati. "Va ribadito con forza che i magistrati non adottano provvedimenti che costituiscono attacco alla democrazia o alla Costituzione, nè perseguono fini politici, ma emettono sentenze in nome del popolo italiano, seguendo regole e principi di diritto di cui danno conto nelle motivazioni", ha spiegato il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Francesco Minisci. "L'Anm rigetta ogni tentativo di delegittimare la giurisdizione e di offuscare l'imparzialità dei magistrati, principio costituzionale a difesa del quale continuerà sempre a svolgere la propria azione, auspicando che chiunque eserciti funzioni pubbliche abbia a cuore gli stessi fondamentali principi". E' intervenuto anche il capo politico dei Cinquestelle. "La vicenda dei fondi non mi crea alcun imbarazzo", ha spiegato Luigi Di Maio, commentando la vicenda da Casal di Principe. "Riguarda Bossi e il suo cerchio magico. In ogni caso è una sentenza e va rispettata". Dal Pd arriva un altolà sul coinvolgimento del Colle nel caso. "Se fossero confermate le pressioni della Lega per chiedere un incontro nientemeno che al presidente Mattarella sulla sentenza della Cassazione, saremmo di fronte a un caso grave e senza precedenti di invasione delle competenze costituzionali: che c'entra tirare in ballo il presidente della Repubblica con una sentenza giudiziaria, peraltro del massimo organo della nostra giurisdizione?", dice Michele Anzaldi, deputato Pd, che aggiunge:  "Abbiamo già assistito all'assalto di Di Maio e del Movimento 5 stelle contro il Colle durante i giorni della formazione del Governo, il Quirinale deve essere tenuto al riparo da questioni che nulla hanno a che vedere con le sue prerogative. E infine: "È opportuno che sia il vicepremier e leader della Lega Salvini, sia il presidente del Consiglio Conte smentiscano un'intenzione del genere". In mattinata Salvini aveva provato a circoscrivere la portata dell'attacco: "C'è qualche giudice che fa politica ma non c'è un disegno generale", aveva detto. Poi la scelta di puntare tutto sul piano politico lanciando l'allarme per la democrazia. Alla Lega intanto risponde la procura di Genova: "Dire che è un processo politico è come dire che un chirurgo quando opera compie un intervento politico su un paziente perché è di un partito o di un altro. Stiamo lavorando solo su profili tecnici", dice il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi. "La nostra procura ha seguito la vicenda perché in quel momento i soldi della Lega si trovavano ad essere a Genova e per competenza territoriale Milano ha inviato gli atti ai nostri uffici", ricorda Cozzi. E aggiunge: "Ci sono stati altri procedimenti avviati dai nostri uffici che hanno riguardato esponenti di partiti diversi, basti pensare all'alluvione (processo in cui è stata condannata l'ex sindaco di centrosinistra Marta Vincenzi, ndr)". Per tutta la giornata dal Pd sono arrivati duri attacchi al Carroccio e ai suoi alleati. Prima l'ex premier, Matteo Renzi: "Stiamo aspettando che il ministro Salvini venga a raccontare che fine hanno fatto i soldi della Lega. Nel frattempo che è impegnato a chiudere i porti bisognerebbe che aprisse il portafoglio perché quei soldi non sono della Lega sono dei cittadini". Il segretario reggente, Maurizio Martina, chiama in causa anche i Cinquestelle: "C'è un assordante silenzio grillino in queste ore sui 50 milioni di euro pubblici che la Lega deve restituire agli italiani. Dove sono i tromboni della morale a cinquestelle? Sono in silenzio perché per loro il potere è più forte della verità ora". Su Facebook anche lo scrittore Roberto Saviano torna all'attacco sul caso dei fondi leghisti: Un ministro che querela uno scrittore per aver manifestato liberamente il suo pensiero è un altro passo verso la Russia di Putin. Spero vivamente che Salvini mi quereli sul serio, non vedo l’ora di trovarmi con lui davanti a un giudice: avrebbe l’obbligo di dire la verità, per lui un’esperienza nuova. Quanto ai 50 milioni rubati dalla Lega, invece di manipolare l’ingenuità dei suoi elettori, il Ministro della Mala Vita Salvini potrebbe sfruttare qualche linea di credito già aperta con lo zar Vladimir. Un giorno non lontano gli italiani capiranno chi è il vero “traditore della patria”.

Fondi, scontro tra Lega e Csm "Messi fuorilegge come in Turchia". Il Carroccio chiede un incontro con Mattarella dopo il verdetto sul sequestro dei conti. Per le toghe "toni inaccettabili", scrive Franco Grilli, Mercoledì 04/07/2018, su "Il Giornale". È scontro aperto ormai tra la Lega e i magistrati dopo l'ok da parte della Cassazione per il blocco dei conti del Carroccio. Matteo Salvini già nel corso del suo intervento a In Onda ieri sera aveva parlato di una "sentenza politica". "Questa è una sentenza politica, cercano di metterci fuori legge e non ci stanno riuscendo. Possono sequestrarmi quello che vogliono". Parole dure quelle del titolare del Viminale a cui sono seguite anche le richieste da parte del Carroccio di poter incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in tempi rapidi per discutere del sequestro dei fondi del partito. Dopo questa mossa del Carroccio è arrivata la replica del Csm che si dice allarmato per la richiesta della Lega di voler coinvolgere il Colle in questo caso giudiziario. Fonti di Palazzo dei Marescialli criticano le accuse della Lega che parla di "attacco alla democrazia". E sempre dal Csm sarebbe emersa "forte preoccupazione" per i toni ritenuti "inaccettabili". A stretto giro è arrivata anche la controreplica proprio della Lega che mantiene la sua posizione e fa un paragone tra quanto accade in Turchia e quanto sa accadendo in Italia: "Solo in Turchia, nei tempi moderni, un partito democratico e votato da milioni di persone è stato messo fuorilegge attraverso la magistratura", avrebbero fatto sapere fonti del Carroccio in risposta al Csm. Intanto i capigruppo della Lega, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari hanno lanciato un messaggio chiaro: "Sarebbe ora che non ci fossero più "correnti di sinistra" né di nessun genere fra i magistrati, che dovrebbero essere imparziali". Pronta la risposta dell'Associazione Nazinale Magistrati: "Va ribadito con forza che i magistrati non adottano provvedimenti che costituiscono attacco alla democrazia o alla Costituzione, nè perseguono fini politici, ma emettono sentenze in nome del popolo italiano, seguendo regole e principi di diritto di cui danno conto nelle motivazioni. L’Anm rigetta ogni tentativo di delegittimare la giurisdizione e di offuscare l’imparzialità dei magistrati, principio costituzionale a difesa del quale continuerà sempre a svolgere la propria azione, auspicando che chiunque eserciti funzioni pubbliche abbia a cuore gli stessi fondamentali principio". Sul caso, interpellato dai giornalisti, è intervenuto anche il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio: "È una sentenza che non mi crea imbarazzo, lo scandalo riguarda Bossi e il suo cerchio magico e non la Lega di Salvini. In ogni caso è una sentenza e va rispettata. Ricordo che con la Lega abbiamo stipulato un contratto di Governo che prevede di fare insieme norme anticorruzione". Insomma lo scontro tra il Carroccio e le toghe prosegue ed è destinato a durare ancora a lungo. Di fatto la vicenda riguarda i rimborsi elettorali che la Lega Nord ha incassato nel biennio 2008-2010. I fondi che ammonterebbero a 49 milioni, secondo l'accusa sarebbero stati utilizzati per spese che non avrebbero legami con l'attività politica. Per questi fatti è arrivata la condanna circa un anno fa per Bossi e l'ex tesoriere Belsito per truffa ai danni dello Stato. Proprio dopo la sentenza i giudici avevano disposto la confisca di 49 milioni di euro.

Salvini e i magistrati. Uno strappo e troppe amnesie. Il ministro dell’Interno attacca. Tacciono invece il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, scrive L. Ferrarella il 4 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". «È una sentenza politica, siamo l’unico partito europeo che si vuole mettere fuori legge per sentenza giudiziaria»: peggiorare le parole del ministro Salvini sulla Cassazione era già arduo, ma c’è riuscita la Lega immaginando ieri l’inimmaginabile, e cioè di poter salire al Quirinale e usare il capo dello Stato quasi come irrituale grado d’appello contro una sentenza sgradita. La reazione di Matteo Salvini all’ammissibilità in Cassazione del sequestro dei 49 milioni di finanziamento pubblico alla Lega Nord, provento della truffa allo Stato costata in primo grado la condanna a Bossi e all’ex tesoriere Belsito, pareva già un record di analfabetismo istituzionale: lo strappo non «solo» di un segretario di partito, ma addirittura di un ministro dell’Interno che — alla faccia del «governo del cambiamento», e facendo impallidire persino il Berlusconi d’annata — proclama che i giudici della Corte suprema italiana non sono imparziali ma, mossi da pregiudizio personale, abusano della propria funzione per perseguire finalità politiche tecnicamente eversive quali quella (attribuita loro da Salvini) di «mettere fuori legge per sentenza» un partito votato da milioni di cittadini. Solo la narcosi imperante può far sorvolare sul fatto che Salvini minacci «querele a chi mi tira in ballo», ma non si faccia scrupoli ad attribuire ai giudici della Cassazione la commissione di un reato; o che scarichi su «chi c’era prima di me 10 anni fa» nella Lega, ma intanto a Milano non sporga contro «chi c’era 10 anni fa» la querela indispensabile a non fare estinguere in Appello un’altra condanna di Bossi e Belsito per aver usato soldi del partito a fini privati. Ma è forse più impellente domandare al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dirigente di quel Movimento 5 Stelle che da sempre dichiara di fondarsi sulla «legalità», se iscriva le parole di Salvini in quei «principi di autonomia, imparzialità e terzietà della magistratura» che il Guardasigilli pochi giorni fa prometteva al Csm di voler consolidare. E poiché tace pure la presidenza del Consiglio, titolare dell’interesse dei cittadini a contare su giudici imparziali (e perciò parte civile nei processi a toghe imputate d’aver svenduto la propria funzione), anche Giuseppe Conte alimenta un dubbio: sui giudici italiani il premier “avvocato degli italiani” la pensa come il suo ministro dell’Interno?

