Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

LADRONIA

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

Di Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).

INTRODUZIONE

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

QUO VADO?

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.

LEZIONE DI MAFIA.

ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!

ANAS: UFFICIO MAZZETTE E CILIEGIE A GO GO'.

IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.

SANITA’: L’OBBIETTIVO NON E’ SALVARE, MA INCASSARE.

ROMA ED IL MOSTRO MARINO.

LA GRANDE CERTEZZA.

L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

SENZA CONCORSO PUBBLICO. LA PARENTOPOLI DELL’ANTIMAFIA E GLI INCARICHI FIDUCIARI NEI TRIBUNALI.

E’ STATO LA MAFIA!

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LEZIONE DI MAFIA.

CLIENTELE E RACCOMANDAZIONI.

ORDINE AL MERITO DELLA REPUBBLICA ITALIANA: LO SPECCHIO D'ITALIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.

IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.

IL MONDO DEI TRASFORMISTI.

IL MONDO DELLE CRICCHE.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALIACA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

SULLA PELLE DEGLI IMMIGRATI…

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

CITTADINI. MANIFESTARE E DEVASTARE. IMPUNITA’ CERTA.

FOIBE: QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO.

IN ITALIA UN APPALTO SU TRE E' TRUCCATO.

COME ARRICCHIRSI CON L'1%.

CONFLITTI DI INTERESSI SUGLI APPALTI: QUANDO IL CONTROLLORE LAVORA PER IL CONTROLLATO.

COME SI CORROMPE UN POLITICO OD UN AMMINISTRATORE PUBBLICO.

IL PRIVATO VINCE SUL PUBBLICO. 

TANGENTI: CORRUZIONE E COLLUSIONI. LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

"JE SUIS CRAXI”. LA MORALE CHE AVANZA. CRAXI, PISAPIA, ROBLEDO E GLI ALTRI. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

TRUFFE DA SPORT. IL CONI NON PAGA I 13 AL TOTOCALCIO. IL CASO MARTINO SCIALPI.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

REGIONI TRUFFALDINE.

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

MAFIA E TERRORISMO DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. L’ITALIA CODARDA ED IL PATTO CON IL DIAVOLO. MEGLIO PAGARE IL PIZZO.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

CORSI E RICORSI STORICI: QUANDO LE COSE IN ITALIA NON CAMBIANO MAI.

VIOLENZA E SCHIAVITU’: QUELLO CHE NON SI VEDE.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.

VIOLENZA E SCHIAVITU’: QUELLO CHE NON SI VEDE.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.

IL PRESIDENTE DEL CONI, GIOVANNI MALAGO’ ED IL COLMO DEI COLMI.

LO SPORT DELLE EPURAZIONI, SCANDALI, SPRECHI E MALAGESTIONE.

VENERDI’ 14 NOVEMBRE 2014. TARANTO. INIZIA IL PROCESSO DI APPELLO PER IL DELITTO DI SARAH SCAZZI. SI ACCENDA LA TELEVISIONE.  

LA FAVELA IN RIVA AL TEVERE.

GLI ZINGARI SONO I VERI PADRONI DI ROMA. E NON SOLO.

PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.

LEGA NORD: IL MOSTRO C’E’ SOLO SE CONVIENE.

IMMIGRATI. SEI MITI RAZZISTI DA SFATARE.

ITALIANI AFFAMATI ED IL CIBO PAGATO DALLO STATO E BUTTATO VIA DAI PROFUGHI.

PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?

LA VITTORIA CENSURATA DEL PARTITO DEL NON VOTO.

FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

I BOSSI ED I LEGHISTI. LADRI A CHI?

STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.

L’ITALIA DEI LADRI.

CORRUZIONE, TANGENTI E TRUFFE: LA GERMANIA DEGLI ONESTI PEGGIO DI NOI!

BRUXELLES CORROTTA, EUROPA INFETTA.

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

CHI FA LE LEGGI? 

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto. 

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

QUO VADO?

Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato eFatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".

Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei quarantenni pensionati 

che danzavano sui prati 

dopo dieci anni volati all'aeronautica 

e gli uscieri paraplegici saltavano 

e i bidelli sordo-muti cantavano 

e per un raffreddore gli davano 

quattro mesi alle terme di Abano 

con un'unghia incarnita 

eri un invalido tutta la vita

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei cosmetici mutuabili 

le verande condonabili 

i castelli medioevali ad equo canone 

di un concorso per allievo maresciallo 

sei mila posti a Mazzara del Vallo 

ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano

come i conigli 

tanto poi 

eran cazzi dei nostri figli

Ma adesso vogliono tagliarci il Senato 

senza capire che ci ammazzano il mercato 

senza Senato non c'è più nessun reato 

senza reato non lavora l'avvocato 

il transessuale disperato 

mi perdi tutto il fatturato 

ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato

Ma il Presidente è toscano 

ell'è un gran burlone 

ha detto “eh, scherzavo” 

piuttosto che il Senato 

mi taglio un coglione

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

era bella assai 

la prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu che ne sai 

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.

Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.

Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..

Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?

V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…

L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?

V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.

L: Eh certo! (ride)

V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…

L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…

Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.

Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?

Un esempio. Il liceo dei predestinati....La classe dei Giusti: in una foto un pezzo di storia italiana.

Il pm eroe di piazza Fontana, il giudice istruttore della strage di Bologna, la magistrata di ferro dei processi a Previti e Berlusconi, il commissario che democratizzò la polizia italiana… Ecco le foto di un gruppo di compagni di liceo che hanno cambiato la giustizia italiana, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso” il 22 dicembre 2015. Giustizia di classe. O meglio, una classe per la giustizia. Qualche volta succede che in un gruppo di compagni di scuola si crei un'affinità elettiva, un sentire comune, un particolare contesto umano e intellettuale in grado di prefigurare uno speciale incrocio di destini. Queste foto ingiallite dal tempo sono una testimonianza delle “vite parallele” di una classe di studenti del liceo classico D'Annunzio di Pescara: tra quei compagni di scuola, in posa sulla scalinata d'ingresso dell'istituto con il loro carismatico professore di filosofia, che fu anche il loro primo maestro di diritto, c'è un pezzo di storia della giustizia italiana. Nell'Italia di oggi, dove anche la giustizia sembra in crisi, l'Espresso pubblica queste immagini con la speranza che il nuovo anno che sta per nascere possa regalarci una nuova generazione di giovani capaci di raccogliere idealmente il testimone di questi uomini e donne, che tanti anni fa, in una normalissima classe di liceo, scelsero di dedicare la loro vita a realizzare il sogno di creare un paese più onesto, più libero, più giusto. Tra i ragazzi in piedi nella fila più in alto, il terzo da sinistra, di cui si vede solo il volto vicino alla porta, è Emilio Alessandrini, il futuro pubblico ministero che negli anni Settanta, con il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, saprà dimostrare le responsabilità della destra eversiva di Ordine nuovo, e le complicità dei servizi segreti militari dell'allora Sid, nella catena dei 17 attentati terroristici che nel 1969 sconvolsero per la prima volta l'Italia. Un'escalation di bombe nere, per cui sono stati condannati in via definitiva i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, culminate nella strage di piazza Fontana, che invece è rimasta impunita, dopo troppi depistaggi di Stato. E dopo che l'inchiesta fu sottratta a quei coraggiosi giudici di Milano. Alessandrini è uno dei magistrati che in questo paese hanno dovuto sacrificare la vita alla ricerca di verità e giustizia. E' stato assassinato a Milano il 29 gennaio 1979 da un commando di terroristi rossi guidato da Sergio Segio e Marco Donat Cattin. Il giornalista Walter Tobagi, che verrà ucciso con la stessa insensata ferocia, ci ha lasciato un memorabile ritratto di quel pm «dalla faccia mite, da primo della classe che si lascia copiare i compiti», definendo Alessandrini, per il suo rigore, capacità e umanità, come «il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare». Suo figlio, Marco Alessandrini, che aveva otto anni quando gli ammazzarono il papà, ha studiato giurisprudenza ed è diventato avvocato, ereditando la sua passione per l'impegno civile: candidato dal centrosinistra come emblema di legalità, oggi è il sindaco di Pescara. Seduta in prima fila, a sinistra, con il vestito nero e le scarpe bianche, c'è Laura Bertolè Viale, una “donna di ferro”, entrata in magistratura quando il mondo dei tribunali era ancora quasi esclusivamente maschile, che è andata in pensione pochi giorni fa, dopo 48 anni, sei mesi e 25 giorni di lavoro: 13 da giudice civile, 15 nei collegi penali, 20 come sostituto procuratore generale, fino a diventare la reggente dell'ufficio di livello più alto della pubblica accusa nell'intero distretto di Milano. Il suo nome è legato a molti processi che hanno fatto storia, dalle stragi nere all'omicidio Calabresi, dai maggiori scandali economici ai casi giudiziari di Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Impermeabile alle velenose polemiche che, per contestare questo o quel verdetto, la bollarono prima come “giudice fascista” e poi come “toga rossa”, Laura Bertolè Viale si è sempre battuta per una vera indipendenza della giustizia, e di ogni singolo magistrato, da qualunque potere, pressione o condizionamento. E ha saputo contestare dall'interno anche certi eccessi di protagonismo o correntismo giudiziario: tra i colleghi è rimasto famoso il suo elogio, in una delle rarissime interviste (concessa l'anno scorso a “l'Espresso”), del «magistrato normale, serio, preparato, capace di dare giustizia a tutti i cittadini nei tanti piccoli casi della vita di ogni giorno». Il ragazzo in alto a destra con il maglione chiaro è Vito Zincani, il futuro giudice istruttore di Bologna che ha diretto le indagini sulla strage nera del 2 agosto 1980, inchiodando alle loro responsabilità, confermate da due diverse sentenze definitive di condanna, tre terroristi della destra eversiva romana, che furono protetti da ufficiali criminali dei servizi segreti sotto la regia di Licio Gelli, il burattinaio della loggia P2 e del Banco Ambrosiano, morto nei giorni scorsi dopo essere riuscito per troppi anni a sfuggire alla pena. Dopo aver portato a termine altre indagini molto complesse come la bancarotta Parmalat, Zincani ha chiuso la sua carriera pochi mesi fa come procuratore di Modena, ma continua a lavorare per la giustizia. Nella stessa foto di classe si riconoscono altri protagonisti della vita giudiziaria italiana: i due ragazzi sopra il professore sono Angelo Angelini (a sinistra con la giacca scura), che diventerà giudice civile a Pescara, e Franco Zuccaro (a destra con il maglione bianco), che farà l'avvocato civilista; mentre il secondo da sinistra con gli occhiali nella fila in alto, accanto ad Emilio Alessandrini, è il compianto Carlo Mimola, che ha istruito generazioni di giuristi come professore universitario di diritto civile. Tra tante persone di legge, in quella classe è cresciuta anche una brava giornalista: tra le ragazze in primo piano che reggono la scritta del liceo, la prima a sinistra è Alessandra Gasbarro, che diventerà una colonna dell'agenzia di stampa nazionale Agi.

Nel giorno della prima foto era assente da scuola un altro uomo di giustizia, che compare nella seconda immagine qui sopra. Il ragazzo più a sinistra nella fila in alto, con la giaccia grigia e la camicia chiara, sopra Emilio Alessandrini, è il suo grande amico Ennio Di Francesco, che diventerà un'istituzione della pubblica sicurezza. Laureatosi in giurisprudenza, entrato nei carabinieri e poi nella polizia quando erano ancora corpi militari di tradizione repressiva, Di Francesco si è impegnato senza risparmio (scontrandosi anche contro le gerarchie) in delicatissime indagini contro il terrorismo di destra e di sinistra ed è stato un pioniere delle inchieste su mafia e droga. Negli anni Settanta è stato uno dei “poliziotti carbonari”, secondo la sua ironica auto-definizione, che hanno vinto la battaglia per democratizzare la polizia di Stato, che con la riforma del 1981 è diventata una struttura di funzionari civili. Dopo aver lavorato in mezza Italia nell'Anti-terrorismo, nella Criminalpol e nell'Anti-narcotici, arrivando a negoziare per l'Italia il testo della fondamentale convenzione internazionale del 1988 contro il traffico di droga, ha vinto il concorso che gli ha permesso di chiudere la carriera come dirigente dell'Interpol e dell'Europol. Poliziotto colto e scomodo, ha scritto anche libri, tra cui spicca la sua autobiografia, “Un commissario”, con prefazione del grande filosofo del diritto Norberto Bobbio. Emilio Alessandrini ed Ennio Di Francesco erano stati compagni di scuola già alle medie, dove  erano in classe con un altro amico destinato a impegnare la vita nella ricerca di verità e giustizia, che non compare nelle immagini del liceo: è lo storico Giuseppe De Lutiis, considerato il massimo esperto delle vicende, misteri e deviazioni illegali dei servizi segreti in Italia, consulente delle più importanti commissioni parlamentari d'indagine sulle stragi e il terrorismo nonché delle migliori inchieste televisive di Sergio Zavoli sulla “Notte della Repubblica”. Le vite parallele di questi pacifici e sorridenti compagni di scuola sembrano quasi una lezione per l'Italia di oggi. Mentre il nuovo anno si avvicina, tra guerre, terrorismo, crisi economica ed emergenze ambientali, c'è da sperare che il nostro paese possa trovare tante nuove classi di giovani giusti, capaci e pronti a costruire un futuro migliore.

Saranno magistrati, scrive Flavia Zarbme dell'HuffPost il 21/12/2015. Il decreto ministeriale del 22 ottobre 2015 ha aperto 350 nuovi posti per uditori giudiziari. Le prove si svolgeranno in date da definirsi e intanto c'è qualche aspirante magistrato che, come ogni anno, continua a sperare in un cambiamento. Tanto si è discusso della riforma dell'esame d'avvocato (di cui un'altra sessione si è conclusa, come di consueto, prima delle vacanze natalizie) che prevederebbe l'abolizione dei codici commentati e poco, forse nulla, si è parlato della modalità di accesso al concorso in magistratura. Basti analizzare i dati degli ultimi concorsi. Tra le 10 e le 20 mila sono in media le domande di iscrizione pervenute al Ministero mediante procedura telematica per un totale di circa 350 posti ogni anno o ogni due anni (vista l'altissima necessità di colmare posti vacanti negli organici). Presenti in aula (meglio definirlo "padiglione") il primo giorno tra le 6 e le 8 mila persone circa, per un totale di 3.000-5.000 compiti consegnati l'ultimo giorno ad ogni concorso (affinché la consegna sia valida come tentativo occorre consegnare "la busta" delle 3 prove). Ma facciamo un salto indietro per chi, di questo concorso non ha mai sentito parlare. Per la partecipazione al concorso occorre essere in possesso di un titolo di avvocato, di una qualifica dirigenziale presso la pubblica amministrazione, aver svolto un dottorato o aver frequentato una SSPL (scuola di specializzazione legale). Questi sono i presupposti formali per l'iscrizione ma non c'è chi non sappia che accanto a questi ve ne sono due sostanziali: lo studio ed un pizzico di fortuna (con la C maiuscola). Anni e anni con la testa china, in modo sistematico e costante. Ma in base a cosa si stabilisce che alla fine venga premiato "chi più sa" e, soprattutto che costui sia adatto a ricoprire tale ruolo in mancanza di test psicoattitudinali e se, molto spesso, chi passa un concorso di questo genere non ha mai neanche aperto la porta di casa? I punti che dovrebbero far riflettere le istituzioni, prima che i comuni cittadini, e sui quali occorrerebbe una severa riforma, sono due: primo tra tutti la componente economica. Chi può permettersi di affrontare un tale, dispendioso, esame se non i privilegiati? Coloro che possono permettersi il "lusso" di stare sui libri per tanti anni senza lavorare e di acquistare libri di alta formazione che costano dai 50 ai 200 euro (per non parlare dei codici)? E chi può permettersi di frequentare i corsi di preparazione al concorso che vanno dai 350 ai 600 euro al mese? È vero, c'è sempre l'eccezione che conferma la regola, c'è chi oltre a studiare trova il tempo per lavorare e chi ha una "mente splendida" che brilla di luce propria. Innegabile. Ma sono pur sempre le eccezioni che confermano la regola. Venendo alla seconda, questione: le modalità di selezione. Si tratta di una prova consistente in tre scritti: un tema di civile, uno penale ed uno amministrativo. Passato lo scritto si affronta un'interrogazione orale su 13 materie. Ma come si può essere sicuri che (pur volendo asserire che sia un concorso altamente meritocratico) una persona che "sa tutto" sia poi adatta a ricoprire quel ruolo sulla base di quanto abbia teoricamente studiato se non vi è neanche un colloquio mirato a capire che persona realmente è? Magari odia le persone di colore oppure è misogino. Ma allora perché non sottoporlo, prima di ogni altra conoscenza sullo scibile giuridico, ad un test psicoattitudinale? I magistrati devono essere persone ontologicamente impeccabili ma che, al tempo stesso, abbiano la percezione concreta del vissuto, che abbiano avuto il contatto "umano" con le persone, che sappiano giudicare con una buona dose di raziocinio e umiltà. È facile lamentarsi di sentenze assurde e prive di ogni logica senza prima interrogarsi sulla modalità selettiva di un concorso che può cambiare la vita, sia dell'aspirante uditore che di coloro i quali capiteranno tra le sue mani. Forse prima di mettere le mani sulla riforma della giustizia sarebbe opportuno mettere le mani sulle modalità di selezione di chi dà vita alla legge scritta.

MAGISTRATI A RESPONSABILITÀ LIMITATA: IL BUSINESS DEI “SIGNORI DEL CONCORSO”. Scrive Mauro Malafronte il 9 luglio 2015. Si può essere magistrati a 700 mila euro all’anno? Siamo partiti da questa banale domanda prima di analizzare “la macchina del concorso in magistratura”: un business che non conosce crisi. Bellomo, Caringella, Santise, Galli, Giovagnoli: ecco alcuni nomi dei “Signori del Concorso.” Anche quest’anno, con un concorso a 340 posti, gran parte dei vincitori proverrà dai loro corsi, avrà seguito le loro lezioni, avrà studiato dai loro manuali: si tengono il 7, l’8 ed il 10 luglio le tre fantomatiche prove scritte in diritto civile, penale ed amministrativo, che sono, però, solo la parte finale di un percorso estremamente lungo e complesso. Abbiamo spulciato tabellari, strampalati codici etici e comportamentali, quote di iscrizione e corsi online: intorno al concorso in magistratura girano tanti, tantissimi soldi. Tutti i magistrati, dunque, possono permettersi questo secondo lavoro di lusso? No. I magistrati ordinari, in linea teorica, non possono tenere corsi di specializzazione e formazione di tal genere, essendo presenti all’interno delle commissioni di concorso: una prateria, quindi, si è aperta per i giudici amministrativi. E non è un caso, dunque, che molti abbiano fatto il salto, da giudici ordinari ad amministrativi: prima giudici civili, giudici penali o sostituti procuratori, poi Tar e, a volte, Consiglio di Stato. Stipendi alti, tra i più alti che si registrano all’interno dell’amministrazione pubblica, dunque: come scrive da anni Alessio Liberati, “il Consiglio di Stato è forse la casta più potente e meno conosciuta d’Italia”, dove funzioni amministrative, giudiziarie, legislative e politiche si concentrano, si sfiorano, si sovrappongono pericolosamente, in barba alla separazione dei poteri. In questo calderone, in questo tritatutto scriteriato del quale nessuno scrive e nessuno parla, i “Signori del concorso” hanno capito che “l’education 2.0”, rigorosamente a pagamento, è la panacea di tutti i mali, il rimedio unico ad ogni disfunzione del sistema universitario: i numeri, d’altra parte, danno loro ragione. Business, pura impresa: la preparazione dei futuribili magistrati è un segmento dell’attività imprenditoriale di quelli che, è bene ricordarlo, sono dipendenti dello Stato. Pioniere del ramo, tra Roma e Napoli, è certamente Rocco Galli, con oltre tremila ex allievi che, ad oggi, sono divenuti magistrati ordinari: la RoccoGalli Srl chiede 400 euro a bimestre per la partecipazione al corso. Francesco Bellomo, invece, è un giurista di nuova generazione: è stato prima sostituto Procuratore della Repubblica, poi è passato al Tar ed infine è approdato al Consiglio di Stato per concorso. Tiene corsi di formazione a Roma, Milano e Bari. La quota di iscrizione è di 242 euro, con un corso, della durata di nove mesi, dal costo trimestrale di 1952 euro, Iva inclusa. Il criterio di ammissione è puramente temporale: tutto dipende dall’ordine cronologico di iscrizione, dato che tutti i corsi sono a numero chiuso. Massimo 60 membri, mentre solo a Roma si arriva ai 100 iscritti. Di regola, il corso costa annualmente circa 6000 euro al singolo concorsista, al netto dei manuali e dei codici: per la sua Diritto e scienza Srl, facendo due conti, l’incasso lordo è di circa 1milione e 300mila euro complessivi. Francesco Caringella, invece, è diventato il più giovane Presidente di sezione del Consiglio di Stato, oltre che un apprezzato scrittore: dirige corsi di formazione a Roma, Milano, Cagliari, Reggio Calabria, Palermo, Padova, Ancona, Catania. Costi? 50 euro l’iscrizione, con una quota bimestrale di 400 euro, Iva inclusa. “Accademia juris il diritto per concorsi” è una Srl unipersonale: pagamento rapido ed indolore. Altro illustre consigliere di Stato, che si divide tra Roma, Bari e Milano per i suoi corsi di formazione, è Roberto Giovagnoli: ITA SRL è un’altra società di “education 2.0”. Il prezzo è di 680 euro a bimestre, per un costo complessivo superiore ai 3000 euro annui. Si occupa della formazione post universitaria anche Maurizio Santise, un tempo giudice ordinario, civile e penale, poi al Tar dal 2009. Presente anche a Milano, a Napoli il suo corso è, ad oggi, il più quotato: 150 euro di iscrizione, 450 euro a bimestre e lezione singola al costo di 70 euro. Oppure pagamento intero a 2000 euro. Tutto organizzato perfettamente in forma societaria: sempre a responsabilità limitata, come è ovvio. Nome nomen, “Il Diritto Srl.” Quanti sono i laureati in giurisprudenza che, nel mare magnum del concorso in magistratura, sempre più capace di fagocitare tutto e tutti, si svenano alla ricerca dell’optimum, della preparazione migliore e dell’aggiornamento più aggiornato? Bellomo a parte, che elargisce sapere a numero chiuso, molti altri oscillano: dai 200 fino ai 400 giuristi. Questi, dunque, sono i numeri mostruosi del business dell’education 2.0 a fini concorsuali. Volendo utilizzare come parametro il bacino di utenza napoletano, il corso costa annualmente 2400 euro, compresa l’iscrizione. Con un calcolo approssimato per difetto, possiamo dire che, solo a Napoli, la gestione del post laurea frutta, al lordo, oltre 700mila euro. A questo, ovviamente, dobbiamo aggiungere il peso specifico, in termini economici, delle doppie, triple e quadruple sedi sparse per lo stivale: oltre lo stipendio già considerevole, o di magistrato amministrativo o di consigliere di Stato, dunque, si può “arrotondare” con questo secondo lavoro di lusso. I Signori del concorso, ormai, si fanno concorrenza tra loro, si scannano sui piani tariffari come banali operatori di telefonia mobile: sanno, in fondo, di non avere nel settore pubblico, soprattutto nell’Università pubblica, una valida alternativa. Sono i padroni, per larga parte, dunque, della formazione dei neo laureati: le Sspl pubbliche, infatti, funzionano per davvero? Prendiamo ed esempio quella della Federico II, a Napoli: da anni si va avanti alla rinfusa, con il numero di posti a disposizione cronicamente superiore al numero delle richieste. Risultato? Chi fa domanda, entra. Garanzie di una adeguata offerta didattica ai fini del concorso? Zero, o giù di lì. L’introduzione del tirocinio, ovviamente non retribuito, presso i tribunali, le corti d’Appello o i Tar? Utile, ma non basta. Nemmeno le Sspl private, da sole, offrono le necessarie garanzie: ed allora servono loro, i “Signori del concorso.” Il sistema concorsuale, ad oggi, è una gallina dalle uova d’oro: il numero di coloro che tentano i concorsi pubblici aumenta anno per anno, così, i corsi di formazione garantiscono introiti senza precedenti. Società a responsabilità limitata: impresa, business. Come mai nessuno ne parla? Possibile che vi sia tale discrasia tra magistratura ordinaria ed amministrativa? Ed ancora, quanto incide questa commercializzazione del concorso sul profilo dei futuri magistrati? I giovani candidati hanno ben poche responsabilità: il percorso descritto, come abbiamo detto, è pressoché obbligato. La domanda che ci poniamo, dunque, è tremendamente semplice e squisitamente di “opportunità” : a queste cifre, e con questi introiti, si può essere ancora magistrati? O si è altro?

Magistratura: toghe, politica e salto della quaglia, scrive VoceLibera il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". C’erano professioni che nell’immaginario collettivo avevano un alone di solennità. Non è più così: dalle aule di giustizia si evade per entrare nel recinto della politica. L’uragano Di Pietro ai tempi di Mani Pulite a Milano indusse schiere di giovani a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza per diventare, anch’essi, fustigatori del mal costume. Quando il Tonino nazionale si strappò la toga di dosso platealmente e fondò un partito diventando in un amen ministro e leader, il sogno di una generazione si infranse. E allorché quella generazione comprese che i processi servivano, non solo a fare pulizia, ma anche a facilitare carriere parlamentari e di governo, cominciò lo scontro. Politica contro giudici e viceversa. Nessuno poteva immaginare che tolto di mezzo il nemico Berlusconi, la battaglia sarebbe ripresa,acerrima, regnante a palazzo Chigi un personaggio uguale e contrario: Matteo Renzi. Il quale, paradossalmente, ha limato le unghie alla magistratura più di quanto non sia riuscito all’ex Cavaliere. Il ragazzo di Firenze ha ridotto da 45 a 30 giorni le ferie di Vostro Onore; elevato la soglia di rivalsa (responsabilità civile) a favore delle vittime di errori giudiziari; limitato il ricorso alle intercettazioni nelle indagini dei pubblici ministeri, previsto un aumento dei termini di prescrizione. Che sono il vero fallimento della giustizia giusta. Apriti cielo. Un Csm indebolito da faide interne ha alzato la voce, l’Associazione Magistrati ha gridato di più, il governo ha fatto spallucce, la fiducia degli italiani nei confronti dei due poteri, fondamentali se restano separati, ha perso nuovamente quota. In compenso, ed è questo il lato curioso della faccenda, una politica in crisi di autorevolezza (50 elettori su 100 non votano più), tenta il recupero, assoldando volti nuovi della magistratura quando c’è da eleggere un sindaco, un governatore, un deputato, un senatore. Oppure c’è bisogno di incaricare guardie speciali per tenere a freno ladri normali. E queste guardie sono sempre di più: il salto della quaglia da un tribunale a una commissione o a un pubblico ufficio amministrativo è diventato prassi. Comandare è meglio che fare l’amore, dice — con altri termini — un proverbio siciliano. In verità, l’alcova del comando che non conosce pause è quella di chi opera nel nome del popolo italiano. La scritta campeggia sulle prime pagine di sentenze e ordini di cattura. C’erano professioni che nell’immaginario collettivo avevano un alone di solennità. Chi le esercitava era come investito da una sorta di mandato, quasi una missione, quella monastica, di cui erano depositari laici i magistrati: una volta varcata la soglia di una camera di consiglio ne sortivano solo per andare in pensione, fatti salvi i cambiamenti di sede dovuti allo svolgersi naturale della carriera. Questo pensava la gente, e l’esercizio non prevedeva sospensioni, ripensamenti, mutamenti di fronte. Era un esercizio per sempre. Non è più così: dalle aule di giustizia si evade per entrare nel recinto della politica. E c’è anche il caso della marcia indietro con ritorno al punto di partenza. Una porta girevole, insomma. Non è bello, anche se assolutamente legittimo, sia chiaro, vedere che sacerdoti dell’imparzialità si pieghino a liturgie estranee al privilegio di stare al di sopra e al di fuori delle parti. Ma ci rendiamo conto che nell’epoca del relativismo, ribadire questo concetto risulta inutile e stucchevole. Il fenomeno tra l’altro non è nuovo. Che cosa spinga un procuratore, un presidente di tribunale a lasciare un potere forte per infilarsi nelle schiere di un altro, apparso storicamente debole, è interrogativo per filosofi e psicologi. O semplicemente per strateghi della carriera. Ma che cosa si perde, in Italia, a causa di queste trasmigrazioni aggravate e continuate è risposta pronta: si perde la certezza che i processi celebrati in Italia siano processi e basta. Nella vita si cambia. La giustizia però la si vorrebbe immune da contagi e confusioni soprattutto quando ad alimentarli sono personaggi divenuti simboli di stagioni giudiziarie storiche. Ma tant’è. Un partito non offrirebbe mai scranni a chi non simboleggia nulla. Di Claudio Bottan.

GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.

Viaggio nei centri sociali occupati, tra droghe, alcol e stanze del sesso. Una serata al Ri-Make di Milano, durante una festa omosessuale con un unico motto: “Sesso e droghe libere”, scrive Giuseppe De Lorenzo martedì 22/12/2015 su “Il Giornale”. "Questa è una festa in cui la normalità resta fuori dalla porta”. Sesso, droghe, musica, alcol, scambi di coppia. I “centri sociali” italiani non sono solo quelli che manifestano in piazza, gli antagonismi vari, noTav e noExpo. C’è dell’altro, ovvero le attività notturne organizzate durante l’anno. Feste, discoteche, party di autofinanziamento: tutto in maniera più o meno illegale, realizzato senza autorizzazioni di sorta in locali spesso occupati. Sabato era in programma a Milano un “Queer party”. Non una serata come tutte le altre, ma un momento - si legge nell’invito che mi ha incuriosito - in cui “provare a mettere in discussione la monogamia, le dinamiche di coppia e la sessualità a due”. Orge, insomma. Ma non solo. Il “Ri-Make”, luogo della festa, è un enorme stabile un tempo sede della Banca Nazionale del Lavoro ed ora trasformato in un centro sociale “occupato, autogestito e antiproibizionista". Nessun divieto comportamentale. Il collettivo femminista e Lgbt “Le Luccione” che ha organizzato il raduno parla di un “QuEeR Party con 'Marx, Engels, Lenin & Beyoncè'", personaggi che campeggiano sulla locandina chi con la barba rosa e chi con le sopracciglia colorate. E’ una serata omosessuale da cui non sono esclusi gli etero. L'importante è "liberare la sessualità e sperimentare i propri desideri". Per entrare viene chiesta un’offerta libera, prezzo che comprende anche la libertà di usufruire di preservativi e lubrificanti distribuiti gratuitamente. Come debba finire la serata è chiaro sin da subito. Il foglio informativo sul "Bon ton" da tenere non lascia spazio ad immaginazioni: "Divertiti, balla e, per una sera, libera i tuoi orgasmi". All’interno trovo anche un bar completo di tutto, tranne che del registratore di cassa. Ma questi son luoghi in cui non ci si formalizza, in cui la vendita di bevande diventa autofinanziamento e atto rivoluzionario. Mentre provo a bere la mia birra da 2,50 euro si avvicina un ragazzo, di 20 anni o poco più. Parrucca in testa, piumato foulard rosso al collo, tacchi a spillo, calzamaglia nera e minigonna. “Non stare da solo, vieni a ballare con me”. Declino l’offerta, ma sono costretto a fingere di apprezzare la musica e le movenze del ragazzo per non essere scoperto. Tra i ballerini noto anche qualche uomo di mezza età. Uno di loro veste una pelliccia molto appariscente. La cosa più interessante, però, è nell’angolo della sala da ballo. Una tenda trasparente “nasconde” la “stanza del sesso”, da utilizzare “come vuoi, con chi vuoi”. Prima di entrare bisogna leggere il cartello informativo: “Non esiste alcun divieto - c'è scritto - e il sesso non si può fermare. Stai solo attento alle malattie. Dentro trovi preservativi e guanti in lattice. Usali”. Non ci sono turni. Ognuno entra quando vuole e con chi vuole. Non ci si formalizza nemmeno sul numero di persone che possono consumare il rapporto. Entro nella stanza, è tutta buia ma prima di me sono entrate tre persone. Ho visto abbastanza. Prima di lasciare la festa (che a seguire prevede gnoccata notturna e sex games), intravedo “l’angolo trucco e parrucco”. Qui chi lo desidera può mettersi cipria e ombretto, e la maggioranza di chi si sottopone al make up è di sesso maschile. Evito di varcare la soglia, per non rischiare di entrare uomo ed uscire donna. Questa è la Milano notturna nei centri sociali occupati. Che qualcuno si ostina a considerare esempi positivi di socialità.

E’ vergognoso che in Italia, nel 2015 e nonostante un’infinità di leggi e leggine, vengano ancora tollerati i Centri Sociali, ricettacolo di gente senza arte né parte, luoghi di illegalità legalizzata dove molto spesso si ‘formano’ i criminali di domani, scrive “Italia Insieme” il 19 maggio 2015. Nella maggior parte dei casi, poi, chi fa parte ed è membro attivo di queste strutture le occupa abusivamente (strutture per lo più di proprietà dei comuni, magari momentaneamente in disuso) ed esaltano pubblicamene il loro reato come fosse un “diritto”. In pratica: è come se qualcuno rubasse e utilizzasse a piacimento la vostra auto poiché voi la usate poco o non la usate affatto. Però qualcosa non torna: perché per un furto d’auto la magistratura e le istituzioni intervengono all’istante (giustamente!) mentre per le occupazioni abusive (di strutture statali per altro!) fanno orecchie da mercante o, peggio ancora, chiudono un occhio e fingono di non vedere? Urgono immediatamente provvedimenti seri e concreti: i Centri Sociali devono essere sgomberati e chiusi, e devono essere puniti severamente tutti coloro i quali continuano e perseverano in questa dubbia ‘attività’. E’ impensabile tollerare che ci sia gente che per anni utilizza gratuitamente edifici altrui (leggi: furto continuato e aggravato) senza che lo Stato muova un dito. Tollerare un simile atteggiamento vuol dire, di fatto, dare il placet a questi individui nel perseguire indisturbati le proprie attività e rendersi complici.

Okkupazioni e scontri, illegalità antagonista, scrive Francesca Musacchio su “Il Tempo” del 9 novembre 2014. Occupazioni abusive di immobili e spazi pubblici, manifestazioni, proteste, blitz, scontri con le forze dell’ordine durante i cortei, muri della città imbrattati dalle scritte e caos. È il mondo degli antagonisti della Capitale che vivono in una sorta di mondo parallelo dove la contestazione al governo, di qualunque colore politico, è il dogma. A Roma l’universo antagonista gestisce un centinaio di occupazioni abusive di immobili, tra pubblico e privato. Tra queste ci sono anche le sedi storiche di alcuni centri sociali che tengono in ostaggio alcuni edifici ormai da decenni. Nel quartiere San Lorenzo, infatti, esistono numerosi luoghi dove hanno sede diversi collettivi della sinistra estremista. Una situazione di stallo e disagio sociale, dunque, che va avanti da anni e che sembra essere destinata a non terminare, almeno non nell’immediato. Della galassia antagonista fanno parte, però, non solo i centri sociali, ma anche i Movimenti per la casa, i collettivi studenteschi, gli anarchici, le associazioni antirazziste e i sindacati di base. Queste realtà, nel corso degli ultimi anni, a Roma si sono rese protagoniste degli scontri più duri con le forze dell’ordine durante manifestazioni di piazza. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è quello del 12 aprile scorso quando, durante la manifestazione organizzata dai Movimenti per il diritto all’abitare, è stata violentata e vandalizzata via Veneto, una delle strade della Capitale più note al mondo. Al termine di quella giornata il bilancio è stato di 22 feriti e 6 fermati. Inoltre, un peruviano di 45 anni ha perso la mano destra a causa dell’esplosione di un petardo. Tra i partecipanti, mascherati con cerate di colore blu e il volto coperto da maschere antigas, c'era anche Andrea Coltelli, un 20enne di Viareggio, ripreso dalle telecamere mentre ha tra le mani una bottiglia spezzata. Nei mesi precedenti, però, gli antagonisti hanno messo ancora a ferro e fuoco il centro della Capitale, il 19 e 31 ottobre 2013, con altri feriti, fermati e danni alla città. Il fine di queste frange estreme, quindi, è sempre la contestazione ovunque e comunque, schierandosi di volta in volta con i vari fronti di lotta, che vanno dai No Tav ai No Muos o all’opposizione cruenta alle politiche sociali del governo.

Mappa Occupazioni di Centri sociali a Milano: Segnalazione a Milano, scrive Milano Today.

NESSUNO TOCCHI MILANO? MA MILANO LA TOCCANO GIÀ! Ipocrisia a 180 gradi sui fatti del 1 maggio. Indignazione a buon mercato da parte di chi tollera da anni il sistema di illegalità costituita dei Centri Sociali.

CENTRI SOCIALI: UN SISTEMA DI ILLEGALITA' PROTETTA E TOLLERATA. A Milano sono circa 25 (stima per difetto) i cosiddetti "centri sociali occupati", che vivono sulla pratica e l'esaltazione di ogni genere di reato. E non stiamo parlando solo delle occupazioni abusive (che comunque sono il principale emblema della arroganza e prepotenza di queste persone), ma anche di molte altri reati connessi; dagli imbrattamenti di muri, alla sistematica affissione abusiva di manifesti, al disturbo alla quiete pubblica, alla resistenza alla forza pubblica, ai picchetti "antisfratto" , alle scorribande nelle scuole e nelle università, alla creazione di esercizi commerciali abusivi e privi di norme igieniche e di sicurezza, all' evasione fiscale (totale). E a ciò si aggiunga l'arroganza di chi, non contento di calpestare ogni legge e regola e rivendicare per sé la libertà assoluta (la chiamano "autogestione"), ha la pretesa di voler tappare la bocca a quelli che non la pensano come loro (chiamati "fascisti", "razzisti", "omofobi", "clericali" o come vogliano loro.

VANDALISMI NON OCCASIONALI, MA SISTEMATICI. Anche se non sempre succedono cose della gravità di venerdì scorso, tuttavia ogni anno, il MayDay organizzato dalla galassia antagonista provoca danni e vandalismi. Se non altro causa l'imbrattamento sistematico di tutti i muri e talvolta anche vetrine lungo il percorso della manifestazione. Questi imbrattatori di professione vengono lasciati fare impunemente dagli altri partecipanti al corteo (quelli cosiddetti "bravi").

NON SI PUO' CONCEDERE LA PIAZZA AI DELINQUENTI E DITTATORI. La libertà di manifestare è un diritto sacrosanto, ma non ha nulla a che vedere con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere. Non si può concedere la piazza a chi professa ed esalta la delinquenza, a chi vive sulla rivendicazione del "diritto di reato". Che succederebbe se si desse la libertà di manifestazione ad una gang di ladri di auto che vanno in giro a dire che è giusto rubare auto? o ad una banda di spacciatori di droga che fanno un corteo per esaltare il diritto a spacciare, o ad una associazione di "torturatori di animali" che vorrebbero seviziare i gatti? La libertà di manifestazione non c' entra con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere (anzi è cosa diametralmente opposta). I Centri Sociali sono una istigazione a delinquere vivente per il fatto stesso di esistere; in quanto rivendicano con orgoglio le loro occupazioni abusive (cioè dei furti). Figurarsi se poi gli si può permettere loro di fare pure "manifestazioni"..."

NECESSARIO L' USO DELLE ARMI. Qualcuno, dopo i fatti del 1 maggio parla di "successo delle istituzioni", perché non ci sono stati morti. Ma che vuol dire? Che, per evitare il morto, allora di deve lasciar devastare una città? E' ora di finirla di essere schiavi dei nuovi dittatori e umiliati da essi. Abbiamo appena festeggiato il 25 Aprile che è stata guerra di liberazione. Guerra, non noccioline. Si sono usate anche le armi, e sono state uccise delle persone, Ma nessuno si scandalizza. Anzi, fanno le celebrazioni in pompa magna. E allora, se ci siano liberati da una dittatura, perché dobbiamo soggiacere ad un'altra? Le forze dell'ordine hanno (uniche fra i cittadini) la prerogativa di usare le armi. E allora le usino! Non si può stare ad assistere impunemente a gente che da fuoco alle auto e sventra le vetrine dei negozi.

Chiudete i centri sociali Culle dei black bloc difese dai magistrati. Sono le culle dei black bloc italiani, ma sindaci progressisti e magistrati li difendono. E' il momento di dire basta. Le bestie di Roma vanno arrestate, scrive Alessandro Sallusti Lunedì 17/10/2011 su “Il Giornale”. Non vengono da Marte. E neppure da Berlino o Londra come qualcuno vuole farci credere. I criminali che sabato hanno di­s­trutto Roma e attentato alla vita di poliziotti e carabinieri proveni­vano da città italianissime, da Bari a Torino. Dietro la sigla «black bloc» si cela il teppismo nazionale che cresce e si organizza impuni­to, nonostante le evidenti illegali­tà, nei centri sociali che pullulano nelle nostre città. Disagio giovani­le, lo chiamano i sociologi (altra categoria pericolosa). Ragazzi senza speranza, li difendono quel­li della sini­stra che siedono in Par­lamento a ventimila euro al mese. Teppisti, li chiamo io, giovani an­noiati e frustrati che non hanno vo­glia di diventare grandi, di misu­rarsi con i problemi della vita. Di­cono: la colpa non è loro ma della società. Balle, la colpa è tutta e so­lo loro, non certo nostra. Se com­plici ci sono, vanno cercati in chi li finanzia, in chi (sindaci e magistra­ti buonisti) permette loro di com­piere ogni tipo di illegalità. Possi­bile che l’obbligatorietà dell’azione amministrativa e penale valga soltanto per punire chi lascia un minuto l’auto in sosta vietata o per inseguire le ragazze ospiti di Berlusconi? Dove sono vigili e magistra­ti q­uando una banda di sfaccenda­ti occupa case e palazzi pubblici e privati? Perché è in quelle oasi sfuggite al controllo dello Stato che i peggiori di loro organizzano i piani della guerriglia, nascondo­no armi improprie, preparano le molotov da lanciare per le nostre strade il sabato pomeriggio. I centri sociali sono una minac­cia, non una risorsa della società. Vanno chiusi, se serve, con la for­za. Perché la Guardia di finanza e l’ispettorato del lavoro devono po­ter mettere sottosopra le aziende mentre un centro sociale può stare tranquillo nella sua assoluta ille­galità incubatrice di violenza? Non prendiamoci in giro. Solo a volerlo, le Procure possono sapere chi sono questi signori in mezza giornata. Anzi, probabilmente già lo sanno e non fanno nulla. Perché se si muovono poi si arrabbia­no Vendola e Di Pietro, Bersani e Santoro. Dopo quello che si è visto ieri, sarebbe meglio farli infuriare e darsi una mossa. Prendere le distanze dai violen­ti e difendere i centri sociali è una contraddizione in termini. Chi punta il dito sui criminali di ieri e celebra la memoria di Carlo Giu­liani (il no global morto durante gli scontri del G8 di Genova men­tre cercava di spaccare la testa a un carabiniere con un estintore) è un furbo in malafede. Carlo Giulia­ni era un delinquente esattamen­te come quelli visti all’opera a Ro­ma. Dedicargli, come fece Rifon­dazione comunista, un’aula di Montecitorio (presidente della Camera era Bertinotti) è stato un insulto all’Italia intera. La poesia che a Giuliani ha dedicato Nichi Vendola, possibile candidato pre­mier della sinistra moderata, è sta­t­o un invito a tanti giovani a seguir­ne l’esempio, a spaccare la testa ar­mati di estintore. Contro i cattivi maestri non possiamo fare nulla, chiudere i centri sociali è un dirit­to- dovere di chi amministra le cit­tà e la giustizia. Non bisogna avere paura. Non l’ha avuta Obama, pre­sidente nero e democratico degli Stati Uniti, ad arrestare oltre mille «indignati» turbolenti. Anzi, l’America tutta l’ha solo ringrazia­to. Proviamoci anche da queste parti.

Strasburgo ipocrita e teleguidata dagli antagonisti, scrive Angelo Mandelli. CHI CI DIFENDE DALLA TORTURA DEI CENTRI SOCIALI? Squadracce dei cosiddetti "centri sociali" si scontrano con le Forze dell'Ordine in Piazza della Scala a Milano.  Questa immagini si reiterano continuamente nelle nostre città.  Gruppi di disgraziati si ritengono in diritto di aggredire la Polizia e i Carabinieri, ma non si può far nulla per fermarli. Grazie all' opera di delegittimazione delle Forze dell'Ordine in corso da decenni, se un dimostrante viene toccato, ... apriti cielo!    I tormentoni contro la "violenza della polizia" si trascinano per decenni, mentre si tace sulle continue illegalità da parte dei Centri Sociali.  Il risultato è un sistema di dittatura "al contrario"; dove i violenti e i dittatori di estrema sinistra possono imporre la loro legge e tenere schiavo il popolo italiano. La sedicente "corte europea dei diritti dei diritti umani" ha sentenziato che l'Italia la Polizia tortura e lo Stato "non ha una legislazione adeguata per perseguire le torture"...Bell' esempio di faziosità ipocrita e teleguidata dalla lobby antagonista. Ormai il nostro mondo appare sempre di più come un mondo ribaltato, dove gli scandali che emergono sono il contrario esatto di quelli che dovrebbero emergere. E dove l'agenda di tutto ciò che ha rilevanza mediatica viene dettata dalle lobby degli intellettuali di sinistra: quelli che erano in piazza a Genova nel 2001 a "contestare il sistema", fra canti, balli, bottiglie molotov ed ... estintori. Se l'Italia non ha una legislazione per impedire la tortura da parte delle forze dell'ordine, tanto meno ha una legislazione per impedire le torture che i cittadini italiani devono subire da parte di Centri Sociali, anarchici, antagonisti, no-tav, no-global, ecc. In tutte le principali città italiane sono decine i cosiddetti "centri sociali", che effettuano sistematiche occupazioni abusive, inneggiano alla illegalità, si scontrano con le forze dell'ordine, imbrattano i muri, disturbano la quiete pubblica, e commettono tutta una serie di altri reati (compresa evasione fiscale totale). Io scrivo da Milano e so quello che dico.  Ho seguito direttamente le vicende di alcuni di questi centri sociali (ma penso che tutti siano nelle stesse condizioni), dove la gente che abitava nei dintorni viveva in un incubo, perennemente perseguitata da feste, schiamazzi, rumori che si protraevano fino all' alba del giorno dopo e impedivano di riposare (si può pensare ad una tortura peggiore?). Quando i cittadini protestavano venivano fatti oggetto di insulti, minacce e aggressioni. Potrei citare come esempio quello dei residenti che abitavano di fianco al centro sociale "lambretta", di cui si è molto parlato sui giornali. Inoltre questi "centri sociali" esercitano una azione di intimidazione e dittatura politica e culturale, con aggressioni, intimidazioni e "contestazioni" verso tutti quelli che non la pensano come loro e osano manifestare idee diverse. Basti pensare alle aggressioni ai gruppi pro-life, alle "sentinelle in piedi", ai partiti di centro-destra, che sono sistematiche e quasi sempre fomentate dai militanti dei Centri Sociali. Il problema è che questi gruppi eversivi vengono lasciate agire indisturbati, per anni e decenni.  Compresi i loro siti internet che inneggiano alla illegalità, alla eversione, a commettere reati e a resistere alla Forza Pubblica. In pratica i cittadini sono indifesi da questa gente.  Se capita (raramente) che qualcuno di questi covi viene sgomberato, subito dopo occupano altrove, con ancora più arroganza. Molti si chiedono come sia possibile una cosa del genere. Come sia possibile che gente che commette e reitera reati, di fatto non venga perseguita da nessuno, o venga perseguita in modo ridicolo e totalmente inefficace. Ma tant' è che la corte di Strasburgo se ne stras-frega di queste cose; guarda la pagliuzza e ignora la trave. Solita storia miserevole e infame.

LEZIONE DI MAFIA.

La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.

Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.

Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.

I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.

"A NOI!". COSA CI RESTA DEL FASCISMO NELL’EPOCA DI BERLUSCONI, GRILLO E RENZI. Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.

Ecco "A noi!" di Tommaso Cerno, la storia degli italiani eterni conformisti: dentro di noi il dna del duce. Tommaso Cerno e il popolo del tricolore: sensibile al richiamo dell’uomo forte pronto a rottamare, a predicare bene e razzolare male, soprattutto a non cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “Il Messaggero Veneto” il 19 novembre 2015. Esce in libreria “A noi!” (240 pagine, 19 euro) il libro di Tommaso Cerno che indaga sui conformismi della società italiana e s’interroga su “cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi”. "Un fascistello dormicchia in noi. Subdolo e silente. Ma pronto a saltare fuori quando c’è da prendere posizione, partecipare a una svolta politica o di costume. Perché a quel punto ecco l’irresistibile richiamo dell’uomo forte, dell’urlo della piazza, della rottamazione di massa. E non basta. C’è qualcosa di piú profondo nel Dna dell’Italietta e che, per esempio, l’ha fatta essere dall’oggi al domani tutta fascista e poi tutta antifascista: il conformismo. L’essere italiani, insomma, prevale su qualunque scelta di campo e la precede, la giustifica, la rende possibile. In un turbinìo di luoghi comuni che ben fotografano l’italico carattere: o Francia o Spagna purché se magna, saltare sul carro del vincitore, predicare bene e razzolare male, si fa ma non si dice...Per raccontare la stagione in cui ci è dato vivere, interpretarne gli umori e trovare un filo che ne leghi le vicende, Tommaso Cerno - giovane e sensibile cronista del dramma Englaro, poi giornalista politico dell’Espresso con brillanti incursioni in tv e oggi direttore del Messaggero Veneto - ha scelto una strada volutamente provocatoria, ma certamente illuminante. Che si fonda su una tesi netta: dal Ventennio gli italiani non sono cambiati, si comportano piú o meno allo stesso modo, e germi del fascismo che ha segnato drammaticamente la nostra storia e condizionato istituzioni, costume, economia, sono arrivati pari pari da allora a oggi, a noi, come con doppio rimando recita il titolo di un pamphlet che deve molto a Longanesi e a Flaiano (“A noi!”, Rizzoli editore). Certo, Cerno sta bene attento a distinguere: c’è stato il fascismo storico, «la dittatura, le leggi razziali, la guerra, i drammi umani e le sciagure militari»; e l’altro, che in questo caso lo interessa di piú perché oggetto della sua indagine: il fascismo degli italiani «un po’ opportunisti che di fronte all’uomo forte salvarono guicciardianamente il proprio “particulare” e si schierarono in un batter d’occhio». E continueranno a fare cosí: «Siamo un popolo di fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti», osserva amaramente Cerno che per dare spessore alla sua tesi ripercorre i momenti salienti della piú recente politica italiana. Evidenziando caratteri che si ripetono simili, pur se via via adattati, nei protagonisti di ieri e di oggi. Prendiamo quella certa voglia di decisionismo che percorre da sempre il sogno nascosto degli italiani parallelamente a quello di liberarsi di ogni personale responsabilità. A ben vedere, nota Cerno, c’è un filo che lega l’uomo «delle decisioni irrevocabili» e che voleva fare della Camera un bivacco per i suoi manipoli, il Bettino Craxi che entra a gamba tesa nel teatrino della politica italiana consociativa e compromissoria, il Silvio Berlusconi che s’immagina amministratore delegato dell’Azienda Italia e non convocherà mai un congresso di partito, e il Matteo Renzi che scala il Pd e mette in discussione i poteri costituti di parlamentari e sindacalisti. E l’antipolitica che diventa essa stessa una politica? In fondo, il primo Mussolini fece piazza pulita del linguaggio e del ceto politico d’inizio Novecento; Craxi debuttò liberandosi di parole e ambiguità e finirà processando un Parlamento per mendacio e ipocrisia; Berlusconi ha portato “in campo” i funzionari di Publitalia e Renzi, addirittura, è diventato segretario e premier promettendo la “rottamazione”. E si potrebbe andare avanti, come Cerno fa alla ricerca di una continuità che non registra cesure, proprio come nella pubblica amministrazione e nella magistratura nell’immediato dopoguerra: il delitto politico da Matteotti a Moro; le bombe dal Teatro Diana a Piazza Fontana; le ruberie e la corruzione da famiglie e gerarchi del Regime a Mafia Capitale; i nani e le ballerine dai convegni privati nella sala del Mappamondo al bunga-bunga di Arcore; la violenza del linguaggio razzista, xenofobo, omofobo dai cori della milizia alle piazze di Grillo e Salvini. Fino al trasformismo e al tradimento, cuore dell’italianità, stigmate che ci accompagna da Ciano a Scilipoti. Insomma - è la tesi di questo saggio sincero, dolente e divertente - c’è almeno un elemento comune tra la fine di Mussolini, la caduta di Berlusconi e la defenestrazione di Enrico Letta: le grandi svolte, scrive Cerno, mancano di pathos, avvengono nel Palazzo, ieri per ordini del giorno ieri oggi via tweet, mai per volontà popolare; e i toni sono non da dramma shakespeariano, ma pirandelliano. Dopo di che, gli italiani sono «oggi fascisti, domani antifascisti. Tutti democristiani, poi tutti anti-sistema. E ancora berlusconiani, renziani. In pratica, i soliti equilibristi». Una conclusione amara? Forse sí, ma se non si esagera un po’, non si riflette a fondo. E non si cambia.

Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

Atac: partecipanti corteo Fiom hanno preso metro senza pagare. L’azienda capitolina aveva anche allestito una biglietteria mobile per agevolare l’acquisto dei ticket. «Denunceremo in procura l’episodio». La critica di Pedica (Pd): «È nato il sindacato dei “portoghesi”?», scrive "Il Corriere della Sera” il 21 novembre 2015. Numerosi manifestanti, giunti a Roma in occasione del corteo Fiom, hanno rifiutato di pagare il biglietto per accedere ai servizi di trasporto e hanno forzato i varchi presidiati in metropolitana: è quanto denunciato dall’Atac, l’azienda del trasporto pubblico della Capitale. E dei tanti arrivati, solo in 500 avrebbero acquistato il bit da 1,50 euro dalla biglietteria mobile attrezzata dall’azienda dei Trasporti romana. La notizia dei varchi forzati ha indignato il deputato dem Stefano Pedica: «Dopo Coalizione sociale, Landini si prepara anche a guidare il sindacato dei “portoghesi”? Il leader della Fiom spieghi ai suoi manifestanti che il biglietto della metro e dell’autobus si paga e che Roma non è un porto franco. Nella Capitale, così come in tutte le città d’Italia, le regole vanno rispettate. Mi auguro - aggiunge - che gli organizzatori del corteo della Fiom, oltre a dare una bella strigliata a tutti i manifestanti che oggi hanno forzato i varchi della metropolitana, senza pagare il ticket, facciano anche il buon gesto di pagare di tasca propria per il danno fatto all’Atac». «Atac ha anche messo a disposizione un servizio di biglietteria mobile all’esterno della stazione Subaugusta proprio per favorire la corretta fruizione dei mezzi pubblici» ha aggiunto la stessa azienda, stigmatizzando «tale comportamento che rivela una concezione profondamente sbagliata della fruizione del servizio di trasporto pubblico. Atac ricorda che pagare il biglietto è un dovere civico e che l’unico modo legittimo di fruire dei pubblici servizi è averne il titolo. In conseguenza dell’accaduto l’azienda procederà a formale denuncia contro i responsabili di tali fatti». Anche Eugenio Stanziale, segretario generale della Filt Cgil Roma e Lazio, che rappresenta il settore dei trasporti, commenta il caso dei manifestanti Fiom che si sono rifiutati di pagare i biglietti della metro: «In genere quando ci sono grandi manifestazioni come Cgil, chiediamo al Comune, all’Atac e al prefetto di garantire l’esenzione dei biglietti del trasporto pubblico locale dei manifestanti, anche per una questione di ordine pubblico se ci sono grandi flussi. Non so se in questo caso sia stata avanzata. Se così non fosse e se i manifestanti arbitrariamente non hanno pagato il biglietto pagheranno la multa. Non è certo colpa degli operatori dell’Atac che stavano facendo il loro lavoro».

Il sindacato vince i ricorsi e fa perdere la fiducia. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 21 Novembre 2015. Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza. Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole.

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.

La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.

Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.

Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.

21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.

21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.

21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.

21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.

22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".

22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.

Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".

L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.

7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.

8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.

8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.

8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.

8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.

8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.

8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.

8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).

8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".

8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.

9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.

9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.

9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".

9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.

9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.

9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.

9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.

9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".

9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.

9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.

9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.

9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.

9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.

9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.

9.59 - Crolla la Torre Sud.

10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.

10.28 - Crolla anche la Torre Nord.

10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.

12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".

13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.

13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.

14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.

17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.

18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.

20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".

21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.

Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.

I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.

Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.

DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.

Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.

Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.

Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:

Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);

Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);

Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);

Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);

Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);

Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);

Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);

Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.

Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:

Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);

Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);

Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);

Strage di via Palestro (cinque morti);

La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);

La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).

Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.

Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.

Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.

Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.

L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.

I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.

Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).

Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].

Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.

Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".

Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni

E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.

Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier  - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".

Eppure…

Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora. 

Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.

Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.

Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?

Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.

Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio. “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.

Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”.  Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia).  “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista.  Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.

LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!

Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona. 

 “Suburra”, il film a Cinque Stelle. Ma quelle di Grillo, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Il qualunquismo ora ha anche il suo film-manifesto. Andate a vedere “Suburra” e capirete che l’ideologia che in questi anni ha sparato a zero sulla politica (al grido: sono tutti corrotti) ha trovato un supporto nell’immaginario cinematografico di primo piano. “Suburra”, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, racconta l’intreccio tra parlamentari, Ior (la banca del Vaticano), mafia e sottobosco della vita notturna romana. E’ stato girato da Stefano Sollima, il bravo regista delle serie tv “Gomorra” e “Romanzo criminale”, e ha nel cast attori di spicco come Pierfrancesco FavinoClaudio Amendola e l’astro nascente Alessandro Borghi, candidato all’Oscar con il film “Non essere cattivo”. La sceneggiatura, dei sempre presenti e sempre uguali Rulli e Petraglia, fa acqua da tutte le parti. Non solo perché per raccontare una Roma cupa e spettrale, la immaginano sempre in preda al diluvio, ma perché la storia procede in maniera manichea: i politici sono tutti corrotti, in Vaticano è tutto o quasi marcio, i personaggi di secondo ordine sono disposti a calpestare chiunque pur di trarre anche solo qualche vantaggio per loro stessi. Il male è ovunque, la mafia controlla la città, il parlamento è un posto tetro e disonesto. Qualcuno ha detto: però Sollima c’ha preso. “Suburra” è stato girato durante i primi arresti di mafia capitale e per molti ha avuto capacità quasi profetiche. Ma può essere questa una qualità tale da rendere un film un buon film? No. Non basta. Perché quello che già si presenta come un processo fondato – più che sulle prove – su una tesi, s’intreccia a un’opera filmica altrettanto incapace di uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi. La storia inizia una settimana prima della caduta del governo Berlusconi, a cui si fa esplicito riferimento. E’ un ritorno al passato, a quella cultura che oggi non si nutre più dell’odio verso il Cavaliere ma che ha in quel momento una tappa fondativa. Favino è un politico di centrodestra che fa votare una legge per favorire la mafia. L’affare è grosso: trasformare Ostia in una città tipo Las Vegas. Il protagonista finisce in questa brutta storia un po’ perché è corrotto di suo, un po’ perché una sera succede l’irreparabile. Mentre ha un rapporto con due prostitute, una delle due, la più giovane, muore di overdose. Per lui inizia l’incubo. La scena di sesso è contraddittoria: da un lato è filmata per esprimere riprovazione sociale e morale sui politici che fanno tutti così; dall’altra è però ripresa in modo tale da attirare e gratificare lo sguardo dello spettatore. Quello stesso spettatore che in fondo si vuole lusingare in tutti i modi, anche con scene di sesso. I cittadini non sono corrotti. Coloro che guardano non sono corrotti. Non lo sono mai. Loro sono la parte migliore della società, coloro che subiscono. Il colpevole è uno, uno solo. Anzi sono tutti coloro che siedono in Parlamento, fuorché quelli del Movimento Cinque stelle che hanno fatto della legalità la loro bandiera. Questo è “Suburra”. Un mix incredibile di romanesco (i dialoghi sono penosi e sintetizzabili in un “ao’”), di populismo, giustizialismo, in cui i personaggi sono descritti senza contraddizioni. Così chi guarda il film può pensare che lui sì è bravo, buono, perfetto. “Suburra” è il classico film che dà in pasto a chi lo vede un capro espiatorio, a cui attribuire tutte le colpe. I cittadini invece, soprattutto i Cittadini a 5 stelle, sono giusti, onesti, perfetti. Loro, solo loro, stanno dalla parte delle verità.

I ladri che si lamentano della casta, scrive Maura Munafò su "L'Espresso del 23 ottobre 2015. C'è un articolo davvero interessante che circola molto in queste ore sui social. Lo hanno realizzato i colleghi di SanremoNews e parte dal caso degli arresti al Comune di Sanremo di una trentina di dipendenti (e 196 indagati) che "timbravano" l'ingresso al lavoro e poi andavano a fare lezioni di canottaggio o a farsi gli affari loro. C'era pure chi mandava amici e parenti a timbrare o si segnava lo straordinario e poi rimaneva a casa. Le telecamere della Guardia di Finanza hanno beccato i "furbetti del cartellino" mentre facevano tutto quello che volevano al posto di lavorare e rigorosamente a spese del contribuente. A SanremoNews si sono dilettati a spulciare i profili personali su Facebook degli arrestati, scoprendo tra di loro vari ferventi "anti casta", sempre pronti a lamentarsi del politico ladro che frega i soldi alla gente. Ecco quindi messaggi come: "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo", oppure ""Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". Andare a ficcare il naso in certe pagine è quasi un esercizio antropologico, utile per capire quanto in questo Paese sia radicata la convinzione che ci sia una "casta" di cattivi che vessa un "popolo" di buoni. Talmente è radicata la follia, che persino i ladri sono convinti di essere vittime e mettono sul proprio profilo Facebook foto come questa (la ho presa da una delle persone finite ai domiciliari).

Sanremo: i "Furbetti del cartellino"? Tra i più accaniti anti casta. C'è chi si vergogna dei politici corrotti e chi si lamenta di "Mantenere i maiali a Roma", scrive San Remo News il 23 ottobre 2015. C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!" "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo". Questa frase la si può trovare sul profilo Facebook di una delle persone agli arresti domiciliari da ieri mattina per via dell'operazione Stachanov che ha portato a 43 arresti (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria), effettuati dalla Guardia di Finanza coordinata dalla Procura della Repubblica. Ma non è l'unica. Sono diversi infatti i dipendenti pubblici tra i "Furbetti del cartellino", immortalati dalle telecamere nascoste installate dai militari, che sul proprio profilo Facebook si sono sfogati contro la cosiddetta "casta" di politici. Un altro tra gli arrestati pubblica una vignetta che raffigura un bambino che chiede al padre: "Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!". C'è chi cita Giovanni Falcone e chi pubblica un post in cui un uomo seduto su una sedia annuncia che passerà una giornata come un politico, cioè non farà un c....C'è anche chi posta il video di un discorso della Senatrice del MoVimento 5 Stelle Paola Taverna che rimprovera il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, di non aver mai lavorato nella propria vita.

Lo Stato sta con i ladri. Un 65enne spara e uccide un criminale che si è intrufolato in casa sua durante la notte. E la Procura lo accusa di omicidio volontario, alla faccia della legittima difesa, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 21/10/2015 su "Il Giornale". Più che perdere tempo a riformare il Senato, i nostri legislatori dovrebbero mettere mano velocemente al codice penale. Che oggi, se applicato senza buon senso da magistrati burocrati, manda in galera chi difende se stesso e i suoi cari dall'assalto di ladri e rapinatori. L'ultimo episodio è di ieri. Vaprio d'Adda, periferia milanese. Un pensionato di 65 anni dorme nella sua villetta a tre piani. Con lui c'è la moglie, al primo piano figlio, nuora e nipotino. Sente dei rumori, impugna la pistola regolarmente detenuta. Fa per uscire e nel buio del corridoio si trova davanti un uomo. Spara e colpisce l'intruso, un romeno di poco più di vent'anni. Due complici fuggono dopo che lui spara in aria altri due colpi. Un solerte pm lo incrimina prima di eccesso di legittima difesa, poi di omicidio volontario. Pena prevista: da 21 anni all'ergastolo, salvo attenuanti. Non so voi, ma io penso che quell'uomo aveva il diritto di sparare e ha fatto bene a farlo. Ha percepito un pericolo di vita imminente per sé e per i suoi cari, non poteva accertarsi in sicurezza se gli aggressori fossero armati o no. La cosa, per altro, è irrilevante. Decine, se non centinaia di volte, queste bande di criminali hanno massacrato di botte, ferito o ucciso con coltelli magari recuperati in casa chi ha provato a opporsi all'intrusione. Non c'è nessun nesso tra il grado di pericolo reale ricostruito a tavolino dalla polizia scientifica e quello percepito durante una aggressione. In una frazione di secondo quel pensionato doveva decidere se mettere al sicuro la vita di sua moglie, suo figlio e suo nipotino. Lo ha fatto e oggi ha tutta la nostra solidarietà. Meglio un brutto processo di tre bei funerali, con tanto di autorità in prima fila a piangere lacrime di coccodrillo. Non provo alcuna pietà per chi di notte entra nelle nostre case. Anche a ladri e rapinatori possono capitare incidenti sul lavoro. Quello che non deve capitare è che lo Stato stia dalla loro parte e si accanisca contro chi è costretto, proprio per le lacune e l'incapacità dello Stato stesso, a difendersi da solo.

Lo Stato sta con i ladri? Ovvio, sono colleghi, scrive Nicolò Petrali su "Il Giornale". Mi si chiede di scrivere un pezzo sulla vicenda di Vaprio d’Adda in quanto figlio del tabaccaio milanese che nel 2003 sparò e uccise un rapinatore. E’ successo già diverse volte nel corso degli anni e quando accade significa purtroppo che qualcuno ci ha rimesso la vita, sia esso il ladro o il cittadino onesto. Se accetto sempre, nonostante rivangare sempre quella storia faccia male, è perché da qualche parte, dentro di me, si annida ancora l’illusione che un foglio di carta e una penna possano contribuire a cambiare questa nostra società in meglio. Di fronte ad episodi di questo tipo, il copione che si recita a casa mia è sempre lo stesso. Ci si siede a tavola per la cena, io, mio padre, mia madre, mia sorella e mio fratello e qualcuno, più spesso mio papà, butta lì la solita domanda: avete sentito del tabaccaio/gioielliere/benzinaio/pensionato che ha ucciso il ladro? Tutti facciamo un cenno affermativo con il capo e continuiamo a mangiare. Appena dopo il servizio del tg, però, non si riesce a resistere e riparte la consueta discussione. “In questo caso il delinquente era disarmato, quel poveretto passerà delle rogne”. Oppure: “Qui lo assolvono sicuramente, è evidente la legittima difesa”. Ancora: “Lo ha rincorso, questa volta dipenderà dall’interpretazione del giudice”. Finito il primo atto, parte il secondo. Discutiamo di diritto, di modello culturale USA, di proporzionalità della reazione e altro ancora. Finché qualcuno, generalmente mio padre, chiede che al poveretto di turno venga inviato un telegramma a nome della famiglia. La vicenda di Vaprio d’Adda è ancora tutta da chiarire nella sua dinamica, anche se per me è il succo che conta più che il contorno. E il succo è che un ladro che non doveva nemmeno trovarsi in Italia ha tentato di derubare un onesto cittadino che si è difeso come ha ritenuto opportuno. Punto. Tutto il resto è chiacchiera. Quel che è certo però è che, comunque vada, il povero Sicignano, oltre a convivere con il dramma umano di aver ammazzato una persona, inizierà anche a vivere un calvario giudiziario che durerà circa una decina d’anni. Perizie su perizie, giornali che scriveranno ogni genere di falsità basandosi su rilievi scientifici che mai, e lo dico per esperienza, ricostruiranno esattamente ciò che sia realmente accaduto, giornalisti sotto casa a qualsiasi ora del giorno e tutto il resto. Non so se il pensionato fosse o meno un uomo di Chiesa. Se sì, si prepari: se è fortunato il prete della comunità gli offrirà conforto e sostegno, ma i giornali cattolici non avranno pietà. Forse fu proprio questo che fece più male a mio padre tant’è che lo dice ancora oggi. Si sentì abbandonato proprio dai mass media dai quali invece si aspettava maggior comprensione. Nonostante provassi a fargli capire che la vera chiesa, quella con la “c” minuscola, non è quella roba lì, purtroppo da quella storia la sua fede ne uscì compromessa in modo irreparabile. Tornando a Sicignano, se è fortunato troverà un Pm dotato di buon senso, altrimenti si sentirà attribuire accuse e aggettivi di ogni tipo. Il dibattito politico ovviamente sarà feroce e il suo caso verrà tirato in ballo ogni volta che accadrà un fatto simile almeno per i prossimi 10 anni. Il consiglio che posso dargli è quello di non arrendersi e di concentrarsi sul fatto che non saranno perizie, pm e giudici a definirlo come uomo. E che alla fine, dopo tante sofferenze e sacrifici, ne uscirà vincitore. Nel caso non andasse così sono pronto a scendere in piazza personalmente. E credo con me molti altri italiani. Tre o quattro anni fa, a notte fonda, mi affacciai casualmente alla finestra. Vidi all’interno del mio cortile due uomini che stavano tentando di forzare la porta di casa di mia sorella. Sapevo che in quel momento lei non era in casa, così andai quatto quatto a svegliare mio padre. “Papà adesso chiamo la Polizia e li facciamo arrestare, tanto Maria non è in casa. Questa volta li facciamo beccare”. La reazione del mio vecchio mi colpì incredibilmente, tanto da farmi pentire di averlo svegliato. Era buio, perché non avevo acceso di proposito le luci, ma lo vidi iniziare a tremare. Mi rispondeva quasi balbettando e aveva il respiro corto. Non lo avevo mai visto così. “Chiama la Polizia, veloce”, mi disse in qualche modo portandosi a fatica verso la finestra. Ubbidii. Purtroppo non riuscimmo nel nostro intento per pochissimo. E i ladri riuscirono a dileguarsi. Ma nel tempo ho pensato e ripensato parecchio a quell’episodio. Come avrei reagito se mia sorella fosse stata in casa e avessi avuto una pistola? Sarei stato così lucido da sparare dei colpi in aria, o così esperto da mirare alle gambe da molto lontano, oppure avrei pensato solo all’incolumità di mia sorella e avrei fatto fuoco ad altezza uomo? Non lo posso sapere. Magari, se avessi avuto un’arma, oggi sarei anch’io sotto processo. L’ho scritto tante volte e lo ripeto. Sono favorevole all’interpretazione della legittima difesa all’americana, che a sua volta dipende da una visione culturale liberale/libertaria della vita. Non chiedo più Stato perché piazzare un soldato in ogni casa è impossibile oltre che terribile, ma soprattutto perché ritengo che lo Stato non sia la soluzione ma semmai il problema. Auspico, invece, che sia data a tutti la possibilità di difendersi proprio come avviene al di là dell’oceano. Con tutti i rischi che questo comporta, ovviamente. D’altra parte la libertà non è per sua stessa essenza più rischiosa della schiavitù? (Guarda caso, proprio ieri, in Svezia, un uomo armato di spada ha ucciso due persone in una scuola. Mettiamo al bando anche spade, coltelli e forchette?). Si potrebbe ad esempio decidere di tenere dei corsi che addestrino il privato cittadino che acquisti un’arma a gestire, per quanto possibile, quel tipo di situazioni. Ma sono tutti discorsi che lasciano il tempo che trovano. Purtroppo è più facile che siano gli Usa ad europeizzarsi, fenomeno che in parte sta già avvenendo, che noi a diventare come loro. In conclusione, invito tutti a riflettere su un punto. Che è secondo me quello fondamentale. Provate a pensare a chi è il ladro per eccellenza. Quello cioè che ci deruba tutti di oltre la metà del nostro guadagno non restituendoci quasi nulla in cambio. E’ presto detto perché ci voglia tutti disarmati. Per il fatto che, in ultima istanza, potrebbe essere lui a cadere sotto i colpi di chi tutela i propri beni. Gli statunitensi lo capirono ai tempi di Re Giorgio ed è per questo che difendono con le unghie e con i denti il loro secondo emendamento. Mentre qui da noi, la culla della civiltà come dice qualcuno, vengono processati i cittadini onesti. Colgo l’occasione per esprimere la mia totale solidarietà alla famiglia Sicignano e per dire loro che se dovessero mai aver bisogno di qualche consiglio da parte di chi ci è già passato, noi siamo qua. P.s. A chi obietterà che parlo così sull’onda dell’emozione, perché personalmente coinvolto e quant’altro, rispondo leopardianamente. Non attribuite alla mia condizione ciò che è responsabilità del mio intelletto. Contraddite piuttosto le mie tesi, se ci riuscite.

La difesa è sempre legittima. I cittadini non si sentono più sicuri. E si difendono da sé. Viaggio nella giustizia italiana che tutela ladri e malviventi e condanna chi si difende, scrive Giuseppe De Lorenzo su “Il Giornale”. La spiegazione è tutta nei numeri. C'è un motivo se gli italiani hanno deciso di difendersi con le armi, se i casi di rapine e furti finite in tragedia stanno occupando televisioni e giornali nazionali. I cittadini non si sentono più sicuri. E difendono chi si è difeso: Il 73% degli intervistati di un sondaggio Ixè per Agorà (Raitre), infatti, trova sbagliata l'accusa di omicidio volontario per il pensionato che ha ucciso con un colpo di pistola un giovane ladro a Vaprio D'Adda, nel milanese.  Il 21% trova invece giusta l'accusa. Nel rapporto sulla sicurezza, diramato dall'Istat nel 2014, si evince chiaramente che ad essere aumentata non è solo è la percezione di insicurezza degli italiani. Ben 18 milioni sono quelli che si sono detti insicuri e solo il 55% è pronto ad uscire da solo di notte (mentre nel 2010 era il 59% e nel 2011 addirittura il 60,8%). Ma non è solo questo. Ciò che preoccupa è l'aumento delle rapine in casa (+65,8% rispetto al 2010), dei reati contro il patrimonio e dei borseggi. Gli ultimi casi di cronaca sono solo una piccola parte di quelli realmente accaduti. Alcuni sono i più noti: Graziano Stacchio, il benzinaio che per difendere una donna e un gioielliere ha sparato contro i ladri; Ermes Mattielli, il pensionato che scaricò il caricatore contro i rom entrati nella sua ricicleria; e - in ultimo - il caso di Francesco Sicignano, il pensionato di Vaprio D'Adda che ha ucciso un 22enne albanese sorpreso mentre rubava nella sua casa. Abbiamo recuperato uno di quelli dimenticati. Giuseppe Caruso il prossimo 27 ottobre rischia 21 anni di carcere per omicidio volontario, solo perché dopo numerosi furti ha tentato di difendere la sua proprietà. La legge. Bisogna essere chiari. L'articolo 52 del codice penale, quello sulla legittima difesa, sembra far acqua da tutte la parti. In particolare, ci spiega l'avvocato penalista Paolo Pesciarelli, "occorre togliere dal secondo comma l'inciso 'quando vi è desistenza o pericolo di aggressione'. Perché è una valutazione che è impossibile fare per chi si trova in quelle situazioni specifiche". "Il problema è il limite di eccezione di proporzionalità - conferma l'avvocato Marco Tomassoni - è un concetto anacronistico: bisogna dare facoltà di difendersi con tutti i mezzi a disposizione". Una legge, però, si interpreta, e il potere di punire o meno chi nell'atto di proteggersi uccide o ferisce un ladro è in mano alla magistratura. Le colpe della magistratura. Non a caso, infatti, Giuseppe Lipari, difensore di Caruso, non ha remore nel dire che "è l'ideologia di certi magistrati a decidere se questo o quel caso è omicidio volontario e non legittima difesa". Ed è per questo che la Lega Nord ieri ha manifestato di fronte ai Tribunali di tutta Italia: "Se i magistrati non riescono a interpretare correttamente la norma - ha detto Salvini davanti al Palazzaccio di Milano - allora aboliamola". Una buona idea. La difesa deve essere sempre legittima. Quella della propria vita, quella dei propri cari e anche della proprietà privata. Quale arma? I cittadini lo sanno. Tant'è che negli ultimi anni stanno aumentando in maniera considerevole le iscrizioni ai poligoni di tiro. Sarà l'effetto mediatico degli ultimi tempi, ma soprattutto nelle zone dove si verificano più frequentemente furti, i cittadini si rivolgono agli esperti del grilletto per imparare a sparare. "Un po' di rapine e la gente dice che non capisce più quello che succede - dichiarava Efren Dalla Santa, presidente del poligono di Laghetto (Vicenza) - Magari non la useranno mai, ti spiegano, ma vogliono sentirsi più sicuri a casa". E senza star troppo a pensare se conviene usare una pistola o un fucile a canne mozze, la cosa fondamentale è saperle maneggiare con cura. Conoscerne i segreti e l'utilizzo in totale sicurezza. "Nel momento in cui si sia costretti ad utilizzare l'arma da fuoco - ci spiega dettagliatamente l'esperto Tony Zanti - non si può improvvisare". Potenzialità dell'arma, manutenzione, puntamento, utilizza al chiuso e all'aperto: per difendersi da soli bisognerebbe prima seguire un corso. Anche questo, però, potrebbe non bastare. Perché di notte, con il buio, con la paura di avere un malintenzionato vicino, ogni conoscenza potrebbe venir meno e fare spazio alla legittima paura che genera l'altrettanto legittima difesa. L'Italia dovrebbe capire che chi commette rapine non è un disgraziato o un pover uomo. Ma un criminale. E se c'è qualcuno da compatire, quelli sono i pensionati che hanno avuto il coraggio di sparare e ora hanno la vita distrutta. Chi viola un domicilio e chi di lavoro fa il ladro, deve sapere che potrebbe uscirne steso. Non significa essere violenti. Ma desiderare un Paese dove la sicurezza viene garantita. E con essa la legittima difesa.

Sel: vietato pubblicare i crimini commessi dagli immigrati, è razzismo, scrive "Imola Oggi". I deputati di Sel hanno chiesto in un’interrogazione al Ministero dell’Interno, prima firmataria Annalisa Pannarale, di assumere ogni iniziativa di competenza affinché sia valutata la sussistenza dei presupposti per l‘immediata chiusura del sito internet tutti i crimini degli immigrati (tuttiicriminidegliimmigrati.com/) che si propone quale sito d’informazione ed è basato su fatti di cronaca nera che avrebbero come protagonisti cittadini stranieri, migranti, rom e sinti. I deputati ritengono che la pagina web in questione abbia l‘esito potenziale di incitare all’odio razziale e alla discriminazione, in aperta violazione dei principi della nostra Carta Costituzionale e della normativa in materia”. Infine si legge nell’interrogazione come l’iniziativa del sito Gli altri parlano d’integrazione, noi ve la mostriamo “si colloca peraltro nel solco di quanto sollevato con allarme dal Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) nelle osservazioni conclusive e raccomandazioni all’Italia del 9 marzo 2012; il Comitato, infatti, aveva fatto riferimento esplicito alla diffusione preoccupante nel nostro Paese dell’incitamento all’odio razziale e di forme violente di razzismo attraverso i mass media, internet, e i social network, invitando le autorità italiane a una applicazione severa delle normative di contrasto penale alla discriminazione e all’incitamento all’odio razziale”.

Chi delinque può fare qualsiasi cosa, tanto la sfanga sempre! Gentile Severgnini, colgo l’occasione dell’ultimo fatto di sangue legato ad un tentato furto in casa per fare alcune considerazioni. Abito a Parma, ma lavoro in provincia di Brescia. Per lavoro mi devo fermare alcune volte fuori casa e ho da anni un appartamento vicino al lago di Garda. Da circa 3 settimane il residence dove abito viene regolarmente visitato dai ladri, che hanno già ripulito almeno 9 appartamenti su 18. Questa sera, all’uscita dal lavoro, dovendomi fermare, andrò con ansia a verificare il mio destino. E’ un bollettino di guerra che va aggiornato quotidianamente. Dal punto di vista storico ho già subito un furto in appartamento nel 2000, e in seguito due furti in auto. Sempre in questi paraggi. Ho lasciato sul campo 3 computer portatili, alcuni strumenti di lavoro, alcune coperte… Vedrò se devo aggiornare a breve il mio bilancio. Orbene, nella mia esperienza, posso solo dire che il mio necessario rivolgermi alle forze dell’ordine ha sempre comportato in me la sensazione di creare fastidio nei vari addetti che ho incontrato: mai sgarbati, per la verità, ma esasperati e pignoli. Con quella faccia che ti fa sentire tu il colpevole di esser stato derubato! Pronti anche a puntualizzare che la denuncia andava fatta presso la tenenza di competenza, come se non sapessi che lo avrei potuto fare su tutto il territorio nazionale, aggiungendo così al danno anche la beffa della perdita di tempo. Forse demotivati dalla loro impotenza? Mah!… Direi che sono servitori di uno Stato da sempre impegnato per motivi ideologici, che accomunano da decenni i settori della sinistra DC, poi ex, e di tutti i settori della sinistra e di parte della destra sociale, nel condannare, con fermezza a volte, spesso subdolamente, la proprietà privata come frutto del diavolo. Ora senza soldi, questo Stato ha smesso anche di tentare di assicurare quella parvenza di sicurezza sociale che sarebbe quantomeno doverosa, in un momento in cui frotte di immigrati, obtorto collo nullafacenti, non sanno come tirare a sera. Invece si richiede a gran voce la scarcerazione di migliaia di detenuti con la risibile motivazione che sono in troppi. Ma che glieli ho mandati io a delinquere?! Ebbene, se questo Stato non vuole darci sicurezza, perché mai non ci libera dallo scomodo ruolo di vittime inermi e non ci permette di prendere le armi (come direbbe Amleto: “Or to take arms against a sea of troubles?”)? Ah già, il principio dello Stato di diritto! Peccato che valga solo per noi! Chi delinque può fare qualsiasi cosa, cosciente di poterla sfangare quasi sempre! Peccato che chi ha grandi possibilità economiche venga solo raramente colpito. I colpiti siamo noi piccoli e medi borghesi, anche proletari, nell’indifferenza di chiunque guidi questo Stato sfasciato e sgarruppato. Spesso sottoposti al pubblico ludibrio di chi assurge a maestro delle nostre menti, e che, assiso sulla inarrivabile cattedra del qualunquismo benpensante (cattolico o ex comunista poco importa) ci viene a fare anche la morale! Enrico Groppi su “Italians” de “Il Corriere della Sera”.

Se il bruto viene da lontano la stampa «dimentica» di dirlo. Sui media una pesantissima cappa di "politicamente corretto" nella trattazione della realtà degli immigrati. Così agli italiani è preclusa la conoscenza della verità, scrive Magdi Cristiano Allam su "Il Giornale". Leggiamo insieme i titoli di due fatti di cronaca di queste ultime ore. «Torpignattara. Aggredita sul pianerottolo mette in fuga lo stupratore. L'aggressore arrestato grazie all'identikit fornito dalla vittima». Solo leggendo l'articolo scopriamo che la vittima è una ragazza italiana di 29 anni, mentre lo stupratore è un clandestino afghano di 24 anni. «Fiuggi. Violenza di gruppo in casa famiglia. Arrestati un 16enne e due 17enni. Vittima un'operatrice della struttura». Solo leggendo l'articolo scopriamo che la donna stuprata è un'italiana di 48 anni, mentre gli stupratori sono tre clandestini egiziani. L'indicazione di non segnalare la nazionalità o la religione di chi delinque rientra nell'impegno sottoscritto dai giornalisti italiani (Federazione Nazionale della Stampa Italiana e Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti) nella «Carta di Roma», firmata nel 2011, con una madrina d'eccezione, Laura Boldrini, all'epoca portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. È nella «Carta di Roma» che si accredita la mistificazione della realtà, vietando ad esempio di usare il termine «clandestino», che giuridicamente connota lo specifico reato di chi si introduce illegalmente all'interno delle frontiere nazionali, e di sostituirlo con il termine neutro di «migrante» o «richiedente asilo». Ebbene questa pesantissima cappa di «politicamente corretto» nella trattazione della realtà degli immigrati, fa sì che agli italiani sia preclusa la conoscenza della verità, così come si impongono loro delle scelte in contrasto con i propri interessi. Quanti italiani sanno che rispetto ad una presenza complessiva di 5.364.000 immigrati in Italia, pari al 7,1% della popolazione residente, la presenza degli stranieri nelle nostre carceri è invece di circa 22mila detenuti, pari a circa il 35% della popolazione carceraria? Quanti italiani sanno che l'80% dei crimini commessi dagli stranieri è perpetrato da clandestini o irregolari? Quanti italiani sanno che, considerando che per l'Osapp (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), un carcerato costa quanto un deputato, ovvero 12mila euro al mese, il costo complessivo dei detenuti stranieri ammonta a circa 264 milioni di euro al mese, ovvero 3 miliardi e 168 milioni di euro all'anno? Quanti italiani sanno che, anche limitandoci a considerare gli 80mila clandestini ospitati nei centri di accoglienza a spese nostre, con un costo giornaliero pro-capite di circa 40 euro, significa che complessivamente noi spendiamo 3.200.000 euro al giorno, che al mese diventano 96 milioni di euro, che all'anno diventano 1 miliardo e 152 milioni di euro, solo per l'alloggio, il vitto, le sigarette e la ricarica telefonica? Quanti italiani sanno che considerando che nel 2014 sono sbarcati circa 180mila clandestini e che nel 2015 ne sono già arrivati quasi 57mila, complessivamente 237mila, e calcolando che nei centri di accoglienza ce ne sono 80mila, anche tralasciando le decine di migliaia di clandestini che sono sbarcati negli anni scorsi, significa che almeno 157mila clandestini sono scomparsi nel nulla? Quanti italiani sanno che solo al 5% dei clandestini viene riconosciuto lo status di rifugiato, e ciò significa che il 95% dei clandestini che abbiamo generosamente accolto con i nostri soldi sarebbe dovuto essere bloccato alla frontiera? Ebbene riscattiamo la verità prima che gli italiani insorgano legittimamente per questo crimine che stanno subendo. Chiamiamoli correttamente clandestini e diciamo basta ai clandestini!

Raccomandazione alle Questure: nascondete i crimini dei profughi. Necessario "tutelare" i richiedenti asilo, anche se delinquono. È discriminazione al contrario, scrive Salvatore Tramontano Venerdì 23/10/2015 su "Il Giornale". La gogna non è uguale per tutti. Le Questure italiane, e i comandi dei carabinieri, hanno ricevuto una strana raccomandazione, un consiglio disceso da molto in alto, una sorta di velina a uso interno. Se un profugo, un richiedente asilo, viene denunciato o addirittura arrestato mentre sta commettendo un reato non dovete raccontarlo a nessuno. Acqua in bocca. Omertà. Silenzio. Niente comunicati stampa, nessuna soffiata ai giornalisti. L'obiettivo è tutelare il migrante. Se, infatti, uno sta chiedendo aiuto allo Stato perché magari è perseguitato in patria significa che la sua vita è in pericolo. Nome, cognome e residenza sarebbero informazioni pericolose, notizie che i «regimi» potrebbero usare per colpire lui o la sua famiglia. Uno viene a sapere una cosa del genere e pensa: bello, uno Stato garantista. Non c'è più il mostro in prima pagina. Solo che il principio vale solo per gli ospiti. Gli italiani devono solo pagare le tasse. Niente garantismo, nessuna tutela, neppure uno straccio di presunzione di innocenza. Anzi, quando poi si va a processo c'è la gara a far scappare dalle procure notizie, intercettazioni, frullati di vita privati, perfino di chi è capitato in quelle carte per caso, senza neppure essere indagato. E c'è anche una strana regia che calcola e razionalizza i tempi politici delle indiscrezioni. Questo è il Paese dove la condanna arriva per mezzo stampa prima dei processi e dove la carcerazione preventiva viene usata come arma di ricatto e addirittura di tortura. Per gli italiani, insomma, il garantismo è un lusso che non si possono permettere. Siano essi personaggi famosi o sconosciuti, potenti o povera gente. È una forma di democrazia della gogna. Ora perché i profughi vengono risparmiati? Non per bontà. A quanto pare il governo non vuole turbative alla linea politica sull'immigrazione. Non parlate dei delitti dei profughi perché siccome accogliamo tutti, senza alcun controllo, pubblicizzare le loro malefatte potrebbe intaccare il consenso del governo e portare voti a chi critica le maglie larghe di Alfano e company. Meglio nascondere la realtà e continuare a raccontare agli italiani che tutto va bene, che tutto è sotto controllo. E se una notizia scappa dalle Questure, nessun problema, ci penserà Renzi a coprire Alfano. La colpa sarà stata di un gufo. Magari profugo.

I crimini dei richiedenti asilo? Censurati "per la pace sociale". Forze dell'ordine invitate a non diffondere le generalità dei rei Si vuole garantirne la riservatezza, ma così si discriminano gli italiani, scrive Nadia Muratore Venerdì 23/10/2015 su "Il Giornale". Il politicamente corretto imbavaglia le forze dell'ordine e crea disparità tra i cittadini. Almeno per quanto riguarda la divulgazione di certe informazioni di reato. Se infatti la prassi vuole che siano le stesse forze dell'ordine a fornire agli organi di stampa la notizia di un'indagine che ha portato alla denuncia o all'arresto di una persona, questo non accade quando il responsabile del reato è un richiedente asilo. Se il fatto di cronaca non è eclatante e può «passare in sordina», allora la notizia viene taciuta. Censurata. Così, se a rubare o a spacciare stupefacenti è un cittadino italiano, l'indagine diventa di dominio pubblico, con tanto di riferimento alle generalità del reo. Diverso invece è il trattamento se chi delinque ha in tasca una richiesta di status di rifugiato. Il perché è presto detto: interpretando alla lettera la legge sulle disposizioni in materia della richiesta di asilo - che rientra nel Testo Unico dell'Immigrazione - una persona che si trova nello «status» di richiedente dev'essere tutelata. Basandosi sul presupposto che chi chiede protezione in uno Stato diverso dal suo ritiene di essere in pericolo di vita, renderne pubbliche le generalità e il luogo di residenza, potrebbe mettere a rischio la sua incolumità in Italia e anche creare dei problemi di sicurezza alla famiglia, che magari è rimasta nel Paese di origine. Un riserbo che viene mantenuto anche se il richiedente è coinvolto in una operazione di polizia. Ci troviamo quindi di fronte a un garantismo all'ennesima potenza che può anche essere comprensibile, ma che di fatto porta ad una disparità di trattamento tra italiani e rifugiati, accolti in Italia e in attesa di essere regolarizzati. Una disparità di trattamento che viene giustificata osservando che, in uno Stato di diritto come è quello italiano, nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio. Per questo le forze dell'ordine sono invitate a non divulgare notizie di operazioni di polizia in cui vi siano coinvolti dei richiedenti asilo. Cosa che però non avviene quando a essere arrestato è un cittadino italiano. Considerando che la maggior parte dei profughi, una volta sbarcati sulle coste italiane, inoltrano la richiesta di asilo, è facile immaginare quanto è alto il numero di persone che possono godere di questo «scudo» che altri invece non posseggono. «Non esiste una norma scritta che imponga di non divulgare la notizia - precisa Giovanni Pepè, questore di Cuneo -, si tratta semplicemente di una direttiva politica basata sul buon senso. Vengono cioè usate delle precauzioni in più nel caso in cui ad essere arrestato sia un rifugiato, solo perché rivelare il suo luogo di residenza, potrebbe mettere a repentaglio la sua incolumità e quella della sua famiglia. Sarà poi la Commissione territoriale che valuta le richieste a stabilire se il fatto di essere stato arrestato e magari un'eventuale condanna, possa determinare la non accettazione della richiesta». Una maggior precauzione che però non viene applicata in altri casi. «Si, è vero - conclude il questore - quando non siamo di fronte a un richiedente asilo, la notizia viene divulgata, spesso subito dopo la convalida dell'arresto, con tanto di iniziali ed età». Eppure ogni cittadino dovrebbe essere uguale davanti alla legge e per tutti dovrebbe valere la regola dell'essere innocenti fino al terzo grado di giudizio. «Non esiste una circolare interna in cui viene richiesto di non rendere note le indagini se l'arrestato è un richiedente asilo - spiega un sindacalista torinese - ma ci viene caldamente suggerito, per non aumentare la tensione e allarmare maggiormente l'opinione pubblica, già esasperata dai disagi e dalla diffidenza dei profughi che hanno invaso le nostre città».

"Se denunciamo i migranti ​ci accusano di razzismo". Il sindacato di polizia Coisp: a poche ore dall'arresto, i richiedenti asilo già liberi di spostarsi con vitto e alloggio garantiti, scrive Nadia Muratore Sabato 24/10/2015 su "Il Giornale". «Lo spaccio di droga, le rapine ed i furti, ormai sono reati commessi per lo più da stranieri richiedenti asilo e la nostra criminalità organizzata è ben contenta di poter contare su questa bassa manovalanza. Tutto ciò, però, non risulta dalle statistiche, perché quando a delinquere è una persona che si trova in questo particolare “status”, previsto dalla nostra Costituzione e tutelato per legge, noi non possiamo dirlo. Rischiamo di essere tacciati di razzismo. Così dobbiamo arrenderci al politicamente corretto che piace tanto a questo governo ma falsa la realtà». A denunciare la difficoltà a redigere un mattinale o un comunicato stampa che deve necessariamente essere attento più alle parole usate che non ai fatti accaduti è Patrizia Bolognani, rappresentante sindacale del Coisp. Assistente capo al reparto prevenzione del crimine della polizia di Padova, Bolognani combatte ogni giorno contro i ladri e gli spacciatori, pattugliando le strade del Nord Est italiano e poi, una volta tornata in questura, la sua battaglia si sposta sulla tastiera del computer, alla ricerca delle parole da usare, che non devono neppure lontanamente suscitare sentimenti di razzismo o di discriminazione nei confronti di nessuno. Soprattutto quando si parla di un profugo. «Profugo? Non so se questa parola si può usare. Nel dubbio meglio di no - precisa Bolognani -. Soprattutto sono vietate le parole rom e clandestini ma anche richiedente asilo, perché la vita dello straniero arrivato nel nostro Paese non può essere messa a rischio, svelando che è in Italia a spacciare droga. Il termine extracomunitario, invece, va sempre bene, non indispettisce nessuno. Peccato però che la maggior parte delle volte viene usato per, non dico mascherare, ma sicuramente addolcire la realtà». Secondo una statistica non ufficiale ma che è ben chiara agli operatori di polizia, così come ai mediatori culturali, la maggior parte delle persone che sbarcano sulle coste italiane, sono richiedenti asilo ma soltanto una minima parte di loro hanno la speranza di ottenerlo. L'iter però, che prevede una valutazione da parte della Commissione territoriale di competenza - e consente anche il ricorso al Tar in caso di diniego, con un allungamento esponenziale dei tempi - è talmente lungo che permette, a chi ha intenzione di vivere di espedienti, di organizzarsi come meglio crede. Soprattutto è la vendita di sostanze stupefacenti ad essere per lo più in mano loro, ed il perché è presto detto: spacciare è il reato che permette guadagni alti ed immediati, la droga trova ovunque un buon giro di vendita e lo spacciatore può contare su un rischio relativamente basso di essere fermato dalle forze dell'ordine. E quando accade, dopo alcune ore dall'arresto e dalla sua convalida, il richiedente asilo è libero di spostarsi su tutto il territorio nazionale senza controlli, oppure di ritornare nell'albergo o nella cooperativa che lo accoglie a spese dello Stato. Perché vitto e alloggio, più paghetta settimanale, sono sempre garantiti. Sono ragazzi giovani, hanno sempre meno di trent'anni e provenienti per lo più da Nigeria, Gaga e Gambia. Per loro lo spaccio è il modo più veloce per ottenere il denaro da spendere soprattutto in abbigliamento, oppure in bottiglie di vino e birra. Molti, infatti, sono alcolizzati e per questo, per procurarsi da bere, commettono furti e borseggi, oppure vengono fermati per molestie, per lo più nei confronti delle donne e spesso, in preda ai fumi dell'alcol, commettono danneggiamenti ed atti di vandalismo.

Una simile situazione diventa un terreno fertile per la criminalità organizzata, al Nord come al Sud, dal quale pescare giovani che non hanno nulla da perdere e vogliono soprattutto guadagnare soldi facili e veloci. In questo momento le aree più a rischio si stanno spostando dalle coste italiane verso le zone settentrionali del nostro Paese, infatti un numero sempre maggiore di profughi arriva in Italia non con i barconi ma attraverso i valichi montani, diventati ormai aree a forte rischio per la sicurezza pubblica. Di notte attraversano a piedi le montagne di Tarvisio, Gorizia, Belluno, Udine, Trieste: tutte zone di frontiera che con l'applicazione del trattato di Schengen e la diminuzione dei controlli da parte delle forze dell'ordine, sono diventate tratte di passaggio incontrollato.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Scuola pubblica: professionisti di che? Scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Bisogna correre a sfatare un mito, un’idea errata, o meglio la presunzione che gli insegnanti della scuola pubblica italiana possano definirsi, sentirsi “professionisti” del mondo del lavoro vero. Non è così. Bisogna dire chiaramente che sono elemosinati degli italiani, parassiti elemosinati dai nostri soldi, quegli stessi soldi estorti a noi con la tassazione erosissima che, difatti, non esiste in nessuna parte del mondo. Un professionista è un libero professionista cioè colui (colei) che risponde di ciò che fa. Se sbaglia paga di suo. Come succede a tutti i professionisti, liberi professionisti italiani, dal corniciaio al fabbro, dall’avvocato all’imprenditore. Il tempo indeterminato, ovvero a vita dell’impiego pubblico, specificamente nella scuola pubblica, insieme alla inamovibilità pratica, effettiva, dallo stesso, insegnante pubblico, professore universitario statale o maestro di scuola pubblica che sia, magistrato o giudice pubblico, politico o avvocato dello Stato cioè pubblico, rendono il posto cosiddetto “pubblico” vale a dire stipendiato con i soldi di tutti noi italiani, ma guarda caso, ha come ulteriore requisito l’irresponsabilità verso tutti, verso tutti noi, i reali, effettivi datori di lavoro. Pertanto credere o sentirsi “professionisti” nell’apparato pubblico difetta gravemente del requisito essenziale, la responsabilità. Che porta con sé la “amovibilità” ovvero il cambio di lavoro quando non si ha funzionato nella scuola così come da giudice, e porta con sé così anche la determinatezza dell’occupazione e del lavoro, a maggior ragione quando incapaci di farlo. In Italia da una settantina d’anni si sono immesse masse di pecoroni irresponsabili pubblici, per carità persone tra cui, soprattutto nei primi trenta anni, si distingueva una loro maggioranza, financo la quasi totalità, di soggetti che hanno ritenuto “sacra” la propria funzione nel settore pubblico, ritenendo la responsabilità un optional, andava cioè da sé ritenere di risponderne non solo lavorativamente ma anche e soprattutto personalmente, si pensi solo al disdoro sociale dato dalla incapacità cui difatti era la stessa società, più stretta nelle sue maglie e moralmente pochissimo lasciva, a richiamare e fare rispondere delle conseguenze; nei successivi quaranta anni le maglie sociali si sono allargate e con la libertà sociale il posto pubblico è diventato il “lavoro” degli italiani, dai ministeri alle corti, dalle province ai comuni alle regioni, dalle pubbliche amministrazioni e così via fino ad avere più o meno in ogni famiglia un soggetto almeno a carico delle finanze pubbliche. E’ diventato cioè, per quanto potesse essere stato l’“agguanto” al concorso pubblico truccato, convenientissimo occupare il posto pubblico, perché in cambio di poche ore “lavorate”, ovvero di sola presenza fisica nell’odiato ufficio tra gli odiati colleghi uguali a sé, si è ricavato l’obolo pubblico con cui si è, come dicono al sud, “campata” la famiglia. Ecco quindi il posticino a Ferdinando Esposito in magistratura, con concorsino “pubblico” a hoc stante papà e zio Esposito (quello della Cassazione e della sentenza annunciata contro Berlusconi, altro che professionista della giustizia! la giustizia piuttosto come arma per “regolare i conti” e le acrimonie di un’intera classe, quella giudiziaria pubblica contro l’imprenditore privato resosi ricco e con l’arlìa di essere sceso in politica). O ecco il posticino a papà di Giulio Napolitano nell’università pubblica, come tutti gli altri nessuno escluso. Ecco il posticino pubblico al ministero: un esercito di italiani e di italiane acrimoniosi e insoddisfatti “da sistema”, lagnanti e mal mostosi negli improduttivi ministeri pubblici italiani. Ed ecco il folto popolo della scuola pubblica, tra cui svetta, arrivata vicino casetta sua, la moglie dell’imbroglione al governo rubato Renzi: una folla di rosiconi della scuola pubblica in grado di insegnare spesso la sola propria ignoranza condita della supposizione di sapere qualcosa ai poveri ragazzi italiani che, inseriti in un sistema nefasto siffatto, di fatto, non solo non imparano o si “arricchiscono” di quasi nulla, ma sono il bersaglio e lo sfogatoio della depressione e del disagio che mostrano i loro insegnanti. Ma ecco ancora i raccomandati ai “concorsi” pubblici nelle Regioni che vivono oggi, per la scemenza e l’insipienza di Renzi illegittimo al governo, un nuovo revival, dato che il beota con il suo governo di non eletti cerca di dare più rappresentanza e potere escludendo noi italiani. Ecco l’impiego pubblico degli italiani nell’intero apparato pubblico, vale a dire il regno dell’improduttività. Del parassitismo a nostre spese. E, ancora, gli impiegati pubblici dell’Agenzia delle entrate che tuttora immette altri mille a controllare chi non si sa, dato che chi ha potuto e che produceva qualcosa autonomamente è fuggito all’estero. Ecco i giudici e la giustizia pubblica, una mannaia ad orologeria prona e indifesa di fronte alle lerce ambizioni personali dell’ultimo venuto, e da ultimo sono venuti difatti Di Pietro, o Ingroia, De Magistris, i quali forti della inamovibilità e soprattutto dello stipendio a vita hanno dettato legge in un Paese letteralmente violentato dalla loro stolta cupidigia. Quando si vede un lavoro pubblico in Italia, in definitiva, bisogna dire ed avere ben presente che sono gli italiani ad esserne i datori di lavoro, si pensi alla Camera e al Senato, al Parlamento e a tutto l’apparato politico, e oggi è finalmente necessario chiamare tutto a risponderne, alla responsabilità. A cominciare con Napolitano il quale da presidente della Repubblica ha violato la nostra regola democratica di avere quali rappresentanti gli eletti, cosa che non è avvenuta né con Monti né con Letta e che non sta avvenendo neanche tuttora con Renzi. Monti, Letta o Renzi non sono mai stati eletti per rappresentare l’Italia da nessun italiano, è Napolitano ad avere, contrariamente ad ogni regola della nostra democrazia, “scelto” ed eseguito, dandoci i pensi incapaci di cui è necessario liberarsi. Rappresenta chi legittimato con voto a rappresentarci. Solo rappresentanti eletti spingeranno infatti il Paese a razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche, non altri. Renzi getta fumo negli occhi, come pare abbia fatto tutta la vita, e i più c cascano, vedi Berlusconi o il popolo di destra che lo ha creduto suo erede, quando sarebbe bastato osservare bene da dove Renzi venisse, cioè dal veterocomunista Napolitano, per capire da subito chi è e sotto lo schiaffo di chi è, qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri. Si ripete, “qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri”. Questo Paese si deve dare una svegliata! Il non lavoro pubblico va trasferito e fatto diventare lavoro produttivo privato nel mercato globale vero. Ci vuole produzione, investimenti produttivi, nuove industrie per il lavoro produttivo degli italiani improduttivi.