Soldi Lega, il vero motivo dell'accordo sui 49 milioni (in comode rate). Al partito di Salvini è stato concesso dalla Procura di restituire 100mila euro ogni due mesi. Con la decisione di versare autonomamente quanto dovuto allo Stato, il vicepremier dovrebbe evitare intrusioni investigative nei conti del partito ma soprattutto in quelli delle associazioni e fondazioni legate al suo cerchio magico, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 18 settembre 2018 su "L'Espresso". Alla fine l'accordo è arrivato: 48,9 milioni di euro da restituire ai cittadini italiani in comode rate e senza interessi. Una soluzione che rivela una crepa nell’impalcatura difensiva della Lega di Matteo Salvini. Un po’ come è accaduto con la costituzione di parte civile contro Umberto Bossi, ritirata all’ultimo momento. Il senso di questa retromarcia ha il sapore della sconfitta politica per il vicepremier: nonostante le accuse più volte rivolte ai magistrati, dimostra la volontà di chiudere al più presto una vicenda di cui si sta parlando troppo, e che rischia di produrre altre conseguenze negative per lui e i suoi colleghi. Il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, la presenta come una richiesta dei legali del Carroccio. Di sicuro alla Lega è stato concesso di restituire i 49 milioni di euro frutto della truffa sui rimborsi in rate da 100mila euro da versare ogni due mesi. In pratica, lo Stato impiegherà 81 anni per recuperare il suo credito. Un affare? La procura pensa così di ottenere l’intero tesoro senza dover investire tempo e risorse per andarlo a cercare. La Lega è evidentemente convinta di aver chiuso così la vicenda dei rimborsi elettorali del periodo 2008-2010 percepiti illecitamente, parte dei quali utilizzati anche dall’attuale ministro dell’Interno. Con la decisione di versare autonomamente quanto dovuto allo Stato, il Carroccio e il suo segretario dovrebbero evitare intrusioni investigative nei conti non solo del partito ma soprattutto in quelli delle associazioni e fondazioni legate al cerchio magico del ministro dell'Interno. Proprio quelle che raccontiamo in questa inchiesta. Il senso dell’accordo è dunque semplice: non saranno più i magistrati a dover andare a caccia dei denari riconducibili alla Lega, come imponeva la sentenza della Cassazione sul sequestro, ma sarà la Lega stessa a mettere il denaro a disposizione della procura senza dover spiegare per filo e per segno da dove arrivano quei soldi. Tutto questo sempre che in appello la sentenza di condanna per truffa non venga ribaltata: scenario che permetterebbe a Salvini di non dover restituire più nemmeno un euro allo Stato. Se vogliono toglierci tutto, lo possono fare. Noi abbiamo gli italiani con noi, facciano quello che credono». Le parole pronunciate da Matteo Salvini lo scorso 6 settembre, poco dopo la sentenza del tribunale del Riesame sui fondi della Lega, farebbero pensare ad un partito disposto a farsi sequestrare tutto, talmente forte del consenso popolare da non doversi nemmeno opporre alla confisca. Come dire: la sentenza è ingiusta, ma noi non abbiamo paura, toglieteci pure tutti i soldi tanto continueremo ad avere l’appoggio della gente. Su quest’ultimo punto Salvini potrebbe anche avere ragione, ma sull’aspetto finanziario mente. Perché i soldi, quelli che il ministro dell’Interno invita a sequestrare fino all’ultimo centesimo, non ci sono più. Da quando è iniziata l’indagine sulla truffa, il denaro è infatti gradualmente sparito. E così, nonostante la decisione del riesame autorizzi la procura di Genova a mettere le mani non solo sui conti del partito ma anche su quelli riconducibili ad esso, sarà ora molto difficile per lo Stato recuperare i 48,9 milioni di euro. Fino a poco tempo fa la Lega poteva in realtà disporre di parecchia liquidità. Quella donatale dai piccoli sostenitori e dai suoi parlamentari, come ama ricordare il suo leader. Ma anche quella versata dalle aziende. Ed è qui che emergono alcune sorprese. Perché nella lista ricostruita dall’Espresso compaiono nomi di grosse società italiane e di una multinazionale. Rappresentanti delle cosiddette élite, le stesse che Salvini non perde occasione di contrapporre al popolo. Di più. Tra i finanziatori cercati dalla Lega c’è anche un manager indagato dall’antimafia, un’impresa implicata in un processo sullo smaltimento di rifiuti e un grande gruppo alimentare interessato a ottenere un permesso urbanistico in un comune governato dal Carroccio. Fare la radiografia delle finanze leghiste non è semplice. Ci sono i conti del partito e quelli delle società controllate, ma esiste anche una galassia di associazioni, fondazioni e onlus poco note. Sigle ufficialmente non legate al Carroccio, ma che ora gli investigatori potrebbero far ricadere sotto la categoria delle realtà «riconducibili». Ognuna di esse ha infatti almeno un conto corrente che il partito potrebbe aver usato per finanziarsi. E che dunque, almeno teoricamente, potrebbe essere analizzato dagli investigatori per cercare di restituire ai cittadini italiani quei quasi 49 milioni di euro rubati. Qualche esempio? C’è l’associazione “a/simmetrie”, la “Scuola di formazione politica” ideata da Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture e ideologo della flat tax. La fondazione federalista “Per l’Europa dei Popoli” dell’eurodeputato Mario Borghezio. Scorrendo l’elenco riassunto nel grafico alla pagina precedente balza all’occhio la Lega per Salvini Premier. Una new company creata l’anno scorso con l’obiettivo ufficiale di sancire l’esistenza di una nuova Lega, non più secessionista ma nazionalista, non più anti-meridionali ma anti-stranieri. O forse, insinuano i maligni, un semplice tentativo di blindare le nuove entrate dai sequestri della magistratura. Fatto sta che la nuova Lega ha avuto di sicuro in pancia almeno gli euro raccolti quest’anno grazie alle donazioni del 2 per mille. Dove sono finiti? Chissà. Risposta valida anche per i denari ricevuti da un’altra creatura dotata di conto autonomo: Noi con Salvini, creata nel 2015 e morta nel giro di un paio d’anni. Di certo uno dei canali usati dal vicepremier per incamerare finanziamenti senza farli passare dai conti ufficiali della Lega è stata l’Associazione Più Voci. Fondata nel 2015 a Bergamo da tre uomini del partito - Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, che rivestono ruoli amministrativi, e Giulio Centemero, tesoriere e deputato - l’associazione è finita sotto l’occhio degli investigatori dopo che L’Espresso, nell’aprile di quest’anno, ne ha rivelato l’esistenza raccontando come nel giro di un anno abbia ricevuto parecchi soldi. Donazioni di imprese private: 250 mila versati dal costruttore romano Luca Parnasi, arrestato poco dopo per corruzione, e 40 mila euro bonificati da Esselunga. Di sicuro il conto della Più voci è nel mirino della guardia di finanza perché ritenuto riconducibile al partito. Del resto il fondatore è il tesoriere della Lega, e alcune somme entrate nelle casse dell’associazione sono finite poco dopo a società e cooperative del Carroccio. Ci sono per esempio i bonifici effettuati a favore della Mc, impresa che edita il giornale online Il Populista ed è controllata direttamente dalla Fin Group, di proprietà della Lega Nord. E quelli indirizzati all’iban di Radio Padania, la storica emittente di via Bellerio. Resta un solo quesito irrisolto. Chi sono gli altri finanziatori dell’associazione? Il dubbio nasce dalle intercettazioni a carico di Parnasi. In uno dei dialoghi captati dai carabinieri di Roma, l’imprenditore sostiene che almeno dieci imprese abbiano finanziato la Più voci. Quindi, detto di Esselunga e della società Pentapigna di Parnasi, ne mancano in teoria otto all’appello. Interpellato sulla questione, Centemero non ha fornito i nomi ma ha detto che «tra il 2015 e il 2018 ci sono stati erogati contributi per 328.400 mila euro». Insomma, ci sono almeno altri 40 mila euro donati alla Più Voci da imprenditori tenuti segreti in nome della privacy. Non proprio una prova di trasparenza per il governo del cambiamento. E neppure di legalità: sopra i 5 mila euro i finanziamenti ai partiti vanno dichiarati al parlamento, e quindi ai cittadini. Parnasi ha detto, intercettato, che i suoi 250 mila euro servivano per la campagna elettorale di Parisi. Non dunque per la libertà d’informazione, come ha assicurato Centemero rispondendo alla nostra richiesta di chiarimenti. Quindi, se Parnasi dice il vero, quei soldi dovevano essere dichiarati. Per finanziarsi la Lega ha usato anche dei modi molto semplici: ha organizzato delle cene con le aziende. Eventi molto simili a quelli messi in piedi quattro anni fa da Matteo Renzi, che per questo era stato attaccato duramente da chi oggi è al potere. Il leader del Pd ingrassa con le cene da mille euro mentre mette a dieta gli italiani, aveva commentato Salvini. Mentre Beppe Grillo riassumeva così il senso di quelle iniziative: «L’elettore tipo del Pd è ormai un broker, un finanziere o un ex della banda della Magliana». Va detto che la legge non vieta a un partito di organizzare cene di finanziamento: basta appunto dichiarare al Parlamento qualsiasi donazione superiore ai 5 mila euro. Il problema, come per il caso precedente, è la trasparenza promessa dall’attuale governo. E la presenza di alcuni nomi che sembrano contraddire certi mantra cari a Salvini, tipo quello della Lega rappresentante del «popolo contro le élite», delle «piccole imprese contro le multinazionali». Già, perché alla cena in questione, avvenuta il 19 ottobre del 2015 alla Fonderia napoleonica di Milano, un’ antica fabbrica usata oggi anche per feste private, nell’elegante quartiere dell’Isola, fra i tanti invitati a finanziare il partito c’era per esempio Luigi Patimo, responsabile per l’Italia del colosso iberico Acciona, gruppo composto da un centinaio di società presenti in 65 nazioni del mondo e attive nei più svariati settori, dalle costruzioni ai trasporti, dalla logistica fino alla concessioni stradali. Senza dimenticare i servizi idrici, la cosiddetta gestione privata dell’acqua contro cui gli alleati a 5 Stelle combattono da anni, tanto da aver inserito la ripubblicizzazione nel contratto di governo firmato da Salvini. Ma non è solo questo a colpire, quando si analizza il profilo di Patimo. Il manager della multinazionale spagnola è infatti anche indagato per corruzione dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, responsabile dei lavori pubblici nel municipio dello Stretto, imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta nel processo Gotha. Una storia giudiziaria intricata, nella Calabria in cui alle ultime elezioni il partito di Salvini ha collezionato un risultato che nessun padano avrebbe mai immaginato. Va detto che la notizia dell’indagine a carico di Patimo è emersa sui giornali nel 2016, dunque dopo la cena nel centro di Milano. E che, ad ogni modo, essere indagato non significa aver commesso un reato. La questione è politica. Anche perché, nonostante i sospetti dell’antimafia, Patimo continua a essere socio in un’azienda, la Profilo Srl, di un importante esponente leghista del governo: Armando Siri. Quanto ha versato il manager della multinazionale nelle casse della Lega? Perché? Chi erano gli altri manager e imprenditori presenti a quella cena? Quanto ha raccolto in totale il partito? Come sono stati usati quei soldi? Abbiamo inviato queste domande a Patimo, a Siri e alla responsabile dell’ufficio stampa della Lega, Iva Garibaldi. Ma nessuno ci ha risposto. I documenti in possesso dell’Espresso si fermano a qualche giorno prima della cena. Frammenti di un evento che pare aver coinvolto decine di imprese, ma di molte delle quali non abbiamo dati sufficienti per citarle. Tra gli invitati possiamo menzionare con sicurezza, oltre a Patimo, altri tre rappresentanti aziendali. C’è Dante Bussatori del Gruppo Elios, impresa piacentina che si occupa di bonifiche ambientali, attualmente sotto processo a Novara per una vicenda di finti smaltimenti. «Sono stato invitato a decine di questi eventi, ma per principio non partecipo mai a queste inutili cene», taglia corto il manager di Elios. Nella lista di invitati c’è anche Daniele D’Alfonso della Ecol Service di Milano, attiva nello stesso settore. D’Alfonso non ha risposto alle nostre domande, mentre lo ha fatto Gabriele Gazzano della Editel, impresa edile della provincia di Cuneo, confermando di aver ricevuto l’invito ma di non aver poi partecipato né finanziato il partito. Le carte raccontano che le donazioni dovevano finire su un conto corrente aperto dalla Lega presso Banca Prossima, istituto di credito del gruppo Intesa Sanpaolo, sequestrato di recente dai magistrati con soli 6 mila euro a disposizione. Dove sono finiti gli altri denari raccolti? Su quel conto non sono affluite solo le donazioni offerte a quella cena dalle imprese, ma anche altri fondi leghisti: lo rivela un documento compilato dalla Uif, l’autorità italiana che si occupa di antiriciclaggio. Il 16 gennaio del 2017 il partito, già allora guidato da Salvini e amministrato da Centemero, sposta infatti 145 mila euro dal conto Unicredit a quello aperto presso Banca Prossima. Niente di strano, se non fosse che in quel periodo sulla stampa erano usciti degli articoli che davano notizia dell’indagine per riciclaggio avviata dalla procura di Genova. Riciclaggio che - è tuttora l’ipotesi degli inquirenti - la Lega avrebbe compiuto facendo perdere traccia dei soldi frutto di reato (la truffa ai danni dello Stato, la stessa per cui deve restituire i quasi 50 milioni), spostandoli all’estero e facendone infine rientrare una parte in patria. Tutto questo per evitare il sequestro, sospettano gli investigatori. Dei 48,9 milioni che in teoria dovrebbero rendere allo Stato, al momento la guardia di finanza è riuscita a sequestrarne poco più di 3. Le confische hanno riguardato i conti nazionali e quelli regionali del partito. La Lega Nord ha però anche le sezioni provinciali e cittadine, e questi conti pare che non siano ancora stati toccati. Analizzandoli con cura gli inquirenti potrebbero fare qualche scoperta interessante. È il caso della Lega Mantovana, che lo scorso 4 luglio - secondo una fonte interna al partito - ha beneficiato di un bonifico molto particolare: 10 mila euro provenienti dalla Lega nazionale, a cui erano stati versati poco prima da una delle più grandi aziende della zona, la Pata. Sarebbe stato proprio il gruppo del patron Remo Gobbi a chiedere che quei soldi finissero alla sezione mantovana. Perché questo strano giro di denaro? E come mai Pata ha voluto che i soldi andassero alla sede locale del partito? Secondo la fonte, a cui abbiamo garantito l’anonimato per evitargli ritorsioni da parte dei colleghi, il motivo è duplice: da una parte renderne più complicato il sequestro, visto che si tratta appunto di una sezione locale non ancora toccata dalle confische, dall’altra incentivare i dirigenti locali a concedere un permesso a cui l’azienda delle patatine fritte tiene molto. Pata ha infatti annunciato pubblicamente qualche mese fa di voler ampliare il proprio stabilimento di Castiglione delle Stiviere, Comune governato proprio dalla Lega e feudo elettorale del neodeputato Andrea Dara, che della cittadina è vice sindaco e assessore all’Ambiente. Un investimento da 10 milioni di euro, che porterà la società a occupare altri 35 mila quadrati. Condizione necessaria: l’approvazione, da parte del Comune, del cambio di destinazione d’uso del terreno da agricolo a industriale. Un’accusa pesante, insomma, fatta peraltro in modo anonimo. Per questo abbiamo chiesto un commento sulla vicenda sia alla Pata che ad Antonio Carra, segretario provinciale della Lega a Mantova. Domande rimaste senza risposta.

Soldi della Lega: pm in Lussemburgo. Tre mesi fa l'inchiesta dell'Espresso sui fondi offshore. La procura di Genova a caccia dei soldi delle truffa ai danni dello Stato. Ipotesi di reato è il riciclaggio. Una parte del denaro sarebbe finita nel Granducato e poi fatta rientrare in Italia. E domenica in edicola tutti i trucchi usati dal Carroccio per sparpagliare il tesoro padano, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 settembre 2018 su "L'Espresso". I magistrati di Genova in Lussemburgo. Alla ricerca dei soldi della Lega. I pm della procura ligure si sono recati nel Granducato in seguito a una rogatoria per cercare di tracciare i flussi di denaro riconducibili al partito guidato da Matteo Salvini. Il blitz, condotto dalla Guardia di finanza, nasce in seguito all'inchiesta per riciclaggio al momento a carico di ignoti. L'ipotesi della procura è che una parte dei quasi 50 milioni frutto della truffa ai danni dello Stato sia stata portata nella piazza offshore e poi fatta rientrare in Italia attraverso società di comodo. Tutto questo, sostengono gli inquirenti, per evitare il sequestro disposto dalla sentenza di primo grado oltre un anno fa e confermata pochi giorni fa dal tribunale del riesame. La pista del Lussemburgo era stata scoperta tre mesi fa dall'Espresso, in un'inchiesta giornalistica dal titolo “L'Europa offshore che piace a Salvini”. In quell'articolo basato su documenti e bilanci societari avevamo raccontato i rapporti tra la Lega e il paradiso fiscale europeo. Eravamo partiti da via Angelo Maj 24, a Bergamo, dove c'è un piccolo studio contabile di proprietà di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Due professionisti come tanti, se non fosse per la loro ascesa, a partire dal 2014, all'interno dell'amministrazione del partito di Salvini. Alla coppia, poco nota alle cronache, si aggiunge un terzo uomo, più conosciuto: Giulio Centemero, il tesoriere ufficiale del partito, voluto dal leader che ha portato la Lega al governo. Centemero, eletto alla Camera alle ultime elezioni, è l'uomo incaricato di gestire i conti dopo gli scandali della truffa sui rimborsi elettorali durante la gestione di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Di Rubba, Manzoni e Centemero: i cassieri di Matteo, insomma. Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000. Un trio al cui vertice c'è proprio il neodeputato e tesoriere. Gestiscono decine di società con base in via Angelo Maj, nuovo quartier generale delle finanze leghiste, sette delle quali controllate - attraverso delle fiduciarie italiane tra i cui soci c'è anche un'anonima impresa svizzera - da una holding lussemburghese che fa capo a un'altra fiduciaria. Impossibile dunque, vista la sofisticata schermatura finanziaria, sapere chi sono i reali proprietari delle società registrate presso lo studio di Di Rubba e Manzoni. E impossibile è anche conoscere l'origine dei capitali attraverso cui sono state costituite. L'unica certezza è che seguendo il flusso di denaro si arriva nel Granducato, uno dei principali paradisi fiscali europei. Ed è in questa catena di anonime società che si inserisce un manager della Pharus Management, una delle società lussemburghesi che gli inquirenti ritengono al centro del riciclaggio leghista. Ma non c’è solo la pista del Granducato.

Le "comode rate" in 76 anni tra mugugni e ironia. Rispolverata la protesta di Salvini del 2005 contro la Lazio per il debito dilazionato a Lotito, scrive Sabrina Cottone, Giovedì 20/09/2018, su "Il Giornale". Centrodestra a parte, non molti hanno gradito la rateizzazione fino al 2095 concessa dalla procura di Genova alla Lega per estinguere il suo contenzioso da 49 milioni di euro con lo Stato. In tanti, più o meno giustizialisti, si aspettavano un trattamento più duro di quello accordato dall'intesa: e cioè 600mila euro l'anno per 76 anni per scontare l'accusa di truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali 2008- 2010. Difende a spada tratta la Lega Mariastella Gelmini, capogruppo dei deputati azzurri alla Camera: «L'accordo è positivo perché scrive la parola fine a una storia che ha rischiato di incrinare le dinamiche democratiche del Paese». In controluce, oltre all'attacco a Matteo Renzi per la scelta di «schierarsi con i peggiori giustizialisti», si sente il sospiro di sollievo per la fine degli scontri con la magistratura. Le critiche suonano più rumorose. Mentre il deputato pd Michele Anzaldi si chiede se «la Corte dei Conti non ha nulla da dire» ed Emanuele Fiano accusa i 5Stelle di «silenzio ipocrita su furto e rate», a commentare l'intesa in tranches tra Lega e Procura di Genova, riemerge dal silenzio l'ex pm ed ex ministro Antonio Di Pietro, protagonista della stagione delle inchieste di Mani Pulite. La rateizzazione «la posso giustificare, ma io non lo avrei mai fatto, perché la legge è uguale per tutti». Da esperto del tema, certo non da campione di garantismo nei confronti dei politici, eccolo annotare: «Non regge giuridicamente e formalmente, ma sul piano dell'opportunità prendo atto della necessità del magistrato di non apparire come contro chi sta al governo e ha un consenso elettorale, e quindi gli darei un'attenuante generica». Sarcasmo figlio della lunga frequentazione delle aule di giustizia. Alle facili ironie politiche sulle «comode rate» si aggiunge un inatteso attacco in arrivo dai campi da calcio. Correva il lontano anno 2005 quando il trentaduenne Matteo Salvini scese in piazza per protestare contro la dilazione nel pagamento dei debiti della Lazio concessa a Claudio Lotito nel momento in cui acquistò la società. E oggi il presidente biancoceleste si toglie qualche sassolino dalle scarpe. «C'è differenza tra me e la Lega di Salvini» dice a Repubblica Lotito, non a digiuno dei meccanismi perché più volte sotto indagine. Ecco ciò che distinguerebbe il segretario della Lega dal patron della Lazio: «Io pago il debito fatto da altri e ogni anno verso 6 milioni al fisco. Salvini all'epoca protestava? Questo è un problema suo. Io l'ho fatto per salvare la Lazio». In realtà la vicenda giudiziaria è tutt'altro che chiusa e non solo per i parlamentari della Lega che, come ha confermato Salvini, «cacceranno fuori ogni mese il cash, pagando per eventuali reati commessi dieci anni fa da chi c'era prima di me». È attesa per il 20 novembre la sentenza della Corte d'Appello di Genova nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e tre ex revisori contabili del partito.

Fondi Lega, quando Salvini protestava contro il pagamento a rate del debito della Lazio. Il leader del Carroccio, nel marzo del 2005, guidava la rivolta contro il trattamento riservato alla società di Lotito, che ottenne di spalmare il debito in 23 anni: "Al piccolo imprenditore i debiti fiscali non li toglie nessuno'', diceva, scrive Tiziana Testa il 19 settembre 2018 su "La Repubblica". Corsi e ricorsi. Un debito dilazionato in comode rate. Non parliamo di quello della Lega, dopo la sentenza sulla truffa dei rimborsi elettorali dal 2008 al 2010. Ma di un debito più antico e ancora più robusto. Quello della società sportiva Lazio che nel 2005 ottenne, in virtù dell'applicazione di una legge del 2002, la dilazione in 23 anni del debito da oltre 140 milioni accumulato con il fisco (un trattamento in fondo ben più severo rispetto agli 80 anni per ripagare 49 milioni di euro concessi al Carroccio). Solo che a quei tempi Matteo Salvini, allora europarlamentare della Lega Nord, era dall'altra parte della barricata. Letteralmente. E guidava la protesta davanti alla sede della Lega calcio, in via Rosellini. Ecco cosa raccontava l'agenzia Ansa quel giorno: Al grido di ''Lazio fallita, Padania salvata'', l'europarlamentare leghista Matteo Salvini ha spiegato che ''i cittadini del Nord sono contrari a qualsiasi ipotesi di decreto spalmadebiti per le società di calcio, e anche a quelle norme che hanno consentito alla Lazio di Lotito di dilazionare i suoi debiti con il fisco''. "Le norme fiscali che prevedono sconti o dilazioni nei confronti del fisco - ha spiegato Salvini - vanno cancellate. Cancellate per tutti a prescindere dal calcio. Al piccolo imprenditore - ha aggiunto Salvini - i debiti fiscali non li toglie nessuno''. La delegazione dei militanti leghisti, una decina di persone, ha esposto davanti al portone della Lega un lungo striscione con la scritta: ''Il calcio paghi tutti i suoi debiti, nessuno sconto ai signori del pallone''. Questo nel 2005. Tredici anni prima delle attuali disavventure del Carroccio nelle aule giudiziarie. Il primo a ricordare il caso è Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri e coordinatore nazionale di Italia in Comune, lo schieramento di sindaci di cui fa parte anche Federico Pizzarotti. "Il segretario della Lega tira un sospiro di sollievo per l'accordo raggiunto con la procura di Genova che sequestrerà centomila euro a bimestre per ottant'anni ma, come spesso gli capita, dimentica gli attacchi pesanti sferrati alla Lazio e al presidente Claudio Lotito quando, nel lontano 2005 questi sottoscrisse con l'Agenzia delle Entrate la dilazione del debito della società di calcio". Il debito della Lazio era il triplo di quello della Lega e l'accordo raggiunto col Fisco prevedeva rate corpose da saldare in 23 anni. La soluzione raggiunta dalla Lega prevede invece una dilazione in 80 anni. "Come a dire - chiosa Pascucci - che il vero motto di Salvini è prima i leghisti, poi gli italiani".

Lega, indagine su 100 conti in 40 banche: così la Procura cerca i milioni «scomparsi», scrive Andrea Pasqualetto Su "Il Corriere della Sera" l'8 luglio 2018. Al vaglio della Procura di Genova i rapporti bancari nel mondo del Carroccio. Conti correnti, libretti di risparmio, depositi, rapporti bancari di ogni genere. Gli uomini del Nucleo di polizia economica di Genova stanno cercando di districarsi nel complesso mondo finanziario della Lega, centrale e periferica. Un’indagine che al momento ha fissato l’ordine di grandezza del sistema: una quarantina di istituti di credito nei quali sono stati aperti quasi cento conti di varia natura. I numeri danno l’idea del lavoro che sta affrontando la procura, dove è stato aperto un fascicolo per riciclaggio del quale si sta occupando la Finanza. Non ci sono indagati, ha detto il procuratore capo Francesco Cozzi, che nei giorni scorsi aveva precisato come questi movimenti di denaro «possano essere anche leciti, si tratta di verificarlo». Il fascicolo è stato aperto sulla base della denuncia di un ex revisore dei conti della Lega, Stefano Aldovisi, condannato il 24 luglio 2017 al processo per i cosiddetti «rimborsi truffa» che ha visto sul banco degli imputati anche il vecchio leader del Carroccio Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Alla sentenza aveva fatto seguito, il 4 settembre, un sequestro preventivo di 49 milioni di euro, considerato dai giudici il prezzo della truffa che si sarebbe consumata fra il 2008 e il 2010. Ma gli investigatori nelle casse della Lega di milioni ne hanno trovati solo 3. «Al 31 dicembre del 2011 nel bilancio del movimento politico c’era un attivo di 47.791.649 euro, dei quali 20,3 in titoli e 12,8 milioni di liquidità», ha scritto Aldovisi nel suo esposto chiedendo alla procura di indagare sui flussi di denaro che nei sei anni successivi hanno portato a prosciugare le casse del Carroccio. L’ex revisore ha suggerito al pm un servizio del settimanale L’Espresso nel quale si parla 19,8 milioni di euro trasferiti dai conti di due banche di riferimento del partito, la filiale Unicredit di Vicenza e la sede milanese della Banca Aletti, «per essere messi in sicurezza». La segnalazione di Aldovisi non è disinteressata naturalmente. L’uomo dei conti della Lega del Senatùr sta infatti tentando di recuperare i 40 mila euro che gli sono stati sequestrati il 30 novembre scorso come conseguenza della condanna. In sostanza, Aldovisi sostiene che il denaro esiste, basta cercarlo, e l’indagine sul riciclaggio punta a questo. E incrocia inevitabilmente lo strascico del processo per i rimborsi pubblici, rispetto al quale la procura potrebbe dover presto recuperare quei 49 milioni, forte della sentenza della Cassazione che ha affermato il principio dei sequestri sulle entrate future del partito e dell’ «ovunque si trovi il denaro e presso chiunque». Principi che devono però essere prima recepiti dal tribunale del Riesame e poi diventare esecutivi. Senza aspettare quella data, la Guardia di finanza va a caccia del denaro nell’ambito dell’inchiesta sul riciclaggio. Imbattendosi in un labirinto di bonifici, prelievi, giroconti, da una banca all’altra, dal centro alle periferie. È spuntata la bolzanina Sparkasse dell’epoca Maroni, la Popolare di Vicenza e molte altre banche: una quarantina appunto. Sono state avviate rogatorie con l’estero e si cerca di capire il legame economico fra la vecchia Lega e la «Lega per Salvini premier», che è un soggetto autonomo. «Però attenzione — hanno avvertito prudentemente in procura — non è detto che i movimenti siano illegali».

La sentenza sulla Lega? Eccessiva, dice Nordio, ma anche una lezione a Salvini. Perché il cammino verso il congelamento di quarantanove milioni si annuncia impervio, scrive Annalisa Chirico il 6 Luglio 2018 su "Il Foglio". Il punto decisivo è il “rapporto pertinenziale” menzionato a pagina sette della sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, presieduta dal giudice Matilde Cammino, che ha accolto il ricorso del pm di Genova contro la Lega del vicepremier Matteo Salvini. Secondo la Suprema Corte, qualsiasi somma di denaro riferibile al partito – su conti bancari, libretti, depositi – deve essere sequestrata, “ovunque venga rinvenuta”. Atteso che, ad oggi, sono stati sequestrati circa un milione e mezzo di euro, il cammino verso la cifra di quarantanove milioni si annuncia impervio. “Ho letto le motivazioni – dice al Foglio Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, ora in pensione – Il giudice di merito cui si rinvia la decisione non potrà che applicare un principio sacrosanto, fissato dalla stessa Cassazione: le somme sequestrabili devono avere un nesso pertinenziale con il prodotto o il profitto del reato. La Guardia di finanza deve reperire denari o beni equivalenti riferibili alla Lega, inclusi quelli eventualmente trasferiti all’estero, purché siano pertinenti con il reato. Possono essere aggredite esclusivamente le acquisizioni realizzate fino al momento del reato, non quelle attuali o future. E’ inconcepibile che, se oggi io dono un obolo alla Lega, questo sia sequestrato per un reato con cui non ha alcun nesso”. Eppure, a dispetto del riferimento a pagina sette, la Procura di Genova intende bloccare tutte le somme, incluse quelle “depositande”, al punto che Salvini e il suo uomo-macchina, Giancarlo Giorgetti, hanno costituito associazioni d’area al fine di assicurarsi le risorse minime per proseguire l’attività politica. “Obiettivamente, e senza incolpare alcun magistrato, constato che dopo venticinque anni siamo ancora lì: le sentenze giudiziarie – una volta quelle penali, adesso quelle civili – condizionano il funzionamento della nostra democrazia. La creazione di enti paralleli mi sembra una conseguenza inevitabile. Se si ammette che anche le prossime acquisizioni pecuniarie siano oggetto del sequestro, diventa inevitabile cambiare la ragione sociale del donatario. L’abc del diritto impone che i beni futuri non possano essere toccati: se passa il principio opposto, è barbarie giuridica. Qui non c’è una Lega debitrice e un creditore che pretende di riscuotere quanto gli spetta. Il contendere riguarda una somma che, secondo una sentenza, è stata oggetto di truffa e appropriazione indebita. La Lega deve restituire il maltolto, e i denari aggredibili sono quelli pertinenti con il reato, non successivi a esso”. Il leader del Carroccio si è rivolto al capo dello stato Sergio Mattarella denunciando un “gravissimo attacco alla democrazia per mettere fuori gioco, per via giudiziaria, il primo partito italiano”. Secondo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, invece, è sbagliato evocare “scenari da Seconda Repubblica”. “A mio giudizio, Salvini ha ragione – prosegue Nordio – Il sequestro di una cifra così ingente comporta la compromissione dell’attività politica. Significa impedire a un partito di governo di sopravvivere. Le sentenze vanno rispettate, dura lex sed lex, ma non ho mai visto un provvedimento di sequestro così congegnato. E’ pacifico che il giudice di merito applicherà il principio di pertinenzialità. Il fatto stesso però che su questo punto sorgano interpretazioni incerte e ambigue evidenzia una grave mancanza di chiarezza nella decisione degli ermellini”. Il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi ha respinto le accuse di processo politico: “Stiamo lavorando solo su aspetti tecnici”, ha detto. “Ogni magistrato difende i provvedimenti che firma. Ma, come ha chiarito l’Anm, le sentenze sono criticabili, con urbanità e senza aggressione. Questa è, senza dubbio, una sentenza criticabile”. Qualcuno ha stabilito un paragone con la Margherita di Luigi Lusi. In quel caso però i giudici non hanno ritenuto correo il partito, costituitosi parte civile nel processo. Salvini non ha fatto altrettanto per la Lega. “Sono scelte politiche e personali che esulano dal mio giudizio. Sul piano tecnico, non sarebbe cambiato nulla, forse avrebbe dato un segno di discontinuità”. La Lega ha sottoscritto un contratto di governo con il M5s che rafforza lo strapotere giudiziario. Questa vicenda susciterà un ravvedimento? “Non saprei – conclude Nordio – Io, da garantista, sono preoccupato da alcune scelte antigarantiste incluse in quel programma. Né mi convincono le proposte annunciate dal guardasigilli. Confidiamo nel buon senso”.