 “LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.

Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre.  Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!

Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.

Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori,assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto.  Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle.  “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta.Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.

Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici.  Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni.  E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero.  Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto -  che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.

La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia. L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei. Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia. Cosa più falsa non c’è. Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano. Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione. Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è. Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione. Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione. Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.

Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano

Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste. La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Quando? Mai! Perchè gli anni passano. le leggi si riformano, ma tutto rimane fermo ed immobile.

E' stata definitivamente approvata, giovedì 17 luglio 2003, la legge di conversione del Dl 112/2003 relativa agli esami per l'accesso alla professione di avvocato. Il Senato ha stabilito che le nuove regole troveranno applicazione dalla prossima sessione di dicembre 2003. Nel provvedimento è stata individuata una nuova causa di incompatibilità per la designazione dei componenti. L'avvocatura infatti, nell'espressione dei nominativi dovrà tener presente l'articolo 1-bis comma 6 di tale Legge che stabilisce che non possono essere designati come commissari di esame, gli avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Il principio affermato tende a impedire che i commissari di esame facenti parte di tali organismi, possano maturare crediti verso i candidati, sfruttando la benevolenza in occasione di nuove elezioni al Consiglio dell'Ordine o alla Cassa di previdenza. E' stato inoltre precisato che per le stesse ragioni gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni, una volta espletati gli esami, non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell'Ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto. La nuova legge precisa inoltre che rimangono in vigore le altre incompatibilità previste per la nomina di commissari, come ad esempio l'astensione per chi ha un parente (o coniuge) tra i concorrenti o per chi versa in stato di forte contrapposizione di interessi o, viceversa, chi è stato collega (come praticante) di studio. In questo ultimo caso, il limite alla possibilità di esaminare i propri ex praticanti, è circoscritto unicamente all'obbligo, per il commissario, di astenersi dal prendere parte alle prove orali, in quanto l'anonimato delle prove scritte è sufficiente garanzia di imparzialità nella correzione. Anonimato per la legge, di fatto conosciutissimi gli autori dell'elaborato.

In caso di naturale violazione penale delle norme concorsuali, tra cui l'abuso di ufficio o o la legge del 1925, il nuovo codice deontologico della professione forense presenta l’innovativo carattere della (tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e delle sanzioni correlativamente applicabili. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 72, la condotta dell’avvocato che, prima o durante la prova d’esame per l’abilitazione, faccia pervenire ad uno o più candidati testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un periodo compreso tra due e sei mesi. (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza n. 3023/15; depositata il 16 febbraio).

Questo è quello esistente sulla carta, ma di fatto l'indicibile avviene perennemente ed impunemente.

Esami di avvocato con il trucco. Commissario scriveva compito a candidato: scatta l'inchiesta, scrive “Il Mattino di Napoli”. La scena è più o meno questa: scriveva il compito sul foglio di un candidato, poi quando è stato scoperto non si è perso d’animo. Ha strappato il compito, lo ha ridotto in mille pezzi, poi ha pensato bene di ficcarsi in tasca l’elaborato. Poi è scappato. È fuggito via, in un altro padiglione, provando a mimetizzarsi nel caos di quegli stand dove erano in corso le prove scritte. Brutta scena avvenuta lo scorso dicembre nel corso delle prove scritte dell’esame per diventare avvocato, tanto da rendere necessario un accertamento di natura penale. La Procura ha infatti deciso di aprire un fascicolo sugli esami di avvocati, a partire da una dettagliata relazione indirizzata da uno degli esponenti della commissione di esame. Mesi dopo l’episodio denunciato, c’è anche una sorta di svolta di natura investigativa: l’avvocato-commissario protagonista dell’impresa è stato infatti individuato, interrogato e indagato. Ora deve rispondere di falso per soppressione, in una storia che potrebbe riservare non poche sorprese. Ma andiamo con ordine, a partire da lontano, da quel giorno di metà dicembre in cui migliaia di praticanti avvocati si riversano negli stand della Mostra d’Oltremare per sostenere la prova della vita. Lo scritto poi è l’incubo di sempre. Si parte dalla trascrizione delle tracce, poi inizia il countdown. Tra i commissari però ce n’è uno che non passa inosservato: al telefono è riuscito ad avere il contenuto della traccia dopo aver contattato qualcuno in un altro distretto e non si è perso d’animo. Si è avvicinato ai banchi degli alunni e ha iniziato a scrivere sul foglio che recava il timbro del ministero e la firma delle commissioni di vigilanza. Una scena che non passa inosservata. Scrive, riempie almeno una facciata, quando un collega commissario se ne accorge e decide di vederci chiaro. A muoversi è un pm della Procura di Napoli, prestata per comporre la commissione di esame. Si avvicina e chiede spiegazioni: che cos’è questo industriarsi con quel foglio in mano? E cos’è quel foglio? Basta un’occhiata e appare chiaro che non si tratta di un appunto manoscritto, ma del documento con il timbro del Ministero, quindi si tratta di un elaborato originale destinato ad essere imbustato e presentato con la firma di un candidato alla commissione di esame. Colto sul fatto l’avvocato-commissario però non si perde d’animo e fa una cosa elementare: strappa il lembo del figlio con la firma del ministero, poi ci pensa su e fa a pezzi tutto il documento e se lo ficca in tasca. Momenti di caos. Mentre gli altri colleghi gli chiedono spiegazioni, lui arretra, volta le spalle e scappa. Fugge, se ne va in un altro padiglione, si cala nell’anonimato. Un episodio destinato a rimanere inesplorato, se non fosse per la decisione di un commissario-magistrato di mettere tutto nero su bianco, di denunciare quanto assistito. È l'inizio di una inchiesta condotta dal pool reati contro la pubblica amministrazione del procuratore aggiunto Francesco Greco, fascicolo affidato al pm Valter Brunetti. C’è un’ipotesi di reato abbastanza chiara: falso per soppressione, in relazione alla capacità del commissario di far sparire l’elaborato, nel tentativo di cancellare le tracce. Qualche mese di indagine e l’avvocato viene identificato e interrogato. Vicenda per molti versi amara, che ripropone il tema della correttezza delle prove di esame, mentre il presidente del Consiglio degli avvocati Francesco Caia assicura: «Speriamo sia un fatto isolato, appena avremo notizie ufficiali, interverremo in modo deciso».

Ed ancora.

Esame avvocato a Bari, la nipote candidata e lo zio commissario, scrive Giovanni Longo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 settembre 2015. La nipote candidata. Lo zio in commissione. Nulla di penalmente rilevante. Ma quella che appare una evidente incompatibilità, sancita dallo stesso bando, rappresenta, almeno in termini d’immagine, un’altra tegola sull’esame d’avvocato edizione 2014-2015. La candidata era tra i banchi della Fiera del Levante, insieme a centinaia di aspiranti avvocati, mentre suo zio (un magistrato in pensione), fratello di suo padre, faceva parte della Commissione. Già l’anno prima si era verificata la stessa situazione, nonostante l’incompatibilità per i parenti sino al quarto grado. Ma non finisce qui. Perché dagli atti interni alla Commissione d’esame che la «Gazzetta» ha potuto consultare, risulta che per entrambe le prove, il commissario ha fornito per le comunicazioni interne, un indirizzo di posta elettronica con il nome e cognome della nipote candidata. Questo non vuole dire che le comunicazioni interne fossero lette dalla candidata, sia chiaro, ma, all’interno della Commissione, la circostanza non è sfuggita. Tutte vicende che non sarebbero finite nel fascicolo aperto dalla Procura di Bari per fare luce sui presunti aiuti che alcuni candidati (tra loro non figura la candidata che aveva suo zio in commissione) avrebbero ricevuto. Sul fronte penale (ribadiamo zio commissario e nipote candidata non risultano coinvolti), l’estate che volge al termine, è stata di grande lavoro per i Carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Bari. I telefonini del cancelliere della Corte di appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell’Università di Bari Tina Laquale, indagati dalla Procura di Bari, iniziano a «parlare». Tracce delle prove scritte inviate via WhatsApp. Elaborati redatti in uno studio legale e poi consegnati a mano. Tecnologia e tradizione vanno a braccetto. L’inchiesta sui presunti «aiutini» che almeno una decina di candidati all’ultimo esame d’avvocato avrebbero ricevuto, si arricchisce di nuovi particolari. Santamaria e Laquale, ricordiamo, erano stati sorpresi durante la terza prova d’esame mentre nel quartiere fieristico si passavano di mano un plico contenente lo svolgimento del tema assegnato: la redazione di un atto giudiziario. Nella busta, pure un biglietto con nomi e destinatari. Dall’accertamento tecnico irripetibile disposto dal pm Luciana Silvestris, che coordina le indagini, sono giunte altre indicazioni utili per capire quali sarebbero state le modalità utilizzate per truccare la prova. Nel padiglione della Fiera del Levante ci sarebbe stato chi ha fotografato le tracce per poi inviare le foto all’esterno. Tramite WhatsApp. In uno studio legale, almeno Laquale, una sua stretta parente e un professionista avrebbero avuto il compito, codici alla mano, di scrivere gli elaborati. Da consegnare poi a domicilio. Nel mirino il ruolo che l’avvocato avrebbe avuto nella vicenda. Laquale si sarebbe messa in ferie proprio in concomitanza con la tre giorni di metà dicembre. Le ipotesi di reato, a vario titolo, sono: tentato abuso d’ufficio, violazione di una vecchia legge del 1925 sullo svolgimento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, e corruzione. Gli inquirenti sono al lavoro per capire se la presunta «collaborazione» rientrasse «solo» in un sistema più ampio di scambi di favori o se, come sospettano, fosse stata retribuita. Ovvero soldi in cambio di una prova impeccabile per superare l’esame.

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

Corruzione: ecco i dipendenti "infedeli" dell'Agenzie delle Entrate. Negli ultimi tre anni decine di impiegati e dirigenti sono finiti in carcere o ai domiciliari. Le operazioni più importanti delle Finanza, scrive Nadia Francalacci su “Panorama” il 24 settembre 2015. L'ultimo caso in Piemonte. Un commercialista, un dipendente dell'Agenzia delle Entrate, un funzionario di Equitalia. Come i Tre moschettieri, i tre professionisti erano uniti dall'idea di aiutare i contribuenti nei guai con il fisco ma solo in cambio di denari e favori. Così sono scattate ieri mattina, nei loro confronti, le tre ordinanze di custodia cautelare per corruzione, eseguite dalla Guardia di Finanza a Torino. Il terzetto è stato messo agli arresti domiciliari nelle stesse ore in cui le Fiamme Gialle del nucleo di polizia tributaria hanno eseguito 28 perquisizioni a carico di persone fisiche, aziende e studi professionali che a vario titolo avevano beneficiato dell'"aiutino". Gli indagati a piede libero sono diciassette. I contribuenti alle prese con le cartelle esattoriali o dei contenziosi con l'Erario si rivolgevano a uno dei componenti del gruppo, e in qualche modo riuscivano a chiudere la partita a loro favore. A dare il via all'indagine dei finanzieri è stata una segnalazione dell'Agenzia delle Entrate che parlava di dipendenti che si dedicavano a un "secondo lavoro" anche durante le ore d'ufficio. È così che, monitorando il tenore di vita degli indagati, gli investigatori hanno scoperto anche una serie di accessi anomali alle banche dati dell'amministrazione finanziaria scoprendo che erano tutti concentrati sui i clienti di uno studio di consulenza intestato alla sorella di uno degli indagati. Al centro di questa vicenda c’è un dipendente dell'Agenzia delle Entrate in servizio a Moncalieri (Torino), un funzionario Equitalia Nord e un commercialista. Ma negli ultimi tre anni sono decine i dipendenti o i dirigenti delle Agenzie delle Entrate ad essere arrestati per corruzione. Ecco le inchieste e gli arresti più importanti dal 2013 ad oggi.

Gli uomini del Comando Unità Speciali della Guardia di Finanza di Roma hanno arrestato, in flagranza di reato, per concussione, un funzionario dell'Agenzia delle Entrate della Direzione Provinciale di Roma 1 Trastevere e un noto commercialista della Capitale. Alle indagini ha collaborato la stessa Agenzia delle Entrate. Il commercialista, d'accordo con il funzionario, aveva preannunciato ad un imprenditore un controllo fiscale, e chiesto, in via preventiva, 12 mila euro per «ammorbidire» l'attività. La verifica, come da accordi, è stata effettuata da due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, con un accertamento che si è concluso con un verbale per violazioni amministrative per un importo di 258 euro.

10 dicembre 2014. A Ferrara si spartivano le tangenti. Li hanno arrestati in flagranza, con le mani su una tangente da 10.000 euro che si sarebbero dovuti spartire, un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Ferrara e un'altra persona che aveva fatto da intermediario con un imprenditore ricattato. Sono stati arrestati dalla Guardia di finanza per concussione, per aver preteso la tangente in cambio di un controllo blando in materia di studi di settore. L'imprenditore ha però denunciato le richieste.

17 ottobre 2014. 50 mila euro per non fare le verifiche fiscali. Mazzette dai ristoratori. È così che sono finiti in carcere funzionari dell'Agenzia delle Entrate di Roma. "50 mila euro per ammorbidire una verifica fiscale". Da mesi erano sotto indagine e già erano stati raggiunti da provvedimenti restrittivi ma solo dopo alcuni mesi i due ispettori sono stati arrestati dalla Guardia di finanza in esecuzione di un'ordinanza di custodia emessa dal gip, Simonetta D'Alessandro. All'operazione ha collaborato anche la Direzione generale del Lazio dell'Agenzia delle Entrate.

29 luglio 2014. 8 mila euro ogni 100 mila euro di tasse. Agenzia delle Entrate, arrestati due ispettori. Mazzette per “sconti” sulle tasse. Hanno chiesto una tangente tra i sette e gli ottomila euro a un ristoratore di Roma per ogni riduzione da 100mila euro sulla somma da versare al fisco. Erano intercettati da diverso tempo...

15 marzo 2015. Manette anche in provincia di Pesaro-Urbino. Ad Urbino un impiegato delle Agenzie delle Entrate finisce nei guai accusato di aver abusato della sua qualifica e delle sue funzioni. Le Fiamme Gialle di Urbino, in collaborazione con la Stazione di Acqualagna dell’Arma dei Carabinieri, hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di un impiegato dell’Agenzia delle Entrate che chiedeva tangenti per sistemare le 'pratiche'. L'impiegato aveva abusato della sua qualifica e delle sue funzioni, talvolta incutendo soggezione e timore, per ottenere vantaggi economici. In un’occasione aveva tentato di ostacolare un controllo fiscale che una pattuglia della Guardia di Finanza stava per fare nei confronti di un ristoratore, asserendo di aver eseguito lui, poco prima, un controllo con esito regolare.

16 luglio 2015. Due dipendenti coinvolti nelle truffe auto: E' successo a Castellammare. Truffa delle auto con 15 indagati, due sono funzionari dell'Agenzia delle Entrate. Si è trattato di una maxi truffa ai danni dello Stato che utilizzando il traffico di auto dall'estero per evadere l'Iva, permetteva all'organizzazione di rivendere vetture usate a prezzi più competitivi. Un giro di automobili acquistate all'estero da società di noleggio - dunque esenti da Iva - che poi le rivendevano immediatamente a concessionarie della zona, evadendo due volte le imposte. L'ipotesi è che la truffa avvenisse con la complicità e la corruzione di due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, in collaborazione con finte società e reali concessionarie auto, con basi a Castellammare e ramificazioni nel Lazio e in Veneto.

15 settembre 2014. Impiegato corrotto condannato a risarcire. Mazzette all'Agenzia delle Entrate, impiegato condannato al risarcimento. Il dipendente era riuscito a creare un sistema grazie al quale "cancellare" i debiti con il fisco, attraverso il pagamento di una quota pari al 30%, di numerosi imprenditori. La Corte dei Conti lo ha condannato al pagamento di 50 mila euro.  Il protagonista della storia è Umberto Giambertone, 66 anni, finito nel 2007 al centro di un'operazione della guardia di finanza che aveva accertato un sistema volto alla cancellazione dei debiti con il fisco a seguito del pagamento di una quota pari al 30% dell'importo dovuto.

23 luglio 2013. Cesti natalizie e denaro per chiudere gli occhi. San Severo viene arrestato impiegato Agenzia delle Entrate. L'uomo avrebbe intascato denaro contante per 500 euro per non comminare una sanzione. Protagonista un impiegato dell’Agenzia delle Entrate di 63 anni che dovrà scontare un anno ed un mese di detenzione domiciliare perché responsabile di concussione. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, a seguito di una verifica ad un commerciante di Apricena, era emerso che questi aveva impiegato la moglie irregolarmente e pertanto era incorso in una sanzione di 15mila euro per evitare la quale, l'impiegato ed il suo collega, avevano ricevuto la somma di 500 euro e due cesti natalizi.

14 aprile 2014. L'impiegata "cieca" di Padova. Per tangenti viene arrestata dipendente dell'Agenzia delle Entrate a Padova.  L'impiegata, 60enne in servizio nella sede di via Turazza, avrebbe promesso a un imprenditore della provincia di rallentare l'iter delle cartelle esattoriali.  Per questo avrebbe intascato 16mila euro. L'accusa è di concussione.

Taormina 4 gennaio 2013. Incastrato mentre chiedeva tangenti alle palestre. Impiegato di Taormina dell'Agenzia delle entrate chiede mazzetta e viene arrestato per concussione. L'uomo è accusato di avere chiesto e ottenuto 800 euro (200 di anticipo, 600 a scampata denuncia) dal proprietario di diverse palestre. Gli è andata male. A incastrarlo sono state le immagini registrate da una telecamera nascosta.

A Caserta "cancellava" le tasse. Un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Caserta, è stato arrestato dai militari della Guardia di Finanza con l'accusa di essere entrato abusivamente nel sistema informatico della stesa Agenzia delle Entrate per "provvedere" alla regolarizzazione di omessi versamenti o azzerando sanzioni di un imprenditore. L’impiegato avrebbe arrecato un danno all'erario pari a 115 mila euro.

I casi di assenteismo dei dipendenti pubblici. Il malcostume di assentarsi dal luogo di lavoro per dedicarsi a fatti propri o addirittura per svolgere una seconda attività lavorativa risulta più facile da essere smascherato grazie ai sistemi di telecamere e videosorveglianza. Sono una consuetudine positiva le denunce delle forze dell'ordine che mirano a difendere i contribuenti sia dal punto di vista economico sia da quello dell'efficienza del servizio pubblico. Ricordando che l'assenteismo è un reato indicato dal codice penale come truffa più o meno aggravata ai danni dello Stato punita con la reclusione fino a cinque anni.

Ma a quanto ammontano le assenze dei dipendenti pubblici? Nel 2013 i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenza retribuita, 6 in più rispetto a quelle stimate nel mondo Confindustria per gli impiegati nelle aziende con più di 100 addetti (il gruppo più comparabile al pubblico impiego). Dai dati del Conto annuale della Ragioneria dello Stato riferiti al 2013, si evince inoltre che nel settore pubblico ai 10 giorni di assenza pro capite per malattia, se ne sono aggiunti 9 di assenze retribuite. Un assenteismo pubblico che in totale tocca la soglia del 46,3%, ben più alto dei 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine di Confindustria. Ma se il livello di assenze del settore pubblico venisse portato al pari di quello del privato si potrebbero risparmiare oltre 3,7 miliardi per minore fabbisogno di personale. Stima ottenuta dal Centro studi di Viale dell’Astronomia, applicando alle uscite pubbliche per costo del lavoro nel 2013 il differenziale di assenze pubblico-privato, in rapporto al monte giornate lavorative. A parità di costi quindi un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza dei servizi.

Dipendenti pubblici, 220 i licenziati in un anno: la metà per assenze. Quasi 7mila i procedimenti disciplinari avviati nei confronti del personale. In tanti (35%) cacciati per reati, scrive TGcom24. Duecentoventi dipendenti della Pubblica amministrazione sono stati licenziati nel 2013 in seguito a procedimenti disciplinari avviati nei loro confronti, 6.900 in tutto. Secondo i dati riportati sul sito della Funzione pubblica, quasi la metà dei provvedimenti sfociati appunto nel licenziamento sono dovuti ad assenze ingiustificate o non comunicate nei tempi previsti. Tra le motivazioni, ai 99 licenziamenti legati alle assenze seguono i 78 connessi a reati (il 36%), i 35 causati da comportamenti non corretti verso i superiori o i colleghi, da negligenza e inosservanza degli ordini di servizio (il 16%). Completano il quadro le uscite dovute al fenomeno del cosiddetto doppio lavoro, attività extralavorative non autorizzate (7, pari al 3%). Se si guarda, sempre con riferimento all'operazione dell'Ispettorato, ai diversi settori, il maggior numero di licenziamenti si osserva per scuole (81) e ministeri (66). Rispetto all'anno precedente la cifra complessiva risulta pressoché stabile (223 erano stati i licenziamenti nel 2012), ma allora la ragione principale per l'interruzione del rapporto di lavoro era collegata ai reati, che spiegavano il 47% dei licenziamenti (le assenze dal servizi erano al 29%). Sempre i reati erano il motivo di quasi la metà delle interruzioni del rapporto di lavoro nel 2011, quando però il numero complessivo di licenziamenti disciplinari risultò più alto (288). I procedimenti non sfociano comunque soltanto nei licenziamenti. Si possono concludere anche con una sospensione: di giorni, ma anche di mesi, in cui il dipendente viene privato della retribuzione. In tutto le sospensioni sono state quasi 1.400 nel 2013, sempre stando ai dati del sito della Funzione pubblica (aggiornati a gennaio). Il totale dei procedimenti disciplinari (6.935 quelli avviati e 6.302 quelli conclusi) si chiude quindi in un quarto dei casi con l'adozione di sanzioni gravi, quali sono considerate il licenziamento o la sospensione, fa notare l'Ispettorato nella sua relazione sull'attività condotta nel 2013. I dati emersi, sottolineano all'Ispettorato, segnalano un numero di procedimenti conclusi con sanzione grave, appunto circa il 25%, "stabile" nell'ultimo triennio (con la stragrande maggioranza corrisponde a sanzioni piuttosto che a licenziamenti).

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Dipendenti pubblici, l’insopportabile scandalo dell’assenteismo, scrive Giancarlo Marcotti. La notizia la conoscete tutti, diciassette persone, dipendenti del servizio ospedaliero di Pizzo Calabro denunciate per assenteismo, ufficialmente erano al lavoro, nella realtà …Ma la cosa più scandalosa non è tanto che le persone timbravano il cartellino e poi se ne andavano per i fatti loro, questo succede ogni giorno a Pizzo Calabro come in tutte le strutture ospedaliere d’Italia. La cosa più scandalosa è che tutto ciò viene alla luce perché cittadini esasperati per le inefficienze del servizio pubblico protestano e dopo aver portato le loro istanze alla dirigenza della struttura pubblica coloro che hanno responsabilità dirette cosa fanno? Nulla! Non fanno nulla probabilmente per paura, perché se si fossero azzardati a prendere qualche provvedimento avrebbero rischiato la loro pelle, e perché “da sempre va così”. La cosa più scandalosa è che le misure cautelari “sono frutto di una complessa attività d’indagine coordinata dal sostituto procuratore Vittorio Gallucci”, ma quale “complessa”? Riflettete un attimo, cosa c’è di “complesso” nell’accertarsi che delle persone che dovrebbero essere al lavoro, dopo aver timbrato il loro cartellino vanno invece per fatti propri? Anzi la maggior parte delle volte non si sono neppure presi la briga di andare a timbrare il cartellino perché ci ha pensato un collega! Lo scandalo è che si viene a sapere (anzi ce lo dicono gli stessi Carabinieri!) che le indagini sono iniziate nel giugno del 2012!!! E cosa ci son voluti? Due anni? Due anni per vedere che le persone non andavano al lavoro? Ed a noi quanto ci son venuti a costare due anni di indagini dei Carabinieri? Quanto ci è costato in personale dell’Arma impiegato per queste “indagini” e quanto in telecamere ed attrezzature varie? Lo dico perché sapete come va a finire nella migliore delle ipotesi? Va a finire che tutte le persone denunciate rischiano “al massimo” la “sospensione di due mesi dal lavoro”, avete capito? Non il carcere, non il rimborso di tutto quanto truffato allo Stato e sarebbero decine di migliaia di euro in stipendi percepiti senza prestare alcuna attività, non il licenziamento! No nulla di tutto questo! Soltanto la sospensione per due mesi e poi di nuovo tutti al loro posto a riprendere a fare (cioè a non fare) quel che facevano prima!!! Questo è lo scandalo!!! Queste persone, invece, dovrebbero finire in galera, e poi, una volta usciti, avere il divieto assoluto di venire impiegati nuovamente in una struttura pubblica, se c’è un privato che li vuole assumere … buon per loro, altrimenti che vadano a trovare un posto all’estero, capiranno così che da altre parti si incassa uno stipendio soltanto dopo aver lavorato. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica, cari lettori, bisognerebbe riferirsi soprattutto a questo, quante persone in Italia “rubano” uno stipendio? I tagli alla Sanità sono un tabù? Macché! Se tagliassimo metà del personale nessuno se ne accorgerebbe! E cosa dire degli sperperi? Dei pasti per i degenti che in alcune strutture ospedaliere costano dieci volte di più che in altre? Questo è il vero scandalo in Italia. Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Funzionari pubblici, tutti gli illeciti. Il caso degli affitti a sette euro. Il rapporto della Guardia di Finanza sui primi sei mesi del 2015: un buco da oltre tre miliardi di euro su sanità, Ferrovie e corsi di formazione, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In appena sei mesi hanno sottratto allo Stato oltre tre miliardi di euro. Sono 4.835 dipendenti pubblici che hanno rubato o sperperato i soldi della collettività. Funzionari, medici, politici, impiegati di primo livello: tutti citati adesso in giudizio dalla Corte dei conti, chiamati a restituire il maltolto. È il rapporto della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015 a rivelare quanto profondo sia il «buco» nei conti causato dai lavoratori infedeli. Con un dato che fa impressione: più di un miliardo di euro è stato perso con la cattiva gestione del patrimonio immobiliare. Case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti rappresentano la voce più consistente della relazione. Sono 1.290 le segnalazioni inviate dalla magistratura ordinaria o direttamente dagli stessi finanzieri ai giudici contabili. I numeri dimostrano come nei primi sei mesi di quest’anno ci sia stata una vera e propria impennata con contestazioni pari a un miliardo e 357 milioni di euro, il 13 per cento in più di tutto il 2014. Vuol dire che aumenta il malaffare, ma anche che l’attività di controllo delle Fiamme gialle diventa più incisiva, si concentra in quei settori ritenuti maggiormente a rischio rispetto alla possibilità di un arricchimento personale. Le accuse per i dipendenti pubblici sono corruzione, concussione, truffa, ma anche turbativa d’asta, appropriazione indebita, abuso d’ufficio. Nell’elenco compare anche chi, per inerzia o incapacità ha provocato un disservizio e quindi deve essere sanzionato. Sono migliaia gli immobili dai quali lo Stato potrebbe ricavare guadagno e invece si trasformano addirittura in un costo. Un capitolo a parte riguarda le case popolari. Da Lecce ad Aosta i finanzieri sono impegnati in indagini e verifiche per stanare i morosi e tutti i privati che versano canoni irrisori. Perché in questi casi bisogna accertare se si tratti esclusivamente di cattiva gestione o se, come è stato scoperto in Puglia, la concessione dell’immobile sia in realtà una contropartita, ad esempio per ottenere voti alle elezioni. I casi sono diversi, la somma provoca una voragine nei conti. C’è il Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro, ma c’è anche il direttore dell’Agenzia territoriale di Asti noto per l’accusa di aver sperperato 9 milioni di euro. È ancora in corso la verifica sulle case del Comune di Roma affittate a sette euro al mese, e quella sul patrimonio dell’Inps, ma è già finita l’indagine sul Comune di Nepi, in provincia di Viterbo, dove «reiterati episodi di “mala gestio” tramite una serie di artifizi, raggiri e ammanchi di cassa al patrimonio» avrebbero causato un danno di un milione e 200 milioni di euro». Quello della sanità si conferma un settore dove continuano sprechi e abusi, non a caso in appena sei mesi il danno contestato supera gli 800 milioni di euro. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno aperto 264 pratiche, 2.325 sono le persone denunciate o arrestate. Un accertamento svolto in 18 Regioni dal «Nucleo speciale spesa pubblica» della Finanza ha consentito di individuare 83 dirigenti medici che hanno provocato un danno al servizio sanitario di 6 milioni di euro. Due le contestazioni principali: «Mancato rispetto degli obblighi di esclusività delle prestazioni da parte dei dirigenti medici per aver accettato incarichi extraprofessionali non autorizzati preventivamente dall’ente di appartenenza e impiego presso altre strutture private convenzionate». All’ospedale di Gallarate, in provincia di Varese, è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro a ben 36 milioni per poter - questa è l’accusa per i manager dell’azienda sanitaria - ricavare una sostanziosa «cresta». La creatività nel settore della Pubblica amministrazione evidentemente non ha limiti. E così è diventato un caso da manuale quello del dipendente di un ente di Catanzaro che per sette anni ha percepito stipendio e pensione. Pochi giorni dopo essere stato congedato per limiti d’età e aver cominciato a incassare l’assegno dell’Inps «ha presentato domanda di riammissione in servizio presso la sua azienda confidando che le esigenze di organico gli avrebbero consentito di tornare immediatamente al proprio posto, cosa che è effettivamente accaduta». Il problema è che nessuno tra i dirigenti si è preoccupato di segnalare la nuova assunzione all’Istituto previdenziale e l’uomo ha incassato illecitamente ben 700 mila euro. Quello dei mancati controlli è uno dei problemi che emerge con evidenza nel dossier della Guardia di Finanza perché provoca danni immensi. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia con 47 milioni di euro sprecati tra il 2006 e il 2011 per corsi di formazione finanziati con soldi pubblici e in realtà mai svolti. Emblematico è il caso scoperto a Bari dove i manager delle Ferrovie Sudest hanno speso 912 mila euro per l’acquisto di 25 carrozze passeggeri, le hanno rivendute a una società polacca «incaricata di eseguire interventi di ristrutturazione per 7 milioni di euro» e qualche tempo dopo hanno deciso di riacquistarle a 22 milioni e mezzo di euro provocando un danno alla società pubblica che la Corte dei conti ha stimato in oltre 11 milioni di euro. 

Il ministro dell'Economia, critica i sindacati: "Mi pongo una domanda. Cosa ha bloccato il Paese? Sono due decenni che questo paese è bloccato. La responsabilità è diffusa, forse anche dei sindacati. Il Governo sta sbloccando il Paese che va sbloccato altrimenti rischiamo grosso". Lo ha detto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan nel corso di "In mezz'ora" su Rai tre del 19 ottobre 2014.

“Il sindacato in Italia mediamente è stato un fattore di ritardo: ha fatto ritardare tanto l’efficienza e la competitività complessiva del Paese”: l’ultimo affondo ai rappresentanti dei lavoratori arriva dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Rispondendo ad una domanda sulla richiesta di lavoro a Ferragosto da parte dell’Electrolux alla Festa dell’Unità di Milano il 28 agosto 2015, il numero uno degli industriali italiani ha detto: “Un sindacato moderno dovrebbe avere la capacità di rispondere in tempi utili perché non si perdano opportunità di lavoro”, in riferimento allo stabilimento dei frigoriferi che ha faticato a trovare operai per aprire le linee produttive in pieno periodo di ferie. Ma quella sull’Electrolux non è l’unica critica che Squinzi muove alle sigle sindacali. “In un’epoca in cui l’economia si muove a una velocità supersonica il fatto che ci si possano mettere quasi due anni per poter scrivere un accordo specifico sulla rappresentanza, che è un fattore di democrazia, non è il modo giusto di fare le cose”.

Siamo ostaggio dei sindacati. Roma e Pompei, le rovine d'Italia. Disagio nei trasporti e assemblee sindacali bloccano il turismo, scrive Laura Eduati su L'Huffington Post del 24/07/2015. Cittadini esasperati nella lentezza dei trasporti romani, turisti impossibilitati ad ammirare le bellezze di due perle della storia dell'arte mondiale, Pompei e il Colosseo, a causa di una assemblea sindacale improvvisata che ha lasciato i visitatori sotto il sole, increduli.

Dopo la Grande Bellezza, il grande caos. In primo luogo il caos urbano di Roma, una città provata dopo settimane di disservizi dell'Atac, la rete dei trasporti che Ignazio Marino vuole ora privatizzare nella speranza di evitare il fallimento e nell'ottimismo di migliorare un servizio ormai colabrodo, africano. Dopo scioperi bianchi, vagoni bloccati nel tunnel senza aria condizionata, treni della Roma-Lido che sono ridotti a 3 su 12 per i guasti e la mancanza di manutenzione, questa mattina è esplosa l'ultima rivolta dei passeggeri contro un macchinista che stava tenendo fermo il treno lungo la linea B della metropolitana, all'altezza di San Paolo. Nelle stesse ore, a Pompei, i turisti trovavano le porte chiuse per tutta la giornata. Causa: assemblea sindacale. Una "assemblea selvaggia", ha ammesso in serata la Fp Cgil nazionale. E difatti nessuno era stato avvisato: né i tour operator, né i duemila visitatori arrivati con la canicola sognando di ammirare uno dei siti archeologici più affascinanti del pianeta. "Un danno incalcolabile", tuona il ministro Franceschini. Non è la prima volta che succede, e l'effetto è boomerang: difficile trovare qualcuno che simpatizzi con i lavoratori di Pompei, così come è impresa ardua scovare un moto di simpatia per i dipendenti dell'Atac. Soltanto 24 ore prima, il Colosseo era rimasto chiuso per tre ore, sempre per una assemblea sindacale: i dipendenti sono scontenti del fatto che l'organico è stato ridotto da 27500 a 17500 unità, "siamo al di sotto della spending review" e le ragioni per organizzare una lotta sindacale non mancano, eppure anche questa chiusura è parsa all'opinione pubblica un capriccio, un uso privato di luogo pubblico. A sentire gli autoferrotranvieri romani, nemmeno a loro mancano le ragioni dello scontento. "Prima dell'inserimento del badge potevamo fare straordinari coprendo le mancanze di personale, ora siamo costretti a fare un lungo turno di lavoro senza pause e dunque forzatamente mancano corse, non ci sono bagni nel capolinea, l'Atac ha acquistato nuovi treni che rimangono nel deposito perché mandano in black out la linea, succhiano molta più energia dei treni vecchi che comunque sono malandati", ci dice tutto d'un fiato un macchinista della linea B della metropolitana che naturalmente preferisce rimanere anonimo. È uno sfascio, soprattutto quello del trasporto romano, che riflette la malagestione di decenni e la penuria di soldi per un solido investimento: l'azienda è sull'orlo del fallimento. Eppure la rabbia dei cittadini si scarica, unicamente, sul singolo macchinista che in quella tratta guida un treno improvvisamente fermo: non è mai chiaro se si tratta di un guasto, di un sottile sabotaggio, di un "atto di pignoleria" come lo chiama il macchinista intervistato, e cioè "siccome l'Atac fa la pignola con il badge, allora noi siamo pignoli con i turni di lavoro e lo stato dei mezzi che guidiamo". Il New York Times è soltanto l'ultimo di una serie di prestigiosi quotidiani che mette il dito nella piaga: Roma, la bellissima Roma, è prigioniera della spazzatura, della protesta dei macchinisti e del malgoverno. Ma basta sfogliare qualsiasi giornale romano per leggere costantemente titoli che portano a uno sconforto estremo: "Mafia capitale, altri 2 arresti: erano fuggiti a Santo Domingo" oppure "Toppe per le buche: la procura indaga sulla truffa del bitume". O anche: "A Trastevere la raccolta differenziata è un flop". Non c'è molto altro. Non è soltanto sciopero selvaggio ma è la sfaldatura di un patto sociale, anche nel conflitto. Ognuno per sé, a volte con ottime ragioni, ma utilizzando modalità personalistiche, incuranti delle conseguenze, senza regole. Si salvi chi può.

Ora Renzi attacca i sindacati: "Scioperi fanno male all'Italia". Il premier (finalmente) all'attacco: "Nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea o allo sciopero, ma bloccare vacanze e turisti fa male all’Italia". Ma cosa intende fare per disarmare i sindacati? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. "Vedere che dopo tutto il lavoro fatto per salvare il sito e quindi i posti di lavoro a Pompei un’assemblea sindacale blocca all’improvviso migliaia di turisti sotto il sole o vedere che dopo le nottate insonni per coinvolgere Etihad e evitare il fallimento di Alitalia, gli scioperi dei lavoratori di quell’azienda rovinano le vacanze a migliaia di nostri concittadini, fa male". Matteo Renzi (finalmente) alza la voce e si scaglia contro i sindacati che sabotano le vacanze degli italiani e il mercato del turismo italiano. Alitalia e Pompei sono lo specchio di un Paese disastrato. Da una parte i cancelli chiusi agli scavi di Pompei per un'assemblea dei sindacati che ha provocato danni economici gravissimi per turisti e tour operator non avvisati dell'improvviso cambio di programma delle rappresentanze sindacali. Dall'altro lo sciopero di 24 ore dei piloti e assistenti di volo Alitalia proclamato dall'Anpac che ha provocato decine di voli cancellati e l'ira dei viaggiatori, da Linate a Fiumicino. Due gravissimi disagi che vanno a colpire indiscriminatamente il settore turistico, che dovrebbe essere uno dei veri motori della nostra economia. "Intendiamoci, per evitare le polemiche di domani - dice il premier sulla E-news - nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea sindacale o allo sciopero. Sono diritti sacrosanti. Ma c’è anche bisogno di buon senso e di ragionevolezza, di responsabilità e di rispetto". E passa all'attacco: "In un momento come questo tenere migliaia di turisti venuti da tutto il mondo, sotto il sole per un’assemblea sindacale a sorpresa significa volere il male di Pompei. Significa fare il male di Pompei". "Io non ce l’ho con i sindacati - incalza - ma se continua così dovremo difendere i sindacati da se stessi. L’assemblea di ieri a Pompei, in quelle modalità, in quelle forme, è semplicemente scandalosa. Continueremo a lavorare per Pompei, nonostante loro". In realtà, davanto a una sindacatocrazia che sta uccidendo il Paese, Renzi parla ma non muove un dito.

Colosseo e Fori chiusi per assemblea. Marino: "Uno sfregio", Renzi: "No alla cultura ostaggio a sindacalisti". Scontro con la Camusso. Migliaia di turisti delusi. Il ministro Franceschini: "La misura è colma. Oggi in Cdm proporrò di inserire musei nei servizi pubblici essenziali". Scontro con la leader Cgil: "Si vuole togliere democrazia ai lavoratori?". Poi nel pomeriggio il titolare dei Beni culturali chiarisce: "Nessuno toccherà i diritti dei lavoratori". Verso sciopero nazionale su vertenza Beni culturali, scrive Viola Giannoli su "La Repubblica" del 18 settembre 2015. "Ora basta, la misura è colma". "Non lasceremo la cultura in ostaggio dei sindacalisti contro l'Italia". "Uno sfregio per il nostro paese". E' dura la reazione del ministro della Cultura Dario Franceschini, del premier Matteo Renzi e del sindaco di Roma Ignazio Marino dopo il nuovo stop, stamane, dei siti archeologici più importanti della Capitale per un'assemblea sindacale. E si accende lo scontro con le sigle dei lavoratori. A Roma sono rimasti chiusi per tre ore Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica con l'apertura slittata dalle 8.30 alle 11.30, al termine della riunione del personale di custodia, e migliaia di turisti rimasti a bocca asciutta. "Non si è trattato di chiusure ma solo di aperture ritardate. Siamo dispiaciuti per i disagi ma era impossibile vietare l'assemblea" convocata in maniera legittima, precisa la Soprintendenza. Il caso è arrivato nel pomeriggio in Consiglio dei Ministri. D'accordo con Renzi, il titolare dei Beni culturali proporrà all'esecutivo di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali. E Renzi twitta:"Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l'Italia. Oggi decreto legge #Colosseo#lavoltabuona".

Il primo cittadino. "Sono arrabbiato quanto il ministro Dario Franceschini - dice sulla sua pagina Facebook, il sindaco di Roma Ignazio Marino - E' vero la gestione del Colosseo dipende dallo Stato ma il Comune ha fatto tutti gli sforzi possibili per migliorare l'immagine nei confronti dei romani e nei confronti dei turisti. Lo abbiamo liberato dalle auto, da quella brutta immagine dei camion bar. Adesso lo dobbiamo liberare anche dai ricatti. E' il singolo monumento più visitato di tutto il nostro Paese. Il fatto che sia chiuso e che una persona che arriva da Sydney o da New York e aveva solo quel giorno per poter vedere il monumento millenario, è uno schiaffo in faccia alle persone e uno sfregio per il nostro Paese. Intollerabile".

Il sindacato. A rispondere è la leader della Cgil Susanna Camusso: "Strano paese quello in cui un'assemblea sindacale non si può fare. Capisco che uno possa dire di fare attenzione nei periodi di maggiore presenza turistica - ha spiegato il segretario generale - ma se ogni volta si dice che l'assemblea non si può fare allora si dica chiaramente che non si può avere uno strumento di democrazia. Servizio pubblico - ha concluso - non vuol dire che non si può avere la possibilità di fare assemblee o scioperi". "Lo abbiamo detto e lo ripetiamo - aggiunge il segretario generale della Cisl Annamaria Furlan - è sbagliato prendere in ostaggio i turisti come è accaduto oggi a Roma a causa di un'assemblea sindacale, tra l'altro autorizzata dalla dirigenza". Il problema "non si risolve con un decreto legge" o sollevando "polveroni mediatici contro il sindacato e contro i lavoratori". Cgil, Cisl e Uil, anzi, annuncia Claudio Meloni, coordinatore nazionale Cgil per il Mibact, preparano già una "serrata", stavolta nazionale, che certo riguarderà anche Roma, dove potrebbe sovrapporsi a quella dei dipendenti comunali in agitazione: "La vertenza sui beni culturali potrebbe portare ad uno sciopero nazionale e le dichiarazioni odierne del ministro Franceschini certo non aiutano. Cgil, Cisl e Uil hanno già avviato le procedure previste dalle legge. Iniziative analoghe avvengono in tutta Europa. Solo in Italia i diritti sono negati". E il sindacato romano aggiunge: "Tentano di stringere i diritti sindacali non riconoscendo ai lavoratori neanche la possibilità di riunirsi in assemblea autorizzata e comunicata secondo le norme. Vogliono chiuderci in servizi essenziali in cui non ci sono diritti dei lavoratori, che da mesi attendono invano. Diciamo che la misura è colma per noi".

Il Colosseo chiuso. Questa mattina intanto erano in migliaia davanti ai cancelli del Colosseo: un coda di visitatori che si è andata ingrossando di ora in ora. Alla riapertura dei cancelli c'erano più di tremila persone in fila o sedute a terra a bivaccare in attesa di poter visitare l'Anfiteatro Flavio. Altri turisti invece arrivati davanti all'ingresso hanno deciso di tornare indietro. L'unico avviso al Colosseo si trovava praticamente oltre il cancello. E su quello in inglese campeggiava anche un errore. La traduzione, infatti, parlava di chiusura "from 8.30 am to 11 pm", cioè le 23 di stasera. E tra i turisti è nata un po' di confusione. Altri, avvisati per lo più dai centurioni presenti sulla piazza per le foto, se ne sono andati rassegnati: "Ok, we have to come back later". Nessuno, prima di arrivare lì davanti, sapeva nulla, nonostante gli annunci anche sulla stampa. Un gruppo di turisti inglesi ha comprato ieri il biglietto sul sito internet per saltare la fila: "Potevano scriverlo almeno lì, ci saremmo organizzati", dicono. "Abbiamo giusto due giorni, Roma è grande, avremmo fatto altre scelte", lamenta una donna polacca. Colte di sorpresa anche le guide turistiche: "Certo, è una bella delusione per i turisti". Qualche confusione anche tra le forze dell'ordine, che lamentano di "non essere state avvertite".

Le ragioni della protesta. Le rappresentanze sindacali unitarie avevano annunciato la protesta per "discutere della gravissima situazione in cui si trovano i lavoratori del Mibact". In particolare, tra le denunce snocciolate oggi nell'assemblea che raccontano altamente partecipata: il mancato pagamento delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le centinaia di aperture straordinarie (dal primo maggio a quelle notturne) che rappresentano il 30% del salario; la mancata apertura di una trattativa per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici bloccato per la parte economica da molti anni; la decisione tutta politica di costituire, in accordo con il Comune di Roma e senza un minimo confronto con le parti sociali, una sovrastruttura burocratica come il Consorzio per la gestione dell'area centrale; la mancata apertura di un confronto sulla organizzazione del lavoro all'interno della Soprintendenza in grado di ristabilire un benessere organizzativo che possa riqualificare il lavoro, innalzare la qualità dei servizi offerti non trascurando la sicurezza del personale che vi opera e dei visitatori che affollano i nostri siti". Un problema nazionale secondo la Uil che racconta di riunioni sindacali in diverse parti d'Italia: "A Firenze per esempio hanno ritardato l'apertura tutti i musei di Palazzo Pitti. Ci è stato attribuito un organico totalmente insufficiente e stiamo chiedendo assunzione di personale che manca dappertutto".

"Assemblea legittima". Inoltre l'assemblea sindacale "era perfettamente legittima, richiesta l'11 settembre scorso e svolta nel pieno rispetto delle norme che regolano i servizi essenziali, preceduta da un comunicato stampa della stessa RSU che segnalava possibili disagi per i visitatori", dichiarano in una nota congiunta Claudio Meloni (Fp Cgil), Giuliana Guidoni (Cisl Fp) e Enzo Feliciani (Uil PA). "L'assemblea, proprio per ridurre al minimo i disagi dei visitatori, è stata calendarizzata ad inizio turno, ha comportato la chiusura per due ore e mezza al pubblico e alle 11 i cancelli sono stati regolarmente riaperti", spiegano i sindacati.

Le reazioni. "Per ovviare a questi problemi nel tempo adottammo soluzioni diverse, come affidarci ad un'associazione di ex carabinieri volontari" commenta Adriano La Regina, per 28 anni soprintendente archeologico a Roma. Una proposta a cui il Soprintendente speciale per il Colosseo Francesco Prosperetti replica: "Tutto è fattibile, ma vorrei evitare misure che abbiano un sapore provocatorio nei confronti dei lavoratori". Concordi Federalberghi e Assoturismo nel giudicare la chiusura dei monumenti un "grave danno di immagine alla città e al Paese". Mentre il Codacons spara alto: "In questi casi dovrebbe intervenire l'esercito per garantire l'apertura di siti e musei". "Non dubitiamo che le rivendicazioni dei lavoratori del settore siano legittime, ma le chiusure sono inaccettabili, uno schiaffo a chi visita il Paese e la capitale, che fatalmente si riproporrà" dicono in una nota congiunta Fabrizio Panecaldo dicono, capogruppo Pd di Roma Capitale, e Gianni Paris, delegato bilancio Città Metropolitana, che poi spiegano: "Oggi, però, per le carenze in organico del personale dei musei, che danno poi la stura al conflitto e alla chiusura della cultura, si potrebbe giocare un jolly: i dipendenti delle ex province a rischio esuberi possono essere formati e reimpiegati proprio presso i musei e le aree archeologiche. Senza dover assumere, e con personale che già percepisce stipendio, cioè a costo zero, l'Italia, il più grande museo a cielo aperto del mondo, non vivrebbe più simili figuracce periodiche".

La replica del ministro. "Nessuno vuole limitare il diritto dei lavoratori" a fare assemblee o scioperi. "Ma servono delle regole chiare". Lo ha detto il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, entrando a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri, in merito al decreto annunciato oggi dallo stesso ministro e dal premier Renzi.

Colosseo, i giornali non fanno sconti ai sindacati. Le notizie più importanti sui quotidiani di oggi, una breve rassegna della stampa nazionale. La chiusura del Colosseo e dei Fori Imperiali per un’assemblea è una delle principali notizie che spiccano sui giornali di oggi. Tutti risultano concordi nel condannare l’iniziativa sindacale che ha costretto migliaia di turisti a lunghe code. “Colosseo chiuso, interviene il governo” titola La Stampa evidenziando la reazione di Palazzo Chigi che tramite un decreto, di fatto, limita la possibilità di scioperare nei beni culturali, equiparandoli a servizi pubblici essenziali. La misura, approvata dal governo a poche ore di distanza dalla polemica, viene sottolineata anche dall’apertura de Il Messaggero "Colosseo chiuso, il pugno di Renzi". "Tutto il mondo politico applude, la Cgil parla di attacco alla democrazia", recita invece l’occhiello dell’apertura del Manifesto. Un gioco di parole poi, ispirato dalla frase con cui i gladiatori si rivolgevano dal centro dell’arena del Colosseo, emerge dalle colonne del Tempo “Morituristi te salutant”. E ancora, la scelta del Resto del Carlino: "Musei, scudo anti scioperi".

MORITURI(STI) TE SALUTANT. Custodi «imboscati». Ecco il Colosseo dei sindacati. Assunti come assistenti a vigilanza e accoglienza lavorano metà del tempo nell’amministrazione Alcuni sono sindacalisti: «È previsto dagli accordi», scrive Dario Martini il 20 settembre 2015 su “Il Tempo”. Il Colosseo due giorni fa è rimasto chiuso perché i custodi erano in assemblea sindacale. Tutto autorizzato e perfettamente in regola. Da un anno non prendono straordinari, il 25% dello stipendio. Accolgono fino a 30mila turisti al giorno e a turni di sette operatori alla volta. Ma i sindacati, che hanno organizzato e supportato la protesta, dimenticano un particolare. Un custode su quattro, assunto e inquadrato come «assistente all’accoglienza e alla vigilanza», ha scelto di svolgere mansioni amministrative per il 50% dell’orario di servizio. Semplificando, possiamo dire che hanno preferito la scrivania al gabbiotto. Ma partiamo dai numeri. In tutta la Soprintendenza ai Beni archeologici di Roma lavorano 650 persone, dagli archeologi ai tecnici, dagli impiegati fino ai custodi. Questi ultimi sono circa 300. Una settantina, come detto, ha optato per la migrazione verso una comoda poltrona. Restringendo questa fotografia al solo Colosseo, su 28 custodi sono 7 quelli che hanno scelto di lavorare al 50% in ufficio. Tre di loro sono sindacalisti mentre gli altri quattro sono iscritti al sindacato. Ovviamente, tutto nel rispetto delle regole, in base all’accordo tra sindacati e Soprintendenza siglato nel luglio 2009. Ecco cosa dice: «Il personale con profilo di "Assistente alla vigilanza, sicurezza, comunicazione, accoglienza e servizi al pubblico" ex Atm che su base volontaria aderirà all’innalzamento dell’orario di servizio al 71% svolgerà il proprio servizio con rotazione... su quattro turni settimanali» e «le attività svolte nell’ambito del progetto nazionale "utilizzazione assistenti tecnici museali oltre l’orario di lavoro per una migliore gestione dei modelli museali, archivisti e librari" verranno svolte per il 50% dell’orario di servizio». L’accordo permette che sia coinvolto «tutto il personale» e non solo gli ex atm. Inoltre, se si analizzano i curricula dei vincitori dell’ultimo concorso del 2009 (che nel Lazio infornò 80 custodi), si scopre che gran parte degli assunti è laureata in archeologia e conservazione dei beni culturali ed ha specializzazioni post-laurea. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che abbiano chiesto di essere spostati altrove. Irene Baroni è una di queste lavoratrici ed è anche rappresentante Rsu. Lavora al Colosseo e spiega i motivi della protesta: «Ritado dei pagamenti (le indennità di turnazione non retribuite), carenza di personale e mancato rinnovo del contratto». Baroni svolge, appunto, il 50% del suo lavoro negli uffici per la tutela del territorio. E lo rivendica: «Ci sono accordi sindacali che lo permettono. Molti di noi si "sdoppiano" in entrambi i compiti. Il problema non è questo, ma il fatto che l’organico è troppo basso. Al Colosseo siamo 28, dovremmo essere almeno il doppio». C’è anche chi propone di cambiare questa situazione. Sidney Journo, storico addetto alla vigilanza del Foro e iscritto all’Associazione Beni culturali, sottolinea come non «ci si possa più permettere dipendenti gestiti in maniera improduttiva, come i custodi che lavorano in uffici o che fanno le segretarie ai funzionari». Ciò non toglie, aggiunge Journo, che «il diritto del personale di riunirsi in assemblea sia sacrosanto. Il mancato pagamento delle turnazioni e le carenze di personale non sono più tollerabili». E i sindacati, intanto, cosa fanno? Cgil, Cisl e Uil proprio ieri hanno annunciato uno sciopero da attuare entro ottobre. I turisti sono avvertiti.

«Il problema? Scippatori guide abusive e bagarini». Il viaggio tra i lavoratori dell’Anfiteatro Flavio, scrive Alessio Buzzelli il 20 settembre 2015 su “Il Tempo". «Are you kidding me?» («mi state prendendo in giro?»), è ciò che ha esclamato ieri mattina Kate, turista americana di 27 anni, davanti al cartello che informava i turisti della chiusura del Colosseo, causa assemblea sindacale. In fila con Kate, oggi, ci siamo anche noi de «Il Tempo», novelli “turisti per caso”, con l’obiettivo di raccogliere le impressioni e i racconti di turisti e lavoratori sulla concitata giornata di ieri. E Kate è ben lieta di dirci la sua: «Sono venuta New York - racconta - per vedere il Colosseo e non potevo credere ai miei occhi. È incredibile che nessuno abbia informato i turisti con l’anticipo dovuto. Fortunatamente ho avuto la possibilità di tornarci, ma non tutti possono dire la stessa cosa». La fila per entrare nell’anfiteatro simbolo di Roma, oggi, scorre veloce e il clima è rilassato. Niente a che vedere con il caos di ieri, come ci racconta Carlos, uomo di mezza età originario di Siviglia, che come Kate è tornato al Colosseo dopo aver subito anche lui la beffa della chiusura “improvvisa”: «Ieri c’erano migliaia di turisti increduli e tra loro c’ero anch’io. Ho chiesto come fosse stato possibile che la chiusura non fosse stata comunicata per tempo e mi hanno risposto che su alcuni giornali italiani, invece, la notizia era stata data. Il problema è che un turista straniero, di solito, i giornali italiani non li legge». Un discorso che non fa una piega. Ma non tutti, ovviamente, la pensano così. È il caso di chi nel Colosseo ci lavora e ha partecipato alla tanto criticata assemblea sindacale. «Bisogna innanzitutto chiarire - spiega Cristina (nome di fantasia, come i seguenti), assunta da due anni - che quello di ieri non è stato uno sciopero, come erroneamente riportato da molti media, bensì una regolare e autorizzata assemblea sindacale di tre ore». Cristina dice il vero, perché in effetti l’assemblea era stata comunicata al Ministero una settimana fa e autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area archeologica. «Bisogna anche precisare che - puntualizza Francesco, addetto alla sicurezza - non si è trattato di chiusura ma di apertura ritardata, che è una cosa molto diversa. Tanto è vero che alle 11.30 tutto è stato riaperto». Più critico è Massimo, che al Colosseo ci lavora da venti anni: «I politici si sono scagliati contro di noi, ma hanno sbagliato obiettivo. Fuori da questi archi è una terra di nessuno, tra guide abusive, bagarini che vendono al turista ignaro biglietti a prezzi maggiorati e borseggiatori che imperversano. Tutte cose arcinote che vanno avanti da anni. Non mi risulta però che chi oggi ci critica tanto abbia mai fatto nulla in proposito». Sulle responsabilità circa la mancata comunicazione della chiusura interviene invece Patrizia, la quale sostiene che «l’obbligo di comunicare cose come queste spetta ai funzionari della Soprintendenza e non alle rappresentanze sindacali, che hanno comunque comunicato l’assemblea con i mezzi a disposizione. Cioè con cartelli e affissioni varie. Noi lavoratori - chiosa la donna - non possiamo occuparci anche di questo». «Non ci pagano il salario accessorio da gennaio! – rincara la dose Fabrizio. Capite? Da ben otto mesi non percepiamo il salario che ci spetta e non avremmo nemmeno il diritto di fare una legittima e regolare assemblea?». La domanda è chiaramente retorica, come lo è quella di Silvia, che, unendosi alla discussione si chiede: «Perché tutto quello che riguarda il Colosseo diventa sempre un caso enorme? Tutti i lavoratori d’Italia indicono le proprie assemblee sindacali, non capisco perché noi non potremmo. So bene che parliamo di uno dei monumenti più famosi del mondo, ma non facciamo queste cose per nuocere a qualcuno. Vogliamo solo informare le istituzioni dei problemi che riguardano il sito». Quali siano questi problemi lo spiega bene Massimo: «Quello principale è che l’organico non è sufficiente per gestire le migliaia di turisti che vengono qui tutti i giorni di tutto l’anno. Siamo pochi e male organizzati. Tra poco ci sarà il Giubileo e i visitatori saranno ancora di più: per questo chiediamo un nuovo piano di assunzioni». «Noi lavoratori - prosegue - siamo i primi a ribadire la grande importanza che il patrimonio storico-archeologico ricopre per una città come Roma. E questo lo dimostriamo ogni giorno lavorando con serietà e professionalità. Un’assemblea di tre ore non può svilire il nostro lavoro quotidiano».

Il caravanserraglio del Colosseo. Altro che sindacati, il monumento è a tutte le ore ricoperto di abusi di ogni risma, scrive “Roma fa Schifo”. Il sindaco Ignazio Marino dice: "abbiamo fatto tanto per rendere più bello il Colosseo, ora non possiamo subire il ricatto dei sindacati". Belle parole. Ma è tutto vero? L'amministrazione ha fatto tanto, questo va ammesso. Dopo decenni non c'è più una bancarella di monnezza di fronte all'Arco di Costantino, non c'è più un banchetto di paccottiglie cinesi di fronte alle Colonnacce del Foro di Nerva, non c'è più un fruttarolo in mezzo ai Fori Romani. Ma proprio per questo, proprio per essere riusciti a togliere dalle palle cotanta schifezza, che è assurdo poi cedere a tutto quello che è venuto dopo. Già, perché al di là delle proteste sindacali, al Colosseo e ai Fori una volta mandata via una anomalia (camion bar e urtisti, oltre che macchine di passaggio), si sono sostituite altre anomalie. Ancor più gravi perché per lo più abusive, aggressive. Rimane l'annoso problema dei gladiatori, ma sempre più brutti, sempre più aggressivi, sempre più fastidiosi, sempre più di cattivo gusto e fuori luogo. C'è la faccenda dei venditori di acqua. Ci sono i risciò, un autentico cancro criminale che opera (la scusa delle cooperative per reinserimento di detenuti) con le stesse modalità che hanno reso Buzzi un gigante dell'imprenditoria. C'è poi lo scempio notturno, quando i controlli (serrati durante il giorno, ma solo rivolti ai vucumprà visto che le altre modalità - gladiatori e risciò appunto - sono sul crinale tra legale e illegale) praticamente scompaiono. Il Colosseo diventa sfondo di una squallida discoteca a cielo aperto. Il ritmo tuzzettaro degli stereo dà il ritmo a improvvisati pittori che con velenosissime bombolette spray performano su pezzi di carta acetata realizzando paesaggi trash da vendere a 10€ cadauno. Di fronte alla metro, sotto l'Anfiteatro, negli slarghi del cantiere della Linea C. Almeno tre postazioni, seguitissime. Ci sono poi i lanciatori di girandole luminose, i venditori di stick di selfie sempre più lunghi e pericolosi (ne riparliamo al primo spiedino). E poi i risciò stessi, che non mollano neppure dopo il tramonto. Questo sarebbe il Colosseo pronto per il Giubileo? Il Colosseo che l'amministrazione Marino ha riconsegnato ripulito alla città? Non basta, caro sindaco, l'aver eliminato i camion bar (sperando che il Tar ad ottobre non faccia scherzi). Non basta affatto se poi non riesci, in mesi e mesi, a sistemare uno scempio come quello ad esempio dei risciò. Non basta se poi non presidi il cambio della normativa per quanto riguarda i venditori di opere "del proprio ingegno". Normativa atroce che permette a chiunque di vendere e realizzare proprie opere in mezzo alla strada occupando suolo pubblico. 

Me lo merito un Rolex?”. Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa.

In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e,  distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara.  E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.

Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.

Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.

Delitto Meredith, così la Cassazione: «Mancano prove oltre ogni dubbio». Le motivazioni che hanno portato all’assoluzione di Knox e Sollecito: «Frutto di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni», scrive la Redazione online de “Il Corriere della Sera” il 7 settembre 2015. A carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito - accusati dell’omicidio di Meredith Kercher - manca un «insieme probatorio» contrassegnato «da evidenza oltre il ragionevole dubbio». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione dei due ex fidanzati depositate stamani dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte. «Il processo - è scritto nelle motivazioni - ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine». È un dato «di indubbia pregnanza» a favore di Knox e Sollecito - «nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola» - la «assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. I Supremi giudici - nella sentenza 36080 di 52 pagine - rilevano che sul luogo del delitto e sul corpo di Meredith sono «invece state rinvenute numerose tracce riferibili al Guede», il giovane ivoriano condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l’omicidio «in concorso», con il rito abbreviato. Per quanto riguarda il gancetto del reggiseno della vittima, i Supremi giudici rilevano che la «sola traccia biologica» rinvenuta su tale gancetto non offre «certezza alcuna» in ordine alla sua «riferibilità» a Raffaele Sollecito «giacché quella traccia - sottolinea la Cassazione - è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talché si tratta di elemento privo di valore indiziario». Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali defaillance investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali «colpevoli omissioni», si sarebbe «con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità» di Knox e Sollecito rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia il 1 novembre 2007. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l’omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza rileva che la calunnia è stata confermata dalla stessa Knox in un contesto «immune da anomale pressioni psicologiche». Per questo «una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea favorevole» al ricorso nel quale la Knox ha denunciato «un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti», non potrebbe «in alcun modo scalfire» il definitivo passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza per la calunnia, «neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al Lumumba, per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche». Inoltre tali accuse - prosegue la Cassazione - «sono state confermate anche nel memoriale» firmato dalla Knox «in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con se stessa e la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da condizionamenti ambientali».

Meredith, la Cassazione. «Tanti errori nelle indagini», scrive Margherita Nanetti su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L'inchiesta sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è afflitta da "colpevoli omissioni" nelle indagini, condotte con "deprecabile pressapochismo", ed inoltre le prove genetiche – nel processo indiziario imbastito a carico della giovane americana di Seattle Amanda Knox e del suo ex fidanzato pugliese, Raffaele Sollecito - sono state "acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali". Nulla di quanto raccolto è in grado, dunque, di provare la colpevolezza "oltre ogni ragionevole dubbio". E’ questo il giudizio severo della Cassazione sull'operato degli inquirenti che si sono occupati del delitto – che rimane un caso irrisolto – avvenuto a Perugia il primo novembre del 2007, nell’abitazione di Via della Pergola dove quattro ragazze, due italiane e due straniere, convivevano quando Metz venne uccisa da più colpi di arma da taglio, soffocata dal suo stesso sangue mentre qualcuno, rimasto senza nome e a piede libero, le tappava la bocca mentre infieriva. Ad avviso della Suprema Corte, non è possibile altra soluzione che assolvere Amanda e Raffaele, come deciso lo scorso 27 marzo, dopo una altalena di verdetti. "Sono molto sollevata e contenta", ha detto a botta calda la Knox. "Emerge chiaramente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario", ha dichiarato Sollecito. Vincitrice della partita è senz'altro Giulia Bongiorno, il legale di Raffaele, alla quale la Cassazione riconosce di aver fornito "analisi ben più affidabili, ancorate a dati fattuali incontrovertibili" rispetto alle "approssimazioni" degli inquirenti, ad esempio sull'orario del delitto. E’ probabile – ricostruisce la Cassazione – che Amanda fosse in casa e che abbia sentito il terribile urlo di Metz, per poi essere raggiunta da Raffaele. Ma non si può andare oltre questa ipotesi dato che non c'è nessuna loro impronta genetica sulla scena del crimine. Anche se i loro alibi sono un pò pasticciati, sarebbe inutile un ennesimo processo: le perizie non possono essere ripetute per l’insufficienza del materiale genetico e i pc sequestrati sono andati distrutti per le "improvvide manovre degli inquirenti". L'unico condannato con rito abbreviato per omicidio in concorso con ignoti, resta l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando sedici anni. Tra le tante pecche, la Cassazione segnala che i due oggetti di "maggiore interesse investigativo", un coltello da cucina e il gancetto del reggiseno della vittima, sono stati il primo conservato "in una comune scatola di cartone", di quelle che contengono le agende che si regalano a Natale, mentre l’altro è stato raccolto da terra dopo essere stato lasciato, dai detective, sul pavimento della stanza di Metz per 46 giorni. E il giudice del rinvio – la Corte di Assise di Appello di Firenze - è incorso in "errore" nell’assegnare, invece, "valore indiziario" a elementi raccolti e repertati in tal modo. Questo processo – rilevano gli ermellini – ha avuto "un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative". Se non ci fossero state, si sarebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità" al delitto di Knox e Sollecito. Nel "percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio" di questa vicenda c'è un "solo dato di irrefutabile certezza": la colpevolezza di Amanda per aver accusato del delitto, calunniosamente, Patrick Lumumba. L’ex proprietario del pub dove Amanda lavorava ha ricordato di aver avuto la vita e la salute rovinata da quella menzogna. "L'inusitato clamore mediatico" e i "riflessi internazionali" del caso non hanno "certamente giovato alla ricerca della verità" perchè hanno provocato una "improvvisa accelerazione" delle indagini "nella spasmodica ricerca" di colpevoli "da consegnare all’opinione pubblica internazionale", osserva infine l'alta Corte mettendo anche l’informazione tra gli imputati di questa debacle investigativa e della giustizia.

I «pasticci»: dai pc bruciati al dna sul coltello, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sarebbe inutile processare nuovamente Knox e, per il delitto Kercher dato che è "negativa" la risposta sulla "possibilità oggettiva" di condurre ulteriori accertamenti che "possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza". Lo sottolinea la Cassazione rilevando che i pc della Knox e della vittima "che forse avrebbero potuto dare notizie utili, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti" e le tracce biologiche sono di "esigua entità" per essere rianalizzate. Ad avviso della Cassazione "per discutibile scelta strategica dei genetisti della Polizia Scientifica" si ritenne "di privilegiare l’indagine volta all’individuazione del profilo genetico nelle tracce repertate sul coltello, piuttosto che accertarne la natura biologica, dato che l’esigua quantità dei campioni non consentiva un doppio accertamento". Questa scelta, per la Suprema Corte, è stata una "opzione assai discutibile, in quanto l'individuazione di tracce ematiche, riferibili alla Kercher, avrebbe consegnato al processo un dato di formidabile rilievo probatorio, certificando incontrovertibilmente l’utilizzo dell’arma per la consumazione dell’omicidio". Ad avviso degli Ermellini, invece, "la riscontrata imputabilità delle tracce a profili genetici della Knox si risolve in un dato non univoco ed anzi indifferente, dato che la giovane statunitense conviveva con il Sollecito, dividendosi tra la sua abitazione e quella di via della Pergola", spiega la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Knox e Sollecito.

Omicidio di Perugia, Corte di Cassazione: "Colpevoli omissioni nelle indagini, bruciati pc di Amanda Knox e Mex", scrive “Libero Quotidiano”. Amanda Knox e Raffaele Sollecito lo scorso 27 marzo 2015 sono stati assolti dall'accusa di omicidio di Meredith Kercher perché contro di loro manca un "insieme probatorio" contrassegnato "da evidenza oltre il ragionevole dubbio". Queste le motivazioni dell'assoluzione depositate oggi, lunedì 7 settembre, dalla Corte di Cassazione, che sottolinea: "Il processo ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". Ma è quando la Suprema Corte entra nel dettaglio delle "colpevoli omissioni" che si scoprono particolari inquietanti. I pc di Amanda e di Meredith, "che forse avrebbero potuto dare notizie utili - recitano le motivazioni -, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti". E se tutto si fosse svolto con rigore e puntualità che cosa sarebbe successo? La Corte rimarca le pesanti responsabilità degli inquirenti, affermando che un accurato lavoro di indagine avrebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell'estraneità" dei due ex-imputati. Nelle 52 pagine della sentenza i Supremi giudici rilevano la "assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili" sia sul corpo della vittima sia nel luogo dell'omicidio, mentre ne sono state trovate numerose "riferibili al Guede", l'ivoriano condannato a 16 anni in via definitiva per l’omicidio "in concorso". Anche la tristemente famosa traccia sul gancetto del reggiseno della vittima non offre "certezza alcuna", poiché, "stante la sua esiguità" è un "elemento privo di valore indiziario".

Errore che rimarrà nella storia, scrive Claudio Sebastiani su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Raffaele Sollecito non ha dubbi che a coinvolgerlo nell’indagine sull'omicidio di Meredith Kercher sia stato "un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia". Lo ha detto dopo avere letto le motivazioni con le quali la Cassazione ha definitivamente assolto lui e Amanda Knox dall’accusa di avere ucciso a Perugia la studentessa inglese. Mentre dall’altra parte dell’oceano la sua ex fidanzata ha sottolineato di essere "molto contenta e sollevata". Nonostante le 52 pagine depositate dalla Cassazione siano arrivate via mail a Seattle quando nella città americana era ancora prima mattina, la Knox le ha subito lette tutte. "Grazie..." ha ripetuto ai suoi difensori, gli avvocati Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. "Sono contenta – ha aggiunto - perchè in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto". Motivazioni che ha subito esaminato anche Sollecito. "Da quello che ho letto – le sue parole – emerge chiaramente e definitivamente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Le indagini sono state estremamente lacunose e piene di errori. Grazie a tutto ciò ho trascorso quattro anni in carcere più altri quattro di tormento per nulla". Per il periodo passato in cella Sollecito "sicuramente" chiederà di essere risarcito per ingiusta detenzione, come annuncia l’avvocato Luca Maori. Mentre per l’altro difensore, l'avvocato Giulia Bongiorno la Cassazione conferma "una volta di più" che il suo assistito "è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente". E lo ha fatto con una motivazione che "prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini". Per Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’assise d’appello di Perugia che aveva assolto i due giovani dopo la condanna in primo grado "i giudici della Cassazione sono stati più cattivi di noi parlando del modo in cui la polizia ha condotto le indagini sul delitto". "L'unico responsabile – ha aggiunto – è Rudy Guede (definitivamente condannato a 16 anni con l’abbreviato – ndr) e se con lui c'erano altre persone non si può verificare perchè le indagini sono state condotte male". "A distanza di anni – ha sottolineato ancora Pratillo Hellmann - confermo che l’unico elemento certo in questa vicenda giudiziaria è rappresentato dalla morte di Meredith". Secondo i Supremi giudici rimane però certa anche la colpevolezza della Knox per "le calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba". Che ora si chiede: "perchè lo ha fatto?". "Mi ha distrutto la vita – ha aggiunto – in tutti i modi, moralmente ed economicamente. Mi deve risarcire e mi deve chiedere scusa". Di "volontà da parte della giustizia italiana di mettere la parola fine su questa vicenda in ogni modo" ha parlato l'avvocato Francesco Maresca, parte civile nel processo per la famiglia Kercher. Che ha evidenziato "incertezze e dubbi". "Ma le sentenze – ha concluso – si rispettano. E noi rispetteremo questa sentenza tenendoci i nostri dubbi".

"L'Inchiesta Meredith fatta male". Le motivazioni della Cassazione e le dure accuse agli investigatori: "Su Amanda Knox e Raffaele Sollecito prove scarse e contraddittorie", scrive Ang. D. Pie. su “Il Tempo". Il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso la coinquilina di lei, Meredith Kercher, il primo novembre 2007 a Perugia, ha avuto un iter "obiettivamente ondivago". Nessuna prova, accertamenti incongrui, risultanze investigative approssimative. Inchiesta fatta male insomma. Anzi malissimo. Nessun accento intriso di diplomazia nella motivazioni che ieri mattina ha depositato la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, quella stessa Corte che il 27 marzo scorso aveva assolto definitivamente gli ex fidanzatini dall'accusa di essere gli autori del delitto insieme all'ivoriano Rudy Guede, condannato a sedici anni di reclusione. Dopo otto anni di incertezze giudiziarie, epiloghi che si sono susseguiti smentendosi a vicenda, dopo le grasse risate che la stampa estera ha riservato ad un’Italia giuridicamente ritenuta poco autorevole, un finale che è l'equivalente di una frenata a secco. Di più: è una bacchettata a tutti, giudici e investigatori. La Cassazione non palesa incertezze: «Si può escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell'ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola, in virtù della assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. Sconfessate le analisi sul gancetto del reggiseno della vittima e sul coltello trovato in casa di Raffaele Sollecito. La Cassazione ha smentito con cinquantadue pagine le accuse di altri cinquanta giudici che avevano invece giudicato colpevoli i due ragazzi. Che l’inchiesta abbia avuto un percorso talvolta obliquo è vero. Troppa attenzione da parte dei media e soprattutto, troppa attenzione da parte degli Stati Uniti che si è mobilitata in favore di Amanda Knox arrivando a scomodare persino Hillary Clinton, all'epoca in piena campagna presidenziale. Inchiesta lacunosa, accertamenti svolti con piglio discutibile. Poca perizia utilizzata per un caso così delicato: un delitto che dispone di un movente poco solido e di una vittima che è morta sgozzata dopo aver ricevuto 47 coltellate. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l'omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Patrick Lumumba era (è) il gestore del bar in cui lavoricchiava la Knox. Lei lo aveva accusato dell’omicidio in maniera trasversale ma efficace, subito dopo la scoperta del corpo di Meredith, sgozzata, nella camera da letto della casa presepiale in cui viveva con altre studentesse fra le quali proprio Amanda Knox. Lumumba ieri ha reiterato i suoi dubbi: «Non riesco proprio a capire per quale motivo Amanda mi abbia accusato. Questa storia mi ha rovinato professionalmente, umanamente, psicologicamente». E c'è da stare certi che i suoi legali stiano preparando una richiesta di risarcimento congrua. Le motivazioni depositate nella giornata di ieri dalla Cassazione puntano il dito contro Rudy Guede, la cui impronta intrisa di sangue fu trovata sotto il corpo della vittima. Restano sparsi qua e là i punti interrogativi e qualche dubbio sul movente ma la storia si chiude senza altra possibilità. «Sono sollevata e contenta» - ha detto la Knox dagli Stati Uniti, parole di felicità avallate dal suo avvocato che ha dichiarato: «In queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto». Il legale ha anche parlato di "bacchettata" dei giudici e di "biasimo solenne". Una volta tanto, devono aver pensato i rigorosissimi americani, anche in Italia è stato usato, sia pur verbalmente, il pugno di ferro. Raffaele Sollecito conta i danni, anche lui: «Rimarrà alla storia il fatto che io sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Quattro anni in prigione e quattro anni di tormenti per niente e tutto a causa di indagini lacunose e piene di errori». La famiglia Kercher vive il suo dolore, immutato, in Inghilterra. Già nel marzo scorso, il ventisette, giorno della sentenza della Corte di Cassazione, i genitori si erano dichiarati distrutti ed avevano palesato un dolore mai guarito. «Noi cerchiamo la verità, solo la verità» dissero. Quella verità è arrivata ieri in maniera definitiva, nonostante l’Italia resti mediaticamente divisa fra innocentisti e colpevolisti.

Meredith, un’inchiesta sbagliata che sconvolge tante vite. Gli errori nell’indagine hanno compromesso la possibilità di arrivare alla verità, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Sono impietosi i giudici della Corte di Cassazione nella scelta dei termini per descrivere le indagini sul delitto di Meredith Kercher e motivare l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Perché arrivano a parlare di «amnesie investigative» e di «colpevoli omissioni», ma soprattutto perché chiaramente evidenziano come un’attività seria e accurata avrebbe consentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia. I genitori e i fratelli di Mez non sapranno mai perché la loro ragazza bella e solare, venuta in Italia per studiare, abbia trovato la morte in una maniera tanto assurda. Quegli «errori gravi» e quelle «scelte discutibili» dei pubblici ministeri e degli investigatori hanno compromesso per sempre il loro diritto a conoscere l’identità dell’assassino e dei suoi eventuali complici. Eppure un appiglio era stato fornito proprio da Amanda, durante la famosa notte trascorsa in questura quando nulla ancora si sapeva dell’omicidio, e lei descrisse le fasi del delitto accusando ingiustamente Patrick Lumumba «in un contesto immune da anomale pressioni psicologiche», mettendolo al posto di Rudy Guede. È bene tenere a mente l’evoluzione di questo processo per comprendere che sbagli, anche apparentemente non gravi, rischiano di compromettere l’esito di un’intera inchiesta. Le moderne tecniche scientifiche possono fornire un supporto formidabile, ma deve appunto trattarsi di un supporto. Credere che tutto possa essere affidato ai risultati di test e analisi è un’illusione che può generare gravissime conseguenze. Bisogna ricordarsi che la ricerca della verità coinvolge tutti i protagonisti: parti lese, imputati, semplici testimoni. E dunque bisogna essere cauti, evitando di travolgere, spesso irreparabilmente, le loro esistenze.

Ciò, nonostante, il 27 marzo 2015, esattamente come il 3 ottobre 2011 fuori dal tribunale dopo la seconda sentenza che li aveva assolti, la città di Perugia si ribella ancora all'assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Un'attesa, per la decisione della Cassazione, che è cresciuta in città di ora in ora. Perché la ferita di quell'omicidio della giovane studentessa inglese è ancora avvertita viva nel capoluogo, e sette lunghi anni non sono riusciti a cicatrizzarla. Così, quando le agenzie e i giornali hanno iniziato a battere e condividere sui social network la notizia che i due ex fidanzati sono stati assolti, immediata è stata la reazione rabbiosa dei perugini: «E' una vergogna» è il commento lapidario e sdegnato, il sentimento più diffuso. «Che schifo». «Siamo un Paese allo sbaraglio».

E di questi scemi ne è pena l’Italia. Poveri italioti allo sbaraglio.

Il delitto Meredith e la Cassazione Amanda: mi sento come Alice fuori dal Paese delle Meraviglie. L’americana in lacrime al telefono con gli avvocati: «È tutto quello che sostenevamo» Lei e Raffaele Sollecito annunciano: pronti a chiedere i danni, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. «Io e Colin ci siamo scambiati uno sguardo di sollievo, come Alice quando si sveglia fuori dal Paese delle Meraviglie...». È il sollievo di Amanda Knox, nel giorno in cui la Cassazione - quasi otto anni dopo - fa a pezzi l’inchiesta sul delitto di Perugia, il delitto di Mez. Amanda lo scrive sul West Seattle Herald, il giornale della sua città, poche ore dopo l’uscita delle motivazioni della Suprema Corte. Il suo articolo è pubblicato sul sito del giornale in prima pagina, perché questo è il suo giorno ed è lei è la protagonista assoluta. L’avvocato romano Carlo Dalla Vedova le ha già mandato la mail con tutti i dettagli. La ragazza non sta nella pelle, l’incubo è svanito per sempre, allora parla e piange al telefono con lui e con l’altro legale, Luciano Ghirga: «Mi sono fatta quattro anni di carcere, quattro anni precisi, anzi quattro anni meno due giorni e questi di sicuro non me li ridarà indietro più nessuno. Ma è l’unico cruccio. Per il resto oggi sono contenta, contentissima e voglio dire grazie, grazie, grazie a lei avvocato Ghirga come ho già detto grazie all’avvocato Dalla Vedova. Sì, sono felice». E allora si mette a scrivere, Amanda. Collabora col West Seattle Herald ormai da quasi un anno e il suo articolo è pieno di sensazioni. Racconta di un viaggio, sabato scorso, da Seattle a Tacoma in compagnia del suo fidanzato, Colin Sutherland, un giovane musicista (27 anni come Amanda) che suona la chitarra basso in un gruppo rock e lo chiamano per questo Rombo di tuono. Amanda parla del viaggio, ma è come se parlasse del suo processo. Colin ha vissuto vicino a lei tutto il travaglio dell’ultimo periodo, l’ansia terribile, la paura di essere estradata in Italia in caso di condanna definitiva e, invece, a marzo scorso, la liberazione. Assolta. Forse un giorno lei e Colin si sposeranno, anche se l’avvocato Dalla Vedova dice che per ora non ci sono progetti matrimoniali all’orizzonte. Col gatto Picard acciambellato in grembo, Amanda Knox si gode ora ciò che ha scritto la Cassazione. Colpi di maglio sui metodi utilizzati da chi ha fatto le indagini. «Sono molto sollevata, perché in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto», dice all’avvocato Dalla Vedova. Naturalmente, ma ci sono 18 mesi di tempo, verrà il giorno in cui gli avvocati di Amanda chiederanno i danni allo Stato per i 4 anni di carcere ingiusto. Anche l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’altro grande imputato di questa storia, Raffaele Sollecito, dice che la sentenza «prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini» e che Sollecito «è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente». La richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, così, è dietro l’angolo. Lo stesso Sollecito lo fa capire: «Sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia. Grazie a tutto ciò, ho trascorso 4 anni in carcere più altri 4 di tormento per nulla». Già, ma adesso è davvero finita: «Qui piove a dirotto - scrive Amanda da Seattle - ma io amo la pioggia». 

Raffaele Sollecito dopo le motivazioni della Corte di Cassazione: "Chiederò un risarcimento danni per ingiusta detenzione", scrive “Libero Quotidiano”. "Io vittima di un clamoroso errore giudiziario, che resterà nella storia". Così Raffaele Sollecito, dopo aver letto le motivazioni depositate dalla Corte di Cassazione, che ha assolto lui e Amanda Knox, accusati dell'omicidio di Meredith Kercher, sostenendo che nel l'indagine è stata compromessa da numerose defaillance. Sollecito ha detto di aver trascorso quattro anni in carcere per colpa delle lacune nelle indagini evidenziate nella sentenza della Corte. Anche l'avvocato del ragazzo, Giulia Bongiorno, ha commentato la vicenda, affermando che le motivazioni raddoppiano la soddisfazione per l'assoluzione. Secondo la Bongiorno la sentenza "dipinge il quadro di un clamoroso errore giudiziario", a causa del quale, Sollecito è stato in carcere quattro anni da innocente. La Bongiorno ha annunciato che sarà presentata una richiesta di danni per ingiusta detenzione.

"Una sentenza netta Passerà alla storia". L’intervista a Giulia Bongiorno, l'avvocato che ha difeso Raffaele Sollecito, scrive An. D. Pie su “Il Tempo”. L’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito aiutandolo ad attraversare questi otto anni di contraddittorietà processuali con il consueto piglio, è visibilmente soddisfatta. Di più: la sua voce tradisce appena appena una emozione profonda che non ha niente a che fare con l’orgoglio professionale. Aver stravinto, dopo aver vinto, sembra costituire un dettaglio che amplifica ma non rappresenta l’essenza di una gioia che appare tutta personale. Dal momento in cui sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha assolto al di là di ogni ragionevole dubbio gli ex fidanzatini accusati dell’omicidio dell’inglese Meredith Kercher, è stata investita da una valanga di richieste di interviste. Dall’Italia e dall’estero.

Una sentenza che è motivata con una serie di "bacchettate" contro tutti, è d’accordo?

«Questa è una sentenza che passerà alla storia per la nettezza delle sue affermazioni. Le risultanze di un processo lasciano ombre, lasciano grigiori: in questo caso la Corte di Cassazione ha utilizzato una clava nei confronti degli investigatori, tale era l’evidente innocenza di Raffaele Sollecito e Amanda Knox».

Avvocato, ha già sentito Raffaele Sollecito? Siete ancora decisi a chiedere un risarcimento allo Stato italiano?

«No, non ho ancora sentito Raffaele Sollecito. Non ne ho avuto il tempo, voi giornalisti mi avete letteralmente subissata di chiamate. Sicuramente chiederemo un risarcimento allo Stato. Non subito, almeno tra due settimane. Sollecito è stato arrestato ed ha subìto una ingiustizia enorme, era innocente e ha passato un inferno. Il carcere, i dubbi della gente, i problemi di varia natura. Anni orribili per lui e per la sua famiglia».

La Giustizia italiana esce a pezzi da questa inchiesta: la stampa estera è stata molto severa fino ad oggi riguardo agli sviluppi del caso...

«Quando l’epilogo è di questo tipo significa che il meccanismo ha funzionato, tuttavia è vero che il tema della qualità delle investigazioni va affrontato e forse giudicato severamente. Niente è stato analizzato come avrebbe dovuto: dall’ora del delitto agli accertamenti scientifici».

Ci si chiede allora perché l’accanimento contro l’americanina dagli occhi di ghiaccio e l’ex fidanzato forse a quei tempi succube della sua amica del cuore spregiudicata e indubbiamente sfrontata. Sono state due vittime, insomma?

«Accusare loro due significava rassicurare Perugia. In giro non c’era un mostro, ma il delitto era la tragica conseguenza di un gioco erotico fra ragazzi. Diciamo che i due ragazzi sono stati messi in mezzo perché erano la soluzione più facile, quella semplice in grado di chiudere il caso velocemente, con buona pace di tutti. Non ha contribuito ad aiutarli l’atteggiamento in aula di Amanda Knox, che ai media sembrava sfilare più che partecipare a un processo, le telecamere indugiavano sulle sue magliette aderenti».

Il sistema giudiziario italiano meriterebbe una riforma?

«Io sono molto critica nei confronti di questo Governo. Renzi non ha fatto proprio niente per la Giustizia, la svolta che si attendeva non c’è stata. Non dico che sia necessario eliminare i gradi di giudizio, questo no, ma sicuramente c’è bisogno di una riforma. C’è inoltre una scarsa attenzione verso l’errore giudiziario, sono necessari nuovi meccanismi per l’effettuazione di indagini più celeri».

Già. Chi lo dice ai voltagabbana dei media giustizialisti che loro fanno schifo? Ora tutti a battere la notizia clamorosa dettata dalla Cassazione. Fino a ieri, invece a stilare gocce di dubbio sull’assoluzione di Amanda e Raffaele.

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Chi sventola cappi finisce impiccato sui suoi patiboli. Il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso. È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'intolleranza, scrive Arturo Diaconale su “Il Giornale”. A differenza di quanto ha sostenuto Raffaele Cantone non trovo per nulla meritoria la decisione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi di emettere liste di proscrizione di presunti «impresentabili» alla vigilia delle elezioni regionali di domenica prossima. E, sempre a differenza di quanto affermato dal presidente dell'autorità Anticorruzione non considero soltanto «pericoloso» che a dare patenti di presentabilità sia una autorità politica e non una autorità giudiziaria. In realtà il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso (ma Cantone si rende conto della contraddittorietà delle sue affermazioni?). È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'arbitrio, della prevaricazione, dell'intolleranza. In una parola verso il trionfo di un giacobinismo terroristico incompatibile con il sistema democratico e funzionale ad ogni tipo di avventura autoritaria. La Costituzione stabilisce che la linea della presentabilità o meno di un cittadino nella vita pubblica è fissata dalla presunzione d'innocenza. Se si è condannati in via definitiva si è «impresentabili». Prima di questa condanna si continua ad essere titolari dei diritti civili e politici. Ma questa linea, che è quella della verità giudiziaria, è stata superata da tempo. L'egemonia giustizialista degli ultimi vent'anni l'ha ridotta a reperto archeologico, da considerare abrogata di fatto dalla Carta costituzionale. Ad essa è stata sostituita prima quella della incensurabilità delle persone. Che stabilisce la presentabilità o meno a seconda se si sia incensurati o no a prescindere dalla gravità dei reati. Una linea che è sempre legata alla «verità giudiziaria». E, successivamente, quella della eticità e della moralità del comportamento delle persone. Linea che supera il confine fissato dai giudizi della magistratura, che comunque debbono rispondere ai criteri della equanimità, della terzietà, dell'oggettività, e stabilisce che la presentabilità debba discendere dal giudizio etico e morale dato da una opinione pubblica normalmente influenzata dal circuito mediatico-giudiziario. Con la presentabilità dipendente da un giudizio etico e morale siamo già ampiamente fuori del perimetro costituzionale. Ma con la scelta della commissione Antimafia di stilare liste di proscrizione si compie un salto più lungo e decisivo. Si stabilisce che la linea della presentabilità è data dalla verità politica. Una verità che non risponde mai ai valori ma sempre alle convenienze. Che per definizione non può mai essere equanime, terza, oggettiva ma sempre di parte. Che dipende da maggioranze variabili, occasionali, aleatorie. E che, soprattutto, viene regolarmente imposta da chi urla più forte e sventola più minacciosamente cappi, forche e manette per suggestionare una opinione pubblica naturalmente portata, in tempi di crisi, a scaricare le sue paure e tensioni sui facili capri espiatori. È dai tempi di Gesù e Barabba che la verità politica provoca aberrazioni. Rosy Bindi, che si dice cattolica, dovrebbe ricordarlo. E chi lo ha dimenticato dentro la commissione Antimafia in nome di un giacobinismo strumentale e da operetta non solo dovrebbe tenerlo a mente ma anche non dimenticare mai che a lungo andare i giacobini intolleranti finiscono con salire sui patiboli da loro stessi impiantati. I puri hanno sempre in sorte di trovare i più puri che li epurano!

Una legge contro la proscrizione, scrive Maddalena Tulanti su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Brutta giornata ieri per i candidati presidenti alla regione Puglia. Rosi Bindi, presidente della commissione antimafia, ha reso noto (per la verità nel suo staff dicono che c’è stata la solita fuga di notizie) i nomi dei candidati pugliesi che sarebbe stato meglio non mettere in lista, i cosiddetti “ impresentabili”, e sono stati dolori per Emiliano, Schittulli e Poli Bortone. Ne sono stati individuati 4, due sono schierati nel movimento di Schittulli, 1 per Poli Bortone e 1 per Emiliano. I soliti malpensanti si sono chiesti come mai sono usciti solo i nomi dei candidati pugliesi e qualcuno addirittura ha lasciato intendere che dopo la sparata di Emiliano contro la presidente Bindi di qualche giorno fa era il minimo che il quasi governatore si potesse aspettare. Noi non ci crediamo, riportiamo il pettegolezzo solo per far comprendere quanto il clima si stia avvelenando mano a mano che ci avviciniamo alla giornata del voto. I nomi degli “impresentabili” li avrete letti nelle cronache, evitiamo di farli di nuovo e non a caso. A noi le liste dei cattivi non sono mai piaciute, nemmeno a scuola quando la maestra ci chiedeva di farlo mentre lei si assentava. Come quelle di proscrizione, queste liste sono sempre fatte a fin di bene, per mantenere o un ripristinare l’ordine costituito, e abbiamo imparato da tempo quanto inferno può nascondersi dietro a un bisogno di paradiso. Detto questo, non è che ci piaccia che le liste, quelle elettorali stavolta, siano formate senza badare a chi ci fa parte, contando soprattutto sulla “quantità” dei voti che un candidato/una candidata è capace di portare invece che sulla “qualità” di quello che egli/ella rappresenta. Che si fa allora? Si fa finta di niente o si accetta il disonore pubblico? Non si può fare finta di niente, è evidente. Se la commissione antimafia si è messa a spulciare ogni lista presentata in tutte le regioni in cui si vota è probabile che il sospetto che si eleggano persone colluse con poteri criminali o semplicemente che hanno avuto a che fare con la legge, esiste eccome. Quindi ben venga la ricerca delle pecore nere. Ma non per questo si deve agire con l’accetta. Siamo di fronte a un equilibrio delicatissimo, da una parte c’è il diritto a essere considerato una persona perbene fino all’ultimo grado di giudizio; dall’altro bisogna garantire a chi si reca alle urne la certezza che su nessuna delle persone scese in campo possa essere sollevato un dubbio di nessun genere. Insomma se ne esce in un unico modo, attraverso la legge. Si cambino le regole, si decida chi può essere candidato e chi no in maniera più severa. E poi solo silenzio.

Le liste di proscrizione. La bomba illegale della Bindi sulle elezioni amministrative 2015, scrive Magazine Donna. Con una scelta che dire grottesca è poco, Rosy Bindi e la sua commissione parlamentare antimafia venerdì 29 maggio 2015 – a quarantotto ore dalle elezioni regionali – compileranno una lista di proscrizione elencando i politici inseriti in lista dai vari partiti e accettati dagli organi di controllo che invece sarebbero «impresentabili» in base a un fragile codice di buona condotta. La Bindi e i suoi avrebbero dovuto rendere nota quella lista ieri, ma hanno litigato un bel po’ in ufficio di presidenza e dopo ore hanno offerto due sole sentenze: in Liguria nessun candidato è risultato «impresentabile», e in Puglia invece ce ne sarebbero 4, rigorosamente bipartisan: Giovanni Copertino (Forza Italia, circoscrizione Bari); Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano, circoscrizione Bari); Massimiliano Oggiano (Oltre con Fitto, Schittulli presidente, circoscrizione Brindisi) e Enzo Palmisano (Movimento politico per Schittulli, area popolare, circoscrizione Brindisi). I soli quattro nomi apparsi nella prima bozza della lista di proscrizione fan ben capire come l’operazione sia squisitamente politica, probabilmente mira a Matteo Renzi e ai suoi candidati (la Bindi fa parte della minoranza del Pd), e di tecnico abbia ben poco. Tutti e quattro i candidati pugliesi ritenuti «impresentabili» hanno effettivamente avuto problemi con la giustizia in passato. Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali. Siccome la legge c’è, e viene applicata, la Bindi e l’ufficio di presidenza dell’antimafia sanno benissimo che qualsiasi candidato bolleranno come «impresentabile» venerdì prossimo (con un pessimo servizio anche agli elettori, visto che glielo dicono a cose ormai fatte), non lo sarà affatto: per la con-testatissima e dura legge vigente, saranno tutti sia presentabili che eleggibili. Senza stare a girare troppo intorno, c’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale: perchè mai Renzi ha accettato quella candidatura e si è speso addirittura a fare campagna elettorale per un candidato-fantasma? Questa è l’unica domanda lecita che si potrebbe fare, tutto il resto fa parte di un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. E per fortuna è così, visto il tipino peperino. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione: i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire e fermare quello che sembra più che altro un regolamento di conti interno ai vari partiti politici. Si può giudicare «politicamente» impresentabili dei candidati anche incensurati, o che abbiano su di loro il sospetto di una inchiesta allo stato iniziale. Questa è scelta legittima se fatta in una polemica politica, in un editoriale, in una battaglia giornalistica. Non da una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone che fa diventare «impresentabile» qualcuno il reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, si faceva prima a buttare via tutte le liste e rinviare le regionali a migliore occasione…

Precedenti da far rabbrividire, scrive Mattia su "Butta". Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. (art. 49 della costituzione italiana). Mi sa che questa cosa degli impresentabili sia un po’ sfuggita di mano. Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto. Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi. Ma fin tanto che è la parola di alcuni privati cittadini, per quanto scorretta, tale rimane. Dove hanno perso la testa è stato alla commissione anti mafia. Dicono che entro venerdì usciranno con una lista di candidati impresentabili. Ohi, non sto parlando di privati cittadini, ma di una istituzione. Un pezzo del parlamento che si riunisce e fa la lista dei candidati che sono degni e dei candidati che sono non degni. Una roba da far rabbrividire i capezzoli. Ah, ma dicono, le indicazioni non sono vincolanti! E ci mancherebbe altro. Figuriamoci se un organo politico come un pezzo di parlamento avesse il diritto di decidere di espellere dalle liste chi non gli garba. Eh, però – aggiungono – si limitano ad applicare il codice di autoregolamentazione dei partiti. Che però ha il valore legale di un peto. I partiti (o meglio, alcuni partiti) possono anche trovarsi un pomeriggio sotto un albero e fare un pinchi suee decidendo di non candidare chi si trova in certe condizioni. Ma  tutto il resto del paese non è tenuto a rispettarlo. Se i partiti vogliono che chi si trova nelle condizioni di Caio non sia candidabile approvino una legge in parlamento che dice proprio questo. Quando sarà legge dello Stato tutti saremo obbligati a rispettarla, ma finché rimane un pinchi suee dei partiti no. Forse non percepite la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, una istituzione, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni. Oggi fanno la lista di proscrizione in base al loro patto tra partiti (senza valore giuridico), domani si allargheranno e diranno che sono impresentabili quelli che hanno fatto un provino per il Grande Fratello o che nella vita fanno gli operai. Se ci fosse un presidente della repubblica degno di questo nome avrebbe già preso il telefono, avrebbe chiamato la Bindi e le avrebbe detto “senti Rosaria, adesso tu prendi un quaderno, penna e calamaio e scrivi 500 volte l’art. 49 della costituzione. Poi quando hai finito me lo porti al colle e mi prometti di non fare più certe stronzate, ok? Piesse: e non dico niente su quello che dovrebbe fare la Boldrini perché quella mi sa che la costituzione non l’ha neanche mai letta.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

ANAS: UFFICIO MAZZETTE E CILIEGIE A GO GO'.

Tangenti per appalti Anas: 10 arresti C’è anche un ex sottosegretario. Si tratta Luigi Giuseppe Meduri, alle Infrastrutture nel governo Prodi. Nelle intercettazioni si parla di «stringere ai fianchi» gli imprenditori che non pagano. Lavori affidati anche a ditte contigue alla ‘ndrangheta, scrivono Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" del 22 ottobre 2015. Una «cellula criminale» che aveva un «diffuso rapporto di connivenza in tutta Italia» e che, come nei contesti mafiosi, utilizzava i pizzini per scambiarsi le informazioni «in modo da non lasciare traccia degli accordi corruttivi». Era ciò che accadeva, secondo la Guardia di finanza, all’interno della direzione generale dell’Anas, la più grande stazione appaltante pubblica d’Italia, oggi scossa dal terremoto generato dall’inchiesta «Dama nera»: dieci ordinanze di custodia cautelare, 31 indagati, un giro di tangenti di 200 mila euro utilizzate per «muovere» appalti del valore di centinaia di milioni. Insomma, «un sistema collaudato, tutt’altro che episodico», sfociato nell’arresto di un ex sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Prodi, cinque dirigenti e funzionari dell’Anas, un avvocato e tre imprenditori che si sono aggiudicati le gare. Associazione a delinquere, corruzione e voto di scambio sono le accuse contestate dalla Procura di Roma all’organizzazione in cui i dipendenti pubblici infedeli «prendevano soldi da tutto ciò che poteva essere trasformato in denaro». Mazzette che, stando alle intercettazioni, erano state ribattezzate con nomi innocui come «ciliegie», «libri», «topolini», «medicinali antinfiammatori». Luigi Giuseppe Meduri, 73 anni, cresciuto politicamente con la Dc, poi deputato di centrosinistra, tuttora iscritto al Pd, presidente della Regione Calabria dal gennaio 1999 all’aprile 2000 e dal maggio 2006 al maggio 2008, è l’ex sottosegretario del ministero delle Infrastrutture finito ai domiciliari. In carcere la «dama nera», cioè la dirigente dell’Anas Antonella Accroglianò , 54 anni, considerata al vertice dell’organizzazione. Il gip Giulia Proto ha disposto la stessa misura nei confronti dei suoi colleghi Oreste De Grossi, 59 anni, e Sergio Serafino Lagrotteria, 48 anni, e dei funzionari Giovanni Parlato, 48 anni, e Antonino Ferrante, 54 anni. Ai domiciliari, oltre a Meduri, l’avvocato del Foro di Catanzaro Eugenio Battaglia, 53 anni, e gli imprenditori Concetto Albino Bosco Lo Giudice, 52 anni, Francesco Domenico Costanzo, 53 anni, e Giuliano Vidoni, 70 anni. Per gli investigatori del Nucleo tributario Meduri, «oscuro faccendiere», era l’interfaccia politica della Accroglianò. L’ex sottosegretario da un lato si sarebbe adoperato per mettere a disposizione il suo pacchetto di voti a favore del fratello della dirigente, Galdino, candidato nelle liste dell’Udc in in Calabria a novembre 2014; dall’altro si sarebbe dato da fare per procurargli una poltrona all’interno di una società della Regione dopo il fallimento alle elezioni: in cambio Meduri avrebbe chiesto alla Accroglianò due posti da geometri all’Anas. E per far eleggere il fratello la «dama nera» si sarebbe spesa anche in prima persona, cercando di far assumere in una società legata all’Anas un certo Pasquale Perri, calabrese, che avrebbe sponsorizzato la candidatura di Galdino con parenti e amici. Ma l’ex presidente della Regione Calabria avrebbe anche fatto da intermediario tra la dirigente e gli imprenditori catanesi Bosco Lo Giudice e Costanzo, colpevoli di aver ritardato il pagamento di una tangente relativa alla gara da 145 milioni per la realizzazione della variante di Morbegno, in Lombardia. I due, attraverso Meduri, avrebbero chiesto alla Accroglianò la cessione del contratto d’appalto, pratica vietata dalla legge. Gli investigatori del Gico hanno documentato almeno sei passaggi di denaro, dal dicembre 2014 all’agosto 2015, per un totale di circa 150 mila euro. «Meduri ha certamente una funzione di supporto non indifferente - scrive il gip nelle oltre cento pagine di misura cautelare - dal momento che lui stesso richiama gli imprenditori ai loro illeciti doveri ove gli stessi versino in ritardo sui pagamenti» Ed è «la stessa Antonella Accroglianò che dice di aver recuperato una delle tranche corruttive grazie a Meduri, al quale lei si rivolge quando “quelli” spariscono. E d’altra parte il suggerimento di stringerli ai fianchi per recuperare il denaro proviene proprio dal politico». In un’altra gara a Palizzi (Reggio Calabria) la «dama nera» avrebbe «consigliato» ai titolari dell’impresa aggiudicataria di subappaltare alcune opere a ditte contigue ai clan. La dirigente infatti da una parte avrebbe chiesto l’assunzione di operai e geometri; dall’altra avrebbe esercitato «pressioni inequivoche affinché la fornitura del calcestruzzo e il movimento terra, attività notoriamente di interesse quasi esclusivo delle cosche della `ndrangheta in quei territori, venisse affidato ad una persona di sua fiducia». Il blitz delle Fiamme gialle è scattato all’alba: circa 300 finanzieri del Gico hanno eseguito, oltre alle ordinanze di custodia, più di 90 perquisizioni in dieci Regioni e 23 città: Lazio, Calabria (Catanzaro e Cosenza), Puglia (Bari), Campania, Sicilia(Catania, Messina e Siracusa), Friuli Venezia Giulia (Udine e Gorizia), Toscana (Arezzo), Umbria, Piemonte (Torino e Vercelli), Veneto (Venezia e Padova) e Abruzzo. Sequestrati per equivalente 200 mila euro, 70 mila dei quali in contanti e gioielli a casa della madre della Accroglianò. «La sensazione è deprimente vista proprio la quotidianità della corruzione», ha detto sconsolato il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, nella conferenza stampa con il comandante provinciale della Finanza Giuseppe Magliocco, quello del Nucleo tributario Cosimo Di Gesù e quello del Gico Gerardo Mastrodomenico. La «dama nera», ha spiegato il magistrato, «ha sempre la borsa aperta, tratta male chi ritarda i pagamenti e anche i suoi collaboratori che fanno male non le pratiche, ma la riscossione delle mazzette dagli imprenditori». Pignatone ha anche sottolineato l’importanza delle intercettazioni nelle indagini per corruzione, sostenendo che senza di esse «i processi per corruzione non si possono fare». E infine il procuratore ha precisato che il nuovo presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, «non ha assolutamente nulla a che vedere con la vicenda ed è parte offesa».