Carroccio da vittima a imputato Ecco le stranezze dell'inchiesta. I 49 milioni che la Cassazione vuole sequestrare sono solo presunti. Il dietrofront: non può esserci confisca immediata, scrive Luca Fazzo, Giovedì 05/07/2018 su "Il Giornale". Nell'euforia del momento, ieri molti giornali annunciavano che i quattrini della Lega sarebbero stati «immediatamente sequestrati», dovunque si trovassero e qualunque fosse la loro provenienza, grazie alla sentenza della Cassazione. Ovviamente non poteva essere così, come qualunque studente di giurisprudenza avrebbe potuto spiegare. E infatti la Procura di Genova si ritrova costretta a diramare una precisazione spiegando che non è affatto così: e che tutto resta fermo fino a quando non si esprimerà nuovamente il tribunale del Riesame, cui la Cassazione ha rispedito la palla. Certo, nella nuova decisione i giudici dovranno tenere conto di quanto stabilito dalla Suprema Corte: ma i margini per un dissenso motivato sembrano esserci ancora. Ciò premesso, quello che sembra aprirsi è uno scenario assolutamente inedito, mai percorso neanche ai tempi di Tangentopoli: un partito che vede il suo intero patrimonio presente e futuro messo sotto sequestro, in seguito a un processo in cui figurava non come imputato ma come vittima. Proprio questa è la prima anomalia che salta agli occhi: il processo genovese a Umberto Bossi e Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega, altro non è che una costola dell'indagine nata a Milano, ed approdata in parte nel capoluogo ligure per competenza territoriale. Prima che il processo si spezzettasse, la Lega aveva chiesto e ottenuto di costituirsi in giudizio contro Belsito e i suoi coimputati. Significa che anche pm e giudici consideravano il Carroccio la parte offesa della vicenda dei bilanci falsi. La costituzione venne poi revocata nel novembre 2014 da Matteo Salvini, per ragioni mai del tutto spiegate. Il processo approda a Genova, e qui la Procura ribalta l'impostazione, e punta alla cassaforte della Lega, chiedendo il sequestro (oltre che degli stipendi e dei vitalizi di Umberto Bossi) anche dei fondi del partito. E qui arriva la seconda stranezza. Nel processo non si afferma (neanche nei teoremi d'accusa) che la Lega avrebbe fatto sparire 49 milioni di fondi pubblici. Il capo di imputazione dice che Belsito falsificò i bilanci del partito, occultando le sue operazioni finanziarie. A quanto ammontasse il falso non si sa. Ma la Procura ne deduce che l'intero ammontare dei contributi pubblici arrivati alla Lega in quegli anni fosse stato percepito indebitamente, essendo stato ottenuto grazie a bilanci falsi. Sono questi i 49 milioni di cui la sentenza che condanna Bossi e Belsito confisca. Di fatto, sui conti della Lega ne sono stati trovati poco meno di due milioni. Ora la Cassazione però va assai più in là, stabilendo che sarebbe giusto continuare a sequestrate le somme «ovunque si trovino». Non dice, a ben leggere, che la provenienza sia irrilevante, anzi chiede che sia «accertato il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale tra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro e il reato del quale costituisce il profitto illecito». Potrebbero continuare a restare fuori dalle grinfie donazioni, contributi di parlamentari, sottoscrizioni, che non hanno nulla a che fare col finanziamento pubblico e quindi non possono essere considerati corpo del reato. Ma intanto il botto mediatico e politico della decisione della Cassazione è forte. Anche perché l'Espresso tira fuori dei documenti che dimostrerebbero che anche Matteo Salvini, approdato alla guida del Carroccio, impiegò i fondi pubblici illecitamente incassati.

I 49 milioni perduti della Lega - Videostoria dei rimborsi scomparsi di Marco Lignana e Giulia Santerini del 4 luglio 2018 su "RepubblicaTV". Dallo scandalo che nel 2012 travolse il fondatore Umberto Bossi e il tesoriere della allora 'Lega Nord' Francesco Belsito, alla condanna del 2017 dei due per truffa ai danni dello Stato per aver sottratto per fini personali o di partito i rimborsi elettorali ricevuti tra il 2008-2010. Al 3 luglio 2018, quando la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della procura di Genova per estendere il blocco dei fondi alla Lega anche al denaro che arriverà in futuro nelle casse del partito, fino a raggiungere la cifra di 49 milioni di euro. Il segretario del Carroccio Matteo Salvini assicura: "Non c'è un euro di quei rimborsi nelle nostre casse", "E' stato speso tutto in dieci anni". Ma un documento pubblicato da Repubblica prova che Salvini ha ricevuto nel 2014 oltre 800mila euro di rimborsi elettorali regionali del 2010.

La storia dei soldi della Lega, dall’inizio. Scrive il Post il 4 luglio 2018. Cosa ha deciso la Cassazione, come ci si è arrivati e cosa dicono invece Matteo Salvini e gli avvocati del suo partito. La principale notizia sulle prime pagine dei giornali di oggi è la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla procura di Genova che chiede di estendere il blocco dei fondi della Lega anche al denaro che arriverà in futuro al partito. Nelle sue motivazioni, la Cassazione ha stabilito quindi che ogni somma di denaro riferibile alla Lega, il partito guidato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, può essere sequestrata “ovunque venga rinvenuta” d’ora in poi: su conti bancari, libretti o depositi. È una storia che comincia da lontano, e che riguarda il più grave scandalo che abbia coinvolto la Lega. Nel luglio del 2017 infatti il tribunale di Genova aveva condannatoper truffa ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, e l’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, oltre a tre dipendenti del partito e due imprenditori. Il procedimento riguardava i rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega – che allora si chiamava Lega Nord – tra il 2008 e il 2010, che erano stati utilizzati invece per spese personali. Lo scandalo era nato nei primi mesi del 2012, quando Belsito venne indagato per la sua gestione dei rimborsi elettorali ricevuti dal partito, trasferiti in alcuni casi all’estero dove erano stati investiti in varie attività, tra cui l’acquisto di diamanti. La vicenda aveva portato alle dimissioni di Bossi dalla carica di segretario e alla sua condanna a 2 anni e 6 mesi. L’allora tesoriere del partito, Francesco Belsito, era stato condannato a 4 anni e 10 mesi. Sempre nel 2017 e nell’ambito del processo per truffa, il tribunale di Genova aveva deciso di procedere alla confisca al partito di circa 49 milioni di euro (48 milioni e 969 mila e 617 euro, per la precisione), a titolo di risarcimento per i rimborsi ingiustamente utilizzati: quale «somma corrispondente al profitto, da tale ente percepito, dai reati per i quali vi era stata condanna». Il 4 settembre del 2017 la procura di Genova aveva chiesto e ottenuto con un decreto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma, ma nei conti correnti della Lega erano stati trovati solo circa 2 milioni di euro. Non era chiaro se il decreto dovesse riguardare solo i fondi che già si trovavano sui conti al momento del provvedimento di sequestro (come sostengono gli avvocati della Lega) o anche le somme depositate successivamente. La procura aveva richiesto di estendere l’esecuzione del sequestro anche alle somme che sarebbero arrivate da lì in poi alla Lega fino al raggiungimento della somma stabilita, cioè circa 49 milioni, ma il tribunale del Riesame aveva respinto la richiesta. I pubblici ministeri di Genova avevano allora presentato un ricorso in Cassazione che, lo scorso 12 aprile, si era pronunciata: solo ieri, però, sono state depositate le motivazioni. La Cassazione ha accolto il ricorso e ha annullato con rinvio al Riesame l’ordinanza con la quale, in base al decreto già emesso in settembre, era stato fermato il sequestro delle somme future. Il Riesame dovrà ora emettere un nuovo provvedimento tenendo però in considerazione le indicazioni e le motivazioni della Cassazione, che sono vincolanti. Nelle motivazioni della sentenza di Cassazione si legge che «la fungibilità del denaro e la sua stessa funzione di mezzo di pagamento non impongono che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite», ma «la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque venga rinvenuta, una volta accertato, come nel caso in esame, il rapporto pertinenziale quale relazione diretta, attuale e strumentale, fra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro ed il reato del quale costituisce il profitto illecito». Il senso della sentenza della Cassazione è dunque che quella somma deve essere recuperata dallo Stato, poiché ingiustamente utilizzata dalla Lega: se al momento del decreto del 4 settembre i soldi sui conti della Lega non c’erano, quella cifra sarà messa insieme con i nuovi soldi che entreranno. Nel frattempo, sempre a Genova è stata aperta un’indagine per riciclaggio a carico d’ignoti sui soldi spariti, o almeno su una parte: l’ipotesi della procura è che la Lega – non è chiaro quando ma durante le gestioni successive a Bossi, quindi quelle di Roberto Maroni e Matteo Salvini – abbia cercato di nascondere parte dei propri soldi per evitare che venissero sequestrati, trasferendoli in Lussemburgo per poi farli rientrare in Italia. A segnalare alle autorità antiriciclaggio italiane queste manovre finanziarie è stato lo stesso Lussemburgo, che ha considerato sospetto il rientro in Italia della somma. Secondo la procura, la banca dalla quale i soldi sono stati trasferiti e poi rimpatriati sarebbe la Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano. Poche ore dopo il deposito delle motivazioni della Cassazione, ospite a In Onda, programma su La7, Matteo Salvini ha detto che quei 49 milioni di euro «non ci sono: posso fare una colletta, ma è un processo politico che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». E ancora: «Se ci sono fatti di dieci anni fa, si pensi a quelli che c’erano dieci anni fa; i milioni di italiani che col 2 per mille danno un contributo al nostro partito non c’entrano. Siamo sereni». Alcune inchieste giornalistiche avrebbero però scoperto che sia Salvini che Maroni avrebbero utilizzato una parte dei 49 milioni di euro frutto della truffa tra il 2011 e il 2014. Le parole di Salvini sulla «colletta», sostiene oggi Repubblica, «non sono distanti dai ragionamenti in corso in via Bellerio. Siccome tutti gli eletti, dai parlamentari ai consiglieri regionali, da sempre versano una quota della propria indennità al partito, un’idea è far finanziare le iniziative della Lega direttamente dagli eletti. (…) Senza dimenticare il nuovo soggetto politico, la “Lega per Salvini premier”, il cui statuto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Formalmente un partito diverso dalla Lega. Sul quale, sperano i vertici del Carroccio, la procura genovese potrebbe non avventarsi».

Soldi della Lega, ecco i documenti che incastrano Matteo Salvini. Una lettera di diffida. Un file del Senato. E i rendiconti interni al partito. Pubblichiamo le carte che smentiscono la versione del ministro sullo scandalo che fa tremare il Carroccio, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 04 luglio 2018 su "L'Espresso". «È un processo politico, che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». Matteo Salvini si è difeso così dall'accusa di aver beneficiato dei quasi 50 milioni di euro frutto della truffa firmata Bossi e Belsito. La tesi del ministro è quindi semplice: tutta colpa del vecchio leader, io non c'entro niente. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano invece che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Il nostro giornale lo aveva già scritto in una lunga inchiesta nell'ottobre 2017. Qui sotto riprendiamo alcuni stralci di quell'articolo e pubblichiamo i documenti che dimostrano quanto da noi ricostruito già dieci mesi fa. Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega. A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’ex governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da questo momento in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro in nome della Lega. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Lo dimostrano i mastrini, i registri contabili del partito che L'Espresso è riuscito a ottenere. Perché allora il segretario della Lega continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E come poteva non sapere che erano frutto di truffa? Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010. Due giorni dopo l’ultimo prelievo, Salvini riceve persino una lettera (inviata anche al tesoriere Giulio Centemero) dall'allora avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.

Matteo Salvini e la diatriba con L'Espresso. L'Espresso attacca il leader leghista con raro tempismo, scrive Giuseppe Vatinno, Lunedì 2 aprile 2018 su "Affari Italiani". Il settimanale L’Espresso ha pubblicato ieri -con singolare tempismo- una inchiesta, “I conti segreti di Salvini”, in cui si dice che il leader del Carroccio avrebbe gestito illegalmente dei soldi in strumenti finanziari (obbligazioni bancarie europee) non permessi da una legge del 2012. Il tutto nasce da una denuncia di Stefano Aldovisi, uno dei revisori ai tempi di Bossi - Belsito. Oltre a questa gestione illegale L’Espresso afferma che ci sia di mezzo una Onlus di area leghista, Più Voci legata alla “sparizione” di una somma di 48 milioni di euro su cui indaga la Procura di Genova. “è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa contro Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Non ha un sito web, né sembra attiva nel dibattito pubblico. Di certo, però, su quel conto corrente hanno lasciato traccia lauti bonifici. Chi ha finanziato la sconosciuta Più voci?” Salvini ha risposto alla inchiesta dell’Espresso “con un sorriso e una querela”, come ha detto lo stesso leader leghista. Al di là della vicenda che ora si trasferirà nelle aule dei tribunali è interessante notare l’iperattività di Repubblica e L’Espresso, che da qualche tempo stanno scaldando i motori attaccando il centrodestra per cercare di vendere qualche copia in più. Nel frattempo, la nuova vocazione del gruppo, pare essere quella della teologia papale che si concludono spesso con clamorose smentite dello stesso Pontefice, assai perplesso delle elucubrazioni dottrinarie del fondatore Eugenio Scalfari su La Repubblica.

Sovranisti? Sì, ma con la cassa in Svizzera. Dal fratello di Dettori, uomo chiave del Movimento5 Stelle a palazzo Chigi, fino al giornalista pro-Putin: la rete di interessi che coinvolge Lega e 5 Stelle, scrive Vittorio Malagutti il 6 luglio 2018 su "L'Espresso". La Lega delle leghe predicata da Matteo Salvini è molto più di un sogno proiettato in un futuro indefinito. La macchina dell'internazionale sovranista sta scaldando i motori da mesi. Un'inchiesta dell'Espresso che sarà pubblicata nel numero in edicola domenica 8 luglio ricostruisce una trama di contatti e iniziative che coinvolge Cinque Stelle e Lega. Si parte da Silenzi e falsità, sito di news che appoggia il governo di Giuseppe Conte. A tirare le fila dell'iniziativa è Marcello Dettori, 28 anni, esperto di social media con una parentela importante. Suo fratello Pietro, classe 1986, è uno dei quattro soci di Rousseau, la piattaforma digitale su cui gira il mondo a Cinque Stelle. Tra i clienti, tre in tutto, segnalati nel sito personale di Dettori junior, compare anche una società di Lugano: la MediaTi holding. A questa sigla fa capo il più importante gruppo editoriale della Svizzera italiana, proprietario del Corriere del Ticino, il quotidiano più diffuso della zona, cui si aggiungono televisione e radio. Che cosa c'entra il consulente a Cinque Stelle con questi media che battono bandiera elvetica? C'è una persona che fa da anello di congiunzione tra due mondi in apparenza distanti. Si chiama Marcello Foa ed è l'amministratore delegato della Società editrice del Corriere del Ticino, che l'anno scorso ha assorbito MediaTi holding.