“Pizzini” e parole in codice. Così agiva «la banda dell’Anas». «Ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori» avevano un significato ben diverso nelle comunicazioni tra gli arrestati per tangenti, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera". «Ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori»: erano queste le parole in codice usate dalla «cellula criminale» che agiva dentro la direzione generale dell’Anas. La Finanza ha arrestato 10 persone fra cui l’ex sottosegretario Luigi Giuseppe Meduri (alle Infrastrutture nel governo Prodi). A capo dell’associazione c’era Antonella Accroglianò, dirigente responsabile del Coordinamento tecnico amministrativo di Anas Spa, appunto la Dama nera, deus ex machina del sodalizio insieme ai colleghi Oreste De Grossi, dirigente responsabile del Servizio incarichi tecnici della Condirezione generale tecnica, e Sergio Serafino Lagrotteria, dirigente Area progettazione e nuove costruzioni. Coinvolti anche due funzionari, Giovanni Parlato e Antonio Ferrante. I cinque ora sono in carcere. A gestire il giro di mazzette, secondo la Finanza, era la Accroglianò, descritta nell’ordinanza del gip Giulia Proto «vera regista dell’operazione», che istruiva i suoi sottoposti su come comportarsi «muovendoli come pedine nelle proprie mani». La sua «pericolosità», sottolinea ancora il giudice è anche nella «freddezza e capacità di organizzare una protezione per sé e per i suoi sodali dopo il controllo da parte della gdf (25mila euro ritrovati durante un posto di blocco creato ad arte nell’auto di uno degli indagati, ndr)». Dopo questo episodio, la associazione si attiva per creare falsi documenti a copertura delle operazioni illecite commesse e la dirigente dell’Anas si preoccupa di nascondere il suo bottino a casa della mamma, dove sono stati trovati 70mila euro in contanti. «Ti porto le medicine», dice alla mamma temendo di essere intercettata l’anziana risponde candidamente di non essere malata. In altre intercettazioni la «Dama Nera» da cui prende il nome l’operazione si lamentava della «poca serietà degli imprenditori che ritardavano i pagamenti» delle tangenti, ribattezzate «ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori». Tangenti che venivano richieste e pagate per diversi «servizi», dall’aumento delle cifre per gli espropri agli accordi bonari, passando per l’operazione di cessione di un ramo d’azienda. In sostanza i dirigenti corrotti, che comunicavano tramite «pizzini», «prendevano soldi da tutto ciò che poteva essere trasformato in denaro». E quando interviene l’ex sottosegretario Luigi Meduri come mediatore con le imprese da favorire, la Accroglianò gli chiede in cambio l’assunzione del fratello Gandino - trombato nelle elezioni locali - in una società partecipata dalla Regione Calabria, dove Meduri ha ancora grande influenza per il suo passato da presidente della Regione e politico di lungo corso. La stessa dirigente Anas definiva la sua condotta «una scuola» e ai suoi complici spiegava: «Speriamo di tenerci forte come abbiamo fatto fino ad adesso e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare..perché poi quello è lo scopo, capito? Io sono stata abituata in questo odo...chi cresce si porta gli altri dietro... questa è la scuola. Se viaggi solo non fai niente, chi viaggia da solo poi l’hanno azzoppato».

Blitz della Finanza per appalti truccati Anas: 10 arresti. Dirigenti, imprenditori e l'ex sottosegretario Meduri. L'esponente politico ha ricoperto l'incarico al ministero delle Infrastrutture,durante il secondo governo Prodi. E' stato presidente della Regione Calabria. Le ipotesi di reato sono associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio, scrive "la Repubblica". C'è anche il nome dell'ex sottosegretario alle Infrastrutture Luigi Meduri fra le 10 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale di Roma che gli uomini della Guardia di Finanza in corso in queste ore. Nell'inchiesta delle fiamme gialle, chiamata 'Dama nera', sono coinvolti 5 dirigenti e funzionari dell'Anas della Direzione generale di Roma, 3 imprenditori, titolari di aziende appaltatrici di primarie opere pubbliche e un avvocato, oltre allo stesso Meduri. L'esponente politico ha ricoperto il suo incarico come membro della Margherita dal maggio 2006 al maggio 2008, durante il secondo governo Prodi, con Antonio Di Pietro ministro. Dal gennaio 1999 all'aprile 2000 era stato presidente della Regione Calabria. Meduri, nato a Reggio Calabria nel 1942, fino ad oggi era membro dell'assemblea nazionale del Pd, ma dopo l'arresto, la Commissione nazionale di garanzia del Partito democratico ha deciso di sospenderlo dall'albo degli iscritti e degli elettori e dagli organismi di cui fa parte con provvedimento immediatamente esecutivo. Meduri non è più in Parlamento dal 2006. L'Autorità nazionale anticorruzione chiederà gli atti relativi all'inchiesta. Le ipotesi di reato sono:  associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio. Sono in corso anche 100 perquisizioni, in undici regioni diverse. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha fatto sapere che il nuovo presidente di Anas, Gianni Vittorio Armani, è estraneo ai fatti e si costituerà parte offesa. "La mia sensazione leggendo le carte, Che sono prevalentemente, ma non solo, intercettazioni, è la sensazione deprimente della quotidianità della corruzione", ha aggiunto Pignatone che ha ricostruito i movimenti di Antonella Accroianò, una dirigente dell'Anas coinvolta nelle tangenti. "La principale indagata, chiamata la 'dama nera',  va in ufficio per lavorare - ha riferito Pignatone - ma il suo lavoro è gestire il flusso continuo della corruzione: c'è la borsa sempre aperta, arriva qualcuno e ci mette una busta. Tratta pure male i collaboratori, che non sono ritenuti all'altezza nell'avere a che fare con gli imprenditori per riscuotere le mazzette. La sensazione della lettura di queste carte è la quotidianità della corruzione vista come cosa normale", ha continuato Pignatone. Secondo l'indagine la Accroianò, avrebbe chiesto a Meduri di aiutare la carriera politica del fratello, in Calabria. In cambio avrebbe offerto assunzioni in Anas. "Meduri era l'interfaccia politico di Accroglianò - ha spiegato il colonnello Cosimo Di Gesù del nucleo polizia tributaria di Roma - .In ballo c'era un pacchetto di voti a sostegno della candidatura del fratello al consiglio regionale della Calabria nel novembre 2014. La contropartita per la mancata elezione nelle liste dell'Udc sarebbe stata nell'intenzione della Accroglianò un importante incarico in una società partecipata dalla Regione Calabria". "A fronte di queste richieste Meduri chiedeva da un lato l'assunzione di due geometri in Anas, con lo sfruttamento di una azienda pubblica come meccanismo clientelare per favorire assunzioni. Dall'altro lato si poneva come intermediario con imprenditori arrestati, Costanzo e Bosco, rispetto al ritardo nel pagamento delle tangenti". Meduri avrebbe svolto inoltre il ruolo di mediatore in un episodio di corruzione che chiama in causa i vertici dell'Azienda delle strade. Secondo l'accusa l'esponente politico avrebbe veicolato a due imprenditori precise richieste corruttive provenienti dai dirigenti della pubblica amministrazione. "Meduri ha certamente una funzione di supporto non indifferente - scrive il gip Giulia Proto nelle oltre 100 pagine di misura cautelare - dal momento che lui stesso richiama gli imprenditori ai loro illeciti doveri ove gli stessi versino in ritardo sui pagamenti. E' la stessa Antonella Accroglianò che dice di aver recuperato una delle tranche corruttive grazie a Meduri al quale lei si rivolge quando 'quelli' spariscono. E d'altra parte il suggerimento di - stringerli ai fianchi - per recuperare il danaro proviene proprio dal politico". Il quale, a sua volta, chiede che la Accroglianò "si interessasse per far assumere all'Anas due geometri da lui raccomandati". Nelle intercettazioni Accroglianò chiamava più volte 'medicinali', i soldi ricevuti dagli imprenditori, che nascondeva nell'appartamento della madre. A casa della donna i finanzieri hanno trovato ben nascosti 70mila euro, ritenuti proventi dell'attività corruttiva. Il gip Giulia Proto riferisce di "immorali principi" che ispiravano Accrogliano', parlando dei "propositi illeciti" con alcuni suoi sodali. "Speriamo di tenerci forte, come abbiamo fatto fino ad adesso e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare... Perchè quello è poi lo scopo, capito? Io sono stata abituata in questo modo... chi cresce, chi fa un salto in avanti, si porta gli altri dietro... questa e' la scuola", dicevano. Le incertettazioni, ambientali e telefoniche, dicono che la donna ricopriva "il ruolo di capo e promotore indiscusso" dell'organizzazione. La regola, valida per tutto il gruppo, era che "se viaggi da solo non fai niente, chi ha cercato di viaggiare da solo poi l'hanno azzoppato". Il presidente dell'Anas Armani, ha espresso piena fiducia nel lavoro della Procura di Roma, e ha fatto sapere che l'Anas si costituerà parte offesa. "Ho parlato col presidente dell'Anas Armani e ho detto di offrire la massima collaborazione agli inquirenti", ha detto il ministro dei Trasporti e Infrastrutture, Graziano Delrio. Nel pomeriggio, durante una conferenza stampa Armani ha spiegato che i funzionari coinvolti saranno licenziati. L'operazione, chiamata 'Dama nera', segue un'indagine condotte dalle Fiamme Gialle del Nucleo di polizia tributaria di Roma, coordinate dalla procura della capitale. In tutto sono state effettuate circa 100 perquisizioni e sono stati sequestrati 200.000 euro. Accanto alla dama nera Accroianò, in carcere sono finiti in carcere Oreste De Grossi (capo del servizio incarichi tecnici della condirezione generale tecnica), Sergio Serafino Lagrotteria (dirigente area progettazione e nuove costruzioni) e i funzionari di rango minore Giovanni Parlato e Antonino Ferrante. Agli arresti domiciliari, invece, sono finiti l'ex sottosegretario al ministero delle Infrastrutture Meduri, l'avvocato catanzarese Eugenio Battaglia, e tre imprenditori, Concetto Logiudice Bosco, Francesco Domenico Costanzo e Giuliano Vidoni.

Appalti Anas, a Roma 10 arresti per corruzione. Pignatone: “Deprimente, c’era l’ufficio mazzette”. Le intercettazioni.  Cento perquisizioni in 11 Regioni. Tra le ipotesi di reato anche il voto di scambio. C'è anche Luigi Meduri, sottosegretario con Prodi tra il 2006 e il 2008. Decapitata una struttura della società, che faceva capo alla "Dama nera" Antonella Accroglianò. Intercettata, chiamava le tangenti "ciliegie, libri, topolini, antinfiammatori". E le "ciliegie" venivano definite "smozzicate" quando l'importo era più basso di quanto atteso, scrive "Il Fatto Quotidiano". I finanzieri l’hanno chiamata la Dama nera. Antonella Accroglianò, per l’inchiesta, è il vertice della “cellula criminale” all’interno dell’azienda statale dell’Anas. Lei gestiva quello che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ha chiamato “ufficio mazzette” nel quale “va in ufficio tutti i giorni ma il suo principale lavoro è gestire questo flusso di corruzione, trattar male chi ritarda i pagamenti”: una “deprimente quotidianità della corruzione“, ha precisato. E questo “sistema strutturato” e “non episodico”, come precisano gli investigatori, era guidato dalla Accroglianò, capo del coordinamento tecnico-amministrativo. Ma era alimentato da altri funzionari dell’azienda statale, come Oreste De Grossi (responsabile del servizio incarichi tecnici) e Sergio Serafino Lagrotteria (dirigente nell’area progettazione) e ancora funzionari di livello inferiore come Giovanni Parlato eAntonino Ferrante. Una specie di spoils system della corruzione, secondo la descrizione della Procura di Roma e della Guardia di Finanza: “Speriamo di tenerci forte come abbiamo fatto fino ad adesso – dice Accroglianò in un’intercettazione – e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare. Perché quello è poi lo scopo, capito? Che chi… Io sono stata abituata in questo modo. Chi cresce, chi fa un salto in avanti, si porta gli altri dietro. Questa è la scuola”. Chiamava le mazzette “ciliegie”, “libri”, “topolini”, “farmaci antinfiammatori”. Le ciliegie erano “smozzicate” quando la tangente ricevuta era inferiore a quanto pattuito. Oppure “medicinali”, che nascondeva nell’appartamento della madre. Qui, in una delle 90 perquisizioni effettuate in 10 Regioni, la Finanza ha trovato 70mila euro in contanti e gioielli. In carcere sono finiti in 5, tutti i funzionari Anas. Altri 5 sono finiti ai domiciliari: tre imprenditori (Concetto Bosco Lo Giudice, Francesco Costanzo e Giuliano Vidoni), un avvocato che aveva fatto da “navetta” per le tangenti” (Eugenio Battaglia) e un politico iscritto al Pd (sospeso nel pomeriggio di oggi dal partito) che formalmente non ricopre incarichi pubblici da 7 anni. Luigi Meduri, infatti, è stato presidente della Regione Calabria per un anno (dal 1999 al 2000) dopo un ribaltone condotto da una parte di Forza Italia, poi è stato deputato dal 2001 al 2006 e infine sottosegretario alle Infrastrutture del governo Prodi. Nel Pd è stato tra gli ex popolari che hanno sostenuto nella corsa alle primarie i segretari di formazione comunista, prima Pierluigi Bersani e poi Gianni Cuperlo. Di recente aveva fatto notizia perché tutti i giorni si presentava in Transatlantico, a Montecitorio. Per le fiamme gialle è un “oscuro faccendiere“, l’interfaccia politica della Dama nera. Ma non al livello nazionale, semmai calabrese. Il centro di tutto infatti erano gli appalti per i lavori sulleautostrade: gli inquirenti hanno parlato di tangenti per almeno 200mila euro per progetti da centinaia di milioni di euro. Gli imprenditori finiti ai domiciliari stavano gestendo attualmente appalti per 150 milioni. La storia più importante, per questa inchiesta, riguarda la strada statale dello Stelvio, nel tratto vicino a Sondrio. Qui, secondo le accuse, la Accroglianò prese denaro per velocizzare i pagamenti dell’Anas per i lavori per la realizzazione della Variante di Morbegno. Ma le tangenti più cospicue (150mila euro in sei “rate” pagate tra il dicembre 2014 e l’agosto 2015) arrivavano alla Dama nera da due imprenditori arrestati (Costanzo e Bosco) che pagavano per ottenere il nulla osta a una cessione di un ramo aziendale. L’operazione portava di fatto alla cessione ai due imprenditori, senza gara, di un appalto per la realizzazione della strada (valore di 145 milioni). Ma tra le ipotesi di reato, oltra all’associazione a delinquere e la corruzione, c’è anche il voto di scambio. In un caso, infatti, secondo i finanzieri, sono state promesse assunzioni in Anas in cambio di un pacchetto di voti alle Regionali in Calabria di fine 2014, che vedeva impegnato – come candidato dell’Udc, peraltro poi non eletto – il fratello della Accroglianò, Galdino. “La contropartita per la mancata elezione – ha spiegato il colonnello Cosimo Di Gesù del nucleo polizia tributaria di Roma – sarebbe stata nell’intenzione della Accroglianò un importante incarico in una società partecipata dalla Regione Calabria. A fronte di queste richieste Meduri chiedeva da un lato l’assunzione di due geometri in Anas, con lo sfruttamento di una azienda pubblica come meccanismo clientelare per favorire assunzioni. Dall’altro lato si poneva come intermediario con imprenditori arrestati, Costanzo e Bosco, rispetto al ritardo nel pagamento delle tangenti”. Poi c’è l’ombra della ‘ndrangheta. La Accroglianò ha infatti “consigliato” ai titolari di un’azienda vincitrice di un appalto in Calabria, di subappaltare alcune opere a ditte di imprenditori contigui alla criminalità organizzata calabrese. Una vicenda che riguarda una serie di opere pubbliche nel comune di Palizzi, in provincia di Reggio Calabria. La dirigente Anas avrebbe da un lato chiesto l’assunzione di operai e geometri alla ditta vincitrice dell’appalto e, dall’altro, dicono gli investigatori, avrebbe esercitato “pressioni inequivoche affinché la fornitura del calcestruzzo e il movimento terra, attività notoriamente di interesse quasi esclusivo delle cosche della ‘ndrangheta in quei territori, venisse affidato ad una persona di sua fiducia, che avrebbe così garantito la sicurezza del cantiere da interventi o pressioni di gruppi criminali egemoni”. Costanzo e Bosco sono due noti imprenditori catanesi ai vertici della Tecnis, grande azienda del Sud Italia, che si è aggiudicata appalti pubblici per quasi 800 milioni l’anno. Dalla metropolitana catanese ai lavori dell’anello ferroviario e del collettore fognario di Palermo, passando per il porto di Catania, quello di Ragusa, l’interporto di Catania oltre alla Salerno-Reggio Calabria e ad altre centinaia di commesse che hanno fatto della Tecnis la prima impresa del Sud Italia. Tra i lavori affidati alla Tecnis figura anche un lotto del viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, franato una settimana dopo l’inaugurazione nel dicembre scorso. Costanzo e Bosco sono noti per le loro battaglie contro il racket delle estorsioni e per avere siglato protocolli di legalità in ogni appalto. Costanzo era tra i favoriti nel rinnovo dei vertici di Confindustria Catania. Il presidente di Anas Gianni Vittorio Armani ha espresso “piena fiducia nel lavoro della Procura di Roma, con l’auspicio che possa arrivare velocemente a fare chiarezza sui fatti ed aiutare il vertice dell’azienda a voltare pagina”. Anas sta “attivamente collaborando alle indagini della Guardia di Finanza, dando il massimo supporto anche in qualità di parte offesa dai fatti oggetto di indagine, accaduti negli anni passati”. L’Anas, annuncia la società, si costituirà in giudizio quale parte offesa. Anche “ho parlato col presidente dell’Anas Gianni Vittorio Armani e ho detto di offrire massima collaborazione”. Così il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Graziano Delrio, a margine di un incontro all’Enel in cui ha sottolineato: “La nostra linea è molto semplice, vogliamo assoluta trasparenza e collaborazione con le forze dell’ordine e con la magistratura”.

IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.

Corruzione, efficienza, calcio: ecco perché Milano batte Roma (6-0). Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano, scrive Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera".

1. La storica rivalità. Il problema dei milanesi con Milano? La criticano, sempre, comunque. Appena possono, infatti, fuggono dalla città. Dicono di non volerci vivere. Nonostante l’happy hour, nonostante la vita notturna, nonostante le opportunità di lavoro, nonostante lo shopping. Per i romani, invece, niente è come Roma: l’ottima cucina, il clima mite, la storia millenaria, la bellezza sfrontata. D’altronde, anche Audrey Hepburn in Vacanze Romane aveva risposto in maniera inequivocabile alla domanda su quale fosse la sua città preferita: «Roma! Certamente, Roma!». Se il New York Times ha piazzato il capoluogo lombardo al primo posto tra 52 destinazioni nel mondo da vedere nel 2015, la capitale d’Italia è finita in questi mesi sulle prime pagine dei giornali per altre ragioni - davvero poco invidiabili. La rivalità tra le due città esiste da sempre: tra un «c’avete solo la nebbia» e un «Roma Ladrona», la (spesso) interminabile discussione si sposta quasi sempre sul calcio. Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni miti e luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano: ecco, in sei punti, le conclusioni a cui gli analisti sono arrivati.

2. Resilienza economica. Nel corso della recessione più lunga dalla Seconda Guerra Mondiale (2000-2015), il pil pro capite nella regione Lazio è sceso del 24,3 per cento (da circa 36 mila euro a circa 29 mila), secondo le proiezioni Bloomberg. In Lombardia il calo è stato dell’8,5% (da circa 37 mila euro a poco più di 36 mila).

3. Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione nella provincia di Roma è salito all’11,3 per cento nel 2014 (dati Istat). Milano e la Lombardia hanno registrato rispettivamente l’8,4% e l’8,2% di persone in cerca di lavoro - una situazione meno critica rispetto al resto all’Italia (ormai al 12,7%). C’è poi il problema del numero esorbitante di dipendenti pubblici, che affligge la capitale. Per esempio l’Atac (l’azienda che gestisce i servizi di trasporto a Roma) ha circa 12 mila dipendenti, mentre l’Atm di Milano ne ha circa 9 mila. Il Comune di Roma da solo conta circa 24 mila dipendenti, e aggiungendo anche le municipalizzate di acqua, rifiuti e trasporti si superano i 50 mila addetti.

4. Efficienza. Nel 2015, la rete metropolitana milanese ha superato i 100 chilometri, mentre Roma è ferma a 62 km. Vale la pena ricordare che Roma è sette volte più grande di Milano, con quasi il doppio della popolazione. Bisogna dire che creare una rete sotterranea per la metro nella città eterna è parecchio complesso. I mezzi pubblici a Milano trasportano ogni anno quasi 750 milioni di passeggeri; a Roma, i passeggeri che utilizzano autobus e tram sono circa 927 milioni, solo 273 milioni per la metropolitana. Il bike sharing nella capitale è stato un fiasco. Il servizio BikeMi a Milano invece riscuote sempre più successo: ha contato nel 2014 oltre 2,4 milioni di noleggi, un incremento del 244,7% dall’esordio (nel 2009), con un ulteriore +26,7% rispetto al 2013.

5. Fascino. È vero che la città eterna attira più di 10 milioni di turisti stranieri l’anno, rispetto ai circa 7 milioni che arrivano a Milano. Tuttavia, grazie a Expo 2015, il numero di turisti nel capoluogo lombardo è aumentato del 9 per cento a maggio e del 12 per cento a giugno di quest’anno (a Roma è salito del 5 per cento nel mese di giugno 2015).

6. Corruzione. Sia Roma che Milano sono finite al centro di vari scandali. Gli appetiti della mafia sui grandi lavori di Expo sono un fatto ormai, tristemente assodato. Lo testimoniano le decine di inchieste giudiziarie e gli arresti (oltre 15 da marzo 2014) che hanno messo in luce i legami tra imprenditori e famiglie mafiose. Ma nel 2015 Roma è finita sulle prima pagine per la sporcizia, i rifiuti e «Mafia Capitale»: da dicembre sono circa 80 le persone finite in manette e oltre 100 gli indagati.

7. Calcio. «Milan e Inter? Sono squadre di calcio. Roma e Lazio: sono religioni». Alla fine, scrive Bloomberg, si torna quasi sempre a parlare di pallone, di giocatori, di campionato. E di quale città può vantare più scudetti: Milan e Inter hanno entrambi 18 scudetti, la Roma ne ha 3 e la Lazio 2. E così la «finalissima» (sempre secondo Bloomberg) vede Milano vincente su Roma per 6 a 0. Anche se nell’ultimo campionato...

PARADOSSI SUL WEB. Ecco le ragioni per cui Milano è «la peggiore città al mondo». BuzzFeed, il popolare sito americano esprime - con ironia - tutta la propria ammirazione per il capoluogo lombardo, scrive ancora Elmar Burchia   sul milanesissimo "Corriere della Sera". Gli americani adorano Milano. Non lo dicono solo i numeri: dei 3,8 milioni di turisti giunti nei primi cinque mesi di Expo, al primo posto si collocano proprio gli statunitensi. E per puro divertimento BuzzFeed, il popolare sito con oltre 200 milioni di utenti unici al mese, ha pubblicato nei giorni scorsi una classifica delle 32 ragioni per cui «Milano è il peggio in assoluto». Il sito, con una carrellata di foto e didascalie assolutamente ironiche, esalta per antitesi il capoluogo lombardo, proprio come aveva fatto ad aprile, poco prima dell’apertura di Expo, con le «39 ragioni per cui l'Italia è il peggior Paese al mondo».

1. Dunque, hai sentito grandi cose su Milano? Inizia così, con una bella immagine del Duomo, il singolare racconto di BuzzFeed che elogia la città di Milano. Il titolo: «Dunque, hai sentito grandi cose su Milano?».

2. Pensi che valga la pena farci una breve vacanza? La seconda immagine è quella della galleria Vittorio Emanuele II, uno dei punti di forza di Milano: grazie soprattutto alla presenza delle tante boutique griffate, la splendida struttura in stile neorinascimentale viene percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, che rimangono affascinati dal passaggio coperto. Anche chi fa la più breve delle vacanze non può non vederla.

3. Be’, risparmia tempo e soldi...La terza immagine è quella di Borgo Pirelli, in zona Bicocca, un gioiello di 30 case in stile liberty nato nel 1921 per ospitare gli operai dell’omonima fabbrica che sorgeva proprio lì di fianco. Sullo sfondo le Alpi innevate in una (ahimé rara) giornata limpida.

4. Perché Milano non li vale...I Navigli: centro nevralgico della movida milanese. La (riuscita) riqualificazione della Darsena è uno dei progetti che Expo lascia in eredità a Milano e alla Lombardia.

5. E nessuno dovrebbe mai andarci! Altro gioiello: il Teatro alla Scala, il Piermarini.

6. Seriamente, guarda quanto è brutta! Ancora una veduta dei Navigli.

7. È come una brutta grande verruca sulla faccia dell'Italia. Di nuovo la Galleria Vittorio Emanuele, in uno scatto dall’interno.

8. È semplicemente ripugnante. Lo skyline di Milano visto dal Duomo: il santo sulla guglia sembra fissare i nuovi grattacieli di Porta Nuova.

9. Così ripugnante da essere al limite dell'insulto. La basilica di Santa Maria delle Grazie, situata nel cuore della città. L’imponente opera architettonica è legata in modo indissolubile all’affresco di Leonardo, il Cenacolo, conservato al suo interno, nel refettorio. Dal 1980 è sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

10. Questa città non ha classe. Il Duomo: simbolo del capoluogo lombardo, per superficie è la terza chiesa cattolica nel mondo (dopo San Pietro e la cattedrale di Siviglia). Per Expo, il Duomo è stato consegnato in tutto il suo splendore ai milanesi e ai tanti visitatori. La ristrutturazione è costata decine di milioni di euro.

11. Nessun mordente. I variopinti graffiti sulle saracinesche sono piaciuti agli autori del sito americano. Sull’argomento i milanesi hanno pareri discordi.

12. Nessuna vita culturale. Il Teatro alla Scala, uno dei più celebri al mondo: da oltre duecento anni ospita artisti internazionalmente riconosciuti. Fu inaugurato il 3 agosto 1778 con «L’Europa riconosciuta», dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri.

13. Non c'è arte. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie. Databile al 1494-1498, è la più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale.

14. Zero storia. L’espressione «Fabbrica del Duomo» è divenuta proverbiale per parlare di qualcosa che dura moltissimo tempo, perché la costruzione e la manutenzione della cattedrale di Milano sono un processo infinito. La Veneranda Fabbrica del Duomo fu istituita nel 1387, con il compito di provvedere all’amministrazione, alla conservazione e alla disponibilità per il culto del Duomo.

15. Davvero una pessima moda. Milano vuol dire moda. Assieme a New York, Londra e Parigi, è tra le capitali più importanti dell’industria del fashion. E gli americani questo lo sanno benissimo: alla Settimana della moda le star non mancano mai.

16. E assolutamente nessun senso per lo stile. Che i milanesi abbiano un sesto senso per la moda lo si può capire anche dal look dei motociclisti in strada. Il sito americano approva, i milanesi si lamentano del traffico.

17. Proprio no. Un’auto d'epoca in centro.

18. Qui non succede mai nulla. Il coro e l'orchestra del Teatro alla Scala durante l'evento di apertura di Expo 2015 in piazza Duomo.

19. Non c'è nessun posto dove andare nel fine settimana. Lago di Como, a circa 50 km da Milano

20. L'architettura è noiosa. Il Bosco Verticale, a Porta Nuova, progettato da Stefano Boeri, che si è aggiudicato l’International Highrise Award 2014 vincendo su 800 grattacieli di tutti i continenti.

21. Non hanno proprio immaginazione... Le Residenze Zaha Hadid a CityLife. L’architetto anglo-iracheno ha anche progettato lo «Storto», il secondo grattacielo di CityLife - 44 piani per 170 metri di altezza - che sarà pronto entro il 5 ottobre 2016. Il «Dritto», la torre Isozaki, aspetta i tremila dipendenti di Allianz (arriveranno nel 2017).

22. È datata. La Torre Unicredit, 239 metri di altezza, è collocata a ridosso di corso Como e della Stazione Garibaldi. Cuore del complesso è la piazza Gae Aulenti. È stata progettata dall’architetto César Pelli ed è sede della direzione generale di UniCredit. Tutt’altro che datata, è stata inaugurata l’11 febbraio 2014.

23. Il tutto è semplicemente orribile. E qui vien quasi voglia di dar ragione al titolo: risente proprio dello stile del Ventennio la «porta urbana» che, secondo il proposito dei progettisti, avrebbe segnato il passaggio dall’antica alla nuova città. Ma evidentemente agli autori del sito americano è piaciuto anche l’Arengario, palazzo costruito negli anni Trenta su progetto degli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini e sopravvissuto ai bombardamenti del 1942. Ora ospita il Museo del Novecento.

24. Urta i miei sentimenti. Lo skyline di Porta Nuova: a sinistra il Diamante.

25. Davvero, vorresti andarci? L’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II.

26. Vorresti passeggiare per queste strade? Il nome Brera deriva da braida: terreno incolto, ortaglia. Oggi questo quartiere pullula di negozi, bar, ristorantini. E di tanti, ma davvero tanti, turisti.

27. Sederti su questa fontana? La «torta degli sposi» in piazza Castello, ricostruita dopo i lavori per la linea 1 della metropolitana. Il Castello Sforzesco, fondato da Galeazzo II Visconti, venne ricostruito da Francesco Sforza nel 1450, che affidò al fiorentino Antonio Averlino il compito di realizzare la spettacolare torre dell’orologio. Una curiosità: alla fine dell’Ottocento si pensò seriamente di abbatterlo per sostituirlo con una fila di palazzi residenziali. Alla fine venne salvato dall’intervento (provvidenziale) di Luca Beltrami che ne curò poi anche la ristrutturazione.

28. Guidare attraverso questo arco? In effetti non si può passare in auto sotto l’Arco della Pace, ma si vede che agli americani l’idea piace. La costruzione dell’Arco della Pace, progettato nel 1807 da Luigi Cagnola, fu interrotta dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo; venne terminata per volontà di Francesco I d’Austria. È uno degli ingressi del Parco Sempione, e tutta l’area circostante è pedonale.

29. Dovresti essere pazzo per voler vivere in un posto del genere! Via della Spiga, una delle zone più lussuose e centro dello shopping dell’alta moda a livello mondiale. Sono in pochi quelli che possono dire di viverci.

30. Quindi credimi quando dico: non visitare mai Milano! Perché è la peggiore in assoluto! La carrellata si conclude con un’immagine tipica di turisti in piazza Duomo: un invito per i cittadini americani.

INVECE NO! TUTTI UGUALI. ROMA –MILANO, ITALIA. cOME NEL '92.

Questa volta nel mirino di Crozza finisce Mario Mantovani, il vicepresidente della regione Lombardia (ed ex assessore alla salute) finito in manette proprio poco prima di partecipare alla "giornata della legalità".  Come chiosa il comico genovese. “Oggi a Milano hanno arrestato il vicepresidente della Regione Lombardia, ex assessore alla sanità. Doveva partecipare alla giornata della trasparenza e della legalità, ma è stato arrestato "un secondo prima". Voi avete mafia capitale e a Milano abbiamo sanità criminale”, scherza il comico nella copertina Di Martedì del programma di La7 del 13 ottobre 2015, in onda su La7, condotto da Giovanni Floris. Quanto all'accusa di aver truccato gli appalti per il servizio di trasporto dei malati in dialisi, commenta "Di fronte a questo gli scontrini di Marino sono bazzecole", dice Crozza. «Voi avete Mafia Capitale a Roma e noi Sanità regionale. Tu mi dirai cosa c’entra? Da voi è Cosa Vostra, da noi Cosa Nostra, il bicamorrismo è perfetto». Crozza ha notato che l'accusa rivolta al vice presidente della Regione guidata da Bobo Maroni è quella di aver fatto "la grana sui dializzati". Se ne conclude che "mentre al Nord fottevano i malati, a Roma fottevano il medico", con riferimento alle dimissioni di Ignazio Marino: Marino come dottor House, solo che il bastone al momento non gliel'hanno messo proprio in mano. (...) Ieri al Campidoglio 2000 persone chiedevano a Marino di restare. Tutta gente che era stata a cena con lui, tra l'altro. Quindi un passaggio su "Sabrina Ferilli che fa il caxxiatone al Papa" e sulle idee del Premier per il post Marino nella Capitale: Renzi vuole sostituire Marino con 1 commissario e 8 sottocommissari. 9 al posto di 1, vedi che il Jobs Act funziona! Su Marino: «La data per le dimissioni ufficiali è il 2 novembre, il giorno dei morti. E’ sfigato, dai non gliene va bene una».

Se Roma Piange, Milano non ride. Maroni farebbe bene a dimettersi, scrive “On Line News”. Se Roma piange Milano non ride, espressione consunta ma tremendamente efficace. Mettiamo pure da parte il luogo comune ma la situazione si fa veramente difficile, la corruzione sembra una pianta inestirpabile che condizione sempre più la politica. Certo dove ci sono i grandi affari si sono i corrotti, i corruttibili e i corruttori. Milano e Roma in prima fila. Ma si poteva ragionevolmente pensare che la storia avesse insegnato qualcosa. Invece ci cascano tutti e gli sviluppi della corruzione scoperta, del malgoverno, del malaffare, trascinano a fondo la politica e i politici. Che reagiscono in modo diverso. Ma sostanzialmente lasciano malvolentieri incarichi e poltrone, come se la colpa fosse di altri, o almeno condivisa. Pochi che si facciano da parte spontaneamente. Marino è rimasto aggrappato al suo scranno come una cozza, si è fatto massacrare e difficilmente, al di là delle utopie, avrà un futuro politico. Maroni, presidente della regione Lombardia rischia di essere trascinato nello stesso vortice. Si fosse presentato alla stampa con le dimissioni in tasca con un discorsetto del tipo: non potevo non sapere e se non me ne sono accorto sono un pessimo presidente. Sarebbe stato un atto di dignità che gli avrebbe procurato applausi, consensi e lo avrebbe tenuto in partita. Così come si sta comportando, invece, rischia grosso. Credibilità a picco, palla nel campo avversario, demolizione mediatica. Provare per credere.

Mantovani e le tangenti in Lombardia. L’ira di Salvini, che si autodenuncia «Segnalavo associazioni benefiche». Il leader leghista: a Garavaglia accuse assurde, colpiti perché cresciamo, scrive Marco Cremonesi su “Il Corriere della Sera”. «Sono stanco. Stanco e inc...». Matteo Salvini è in tour per l’Emilia. Il tono è secco, molto più cupo del solito:

«Sa che faccio? Mi autodenuncio. Sono colpevole».

E di che cosa? 

«Di segnalazione. Al posto di Garavaglia, lo avrei fatto anche io. Anzi, l’ho fatto: da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò». 

Il segretario leghista sta arrivando a Parma per un comizio. Salvini mette fuori dal finestrino dell’auto il telefonino, si sentono rumoreggiare dei cori. Sono leghisti festanti? No, sono militanti dei centri sociali:

«Li sente? - grida Salvini nel telefono - sono i democratici urlanti e lancianti che cercano di impedirmi di parlare. Poi, però, chi viene indagata è una persona come Garavaglia perché avrebbe segnalato un’associazione di ambulanze. Senza prendere un euro, beninteso. Pazzesco, pazzesco...». 

Secondo la procura di Milano, Garavaglia avrebbe agito per mantenere o aumentare il suo consenso elettorale. Almeno come ipotesi, è ammissibile. O no?

«Macché, mi faccia il piacere... Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca». 

Lui ha detto che ci deve essere un errore. Lei non la pensa così? 

«Di nuovo, mi faccia il piacere... Guardi, giusto ieri (lunedì) ero stato un facile profeta. Al consiglio federale della Lega avevo detto: ragazzi, visto che siamo in crescita, prepariamoci. I sondaggi ci danno al 15,2 per cento e per fermarci le proveranno tutte. E in effetti, eccoci qui. Un’inchiesta che segna un primato». 

Quale primato? 

«È la prima indagine al mondo in cui si accusa una persona di aver cercato di dare una mano ad un’associazione benefica. Peraltro, senza riuscirci. Per l’ufficio di Garavaglia passano qualcosa come venti miliardi di euro».

Beh, la proroga dell’incarico all’associazione Croce azzurra Ticinia la avrebbe comunque favorita. 

«Ma quale favorita, se poi non ha vinto? Comunque, ripeto: io l’avrei fatto e lo rifarei. Se c’è una Croce di qualsiasi colore, un’associazione che conosco e stimo, per farli partecipare a un bando io telefono anche al presidente della Repubblica». 

La vicenda di Mantovani è altrettanto irrilevante, dal suo punto di vista? 

«Non mi permetto di commentare l’indagine che riguarda Mantovani. E peraltro non ne so nulla, anche se lui mi pare una brava persona. In ogni caso, quella sembra un cosa diversa, che non riguarda l’aiuto alle ambulanze. Per quanto mi riguarda, mi permetto soltanto di dire che sono vicino a un padre a cui è nato un figlio dieci giorni fa (il capo di gabinetto dell’assessorato alla Sanità, Giacomo Di Capua), per un qualcosa che riguarda fatti che risalgono come minimo a un anno fa». 

Insomma: un complotto?

«Beh, nel passato già ci hanno provato. Si ricorda quando per due anni hanno cercato dei soldi che ci avrebbero dato degli indiani per degli elicotteri. Poi, l’inchiesta (quella su Finmeccanica ndr ) è stata archiviata. Perché non c’erano soldi, non c’erano indiani, non c’erano elicotteri». 

Ma quale sarebbe lo scopo? 

«A qualcuno dà fastidio la sanità lombarda. Un solo numero: l’anno scorso in Lombardia sono venute da altre regioni per farsi curare tante persone da fare 872 milioni di fatturato. Un record europeo. Chissà, forse un po’ d’invidia...». 

Scusi, che c’entra l’invidia? 

«Massì, e allora la dico più chiara: forse qualcuno vuole coprire e far dimenticare i problemi del Pd e di Ignazio Marino? E Montepaschi? Nessuno ha pagato, tranne gli italiani. La Lombardia è la Regione meno costosa per i cittadini. E a qualcuno dà fastidio che la Lega, il partito delle ruspe e delle felpe, sia al governo nelle Regioni che producono il 30 per cento del Pil».

Come cambia Salvini se lo scandalo è a Roma o a Milano. Il leader della Lega tuona contro i giudici: "Si tratta di un attacco politico per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino". Il tutto a pochi giorni dalle dichiarazioni del governatore Maroni, che vede nel numero uno del Caroccio un buon candidato per la poltrona di sindaco di Milano, scrive Selene Ciluffo il 14 Ottobre 2015 su Today. Dopo l'arresto del vicepresidente della regione Lombardia, uno dei primi a schierarsi a fianco di Mario Mantovani è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Lo fa "berlusconianamente" apparendo su tutti i media possibili (dalle televisioni ai giornali) e prendendosela con i giudici: "Un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia magari per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino e Renzi. C’è stata una giornata di sputtanamento mediatico sulla migliore sanità europea e anche sulla Lega". Per questo secondo il leader del Carroccio la giunta lombarda non sarebbe a rischio, nonostante la mozione di sfiducia pronta di Pd e M5s. D'accordo con lui anche il governatore Roberto Maroni: "Salvini ha ragione, si tratta di un attacco politico". Mantovani è accusato di corruzione per aver favorito un architetto, Gianluca Parotti, nell’ottenimento di incarichi in appalti pubblici, compresi lavori in diversi ospedali lombardi, in cambio di prestazioni gratuite nei propri affari immobiliari privati. La Lega fa quadrato intorno a un berlusconiano di ferro a pochi mesi dalle elezioni comunali milanesi, previste per la primavera del 2016. E quando si è parlato di un possibile candidato, Lega e berlusconiani si sono trovati d'accordo su un nome: Matteo Salvini. Ovviamente la procura milanese la pensa in maniera diversa dal leader della Lega: per il pm Giovanni Polizzia, l'unico modo per "interrompere il funzionamento della concatenazione delittuosa" è quello di "neutralizzare Mantovani". Parole pesanti, sottoscritte anche dal gip Stefania Pepe, nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto del vicepresidente della regione Lombardia. La sua sarebbe una "fittissima rete di relazioni" da cui risulta "evidente che l'unica misura effettivamente in gradi di prevenire sia la commissione di nuovi delitti che, soprattutto, le attività di condizionamento ed intervento sulla genuinità delle prove (già peraltro avviate) sia quella massima della custodia cautelare in carcere”. Il leader della Lega è anche entrato nel merito dell'inchiesta della procura, prendendo le difese anche di Massimo Garavaglia, assessore regionale all’Economia e braccio destro di Maroni. Garavaglia è indagato per turbativa d’asta, insieme a Mantovani e altri, nel filone di una gara d’appalto per il trasporto dei dializzati, cancellata a esito già stabilito, secondo l’accusa per far rientrare in gioco alcuni operatori delle Croci con sede nei bacini elettorali dei due politici. Salvini usa i social per schierarsi con gli indagati. “Da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò”. In realtà secondo la procura di Milano Garavaglia non ha semplicemente fatto delle segnalazioni, ma si sarebbe adoperato per annullare una gara d’appalto già assegnata per il servizio di trasporto dei malati di reni bisognosi del trattamento di dialisi. Ma questo al leader della Lega non interessa: “Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca”. Per Salvini si tratta di una vera e propria campagna, visto che il Carroccio, in particolare negli ultimi mesi, ha aumentato i propri consensi nei sondaggi e di conseguenza "la giunta non deve dimettersi". Diversa invece era stata la reazione di Salvini quando lo scandalo aveva coinvolto la giunta e la città di Roma. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale, Salvini aveva marciato sul Campidoglio chiedendo a gran voce le dimissioni del sindaco Marino. Non solo: in merito all'amministrazione capitolina, il leader della Lega non ha mai negato la necessità di "onestà, trasparenza e pulizia". Parametri però che non vengono applicati alla giunta lombarda, fatta secondo il leader del Caroccio da "brave persone". Eppure qualche dubbio la procura milanese su questo lo ha avuto: tanto da far scattare dei provvedimenti cautelari, come gli arresti domiciliari.

Tangenti nella sanità, arrestato il numero due del Pirellone Mario Mantovani. Uomo forte di Berlusconi in Regione, ex senatore e fino ad agosto assessore alla sanità. È accusato dei reati di concussione e corruzione aggravata. Indagato anche il Richelieu di Maroni, il leghista Massimo Garavaglia, scrive Michele Sasso il 13 ottobre 2015 su “L’Espresso”. Un terremoto scuote il Pirellone: arrestato Mario Mantovani, numero due in Regione Lombardia a fianco di Roberto Maroni e fino ad agosto potente assessore alla sanità. Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha comunicato che è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Mario Mantovani per i reati di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti. Arrestati, per gli stessi reati, Giacomo Di Capua, collaboratore di Mantovani e dipendente regionale, e Angelo Bianchi, ingegnere del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Nell’ambito della stessa indagine è indagato per turbativa d’asta anche l’assessore all’Economia della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, ex parlamentare della Lega e potente Richelieu di Maroni: ogni decisione della giunta passa dalla sua approvazione. L'inchiesta riguarda il periodo tra il 6 giugno 2012 e il 30 giugno 2014 per tangenti negli appalti della sanità. In quel periodo Mantovani faceva la spola tra Roma come senatore e sottosegretario ai Trasporti nel governo Berlusconi e la sua città natale Arconate, dove ha fatto il sindaco ininterrottamente dal 2001. Solo nel 2013 ha lasciato la Capitale per diventare vicepresidente della regione Lombardia. Secondo il pubblico ministero Giovanni Polizzi, Mantovani avrebbe sfruttato l’influenza derivante dalle sue numerose cariche per pilotare alcune gare d’appalto nel settore sanitario, favorendo liberi professionisti in concorso con altri pubblici ufficiali e ottenendo in cambio «mazzette» non sotto forma di denaro, ma di prestazioni di professionisti. Arrivando al Senato, il presidente di Forza Italia commenta la notizia dell'arresto per corruzione di Mario Mantovani, vicepresidente della Regione Lombardia ed esponente di spicco dei forzisti a Milano di Marco Billeci e Angela Nittoli. Per esempio, avrebbe ottenuto che i lavori di ristrutturazione di alcuni immobili di sua proprietà venissero realizzati da un architetto «amico», che in cambio avrebbe ottenuto alcuni incarichi pubblici e vinto alcune gare d’appalto. L’accusa di turbativa d’asta deriva dal fatto che Mantovani avrebbe contribuito a pilotare gare pubbliche relative tra l’altro al trasporto di pazienti dializzati, all’edilizia scolastica e alle case di riposo. Nell’elenco sono finiti anche la casa di riposo Opera Pia Castiglioni a Cormano e la struttura di Casorezzo. Entrambe controllate dall’impresa di famiglia, la fondazione Mantovani (in memoria della sorella Ezia, Mario è presidente), e poi appartamenti e uffici ad Arconate, la cascina dove abita il politico e immobili di alcuni familiari. Secondo l’accusa avrebbe anche fatto pressioni a un dirigente del provveditorato alle Opere pubbliche per far ottenere incarichi a persone a lui vicine. Tra politica e business, Mantovani è l’uomo forte di Forza Italia: è stato il più votato dai lombardi (quasi 13mila preferenze nel 2013), tanto da autodefinirsi “sindaco di Lombardia”. Partito dal comune dell’hinterland milanese di Arconate, ha costruito da qui la sua carriera politica e imprenditoriale: 65 anni, docente, imprenditore, europarlamentare. Nel 2008 il grande salto a Roma come senatore e sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti. E allo stesso tempo coordinatore del Popolo della Libertà per tutta la regione-simbolo del potere degli azzurri. Negli affari il core business di questo epigono di Berlusconi è proprio la sanità, come raccontato da “l’Espresso” alla vigilia della campagna elettorale che ha portato Roberto Maroni all’ultimo piano di Palazzo Lombardia. Di Mantovani si è parlato per un conflitto d'interessi, visto che i suoi affari di famiglia prosperano grazie anche ai contributi della Regione. Gli assi nella manica sono la fondazione Mantovani e la cooperativa Sodalitas, dove siede come presidente del consiglio di amministrazione la moglie Marinella Restelli. L’attività principale è la progettazione, costruzione e gestione della residenze socio assistenziali, le Rsa per anziani. Già nel 1996 dalla giunta guidata dal compagno di partito Roberto Formigoni arrivano oltre 14 milioni dai fondi sanitari come strutture accreditate per la cura degli anziani: la Regione rimborsa con soldi pubblici una quota della retta giornaliera. Nelle voci a bilancio anche 4 milioni e 300 mila euro a fondo perduto per costruire "infrastrutture sociali" proprio ad Arconate. A San Vittore Olona nel 1997 la fondazione acquista dalla parrocchia locale il diritto di superficie per 40 anni, grazie all'imprimatur del Pirellone che certifica con una delibera che il progetto «è finalizzato alla realizzazione di una Rsa per 60 anziani non autosufficienti». L'affare delle case di riposo si allarga e vengono inaugurate nuove strutture, tutte nel milanese. Nel 2003 la casa famiglia di Affori, periferia nord di Milano, e a pochi chilometri un altro centro a Cormano. E poi l'Hospice di Cologno Monzese con posti letto ad hoc per malati terminali e centro diurno. Gli affari non si arrestano neppure con le inchieste della magistratura che svelano la corruzione milionaria della sanità lombarda e travolgono l’ex governatore Roberto Formigoni: ad aprile 2012 altri 40 posti per il centro di Cormano. Oggi i posti letto sono oltre 400, un piccolo impero di residenze che ha permesso alla cooperativa Sodalitas di chiudere il bilancio 2011 con un giro d'affari di 18 milioni e utili per 687 mila euro. A conti fatti la Regione ogni anno stacca un assegno da 6 milioni di euro per le due creazioni di Mantovani. E nessun dubbio quando è stato il momento di decidere a chi assegnare l’assessorato alla sanità, una poltrona cruciale dove si decidono finanziamenti per quasi 8 miliardi di euro. L’uomo forte di Berlusconi doveva fare il custode di questo tesoretto.

Il tuttofare del potente politico forzista si dovrà occupare di: "analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici". Peccato abbia solo il diploma e nessuna competenza in materia, scrivono Marzio Brusini ed Ersilio Mattioni il 21 luglio 2014 “L’Espresso”. Mario Mantovani, vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Sanità, ha garantito una consulenza da 16 mila euro per il suo autista-segretario, il 21enne Fabio Gamba, per occuparsi di “analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici”. C'è da chiedersi con quali competenze. E infatti è lo stesso Gamba il 6 maggio scorso in un comune alle porte di Milano, Arconate, a svelare l'arcano: “Non ho nessuna esperienza - dice - e questo potrebbe essere apparentemente un problema, ma in realtà fortunatamente so di poter contare sulla competenza e sull’esperienza del nostro fuoriclasse, Mario Mantovani”. O più semplicemente basta essere il vicepresidente della Regione, per procurare al proprio autista-segretario un incarico. Non di certo il primo perché già nel 2013, il “fuoriclasse” Mantovani assicura al suo tuttofare una consulenza, da maggio a dicembre, per 10 mila euro per svolgere mansioni ancora oggi avvolte nel mistero. Il sito web di Regione Lombardia, alla voce consulenze, non brilla per trasparenza e l’interessato, interpellato all’epoca dei fatti, aveva risposto in modo evasivo: “Lavoro nello staff del vicepresidente”. "Non ho nessuna esperienza, ma so di poter contare sul nostro fuoriclasse, Mario Mantovani". Chi parla è Fabio Gamba: 21 anni, diplomato al liceo di Arconate e autista dello stesso Mantovani. L'occasione per questo discorso è la presentazione, lo scorso 6 maggio, di una lista per le elezioni comunali. Dopo Gamba a prendere la parola è lo stesso Mario Mantovani, assessore della Sanità e vicepresidente forzista della Lombardia, che ricorda come lui preferisca "segnalare la gente di Arconate". Detto, fatto: l'autista tuttofare, senza alcuna competenza, ha ottenuto una consulenza al Pirellone da 16 mila euro per "analisi dei costi della spesa farmaceutica territoriale ospedaliera, oltre che presidio tavoli tecnici" di Ersilio Mattioni. Anno nuovo, consulenza nuova. Ed ecco il nome di Gamba compare ancora nell’elenco degli incarichi fiduciari, ai sensi della legge regionale 20 del 2008. La normativa, 57 pagine, regola ogni tipo di rapporto di lavoro dentro il Pirellone. Leggendo il testo ci si imbatte decine di volte nelle parole “merito”, “controllo” e “trasparenza”. Fino all’articolo 23, quello relativo alle segreterie degli assessori. Il comma 7 recita testualmente: “Può essere assunto personale esterno all'amministrazione regionale”. E tanti saluti, fatta salva la competenza che deve possedere chi riceve un incarico. Nello specifico, l’autista-segretario di Mantovani dovrà dimostrare di intendersene del costo dei farmaci e pure del lavoro utilizzo negli ospedali. E vantando solo un diploma al liceo linguistico di Arconate non deve essere particolarmente facile. Il curriculum del ragazzo di bottega di Mantovani è comunque ricco di spunti interessanti. Nel 2009 è in stage “presso la segreteria politica del sottosegretario di Stato Sen. Mario Mantovani in via Giolitti 20 ad Arconate”; nel 2010 fa l’educatore al “centro vacanze giovani di Igea Marina, in provincia di Rimini”, gestito da una cooperativa della famiglia Mantovani; nel 2011 lavora nella sede romana del fu ‘Popolo della Libertà’ in via dell’Umiltà; nel 2012 presta una collaborazione occasionale in Rai, sempre a Roma, dove però nessuno si ricorda del suo passaggio. E’ iscritto all’università Bocconi di Milano, anche se gli esami, causa la sua intensa attività al fianco del vicepresidente della Lombardia, vanno un po’ a rilento. Il suo curriculum si chiude con una perla: “Ulteriori informazioni: La mia più grande passione è la Politica”. ‘P’ maiuscola, per carità. Ma per quale motivo questa grande passione deve essere spesata dai lombardi con consulenze fantasiose? Spesata dai lombardi pure la spedizione del mese scorso in terra giapponese in occasione della festa della Repubblica: tre notti a Tokyo da 2 giugno al 5 giugno. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’inchiesta sulle missioni internazionali del ‘World Expo Tour’, alle quali lavora anche Maria Grazia Paturzo, una delle due donne che il governatore Roberto Maroni avrebbe fatto assumere nella società Expo 2015 (stipendio mensile: 5 mila euro), mentre l’altra, Mara Carluccio, è finita in Eupolis, ente controllato dal Pirellone. Per i magistrati bustocchi quello di Tokyo sarebbe stato un “viaggio in stile prima Repubblica”. Di diverso avviso il capogruppo di Forza Italia al Pirellone, Claudio Pedrazzini, ex assistente di Mantovani a Strasburgo nel 1999: “Il viaggio sarebbe finito nel mirino dei magistrati. Ma sulle altre missioni analoghe nessuno ha nulla da dire?” Difesa rocciosa. Ma Pedrazzini riesce persino a peggiorare la situazione: “A quel viaggio hanno partecipato quattro persone (doveva andare il presidente Maroni, sostituito il giorno prima della partenza dallo stesso Mantovani) e il costo totale è stato inferiore ai 25mila euro”. In pratica, 6 mila euro a persona. Fra volo, alberghi e ristoranti i rappresentanti della Regione devono essersi trattati bene. Assieme all’assessore alla sanità c’era anche, non è ben chiaro a che titolo, il suo autista-segretario Gamba. Il quale, lo stesso 2 giugno, postava su Facebook una foto di Mantovani a Tokyo con tanto di messaggio del vicepresidente lombardo, che con la consueta modestia si attribuiva il merito di aver portato Expo a Milano: “Questa mattina ho preso parte alle celebrazioni per la festa della Repubblica presso l'ambasciata italiana a Tokyo, in rappresentanza della Lombardia e del nostro paese. Dopo essermi impegnato nel 2008, da parlamentare europeo, affinché Milano ottenesse l'assegnazione di Expo 2015, in questi giorni con il ‘World Expo Tour’ stiamo promuovendo con soddisfazione l'evento in tutto il mondo. Buona festa della Repubblica a tutti! Viva l'Italia!”. Gamba, interpellato il 6 giugno di ritorno dal Giappone dal cronista Paolo Puricelli del settimanale ‘Libera Stampa l’Altomilanese’ sulle spese del viaggio, aveva replicato: “Fortunatamente posso pagarmelo da solo (la famiglia Gamba-Trimboli è fra le più ricche di Arconate). Visto però il vostro interesse per i miei viaggi, la prossima volta vi manderò una cartolina”. Intanto basterebbe sapere a che titolo possa redigere un'analisi dei costi della spesa farmaceutica degli ospedali lombardi. Per le cartoline c'è sempre tempo.