Foa non è solo un manager. Come giornalista e blogger lo troviamo in prima linea nella battaglia sovranista e i suoi commenti compaiono spesso sul sito Silenzi e Falsità. Il numero uno del Corriere del Ticino non ha mai nascosto il suo sostegno a Salvini, con cui c'è un rapporto di conoscenza e reciproca stima. Il 14 giugno scorso, l'ultimo libro di Foa (Gli stregoni della notizia, atto secondo) è stato presentato a Milano e il capo della Lega, annunciato come “special guest”, si è materializzato con un video intervento. L'incontro pubblico è stato organizzato, secondo quanto recita la locandina, dall'Associazione Più Voci, la stessa che, come rivelato da L'Espresso, ha ricevuto un contributo non dichiarato di 250 mila euro dal costruttore Luca Parnasi , arrestato tre settimane fa. L'8 marzo Foa è stato uno dei pochi ammessi all'incontro tra Salvini e Steve Bannon, l'ideologo della destra populista americana ed ex consigliere di Donald Trump. Il giornalista-manager è in ottimi rapporti anche con il miliardario svizzero Tito Tettamanti, il fondatore del gruppo Fidinam, specializzato nella consulenza fiscale internazionale con la creazione, tra l'altro, di strutture offshore. Due giorni prima del rendez vous con Salvini, Tettamanti è andato a pranzo a Lugano con Bannon. Facile immaginare che il frontman del trumpismo abbia cercato di coinvolgere nella sua rete anche il fondatore di Fidinam, appassionato di politica, da sempre su posizioni conservatrici e ultraliberiste. I soldi del miliardario svizzero farebbero molto comodo all'internazionale del populismo. Perché il denaro non conosce confini. Neppure per i sovranisti.

Che dite: querelo l’Espresso o mi limito a una risata?, scrive il 7 luglio 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Ieri sera il settimanale L’Espresso ha pubblicato sul proprio sito l’anticipazione di un articolo che uscirà domani, in cui, tenetevi forte, si sostiene che la cassa della Lega sarebbe in Svizzera e si lascia intendere che il sottoscritto avrebbe avuto un ruolo chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. Un lettore mi ha detto: devi querelare. Non so, deciderà il mio avvocato ma l’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola. Il collega che l’ha firmato, tale Vittorio Malagutti, ovviamente non mi ha interpellato in fase di stesura, violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta, e questo la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole. Se lo avesse fatto, gli avrei detto, che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della RSI (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del Corriere della Sera. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati. E al solo pensiero che si possa fare un’inchiesta con questi criteri a me scappa davvero da ridere.

Panama, paradiso leghista. I fiduciari dei cassieri del Carroccio non hanno aspettato la flat tax. Le casseforti sono già state spostate nelle isole a imposte quasi zero: dal Centroamerica a Malta, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 27 giugno 2018 su "L'Espresso". In attesa della mitica flat tax, i fiduciari dei cassieri della Lega si sono portati avanti. Hanno aperto società-cassaforte all’estero, nei più rinomati paradisi fiscali, dove le tasse sono bassissime o inesistenti: da Panama, il centro finanziario più chiacchierato del mondo, a Malta, l’isola delle offshore con la targa europea, la stessa nazione che ora è al centro delle disfide marittime scatenate dal ministro Matteo Salvini sulle navi dei migranti. Angelo Lazzari è un manager bergamasco con una rete di società in Lussemburgo, che ha consolidati legami d’affari con i cassieri della Lega. Intrecci societari, rivelati da un’inchiesta di Giovanni Tizian e Stefano Vergine, che collegano il suo gruppo finanziario con lo studio professionale dei nuovi custodi dei fondi pubblici incassati dai gruppi parlamentari della Lega, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, e con il tesoriere ufficiale del partito, Giulio Centemero, in carica dal 2014. Una squadra di commercialisti bergamaschi arruolati da Salvini per gestire i conti del Carroccio dopo l’arresto dell’ex tesoriere Francesco Belsito, la condanna in primo grado di Umberto Bossi e figli, il sequestro giudiziario dei 48 milioni dello scandalo, di cui però la magistratura ha potuto bloccarne solo un paio: gli altri sono scomparsi, tanto che la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta per riciclaggio che punta proprio sul Lussemburgo.

Lazzari gestisce fondi d’investimento italiani e lussemburghesi ed è anche il fondatore di una rete di fiduciarie collegate allo studio dei commercialisti della Lega. Le fiduciarie sono società-schermo che servono a nascondere, legalmente, gli azionisti che vogliono restare anonimi. In Europa, Italia compresa, i trattati contro il riciclaggio di denaro sporco impongono anche alle fiduciarie di identificare e registrare i clienti: i nomi dei titolari restano riservati, ma il segreto deve cadere di fronte a un’indagine della magistratura. I nuovi Panama Papers ora collegano Lazzari a una società esotica, finora sconosciuta, che è totalmente anonima. Si chiama Jontown, è nata a Panama il 31 gennaio 2006 e ha sempre avuto proprietari misteriosi: tutte le azioni, fino al giugno 2010, erano «al portatore». Significa che il padrone della società-cassaforte non è registrato da nessuna parte: il proprietario è chi ha in mano un certificato azionario, cioè un pezzo di carta. In Italia le azioni al portatore sono vietate da un quarto di secolo: la legge è cambiata dopo le storiche istruttorie di Falcone e Borsellino sui tesori mafiosi riciclati in conti esteri intestati a società anonime. In molti paradisi offshore, invece, i titoli al portatore restano tuttora leciti. I documenti interni mostrano che neppure lo studio Mossack Fonseca, la premiata fabbrica di offshore travolta dai Panama Papers, ha mai conosciuto i nomi degli azionisti. Della Jontown si sa soltanto che ha un capitale sociale di diecimila dollari ed era nata per raccogliere finanziamenti anonimi da investire in attività non precisate. Il ruolo di Lazzari viene svelato da una serie di documenti interni archiviati a Panama tra giugno e luglio 2010. Il segreto s’incrina perché la Jontown progetta un aumento di capitale. Quindi i direttori-fiduciari non bastano più: bisogna organizzare a Panama City un’assemblea degli azionisti. Che si fanno rappresentare proprio da Angelo Lazzari. Negli stessi giorni le azioni al portatore vengono sostituite con nuovi certificati di proprietà, intestati però non a persone identificate, ma a un fondo d’investimento lussemburghese: Iris Fund Sicav Fis. Una cassaforte con la targa europea creata sempre da Lazzari per raccogliere finanziamenti da reinvestire. Poi l’aumento di capitale salta, ma i soldi sembrano arrivare comunque, anche in Europa: nell’aprile 2011 i fiduciari panamensi deliberano l’apertura di un conto nella banca Abn Amro in Lussemburgo. Gli affari continuano fino al 28 maggio 2012, quando la Jontown viene resa “inattiva”: l’attività è sospesa, ma potrebbe ripartire. La cassaforte panamense viene chiusa e cancellata dai registri solo il 15 luglio 2014. A gestire i rapporti con Mossack Fonseca è fin dall’inizio una società lussemburghese, Global Trust Advisors, che è anche uno degli azionisti (minori) delle fiduciarie italiane fondate da Lazzari e collegate ai commercialisti della Lega. L’unica persona identificata come rappresentante dei misteriosi azionisti della Jontown, in tutta la sua esistenza, è il manager bergamasco. L’Espresso ha offerto a Lazzari l’opportunità di chiarire il suo ruolo e ha ottenuto questa risposta, attraverso un portavoce: «Jontown era una società di scopo di proprietà di un fondo d’investimento di diritto lussemburghese, chiuso nel 2010, che svolgeva principalmente attività di trading in valute. La società è stata creata a Panama perché il fondo si avvaleva di un broker americano. Il fondo era autorizzato a operare dalle competenti autorità di vigilanza lussemburghesi. La società è stata disattivata e poi cancellata a seguito della chiusura del fondo». Sui nomi dei proprietari, Lazzari si limita a dire che «le azioni erano di proprietà del suddetto fondo». Mentre Global Trust e Mossack Fonseca erano solo «studi professionali che si sono occupati delle gestione burocratica e amministrativa della società». Alla domanda se la Jontown di Panama sia stata dichiarata alle autorità italiane e in particolare al fisco, Lazzari ha risposto che «la società era un veicolo di un fondo d’investimento lussemburghese, soggetto quindi alla normativa e alle autorità lussemburghesi».

Lo sbarco a Malta con il banchiere. Giorgio Balduzzi è un altro commercialista bergamasco collegato ai cassieri della Lega. Tra il 2014 e il 2016, in particolare, ha rappresentato la fiduciaria Seven (quella fondata da Lazzari) nella costituzione di alcune società italiane registrate nello stesso studio dei commercialisti di Salvini: in altre parole, ha garantito l’anonimato, legalmente, ad alcuni clienti dei suoi colleghi leghisti. Ed è sua sorella, Laura Balduzzi, che nel settembre 2013 ha ceduto quello studio di Bergamo agli attuali cassieri del Carroccio. Ora le nuove carte del consorzio giornalistico Icij mostrano che Balduzzi è anche uno dei due soci fondatori di una società di Malta, ammessa a beneficiare del cosiddetto regime offshore: tasse bassissime su oltre il 90 per cento dei profitti prodotti all’estero (Italia compresa). Anche questa è una cassaforte finanziaria, con un capitale nominale di 1.200 euro, denominata Wic Asset Management Ltd. Oltre che azionista, Balduzzi ne è stato amministratore fino al 14 novembre 2014, quando ha venduto il suo 50 per cento a un banchiere d’affari maltese, Alain Mangion. Balduzzi controlla tuttora una serie di società italiane con lo stesso nome, il gruppo Wic, che gestiscono fondi d’investimento e ditte collegate che offrono intestazioni fiduciarie, consulenze fiscali e recupero crediti. A Malta è sbarcato insieme a un altro commercialista lombardo, Andrea Lupini, con studio a Busto Arsizio, che risulta tuttora socio di Mangion. Il banchiere è l’amministratore delegato della Credinvest di Malta, una banca d’affari specializzata nel finanziare grandi opere anche all’estero, realizzate da imprese private ma con garanzie statali, «di valore superiore a un miliardo di euro», come precisa nel suo sito. La Credinvest è attiva soprattutto in Russia e nei paesi dell’Est. Il banchiere diventato socio dei lombardi ha forti legami con il potere politico: fu anche nominato, tra l’altro, ambasciatore di Malta in Romania. Una carica abbandonata nel 2008, quando il giornale romeno Cotidianul rivelò che la sua Credinvest, mentre lui faceva il diplomatico pubblico, aveva ottenuto ricche consulenze dal governo di Bucarest per un piano di autostrade da oltre un miliardo. Intervistato dal Times di Malta, Mangion si difese spiegando di non aver «mai utilizzato le strutture dell’ambasciata» per favorire la sua banca privata, ma poi si è dimesso. Mentre la sua Credinvest, dal 2013, ha stretto «un nuovo accordo con il governo romeno», sempre sui maxi-progetti stradali. L’Espresso ha interpellato anche Balduzzi, che ha risposto di persona: «Dal 2010 al 2015 ho investito molto tempo nel ricercare di capitalizzare società che investissero in piccole imprese italiane. Non riuscendoci in Italia, abbiamo provato all’estero, a Malta, Lussemburgo, America, ma senza alcun risultato. Le piccole imprese italiane purtroppo non piacciono né alle nostre banche né agli investitori esteri». Quindi la società di Malta serviva a raccogliere fondi da investire in Italia? «Esatto». E chi vi ha presentato a Mangion? «Il dottor Lupini considerava la presenza su Malta fondamentale per intercettare capitali e riteneva che il banchiere avrebbe potuto raccoglierli. Abbiamo speso soldi, fatto incontri, ma senza risultati. Quindi ho ceduto le mie quote, su suggerimento di Lupini, al suo contatto Mangion». La società estera è stata dichiarata al fisco italiano? Balduzzi, che è commercialista, risponde così: «La quota è stata acquistata e rivenduta nello stesso anno, senza alcuna plusvalenza». Lo stratega dello sbarco a Malta, insomma, è Lupini, che racconta com’è finita: «La società sostanzialmente ha smesso di operare. Avevamo contattato Mangion perché ha legami con investitori ricchissimi, soprattutto russi, ma poi ho preferito ritirarmi per problemi di natura legale». Quali? Lupini pesa le parole: «Mi occupo di fiscalità internazionale e ho sempre rispettato tutte le norme. Malta però non è l’Italia. E con Mangion non ci risultava sempre chiara l’origine dei fondi di alcuni investitori. Quindi ho voluto evitare ogni ipotetico rischio». Oggi la Credinvest di Mangion pubblicizza anche un’altra attività di rilievo politico: dal 2015 è diventata «un agente accreditato dal governo di Malta» nel programma che concede la cittadinanza ai ricchi investitori stranieri. Gli extracomunitari poveri, in Europa, ci arrivano con i barconi da clandestini, affamati, disperati e rifiutati. I miliardari invece ci entrano con i soldi e un passaporto europeo da vip: basta pagare la parcella agli amici degli amici di Salvini.

L’inchiesta Panama Papers non ipotizza reati o accuse di evasione: riguarda le società offshore, che non pagano tasse legalmente.

Panama Papers 2, da Messi a lady Kazakistan i vip del mondo con i soldi nei paradisi fiscali. La nuova inchiesta del consorzio Icij, di cui fa parte l’Espresso, svela i tesori dei ricchi e potenti che non pagano le tasse. Dal campione del Barcellona, già condannato per frode fiscale ai falsi documenti che imbarazzano la famiglia del presidente argentino Macri. E domenica 24 giugno sul numero in edicola tutti i nomi italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 20 giugno 2018 su "L'Espresso". L’asso del calcio Lionel Messi. Il presidente argentino Mauricio Macri. La figlia del presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Sono alcuni dei tanti nomi eccellenti che compaiono nei nuovi Panama Papers: un milione e 200 mila documenti riservati, usciti dagli archivi dello studio panamense Mossack Fonseca nei mesi successivi alla prima, colossale fuga di notizie (11,5 milioni di file) che nell'aprile 2016 svelò i segreti finanziari di imprenditori ricchissimi, stelle dello spettacolo, politici corrotti, dittatori africani, oligarchi russi, ministri europei, evasori americani, narcotrafficanti sudamericani e tesorieri della mafia italiana. Anche questa massa di carte recentissime sulle società offshore provengono dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung”, che le ha condivise con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Alla nuova inchiesta internazionale hanno lavorato più di cento giornalisti di tutto il mondo e per l'Italia, in esclusiva, L'Espresso.