Mario Mantovani e Massimo Garavaglia intercettati mentre discutevano del nostro articolo. Che aveva anticipato il nuovo business delle ambulanze, scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso” il14 ottobre 2015. Mario Mantovani e Massimo GaravagliaI due uomini chiave del potere lombardo si scrivono via sms. Da una parte c'è il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e braccio destro del governatore Roberto Maroni, ora indagato. Dall'altra Mario Mantovani, berlusconiano della prima ora, vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità, da ieri in cella a San Vittore. A preoccuparli è un'inchiesta de “l'Espresso”, pubblicata a marzo 2014, che metteva in luce il cuore dello scandalo: “Assalto all'ambulanza. Fuori i volontari, il soccorso diventa un affare”. I due si stavano muovendo proprio per azzerare un appalto sul trasporto di pazienti in dialisi: undici milioni l'anno. Una torta che vede scendere sul sentiero di guerra una galassia di croci e associazioni di lettighieri, alcune professionali, altre di puro volontariato, diverse con agganci politici. Garavaglia manda quindi un messaggino a Mantovani, intercettato dalle Fiamme Gialle. «Su l'Espresso questa settimana ho trovato un articolo dal titolo Assalto all'ambulanza. Evidenzia quel che dicevamo ieri. Il servizio è ad alto rischio. Mi arriva qs per croce azzurra». La risposta è sintetica: «Sto lavorando martedì ne parliamo». E il leghista chiude la chat: «Grazie». Poche frasi, che vengono incluse nell'ordine di cattura per il numero due del Pirellone, perché secondo gli inquirenti evidenziano l'interesse di Garavaglia e le attività illecite di Mantovani per riaprire un appalto pubblico già chiuso. Una gara dove venivano richieste garanzie finanziarie e tecniche, che avrebbero tagliato fuori alcune realtà più piccole del soccorso. Come la Croce Azzurra Ticinia Onlus, sponsorizzata da Garavaglia che si sarebbe attivato con il ras della Sanità Mantovani. L'interesse dei due politici è convergente: Mantovani interviene sul vertice della Asl Milano 1 «affinché non venissero escluse Croci definite dallo stesso assessore “nostre”». A muovere la coppia di assessori ci sono interessi di campanile: le associazioni di volontariato operano nei “loro” comuni, in quell'area dell'hinterland milanese dove Garavaglia è stato sindaco e Mantovani all'epoca lo era ancora. Il sostegno alle Croci che gestiscono le ambulanze significa voti e consenso. Ma nel momento in cui le Onlus – che per definizione non dovrebbero avere finalità di lucro – entrano in affari da decine di milioni di euro, il quadro cambia radicalmente. Perché le autolettighe diventano di fatto un'azienda, che gestisce fondi e assunzioni. Proprio quello che per primo “l'Espresso” ha raccontato con l'inchiesta di Michele Sasso: “Assalto all'ambulanza. Il soccorso diventa un business. L'obiettivo non è più salvare ma incassare”. Parole che vengono sottolineate dall'assessore Garavaglia nel suo sms allarmato per l'articolo: «Fuori i volontari il soccorso diventa un affare». La nostra inchiesta descriveva la metamorfosi del settore, dove una deregulation strisciante trasforma le onlus in cavalli di Troia per le operazioni di politici e mafiosi, il tutto a danno del vero volontariato. Un'analisi confermata dalla procura di Milano: «Il problema di queste Croci è di tipo economico. Tali associazioni pur essendo state escluse dalla gara non solo vogliono recuperare l'affidamento del servizio ma lo vogliono a condizioni più favorevoli di quelle previste nella gara». Il procedimento per turbativa d'asta può apparire una storia piccola. Matteo Salvini parla di «un'indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti. Lo accusano di avere cercato di dare una mano a un'associazione benefica». Certo. Ma questa vicenda mostra come pur di assecondare il desiderio di un assessore si arrivi a svuotare una gara di appalto pubblica già conclusa, innescando un circuito colossale di conflitti di interesse fino a raggiungere il risultato. Vengono mobilitati decine di dirigenti regionali e funzionari delle Asl per garantire incassi di poche migliaia di euro alla Croce Azzurra Ticinia tanto cara a Garavaglia. E proprio seguendo le mani che si sono mosse per gestire questa pratica i magistrati hanno ricostruito gli assetti di potere nella Regione. Monitorando così i rapporti di forza tra Lega, Forza Italia e Ncd; i settori di lottizzazione e la mappa dei centri di spesa nella sanità pubblica dell'era Maroni. Un'attività di indagine che potrebbe presto portare a vicende molto più rilevanti delle ambulanze.

Mantovani, la notte insonne in cella. «Io, all’inferno da innocente». In carcere non ha potuto leggere i giornali. «Sono stato molto massacrato?», chiede il vice presidente della giunta regionale ed ex assessore alla Sanità, scrive Simona Ravizza su “Il Corriere della Sera”. Le lacrime in una notte insonne, la prima a San Vittore, passata a pensare ai figli, Lucrezia e Vittorio, tutti e due chiamati a raccolta l’altra mattina, «per un abbraccio e un saluto», prima di essere portato in carcere. Quando la Guardia di Finanza martedì si è presentata all’alba a Cascina Vittoria, l’abitazione di Arconate, Mario Mantovani, il «Faraone della Lombardia» arrestato per corruzione, pensava a una perquisizione, com’era già avvenuto del resto per il suo architetto di fiducia, Gianluca Parotti: «Mai mi sarei aspettato di finire qui», dice l’ex assessore della Sanità e numero due della Regione a chi è andato a trovarlo. All’avvocato Roberto Lassini, amico di vecchie campagne contro i pm ai tempi dei processi contro Silvio Berlusconi e oggi suo legale, consegna la linea di difesa: «Sono finito in un inferno da innocente». Con gli amici politici, invece, si lascia andare all’amarezza: «La mia immagine politica è distrutta». Cella 117, Terzo raggio, quello destinato ai colletti bianchi finiti nelle grane con la giustizia, dieci metri quadrati con un letto a castello e un altro di fianco. Una mini-cucina e il bagno. La televisione sempre accesa. Ora il suo mondo è questo. Mantovani vuole seguire in diretta le notizie che lo riguardano. Non può leggere i quotidiani e chiede informazioni, il desiderio è sapere quel che si dice - e scrive - fuori: «Sono stato molto massacrato?». In tuta da ginnastica scura, le scarpe da tennis, il volto segnato di chi ha trascorso la notte in prigione. Dopo tutti i dossier scottanti che ha maneggiato come assessore alla Sanità (prima che il governatore Roberto Maroni lo silurasse), adesso sfoglia nervosamente le 216 pagine con le accuse che l’hanno portato in carcere. Per «una spiccata attività criminale», scrive la Procura. Sull’ordinanza Mantovani mette punti interrogativi, punti esclamativi e parentesi. Prima di costruire un impero di case di riposo, foraggiate con soldi pubblici, era un insegnante: e adesso - racconta chi l’ha visto - sembra un docente impegnato a correggere i compiti a casa. Uno dei suoi compagni di cella, a San Vittore da 14 anni, prepara un piatto di spaghetti anche per lui. Ma lo sguardo torna subito sulla porta d’acciaio blindata e con il finestrino. La sensazione è quella di sentirsi rovinato. Anche se Mantovani è determinato a difendersi. Tra chi l’ha incontrato in carcere c’è anche Matteo Salvini, il leader della Lega, entrato a San Vittore non tanto da politico, ma come uomo preoccupato per le condizioni di un altro detenuto, il braccio destro di Mantovani Giacomo Di Capua, anche lui agli arresti per corruzione. È diventato papà da pochi giorni. Gli amici più stretti hanno sempre definito Mantovani «un uomo a cui spari, ma non riesci a fargli uscire sangue», proprio per la sua capacità di restare impassibile in qualsiasi situazione. Ma la giornata in carcere è lunga e l’avvocato Lassini è preoccupato: «Temo per la sua tenuta psicofisica - dice -. L’ho visto provato anche se è un uomo forte. Nei suoi occhi ho trovato lo smarrimento che fu il mio 20 anni fa (Lassini fu arrestato da sindaco di Turbigo, ma poi assolto, ndr ). Quello di un innocente».

COME NEL 92. Filippo Facci su "Libero Quotidiano": "E' tornata Tangentopoli".

Ma che bell'autunno tiepido: sembra di essere tornati al 1992, quando gli arresti erano un festival e ogni regola veniva stravolta con gioia e soavità. Naturalmente non ci sogniamo nemmeno di entrare nel merito delle accuse rivolte al vicegovernatore della Lombardia Mario Mantovani (più altri sei, compresi un suo collaboratore e un ex assessore regionale leghista) anche perché dalle carte non si capisce niente, o quasi, ma contiamo che per gli inquirenti sia diverso. Se dovessimo affidarci a quanto scritto da agenzie di stampa come LaPresse - che di norma bada al succo - dovremmo infatti accontentarci di roba così: «Per il gip Stefania Pepe, Mantovani andava arrestato perché gli "interessi illeciti" suoi e "dei suoi familiari" e la "fittissima rete di relazioni che il politico vanta nel territorio di Arconate di cui è stato sindaco per oltre dieci anni (e non solo) che potrebbe essere efficacemente strumentalizzata dall' indagato sia al fine di perpetrare ulteriori illeciti che di porre in essere attività svolte ad inquinare le prove, altresì del perpetuarsi ad oggi - secondo le più recenti acquisizioni investigative - delle già accertate dinamiche delittuose"». Chiaro, no? Ma stiamo barando: avevano detto che non entravamo nel merito. Dunque, a proposito di manette e clima da revival, limitiamoci a notare che:

1) Mantovani è stato arrestato all' alba a casa sua, ma fuori c'erano già cronisti e fotografi ad attenderlo: l'hanno anche salutato. Significa che lo sapevano da almeno la sera prima. Bello, bravi, la gente deve sapere.

2) Secondo quanto riferisce il suo legale, l'arresto è di ieri mattina all' alba, appunto: ma la richiesta del pm risale al settembre 2014. Più di un anno per la convalida. E dopo più di un anno, beh, non c'era altra strada che scegliere proprio il giorno in cui Mantovani doveva aprire i lavori della «Giornata della Trasparenza» organizzata dalla Giunta e dal Consiglio regionale. Niente di strano che il presidente Roberto Maroni, che doveva intervenire, abbia cambiato programma.

3) E niente di strano che le manette abbiano eccitato i Cinque Stelle tipo il capogruppo Dario Violi, che col suo bell'accentone di Costa Volpino (Bergamo) si è presentato al convegno con una mezza cassa di arance da associarsi tipicamente alla galera di Mantovani: senza sapere tra l'altro - come pochi sanno - che in carcere le arance sono proibite, al pari di angurie e banane. Senza sapere, in realtà, nulla di quanto andava succedendo. Ma c'erano le telecamere. È bastato.

4) Quanto alla necessità dell'arresto («extrema ratio») passa la voglia di occuparsene, ormai. Mantovani non era più un assessore «pesante» da tempo, si era dimesso dall'assessorato alla Salute (fulcro dei presunti illeciti, da quanto inteso) ed era soltanto assessore ai Rapporti con l'Unione Europea, alla Programmazione comunitaria e alle Relazioni internazionali: poltrone più che altro di rappresentanza. Fa niente, l'arresto era necessario lo stesso. Anzi, le dimissioni a quanto pare lo hanno favorito. Pericoli di fuga? È un anno che si vocifera dell'arresto: e Mantovani - i cui interessi economici non si spostano dalla Lombardia - non si è mai mosso. Tuttavia le cariche pubbliche e imprenditoriali, nonché la lunga carriera politica di Mantovani, nell'ordine d'arresto vengono snocciolate come indizio sostanziale di pericolosità sociale: le carte del gip sembrano un approfondito curriculum. Non ci sono di mezzo mazzette, comunque: ci sono utilità personali accumulate in una vita da politico. Secondo l'accusa sono illecite, secondo la difesa no. Difficile cogliere la necessità di un arresto proprio ora.

5) L'arresto di Mantovani fa calare la tela sulla presunta «tregua per Expo» concessa dalla procura di Milano e considerata, più o meno da tutti, come qualcosa di assodato e soprattutto lecito: peccato che la Costituzione, nonché l'obbligatorietà dell'azione penale, non contemplino niente del genere. Fu vera tregua? L'invito alla moderazione causa Expo (palesemente benedetta da Governo, Quirinale, Confindustria, Csm e procura di Milano) ha inaugurato un'ambiguità da cui ora pare difficile districarsi. Siamo a ottobre: significa che la tregua è finita, visto che sta per chiudere anche Expo? Dunque la tregua c'era? Dunque l'azione penale può andare ufficialmente a velocità differenziata, come in realtà sappiamo benissimo che - da sempre, in Italia - possa andare non ufficialmente? Se l'arresto di Mantovani era stato richiesto più di un anno fa, significa che, senza la tregua Expo, l'avrebbero ingabbiato prima? Sono tutte domande cervellotiche e da giornalisti all' italiana: ma che il fantasma della tregua Expo purtroppo ora autorizza. Se davvero Expo ha congelato inchieste e manette, aver caldeggiato Expo potrebbe divenire un indizio di colpevolezza. Avvisati.

Caso Mantovani: sta’ a vedere che ora i pm s’inventano anche la “mafia meneghina”, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista. Chissà se nel corso dell’interrogatorio di garanzia cui sarà sottoposto oggi nel carcere milanese di San Vittore, al vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani, arrestato due giorni fa, sarà contestato anche il reato di associazione mafiosa. Non ci sarebbe di che stupirsi, ci troveremmo di fronte a una riedizione lombarda di “Mafia capitale”, una sorta di “Mafia meneghina”, insomma. Del resto, che cosa aspettarsi da un’inchiesta che i magistrati hanno voluto battezzare con il nome di “entourage”, quasi a voler processare un intero ambiente invece che singole persone? Si ha la sensazione, leggendo la corposa ordinanza di custodia cautelare, che i soliti noti hanno diffuso a piene mani ai giornalisti, che ormai, a Roma come a Milano, l’unico modello processuale possibile sia quello nel quale si perseguono i reati di mafia. Cioè il modello del maxiprocesso, nel quale si giudicano più gli ambienti e le situazioni che non – come invece vorrebbe il codice del 1989, che prevede un sistema di tipo accusatorio – il singolo imputato e il singolo reato. Ecco quindi che, nel caso di Mario Mantovani, si spendono molte pagine per elencare gli incarichi politici che nel corso del tempo il vicepresidente della Regione Lombardia ha ricoperto, quasi come se fosse strano che una persona di 60 anni si sia candidata diverse volte e diverse volte sia stata eletta (tra l’altro alle elezioni europee con il sistema delle preferenze e altrettanto alle regionali, in cui è arrivato primo tra i candidati di tutti i partiti con 13.000 preferenze). Tutto ciò evidentemente rappresenta un’aggravante, agli occhi di pubblici funzionari con carriera garantita, quali sono i magistrati. Fatto sta che, mentre a Roma stanno ancora contando gli scontrini di Ignazio Marino, per il quale nessuno tiene conto del fatto che è diventato sindaco con regolari elezioni e non con un colpo di Stato, ecco che si sgancia la bomba su Milano. Le elezioni di primavera sono servite. Se ne accorge anche la Lega (che non è proprio campionessa di garantismo) questa volta, dato che tra gli indagati spicca anche una figura di primo piano di quel partito e della Regione Lombardia, l’assessore al Bilancio Massimo Garavaglia. Il quale è indagato insieme a Mantovani per un episodio in realtà secondario, ma che ha acceso la fantasia della stampa perché riguardava il trasporto di pazienti dializzati e la richiesta che questo servizio fosse prorogato (per novanta giorni) in capo a un’associazione di volontariato prima di effettuare la gara. Una sorta di “raccomandazione”, insomma. Non certo una gara truccata. Sufficiente a giustificare un arresto? Mah. Ma c’è altro, ovviamente. E riguarda l’interessamento dell’assessore Mantovani nei confronti della carriera di un funzionario del provveditorato delle Opere pubbliche e parcelle non pagate a un architetto, che sarebbe stato compensato con qualche consulenza. È sufficiente tutto ciò per montare la panna e di conseguenza specchiarsi nelle prime pagine dei giornali al grido di “è tornata tangentopoli”? È tanto evidente il fatto che si è costruito un monumento su episodi più o meno commendevoli per creare il caso politico, che il Gip ha impiegato un anno a decidere sulle richieste di custodia cautelare, chieste dal Pm esattamente 12 mesi fa. Tanto che non c’è attività investigativa del 2015, ma fatti che vanno dal 2012 al 2014. Quanto tempo ci vorrà a far sgonfiare il soufflé? O davvero vogliamo davvero inventarci, dopo “Mafia capitale”, anche “Mafia meneghina”?

Mantovani reo di «consenso». Ecco i buchi neri dell'inchiesta. Incongruenze nelle accuse al vicepresidente della Regione Lombardia: dalle tangenti inesistenti alle «pressioni» negate dalla stessa vittima, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale. C'è una vittima presunta che nega di essere una vittima. Ci sono favori promessi e in realtà mai ottenuti. Lavori fatti per la collettività e contestati invece come vantaggi personali. Nell'inchiesta che ha sbattuto in una cella di San Vittore il vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, vi sono indubbiamente spaccati eloquenti di un andazzo dove all'interesse pubblico si soppianta spesso quello del politico, della sua cordata, del suo bacino elettorale; e vi è altrettanto evidente il conflitto di interessi potenziale di uno stesso individuo che è businessman dell'assistenza e assessore alla Sanità. Ma vi sono anche buchi neri e incongruenze che lasciano alla difesa di Mantovani spazi ampi per una battaglia con la Procura che si annuncia aspra: a partire dalla richiesta di scarcerazione che quasi certamente l'avvocato Roberto Lassini, difensore di fiducia dell'ex senatore, presenterà dopo l'interrogatorio di oggi. Mantovani è accusato di concussione ai danni di Pietro Baratono, provveditore alle Opere pubbliche della Lombardia, per averlo costretto ad riaffidare incarichi operativi a Angelo Bianchi, un funzionario che era stato messo da parte in quanto inquisito per corruzione. A verbale, Baratono parla di «pressioni molto decise» da parte di Mantovani, ma dopo l'arresto dell'ex senatore, parlando col Giornale, ha modificato il tiro: «Non pressioni, direi consigli». Sta di fatto che Baratono si guardò bene dal denunciare le pressioni o i consigli di Mantovani, rimise Bianchi al suo posto, e ai pm spiegò: «Su Bianchi ho successivamente maturato un giudizio personale nel corso di quell'anno». «Tangenti sui dializzati», titolano ieri i giornali sull'arresto di Mantovani, affrontando il tema eticamente più delicato dell'affare, l'appalto per il servizio di trasporto pubblico dei nefropatici. In realtà, la Procura non ipotizza che siano passate tangenti, tant'è vero che a Mantovani e all'assessore Massimo Garavaglia viene contestato solo il reato di turbativa d'asta. I due sarebbero intervenuti per consentire ad alcune associazioni di volontariato della loro zona di continuare a svolgere il servizio («Te lo segnalo prima che poi ci rompono le balle che abbiamo escluso la croce azzurra», dice Garavaglia a Mantovani). E ieri al Giornale il presidente della onlus che Mantovani avrebbe «miracolato», la Ticinia, spiega: «Non abbiamo chiesto nessuna raccomandazione, abbiamo solo scritto a tutte le istituzioni che alle gare d'appalto non avrebbe potuto partecipare l'intero mondo del volontariato, che statutariamente non può svolgere servizi commerciali. E infatti noi quel servizio non lo svolgiamo più». L'accusa di corruzione mossa a Mantovani riguarda gli appalti e gli incarichi pubblici che avrebbe fatto avere all'architetto Gianluca Parotti in cambio di una serie di lavori svolti per lui dal professionista gratuitamente o a prezzo ridotto. Alcune di queste prestazioni riguardano Mantovani e i suoi familiari, ma altre sono state effettuate da Parotti a favore della collettività di Arconate. Ma Mantovani ci guadagnava ugualmente, dice il giudice, perché era il sindaco del paese e in questo modo «si avvantaggia in termini di consenso».

SANITA’: L’OBBIETTIVO NON E’ SALVARE, MA INCASSARE.

Sanità, il soccorso diventa business. L'obbiettivo non è salvare, ma incassare. In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona. Il paziente è nelle mani dell’abilità del guidatore a destreggiarsi nel traffico, della capacità del personale nel massaggio cardiaco e nella rianimazione. Adesso invece anche il soccorso d’emergenza sta diventando un ricco business: in Italia si spende un miliardo e mezzo di euro per garantire gli interventi. Oggi si punta al profitto, tagliando sulla qualità, risparmiando sui mezzi e imbarcando soggetti senza qualifica. Una torta che attrae interessi spregiudicati e lottizzazioni politiche, un serbatoio di soldi facili e posti assicurati. Perché il settore di fatto è stato investito da una deregulation, che rischia di creare un Far West a sirene spiegate. Il ministero della Salute ha ceduto i controlli alle Regioni, che preferiscono affidarsi ai privati. Dalla Lombardia alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia è scattato l’assalto all’ambulanza. Nunzia De Girolamo ha perso la poltrona di ministro proprio per uno scandalo sugli appalti del 118. Ovunque sono segnalati disservizi e a Sud nella mangiatoia si è infilata persino la criminalità. Questo ai danni di oltre 150 mila volontari, che vengono scacciati per fare spazio a organizzazioni spregiudicate. «Ci sono finti volontari che ricevono lo stipendio in nero mascherato da rimborso», spiega Mario, soccorritore di Torino. Il metodo è uguale da Milano a Napoli: le associazioni di pubblica assistenza, le cosiddette “Croci”, si iscrivono all’albo regionale e sgomitano per accaparrarsi le corse. L’obiettivo non è più salvare, ma incassare. «Abbiamo scoperto persino casi di autisti alcolizzati e soccorritori zoppi», racconta Mirella Triozzi, responsabile del settore per il sindacato medici italiani: «Con l’arrivo dei privati il soccorso è diventato un colossale affare, dimenticando che in ballo c’è la sopravvivenza di migliaia di persone». In Puglia le 141 basi delle ambulanze costano 68 milioni di euro l’anno. La pioggia di denaro pubblico ha scatenato la concorrenza tra decine di onlus, che sgomitano per conquistare le postazione delle ambulanze: averne tre (il massimo consentito) significa fare bingo e incassare 120mila euro ogni mese. «Ai presidenti delle associazioni rimangono in tasca 6 mila euro al mese», riconosce Marco De Giosa, responsabile del 118 della Asl di Bari. C’è più di un sospetto su come siano stati assegnati gli incarichi: la procura del capoluogo sta indagando su un sistema di tangenti che sarebbero state smistate ai funzionari arbitri degli appalti. Stando alle inchieste, i controlli fanno acqua da tutte le parti. Nessuno ha mai chiesto la fedina penale a Marcello Langianese, ex presidente dell’Oer, Operatori emergenza radio, un ente morale con 50 ambulanze e decine di dipendenti. Langianese era il manager del soccorso che gestiva diverse postazioni tra Bari e Modugno. Mentre veniva stipendiato per salvare i pazienti, è accusato di avere architettato una rapina clamorosa. Secondo i carabinieri ha avuto un ruolo chiave nell’attacco contro un furgone portavalori nel centro di Ortona: un colpo che ha fruttato quasi due milioni e mezzo di euro. Nella regione per il business delle ambulanze si combatte persino con le bombe incendiarie, che hanno distrutto i mezzi di alcune onlus a Bari, Trani, Barletta e Foggia. A Turi, sempre nel Barese, hanno bruciato un’autolettiga nuova di zecca. L’ipotesi investigativa è che si tratti di avvertimenti criminali. Per evitare che le associazione di volontari possano spezzare il monopolio di un cartello che invece agisce solo a scopo di lucro. L’intercettazione è esplicita: «Quando ti chiamano e abbiamo bisogno a quell’orario di un’autoambulanza, mi fotto 1500 euro». È agli atti dell’inchiesta sui Lo Bianco, la cosca di Vibo Valentia che dominava la Asl locale, e spiega come ogni uscita a sirene spiegate si trasforma in denaro contante. Guadagni sicuri, costi ridottissimi: per entrare nel settore non sono richieste competenze particolari. L’imprenditore mette il capitale, acquista o noleggia i mezzi e cerca gli autisti. Va bene chiunque. Uno degli indagati è stato registrato mentre ingaggia il personale: «La guideresti l’ambulanza? La patente è quella della macchina, sono 800 euro puliti». Non è l’unico caso. Nello scorso luglio è emersa la vicenda della Croce Blu San Benedetto di Cetraro nel Cosentino. I magistrati sostengono che a gestirla fosse Antonio Pignataro detto “Totò Cecchitella”, seppur privo di incarichi ufficiali. Pignataro non è una pedina qualunque: è stato arrestato per i legami con il boss Franco Muto, “Il re del pesce”. Quanti interessi si muovano dietro i 118 “liberalizzati” lo ha fatto capire la vicenda che ha travolto Nunzia De Girolamo. Le registrazioni dei colloqui tra l’esponente del centrodestra e i vertici della sanità sannita mostrano l’opacità del settore. Sono riuniti nel giardino di famiglia e Nunzia chiede: «In tutto questo si deve fare la gara?». La discussione verte su come “bypassare la gara pubblica” e favorire un’impresa amica. In quel luglio 2012 l’atmosfera attorno alle ambulanze di Benevento è incandescente, con i lavoratori che protestano per il mancato stipendio. Il servizio è nelle mani di due imprese: la Modisan e la Sanit che lo gestiscono in proroga intascando oltre quattro milioni di euro l’anno. La prima è molto vicina alla regina del Sannio, tanto da aver contribuito finanziariamente al congresso del suo partito. L’altra ditta, invece, non è allineata: «Quelli non li voglio», dice Michele Rossi, l’uomo messo dall’ex ministro alla guida dell’Asl. La lottizzazione riguarda pure la rete dell’assistenza, sfavorendo la copertura nei comuni guidati da giunte non allineate. Come racconta Zaccaria Spina, sindaco di Ginestra degli Schiavoni a 40 chilometri dal capoluogo: «Per venire da noi l’ambulanza ci mette un’ora. I cittadini ormai si sono rassegnati e se c’è un’emergenza si mettono in auto e scappano. Scoprire cosa c’era dietro quelle scelte dà molta amarezza». Nel Lazio uno strano appalto agita i sonni dell’agenzia regionale che gestisce migliaia di ambulanze. La cronica mancanza di risorse ha portato l’ex governatrice Renata Polverini a concedere ai privati quaranta basi, le postazioni dalle quali partono gli equipaggi che coprono la provincia di Roma. Un affare da dieci milioni l’anno, senza gara: vengono assegnate per affidamento diretto alla Croce rossa italiana. Un’istituzione storica seppur piena di debiti, che decide di “girare” l’attività operativa a una srl di Milano, la Cfs costruzioni e servizi: una società specializzata in pulizia e manutenzione di immobili, che applica la logica del ribasso. Così al personale assunto per la missione capitolina viene offerto un contratto singolare: quello da animatore turistico. Soccorritori trattati come se lavorassero in un villaggio vacanze. Perché? Semplice: con questo contratto si risparmia un terzo della paga. Solo dopo un esposto del sindacato è scoppiato il caso. «In questo settore c’è il divieto di dare subappalti, eppure è quanto ha fatto la Croce rossa con l’aggravante di aver avallato condizioni di lavoro ridicole», accusa Gianni Nigro della Cgil Lazio. In Sicilia anche le ambulanze sono diventate uno stipendificio: un pronto soccorso per favorire assunzioni di massa. Nel 2002 grazie a un corso per formare i guidatori-soccorritori con prove di guida banali e surreali test di comunicazione, ben 1600 persone vennero imbarcate in una società creata da Regione e Croce Rossa per garantire il salvataggio nell’isola. Un colosso con un totale di 3300 dipendenti. Che secondo la Corte dei Conti ha prodotto uno spreco di denaro pubblico. L’allora presidente Totò Cuffaro è stato condannato a pagare un danno erariale da 12 milioni per quell’infornata di autisti e soccorritori. Troppi. E troppo costosi. In Sicilia si spende per un’autolettiga 440 mila euro l’anno, contro 100 mila della Toscana. La ragione? Molte macchine sono praticamente ferme o escono solo per tre interventi al mese. L’ultima truffa da venti milioni di euro l’ha scovata l’assessore alla Salute Lucia Borsellino: negli ultimi due anni 160 dipendenti sarebbero stati regolarmente stipendiati mentre in realtà rimanevano a casa. Oltre 600 mila ore non lavorate ma retribuite. Nonostante lo sperpero di denaro, l’assistenza non soddisfa. E la giunta Crocetta ora vuole schierare la cavalleria dell’aria: sei elicotteri, con un costo per il noleggio di 178 milioni in sette anni. Non è una questione solo meridionale. Dietro le sirene si scoprono ovunque storie di sfruttamento e drammatici disservizi. In Lombardia ogni anno il Pirellone stanzia 315 milioni per dare assistenza rapida: ogni intervento è una fattura e inserirsi nelle metropoli permette di moltiplicare i guadagni. Ma a Milano un incidente stradale ha scoperchiato un sistema marcio: l’ambulanza ha bruciato un semaforo e si è andata a schiantare. Si è scoperto che l’autista non dormiva da tre giorni. Da lì sono partite le indagini che hanno svelato quanto sia pericolosa la trasformazione del soccorso in business: precari a bordo pagati a cottimo e obbligati a turni massacranti, mezzi fuori norma, corsi d’addestramento fantasma. Tre inchieste parallele della Finanza in corso dal 2010 stanno svelando lo stesso meccanismo di truffe e peculato. Con risultati raccapriccianti: i responsabili di tre onlus - Croce la Samaritana, Ambrosiana e San Carlo - usavano il denaro pubblico destinato alle emergenze e alla formazione per le loro vacanze, per l’asilo dei figli, scommesse ai videopoker, le auto personali e perfino l’acquisto di una casa. Spese senza freno e i rischi scaricati su migliaia di feriti. Loro stessi ne erano consapevoli e dicevano cinicamente: «Se stai male non chiamare le nostre ambulanze sennò muori». Hanno collaborato Antonio Loconte, Piero Messina, Claudio Pappaianni e Giovanni Tizian.

Pillole a chi non ne aveva bisogno. Le truffe milionarie della sanità. Le truffe nella sanità sono costate allo Stato più di un miliardo, tra false esenzioni e prescrizioni inutili Buco di 1,67 miliardi tra gennaio 2014 e settembre 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera". Furgoncini utilizzati come ambulanze, centinaia di migliaia di farmaci per l’ipertensione prescritti anche a chi non ne ha bisogno, dipendenti di ospedali e cliniche convenzionate che timbrano il cartellino della presenza e tornano a casa. E poi strutture costate decine di milioni di euro e mai aperte come il «Centro cuore» della Calabria, appalti truccati, Isee falsificati per ottenere l’esenzione dai ticket. Se si esamina il dettaglio delle truffe e degli abusi nel settore della sanità pubblica si comprende che molto si può fare per riuscire a risparmiare. La quantificazione del danno è stata effettuata dalla Guardia di Finanza: un miliardo e 67 milioni di euro tra il 1 gennaio 2014 e il 30 settembre 2015. A tanto ammonta il «buco» nelle casse dello Stato provocato dagli illeciti compiuti da medici, infermieri, tecnici di laboratori, ma anche da quei cittadini che lucrano sulle prestazioni per ottenere vantaggio. Non a caso le indicazioni fornite ai comandi delle Fiamme Gialle di tutta Italia invitano ad aumentare i controlli «perché l’attività a contrasto degli illeciti in materia di spesa pubblica contribuisce all’aumento del livello di compliance della platea di soggetti a cui spettano le misure di agevolazione assistenziale e previdenziale». Secondo le norme «la prescrizione di alcuni farmaci “anti-ipertensivi” di costo elevato e rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale deve essere preceduta da una cura con farmaci contenenti il medesimo principio attivo ma non in “associazione fissa”, il cui costo è inferiore ai primi di circa un terzo». Le verifiche compiute in Puglia dai finanzieri sulle ricette emesse tra il 2012 e il 2014 hanno portato alla denuncia di «482 medici di Brindisi, Bari, Lecce e Taranto, che hanno indebitamente prescritto farmaci - ben 15.541 confezioni - arrecando un aggravio al bilancio delle Asl di 194 mila euro». È costata invece oltre un milione e mezzo di euro la truffa contro la Asl di Brescia per la convenzione con alcune società che dovevano occuparsi del trasporto dei pazienti dializzati grazie alla presentazione di richieste di rimborso per oltre due milioni di chilometri mai percorsi e di tariffe ben più alte di quelle massime fissate dalla Regione Lombardia, ma anche facendo risultare un numero di trattamenti molto più alto di quelli effettuati e falsando il numero delle persone trasportate». A Bergamo il meccanismo scoperto era analogo, con un’aggiunta: «anziché furgoncini, le società attestavano di utilizzare l’ambulanza e così aumentavano ulteriormente l’entità dei rimborsi». La Finanza di Sulmona ha denunciato i dipendenti della Asl che dopo aver timbrato il cartellino «tornavano a casa oppure andavano a fare compere o la spesa». Alcuni loro colleghi non perdevano neanche il tempo di andare a strisciare il badge : «Non andavano in ufficio e poi presentavano comunicazione sostitutiva dichiarando di aver perso il cartellino». Per episodi analoghi dieci dipendenti della Asl di Benevento in servizio in ospedale sono stati sospesi dal servizio per ordine del giudice: avevano infatti creato un sistema di turni in modo che gli «assenti» venivano coperti dagli altri. Tra le numerose truffe scoperte dagli specialisti delle Fiamme Gialle ci sono quelle compiute grazie alla falsificazione dell’Isee, l’indicatore della situazione economica di ogni cittadino. Nel maggio scorso a Siracusa sono state segnalate alla magistratura «162 persone che hanno presentato dichiarazioni false e in questo modo hanno ottenuto l’esenzione dal pagamento del ticket». Non sono gli unici, visto che in tutta Italia sono migliaia gli illeciti scoperti. Emblematico il caso di una signora di Genova, moglie di un ricco imprenditore, che era riuscita a risultare totalmente indigente e così non pagava nemmeno un centesimo per cure e medicine. A Piacenza è stata scoperta una clinica convenzionata che faceva risultare ricoverati pazienti in realtà curati in ambulatorio. Danno accertato: 1 milione e 200 mila euro. In Piemonte erano state allestite cliniche in un ex albergo di mon-tagna e nell’abitazione del rappresentante di una delle società che aveva ottenuto la convenzione per il trattamento sociosanitario. Esborso previsto: 3 mila euro a paziente. A Cosenza centinaia di cittadini «beneficiari della “indennità di accompagnamento” negli anni tra il 2010 e il 2014, erano stati ricoverati presso strutture ospedaliere pubbliche o private per periodi superiori a 30 giorni, con retta a totale carico del Servizio sanitario nazionale, senza effettuare le prescritte comunicazioni all’Inps ed evitando che l’erogazione del beneficio venisse sospesa». 

ROMA ED IL MOSTRO MARINO.

8 ottobre 2015. Ignazio Marino si dimette da Sindaco.

Marino e la tentazione di Tunina. Un bianco friulano sta facendo molto parlare di sè. Ma non solo per questioni enologiche. Ecco il vino che a Marino è costato molto caro, scrive E.C. su “L’espresso”. Che l’abbia bevuta con la moglie o con il rappresentante del World Health Organization, che sia stata una cena istituzionale o un tête-à-tête coniugale, non può sfuggire che Ignazio Marino, ormai ex sindaco di Roma, i vini li sa scegliere. E, paradossalmente, è il motivo per cui il ristoratore può puntare il dito contro di lui. “Come può ricordarsi a distanza di due anni da quella sera del vino bevuto da due clienti?” ha chiesto il giornalista di Repubblica a uno dei titolari della Taverna degli Amici, luogo del presunto delitto. “Perché quella non è una bottiglia da tutti” ha risposto. Il Vintage Tunina di Jermann, un armonico uvaggio bianco di Sauvignon, Chardonnay, Ribolla Gialla, Malvasia Istriana e Picolit, tra i fiori all’occhiello della produzione vitivinicola friulana, è davvero un vino per buongustai. La vendemmia 2013 ha appena ottenuto un buon punteggio (16,5/20) nella guida dei vini dell’Espresso 2016 e gli ambiti tre bicchieri dalla guida del Gambero Rosso. Al successo di critica fa eco quello del pubblico. Infatti, come dice il direttore delle guide dell’Espresso Enzo Vizzari, “non solo si tratta di unvino di qualità, ma è tra i più famosi all’estero. Se a un appassionato americano si chiede di elencare tre bianchi italiani, nella terna delle risposte non mancherà mai il Vintage Tunina”. Questo vino, che nasce nel cuore del Collio Friulano, ha un colore brillante, riflessi dorati e naso elegante e ampio. Il massimo per chi ama i sentori di miele e fiori di campo nel calice. Asciutto ma morbido, mai spigoloso, ha corpo sostenuto ed è molto persistente. Se Marino è davvero un buon palato avrebbe dovuto mangiar pesce, che si sposa alla grande con questa tipologia. Ma il ristoratore non si ricorda i piatti ordinati. Anche il nome ha un che di affascinante perché Tunina (Antonina) era una delle amanti (la meno danarosa a dire il vero) di Casanova, una governante veneziana. Ma sono poche le probabilità che Marino abbia scelto l’etichetta per omaggiare la memoria della povera sedotta e abbandonata. "Fa sempre piacere sentir parlare bene del nostro vino – commenta l’amministratore delegato di Jermann, Edi Clementin– anche se in questo caso Ignazio Marino è testimonial della nostra etichetta in modo involontario". Comunque come estimatore ha una folta compagnia, spesso internazionale: su 60 mila bottiglie di Vintage Tunina, la metà viene bevuta all’e stero, in particolare Usa, Uk, Russia, Germania. Il sindaco ha pagato la bottiglia 55 euro, il Tunina esce dalla cantina a 37. Un ricarico onesto.

Marino sepolto sotto le macerie di Roma. Il suicidio politico del sindaco si abbatte su una città ormai disastrata. Non ci sono poteri forti, partiti radicati, leadership rampanti. E' solo guerra per bande in un panorama di distruzione. Tocca a Renzi esercitare il suo ruolo-guida. Se c'è ancora tempo per evitare che il virus della Capitale contagi il resto del Paese, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Le macerie di Beirut, la marcia funebre di Beethoven, i paesaggi dei fori romani... La forza delle rovine: si intitola così la bellissima mostra inaugurata a Roma a Palazzo Altemps. Mai esposizione è stata così tempestiva e attuale. Le rovine parlano, le rovine raccontano di una città, di un destino individuale o collettivo ben più di un edificio perfettamente in funzione che può sembrare in piedi e invece è solo l'anticipo di un disastro. Come dimostra la parabola di Ignazio Marino, una lezione universale, qualcosa di più della semplice crisi di una giunta comunale o del triste destino di un sindaco sprovveduto (o forse fin troppo furbo), ben intenzionato a sfidare i poteri forti della città ma evidentemente troppo debole per non finire travolto. "Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. I come to bury Caesar, not to praise him", sono venuto a seppellire Cesare, non a lodarlo, dice Marcantonio nel "Julius Caesar" di William Shakespeare. A pochi metri dagli antichi fori, teatro della congiura delle idi di marzo, sul colle del Campidoglio si consuma la sepoltura politica di Ignazio Marino. In una drammatica giornata di vertici, riunioni, dimissioni, urla in piazza di fascisti e nuovi arrivati, il Pd che si auto-affonda e arriva a sfiduciare il suo sindaco. Dopo l'ultimo autogol del marziano, il videomessaggio in cui prometteva di "regalare" a Roma 20mila euro di spese non giustificate dalla sua carta di credito, seguito a un'incredibile, sconcertante fila di smentite, dalla comunità di Sant'Egidio all'ambasciata vietnamita. Non si può difendere, e meno che mai lodare, Marino per una vicenda che esce dal perimetro della politica per invadere quello dello psicopolitica, l'effetto dello stress e della vanità, dell'accerchiamento e della presunzione. L'impossibilità di amministrare di chi, evidentemente, non era adeguato a reggere il compito. Eppure, una volta che Marino se ne sarà andato nel plauso generale, si dovrà ragionare a mente fredda su cosa sta succedendo da molti anni a Roma, la Capitale d'Italia. Nel giro di un lustro un presidente di regione del centro-sinistra si è dovuto dimettere per una squallida questione di trans, droga e ricatti. Un'altra presidente di centro-destra se n'è andata dopo solo due anni di governo per l'uso disinvolto dei fondi regionali da parte dei consiglieri di maggioranza e opposizione. L'ex sindaco Gianni Alemanno è stato indagato per mafia (una settimana fa è stato prosciolto da questa ipotesi di reato). E il suo successore Marino se ne va: hanno provato a cacciarlo in tutti i modi e ci sono riusciti. E poi l'inchiesta Mafia Capitale e gli arresti eccellenti equamente distribuiti, il Mondo di Mezzo. Più altri misteri: perché, ad esempio, Nicola Zingaretti decise di non correre per il Campidoglio? Si sarebbero evitati tanti guai, forse, compresa la giunta Marino. A Roma sono nati i due progetti politici più importanti degli ultimi vent'anni. Il centrodestra di Berlusconi, che nacque il 23 novembre 1993 quando il Cavaliere affermò ai giornalisti nell'Eurormercato di Casalecchio di Reno che se fosse stato elettore romano avrebbe votato per Gianfranco Fini (in quel momento ancora segretario del Msi) contro Francesco Rutelli. E il Partito democratico, germogliato in Campidoglio prima che nel resto d'Italia: il tanto magnificato modello Roma di Rutelli e soprattutto di Walter Veltroni, regia di Goffredo Bettini. Roma è stata la culla del centro-destra e del centro-sinistra, ora ne è la tomba. Ci si può accanire con un certo sadismo (e con qualche punta di viltà) contro il sindaco Marino e le sue ricevute pasticciate, tutta la città e tutta l'Italia ne sghignazzano in queste ore, domani la risata supererà i confini nazionali. Marino è indifendibile, non ha nessuno che lo difende, infatti. Marino è l'uomo da bruciare e non ha fatto quasi nulla per evitare questa condizione: le vacanze interminabili, il giallo del viaggio americano, il disconoscimento del papa (è forse l'unico essere vivente su cui Bergoglio ha evitato di esercitare la sua misericordia), la tragicommedia dei ristoratori che elencano a memoria il prezzo delle bottiglie di vino alla tavola del sindaco due anni fa. Marino è un suicida politico che è riuscito nel suo intento. Ma sepolto lui resta la politica romana, la più corrotta e la più sputtanata d'Italia. Nella Capitale, attorno agli altri palazzi del potere: Palazzo Chigi, il Quirinale. Travolto è il partito del sindaco, il Pd, e il suo commissario Matteo Orfini, il giovane turco che nei mesi scorsi aveva puntato a tenere in vita Marino per costruirsi un maggiore potere nel partito. Ma anche Matteo Renzi non può dirsi indenne. Ha rifiutato di occuparsi di Roma, ha sempre ostentato la sua estraneità alla città, ai suoi vizi e alle sue mollezze, e la Ricottona si prende la sua rivincita. La catastrofe romana, alla vigilia del Giubileo, oscura la riforma renziana della Costituzione in votazione al Senato, la legge di stabilità in dirittura di arrivo, perfino i venti di guerra nel Mediterraneo. Chiama in campo direttamente Renzi nella sua qualità meglio custodita: la capacità di leadership. Per mesi il premier-segretario del Pd ha rifiutato di toccare anche con un dito il groviglio capitolino, si è limitato a lavorare ai fianchi il sindaco, a togliergli l'aria, a delegittimarlo sui giornali e in tv. E intanto coltivava il suo vero punto di riferimento nella Capitale, il prefetto Franco Gabrielli. Anche in queste ore la tentazione di Palazzo Chigi è trasformare il male in bene. Una volta liberati da Marino, si ragiona, il governo potrà lavorare d'amore e d'accordo con il commissario Gabrielli e al momento del ritorno alla urne gli elettori si saranno dimenticati di questa pagina nera. Un calcolo cinico, forse, ma razionale. Se non fosse che a Roma, da tempo, la situazione è fuori controllo. La città è allo sbando, irriconoscibile per i romani che la amano, infrequentabile per chi si avventura per le sue vie anche soltanto per poche ore. Strade allagate, autobus imbizzarriti, taxi introvabili. Crollo dell'offerta culturale. Periferie mostrificate. Di fronte a questa situazione indegna per una capitale, per soffocare Marino si è continuato a togliere ossigeno alla città. Nell'asfissia politica il sindaco è diventato la vittima designata da eliminare. Ma si sono spenti anche quei residui di partecipazione garantiti dai vecchi partiti. Il Pd è in mano a un pugno di notabili, sempre gli stessi da un ventennio, traslocati dal modello Roma all'incubo Marino, non credono da tempo a nulla e vogliono sopravvivere a tutto. La destra è polverizzata. E se si andasse a votare subito i romani si dividerebbero in due schieramenti a sorpresa, un inedito bipolarismo. I civici di Alfio Marchini (che già grida: "Roma ai romani. Noi ci siamo"), pronti a coprire il vuoto lasciato dai berlusconiani e post-fascisti nell'elettorato moderato, contro il Movimento 5 Stelle di Alessandro Di Battista, a caccia di consensi a sinistra e nelle borgate. Alle elezioni europee del 2014 nei quartieri fuori dal raccordo anulare il Pd ha preso il 36,2 per cento, undici punti in meno rispetto al 47,5 per cento dei quartieri del centro. M5S ha raggiunto il 32,7 per cento (contro il 16,1 dei quartieri centrali) ed erano le elezioni del massimo successo di Renzi, quelle del 40,8 per cento nazionale del Pd. I renziani a Roma non esistono. Sono un happy hour permanente, un salottino allocato tra i quartieri della Rai e le piazzette del centro, senza cultura, senza soggettività politica. Il renzismo a Roma non è partito, è l'apparato statale rappresentato dal prefetto Gabrielli che fa da supplente all'assenza di una squadra e di un gruppo dirigente. Perfino le antiche lobby sono spezzettate, frantumate: la razza padrona del mattone, i palazzinari, hanno brillato fino all’ultimo piano regolatore della giunta Veltroni, ma ora anche il potere immobiliare è in difficoltà. L'Atac presenta 140 milioni di euro di buco previsti nel 2015, un debito che oscilla tra 1,4 e 1,6 miliardi, 11.800 dipendenti iscritti quasi tutti a tredici sigle sindacali, una flotta di 2.200 autobus, di cui il 40 per cento fuori uso, e 22 milioni di euro di danno per assunzioni illegittime, secondo la Corte dei conti. Non ci sono poteri forti, partiti radicati, leadership rampanti, solo la guerra per bande in un panorama di macerie. Uno scenario libico, nel cuore dell'Italia, lasciato incancrenire. E ora tocca a Renzi esercitare il suo ruolo-guida. Se c'è ancora tempo, se si può evitare che il virus della Capitale contagi il resto del Paese.

Roma, ira del sindaco Marino dopo le dimissioni: «Basta, ora farò i nomi». Lo psicodramma del sindaco di Roma che avverte il partito, scrive Ernesto Menicucci su “Il Corriere della Sera”. Ci ha provato fino all’ultimo a rimanere, a resistere, a non abdicare. Passando, nel corso della sua giornata più drammatica, dalla rabbia alla depressione, dalle rivendicazioni al senso di solitudine più nera. Alla fine, dopo il colloquio con gli assessori Marco Sabella (l’uomo su cui Marino si era appoggiato) e Marco Causi, il chirurgo dem ha capito che non c’era più nulla da fare: «Perché mi fate questo? Io sto cambiando Roma». Sabella e Causi gli riferiscono «l’ambasciata» di Orfini e gli danno il colpo di grazia: «Ignazio basta, è finita. La tua maggioranza non esiste più. In dieci assessori (su dodici, ndr) siamo pronti alle dimissioni». Il primo a dirlo, in giunta, era stato Stefano Esposito, senatore dem spedito a governare i Trasporti. Poi la slavina: lo stesso Causi, Luigina Di Liegro e giù giù tutti gli altri. Marino, lì, ha capito che era davvero al capolinea. Del resto, glielo aveva detto già di buon mattino Orfini, al telefono: «Abbiamo deciso. Ti devi dimettere». Il sindaco, però, l’ha presa malissimo. E, con l’animo scosso, il cuore in tumulto, ha reagito di stizza, come gli capita solo nei momenti molto privati: «Cacciarmi? Se lo fate farò tutti i nomi: chi del Pd mi ha proposto Mirko Coratti e Luca Odevaine (due degli arrestati di Mafia Capitale, ndr) come vicesindaco e come comandante dei vigili. Vi tiro giù tutti». Marino ha ricordato di «avere tutto scritto nei miei quaderni» e di «avere anche degli sms di dirigenti nazionali del Pd». Una minaccia, come quella di scrivere un libro «esplosivo», che gli starebbe curando l’ex caposegreteria Mattia Stella, dimessosi quest’estate dopo la relazione di Franco Gabrielli. Marino si difende: «Non sono un ladro, non ho fatto niente, posso giustificare tutte le spese sostenute». Versione alla quale neppure i suoi credono più: scartabellando le ricevute, in Campidoglio erano terrorizzati anche per quelle all’albergo vicino al Colosseo. Cene dove però era anche indicato un numero di stanza, «ma solo per il sistema di fatturazione dell’hotel», hanno poi ricostruito i suoi collaboratori. Marino, dopo la telefonata con Orfini, è rimasto chiuso nella sua casa vicino al Pantheon. Con lui, solo la «fedelissima» Alessandra Cattoi, la collaboratrice di sempre che Marino ha nominato assessora. Una mattinata da psicodramma, col sindaco che è passato dalla voglia di mollare a quella di resistere: «Hanno citofonato a casa di mia madre, hanno cercato mia moglie al telefono. Ti rendi conto? È davvero troppo», il suo sfogo. Si è sentito «braccato», in gabbia, accerchiato. Ma lei, a poco a poco, l’ha convinto a mettersi in trincea: «Convochiamo i tuoi sostenitori in Campidoglio, non puoi andar via così», il consiglio. Marino ha cominciato a pensare alla «resistenza a oltranza», a un «videomessaggio struggente». Arriva in Campidoglio evitando cronisti e contestatori, riunisce la Giunta, i consiglieri comunali (con i quali si commuove anche), i presidenti di Municipio, chiede a tutti «se siete ancora con me». Alle tre del pomeriggio pensa ancora di poter «spaccare il Pd: se qualcuno si dimette lo sostituirò». In Comune lo vedono vagare da solo, nei corridoi e nel suo studio. Alterna momenti di riflessione a incontri con lo staff, aspetta le risultanze dei vertici al Nazareno, spera in una dichiarazione di Renzi che gli conceda «l’onore delle armi». Quando Causi e Sabella (anche a lui, in Giunta, era scappata una lacrima) gli comunicano il responso, facendogli balenare l’ipotesi di un «salvacondotto», molla. Poi prepara il video di addio e ragiona sul futuro: «I romani sono con me. Potrei anche presentarmi con una mia lista contro il Pd». Un’altra minaccia, forse l’ultima.

Dimissioni Ignazio Marino, il sindaco: “Ogni nome un favore, ora tiro giù tutti. Per farmi fuori mancava solo la coca in tasca”. Il primo cittadino dimissionario: "Dieci consiglieri su 19 piangevano. Renzi? Mai sentito". Celebra un matrimonio e smentisce tutti i retroscena: "Mai detto che farò i nomi". Salvini lancia la Meloni, il premier non vuole le primarie del Pd. Orfini: "Ho tentato di salvarlo ma ha fatto troppi errori", scrive “Il Fatto Quotidiano”. Ignazio Marino si prepara a guadagnare l’uscita del Campidoglio, ma annuncia fuoco e fiamme fino all’ultimo minuto e anche dopo. Mette nel mirino, in particolare, il suo stesso partito e chi “non avrebbe dovuto sostenerlo e non l’ha fatto”. E, almeno a parole, non ha più freni. Dice di non aver mai sentito, in queste ore, il segretario Matteo Renzi. Ma che, pur di cacciarlo, quelli che lo volevano fuori dal Campidoglio gli “avrebbero messo della cocaina in tasca”, dice in un’intervista alla Stampa. E i retroscena vanno oltre. Raccontano di un sindaco che “l’ha presa malissimo” quando si è trovato contro anche mezza giunta e mezza maggioranza in consiglio comunale. “Cacciarmi? Se lo fate farò tutti i nomi – ha detto il sindaco uscente secondo un retroscena del Corriere della Sera – Chi del Pd mi ha proposto Mirko Coratti e Luca Odevaine (due arrestati di Mafia Capitale, ndr) come vicesindaco e come comandante dei vigili. Vi tiro giù tutti”. Sullo sfondo, tra l’altro, la pubblicazione di un libro scritto insieme a Mattia Stella, il suo ex caposegreteria, che ha lasciato l’incarico durante l’estate dopo la relazione del prefetto Franco Gabrielli sull’inchiesta Mafia Capitale. Marino ha ricordato di “avere tutto scritto nei miei quaderni” e di “avere anche degli sms di dirigenti nazionali del Pd”. Uno scenario confermato anche da un altro retroscena, di Repubblica: “Se io affondo – avrebbe detto il sindaco – li porto tutti giù con me. Nessuno si illuda: farò nomi e cognomi di chi mi ha chiesto favori, raccomandato assessori poi indagati e gente di Mafia Capitale. Ho le prove, le porterò in tv”. Ma è stato l’ultimo tentativo, subito prima di essere invitato a lasciare anche dai suoi assessori più vicini, come quello alla Legalità Alfonso Sabella. E però ora annuncia un tour in tv, dice che Odevaine gliel’ha raccomandato Walter Veltroni, che ha le schede con tutti i favori che in due anni mi hanno chiesto consiglieri e esponenti politici. Marino smentisce tutto: “Leggo su alcuni quotidiani frasi che mi vengono attribuite – dice – Le smentisco. Non ho mai detto ‘ora farò i nomi': tutto ciò è falso e sono costretto ancora una volta a procedere con le querele oltre alle richieste di danni in sede civile”. Il sindaco ha celebrato al Campidoglio il matrimonio di una coppia di amici. Ha letto una poesia di Neruda per suggellare l’amore tra Jamie e Matteo, mantenendo la promessa fatta tempo fa ai suoi due amici, ignaro di cosa fosse avvenuto. Nel giorno delle dimissioni, tra l’altro, Marino ha firmato l’assegno per riconsegnare i soldi spesi con la carta di credito in assegnazione al primo cittadino: si tratta di circa 20mila euro. Marino: “Scontrini? Non escluso imprecisioni degli uffici”. “Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca”. Il sindaco dimissionario si sfoga così in un’intervista alla Stampa nel giorno del suo addio al Campidoglio. Torna alle ricevute e precisa: “Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi”, e ribadisce di essere “disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio”. “Dieci consiglieri su 19 piangevano. Renzi? Mai sentito”. Marino rivendica di aver “rotto le uova nel paniere del consociativismo politico”, ricorda che “Roma sarà parte civile nel processo di Mafia Capitale. Noi abbiamo tagliato le unghie a chi voleva mettere le mani sugli affari” e ora si augura che “chi verrà dopo di me non riporti Roma indietro”. Afferma poi che in questa vicenda nel Pd “mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Delrio e Giovanni Legnini, entrambi molto avviliti per quanto accaduto”. E in Comune “10 consiglieri del Pd su 19″ piangevano. Così come Sabella che “mi ha detto di non aver mai pianto così in 35 anni”. Su Renzi dice: “Non avendo avuto l’opportunità di parlare col presidente del consiglio, non ho potuto conoscere qual è il suo giudizio”. Nessuna minaccia – aggiunge – dietro la puntualizzazione di avere 20 giorni per ritirare le dimissioni: “Prendo atto che Pd e Sel, due partiti della maggioranza, hanno chiesto le mie dimissioni. E un chirurgo non può restare in sala operatoria senza il suo team”. Ora “la decisione non è più nelle mie mani. E io sono l’ultima persona al mondo che vuole occupare una poltrona”. In realtà Marino è caduto perché anche l’ultimo pezzo del Pd lo ha lasciato. Ai vertici del partito nazionale, per esempio, il suo garante in questi mesi è stato il presidente Matteo Orfini. Che però ora dice: “Anche alla luce di quanto emerso in questi giorni, il capitolo è chiuso. Avevamo il dovere di voltare pagina” e “lo dice chi più di tutti ha cercato di rilanciare l’azione dell’amministrazione”. Intervistato da Repubblica, Orfini sbarra la strada ad ogni ripensamento sulle dimissioni del sindaco di Roma Marino: “Tra venti giorni ci sarà il commissario”. E precisa: “Nessuno ha voluto la sua testa. È finita perché si è rotto il rapporto con la città”. “Prima di interrompere un’esperienza votata dagli elettori – afferma – si doveva tentare di tutto. Ma di fronte agli errori commessi, emersi anche in queste ore, non si poteva più andare avanti”. Orfini rimarca che, al di là della vicenda degli scontrini sui quali “le valutazioni le farà la magistratura, il suo errore è tutto in quello slogan elettorale: ‘Non è politica, è Roma‘. Questo è mancato, un progetto di città. È mancata la politica”. “Il Pd – dice – ha fatto il possibile, ora risolverà rapidamente i problemi della città. In tempo per il Giubileo. Roma si trova nella stessa situazione di Milano prima dell’Expo: replicheremo quel miracolo. Di questo si parlerà tra sei mesi”. Quindi afferma che per le elezioni “non abbiamo timori. Cambieremo i sondaggi. E il giorno dopo il voto la destra e i grillini commenteranno la loro sconfitta”. La delusione e l’amarezza sono anche dell’assessore alla Legalità del Comune Alfonso Sabella, uno di coloro che è rimasto al fianco di Marino e che però viene dato nella rosa di chi potrebbe fare il commissario, ma serve essere “o un prefetto in servizio o un magistrato in quiescenza: io, da quando sono in Campidoglio, sono invecchiato di una decina d’anni ma non sono ancora in quiescenza”. “Stavamo facendo qualcosa di importante in questa città – dice il magistrato in un’intervista al Corriere della Sera – stavamo riportando il rispetto delle regole e la legalità, e tutto rischia di andare in malora per una bottiglia di vino da 55 euro”. “Di fronte all’assalto mediatico – spiega – l’unica possibilità sarebbe stata rispondere e dimostrare al millesimo la correttezza di ogni spesa. Stiamo parlando di circa 9mila euro di ricevute contestabili in teoria, su un totale di 19.704,36 euro; cifre esigue, anche perché, con tutto il rispetto, di quanto hanno speso gli altri sindaci non sappiamo nulla. Ma non sarò io a nascondere la gravità dei reati ipotizzabili. Purtroppo, per fatti da cui sono trascorsi anche due anni, questa dimostrazione al millesimo non era possibile”. “Questo – aggiunge – imputo a Ignazio: la leggerezza sua o del suo staff nel creare una situazione simile. Io non credo che il sindaco abbia rubato o mentito intenzionalmente; credo che abbia fatto un po’ di confusione, anche perché la scelta di mettere a disposizione gli scontrini è stata sua, e purtroppo ora la stiamo pagando a caro prezzo”.

“Querelo i giornali”, minaccia Marino, eppure…

Nei quaderni del sindaco date e nomi cerchiati in verde. L’ultima sfida di Ignazio Marino: con la fascia tricolore al processo di Mafia capitale, scrivono Ernesto Menicucci e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Ci sono quelli sistemati in ordine alfabetico e dedicati ad ogni assessore e quelli dove ha annotato incontri e telefonate. Sono tutti rigorosamente con la copertina nera e rigida, hanno date e nomi scritti o cerchiati con la penna verde. Ogni tanto c’è anche un post it giallo, forse ad evidenziare meglio le informazioni importanti. Eccoli i tanto temuti quaderni del sindaco Ignazio Marino, le pagine utilizzate negli ultimi mesi per annotare ogni appuntamento, segnalazione, proposta, raccomandazione. Alcuni li conserva a casa, altri in ufficio, ma c’è chi è sicuro che abbia anche un posto più segreto dove custodirli. Materiale prezioso per il libro che avrebbe quasi finito di scrivere o forse per quella resa dei conti alla quale prima ha minacciato e poi smentito di voler arrivare. Del resto in queste settimane vissute sotto assedio li ha portati con sé anche in televisione, forse a voler dimostrare che di ogni momento ha memoria scritta. È un’abitudine che con il trascorrere del tempo si è trasformata in una sorta di mania. Nel corso dei colloqui il sindaco prende appunti e poi li trascrive sui suoi quaderni, fa veri e propri schemini, evidenzia i punti che ritiene fondamentali. E forse su una di queste pagine ha sottolineato quella che per lui sembra essere diventata l’ultima sfida: presentarsi in Tribunale il 5 novembre, con la fascia tricolore ancora al collo, per l’inizio del processo su Mafia Capitale, nel quale il Comune si è costituito parte civile. Sarebbe, per Marino, quella «resa onorevole» che tante volte, in queste ore, ha provato ad ottenere dal Nazareno. Un atto pubblico - da parte di Renzi o dei vertici del Pd - per riconoscerli almeno l’«onestà», il fatto di essere stato magari un sindaco un po’ pasticcione con le note spese ma che si è battuto contro il malaffare romano. Una via stretta, però. E anche molto complicata. Palazzo Chigi preme per avviare la procedura di commissariamento, gli stessi collaboratori più fidati lo sconsigliano, spiegando che avrebbe dovuto porla come condizione al momento di annunciare le dimissioni, non dopo. Nulla ancora si può escludere, neanche una forzatura per protocollare le dimissioni il 16 ottobre in modo che i venti giorni cadano proprio all’avvio del dibattimento. Senza escludere che prima di allora Marino potrebbe essere convocato in Procura per l’indagine sui suoi scontrini. La prima bozza di difesa è quanto dichiarato in questi giorni: «Non faccio io le note spese». Ci pensano gli uffici, oppure Silvia Pelliccia, la segretaria che ha la delega sul conto intestato al sindaco, dove è «appoggiata» la carta di credito comunale. Lui dovrà comunque ricostruire date e circostanze, facendo ricorso proprio ai quaderni. L’utilizzo dei soldi pubblici a fini privati fa scattare automaticamente l’accusa di peculato. Una via d’uscita potrebbe essere quella della tenuità del reato, ma su questo c’è ancora molto da lavorare.

Marino: “Pur di cacciarmi mi avrebbero messo la cocaina in tasca”. “Renzi? Non ho avuto l’opportunità di conoscere il pensiero del presidente del Consiglio. Ma metà dei consiglieri Pd piangeva”, scrive Massimo Gramellini su “la Stampa”. Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo». 

Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?

«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca». 

Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.

«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada». 

Vox populi: si dava arie da integerrimo e invece sotto sotto era uno spendaccione come gli altri. 

«Infatti una volta in cui mi trovavo in albergo a Londra per un convegno con i sindaci europei, ho rinunciato al buffet da 40 sterline perché mi sembrava uno schiaffo alla miseria. Ho attraversato la strada e sono andato da Starbucks».

Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.  

«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».

Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no? 

«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».

Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?

«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».

Da Renzi si sarebbe aspettato un atteggiamento diverso?

«Diciamo che Renzi non ha avuto la possibilità di apprezzare i cambiamenti epocali che abbiamo fatto in questa città».

Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.

«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».

E Renzi?

«Non avendo avuto l’opportunità di parlare col presidente del consiglio, non ho potuto conoscere qual è il suo giudizio».

Brr, che freddo. Lei ha presentato le dimissioni dicendo che in base alla legge ha venti giorni di tempo per ritirarle. Cos’è, una minaccia?

«Ma si figuri. Prendo atto che Pd e Sel, due partiti della maggioranza, hanno chiesto le mie dimissioni. E un chirurgo non può restare in sala operatoria senza il suo team».

Pensa che qualcuno starà festeggiando?

«Sicuramente. Eppure oggi ho visto tanti volti rigati dalle lacrime… Alfonso Sabella, assessore e magistrato, mi ha detto che non piangeva così da 35 anni. E dieci consiglieri del Pd su diciannove mi hanno assicurato con le lacrime agli occhi che erano contrari alle mie dimissioni».

Dieci su diciannove è la maggioranza… Se erano sinceri, il partito è spaccato in due. Tornerà indietro?

«La decisione non è più nelle mie mani. E io sono l’ultima persona al mondo che vuole occupare una poltrona. Questo incarico meraviglioso mi ha procurato problemi familiari enormi, proiettili in busta e perdita della libertà personale».

Sta scrivendo un libro sull’esperienza di sindaco e queste dimissioni vi aggiungeranno ancora più pepe. Pensa di avere pagato a caro prezzo la sua natura di marziano a Roma, anzi di marziano della politica, troppo ingenuo nei rapporti e poco avvezzo ai compromessi?

«Se sono accuse, le considero medaglie. Non sono mai andato nei salotti e alle cene della Roma che conta. Non ho mai frequentato il mondo che in passato era abituato a decidere assieme alla politica le strategie economiche della città. Io alla terrazza ho sempre preferito la piazza. E vorrei ricordare che il 5 novembre avverrà un fatto storico: Roma sarà parte civile nel processo di Mafia Capitale. Noi abbiamo tagliato le unghie a chi voleva mettere le mani sugli affari».

Ma le mani hanno finito per tagliarle a lei. E proprio alla vigilia di un evento come il Giubileo. Come mai?

«Non lo so. Certo nei prossimi giorni bisognerà decidere quando e come investire sul Giubileo… La mia giunta ha segnato una discontinuità. Mi auguro che chi verrà dopo di me non riporti Roma indietro».

Sembrano le parole di un uomo nauseato dalla politica.

«Diciamo che il comportamento di una parte della classe dirigente non mi ha entusiasmato. Ho provato a interrompere il consociativismo degli affari che fa sedere maggioranza e opposizione intorno allo stesso tavolo, senza scontrini… E ho pagato per questo».  

Le dimissioni di Ignazio Marino viste dai giornali stranieri, scrive “Internazionale”. Ieri 8 ottobre 2015 il sindaco di Roma Ignazio Marino si è dimesso. L’annuncio è arrivato verso le 19.30 in un videomessaggio, in cui Marino ha ammesso che esiste “un problema di condizioni politiche” per andare avanti. Il sindaco però ha ricordato che può ritirare le dimissioni entro venti giorni. Marino è da tempo al centro di polemiche e critiche, sia da parte dell’opposizione sia del suo stesso partito. La sua giunta inoltre è rimasta coinvolta nello scandalo Mafia capitale, che ha svelato collusioni tra criminalità organizzata e istituzioni.

Il sindaco di Roma si dimette per lo scandalo sulle spese. The Guardian (Regno Unito). “Lo scandalo sui rimborsi spesa è stata solo la punta dell’iceberg per Marino. Per mesi sono stati sollevati dubbi sulle competenze del sindaco, mentre la città sembrava sgretolarsi sotto gli occhi dei cittadini”, scrive la corrispondente Stephanie Kirchgaessner, “la spazzatura era lasciata in mezzo alla strada, l’erba dei parchi pubblici non veniva curata e lo scandalo di Mafia capitale sulla corruzione negli appalti pubblici - che non ha riguardato personalmente Ignazio Marino - aveva portato all’arresto di decine di funzionari pubblici”.

La caduta di Ignazio Marino, sindaco dimissionario di Roma. Le Monde (Francia). “Sospettato di aver usato la carta di credito del comune per cene private, il sindaco di Roma, eletto nel 2013, ha rassegnato le dimissioni l’8 ottobre. Fino ad allora, il mandato dell’ex chirurgo era già stato segnato da molti fallimenti”, commenta Philippe Ridet.

Il sindaco di Roma si dimette. Frankfurter Allgemeine (Germania). “Ora il presidente del consiglio Matteo Renzi deve impedire che la capitale d’Italia sfugga al suo partito. Secondo i sondaggi, oggi Roma cadrebbe nelle mani del Movimento 5 stelle, il partito che finora in Italia si è fatto un nome più come voce critica di ogni politica che come soggetto in grado di costruire qualcosa”, scrive Joerg Bremer.

Il sindaco di Roma si dimette per lo scandalo sui rimborsi. The New York Times (Stati Uniti). “Ignazio Marino ha cercato di assumere uno stile alla mano e informale, mentre cercava di fare riforme difficili e di sfidare interessi radicati. A differenza dei suoi predecessori e di altri politici italiani, girava la città in bicicletta. Alla fine però è diventato la vittima di accuse di altri tempi”, commenta Gaia Pianigiani.

Il sindaco di Roma si dimette dopo una polemica per scontrini falsi. El País (Spagna). Il corrispondente del quotidiano spagnolo Pablo Ordaz, scrive: “Alla fine, il più grande nemico politico di Ignazio Marino si è rivelato essere lui stesso. In un paio di settimane, quello che fino a ieri pomeriggio era il sindaco di Roma, un chirurgo di prestigio trapiantato in politica nelle file del Partito Democratico, ha fatto a brandelli l’unica virtù che gli riconoscevano anche i suoi molti avversari: l’onestà. Due bugie quasi infantili, soprattutto in confronto al grado di infiltrazioni mafiose che Roma soffre da anni, lo hanno costretto a dimettersi, messo alle strette dalla pressione dei dirigenti del suo stesso partito, tra cui il primo ministro Matteo Renzi”.

Assediato su vari fronti, il sindaco di Roma rinuncia. La Nación (Argentina). “Dopo mesi di scandali, articoloni sui giornali e svariate gaffe, il sindaco di Roma Ignazio marino del Partito democratico ha abbandonato il suo incarico ieri”, commenta Elisabetta Piqué, “Coinvolto in questi ultimi giorni nell’ennesima tempesta, questa volta per spese che ha sostenuto con la carta di credito del comune, il sindaco si è visto obbligato a mollare, sotto la pressione non solo dell’opposizione, ma anche del suo stesso partito”.

Marino, scandali e gaffe: multe cancellate, viaggi e scontrini. La parabola del «moralizzatore». Eletto tra lo scetticismo del suo stesso partito il sindaco in bicicletta è coinvolto in tante cadute. Fino alla smentita di papa Francesco e il caso delle cene sospette, scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera. Ignazio Marino si è dimesso cinque minuti fa e ne viene subito fuori un’altra: non è vero che girasse in bicicletta. Ti volti e dici: no, macché, questa non può essere. E invece sì: lui girava bello comodo in macchina e poi, cinquecento metri prima di arrivare all’appuntamento, arrivava un furgone e dal furgone gli scaricavano la bici. La racconta così Alessandro Onorato, il capogruppo della Lista Marchini. «Uno di noi lo beccò a Villa Torlonia, fece le foto con il cellulare: avremmo voluto montarci su un casino, il sindaco ecologista faceva il furbetto, ma il giorno dopo esplose la storia della Panda rossa e allora...». Scendiamo dal Campidoglio tutti insieme, nella penombra gialla dei lampioni un piccolo corteo di politici e fotografi, cameraman e manifestanti (fino all’ultimo sono rimasti solo quelli che contestavano il sindaco: i suoi fan hanno eroicamente resistito per un po’, al tramonto hanno mollato). Comunque, a ripensarci, prima della Panda rossa ci fu la storia delle nozze gay: con Marino che nella Sala della Protomoteca organizza una cerimonia ufficiale, s’infila la fascia tricolore e trascrive gli atti di matrimonio che sedici coppie avevano stipulato all’estero. Il giorno dopo esplode un putiferio, il prefetto dell’epoca s’infuria e gli intima di cancellare tutto «in tempi rapidi». Sembra la battaglia di un sindaco moderno; ma nel volgere di poche settimane i romani scoprono altro: è pure un sindaco che non paga le multe. Anzi, di più: prima lascia la sua Panda Rossa negli spazi riservati ai senatori davanti a Palazzo Madama senza averne più l’autorizzazione; poi qualche anima pia del centrodestra spiffera: le telecamere di controllo ai varchi d’accesso del centro storico hanno rilevato, per otto volte, l’ingresso di una Panda rossa con la stessa targa di quella del sindaco. La Panda non aveva il permesso, le otto multe non sono state pagate. La città, intanto, agonizza. Sporca, insicura, strangolata dal traffico. La decisione di pedonalizzare via dei Fori Imperiali — il provvedimento con cui Marino si era presentato ai romani — peggiora la viabilità di interi quartieri. Altri quartieri insorgono per motivi diversi: a Tor Sapienza si scatena la caccia all’immigrato e Marino arriva in ritardo, dimostrando di non conoscere il territorio, la struggente rabbia di certe periferie. Abita nel cuore del centro storico, un vicolo dietro piazza del Pantheon. Un giorno apre il portone e trova i cronisti: «Oh, volete farmi festa già di buon mattino?». Quindi prova il solito numero, mettendo su un sorrisone e alzando il dito medio e l’indice aperti in segno di «V», vittoria. Niente feste, signor sindaco, è appena esplosa l’inchiesta Mafia Capitale. Marino l’attraversa, per tragiche settimane, ripetendo sempre una frase, qualcosa tra un mantra e un esorcismo: «Io non mi sono accorto di nulla». In Campidoglio, il suo soprannome diventa «Bambi» (copyright Walt Disney). Il chirurgo di fama che a 59 anni arriva da Genova passando per la fondazione di Massimo D’Alema «Italianieuropei» e per Palazzo Madama con un curriculum di oltre 650 trapianti d’organo (compreso il primo nella storia dal babbuino all’uomo) e il poster di Che Guevara piegato nel trolley, eletto sindaco tra lo scetticismo del suo partito, il Pd, e grazie ad un colpo di mano del potente Goffredo Bettini, non si accorge di ciò che accade nel Palazzo Senatorio. Zero, niente, mai neppure mezzo sospetto. Eppure è circondato da persone che fanno affari con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, «er cecato»: così gli arrestano assessori e consiglieri, il suo partito sprofonda nel fango, arrivano Matteo Orfini, che del Pd è presidente, a fare il commissario straordinario e un ex cacciatore di mafiosi come Alfonso Sabella, a fare il super assessore alla Legalità. Il governo della città traballa, ma la macchina amministrativa — già traumatizzata dalla terrificante cura che gli aveva riservato Gianni Alemanno — lentamente si riaccende. I camion bar della famiglia Tredicine, che erano davanti al Colosseo, vengono spostati. Chiusa la discarica di Malagrotta. Introdotte norme ferree per i cartelloni pubblicitari. Scatenata un’offensiva ai tavolini abusivi in piazza Navona. Abbattuti i muri abusivi sul lungomare di Ostia. Poi Ignazio Marino parte. Va in vacanza, al mare. Ma non va a Fregene o a Sabaudia, a un’ora di macchina dalla città, come facevano altri sindaci (Francesco Rutelli e Walter Veltroni). No, va a tuffarsi nelle acque dei Caraibi. Una mattina (fuso orario) quelli del suo staff gli telefonano: «L’altro ieri ci sono stati i funerali di un Casamonica... hai presente quella famiglia mezza nomade e mezza malavitosa? Beh, era il loro capo... si sono allargati un po’». Petali di rosa da un elicottero che sorvolava la chiesa di Cinecittà, musiche dalla colonna sonora del «Padrino», vigili urbani di scorta al feretro. Poteva bastare per farlo tornare. E invece no. Finisce le vacanze con comodo, poi torna e riparte. Destinazione Filadelfia. Al seguito di papa Francesco. Ma da imbucato. «Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato», precisa — gelido — il Pontefice. La vicenda degli scontrini è di questa settimana. Con la Procura che indaga per peculato: uso spregiudicato della carta di credito del Campidoglio, cene e pranzi offerti e ospiti (tra cui l’ambasciata del Vietnam e la Comunità di Sant’Egidio) che però negano di essere stati ospiti. I fatti sono questi. Cioè, no: c’è un ultimo sms. Entra sul cellulare a tarda sera. «Ma lo sai che Marino oggi, ad un certo punto, s’è chiuso a chiave nel suo ufficio e non voleva più uscire?». 

Marino: gaffe, scandali e polemiche. Dall’irritazione del Papa che smentisce l’invito al sindaco, alle offese del primo cittadino a chi lo contesta; dalle caso delle multe alla Panda rossa al prefetto chiamato «badante»: ecco i casi che hanno fatto discutere di più, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Gli scontrini e le cene «sospette». Dopo una resistenza durata alcune settimane, su insistenti richieste del Movimento 5 Stelle a inizio ottobre 2015 vengono resi noti gli scontrini con le spese di rappresentanza del sindaco Ignazio Marino sostenute con la carta di credito del Comune. E subito saltano fuori alcune cene «sospette».

2. E il prefetto diventa la «badante» del sindaco. 1° ottobre 2015, il sindaco prende la parola all’assemblea dell’Acer, i costruttori romani: «Ringrazio la mia badante, il prefetto Gabrielli». Gelo in aula, nessuno ride. Dallo staff di Marino si affrettano a precisare che non era una battuta.

3. Il viaggio negli Usa e la smentita del Papa. Marino vola a Filadelfia per seguire il Papa e annuncia che la trasferta al Campidoglio non costerà un euro. Prima Francesco lo smentisce: «Non l’ho invitato io». Poi si scopre che la trasferta era legata a una conferenza all’università di Princeton. E che il Comune, per Marino e i suoi tre accompagnatori, ha speso diverse migliaia di euro. Scoppia l’ennesima polemica.

4. Il funerale Casamonica e la lunga vacanza. Il 20 agosto a piazza don Bosco, al Tuscolano, si celebrano i funerali di Vittorio Casamonica, capo dell’omonima famiglia spesso coinvolta in episodi di criminalità organizzata. La cerimonia si svolge con riferimenti evidente alla ritualità mafiosa. In Calabria e Sicilia cerimonie simili sono vietate: a Roma nessuno interviene.Il sindaco Marino è in vacanza ai Caraibi. E ci resta anche quando si riunisce il governo per decidere le misure da adottare dopo Mafia Capitale: scongiurato lo scioglimento del Comune, l’esecutivo affianca comunque il prefetto Franco Gabrielli a Marino.

5. Le offese alla contestatrice: connetta i neuroni. «Signora, provi a far funziona quei due neuroni che ha»: con queste parole il 19 luglio il sindaco Marino si rivolge a una donna che lo contesta a margine della cerimonia per ricordare il bombardamento del quartiere romano di San Lorenzo. Infuria la polemica dopo la pubblicazione del video esclusivo su corriere.it. Il sindaco si scusa due giorni dopo: «Non avrei dovuto perdere la calma».

6. Festa dell’Unità: «La destra torni nelle fogne». Il 21 giugno alla Festa dell’Unità il sindaco Marino sale sul palco e si difende dalle polemiche per Mafia Capitale attaccando il suo predecessore Gianni Alemanno e la giunta dell’epoca. «Alemanno voleva raccomandarmi due nomi», annuncia (ma l’ex sindaco smentirà), e poi attacca la destra: «Tornate nelle fogne». Le scuse quattro giorni dopo in consiglio comunale.

7. «I giornali? Ci incartiamo le uova e il pesce». Il 13 maggio il sindaco Marino, irritato per le indiscrezioni di stampa sul possibile affidamento di poteri speciali al prefetto Gabrielli dopo le vicende di Mafia Capitale, commenta: «Non leggo i giornali, a casa li usiamo per incartare uova e pesce».

8. Acea e la retromarcia sul numero di consiglieri. Prima ancora di essere eletto, Marino partecipa all’assemblea di Acea e chiede con forza di ridurre il numero dei consiglieri di amministrazione. Richiesta respinta dal cda targato Alemanno. Insediato come sindaco, Marino lancia la campagna su Acea: dopo un lungo braccio di ferro fa dimettere il board e impone la riduzione del cda da 9 a 7 membri. Ad aprile 2015 la retromarcia: il cda torna a 9 membri. «Questioni di competenza dell’azienda» liquida la questione Marino, dimenticando la battaglia fatta per la riduzione appena un anno prima.

9. «Mai parlato con Buzzi». Ma una foto lo smentisce. Nel pieno della bufera per gli sviluppi dell’inchiesta su Mafia Capitale, il 14 dicembre 2014Marino si affretta a precisare: «Buzzi? Mai parlato con lui». E subito da Internet emergono le foto di un incontro in campagna elettorale fra il sindaco e Buzzi nella sede della coop 29 giugno: niente di illegale, per carità, ma una gaffe in piena regola.

10. Il caso delle multe alla Panda rossa. Il caso scoppia a novembre: si scopre che la Panda rossa del sindaco ha varcato varie volte la Ztl senza il permesso. Dopo i primi silenzi imbarazzati, Marino passa al contrattacco, evoca misteriose manovre sui sistemi informatici del Comune da parte di hacker, si contraddice, poi ammette che c’è stato un ritardo nel pagamento del permesso. La vicenda ha anche un risvolto grottesco: sulla Panda rossa la biografia di Marino su wikipedia viene corretta in corsa. Da chi? Mistero anche questo.

Ignazio Marino, retroscena sulle dimissioni: anche il Vaticano in campo, scrive “Libero Quotidiano”. Roma libera. Ignazio Marino si è dimesso, con riserva ma pur sempre dimesso. Ha detto che ha 20 giorni per ripensarci, ma pare più un capriccio, una "baracconata", piuttosto che una reale possibilità. Accerchiato, umiliato, sputtanato dai rimborsi spese (ultimo capitolo di una lunga, anzi lunghissima, serie di "marachelle" e gaffe) non ha retto al peso di chi voleva farlo fuori, ovvero tutti quanti, in primis i romani, poi la destra, la sinistra, Matteo Renzi, i grillini e chi più ne ha più ne metta. E pure il Vaticano. Già, perché, forse, non è stata tanto la pressione del premier - esasperato da Marino ed esasperato dal fatto di non riuscire a cacciarlo -, ma piuttosto quella della Santa Sede ad aver convintol'allegro chirurgo a prendere la più ovvia e corretta delle decisioni: andarsene. Santa Sede in campo - L'ipotesi-vaticana viene affacciata da Dagospia. Tutto nasce dall'ormai celeberrimo caso del "sindaco imbucato", la già mitologica smentita del Papa (una roba mai vista prima, il Pontefice che disintegra le supposte verità di un sindaco, per giunta del sindaco di Roma). Un "incidente" che - come si è appreso anche dallo scherzo de La Zanzara a monsignor Paglia - ha fatto letteralmente infuriare Francesco e i vertici del Vaticano, già parecchio preoccupati in vista del Giubileo e della sua (arrancante) organizzazione. Ed è stato dopo quell'episodio che, secondo Dago, sarebbe sceso in campo il cardinale Pietro Parolin, in persona, ovvero il segretario di Stato vaticano, che si sarebbe rivolto a Graziano Delrio, il ministro del governo Renzi più cattolico di tutti: "Provvedete a mandare via il sindaco". Questo, in estrema sintesi, il messaggio di Parolin. Il colpo finale - Parole che pesano, e tantissimo, quelle riferite da Dago e che sarebbero piovute dagli apici del Vaticano. Dopo il disastroso viaggio negli "Uessei", per Ignazio, è cambiato tutto: non solo Renzi, ma anche la Santa Sede non lo voleva più nemmeno sentir nominare. Delrio, da par suo, avrebbe risposto l'ovvio: "Eminenza, noi non lo possiamo dimettere". Insomma, non potevano mica cacciarlo, rimuoverlo forzatamente da quella poltrona. Sindaco accerchiato, ma disperatamente aggrappato alla suo prestigioso scranno. Ma poi il colpo di grazia, quello assestato dalla procura, che sulle sue "cene di lavoro" con bottiglie di vino da "50 euro a botta" pagate - pare - con la carta di credito del Comune ha aperto un fascicolo. Troppo, davvero troppo. Marino viene mollato anche dagli assessori e del suo vice. E a quel punto, solo, asserragliato al Campidoglio, dopo aver pensato che oltre a Renzi, alla destra, alla sinistra, ai grillini ai romani e a chi più ne ha più ne metta, a non volerlo più vedere c'era anche il Vaticano, ecco, a quel punto, ha capito che gli restavano soltanto le (ovvie) dimissioni.

Biografie, compromessi e faldoni, scrive Alessandro Gilioli su “L’Espresso”. Oggi Repubblica, il Corriere e altri quotidiani scrivono che Ignazio Marino conserva gelosamente alcuni scottanti faldoni di raccomandazioni indicibili, favori privati e altre porcherie provenienti dal Pd e dintorni. Carte con cui nei prossimi mesi potrebbe fare il giro dei talk show per sputtanare chi l'ha silurato. È possibile - e da cittadino mi auguro che ciò avvenga, se questi faldoni esistono e se contengono comportamenti indegni da parte di politici o altri potenti. Quando ho letto della cosa, tuttavia, mi è inevitabilmente venuta in mente un'altra vicenda recente e abbastanza simile, cioè lo scambio di tweet velenosi tra il verdiniano Saverio Romano e il forzista Gasparri, in cui i due si consigliavano reciprocamente di stare buoni e non alzare i toni, in quanto "conosciamo le vostre biografie". Un livello di scontro basato sul ricatto quasi di tipo mafioso, ma soprattutto sulla rivelazione di un'omertà pregressa che forse è il problema maggiore. Ecco, tornando a Marino, è dell'omertà pregressa che vorrei parlare. Perché a un naif come me viene da chiedersi come mai, se è da tempo in possesso di informazioni non encomiabili sul suo partito e/o sui suoi alleati, il buon Marino se le sia tenute nei faldoni, anziché farne partecipe la cittadinanza. E la risposta è, certo, per convenienza, per mediazione, per non guastare i rapporti con i poteri politici ed economici della capitale che doveva amministrare. E qui forse viene il punto. Perché il paradosso è che oggi, in molti commenti, leggo la tesi secondo la quale la fine prematura di Marino è dovuta al fatto che lui ha preso tutti troppo di petto, con un piglio moralisteggiante che mal si adatta a una capitale strutturalmente clientelare e più in generale a una pratica - la politica - che avrebbe bisogno di cinismo, furbizie, ipocrisie, compromessi e silenzi. Beh, la questione dei faldoni chiusi negli armadi mi porta a chiedermi se non sia vero, invece, esattamente il contrario. E cioè che il flop di Marino è (anche) il risultato di un approccio incerto, troppo incerto, tra quello rivoluzionario e quello compromissorio. Intendo dire: divenuto sindaco, Marino partiva da una straordinaria posizione di forza nei confronti del Pd e più in generale degli apparati della politica e della sottopolitica. Avrebbe avuto gli strumenti, forse, per non farsi imbrigliare nei manuali Cencelli della spartizione di assessorati e posti nelle partecipate, avrebbe avuto il potere di sputtanare chi dal vecchio establishment gli chiedeva favori e prebende. Invece non è che non l'abbia fatto, ma l'ha fatto a metà. Forse anche un po' meno di metà, come del resto l'inchiesta Mafia Capitale ha rivelato, andando a cogliere il marcio dentro la stessa amministrazione del sindaco. E la questione parte oggi da Marino, ma è di carattere più generale: riguarda cioè il livello di compromesso moralmente accettabile, ma anche pragmaticamente conveniente, quando hai che fare con il marciume. Forse accettarne una parte - salvo memorizzarla nei faldoni - non è strategia che paga. Forse Marino ha incocciato non perché è stato troppo radicale in questo, ma perché lo è stato troppo poco. Il contrario esatto di quanto oggi viene detto, dai più sgamati scriventi di politica, in giro per la carta e il web. Almeno questo è ciò che penso io. Che in ogni caso al prossimo giro, qui in città, voterò solo se sarà candidato qualcuno ancora più deciso di Marino a far fuori camarille e amicizie, e non certo uno che lo è di meno.

Quando già “L’Espresso” il 15 giugno 2015 gli consigliò di lasciare. Per il bene di Roma Marino si deve dimettere, scriveva Luigi Vicinanza. Il sindaco è del tutto estraneo al malaffare. Ma ormai solo uno choc come il commissariamento può salvare la città. Una decisione non più rinviabile. Meglio dimettersi. Meglio il commissariamento. Meglio una soluzione choc rispetto al progressivo deteriorarsi di quel che resta di un’istituzione democratica. Roma va salvata, è nell’interesse nazionale. Urgente. Non c’è tattica elettorale che tenga di fronte allo sfascio della capitale. Non c’è calcolo politico accettabile per rimandare una decisione tanto traumatica quanto necessaria. La soluzione peggiore è lasciar marcire nel discredito diffuso anche chi non ha responsabilità, né penali né amministrative. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, è persona perbene; estraneo al malaffare ereditato con la vittoria nelle elezioni del 2013. L’inchiesta giudiziaria, nei suoi vari filoni, ci racconta un Marino solo contro i cattivi. Lui li chiama proprio così, cattivi, con un’espressione fanciullesca in contrasto con la spregiudicatezza e il cinismo degli attori di Mafia Capitale. Mentre l’ostilità e l’impopolarità registrate nel suo stesso partito, il Pd, si possono meglio comprendere ora, in quanto è stato considerato un fastidioso ostacolo dal comitato d’affari trasversale insediatosi in Campidoglio. Le mani sulla città eterna non lasciano le impronte digitali del sindaco in carica. Questa verità va sempre ripetuta. Salviamo Roma, dunque. Il titolo di copertina del numero di questa settimana segnala la patologia e prova a indicare terapie praticabili. È il seguito di altre copertine e di altri servizi giornalistici con cui “l’Espresso”, sin dal dicembre 2012, per primo ha svelato il perverso intreccio politico-mafioso. Salviamola, finché siamo ancora in tempo, dai barbari che l’hanno invasa e spolpata pezzo a pezzo. In questo numero Lirio Abbate, Marco Damilano, Bruno Manfellotto documentano gli snodi di questa storia destinata a protrarsi nel tempo. Nonostante la solidarietà manifestatagli dagli esponenti del governo nazionale, fino a quando può durare in un contesto totalmente fuori dall’ordinario l’ordinaria amministrazione dell’onesto Marino? Un mese ancora? Fin dopo l’estate? Quanti altri avvisi di garanzia, quanti altri arresti, quante altre rivelazioni bisognerà aspettare per prendere atto che l’assemblea capitolina - così si chiama per legge il consiglio comunale di Roma - è ingovernabile. L'interesse collettivo vien prima dell’orgoglio personale. Dimettendosi dalla carica il sindaco confermerebbe la sua totale estraneità rispetto agli affari criminali di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, la coppia rosso-nera che ha asservito amministratori locali senza qualità, funzionari disponibili, imprenditori di scarsa fortuna. Inoltre anticipando le proprie dimissioni, in piena autonomia, Marino può metter fine al logoramento cui sta andando incontro. Inevitabile la contestazione subita martedì 9 giugno dai militanti del movimento 5 Stelle nell’aula Giulio Cesare (su cui pure gli ultimi cinque arrestati pare abbiano fatto la cresta), quando i quattro consiglieri comunali arrestati per mafia sono stati sostituiti dai primi quattro non eletti; ma i cittadini non meritano neppure un sindaco in quotidiana difficoltà costretto a replicare agli sberleffi mandando baci ironici e facendo con le mani il segno della vittoria. Ad uscirne sconfitto è il buon senso. Roma appare una città fuori controllo. In tutti i sensi. Non c’è capitale in Europa così sporca, sciatta, prigioniera dell’incuria. Metropoli cosmopolita e arretrata. La cui Grande Bellezza - potenza evocativa di un Oscar - è assediata da una corona di spine di quartieri periferici, lontani dai palazzi del potere, dove cova un profondo malessere popolare. I barbari di mafia capitale hanno lucrato, come si è visto, sulla raccolta differenziata dell’immondizia come sull’assistenza agli immigrati e ai rom. E il degrado si estende colpevole. Per Roma insomma va cercata una soluzione straordinaria. Se la politica ne avesse l’autorità, il sindaco in carica dovrebbe essere investito di poteri straordinari e affiancato da un comitato di salute pubblica - composto dalle migliori intelligenze e competenze romane e nazionali - in grado di gestire questa difficile transizione. Ma non accadrà e la normativa attuale non lo consente. Se Marino si dimette, invece, apre la strada al commissariamento della città. La persona giusta per ricoprire quel ruolo c’è già. È un funzionario dello Stato schivo e determinato, Franco Gabrielli, da due mesi prefetto dopo aver guidato con successo la Protezione Civile con il recupero della nave Concordia. È il plenipotenziario del premier Renzi a Roma ("Chi è il nuovo Prefetto Franco Gabrielli"). A lui il compito di riportare ordine e regole nell’amministrazione capitolina. L’Italia guarda sgomenta.

Ignazio Marino, il sindaco che voleva fare l'Americano. Il suo modello sono gli Usa. Ma lì un primo cittadino si sarebbe dimesso subito. E invece ha continuato, inconsapevole, nel pieno distacco dai romani, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Fantastici i video di Ignazio Marino postati sulla sua pagina Facebook. Mi danno l’impressione di unainvoluzione del tutto autoreferenziale del Primo Cittadino, inconsapevole del distacco che si è venuto a creare tra lui e i romani. Mi colpiscono i momenti in cui Marino abbandona la retorica da sedicente paladino anti-corruzione (ma non sono stati i magistrati a scoperchiare la melma di Mafia Capitale, mentre fosse stato nel Sindaco il sistema avrebbe continuato a operare senza ostacoli?) e d’un tratto si indigna, ma (come dire?) senza vera indignazione. Più come scatto di rabbia. E dice basta, non voglio più parlare di questo. Cioè degli scontrini, delle spese di rappresentanza dietro le quali si celano tutte le bugie emerse dalle smentite delle persone che (non) hanno cenato con lui. Giornali e tv hanno messo in fila tutte le incongruenze delle sue dichiarazioni rispetto ai fatti. A me colpisce un dettaglio non sottolineato da altri: lo scontrino di una limousine, semplicemente perché la domanda gli è stata posta in Tv e lui ha negato. Marino si vanta d’essere americano, anche se parla di Roma come della “mia città” (no che non lo è). Ma in America per molto meno esponenti politici relativamente di minor peso si sono dimessi prima di lui. E senza accompagnare l’annuncio di dimissioni con l’avvertimento che ha tutto il tempo di ripensarci, quindi non si tratta di dimissioni “irrevocabili”. La faccio breve. Nel 2009 ci fu una polemica relativa a una vicenda del 2002, quando Marino si dimise dalle cariche che rivestiva nell’Università di Pittsburgh. Anche allora c’erano sul piatto alcuni “doppi rimborsi”, e anche allora Marino disse che era stato lui a segnalare le “imprecisioni”. E ne uscì pulito. A distanza di 13 anni, Ignazio Marino ancora si trova a doversi difendere da attacchi che riguardano i rimborsi spese. Ancora deve precisare che è stato lui a mettere gli scontrini online (ma le indiscrezioni premevano dalle pagine di alcuni giornali, relativamente all’uso delle carte di credito del Comune). E ancora Marino si difende contrattaccando, sostenendo che è stato infangato da chi resiste alla sua volontà di fare pulizia. In un politico la credibilità è tutto. E un politico che mente, in America, va a casa. C’è tuttora chi è disposto a concedere a Marino il beneficio del dubbio, come se nei suoi confronti si potesse chiudere un occhio perché è una persona “perbene”. Una persona perbene, a mio modesto parere, è anzitutto una persona, specialmente un politico, che non dice bugie su quello che spende con i nostri soldi. Per il resto, mi stupisce che sia stato votato il chirurgo dimissionario di Pittsburgh a capo di una città come Roma. Mi stupisce che non risalti in tutta la sua frustrante evidenza la totale frattura tra lui e i cittadini della “sua città”. Questi video sono esercitazioni acrobatiche di un politico screditato aggrappato alla sua poltrona, che in realtà non si rivolge più a una platea di cittadini. I suoi appelli, le dichiarazioni registrate, le performance sui social, fotografano l’esibizione di un uomo che ha perso il contatto con la realtà. Ma il fatto che Roma abbia (e abbia avuto per due anni e mezzo) un Primo Cittadino come Ignazio Marino, un professionista che dall’estero è tornato in Italia accreditandosi (seppur dimissionario da Pittsburgh) come campione dell’eccellenza italiana, è la prova che questo Paese ha parecchia strada da fare prima di riavere una classe dirigente che si rispetti. Piccolo Post Scriptum: quelli di Sel che si dicono quasi pronti a riprendere a lavorare con Marino Sindaco nonostante tutto, non diano più lezioni di specchiato rigore etico a chicchessia.

Nell'ospedale dove iniziò il chirurgo Marino: "Così chiudemmo ogni rapporto". Parlano i medici del centro universitario di Pittsburgh in cui lavorò il sindaco: "Ha cominciato a operare con noi, gli abbiamo affidato il centro di Palermo. Poi abbiamo scoperto le doppie note spese e i suoi rapporti con altri ospedali americani". Tra le fatture, la ricarica per una stilografica: otto euro, chiesti due volte, scrive “La Repubblica”. Al 600 di Grant street dicono che quel nome - Ignazio Marino - vogliono solo dimenticarlo. "Era un chirurgo, trapiantava organi. Non era indispensabile, ci ha creato tanti problemi". Davanti alla fontana che spruzza acqua rosa, sotto la sede distribuita su venti piani, parlano due dirigenti del Medical center universitario di Pittsburgh, l'Upmc che gestisce venti ospedali nella Pennsylvania dell'Ovest e trentotto centri oncologici negli Stati Uniti: "Il dottor Marino si è formato da noi, ha iniziato a operare con noi, gli abbiamo affidato il centro di Palermo, una frontiera in Europa. Poi abbiamo scoperto le doppie note spese, i suoi rapporti con altri ospedali americani. Gli abbiamo imposto le dimissioni dall'Ismett di Palermo e non avremmo voluto più occuparci di quella storia, né del medico italiano. Avremmo solo sperato nel silenzio". Invece quel medico italiano, 650 trapianti in carriera, 213 pubblicazioni, ambizioso non solo come clinico, a 51 anni è stato fatto senatore, a 54 si è candidato alla guida del Partito democratico (perdendo) e a 58 si è lanciato nella campagna per diventare sindaco di Roma, mayor come dicono qui. E ha vinto. "Eravamo sorpresi che della storia degli ottomila dollari contestati non si fosse detto più nulla, ma noi non avevamo alcun interesse a sollevare un caso", dicono ancora gli amministrativi subito dopo aver chiesto di non essere citati. L'Upmc aveva chiuso ogni rapporto con il dottor Marino come tante volte succede, e invece a tredici anni di distanza "siamo di nuovo qui". A riprendere in mano vecchi dossier, rileggere audit interni che rimandano a scontrini fiscali. "Sì, dopo tredici anni confermiamo: il dottor Marino aveva creato una doppia contabilità per le spese di trasferta. Una richiesta di rimborso la consegnava al suo centro di Palermo, l'Ismett appunto, e una alla nostra sede. Avevamo prove evidenti che la cosa fosse andata avanti per mesi e che fosse una scelta consapevole, non un caso, tantomeno un errore. Abbiamo agito subito, allora. Il 6 settembre 2002 inviammo un fax all'ospedale di Palermo e il dottor Marino nell'arco di mezza giornata controfirmò tutte le nostre condizioni. Aveva chiesto lui di dimettersi alcune settimane prima, il sei settembre abbiamo accettato senza esitazioni. Abbiamo chiuso lì ogni rapporto: uno dei nostri quattromila medici aveva perso la nostra fiducia, ma la carriera politica del dottor Marino non ci ha mai permesso di abbandonare quel dossier". E' qui, dove la confluenza di Allegheny e Monongahela forma il fiume Ohio, non lontano dal Canada, che Ignazio Marino ha conosciuto i primi guai con le ricevute per le cene, qui che ha subito un oltraggio alla sua carriera e al consolidato orgoglio. Cresciuto sfiorando un nume tutelare della trapiantologia moderna, Thomas Starzl, che nel 1963 innestò il primo fegato su un bimbo di tre anni, nel 1997 Marino riuscì a farsi affidare da Jeffrey A. Romoff la direzione dell'Istituto Mediterraneo per trapianti e terapie ad alta specializzazione, ottanta posti letto voluti a Palermo dal governatore Cuffaro e inaugurati due anni dopo. In quelle stagioni siciliane, oltre ad operare in sala, il dottor Marino iniziò a sperimentare l'arte dell'amministrazione pubblica, palestra per una futura politica già avvistata. "Gestivo venti milioni l'anno", ha raccontato. Ma è sulle minuzie che arrivano le contestazioni. Un precedente che tornerà negli anni da sindaco, una coazione a ripetere che taglierà le gambe prima a un chirurgo scalatore e poi a un intraprendente politico. Ottomila dollari contestati in nove mesi (in attesa di controllare a ritroso i cinque anni precedenti). Una piccola cresta. Messa così, nero su bianco il 6 settembre 2002, dal superpresidente Romoff: "Riteniamo di aver scoperto una serie di irregolarità intenzionali e deliberate con note scritte da lei a mano e sebbene le ricevute siano per gli stessi enti, i nomi delle persone indicate sulle ricevute presentate a Pittsburgh non sono gli stessi di quelli presentati all'Upmc di Palermo". Dozzine di ricevute duplicate, scrisse il presidente. Irregolarità intenzionali e deliberate, sottolineò. Dimissioni immediate, da controfirmare seduta stante. "Come restituzione dei rimborsi spese doppi da lei ricevuti accetta di rinunciare a qualsiasi pagamento erogato dall'Upmc ai quali avrebbe altrimenti diritto, compreso lo stipendio per il mese di settembre 2002". Ci sono anche le ferie pagate, eventuali malattie accumulate. Nulla da pretendere per il futuro da parte del direttore Ismett per rientrare degli 8.000 dollari. A Marino fu concessa una settimana per liberare l'ufficio di Palermo, gli venne indicato nome e cognome della persona a cui lasciare auto, chiavi dell'auto e dell'appartamento, telefonino, cercapersone, computer portatili, carte di credito aziendali, gli fu anche intimato di non fare ritorno a Pittsburgh. "Tutti i libri e i giornali acquistati da noi dovranno restare nell'ufficio di Palermo", scrisse Romoff, "e se lei deciderà di trattenerne qualcuno potrà acquistarli a un prezzo ragionevole". Oltre alle cene, si scopre oggi, il dottor Marino chirurgo di trapianti aveva l'abitudine - secondo gli accertamenti dell'audit dell'Upmc - di mettere in doppia contabilità tutte le spese personali. "C'è una fattura, rimborsata sia a Pittsburgh che a Palermo, sulla ricarica d'inchiostro per la penna stilografica del medico". Otto euro e quaranta, richiesti due volte. Ignazio Marino successivamente avrebbe detto che, in realtà, quei fogli erano solo un fax di presa visione, che l'università di Pittsburgh gli era diventata ostile perché lui si era accordato per un nuovo incarico direttivo con l'ospedale Thomas Jefferson di Philadelphia, che era stata una sua scelta quella di dimettersi da Palermo quando aveva scoperto che in una gara d'appalto c'era un'azienda in odor di mafia e in corsia le pressioni per favorire alcuni clinici erano diventate opprimenti. Oggi i dirigenti dell'Upmc, qui a Pittsburgh, ribadiscono: "Nel 2002 il dottor Marino controfirmò una lettera di dimissioni immediate e quelle dimissioni dipesero soltanto dalla sua condotta contabile, non c'entrano Palermo né Philadelphia. Non è neppure vero che i controlli erano partiti dopo una segnalazione del medico, fu un'iniziativa del nostro audit di fronte a conti che non tornavano. Dopo quella lettera, sottolineiamo, non c'è stata alcuna transazione e, d'altro canto, il dottor Marino non ci hai mai querelato né per falso né per danni subiti". Querela che, pure, il medico aveva promesso. Il chirurgo romano riottenne, con la mediazione dell'avvocato Vittorio Angiolini, il pc utilizzato all'Ismett, alcune pubblicazioni e studi in archivio a Palermo. Tre anni dopo il senatore sarebbe riuscito a prendere 90 mila euro di risarcimento da parte di quattro giornali italiani e tredici giornalisti. Il Tribunale civile di Milano aveva riconosciuto un danno alla sua carriera nei modi in cui l'offesa di Pittsburgh era stata raccontata.