Il funambolo del calcio e delle offshore. Per il campione argentino Messi, punta di diamante della nazionale e del Barcellona, non è la prima volta. Già nel 2016 il suo nome era comparso nei Panama Papers. Ma ora il problema è più grave. Al centro dei suoi interessi esteri, due anni fa, era emersa una società offshore di Panama, chiamata Mega Star Enterprise Inc., controllata da lui stesso e da suo padre Jorge. Interpellato dal consorzio Icij, Messi aveva però minimizzato, dichiarando che quella offshore era «del tutto inattiva». Ora i nuovi documenti mostrano cosa è successo negli uffici di Mossack Fonseca tra l'aprile 2016 e la fine del 2017, cioè dopo la pubblicazione dei Panama Papers. Tra tante carte allarmatissime spunta una comunicazione interna tra due professionisti delle offshore, del maggio 2016, che mette in dubbio la versione di Messi: «L'ufficio dell'Uruguay mi dice che il cliente sta usando la società». In altre parole, la Mega Star non era «inattiva». È una nota messa nero su bianco dal dipendente di Mossack Fonseca che segue il caso. Nella centrale delle offshore scatta l'allarme: c'è il rischio di finire sotto inchiesta. Due mesi dopo, in luglio, lo studio di Panama non esita a scaricare l'illustre cliente rassegnando le dimissioni dal ruolo di agente della Mega Star. E poi comincia a preparare un rapporto speciale, chiamato in gergo Sar (Suspicious activity report): una denuncia di attività finanziarie sospette, simile alle nostre segnalazioni anti-riciclaggio, inviata alle autorità di Panama per prendere le distanze dalla Megastar. Il documento finale è datato 22 febbraio 2017. Nei mesi precedenti lo studio di Panama, in un clima di panico, ha compilato centinaia di moduli Sar nel tentativo di mettere le carte in regola. Ma ormai è troppo tardi: Ramon Fonseca e Juergen Mossack, i due fondatori dello studio, vengono arrestati per la colossale Tangentopoli del Brasile, come presunti custodi delle offshore utilizzate per nascondere i profitti delle maxi-corruzioni carioca. Le manette a Panama scattano il 10 febbraio. Dodici giorni dopo, parte la segnalazione su Messi. Il calciatore argentino e suo padre sono già stati condannati, nel luglio 2016, per un'altra frode fiscale, non collegata ai Panama Papers: 21 mesi con la condizionale e multa da 2 milioni di euro. Contattato da El Confidencial, partner spagnolo di Icij, Messi si difende. E attraverso un avvocato fa sapere che lui e il padre non hanno commesso nessuna irregolarità; che la loro situazione fiscale è stata regolarizzata; e che la Mega Star è una vecchia storia, faceva parte di uno schema societario ormai superato e non gestisce più alcuna attività.

I misteri del presidente argentino. Il coinvolgimento nei Panama Papers dell’attuale presidente argentino Mauricio Macri sembra un giallo alla Hitchcock, dove tutti i protagonisti recitano parti pericolose. Il primo tempo va in scena nel 2016, quando l'inchiesta giornalistica internazionale rivela che Macri, suo padre Francisco e il fratello Mariano hanno gestito una società-cassaforte in un rinomato paradiso fiscale: sono stati amministratori (directors) della offshore Fleg Trading Ltd, registrata alle Bahamas nel 1998 e sciolta undici anni dopo, nel gennaio 2009. I cronisti argentini scoprono che Mauricio Macri, politico e imprenditore, allora sindaco di Buenos Aires, non aveva inserito, nella sua dichiarazione dei redditi, alcun collegamento con la Fleg Trading. A quel punto il suo portavoce precisa che Mauricio Macri non era azionista di quella società, non aveva alcuna partecipazione nel capitale e negli utili. Quella offshore rientrava negli interessi della sua famiglia in Brasile e lui personalmente, a differenza di altri parenti strettissimi, ne era stato soltanto un amministratore occasionale.

Mauricio Macri. Ora i nuovi Panama Papers mostrano la seconda parte della storia, finora rimasta segreta. Tra settembre e ottobre 2016, quando ormai da un anno Macri è diventato presidente dell’Argentina, alcuni dipendenti di Mossack Fonseca, della sede centrale di Panama e della filiale dell’Uruguay, discutono un piano per retrodatare alcune carte. L’idea è di far credere che lo studio professionale avesse rispettato le norme anti-riciclaggio, che impongono di identificare fin dall'inizio i beneficiari di tutte le offshore. Le carte retrodatate dovrebbero servire proprio ad anticipare l'identificazione della famiglia Macri come titolare della offshore. Anche se in realtà la Fleg Trading era rimasta per anni una società totalmente anonima, perfino a Panama. Ma non c'è solo questo. I nuovi documenti rivelano che nell'aprile 2016, dopo i primi articoli sui Panama Papers, un giudice civile argentino aveva inviato, per via diplomatica, una richiesta alle Bahamas, cercando di chiarire proprio il problema della proprità della offshore: qual è il ruolo di Mauricio Macri nella Fleg Trading? Da notare che era stato lo stesso Macri, nei primi giorni dello stesso mese, a dare l’avvio all’azione civile, parallela a un’indagine penale allora in corso, per potersi difendere nei tribunali sostenendo di non possedere azioni di quella imbarazzante offshore di famiglia. Negli stessi giorni i professionisti di Mossack Fonseca elaborano una loro strategia: non possiamo documentare su chi sia il beneficiario finale della Fleg Trading? Allora diamoci da fare per recuperare in qualsiasi modo il documento mancante. E così chiedono a Santiago Lessich Torresel, un importante consulente fiscale uruguyano collegato alla Fleg e alla famiglia Macri, che qualcuno, in quei giorni del 2016, produca una nota scritta a mano, ma con una data falsa, risalente ad alcuni anni prima. Tutti gli avvocati della famiglia Macri però si rifiutano: il progetto è ad «alto rischio», il falso «verrebbe facilmente individuato da un esperto calligrafo», non si può «giocare d’azzardo» con i documenti, «perché c’è di mezzo il presidente dell’Argentina e la sua famiglia». Alla fine i professionisti trovano un accordo. Dall’Uruguay parte una lettera destinata a Mossack Fonseca, datata 4 ottobre 2016: «Informo che la Fleg Trading è stata acquistata presso il vostro studio su richiesta di Francisco (Franco) Macri». Quindi l'unico titolare della società offshore risulta essere non il presidente, ma suo padre. Lo studio Mossack Fonseca si lamenta della soluzione, dice che quella lettera non è «ideale», ma la utilizza comunque per chiudere il caso del beneficiario misterioso. Otto giorni dopo, il 12 ottobre, la lettera viene trasmessa al magistrato argentino. Che a quel punto sentenzia: Mauricio Macri «non era partner o azionista, nè ha ricevuto dividendi o altri profitti» dalla Fleg Trading. Il giallo argentino però non è ancora finito. Dai nuovi documenti spunta anche un’altra offshore, chiamata BF Corporation, posseduta da Mariano e Gianfranco Macri, fratelli del presidente, con il 50 per cento ciascuno. Ancora una volta, Mossack Fonseca non ha identificato e registrato i beneficiari. Lo studio di Panama scopre che anche quella offshore fa capo alla famiglia Macri soltanto nell’aprile 2016: scoppiato lo scandalo dei Panama Papers, le autorità antiriciclaggio della Germania segnalano all’Argentina una serie di movimenti sospetti in un conto bancario di una filiale tedesca della Ubs. Quei soldi fanno capo a Gianfranco Macri, che in seguito sistemerà la sua posizione con le autorità fiscali di Buoens Aires. Contattato dal quotidiano argentino La Nacion, che fa parte del consorzio Icij, un portavoce della Socma, la società-capogruppo delle aziende della famiglia Macri, ha dichiarato che il padre del presidente ha già spiegato di essere l'unico proprietario della Fleg Trading. Il portavoce ha anche aggiunto di non avere informazioni, né commenti da fare, sulle discussioni tra Mossack Fonseca e l’esperto tributario dell’Uruguay, cioè sul giallo della retrodatazione dei documenti.

Overdose di offshore per Mossack Fonseca. Sono così numerose, le società anonime costituite o gestite da Mossack Fonseca, che spesso neppure i capi dello studio sanno di custodirle nei propri archivi. Un problema che riguarda anche offshore di alto lignaggio. Lo studio si accorge soltanto nel luglio 2017 di avere nei propri registri una società panamense che appartiene agli eredi del celeberrimo gioielliere francese Pierre Cartier. Quella società offshore, secondo i documenti, custodisce un vero tesoro: foreste in Canada, conti bancari svizzeri. Interpellati dai giornalisti del quotidiano le Monde, partner di ICIJ, gli ertedi Cartier non hanno risposto. Silenzio anche dal Kazakistan, lo stato dell'Asia centrale dominato da decenni dal presidente a vita Nursultan Nazarbayev. Sua figlia, Dariga Nazarbayeva, ex vice premier, oggi guida da parlamentare la commissione del Senato per le relazioni internazionali. Ed è considerata il più probabile successore del padre. I nuovi Panama Papers la indicano come unica azionista di una società delle British Virgin Islands, che controlla fabbriche di zucchero in Kazakistan, attraverso a una serie di società intermedie analizzate dai giornalisti di Occrp, partner del consorzio Icij. Anche la senatrice Nazarbayeva ha declinato l’invito a fornire precisazioni e chiarimenti.

Nursultan Nazarbayev. In altri casi, lo studio Mossack Fonseca scopre il nome del beneficiario solo quando viene citata a giudizio dalle vittime delle sue offshore. Un esempio arriva da Israele e riguarda la società anonima Mallett Ford Inc. Dietro la quale, tramite un trust, si nascondeva Israel Perry, un avvocato israeliano morto nel 2015, dopo essere stato processato e condannato per una maxi-frode finanziaria ai danni di moltissimi suoi connazionali, tra cui spicca un gruppo di sopravvissuti all’olocausto. Di quel caso di criminalità finanziaria si è parlato in tutto il mondo. Ma lo studio Mossack Fonseca, stando ai documenti interni, ha scoperto che quella offshore apparteneva a Perry solo quando si è visto chiedere i danni per la Mallett.

I tesori esteri del vip d'Italia. L'Espresso pubblicherà la nuova inchiesta Panama Papers, con i nomi e i casi più rilevanti per il nostro paese, nel numero in edicola da domenica 24 giugno. Gli articoli riguardano tesori offshore di valore imponente, da 1,5 fino a 10 miliardi di dollari americani, e una serie di società cassaforte collegate a partiti politici italiani. All'inchiesta giornalistica internazionale hanno collaborato, per le notizie contenute in questo articolo, Marcos Garcia Rey, Miranda Patrucic, Mariel Fitz Patrick, Sandra Crucianelli, Emilia Delfino, Hugo Alconada Mon, Ivan Ruiz e Maja Jastreblansky, Ryan Chittum e Will Fitzgibbon.

Panama Papers 2, è panico a Panama City: «Arrestate i giornalisti». I nuovi documenti fotografano le reazioni allo scandalo tra 2016 e 2017: denunce contro i cronisti, professionisti infuriati, politici e sceicchi che cercano i soldi. E le autorità fiscali hanno già incassato più di un miliardo, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 21 giugno 2018 su "L'Espresso". La sede di Mossack e Fonseca a Panama «Il cliente? È scomparso. L'ho cercato ovunque ma non c'è più». «La situazione è imbarazzante. Ridicola». «Sembriamo dei dilettanti, alle prese con operazioni finanziarie alla Topolino». Era successo di tutto all'indomani della pubblicazione dei Panama Papers, il mega scandalo finanziario esploso il 3 aprile del 2016, frutto di una inchiesta giornalistica che è valsa un premio Pulitzer ai 380 cronisti dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). E’ il network che ha raccontato gli affari – dagli anni '70 al 2015 – dello studio legale panamense Mossack Fonseca, fornitore di società offshore in numerosi paradisi fiscali a disposizione dei ricchi e potenti di tutto il mondo. Ora una seconda fuga di documenti svela nuovi tesori segreti di personalità della politica, economia, sport e spettacolo, con una nuova puntata dei Panama Papers, e rivela anche il panico e il caos che ha segnato la fine dello studio Mossack Fonseca. Le nuove carte includono documenti interni, email, copie dei passaporti dei beneficiari e atti dei procedimenti penali avviati in vari stati: una massa di materiale inedito, che va dall'inizio del 2016 alla fine del 2017. Le nuove informazioni sono state ottenute dallo stesso giornale tedesco che aveva ricevuto i primi documenti, Süddeutsche Zeitung, che li ha condivisi con il consorzio Icij e i suoi partner, fra cui l'Espresso in esclusiva per l'Italia. Il nostro settimanale pubblicherà nel numero in edicola da domenica 24 giugno i nuovi nomi degli italiani con i soldi nei paradisi fiscali.

La nuova inchiesta giornalistica internazionale fotografa gli effetti dei Panama papers nel riservatissimo mondo delle offshore. Nel 2016, già prima della pubblicazione degli articoli su 107 testate internazionali, le email e i telefoni dello studio Mossack Fonseca vengono presi d'assalto. A scrivere e chiamare sono soprattutto le società che hanno fatto da tramite (avvocati, consulenti, commercialisti), ma anche qualche titolare delle offshore (beneficial owner), che chiede conto e spiegazione delle domande rivolte dai giornalisti su quelle società-cassaforte fino ad allora segretissime. Addio riservatezza. E lo studio che fa? Prova a salvare il salvabile, organizzando una reazione, come si scopre grazie al milione e 200 mila nuovi documenti ora disponibili. Così i dipendenti di Mossack Fonseca (Mossfon) si mettono di buona lena a rispondere alle centinaia di email inviate a un apposito indirizzo email aperto per fronteggiare il disastro: CrisisCommitte@mossfon. Non solo, all'improvviso l'attività quotidiana dei dipendenti di Mossack Fonseca cambia: la priorità non è più creare società di comodo nei paradisi fiscali, bensì ricercare furiosamente l'identità dei beneficiari. Già, perché per anni lo studio ha sorvolato sulle regole internazionali che impongono di specificare e verificare l'identità dei propri clienti, per evitare che, dietro all'anonimato, possano celarsi criminali, truffatori, mafiosi o politici corrotti. Dunque, nei mesi successivi alla bufera mediatica dei Panama Papers, i dipendenti di Mossack Fonseca cercano di riempire i tanti vuoti nei registri delle società. E così inviano messaggi a raffica agli indirizzi di posta elettronica di banchieri, contabili e avvocati, cioè ai professionisti e intermediari che avevano richiesto l'assistenza di Mossack Fonseca per costituire le offshore per conto dei propri facoltosi clienti, che invece avrebbero voluto restare anonimi. Alcuni di quegli stessi intermediari rispondono picche: «Il cliente? Scomparso». Altri si indignano: «Sembrate dei dilettanti». «Tutto questo è ridicolo», scrive ad esempio Eliezer Panell, un avvocato della Florida, esasperato dal pressing di mail quotidiane inviate da Mossack Fonseca, nel tentativo di ottenere i documenti per identificare i titolari di due società. Due mesi dopo lo scandalo, Mossack Fonseca si arrende di fronte all'evidenza del gigantesco deficit di informazioni nei propri registri: una email interna conferma che restano ignoti i proprietari di oltre il 70 per cento di 28.500 società delle Isole Vergini britanniche, così come il 75 per cento delle 10.500 offshore di Panama, mentre alle Seychelles l'anonimato è quasi totale.

«Arrestate i giornalisti». Non conoscere l'identità dei reali beneficiari delle società di comodo registrate nei paradisi fiscali, significa rischiare un'infinità di guai legali sia per Mossack Fonseca, sia per i clienti finali, che rischiano il blocco delle offshore e quindi dei capitali che custodiscono. Così, il giorno dopo la scoperta della fuga di notizie, i capi di Mossack Fonseca entrano nel panico. Al punto da richiedere al procuratore generale di Panama di avviare un'indagine, fermare e «interrogare urgentemente» i giornalisti, provenienti da Francia, Danimarca, Australia, Stati Uniti e Germania, che in quei giorni s'aggirano nella capitale per preparare gli articoli poi pubblicati nell'aprile 2016. «Ai giornalisti non deve essere permesso di lasciare Panama o l'Hilton Hotel dove alloggiano, finché non rivelano come hanno ottenuto i documenti da Mossack Fonseca», tuona l'avvocato dello studio, senza successo. I tentativi di fermare i cronisti si susseguono in tutti i paesi del mondo. Ad esempio Nicole Didi, una consulente svizzera, scrive una email di fuoco ai professionisti di Panama: «Questo giornalista francese vuole pubblicare un articolo sul quotidiano Le Monde che per me non è accettabile!». Pronta, ma inutile, la risposta del coordinatore del servizio clienti di Mossack Fonseca, Jorge Cerrud: «Parlerò con il nostro dipartimento pubbliche relazioni per vedere come possiamo aiutarla».

Politici, sceicchi e star in allarme. In questo clima di caos, per la prima volta, anche i ricchi piangono. Alcune personalità di altissimo profilo sono costrette a precipitarsi da Mossack Fonseca per rivendicare la paternità del proprio conto offshore. I segretari del presidente ucraino Petro Poroshenko, in particolare, spediscono allo studio legale una bolletta dell'elettricità per dimostrare la sua residenza e l'identità personale, dopo che le autorità antiriciclaggio delle Isole Vergini britanniche avevano richiesto a lui stesso la conferma della proprietà della sua offshore. Poroshenko ha poi confermato pubblicamente la titolarità della offshore, spiegando però che era legata alla sua attività di imprenditore e non c'entra con il suo ruolo politico. Nei giorni dello scandalo, sono molti i potenti che devono scomodarsi. Perfino il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, si attiva per spedire a Panama la copia del proprio passaporto e i documenti dei familiari. Tra la corrispondenza archiviata dallo studio ci sono anche 17 email della star hollywoodiana Jackie Chan, cliente di Mossack Fonseca, che fornisce in tutta fretta la copia del proprio passaporto e una dichiarazione di American Express, nel tentativo di mantenere attive le sue società offshore per la produzione e distribuzione di film. In formato esentasse.

E il fisco incassa oltre un miliardo. Poi ci sono le reazioni giudiziarie. Nel febbraio 2017 il procuratore generale di Panama, Kenia Porcell, dichiara ufficialmente che una serie di società offshore targate Mossack Fonseca sono state utilizzate per pagare o incassare mazzette in tutta l'America Latina, in connessione con lo scandalo Lava Jato, la colossale Tangentopoli brasiliana. Altre inchieste sono state aperte dai pubblici ministeri di Colonia, in Germania, per evasione fiscale, sulla base delle notizie pubblicate da Süddeutsche Zeitung. Le procure di mezzo mondo intanto accendono il faro sui tesori esteri dei potenti, mentre le autorità fiscali cominciano a reclamare le tasse non pagate e le sanzioni. Alla fine del 2017, il bilancio legale dei Panama Papers è già notevole: il fisco in Spagna ha recuperato 103,6 milioni di euro, secondo i dati ufficiali del ministero; in Olanda 6,2 milioni; in India le autorità hanno accertato redditi non dichiarati per 162,4 milioni di dollari; in Gran Bretagna si prevedono sanzioni per circa 100 milioni di sterline. Molti altri paesi avviato indagini e in parte già recuperato le imposte evase. In totale, nel 2016, le autorità fiscali della Corea del Sud risultano aver incassato un miliardo e 180 milioni di dollari. Anche in Italia sono in corso numerose indagini che partono dai Panama Papers. L'Agenzia delle entrate ha comunicato di aver messo nel mirino una prima lista di 800 italiani con società offhore aperte dallo studio di Panama. Altre indagini, anche penali, sono state avviate da Roma a Milano, da Torino alla Campania e alla Sicilia. Ma le inchieste più importanti sono ancora segrete. (Hanno collaborato Will Fitzgibbon e Ben Hallman)

Ministro Salvini, ora dica la verità sui soldi della Lega: da Parnasi al Lussemburgo. Sulla "Più Voci", l'associazione sconosciuta e scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi? E ancora: con quali soldi sopravvive il partito del vice premier? Su L'Espresso in edicola domenica 17 giugno ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 15 giugno 2018 su "L'Espresso". «I conti segreti di Salvini». Due mesi fa, titolava così L'Espresso l'inchiesta di copertina sui soldi della Lega. Per la prima volta una sconosciuta associazione dal curioso nome “Più voci” usciva dall'anonimato. Fino ad allora nessuno poteva immaginarne l'esistenza. Anche perché non ha mai pubblicizzato alcuna attività politica, culturale, sociale. E non ha una sede aperta al pubblico, come le più classiche delle associazioni che lavorano sul territorio. Si trova, infatti, in via Angelo Maj 24, in un anonimo condominio di Bergamo, presso lo studio dei commercialisti che compongono il cerchio strettissimo del segretario, oggi ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Sulla Più voci scovata dall'Espresso e fondata nel 2015 dal tesoriere della Lega scelto da Matteo Salvini, qualcuno dei protagonisti mente. Chi? Luca Parnasi, da poco in carcere per l'indagine sul nuovo stadio della Roma, cioè uno degli imprenditori che hanno finanziato con 250 mila euro la sconosciuta associazione leghista? O Giulio Centemero, il cassiere del partito, braccio destro del neo ministro dell'Interno? Vedremo, insomma. Intanto sull'asse Roma-Genova si sta instaurando una collaborazione investigativa tra le due procure. Un coordinamento tra i pm che indagano sull'affare stadio-Parnasi e i loro colleghi che scavano sul tesoro della Lega. Gli inquirenti, dunque, hanno acceso un faro sui contributi svelati dall'Espresso e ora finiti al centro della cronaca. Sull'Espresso in edicola da domenica 17 giugno vi raccontiamo le dissonanze tra la versione fornita dai fedelissimi di Salvini e quella di Parnasi, registrata dalle cimici dei carabinieri. Messe a confronto restituiscono un quadro contraddittorio, confuso. È un imprenditore generoso, Parnasi. Che ha fiuto per il cambiamento, percepisce prima di altri in che direzione soffierà il vento del rinnovamento nei palazzi. Negli ultimi anni, infatti, si è avvicinato alla Lega e ai Cinquestelle. Il nuovo potere, appunto. Chi mente, dunque? L'imprenditore che intercettato dai carabinieri della Capitale rivela a un suo collaboratore di aver dato quei soldi per la campagna elettorale delle comunali di Milano? O il tesoriere di Salvini che all'Espresso aveva escluso categoricamente che quei soldi fossero finiti in attività politiche del partito? Di certo la Lega non è ancora riuscita a chiarire fino in fondo è il ruolo dell'associazione “Più voci”. Registrata davanti a un notaio nell’autunno del 2015, dai tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Ognuno di loro con l'arrivo di Salvini alla segreteria si è ritagliato un ruolo sempre maggiore all'interno della Lega. Tra Salvini e Parnasi c'è un ottimo rapporto: «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato il ministro la mattina dell'arresto del costruttore. Ma all'epoca dell'inchiesta dell'Espresso sui “conti segreti”, né Salvini né Parnasi avevano risposto alle nostre domande sull'associazione gestita dai commercialisti della Lega. Di certo Parnasi è molto vicino al leader ora capo dei Viminale. «Amico fraterno», lo definisce in alcuni dialoghi contenuti nelle informative depositate in procura a Roma. Parnasi non è stato il solo a versare a Più voci. L'Espresso ha documentato come anche il colosso della grande distribuzione Esselunga abbia donato denaro alla fondazione-associazione leghista. Soldi che dopo una breve sosta sui conti di Più voci sono ripartiti per finire su quelli delle società della galassia del Carroccio. Ora, però, è l'indagine della procura di Roma, con l'arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo in avanti. Il costruttore romano, intercettato, mostra una certa agitazione dopo aver ricevuto le nostre domande in cui gli chiedevamo conto di quei 250 mila euro versati a Più voci. Tramite il commercialista, quindi, contatta l'amico di Milano, cioè Andrea Manzoni. L'immobiliarista ha intenzione di chiedere all'uomo di Salvini di «fare una cosa retroattiva» rispetto al versamento. E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi all'inchiesta dell'Espresso sull'associazione della Lega. Ma è il passaggio successivo che rende l'idea di quanto scompiglio avessero provocato le domande: «Ragionando sulle possibili conseguenze dell'articolo, Parnasi e il suo commercialista, ipotizzano di creare una falsa documentazione contabile, retrodatata, per giustificare l'erogazione». Ma perché tanto trambusto? Forse perché qualcuno non dice la verità. Forse è arrivato il momento per il partito del ministro di pubblicare anche i nomi degli altri finanziatori della Più voci. Esistono, e sono diversi. Lo sostiene Parnasi, secondo cui almeno 10 imprenditori avrebbero versato alla Più voci. E ce lo aveva confermato il tesoriere della Lega, trincerandosi però dietro il muro della privacy. Nel servizio sui soldi della Lega in edicola domenica, ripercorriamo anche le tappe delle nostre inchieste esclusive pubblicate in questi mesi sulla caccia ai 48 milioni frutto della truffa dei rimborsi elettorali lasciati da Umberto Bossi sui conti del partito e mai più trovati da chi, inquirenti e investigatori, cerca di far rispettare una sentenza dello Stato. In questi mesi L'Espresso ha ricostruito nei dettagli i flussi finanziari e societari della galassia leghista dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. E seguendo i fili degli affari da via Angelo Maj siamo arrivati fino in Lussemburgo, nel polmone offshore dell'Europa. Proprio il Granducato dove la guardia di finanza di Genova ha inviato una rogatoria per raccogliere maggiori informazioni su strani movimenti di denaro. Tanto che nei giorni scorsi sono state eseguite delle perquisizioni presso due filiali della Sparkasse, istituto di Bolzano dal quale sono transitati alcuni milioni riconducibili al partito, sospettano i detective. Di quel denaro a distanza di cinque anni non c'è più traccia. Con il partito e il suo attuale leader che piangono miseria. E allora come sopravvive il partito del ministro? Con quali soldi?

Ministro Salvini, è ora di dire la verità sui soldi della Lega. Con quale denaro sopravvive il partito del vice premier? E chi sta mentendo sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste? Ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 21 giugno 2018 su "L'Espresso". Caccia al tesoro sparito della Lega ai tempi della Terza Repubblica. E ai finanziatori segreti del Carroccio. Che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? E che ruolo ha l’associazione “Più voci”? Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti i 48 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. Con la sentenza di primo grado del tribunale di Genova è stata riconosciuta la truffa ai danni dello Stato realizzata da Belsito, Bossi e altri uomini del partito di quell’epoca. Ma i giudici hanno anche stabilito che quei soldi devono essere restituiti. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali?

A partire dall’inchiesta “Salvinidanaio” (2 ottobre 2017), L’Espresso ha cercato di ricostruire i flussi finanziari che hanno attraversato le tre diverse gestioni della Lega: Bossi, Maroni e Salvini. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che di quei 48 milioni non ha mai visto uno spicciolo. I report interni del Carroccio però smentiscono il ministro dell’Interno e segretario del partito. E dimostrano l’esistenza di un filo diretto tra la truffa architettata dalla coppia Belsito-Bossi e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo Maroni ha incassato 12,9 milioni di euro. Rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Quando Salvini subentra a Maroni poco cambia. Il nuovo segretario incassa 820 mila euro per le elezioni regionali del 2010. Perché allora sostiene che quei soldi non li ha mai visti? Sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi? È proprio seguendo i soldi, analizzando documenti bancari e contabili del partito, che sono emersi altri due dati rilevanti: un portafoglio di titoli finanziari di cui è titolare il partito di Salvini e un’associazione culturale, la “Più voci”, usata dopo la condanna per truffa per incamerare contributi volontari da imprenditori amici. Un’inchiesta giornalistica che ha dato il titolo a una delle copertine dedicate dal nostro settimanale al tesoro scomparso della Lega. “I Conti segreti di Salvini” (1° aprile 2018) svelava per la prima volta l’esistenza di un patrimonio finanziario del Carroccio fatto di buoni del tesoro italiano e obbligazioni societarie. Oltre alla liquidità, quindi, il partito poteva contare su un sostanzioso tesoretto. Investito parzialmente in titoli vietati per un partito politico, dato che la legge permette di scommettere denaro solo su titoli di Stato della zona euro. Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, la Lega è titolare di titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. E ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Con l’arrivo di Salvini la strategia non cambia. Nello specifico, il neo ministro ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Ma c’è un fatto ulteriore che emerge dallo studio dei saldi bancari: da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. In che modo sono stati spesi così rapidamente tutti quei soldi resta uno dei misteri della nuova Lega sovranista, sulla quale si sono intanto accesi i riflettori della procura di Genova e della Guardia di finanza. Le perquisizioni presso le sedi della Sparkasse, la banca in cui per un certo periodo il Carroccio ha parcheggiato la sua liquidità, hanno infatti l’obiettivo di ricostruire lo spostamento del denaro fuori dai confini nazionali. I detective sono alla ricerca di investimenti passati per il Lussemburgo. Sono convinti che il materiale sequestrato darà loro molte risposte. Perché è anche da quei conti che è transitato il denaro poi improvvisamente sparito. Un passaggio che già nel 2015 L’Espresso raccontava in un’altra inchiesta dal titolo “Caccia al tesoro padano”. L’indagine della magistratura è ancora a carico di ignoti, e l’ipotesi di operazioni di riciclaggio effettuate tramite Sparkasse è solo uno dei filoni. L’attività principale riguarda infatti la ricerca del denaro da sequestrare, così come ordinato dal tribunale dopo la sentenza di condanna per truffa. Di certo la Lega non è riuscita a chiarire fino in fondo il ruolo dell’associazione “Più voci”. L’Espresso aveva rivelato, nell’inchiesta sui “Conti segreti di Salvini”, che questa organizzazione fondata nell’autunno 2015 aveva ricevuto parecchi finanziamenti privati. A tenere le redini dell’associazione sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La “Più Voci” finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, ma ha ricevuto parecchi bonifici. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi, da fine 2015 a metà 2016 - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo, come Radio Padania e la Mc Srl, l’impresa che edita il quotidiano online Il Populista, nuovo strumento della propaganda salviniana in rete.