Ignazio Marino rischia accusa di peculato. Del Bono e gli altri, ecco come sono finiti i precedenti delle “carte facili”. Prima di lui l'ex sindaco di Bologna, il collega di Brescia Paroli, l'"impresentabile" campano Gambino e altri hanno fatto i conti con storiacce di rimborsi. Ma diversi processi sono finiti con assoluzioni. Così alcuni sono riusciti a risalire sulle sedie da cui erano caduti, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Ignazio Marino ha dato le dimissioni ma la vicenda che lo ha portato a gettare la spugna non è finita. Intorno a lui resta l’alone delle spese e degli scontrini sui quali, in ultimo, è caduto. Quella pioggia di ricevute dubbie che la Procura di Roma dovrà esaminare lo espone all’accusa di peculato, un reato punito con la reclusione da quattro a dieci anni, e secondo alcune indiscrezioni anche di falso. Non è il primo caso di un sindaco che finisce in guai giudiziari per un uso contestato della carta di credito di rappresentanza, anche per importi modesti (non più di 9mila euro su circa 24mila nel caso del sindaco di Roma). E spesso quei precedenti si sono chiusi in tribunale con un nulla di fatto e chi era scivolato strisciando la carta di credito con disinvoltura, alla fine è caduto in piedi e si è rialzato. Esempi? Non ha scontato un solo giorno di carcere l’ex sindaco di Bologna Flavio Delbono, che nel 2010 si dimise perché indagato di peculato, truffa e abuso d’ufficio. Tra le accuse, l’uso della carta di credito per pagare spese personali e viaggi fatti con l’allora segretaria ed ex fidanzata Cinzia Cracchi, quand’era vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. Per quelle vicende Delbono ha chiuso due patteggiamenti e restituito 46mila euro alla regione Emilia-Romagna a titolo di risarcimento per danno erariale, di immagine oltre interessi. La vicenda non gli ha impedito di tornare in cattedra alla facoltà di Scienze economiche dell’Alma Mater. Spesso succede che gli indagati non arrivino neppure a giudizio, pur tra le censure dei magistrati. Un esempio? E’ stata aperta e subito chiusa l’indagine che quattro anni fa aveva investito il sindaco di Brescia, Adriano Paroli e nove membri della giunta. Erano tutti accusati di peculato per il presunto utilizzo indebito delle carte di credito. Ma che cosa scriveva il magistrato Silvia Bonardi, depositando la richiesta di archiviazione? “Indubbiamente, si tratta di condotte che avevano rilevanza sotto il profilo del danno erariale, ma che comunque anche se con motivazioni alquanto sprovvedute per provenire da soggetti che governano una delle città non metropolitane più importanti dell’intero Paese, non sono sussumibili nell’alveo dell’articolo 314 del Codice penale (il peculato, ndr), in quanto non realizzate al deliberato scopo di appropriarsi delle risorse finanziarie pubbliche”. Cade in piedi anche Alberico Gambino, politico campano annoverato tra gli “impresentabili” delle ultime elezioni regionali. Ex sindaco di Pagani (Salerno) e già consigliere regionale, fu arrestato e poi condannato a due anni e 10 mesi per concussione e violenza privata. Assolto dalle più gravi accuse di collusione con la camorra, è tornato in consiglio regionale quest’anno con oltre 10.500 voti nella lista di Fratelli d’Italia. Anche da sindaco scese e risalì dalla poltrona in seguito a una vicenda giudiziaria: nel 2010 fu sospeso per effetto di una condanna a un anno e cinque mesi per peculato continuato dovuta all’uso della carta di credito del Comune. L’accusa era d’aver utilizzato 118 volte la carta senza riuscire a dimostrare le finalità istituzionali di quasi 22mila eurodi spese sostenute. Un anno dopo la Corte di Cassazione ha accolto però il difetto di motivazione sollevato dagli avvocati Michele Tedesco e Franco Coppi (lo stesso del processo Ruby). In particolare sul requisito della “coeva esibizione” dei giustificativi. Il peculato, ragiona la Suprema Corte facendo proprie le istanze dell’appellante, si consuma al momento del pagamento e non dell’esibizione dei giustificativi che diventano secondari, tanto che “quello che figura come illecito potrebbe essere ascritto a mera dimenticanza o trascuratezza, confondendo di fatto momento consumativo del reato coi comportamenti post-delicutm cioè la tardiva/improbabile/falsa/erronea giustificazione validi per la serie indiziaria e la ricerca della verità”. A questo principio potrebbero appellarsi forse anche i legali di Marino, visto che le incongruenze sui rimborsi che gli vengono contestate vengono da più parti derubricate a “leggerezza” (così oggi il magistrato e assessore alla legalità, Alfonso Sabella). L’importante è riuscire a dimostrare che non era finalizzata “al deliberato scopo di appropriarsi delle risorse finanziarie pubbliche”. Nel caso di Marino, la Procura non potrà che convocare l’ex sindaco per farsi precisare nomi e cognomi di quegli “ospiti” delle cene che nei giustificativi di spesa indicava con diciture generiche: “celebri chirurghi”, “atleti”, “giornalisti” etc. Come si sa, sono stati proprio alcuni dei “presunti commensali” a smentirle. L’amministrazione capitolina, va detto, non aveva mai contestato alcunché.

Renzi, Marino & co: la banda PD, uno spettacolo trash, scrive Emanuele Ricucci su "Il Giornale". A Roma, almeno, cambia il significato di liberazione. 8 Ottobre. Dopo estenuanti ore di trattative, nervi tesi e cori da stadio sotto le sue finestre, le teste di cuoio riescono a convincere Ignazio Marino ad uscire dal Campidoglio con le mani in alto, le dimissioni in tasca e l’attestato del Guinnes World Record di smentite internazionali. Con una tattica di sfondamento, le forze speciali del PD lo hanno costretto a dimettersi, facendo esplodere la ‘carica’. Eppure, fino all’ultimo, asserragliato con tecniche d’assalto, al grido “resistenza, resistenza, resistenza”, il subcomandante Marino, non voleva cedere. Era molto più dignitoso farsi prendere all’epoca dell’esplosione di Mafia Capitale o quando la città era sommersa da acqua e vergogna, piuttosto che per qualche scontrino. Ma come in Rambo, questa volta il capo si è rotto e ne ha prontamente dato notizia al colonnello di zona: la sua fine è stata decisa. Pubblicamente, brutalmente, sfacciatamente. Giustamente! Renzi, che pure lo ha cavato fuori dagli impicci non poche volte tentando di difendere il feudo anche con l’avvicinamento di Causi, pensato come longa manus di Palazzo Chigi, questa volta ne ha decretato la fine per mano di Orfini, tenente della colonna romana del PD. Con solo una cartucciera di penne intorno alla vita ed il basco con la stella rosa (trattasi di PD del resto) in testa, il sub sindaco Marino ha resistito stoicamente per ore, finché ha potuto, sorretto nell’animo dalle compagne Estella Marino ed Alessandra Cattoi, le due (ex) assessore (assessoresse o assesoratrici, ora non mi sovviene, dovrei consultare il gruppo di esperti per il linguaggio di genere) della sua giunta. Marino a casa, Renzi in difficoltà, Orfini boia – nel senso di esecutore, ci mancherebbe -. Ed una sola, palpabile certezza: che infinita tristezza la banda PD(democristiano). Incredibile. Da movimento per il rinnovamento della sinistra democratica, d’ispirazione socialista, ad una SpA con le quote degli italiani. Si è creato gli spazi di legge per governare a regime e non levarsi più di torno, dal paesello al Paesone, ha difficoltà a reperire i numeri per governare, talvolta; ha letteralmente interrotto il regolare processo democratico, sospendendolo a data da cestinarsi, cestinando, poi, il subcomandante Marino, abbandonandolo letteralmente al suo destino che, nonostante tutto, nonostante Roma sia tristemente involuta da Caput Mundi a Cloaca Maxima, nonostante Mafia Capitale, nonostante l’estremo degrado e tutto ciò che ha affossato, anche agli occhi del mondo, la Città Eterna, avrebbe voluto resistere, rimanere, attaccato con le unghie sanguinanti e i denti alle poltrone dell’Aula consigliare del Campidoglio. Che uomini, quelli del PD! Che esempio e che classe. Quanta elegante cavalleria civile, che raccapricciante modello politico da seguire. Invischiati tra la restaurazione sul trono della Democrazia Cristiana, ne ripercuotono in ogni macroavvenimento, in ogni interscambio politico, le fattezze, le gesta, gli echi, anche meglio dei maestri democristiani. Una struttura totalitaria disegnata intorno ad un feudatario, ad uno one man show come Matteo Renzi ed al suo ego smisurato: “Nel corso dei mesi, man mano che aumentava il suo potere ma anche gli impegni governativi anche internazionali, Renzi s’è allontanato precocemente dal Pd e dalla tenuta del territorio che, in termini calcistici, è lo spogliatoio“, scriveva Marco Damilano de L’Espresso, “ha immaginato di poter coprire tutto con la sua leadership, con la sua velocità, con la potenza di fuoco mediatica, col cronoprogramma delle riforme. Invece si è dimenticato che, se non c’è partito, cultura politica, organizzazione, un cosa del genere non si regge. Che la gente, al voto regionale, si trova Raffaella Paita, la MorettiDe Luca, non lui. Per questi, lo storytelling non bastava. Non sarebbe stato credibile”. Marino come De Luca e l’Italia di Renzi come quella del PD: senza serietà, in crisi umana ed economica lacerante, tra casi di corruzione, opere incompiute, perdita della residua dignità it, riforme crono programmate, aumento della povertà, ‘pacifica invasione’ di ‘qualche povero migrante’, linguaggio di genere da garantire, sessismo, razzismo, omofobia e tenuta della politica poltrona ovunque. Caotica come la Roma ottocentesca. Una città sfinita, stremata, proveniente da anni di mala gestione, fossero solo due, che oggi, però intravede la rinascita, lenta e ponderata. Una città crepata dall’umiliazione e dalla violenza eppure, mancano ancora venti giorni. Venti lentissimi e fatidici giorni in cui il subchirurgo statunitense potrebbe ripensarci, potrebbe fare marcia indietro annullando le sue dimissioni e restaurando, anche in questo caso, il trono. L’unico uomo politico ad essere fatto palesemente cazziare da un Papa. Neanche ai tempi di Bonifacio VIII. Ancora venti giorni. Il 28 ottobre, potrebbe essere un giorno decisivo. Novantatre anni fa furono i fascisti a marciare su Roma, speriamo, novantatre anni dopo, non sia Marino a marcirci su, facendo ancora le veci della banda PDemocristiana.

Marino e la doppia morale renziana del Pd, scrive Pasquale De Cristofaro.  “ ‘Ndo’ vede e ‘ndo’ ceca”, questo il detto napoletano che sta ad indicare il proposito di qualcuno che vede solo ciò che gli fa comodo, girando di proposito la faccia davanti a quel che preferisce non vedere. Due pesi e due misure, insomma.  Questo modo di dire, ben si addice a Renzi e al partito democratico. Mi spiego. Ignazio Marino, è vero, s’è dimostrato completamente inefficace e inadatto a guidare una grande città come Roma. E anche se la capitale veniva da un’amministrazione Alemanno disastrosa sotto ogni punto di vista, i suoi due anni di amministrazione non sono riusciti ad arginare il malaffare che nel frattempo s’era impossessato del Campidoglio. In ultimo le bacchettate di papa Francesco e la storia davvero incresciosa degli scontrini attestanti false spese istituzionali, hanno fatto il resto. Indifendibile, Marino è stato scaricato da tutti; in primis dal primo ministro nonché segretario dei democratici che già da tempo aveva mostrato di non gradirlo in quel ruolo. Tutto secondo programma, quindi? Non proprio. Innanzitutto, fa specie che un non eletto andato alla guida del Paese attraverso una manovra di Palazzo scarica così impunemente un sindaco che le elezioni le ha vinte per davvero. Inoltre, come non concordare, a tale proposito, con le cose dette da Marco Travaglio a Nardella, sindaco di Firenze e uomo di fiducia di Renzi, in una trasmissione televisiva dove si cercava di fare il punto sulla situazione romana. Il direttore del “Fatto quotidiano”, ha messo in evidenza come il partito democratico fosse abituato da tempo ad avere giudizi e comportamenti diversi per situazioni simili, a seconda si trattasse di amici o nemici. Lo stesso discorso delle dimissioni subito, infatti faceva notare, non è valso per ben quattro sottosegretari variamente imputati e con procedimenti giudiziari in corso che sono stati lasciati tranquillamente al loro posto, forse, per non mettere in crisi l’azione governativa. E anche per lo stesso De Luca, vincitore alle elezioni regionali della Campania nonostante una condanna in primo grado di giudizio per abuso d’ufficio e sottoposto al vaglio della legge Severino, si era preferito girare la faccia dall’altra parte; troppo importante la vittoria politica in una regione in mano alla destra per fare gli schizzinosi e i moralisti. A queste obiezioni, Nardella ha balbettato malamente, cercando, con la coda tra le gambe, di ribadire che il comportamento di Renzi e del partito è stato sempre coerente coi principi del codice etico da loro adottato. In realtà, intransigenti con coloro che non godono della simpatia del capo, e molto più disponibili verso quelli che sono nelle sue grazie. Bel modo di procedere. Credo che così facendo il partito democratico rischi di perdere quel poco di credibilità che ancora gli resta. La gente sta cominciando ad aprire gli occhi; sta capendo di che panni veste Renzi. Un bullo, faccia da schiaffi, petto in fuori e mandibola alta che sa ben nascondere dietro un giovanile sorrisetto, una voglia matta di smisurato potere.

La doppia morale di Sel. In Campania sono contro "l'impresentabile" De Luca ma a Roma difendono Marino. Fratoianni: "È estraneo alla vicenda di Mafia Capitale", scrive Francesco Curridori su “Il Giornale”. Sel fa quadrato attorno a Ignazio Marino. Il partito di Nichi Vendola che, in Campania ha corso in solitaria contro l'"impresentabile" Vincenzo De Luca, nel corso di una conferenza stampa, ha rinnovato il sostegno al sindaco di Roma alla luce degli ultimi sviluppi dell'inchiesta di Mafia Capitale. Una contraddizione che per Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, evidentemente non esiste:"In Campania non ci siamo alleati con De Luca prima di tutto per ragioni politiche e abbiamo giudicato un errore da parte del Pd candidare una figura che rischia, per motivi di legge, di non poter governare la Regione. Non vedo francamente nessuna relazione con la vicenda romana". Poco importa che due membri della giunta come Daniele Ozzimo, ex assessore alla casa, e Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale, siano finiti agli arresti. Due personaggi che, secondo le recenti categorie politiche, potrebbero essere definiti "impresentabili" e con cui i vendoliani hanno governato insieme per quasi due anni. No, per Sel, che a Roma esprime il vicesindaco, è giusto proseguire con l'attuale sindaco. "Abbiamo scelto a suo tempo, - conclude Fratoianni - primi nella coalizione che ha poi vinto, di sostenere Ignazio Marino alle primarie mentre gran parte del Pd sosteneva altri candidati, e lo facemmo sulla base di una scelta politica e culturale che noi oggi gli rinnoviamo a partire non solo dalla sua completa estraneità nella vicenda ma anche sulla condivisione che su molte questioni resta forte".

LA GRANDE CERTEZZA.

Dopo Mafia Capitale continua la grande abbuffata. Ignazio Marino si è dimesso, ma negli uffici comunali restano i funzionari che hanno alimentato la corruzione. Cento nomi, elencati nella relazione segreta del prefetto Magno. Liberi di proseguire nei loro intrallazzi, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso” del 15 ottobre 2015. Dopo le dimissioni di Ignazio Marino negli uffici comunali restano dipendenti e funzionari infedeli che hanno alimentato la corruzione. Sono cento nomi, elencati nella relazione segreta della commissione di accesso guidata dal prefetto Marilisa Magno in cui è analizzato un triplice fronte: il capitale istituzionale, il capitale politico e quello amministrativo. L'analisi e i retroscena amministrativi fatti dalla commissione prefettizia sono raccontati da l'Espresso nel numero in edicola. L'inchiesta riporta alcuni punti della relazione Magno, in particolare quelli illustrati sul capitale politico e amministrativo che rappresenta il tesoro di Massimo Carminati: «Il milieu di amministratori e funzionari pubblici che sono stati funzionali ai disegni di infiltrazione di “mafia Capitale”». Ci sono i nomi di impiegatidirigenticapi dei dipartimenti, molti dei quali pilotati da mafiosi e criminali, che si muovono compiaciuti dell'uscita della giunta Marino. La commissione fotografa una palude amministrativa e rileva «come la costruzione di questo “capitale” sia il frutto di un lavoro condotto in sinergia da Carminati e Buzzi». Un investimento prezioso, che si comprende meglio nel capitolo dedicato a «Il capitale amministrativo». Sembra la tela del ragno. In trentatré pagine il documento «enumera i dipendenti di Roma Capitale che attraverso azioni o omissioni hanno contribuito a piegare la gestione amministrativa dell’ente agli interessi di mafia Capitale». I commissari riportano una schiera di nomi, «riconducibili al capitale amministrativo», non tutti ancora indagati. Nel “Libro Magno” c’è l’analisi geologica del marcio. Gli episodi di malaffare, le procedure poco corrette nelle gare pubbliche, la gestione degli affidamenti diretti di lavori per decine di milioni di euro. Episodi su cui al momento nessuno indaga, anche se la rilevanza amministrativa potrebbe sfiorare reati penali, perché, come scrive la commissione, si tratta di «una serie di vicende contrattuali connotate da palesi illegittimità e risultate in un’oggettiva agevolazione degli interessi criminali di mafia Capitale». Se il dossier del prefetto Magno dovesse finire sui tavoli dei pm si trasformerebbe in una nuova spinta per le indagini della procura. Ma anche limitandosi all’aspetto amministrativo, il quadro è devastante. Perché, come spiega l'Espresso, è già difficile adesso far ruotare i capi dei dipartimenti, spostare le persone da un ufficio all’altro o allontanare i dirigenti sui quali gli amministratori nutrono dubbi di affidabilità. In molti casi, come hanno già spiegato esponenti della giunta Marino, intervenire «diventa un’impresa titanica, se non impossibile». Non si riesce neppure a far partire i procedimenti disciplinari per punire gli impiegati citati nelle intercettazioni. Anche per questo, il metodo della commissione, come si legge su l'Espresso che si rifà alla relazione Magno, è andato oltre le singole anomalie, puntando a definire i confini di un sistema perverso: «La verifica non è stata volta alla ricerca fine a se stessa di profili di irregolarità o illegittimità amministrativa, bensì a comprendere il rapporto esistente fra l’influenza di mafia Capitale sulla macchina amministrativa capitolina e le lesioni dei principi di buon andamento della cosa pubblica, onde stabilire l’estensione del condizionamento criminale e in quale misura ciò sia stato reso possibile da una più ampia e preesistente situazione di anomalia amministrativa». Il male quindi è più antico di Carminati e Buzzi. E la relazione Magno si conclude in modo netto formulando «la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare di Roma»: andavano cacciati dal Campidoglio. Certo, ma il provvedimento avrebbe licenziato i consiglieri comunali, i politici, senza toccare i burocrati.

Campidoglio, dopo Mafia Capitale continua la grande abbuffata. Ignazio Marino si è dimesso, ma negli uffici comunali restano i funzionari che hanno alimentato la corruzione. Cento nomi, elencati nella relazione segreta del prefetto Magno. Liberi di proseguire nei loro intrallazzi, scrive Lirio Abbate su "L'Espresso" del 14 ottobre 2015. Ignazio Marino lascia il Campidoglioma i gladiatori dell’intrallazzo restano ai loro posti, pronti a banchettare ancora. Gladiatori non come i figuranti pacchiani che assillano i turisti davanti al Colosseo, ma come quegli insidiosi sabotatori stay behind che restavano in silenzio dietro le linee pronti a colpire al momento migliore. Il sindaco ha firmato le dimissioni, messo ko dalla faciloneria nel giustificare un pugno di cene di rappresentanza e dallo schianto definitivo del rapporto con il Pd renziano. Loro invece festeggiano, ancorati alle loro scrivanie negli uffici capitolini, e sognano altre mangiatoie. Sono tanti, una vera centuria. I loro nomi sono elencati nella relazione finale, ancora sotto segreto, firmata dal prefetto Marilisa Magno: 101 persone fra politici e dipendenti, non tutti ancora indagati, che rappresentano il marcio interno dell’amministrazione capitolina. Sono gli ingranaggi che muovono gli interessi illeciti, quelli che hanno incentivato la corruzione e fatto scivolare la cosa pubblica nelle mani delle organizzazioni criminali. Perché la palude fotografata dalla commissione d’accesso guidata dal prefetto Magno, rinforzata dalla relazione del prefetto Franco Gabrielli, è una distesa di sabbie mobili che avvolgono i dipartimenti comunali e la politica romana in un gorgo vischioso di malaffare. Ci sono impiegati, dirigenti, capi dei dipartimenti, molti dei quali pilotati da mafiosi e criminali, che si muovono compiaciuti nel fango. Insomma, è il “Libro Magno” del malaffare sui sette colli. Certo, esistono professionisti bravi e capaci nell’amministrazione romana, ma vengono però sistemati in seconda fila e schiacciati da quei dirigenti che «si sono dimostrati corrotti o semplicemente inadatti». Alfonso Sabella, il magistrato nominato nello scorso gennaio assessore alla legalità, ha fatto ruotare capi dipartimento, trasferito funzionari, avviato procedimenti disciplinari, ma per bonificare la palude serve molto di più. Il lavoro è solo all’inizio. E l’uscita di scena della giunta Marino potrebbe interrompere il risanamento, permettendo alla centuria dell’intrallazzo di tirare il fiato. Sabella con la sua esperienza di magistrato si è subito reso conto che la macchina del Campidoglio non funziona: gli atti amministrativi erano carenti nella forma o nei contenuti. Ma soprattutto c’erano da anni appalti assegnati senza gara e senza controllo per oltre cinque miliardi di euro. Perché? L’assessore-magistrato ha detto pubblicamente, riferendosi ai dirigenti: «o sono corrotti, oppure sono incapaci». La collega di giunta Alessandra Cattoi, fedelissima di Marino, ha subito replicato contestando: «Non è vero». Le parole del responsabile della legalità però hanno trovato riscontro nel dossier del prefetto Magno. Non è solo una questione di nomi. La relazione consegnata a Gabrielli affronta i diversi epicentri del malaffare romano, a partire dagli appalti, per poi passare alle vicende che riguardano il dipartimento tutela ambientale e protezione civile, quelle delle politiche sociali, sussidiarietà e salute, quelle delle politiche abitative e infine il caso Ama (l’azienda per la raccolta dei rifiuti ndr), che ha costituito uno dei pilastri dell’inchiesta antimafia di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino. La chiave è nel capitolo “dieci” del rapporto: quale potere è rimasto nelle mani delle cricche capitoline. Viene analizzato su un triplice fronte: il capitale istituzionale, il capitale politico e quello amministrativo. Questo è il tesoro di Massimo Carminati: «Il milieu di amministratori e funzionari pubblici che sono stati funzionali ai disegni di infiltrazione di “mafia Capitale”». Il capo dell’organizzazione criminale mantiene i rapporti con il mondo politico, istituzionale e finanziario e si interfaccia con le altre mafie tradizionali: il “Cecato” impartisce direttive a Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali, a Carlo Pucci, ex dirigente Eur spa, a Franco Panzironi, ex presidente Ama o Riccardo Mancini, ex amministratore delegato Ente Eur. L’elenco degli uomini di partito che hanno un filo diretto con Carminati stilato dai commissari è lungo. Va da Luca Gramazio e Giordano Tredicine di Forza Italia a Mirko Coratti, Andrea Tassone e Daniele Ozzimo del Pd. Poi ci sono i dirigenti comunali: fra gli altri, Angelo Scozzafava, Franco Figurelli, Mirella Di Giovane e Patrizia Cologgi. Ma questi sono solo i nomi noti, molti altri sono coperti dal segreto. La commissione rileva «come la costruzione di questo “capitale” sia il frutto di un lavoro condotto in sinergia da Carminati e Buzzi». Un investimento prezioso, che si comprende nelle pagine del capitolo “undici” dedicato a «Il capitale amministrativo». Sembra la tela del ragno. In trentatré pagine «enumera i dipendenti di Roma Capitale che attraverso azioni o omissioni hanno contribuito a piegare la gestione amministrativa dell’ente agli interessi di mafia Capitale». I commissari riportano una schiera di nomi, «riconducibili al capitale amministrativo», non tutti ancora indagati. Ci sono dirigenti e funzionari coinvolti a vario titolo nell’inchiesta della procura di Roma, accusati di aver pilotato appalti. Accanto agli indagati ci sono pure dipendenti comunali sfiorati dall’inchiesta, ma ritenuti dalla commissione parte di questa rete. Fra questi l’allora direttore del Dipartimento ambiente. Mentre l’ex responsabile del servizio di programmazione e gestione verde pubblico, Claudio Turella, è stato arrestato lo scorso dicembre e nella sua casa i carabinieri del Ros hanno trovato banconote per 550 mila euro, custodite nelle buste con il logo di Roma Capitale. Una somma che dimostra il potere contrattuale dei dirigenti: hanno in mano le leve per spingere o frenare contratti e concessioni. L’ultimo caso di corruzione è quello di Ercole Lalli, funzionario del dipartimento Infrastrutture arrestato mercoledì mattina con una mazzetta in tasca. Contano e quindi “costano” più dei politici, perché gli assessori cambiano, i sindaci prima o poi vanno via mentre loro resistono sulla poltrona. Nel “Libro Magno” c’è l’analisi geologica del marcio. Gli episodi di malaffare, le procedure poco corrette nelle gare pubbliche, la gestione degli affidamenti diretti di lavori per decine di milioni di euro. Episodi su cui al momento nessuno indaga, anche se la rilevanza amministrativa potrebbe sfiorare reati penali, perché come scrive la commissione si tratta di «una serie di vicende contrattuali connotate da palesi illegittimità e risultate in un’oggettiva agevolazione degli interessi criminali di mafia Capitale». Viene sottolineata una differenza di approccio fra l’amministrazione guidata da Gianni Alemanno e quella di Ignazio Marino. Con l’ex ministro il clan usava come «strumento principe l’intimidazione mafiosa». Con l’ex chirurgo Dem il metodo utilizzato è «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici acquisiti con la corruzione agevolata in specifici casi dalla vicinanza di alcuni ambienti politici a Buzzi (la sinistra ndr) in virtù del suo ruolo di rilievo nel mondo della cooperazione sociale». Se il dossier del prefetto Magno dovesse venire desecretato, si trasformerebbe in una nuova spinta per le indagini della procura. Ma anche limitandosi all’aspetto amministrativo, il quadro è devastante. Perché è già difficile adesso far ruotare i capi dei dipartimenti, spostare le persone da un ufficio all’altro o allontanare i dirigenti sui quali gli amministratori nutrono dubbi di affidabilità. In molti casi, come hanno già spiegato esponenti della giunta Marino, intervenire «diventa un’impresa titanica, se non impossibile». Non si riesce neppure a far partire i procedimenti disciplinari per punire gli impiegati citati nelle intercettazioni. Anche per questo, il metodo della commissione è andato oltre le singole anomalie, puntando a definire i confini di un sistema perverso: «La verifica non è stata volta alla ricerca fine a se stessa di profili di irregolarità o illegittimità amministrativa, bensì a comprendere il rapporto esistente fra l’influenza di mafia Capitale sulla macchina amministrativa capitolina e le lesioni dei principi di buon andamento della cosa pubblica, onde stabilire l’estensione del condizionamento criminale e in quale misura ciò sia stato reso possibile da una più ampia e preesistente situazione di anomalia amministrativa». Il male quindi è più antico di Carminati e Buzzi. E la relazione Magno si conclude in modo netto formulando «la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare di Roma»: andavano cacciati dal Campidoglio. Certo, ma la misura avrebbe licenziato i consiglieri comunali, i politici, senza toccare i burocrati. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, invece ha preferito salvare Roma e commissariare solo il municipio di Ostia, pur riconoscendo come «il lavoro svolto dalla commissione di accesso abbia evidenziato una situazione amministrativa caratterizzata da gravi vizi procedurali». Quando si comincerà a cambiare rotta? Quando verrà affrontata la centuria del malaffare, che dietro lo scudo del segreto difende le sue posizioni? Ormai il Giubileo è alle porte. E nemmeno Raffaele Cantone si fa illusioni: «Sarà dura ottenere gli stessi risultati di Expo, è una sfida ai limiti dell’impossibile. Roma è la città più difficile del mondo, dove ci sono tantissimi conducenti e alcune ruote vanno a destra, altre a sinistra».

 “Ora la Capitale, a meno di due mesi dall’inizio del Giubileo, ha la certezza solo delle proprie macerie”. In un articolo intitolato “La grande certezza”, che riprende il nome del film Premio Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, Marco Bellizi scrive su L’Osservatore che “nelle analisi compiute dagli organi di informazione italiani, si nota la pressoché inedita unanimità nel considerare come inevitabile l’epilogo al quale si è giunti. Marino è caduto sotto i colpi di un’inesorabile serie di episodi che, a seconda dei casi, sono stati quanto meno qualificati come gaffes, gesti francamente inopportuni o superficialità. Lo stesso Renzi era intervenuto nei mesi scorsi per sollecitare un cambio di passo e cominciare a ricostruire”. “Di certo, – si legge ancora su L’Osservatore Romano – c’erano le infiltrazioni mafiose anche nel sistema degli appalti, forti dell’appoggio di funzionari amministrativi fino a qualche mese fa intoccabili. Di sicuro c’è stato un velo oscuro sopra la gestione e la raccolta dei rifiuti e delle discariche mentre è evidente quanto i monumenti di Roma siano stati deturpati dai chioschi dei venditori ambulanti. A Roma non si riescono a liberalizzare e a rendere efficienti alcuni servizi essenziali, a partire dai trasporti pubblici. E la manutenzione delle strade fa sospettare che ci sia molto da indagare anche lì. Ma, sopra a tutto, c’è una sola grande certezza: Roma davvero non merita tutto questo”.

«In Campidoglio c’è un sistema incancrenito, ho un dossier per i pm». L’ex assessore Esposito: c’è chi scrive male le delibere perché il Tar le bocci, scrive Alessandro Capponi “Il Corriere della Sera”. «La struttura amministrativa vive di vita propria, non segue le indicazioni, cambia autonomamente il contenuto delle delibere, a volte le scrive male proprio per farle bocciare al Tar...». Stefano Esposito, scusi: sta dicendo che a Roma, in Campidoglio, gli uffici non rispondono agli assessori ma ad altri interessi? «Gli uffici se ne strafottono di ciò che chiede la politica... quelli viaggiano con stipendi superiori ai centoventi-centosessanta mila euro e fanno solamente finta di farti decidere, è chiaro?». Il senatore Pd che giovedì si è dimesso dalla giunta romana è stato per settanta giorni l’assessore ai Trasporti: abituato a un eloquio a volte parecchio colorito, Esposito oggi dice «ciò che non avevo mai reso pubblico». E che, almeno in parte, è raccolto in un faldone «che porterò a Giuseppe Pignatone. Non so se contenga comportamenti penalmente rilevanti ma è bene che tutto sia valutato». E così racconta episodi che sarebbero quasi comici, se non finissero per impattare senza pietà sulla vita dei cittadini. Esposito è cresciuto a Torino: negli ultimi mesi deve aver guardato Roma con occhi poco abituati alla sua luce, alle sue ombre.

Accusare la macchina amministrativa non è un alibi per la politica? 

«Faccio degli esempi così ci chiariamo, va bene? Cosa ci fa un segnale di inversione a “u” in una strada pedonalizzata? Lo spiego: siamo in via di Porta San Sebastiano, tra Circo Massimo e Appia Antica, una strada importante, con ville di personaggi famosi. Chiedo spiegazioni: i funzionari balbettano, poi dicono che c’è una scuola all’inizio della via e le mamme hanno bisogno di fare inversione per portare i figli. Chissà di quale famiglia sono quei figli? Così mi metto a urlare! E con quale risultato? Le automobili là passano ancora».

Quando ha capito che la situazione era questa? 

«Subito. Appena insediato ho chiesto agli uffici di scrivere una delibera per vietare ai bus turistici di entrare in centro storico. Percepisco resistenze e cerco un compromesso: rinuncio al divieto totale ma ordino di aumentare notevolmente i prezzi per i pass d’ingresso. Scrivono l’atto con i nuovi prezzi ma inseriscono una serie di deroghe con sconti notevoli praticamente per tutti. Quindi hanno scritte le mie regole e il loro modo per aggirarle... chiaro come funziona? Un funzionario ha spiegato al mio capo segreteria: “Gli assessori passano, noi rimaniamo”».

Lei parla anche di «gare opache» in Atac. «Anche là c’è un’opacità spaventosa. Le ferrovie da mesi propongono il biglietto integrato per il Giubileo, per farlo però hanno bisogno di accedere al sistema elettronico di Atac con una chiave numerica, un codice. Non glielo danno, io indago e capisco: Atac gestisce anche Metrebus, un altro biglietto integrato, con Cotral, trasporti regionali, e ferrovie, e per questo dovrebbe redistribuire gli incassi. Ma non lo fa, e deve decine di milioni sia a Cotral sia alle ferrovie. Così ho scritto tre lettere per sollecitare l’invio del codice alle ferrovie per il biglietto del Giubileo: mi hanno risposto che la delega su Atac è di Marino, non mia... Sto parlando di un problema ben più diffuso di quanto si pensi. Quando sono arrivato una serie di provvedimenti del Comune, come quello sulle strisce blu, erano stati bocciati dal Tar. Erano scritti così male che ho pensato: li avranno scritti degli incompetenti. Invece no, professionisti strapagati».

Potevate fare di più? 

«L’inchiesta Mafia Capitale, per la quale Pignatone va ringraziato in eterno, portava con sé la missione di bonificare la macchina amministrativa, e farlo, decapitare i cattivi, sarebbe stato importante. Ma parlare di questo a Roma non ti rende popolare nel ceto politico, perché questo metodo clientelare e consociativo è radicato da almeno venticinque anni... chiaro? È un sistema incancrenito».

Roma, Anticorruzione: "Oltre 90% degli appalti Atac senza gara". Esposito consegna dossier in Procura. Nel report di Anac al Comune emerge "l'anomalia che ha portato al collasso il trasporto capitolino". E chiede "di trasmettere una relazione sulle procedure di acquisto poste in essere nel periodo 2011-2015, da inviare entro 30 giorni". L'azienda: "Fatte gare telematiche". L'assessore: "Decapitare i vertici. Stamattina mi veniva da piangere", riferendosi all'ennesimo incidente sulla metro A, scrive "la Repubblica" il 15 ottobre 2015. La Procura di Roma indagherà sulle inefficienze del sistema del trasporto pubblico capitolino. Lo farà sulla scorta di un dossier di cento pagine, "che diventerà un esposto", che oggi l'agguerrito assessore ai trasporti Stefano Esposito ha portato al Procuratore Pignatone. Dopo l'ennesimo incidente di stamani con la Metro A bloccata, Esposito ha rotto gli indugi. "Mi viene da piangere, qui ci vuole un commissario e i vertici di Atac vanno decapitati", dice senza mezzi termini. E anche l'Anticorruzione ha le idee molto chiare sull'Atac: "oltre il 90% dei lavori e dei servizi degli ultimi cinque anni sono stati affidati senza gara", dice in un report inviato al Comune. Insomma l'anomalia elevata a sistema. Un'anomalia che ha portato al collasso il sistema di trasporto pubblico capitolino con centinaia di bus inutilizzati per assenza di pezzi di ricambio, mancata manutenzione, pochi autisti costretti ai doppi turni ma tantissimi amministrativi. Lo stesso per la metro. Oggi quindi è arrivata la risposta dell'Anac di Raffaele Cantone alla lettera inviata alcuni giorni fa dall'assessore ai Trasporti di Roma Capitale, Stefano Esposito, che aveva chiesto di avviare una procedura di verifica sulla regolarità della gestione degli appalti in Atac negli ultimi cinque anni. Dai dati in possesso dell'Autorità è emerso che nel periodo in questione (2011-2015) vi è stata un ricorso frequente alla procedura negoziata, con e senza pubblicazione di bando, per un importo complessivo per forniture, servizi e lavori di oltre un miliardo di euro. Per quanto riguarda l'anno 2011, l'entità dell'utilizzo della procedura negoziata nella scelta del contraente ha fatto registrare valori pari al 99,94% del numero degli appalti di forniture (99,60 in termini di importo), al 92,98% del numero degli appalti di lavori (41,55% in termini di importo) e il 98,84% del numero degli appalti di servizi (69,76% in termini di importo). Ecco, anno per anno, la situazione. Anno 2012: 99,35% appalti di forniture (43,90 in termini di importo), 68,63% appalti di lavori (45,05% in termini di importo) e l'87,37% appalti di servizi (66,86% in termini di importo). Anno 2013: 97,71% appalti di forniture (86,46% importo), 72,22% appalti di lavori (84,57% importo), 63,52% appalti di servizi (61,05% importo). Anno 2014: 87,58% appalti di forniture (9,22% importo), 86,36% appalti di lavori (49,82% importo), 65% appalti di servizi (50,65% importo). Anno 2015: 84,27% appalti di forniture (3,26% importo), 82,35% appalti di lavori (31,24% importo), 76,79% appalti di servizi (32,91% importo). Ma l'Atac risponde e informa di aver ricevuto in data odierna dall'Anac "la richiesta di trasmettere una relazione dettagliata sulle procedure di acquisto poste in essere nel periodo 2011-2015, da inviare entro 30 giorni - si legge in un comunicato dell'azienda municipalizzata romana dei trasporti - In particolare, nella lettera pervenuta dall'Anac, che non contiene rilievi su specifici procedimenti di gara, si chiede un focus sulle ragioni del ricorso alle procedure negoziate senza pubblicazione di bando, avuto riguardo a quanto previsto dal Codice dei Contratti Pubblici". "Atac segnala che le procedure negoziate senza pubblicazione di bando sono previste dal Codice dei Contratti Pubblici e vengono di norma effettuate per importi al di sotto della soglia di rilievo comunitario - ancora nella nota -, attraverso l'utilizzo dell'Albo Fornitori aziendale, periodicamente pubblicato con avviso nazionale, che presenta 1800 categorie merceologiche con 2930 operatori iscritti". "Oltre il 90% del valore degli acquisti aziendali viene svolto tramite gare di appalto telematiche, come del resto rilevato dalla stessa Autorità nella Nota oggi pervenuta. Atac, come di consueto, fornirà all'Autorità tutte le informazioni richieste nei tempi stabiliti, certa di poter rappresentare la coerenza dei comportamenti aziendali alle vigenti disposizioni di legge". Ma per Esposito "si sono dimenticati di fare manutenzione negli ultimi dieci anni, ma la manutenzione va fatta altrimenti succede quello che è successo oggi". Del resto ricorda "avevo già detto che ci voleva fortuna e una preghiera ogni mattina, stamattina sinceramente mi viene da piangere. Sono due mesi che ripeto, senza particolare attenzione e anche con qualche sfottò, che la situazione della metro è molto delicata, che il livello di manutenzione che ho trovato è inesistente e che rischia di produrre una grave situazione, in assenza di risorse". Tutti dati poco confortanti soprattutto con un Giubileo alle porte. Per Esposito "serve urgentemente la nomina di un commissario straordinario per i trasporti a Roma dotato di risorse e di deroghe specialissime che gli consentano di affidare lavori urgentemente. Perché il problema dei trasporti a Roma è un problema nazionale". Il nome che circola più insistentemente di altri è quello di Marco Rettighieri, il supermanager Italferr chiamato in soccorso di Expo. "In Atac - aggiunge - è necessario un repulisti e una rivalorizzazione di chi opera tutti i giorni, dai macchinisti ai capi servizio, la cui voglia di lavorare bene è stata frustrata da un gruppo dirigente che ha pensato a se stesso e non all'azienda. Intanto in questi 60 giorni credo che potremmo dare il via a interventi manutentivi che ci faranno stare più sereni per il Giubileo". In Atac, insomma, per Esposito deve cambiare tutto, come va ripetendo ormai da tempo: "L'utente non è una bestia che si trasporta, è il nostro core business. Basta scrivere inconveniente tecnico nei comunicati, va detta la verità. E la verità, in questa azienda, non piace". Intanto l'assessore ha parlato con il prefetto Gabrielli, col vicesindaco Causi e col commissario del Pd romano Orfini. "So che il presidente del Consiglio - aggiunge - segue con preoccupazione e attenzione il tema dei trasporti a Roma". La parola d'ordine ora è: "Rivoltare Atac come un calzino". E la Procura darà più che una mano.

Valerio Mastandrea: "Voglio raccontare la vita vera di Roma". Non solo i turisti o gli scandali di Mafia Capitale. L'attore romano produce film (da Oscar) che mettono in scena la vita quotidiana nei quartieri ignorati dalle cronache, scrive Emanuela Genovese su “L’Espresso”. Roma, quartiereTestaccio. Un ragazzo di colore vende calzini. Sono mesi che lo fa. Si avvicina ad un uomo, fermo in una piazza, che lo guarda e gli dice: «Ah bello! Ancora con questi calzini?» Il giovane annuisce. E l’altro sbotta: «Basta con questi calzini. Devi “delinque”. Devi fare carriera». Ecco, per Valerio Mastandrea «anche questa è Roma, un’altra Roma rispetto alla capitale che si studia sui libri di scuola. Quella è per i turisti, la città che invece noi romani percepiamo è un’altra». Una metropoli vissuta dal basso, di cui è impregnato il cinema di Claudio Caligari, il regista scomparso a fine maggio, poco dopo aver terminato il montaggio di “Non essere cattivo”. Un film che Mastandrea ha voluto produrre e che ora, dopo tante vicissitudini, è nelle sale ed è stato scelto per rappresentare il cinema italiano agli Oscar. Notti in discoteca, macchine potenti, alcool, droghe sintetiche e spaccio di cocaina: la vita di eccessi di due amici nella Ostia degli anni Novanta nella pellicola prodotta da Valerio Mastandrea presentata Fuori Concorso a Venezia. Piena di Ostia e di personaggi scomodi presi dalla strada, la visione di Caligari ha sempre affascinato Mastandrea, sin da quando il regista, nel lontano 1998, lo scelse come protagonista de “L’odore della notte”, ispirato alla banda dell’Arancia meccanica che negli anni ’80 terrorizzava i quartieri bene, con rapine e furti. Mastandrea interpretava un poliziotto in congedo, freddo e razionale, che cercava nell’illegalità un mestiere. Diciassette anni dopo, l’attore si è fatto produttore dell’ultimo progetto di Caligari, che definiva «la fotografia dell’esito finale del mondo pasoliniano»: uno sguardo sul mondo livido della droga e della sopravvivenza. La storia di Vittorio (Alessandro Borghi) e Cesare (Luca Marinelli), due fratelli di vita che cercano un riscatto che non avviene, in un’Ostia di metà anni Novanta non ancora occupata dalla Mafia Capitale. A Mastandrea più dei romanzi criminali interessa la fragilità degli ultimi, la purezza, spesso soffocata e sconfitta dal precariato.

La Roma dei film che lei produce è la metropoli di oggi, divisa tra degrado, mafie e connivenza con la politica.

«Luigi Magni, un grande conoscitore di Roma, mi disse: “Di cosa ti stupisci Valerio? Qui si vendono pure i morti...”. Credo che il senso più profondo di questa città sia la capacità di incarnare il simbolo del potere: muta continuamente e non cambia mai. Conosco la Roma che mi piace vivere e conosco quella che non sopporto più per tantissimi aspetti, che non sono rintracciabili nelle inchieste televisive sugli scandali ad uso e consumo del grande pubblico. Questo non significa accettare il male e arrendersi».

Come produttore lei ha cercato storie che raccontassero la periferia o gli immigrati, quasi sempre girate a Roma. Come “La mia classe” di Daniele Gaglianone che, a metà strada tra cinema e documentario, descrive le lezioni di italiano dei ragazzi stranieri e il tentativo di integrarsi nella nostra società.

«Non so cosa vuol dire produrre dal punto di vista tecnico. Mi sono limitato a intendere questo mestiere come l’investimento del mio tempo e dei miei soldi per far vivere una realtà con la quale mi trovavo in sintonia. Credo nei film che hanno una valenza critica e culturale. Come è avvenuto con “ Pezzi ” di Luca Ferrari (il documentario su Laurentino 38, quartiere della capitale ad alto tasso di criminalità, ndr), uno dei film che mi ha fatto più male. A fine riprese, sono subentrato nella produzione perché credevo nella capacità del regista di narrare un mondo che nessuno racconta. Ed è per questo che con Ferrari abbiamo appena realizzato “Showbiz” sul lato B de “La Grande Bellezza”: gli epigoni capitolini di Jep Gambardella, quelli veri, presi dalle trasmissioni delle tv locali».

Il turista a Roma cerca solo questa bellezza. E lei cosa cerca?

«Lo sguardo dei romani va verso la vita vera, scandita dai tanti disagi quotidiani e da problemi ben più seri. Se si vuole capire qualcosa si va nei quartieri, come Tor Pignattara. Ed è questo in fondo la gioia di un vero romano, conoscere queste realtà trascurate. È un discorso molto complicato, per me il modo migliore di guardare Roma è affrontarla con un senso di responsabilità nello svolgere il mio lavoro. I film permettono di indagare la realtà in modo trasversale. Puoi raccontare tutto e tutti. Anzi. Più racconti quei “tutti” che non ti aspetti, più onori la potenzialità del cinema. Ad esempio penso alle cooperative, protagoniste delle cronache degli ultimi tempi: per descriverne il potere, invece di partire dalla storia di un “capo”, da come si forma a come lo diventa, è più forte scegliere la storia di un dipendente, di un “pischello” che a quel lavoro, a quel riscatto ci crede e si batte».

È un cinema che ruba il mestiere del giornalismo.

«Esatto. Cercando una priorità delle notizie. È più importante discutere di un tweet del presidente del Consiglio sugli eventi legati alla chiusura del Colosseo per l’assemblea dei sindacati o è più importante parlare tutti i giorni dell’emergenza abitativa che ha, invece, questa città?»

Sono quei mondi che caratterizzano proprio i film di Claudio Caligari.

«Quello infatti è un cinema che resta dentro, che non si dimentica uscendo dalla sala. Tocca tutti, anche le persone più lontane che non hanno mai vissuto in periferia, come quelle due signore di una certa età che, dopo avere visto “Non essere cattivo”, si sono chieste “Ma davvero esiste questa gente?”. Sapere che due persone vanno a dormire la sera più consapevoli di quello che succede nella realtà mi rende contento. Ecco perché mi manca e mancherà il cinema di Caligari». In 32 anni Caligari è riuscito a realizzare soltanto tre film. Nel 1983 “Amore tossico” fu un caso, un nuovo modello di neorealismo: descrivere il tunnel dell’eroina usando attori che si bucavano o si erano drogati. Una pellicola durissima, poetica e spietata. E da allora i suoi progetti sono sempre stati ostacolati. «Il nemico dei film di Claudio è stato la percezione del lavoro culturale in questo Paese da parte di chi lo gestiva e di chi ne usufruiva. Quando diceva che in Italia gli avevano sbattuto tante porte in faccia, lui voleva farne una questione politica. Il cinema di Caligari, poco rassicurante, non era un omologato e non prometteva un ritorno economico facile».

E gli altri film che ha scritto: rimarranno incompiuti?

«Ci sono ancora tre o quattro sceneggiature. Produrre “Non essere cattivo” è stata una vera impresa, ci sono stati parecchi momenti in cui pensavano che non saremmo arrivati sul set. Abbiamo persino scritto a Martin Scorsese per chiedergli fondi, senza risposta. Ma siamo riusciti a girarlo. E chi lo ha reso possibile, non avrà paura a tentare di realizzare anche gli altri progetti di Claudio. Lui ci ha insegnato a cercare un senso profondo del cinema, anche quando l’ambizione non va di pari passo con le opportunità che ti vengono offerte».

La scomoda verità su Roma, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Gli ultimi due sindaci di Roma sono stati forse i peggiori che la città abbia avuto. Per motivi differenti: il primo, Alemanno, per la sua contiguità con gli ambienti più torbidi del sottobosco squadristico-malavitoso dell’antico neofascismo cittadino nonché per la gestione spudoratamente clientelare delle aziende comunali affidata a personaggi dello stesso ambiente; il secondo, Marino, per la stolida insensibilità autoreferenziale dell’uomo, per la sua totale incapacità di pensare e fare le cose più necessarie. Ma ora che questa lunga pagina sembra sul punto di chiudersi è giunto il momento di aprire il discorso più importante: quello sulla città, su che cosa è oggi Roma. Perché è da qui che il male comincia. È da ciò che la città è diventata negli ultimi due, tre decenni, che nasce il suo sfascio amministrativo ma prima ancora il degrado civile che lo ha generato. Una città disarticolata spazialmente da un’informe crescita speculativa. Senza più un’élite riconosc