Come avevamo raccontato, sul conto della “Più Voci” sono arrivati in particolare due bonifici per un totale di 250 mila euro dalla Immobiliare Pentapigna di Luca Parnasi. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma e che è appena finito in carcere per corruzione nell’inchiesta che rischia di travolgere il Campidoglio a Cinquestelle. «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato Salvini dopo l’arresto riferendosi al costruttore. Il ministro ha però dimenticato di ricordare dei 250 mila euro versati da Parnasi all’associazione gestita dai commercialisti della Lega. D’altra parte l’immobiliarista romano non è stato il solo benefattore. L’Espresso ha documentato come anche Esselunga abbia donato 40 mila euro. Ora è l’indagine della procura di Roma, con l’arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo avanti. L’imprenditore, intercettato, si mostra agitato dopo aver ricevuto le nostre telefonate in cui gli chiedevamo conto di quei bonifici alla “Più voci”. Decide di non rispondere alle nostre domande, così come ha fatto Salvini, ma confida a un suo collaboratore che quei soldi servivano per finanziare la campagna elettorale di Stefano Parisi (candidato per il centro destra, Lega inclusa) a sindaco di Milano del 2016. Se fosse vero, questo smentirebbe la versione del tesoriere Centemero, che al nostro giornale aveva spiegato: «I fondi raccolti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come per esempio le campagne elettorali». Di sicuro, una volta saputo della nostra inchiesta, il gruppo Parnasi si mette al lavoro per trovare una giustificazione al finanziamento. Tramite il suo commercialista, l’immobiliarista contatta Andrea Manzoni, il contabile fedele a Salvini. Gli vuole chiedere di «fare una cosa retroattiva». E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi alle nostre domande. Ma è il passaggio successivo che rende l’idea di quanto scompiglio avesse creato la nostra richiesta. Parnasi infatti propone a un suo collaboratore di «creare una giustificazione contabile retrodatata grazie alla quale sostenere che l’erogazione sia avvenuta a favore di Radio Padania». Ma perché tanta preoccupazione? In ogni caso quando Parnasi capisce che non c’è nulla da fare e che lo scoop dell’Espresso verrà pubblicato si arrende: «Pazienza, ma sotto un certo aspetto è positivo perché tutti sapranno che siamo vicini alla Lega che farà il governo». Tesi sostenuta anche da Luigi Bisignani. Il faccendiere evergreen prima chiede all’amico quanti sono gli imprenditori che hanno versato soldi all’associazione leghista “Più Voci”. «Una decina», risponde Parnasi: dunque molti di più rispetto ai due scoperti dal nostro giornale. Poi Bisignani dice all’amico che «non serve rispondere ai giornalisti ma cavalcare la cosa», perché in fondo è amico di tutti quelli che contano visto che «ha finanziato la Lega e il M5S». Che l’uomo incaricato di costruire lo stadio della Roma abbia finanziato anche i grillini è tutto da provare. Di certo l’intercettazione rivela un inedito spaccato sul nuovo potere. Ma anche sul vecchio: nella stessa conversazione i due sostengono che a sinistra «non possono dirgli nulla» sul finanziamento alla Lega, perché «anche quelli conoscono la sua società Pentapigna». Se l’inchiesta della procura di Roma conferma l’esistenza di canali alternativi usati dalla Lega per finanziarsi, evitando così il possibile sequestro dei soldi, resta aperto il capitolo “vecchio tesoro padano”. Una traccia del metodo usato dai leghisti per blindare il patrimonio milionario l’abbiamo raccontata nell’ultima inchiesta di copertina, “L’Europa offshore che piace a Salvini” (3 giugno 2018). Scavando negli affari del trio di commercialisti Centemero-Di Rubba-Manzoni, L’Espresso ha scoperto una ragnatela di piccole imprese di cui è impossibile conoscere il proprietario, perché a controllarle è una fiduciaria che porta lontano, fino in Lussemburgo. I cassieri della Lega hanno risposto alle nostre domande sostenendo che queste società nulla hanno a che fare con il partito. Questioni private, insomma. Gestite però da professionisti con ruoli pubblici in Parlamento. Di certo è curioso notare come i commercialisti scelti da Salvini abbiano legami con il Lussemburgo, paradiso fiscale europeo guidato per anni dal guardiano dei vincoli di bilancio, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. E ancora più curioso è rilevare che proprio nel Granducato la procura di Genova ha appena inviato una rogatoria per indagare sui flussi finanziari partiti dall’Italia e macchiati dalla truffa di Bossi.

Esclusivo: alla Lega sovranista di Matteo Salvini piace offshore. Da Bergamo al Lussemburgo, via Lugano. Lungo questa direttrice si dipanano gli affari dei cassieri del partito scelti dal segretario neo ministro degli Interni. L'inchiesta su L'Espresso in edicola domenica 3 giugno 2018, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine l'1 giugno 2018 su "L'Espresso". In via Angelo Maj 24, a Bergamo, c'è un piccolo studio contabile di proprietà di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Due professionisti come tanti, se non fosse per la loro ascesa, a partire dal 2014, all'interno dell'amministrazione del partito di Salvini. Alla coppia, poco nota alle cronache, si aggiunge un terzo uomo, più conosciuto: Giulio Centemero, il tesoriere ufficiale del partito, voluto dal leader che ha portato la Lega all'exploit elettorale del 4 marzo. Centemero è stato eletto alla Camera alle ultime elezioni, ma è soprattutto l'uomo ingaggiato da Salvini per gestire i conti dopo gli scandali della truffa sui rimborsi elettorali durante la gestione di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Di Rubba, Manzoni e Centemero: i cassieri di Matteo, insomma.

Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000. Un trio al cui vertice c'è proprio il neodeputato e tesoriere. Gestiscono decine di società con base in via Angelo Maj, nuovo quartier generale delle finanze leghiste, sette delle quali controllate- attraverso delle fiduciarie italiane tra i cui soci c'è anche un'anonima impresa svizzera- da una holding lussemburghese che fa capo a un'altra fiduciaria. Impossibile dunque, vista la sofisticata schermatura finanziaria, sapere chi sono i reali proprietari delle società registrate presso lo studio di Di Rubba e Manzoni. E impossibile è anche conoscere l'origine dei capitali attraverso cui sono state costituite. L'unica certezza è che seguendo il flusso di denaro si arriva nel Granducato, uno dei principali paradisi fiscali europei. Ma non è tutto. Approfondendo gli affari dei cassieri del Carroccio si arriva a un’impresa che noleggia auto, di proprietà di Manzoni e Di Rubba, il cui fatturato si è impennato da quando la Lega è diventata sua cliente. E c’è pure una grande tipografia della bergamasca, anche questa diventata fornitrice di punta del partito dopo le elezioni di Salvini a segretario federale, il cui proprietario pochi giorni fa ha fatto guadagnare oltre un milione di euro a Di Rubba. Da aprile scorso Manzoni e Di Rubba ricoprono anche una carica formale e delicata all'interno del partito: il primo è stato nominato direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera, il secondo è stato scelto come revisore legale del gruppo Lega al Senato. Non solo: entrambi hanno ottenuto incarichi di peso all'interno della Pontida Fin e della Fin Group, ammiraglie finanziarie del partito. Proprio la Fin Group ha cambiato sede con l'entrata in scena di Salvini e Centemero. Dalla storica via Bellerio, sede e simbolo di una Lega nordista, secessionista, padana, è stata trasferita in via Angelo Maj 24, presso lo studio Di Rubba - Manzoni, con quest'ultimo che è diventato l'amministratore unico della società. Alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni hanno risposto allo stesso modo. Non hanno fornito informazioni sui beneficiari ultimi delle fiduciarie, ma hanno assicurato che le sette aziende in questione non hanno legami né diretti né indiretti con la Lega. Tuttavia un fatto è indiscutibile: in una di queste imprese l’amministratore è il tesoriere del partito, cioè Centemero, e in una seconda lo stesso ruolo è ricoperto dal professionista Manzoni, scelto per vigilare sui conti del gruppo parlamentare alla Camera.  Sempre presso lo studio di Manzoni e Di Rubba è registrata anche la associazione culturale “Più Voci”: l'organizzazione fondata da Centemero, Di Rubba e Manzoni per incamerare contributi da imprenditori, di cui L'Espresso aveva dato conto in esclusiva due mesi fa nell'inchiesta di copertina “I conti segreti di Salvini”.

Sull'associazione Più voci questa volta la Lega ha risposto. Lo ha fatto con il tesoriere Centemero: «I soldi ricevuti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come ad esempio la campagna elettorale». Il tesoriere ha sottolineato che «l’associazione, come da ragione sociale, stimola il pluralismo dell’informazione, perciò i progetti di sostegno (le donazioni private, ndr) sono stati indirizzati su Radio Padania e su Il Populista (il giornale online edito da Mc Srl, ndr)». Insomma, Centemero sostiene che quei soldi non servivano a finanziare la campagna elettorale della Lega, ma a sostenere l’informazione realizzata dai suoi media. Difficile capire quale sia la differenza sostanziale, visto che Radio Padania e Il Populista sono testate attraverso cui la Lega fa campagna elettorale. E piuttosto complicato risulta anche comprendere perché, se le cose stanno così, Esselunga e Parnasi (i donatori dell'associazione che avevamo rivelato due mesi fa) non sono stati invitati a donare soldi direttamente a Radio Padania e a Il Populista. Il tesoriere Centemero ci ha anche fatto sapere che l’associazione è ancora attiva, e che a partire dalla sua fondazione, nell’ottobre nel 2015, «ha raccolto qualche centinaia di migliaia di euro da aziende e privati». Nessuna informazione sui nomi dei donatori: «La normativa delle associazioni e la riservatezza dei dati richiesti mi impediscono di rivelare i nominativi dei contribuenti e i relativi importi», ci ha scritto Centemero.

L’indagine sui soldi della Lega e il Lussemburgo, scrive mercoledì 13 giugno 2018 Il Post. La procura di Genova sospetta che il partito abbia nascosto 3 milioni – che dovevano essere sequestrati – trasferendoli all'estero. Mercoledì mattina agenti della Guardia di Finanza e ispettori della Banca d’Italia hanno perquisito la sede centrale della Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano, su richiesta della procura di Genova che da mesi sta indagando sui 48 milioni di euro che la Lega dovrebbe restituire allo Stato, perché confiscati al partito dopo il caso dei cosiddetti “rimborsi truffa” che coinvolse il tesoriere Francesco Belsito e l’ex segretario Umberto Bossi nel 2012. L’ipotesi della procura è che la Lega – non è chiaro quando, ma durante le gestioni di Roberto Maroni e Matteo Salvini – abbia cercato di nascondere parte dei propri soldi per evitare che venissero sequestrati, trasferendoli in Lussemburgo per poi farli rientrare in Italia. Lo scandalo dei falsi rimborsi della Lega emerse per la prima volta nel 2012, e nel 2017 portò alla condanna in primo grado di Belsito e Bossi, oltre che di diversi altri dirigenti della Lega. Quando venne deciso il sequestro di 48 milioni di euro come risarcimento, sui conti del partito ne vennero trovati soltanto due. Per risarcire lo Stato dei fondi sottratti illecitamente, quindi, era stato disposto il sequestro dei soldi che da allora in futuro sarebbero arrivati sui conti della Lega: il sequestro, chiesto dalla procura di Genova, era stato confermato lo scorso aprile dalla Cassazione. Come ha ricordato spesso lo stesso Salvini, però, ufficialmente la Lega non ha soldi sui propri conti («15mila euro», disse Salvini lo scorso gennaio). La procura ha aperto un’indagine per riciclaggio a carico d’ignoti, ipotizzando che la Lega abbia cercato di evitare il sequestro di parte dei propri soldi: al centro della perquisizione di mercoledì c’è un investimento di 3 milioni di euro in Lussemburgo, poi – secondo questa tesi – fatti rientrare in Italia. A segnalare alle autorità antiriciclaggio italiane queste manovre finanziarie è stato lo stesso Lussemburgo, che ha considerato sospetto il rientro in Italia della somma. Secondo la procura, la Sparkasse è stata la banca dalla quale i soldi sono stati trasferiti e poi rimpatriati. Oltre alla sede di Bolzano mercoledì sono state fatte delle perquisizioni anche a Milano e a Collecchio, in provincia di Parma, scrive il Secolo XIX. La procura ha anche presentato una rogatoria internazionale per ottenere dal Lussemburgo i documenti sui trasferimento di denaro sospetti.

Fondi della Lega, blitz della Finanza alla Sparkasse di Bolzano, scrive Matteo Indice il 13 giugno 2018 su "Il Secolo XIX". Come anticipato questa mattina dal Secolo XIX e dalla Stampa, accelera l’inchiesta per riciclaggio dopo la condanna per i “rimborsi-truffa” ricevuti dalla Lega ai tempi di Bossi: una segnalazione dal Lussemburgo ha spinto i pm di Genova a chiedere l’acquisizione di una serie di documenti. Questa mattina, poco prima dell’orario di apertura, finanzieri, ispettori e tecnici di Bankitalia si sono presentati nel centro di Bolzano per una vasta “ricognizione” alla Direzione generale della Sparkasse, la Cassa di Risparmio. Gli inquirenti sono alla ricerca di prove documentali e informatiche sul sospetto riciclaggio di parte dei rimborsi fuorilegge che la Lega ha incassato dal Parlamento fino al 2013, e che potrebbe aver esportato in Lussemburgo con l’obiettivo di metterli al riparo dai sequestri, per poi farli rientrare sempre parzialmente in Italia. Due operazioni sospette (un investimento di 3 milioni nel Granducato e il rientro d’una somma analoga dallo stesso paese) sono avvenute proprio tramite l’istituto altoatesino e agli occhi di chi indaga potrebbero essere collegate a esponenti leghisti. Una fiduciaria lussemburghese ha inoltre segnalato nei mesi scorsi alle autorità antiriciclaggio italiane come “anomala” la transazione di ritorno, che ha avuto per terminale sempre la Sparkasse. Ecco perché le Fiamme Gialle, su delega della Procura di Genova che indaga per riciclaggio al momento contro ignoti, si sono concentrati su Bolzano e con una rogatoria internazionale hanno già chiesto di acquisire vari incartamenti pure in Lussemburgo. Il blitz di Finanza e Bankitalia per la medesima indagine, oltre che in Alto Adige, è in corso anche a Milano e a Collecchio (Parma), dove si trova un importante centro informatico.

Lega e soldi dal Lussemburgo: i pm cercano a Bolzano i milioni del Carroccio rientrati in Italia. Una segnalazione di Bankitalia innesca i pm di Genova: una rogatoria per capire se si tratta dei rimborsi per cui sono stati condannati Bossi e Belsito, scrivono Valeria Pacelli e Ferruccio Sansa il 13 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Tre milioni